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Rosaria Catanoso Dialogando con Hannah Arendt: un giudizio sul presente

Dialogando con Hannah Arendt: Un giudizio sul presente

Rosaria Catanoso

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Chi è Hannah Arendt? Cosa ha rappresentato per la filosofia? Una tra le figure più importanti e discusse del pensiero del Novecento, autorevole teorica della politica, come è stata solita definirsi, non riconoscendosi nel solco dei pensatori di professione1. Di origine ebraica2, allieva di Jaspers e di Heidegger, ha meno di ventisei anni quando nel 1933 è costretta a rifugiarsi a Parigi, per scampare alle persecuzioni, da lì partirà per gli Stati Uniti, paese in cui risiederà fino alla morte. Durante l’ascesa del nazismo, amici intellettuali si schierano silenziosamente, in seguito ad un’irrealistica sottovalutazione dei fatti; la loro adesione dimostra, agli occhi di una giovane Arendt, l’incapacità del pensiero soprattutto quello politico di far fronte al fenomeno totalitario3 .

Ritratto giovanile di Hanna Arendt

Infatti, l’antitetico ruolo assunto dai suoi due maestri, Karl Jaspers e Martin Heidegger, ha impresso un significativo rilievo non solo nella vita personale della Arendt, ma ha condizionato anche il ruolo da lei assegnato alla filosofia innanzi alla politica. Heidegger, infatti, è stato risucchiato dalla marea crescente del nazionalsocialismo, per il quale scioccamente si è illuso di poter fungere da filosofo4. Jaspers, invece, non ha mai tentennato ed ha sempre dichiarato la sua inequivocabile repulsione per il nazismo5.Tutto in lei è stato stravolto da quegli avvenimenti: amicizie perdute o finite, legami divenuti impraticabili, maestri trasformati in ipocriti imbarazzati, la Germania della giovinezza riconquistata solo con la fedeltà alla lingua materna6 .

L’emigrazione dalla Germania nazista e l’allontanamento dall’ambiente della filosofia afferente alla sua formazione universitaria7 sono stati gli eventi biografici che hanno condizionato tutta la sua produzione filosofica e politica. Nel periodo dell’esilio francese Arendt frequenta le riunioni che si tengono a casa di Walter Benjamin; si tratta di incontri tra un gruppo eterogeneo di esuli in cui si discute di politica, di letteratura, della situazione tedesca e delle prospettive future. A Parigi, la condizione degli intellettuali tedeschi ebrei emigrati è assimilabile a quella del paria consapevole, incapaci

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di inserirsi nella società mondana, rimangono fuori dai circuiti sociali.

Nel 1940, si trova in Francia, quando le giunge l’ordine di presentarsi al Vélodrome d’Hiver per esser poi avviata al campo di internamento di Gurs, dove trascorrerà tutta l’estate. Riuscita a scappare, con il precipitare delle condizioni, insieme agli altri ebrei tedeschi si sposta verso il sud della Francia, per poi fuggire negli Stati Uniti. A Marsiglia, in attesa di visto di espatrio, Benjamin affida ad Arendt una borsa di manoscritti, tra cui l’ultima versione delle Tesi di filosofia della storia. Arendt riesce a giungere in America, Benjamin, purtroppo, bloccato dalla polizia di frontiera, morirà suicida al confine con la Spagna. Arendt consegnerà, poi, gli scritti di Benjamin all’Institute for Social Research diretto da Horkheimer e Adorno. Per diciotto anni, Hannah Arendt è stata priva dei diritti politici, nel 1951 le viene concessa la cittadinanza americana. Dagli eventi che hanno sconquassato il Novecento prendono forma le sue opere più importanti: Le origini del totalitarismo (1951, 1956), Vita activa. La condizione umana (1958), Sulla rivoluzione (1963), La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963). Questi saggi hanno avuto un’immediata risonanza, per le tesi coraggiosamente controcorrenti rispetto ai dogmi ideologici e alle regole del sapere accademico. La sua opera annovera testi disparati, biografici, storici, filosofici, politici e letterari, privando l’autrice di un’identità disciplinare univoca. Insegnando, tenendo conferenze, scrivendo anche poesie e molte lettere, Arendt è stata una filosofa che ha sempre seguito il monito di Lessing e di Kant, non stancandosi mai di pensare da sé.

Oggi, nel contesto di una fama postuma consolidata, nonostante le innumerevoli polemiche suscitate dalle sue teorie politiche, durante i dibattiti più scottanti della seconda metà del Novecento, il lascito arendtiano è in gran parte di dominio pubblico. Ed è innegabile che la scoperta del suo pensiero sia stata ampiamente assorbita e alcune sue tesi – sul totalitarismo, sulla banalità del male, sull’agire politico- siano diventate indispensabili per capire la realtà contemporanea. In tempi diversi da quelli vissuti dalla filosofa, si pensa ancora con e contro Arendt. E forse, anche lei, sentirebbe estranei alcuni rimandi teorici, che la trovano protagonista, suo malgrado; proprio perché legati a esperienze di un mondo radicalmente diverso. Tipico è il debito che il pensiero femminile ha dichiarato di avere nei riguardi di una filosofa ostile ai movimenti femministi. Qualcosa di analogo si può dire delle interpretazioni spesso opposte della sua idea di politica. Ecco perché Hannah Arendt ci riguarda. Su di lei si scrive tanto; si pensi solo al fatto che in tempi recenti in Italia sono stati editi ben quattro saggi ed un testo letterario. Di certo, quindi, come sottolinea Laura Boella:

«Arendt ha accompagnato la mia generazione nell’attraversare l’esperienza di questo tempo con l’esempio di un esercizio libero del

Dialogando con Hannah Arendt: un giudizio sul presente stato il suo assillo più impellente; non netta, decisa ed a volte anche scomoda. Il giudizio è sulle azioni compiute, sulprospettiva, il giudizio è al contempo etico, politico e storico; proprio perché interpella la morale; viene espresso

pensiero, acrobatico e insieme dotato della tenacia del costruttore, arrischiato per le conseguenze irritanti dell’indipendenza, ma soprattutto per la fantasia necessaria e per il coraggio di creare nuove regole del gioco. Per preservare l’intelligenza spassionata e lo humor, la straordinaria capacità di sperimentare andando oltre l’ovvio, di vedere il mondo come esercizio di domande, e non come palcoscenico di risposte».

Il presente contributo ha lo scopo di sottolineare quel che rende la sua filosofia contemporanea, prendendo le mosse proprio dalle pubblicazioni di Francesco Fistetti e di Adriana Cavarero. Entrambi gli studiosi, infatti, in forme diverse, mostrano come Arendt voglia restituire alla filosofia la sua vocazione più profonda, cioè quella d’essere e farsi forza politica in grado di agire nel mondo, sollecitando a pensare. Francesco Fistetti, in Hannah Arendt a Gerusalemme. Ripensare la questione ebraica, si concentra sul legame tra etica e politica, ricostruendo come dal processo ad Eichmann sorga l’interesse per la facoltà del pensare. Adriana Casul pensiero politico di Hannah Arendt, si chiede, adoperando le categorie di pluralità, apparenza, spazio politico, se nell’era della demagogia populista ci sia ancora spazio per un’esperienza democratica dell’agire politico.

Cosa emerge? Pensare insieme ad Hannah Arendt è sempre affascinante, e non è affatto semplice, se non si vuol rischiare d’essere superficiali e di appiattire una riflessione filosofica densa, corposa, passionale e attenta alla realtà ed alla storia. L’acume delle sue analisi è dato dal fatto che queste sorgano sempre da esperienze particolari e concrete. L’esplorazione filosofica riguarda fatti ed eventi che meritano d’essere narrati e compresi per essere giudicati. Proprio il giudizio è sempre esimersi dal prendere una posizione le vicende accadute. Quindi, in questa

varero, in La democrazia sorgiva note all’interno di una comunità nella quale gli spettatori, che assistono ad un evento, non possono rimanerne estranei; ed in ultimo deve evitare l’irenismo che possa accadere semplicemente perché non si sia stati presenti nelle medesime circostanze.

Questo, del resto, le è costato molto caro. Pensiamo alla solitudine, ed all’isolamento subito per aver esternato giudizi affilati e del tutto fuori dal coro in occasione del processo ad Eichmann. Riflettiamo sugli attacchi subiti dopo la pubblicazione de La banalità del male. Arendt, più volte, è costretta a precisare come le sue analisi vertano su certi fatti accaduti. Il suo metodo storiografico appare essere, a tratti, dissacrante per gli storici di professione; del resto, da teorica della politica, da studiosa dissidente si è posta «domande filosofiche radicali che trascendevano l’orizzonte di ricerca degli storici».

Rosaria Catanoso

Ella, infatti, vuol cogliere la dinamica degli eventi, allo scopo di mostrare come nemmeno un regime totalitario possa vanificare la resilienza dei fatti. Chi dice la verità su quanto accaduto rischia di mettere a repentaglio la propria vita. Non a caso è Socrate il modello cui guardare; critico e dissidente, ma mai in disaccordo con se stesso. Socrate, così, rimanda ad una forma di vita etica nella quale agire e pensare non possono porsi in dissonanza. L’attività del pensare ricerca il significato, ed ha come obiettivo la comprensione ed il giudizio su quanto accaduto. Da ciò emerge come le riflessioni filosofiche proposte, nelle opere speculative successive a La banalità del male, abbiano sempre come intento quello di declinare un pensiero quale facoltà che sia in grado di coniugare azione e parola nello spazio pubblico, al fine di costruire un mondo comune.

Hanna Arendt negli anni della maturità negli Usa Eichmann, un caso non concluso

In America, nel 2014, si siano riaccesi i riflettori su quest’aspetto dell’opera arendtiana, con la pubblicazione del saggio di Bettina Stangneth La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme. Con la volontà di allontanare il processo Eichmann dalle interpretazioni della Arendt, nel 2011 si è tenuto a Parigi il convegno internazionale su “Le procès Eichmann. Réceptions, mèdiations, postérités”. Quello che emerge, dal saggio di Stangneth, è un personaggio cinico, ma consapevole del ruolo assunto.

Lo zelo fanatico e la sete di sangue, emerse dalle ultime riflessioni storiografiche, non sono in contrasto con l’espressione coniata dalla Arendt,per descriverlo. Quello che va rimarcato, e sul quale bisogna soffermarsi è proprio il fatto che l’antisemitismo nazista introduca una frattura insanabile nella storia politica occidentale. Quell’antisemitismo è un crimine che mira a stravolgere la natura umana; poiché giunge a ritenere superflua la spontaneità, a considerare inutili gli esseri umani che non corrispondono alle categorie previste dalle leggi razziali. Da ciò discende il grande errore di prospettiva compiuto dagli ebrei nel momento in cui non hanno colto cosa stesse accadendo. Arendt imputa al popolo ebraico di non aver, ancora una volta, avuto uno sguardo politico. La pianificazione del genocidio è stata solo l’ultima fase di un percorso volto ad escludere il popolo ebraico dalla comunità. Infatti, resi privi di qualsiasi statuto giuridico, gli ebrei sono diventati eliminabili.

Il paradosso dei diritti umani, e degli stati nazionali risiede proprio in ciò. Un diritto associato al fatto stesso

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di esistere non è stato sufficiente, proprio perché senza una cittadinanza, senza un riconoscimento politico, la vita umana smette di aver valore. In ciò, certo risiede la contemporaneità della lettura arendtiana della storia del Novecento. Quella definita “schiuma della terra”, apolidi, stranieri, discriminati, profughi, clandestini popolano i mari del Mediterraneo, accalcano le frontiere dei nostri territori, reclamano riconoscimento ed ascolto. Ecco l’attualità delle analisi arendtiane.

L’interesse per la partecipazione democratica

Si possono adoperare a pretesto alcuni concetti politici cari al pensiero di Hannah Arendt per analizzare le democrazie populiste del nostro tempo. Questa è l’operazione proposta da Adriana Cavarero. Il nostro tempo, infatti, nota Cavarero, mostra un desiderio e l’esigenza di manifestare il nostro dissenso nelle piazze, ed a riscoprire quel pathos insito nel partecipare, generatore di una felicità che Arendt rinvia alla sfera pubblica. La politica attuale, secondo Cavarero, può esser interpretata per mezzo delle categorie care alla Arendt. Da ciò, per mezzo dei concetti di pluralità, di felicità pubblica, della differenza tra massa e folla getta uno sguardo sulle piazze politiche dell’oggi, allo scopo non tanto di attualizzare Hannah Arendt, ma di dialogare con le sue analisi su fenomeni coevi, quasi a volerle chiedere come lei avesse interpretato il nostro mondo. Difficile a dirsi. Hannah Arendt non ha visto il fenomeno della “Primavera araba”.

Non ha assistito al risvolto populista delle attuali democrazie liberali. Sarebbe rimasta basita nell’osservare come i leader populisti gestiscano le folle. E forse anche disgustata. Non ha conosciuto la forma che ha assunto quel populismo nell’era del digitale, che sfocia in una politica partecipativa in rete, in cui non è più il popolo ad essere al centro, ma l’individuo in versione network. Non le è stato dato d’assistere alle novità tecnologiche introdotte dal selfie, ed a come tali strumenti abbiano modificato la relazione tra folla neopopulista e capo. Adoperare, quindi, categorie filosofiche ideali per leggere il presente. Gesto rischioso, ma ben riuscito.

Vediamo allora come per Arendt «l’azione politica possa aver luogo solo a condizione che il corpo appaia», sottolineando la razionalità degli attori politici incarnati, non soffermandosi sul contenuto del discorso. Questo è alla base della ragione per cui il populismo sembri incompatibile con l’idea arendtiana di politica. Quindi, la tesi di fondo risiede nel sottolineare come Arendt proponga una fenomenologia del politico che si focalizzi sul momento nascente e sorgivo della democrazia. La democrazia si rigenera ovunque uomini appaiano in uno spazio comune per mezzo di parole e discorsi, provando entusiasmo e sentendosi felici per il fatto d’esser riconosciuti pubblicamente. Ecco perché Cavarero adoperi l’appellativo sorgiva; criticando il populismo imperante, e disdegnando la democrazia digitale. Ed in un tempo in cui alla democrazia si danno innumerevoli appellativi allo scopo di pensarla, di criticarla, di rinnovarla, siamo sempre più consapevoli che la Grecia, in particolare, e l’Occidente abbiano ideato qualcosa di grandioso. Infatti, mai come ora, in tempi di isolamento virtuale e virale, non possiamo fare a meno della democrazia.

Rosaria Catanoso

NOTE

1 H. Arendt, Che cosa resta? Resta la lingua, in S. Forti (a cura di), Archivio Arendt 1(1930-1948), Feltrinelli, Milano 2001, pp. 35-36: «io non appartengo alla cerchia dei filosofi. La mia professione, se si può considerarla tale, è la teoria politica». 2 Arendt, assumendo su di sé il ruolo di uno dei tanti rifugiati senza ridici e protezione legale, ha sempre percepito la sua origine ebraica come un fatto incontrovertibile, e di per sé politico. H. Arendt, Che cosa resta? Resta la lingua, cit., p. 46: «se si è aggrediti in quanto ebrei, bisogna difendersi da ebrei; non in quanto tedeschi, cittadini del mondo, fautori dei diritti dell’uomo o chissà che altro. La questione è piuttosto: che cosa posso specificamente fare in qaunto ebreo?». 3 H. Arendt, La lingua materna. La condizione umana e il pensiero plurale, p. 39: «anche gli amici si allineavano. Il problema, il problema personale, non era tanto quello che facevano i nemici, ma quello che facevano gli amici». 4 Arendt nel saggio per gli Ottanta anni di Heidegger definirà la sua adesione al nazismo come un “passo flaso”, un “errore” compiuto per non aver colto la portata politica delle vicende di quegli anni. H. Arendt, Martin Heidegger compie ottant’anni (1969), in F. Volpi (a cura di), Su Heidegger. Cinque voci ebraiche, Donzelli, Roma 1998, p. 72: «Questo passo falso, che oggi- una volta che l’amarezza si è placata e, soprattutto, le infinite notizie false sono state corrette- viene definito per lo più come un”errore”, ha molteplici aspetti, fra i quali anche quelli legati all’epoca della Repubblica di Weimar, che non si mostrava affatto a colo che vivevano in essa in quella luce del tutto rosea, in cui essa viene vista oggi, sullo sfondo degli eventi terribili che la seguirono […]. Chi mai, oltre a Heidegger, ebbe l’idea di vedere nel nazionalsocialismo “l’incontro tra la tecnica planetaria e l’uomo moderno” – a meno che, anziché leggere il Mein Kampf di Hitler, avesse letto qualche scritto dei futuristi italiani, ai quali il fascismo, a differenza del nazionalsocialismo, si è occasionalmente ispirato?». 5 H. Arendt, K. Jaspers, Carteggio (1926-1969). Filosofia e politica, a cura di A. Dal Lago, Feltrinelli, Milano 1989. 6 H. Arendt, Prologo, in Responsabilità e giudizio, Einaudi, Torino 2003, pp. 4-5: «non ho mai sviluppato un desiderio di appartenenza, nemmeno in Germania […] ciò che per chi mi stava accanto era un paese, o un paesaggio, vale a dire un insieme di costumi e tradizioni, coerenti con una precisa mentalità, per me si

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riduceva essenzialmente a una lingua». 7 H. Arendt, La lingua materna. La condizione umana e il pensiero plurale, pp. 38-39: «io provenivo da attività puramente universitarie, e da questo punto di vita il 1933 mi ha fatto un’impressione indelebile […]. Io vivevo in un milieu di intellettuali, ma conoscevo anche altre persone, e potevo constatare che trai suoi rapporti con gli amici ei sodali ebrei di un tempo, tra i quali Gershom Scholem». 8 H. Arendt, Noi profughi (1943), in Ebraismo e modernità,Unicopli, Milano 1986, pp.36-37. 9 L’ammirazione della Arendt per lo studioso Benjamin e la fedeltà all’amico scomparso sono presenti nei saggi che a lui dedica nel 1968, con il titolo di Illuminations, in cui è compreso il lungo saggio Walter Benjamin 1892-1940. H. Arendt, Walter Benjamin, SE, Milano 2004. 10 F. Fistetti, Hannah Arendt, l’inquietudine dell’apolide, in “MicroMega”, n.3, 1989, pp. 142-152. 11 Nella primavera del 1975, Arendt riceve un riconoscimento per il suo lavoro di storica del totalitarismo e di teorica della politica. Il governo danese le assegna il premio Sonning per i contributi alla civiltà europea, ed è invitata a Copenaghen. I danesi, infatti, si erano rifiutati di aderire alle richieste naziste, e avevano aiutato molti ebrei a uscire dal paese e rifugiarsi nella sicura Svezia. E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Bollati Boringhieri, Torino 2006, pp. 517-518. 12 M. McCarthy, Addio a Hannah, in Vivere con le cose belle, a cura di F. La Polla, il Mulino, Bologna 1990, p. 153: «osservarla mentre parlava a un uditorio era come vedere i moti della mente trasferiti nell’azione e nel gesto». 13 H. Arendt, L’umanità in tempi bui. Riflessioni su Lessing, Raffaello Cortina, Milano 2006. 14 E. Young-Bruehl, Hannah Arendt: perché ci riguarda, Einaudi, Torino 2009. 15 R. Catanoso, Hannah Arendt. Imprevisto ed eccezione lo stupore della storia, Giappichelli, Torino 2019; A. Cavarero, Democrazia sorgiva. Note sul pensiero politico di Hannah Arendt, Raffaello Cortina, Milano 2019, F. Fistetti, Hannah Arendt a Gerusalemme. Ripensare la questione ebraica, il melangolo, Genova 2020, L. Boella, Hannah Arendt, Feltrinelli, Milano 2020. 16 S. Massini. Eichmann. Dove inizia la notte. Un dialogo fra Hannah Arendt e Adolf Eichmann. Atto unico, Fandango Libri, Roma, 2020. 17 L. Boella, Hannah Arendt, cit., p. 34. 18 Sull’argomento mi permetto di rinviare al paragrafo «Dal giudizio estetico al giudizio storico-politico» del mio saggio R. Catanoso, Hannah Arendt. Imprevisto ed eccezione. Lo stupore della storia, cit. pp. 268- 282. 19 F. Fistetti, Hannah Arendt a Gerusalemme, cit. p. 7: «un dibattito incandescente, che turbò profondamente la Arendt, anzitutto perché quel libro incinò 20 Ivi, p. 16. 21 Ivi p. 23. 22 F. Fistetti Hannah Arendt a Gerusalemme, cit., p. 37. 23 B. Stangneth, La verità del male, Eichmann prima di Gerusalemme, Louiss University Press, Roma 2014. 24 A. Wieviorka e S. Lindeperg, Le Moment Eichmann, Albin Michel, Paris 2016. 25 26 Cavarero, op. cit, p. 147: «scattare un selfie e postarlo in rete è tecnicamente facile, alla portata di tutti. È l’apoteosi democratica del fai da te, senza intromissioni e senza intermediari. L’autocelebrazione in rete, la vetrinizzazione del sé rispetto a innumerevoli altri, come forse noterebbe Arendt, ha evidentemente soppiantato la passione di eccellere fra gli altri. E il nuovo dispositivo ha finalmente dato modo al popolo delle facce di pubblicare la sua felicità privata.» 27 Ivi p. 39.

Pensione Leoncini a Firenze, luglio 1954. Da sinistra: Ruth Draper, Liliana Gadaleta Minervini, Giovanni Minervini, Penelope Draper Buchanan (nipote di Ruth). Salvemini al centro (Archivio Liliana Gadaleta Minervini)