FUL | Firenze Urban Lifestyle #25

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anno

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n • venticinque

Aut. del Tribunale di Firenze n. 5838 del 9 Maggio 2011 - Direttore responsabile Riccardo Basile Proprietario Fabrizio Marco Provinciali • Realizzazione grafica Ilaria Marchi

in questo numero:

Ilaria Cinelli • Liter of Light • Bill Viola • Vetulio Bondi Beyond the Garden • ERO • Associazione Dedalo • FluidMesh SACIMX • Tuorlo Design Studio • Antonio Malaspina


Perché poi alla fine è solo questione di prospettive. Prendi un aereo e sopra le nuvole il sole splende anche quando sotto piove. Pensiamo che l’Australia sia lontana ma c’è chi si prepara a vivere su Marte, come la nostra Ilaria Cinelli, giovanissimo ingegnere biomedico che ha partecipato alle simulazioni di vita su Marte fatte nel deserto dello Utah. Ti ritrovi una bottiglia di plastica in mano e pensi che la cosa più giusta da fare è riciclarla, c’è chi invece la fa diventare una lampadina che produce energia in modo sostenibile. Sei in macchina da ore e il viaggio è ancora lungo, la radio in sottofondo ti fa compagnia. Quelli di FluidMesh con le onde radio hanno creato un nuovo tipo di connessione wi-fi, da non crederci, eh? Finalmente estate, finalmente gelato: uno vale l’altro, no? Non per il mastro Vetulio Bondi, per il quale è una materia pregiata che andrebbe certificata proprio come il vino e l’olio. Firenze e i suoi muri: troppo spogli o troppo pieni graffiti? Per Ero le tag non sono mai abbastanza. E ancora Bill Viola e la nuova mostra a lui dedicata a Palazzo Strozzi, l’Associazione Dedalo che offre supporto alle persone con disturbi alimentari, Bonfire il primo album dei Beyond the Garden e il nuovo progetto di SACI in collaborazione con i principali musei fiorentini. La pagina dell’artista è a cura di Antonio Malaspina, la rubrica 5di5 dello Studio Tuorlo Design.

Aut. del Tribunale di Firenze n. 5838 del 9 Maggio 2011 Direttore responsabile Riccardo Basile Proprietario FMP Editore e realizzazione grafica Ilaria Marchi

Ideazione Marco Provinciali e Ilaria Marchi Coordinamento editoriale Annalisa Lottini Immagine di copertina realizzata da Ilaria Cinelli e Italian Mars Society Se sei interessato all’acquisto di uno spazio pubblicitario: marco@firenzeurbanlifestyle.com • tel. 392 08 57 675 Se vuoi comunicare con noi ci puoi scrivere ai seguenti indirizzi: ilaria@firenzeurbanlifestyle.com ufficiostampa@firenzeurbanlifestyle.com redazione@firenzeurbanlifestyle.com commerciale@firenzeurbanlifestyle.com

ringraziamenti

www.firenzeurbanlifestyle.com

Antonio Malaspina, Cosimo Malesci, Ilaria Cinelli

abbonamenti

Volete ricevere la vostra copia di FUL direttamente a casa? Scrivete a commerciale@firenzeurbanlifestyle.com

FUL *firenze urban lifestyle*


25 p. 4/7

p. 20/21

ROAD TO MARS

SACIMX

p. 8/10

p. 22/24

UN LITRO DI LUCE

DEDALO

astronomia

green

p.

11/13

arte

BILL VIOLA

p.

14/15

gusto

IL GELATO È COME IL VINO

p.

16/17

musica

BEYOND THE GARDEN

formazione

psicologia

p. 25/27 tecnologia

FLUIDMESH

p. 28 5di5

TUORLO DESIGN STUDIO

p. 29

uno straniero a Firenze un fiorentino all’estero MAKA CHUBINIDZE LORENZA ROBICCI

p. 18/19

p. 30

ERO

ANTONIO MALASPINA

arte

pagina dell’artista


ful astronomia

ROAD TO MARS T esti

di

L orenzo M asini

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I laria C inelli

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uando si parla di Marte molti pensano a Ray Bradbury, a The Martian e ai dischi volanti nazisti. Insomma alla fantascienza. Questo perché il pianeta rosso è da anni al centro di speculazioni, trattandosi di quello che potrebbe diventare il prossimo traguardo del genere umano. Se da un lato la strada per Marte è percorsa principalmente grazie alla cooperazione di agenzie nazionali come la NASA o l’ESA e di privati, dall’altro l’impresa richiede una quantità di dati tale che anche l’apporto di associazioni no profit è davvero prezioso. Perfino costruire basi in luoghi sperduti della .4

ENGLISH VERSION>>>> Nowadays Mars is on everyone’s lips because it represents our future. There are different organisations all over the world that are trying to understand if it’s possible or not. Mars Society is one of them. It was born in America in 1998 as an international no profit organisation with the aim of promoting Mars’ exploration. One of their main activity is research through projects such as Mars Desert Research Station: a specialised centre that studies, through simulations, the psychological effects deriving from the life on Mars. Th staff is constantly monitored through biosensors. The simulation takes place in the Utah desert, in a unit of a 8 square metres of diameter. To understand how it works we have talked to Ilaria Cinelli, Florentine


biomedical engineer of the Pisa University and Phd in Computational Modelling at the National University of Ireland. She is also the captain of Crew 172 by Italian Mars Society. Six month before the mission Ilaria received the list of her crew members and she wrote them an e-mail to introduce herself. «I did it because I could not take for granted that they were suitable for a mission in such extreme conditions. People go crazy, they don’t bear the emotional stress because they don’t have the right preparation, they are scared». Ilaria tells us that she had to be severe in the data collection and in the scheduling of the day: «My timetable was very strict, as if they were cadets». Alarm clock and breakfast at 7.00, extra vehicular activity from

terra e indossare tute da astronauta in una colonia che simula la vita sul pianeta rosso rappresenta un piccolo importante passo verso l’obiettivo. Mars Society nasce in America nel 1998 come organizzazione internazionale no profit con lo scopo di promuovere l’esplorazione di Marte. Una delle attività principali è quella di ricerca che viene effettuata nella Mars Desert Research Station: un centro specializzato negli human factors, che studia, attraverso delle simulazioni, gli effetti

psicofisici derivanti dalla vita in ambiente marziano e valuta come migliorare la relativa strumentazione. I parametri dei membri dell’equipaggio sono monitorati e registrati in tempo reale per tutta la durata della missione attraverso dei biosensori. La simulazione si svolge nel deserto dello Utah in un habitat di otto metri di diametro, contenente un laboratorio geologico e biologico, un’area di lavoro, bagni, cucina, una piccola libreria e delle anguste camerette. Per capire come funziona abbiamo parlato con Ilaria Cinelli, fiorentina, ingegnere biomedico dell’Università di Pisa e dottoranda in Computational Modelling alla National University of Ireland, nonché comandante della Crew 172 di Italian Mars Society.

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Ilaria è entrata in contatto con Mars Society nel 2015, a una conferenza di medicina aerospaziale e in quell’occasione è stata reclutata come membro dell’equipaggio della Crew 158. Mars Society seleziona volontari da tutto il mondo e in prevalenza da facoltà scientifiche per i suoi equipaggi. Sei mesi prima della missione Ilaria riceve la lista dei nominativi della crew di cui sarà comandante e gli scrive subito una mail, per presentarsi, annunciare l’inizio dell’allenamento e cominciare a conoscere la squadra. «L’ho fatto perché le persone, anche se provengono da università fantastiche, non è detto che siano adatte a missioni così estreme. Le persone vanno fuori di testa, non reggono lo stress emotivo perché semplicemente non hanno la giusta preparazione, si spaventano». Ilaria ci racconta che il ruolo di comandante ha richiesto una certa severità nella raccolta di dati e nella schedatura della giornata di ciascun membro dell’equipaggio. «Ho fatto in modo che gli orari fossero molto scanditi, un po’ come essere cadetti». Sveglia e colazione alle 7.00, extra vehicular activity

9.00 to 12.30, lunch at 13.00, dinner at 19.00. The use of any resource had to be monitored too. «If you eat more, if you drink more, if you flush the toilet I must know it. It may sound absurd but it’s a matter of safety. We go on mission with a certain quantity of food, electricity, water and data connection» explains Ilaria. During the training her crew had to face an unexpected challenge because snow froze all the drinkable water. «It was a real emergency because all the food we had was dehydrated. Even if we had cancelled the mission, aids would not have arrived in time». «I had to supervise all the projects, because any failure would have been my responsibility. When you are the leader you must participate, the others must trust you, but at the same time you are not a friend». To communicate with Mission Support all the updates she had only 1 GB of Internet between 2.00 and 5.00 a.m. «I slept 3 hours per night. I wasn’t very fresh but that was the work I wanted, so I was happy». We don’t know what can happen in the future, how countries are facing the Mars’ challenge. Even if Trump is threatening to cut funds, Ilaria is positive thanks to the cooperation between international agencies and private industries. However, there is still a major unknown variable about the colonization of Mars: the cosmic radiations. The missions are delayed because we don’t know how to protect the astronauts from the radiations and how they will vary during the years on the planet. Becoming an astronaut is hard and even more if you are a woman. It’s not a matter of discrimination, but of data: most of the available data are mainly related to male astronauts. Anyway the female recruiting is growing (let’s think of Samantha Cristoforetti). Ilaria has been living abroad for some years and she has the impression that many Italians have lost motivation, she wants people to understand that commitment is key to achieve your goals. •

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dalle 9.00 alle 12.30, pranzo alle 13.00, cena alle 19.00. Ogni attività, persino dormire, deve seguire un calendario rigido per poter registrare le onde cerebrali, e l’uso di qualsiasi risorsa deve essere monitorata. «Se mangi di più, se bevi di più, se tiri l’acqua della toilette lo devo sapere. Può sembrare assurdo, però è solo una questione di sicurezza. Perché andiamo in missione con una certa quantità di cibo, di elettricità, di acqua e di connessione dati per collegarsi al centro di monitoraggio missione» ci spiega. Tutto questo in uno spazio inospitale come il deserto dello Utah, dove vivono puma, orsi e animali selvatici che rappresentano un fattore di rischio in più. La missione della sua crew si è trovata ad affrontare un problema inaspettato: una nevicata improvvisa che ha congelato tutta l’acqua potabile a disposizione. «È stata una vera emergenza perché tutto il cibo che avevamo era disidratato, quindi l’acqua era essenziale». Anche se avesse abortito la missione, i soccorsi non sarebbero potuti arrivare in tempo. Così sotto pesanti condizioni di stress, razionando le risorse, ha guidato il suo equipaggio fino alla fine senza compromettere i progetti di studio dei suoi colleghi. Il Mission Support aveva distribuito i compiti e l’incarico di Ilaria è stato proprio quello di monitorare gli studi in corso: «Dovevo supervisionare tutti i progetti, uno ad uno, perché qualsiasi fallimento sarebbe stato una mia responsabilità. Quando sei il comandante devi essere partecipe, devi fare in modo che le altre persone si fidino di te, ma non sei un amico, non puoi scendere a compromessi altrimenti il


tuo ruolo non viene riconosciuto». Per comunicare al Mission Support lo stato di aggiornamento dei quattro progetti di cui era a capo, Ilaria ha avuto a disposizione solo 1 giga di internet tra le 2.00 e le 5.00 del mattino. «In sostanza dormivo tre ore per notte. Non ero freschissima, ma era questo il lavoro che volevo, quindi ne sono contenta». La conquista della Luna è stato frutto di una lotta tra nazioni per la conquista dello spazio, ma lo stesso non si può dire per quella di Marte, poiché le risorse a disposizione di un solo paese non sono sufficienti a superare le complessità tecniche che si annidano nell’impresa. Anche se Trump tagliasse i finanziamenti alle ricerche, Ilaria è comunque positiva: «grazie alla cooperazione fra agenzie internazionali e industrie private, non penso sia una sfida impossibile». Sulla fattibilità della colonizzazione del pianeta pende la grande incognita delle radiazioni cosmiche che sono una sfida aperta, nonché una della motivazioni per cui le esplorazioni vengono posticipate. «Il problema è che non sappiamo ancora come proteggerci né durante il viaggio, né per i due anni di permanenza sul pianeta. Non sappiamo come varia la loro l’intensità e come si accumulano. È controproducente mandare un gruppo di astronauti senza conoscere gli effetti a lungo termine di un tale fenomeno». Quando la gravità cambia anche di poco, il corpo umano lavora in modo diverso «si pensi a come potrebbe cambiare una gravidanza, in vista di una colonizzazione». Diventare astronauta richiede un profilo eccezionale, la selezione tra le migliaia di candidati è dura, ancor più se sei una donna. Non è tanto un problema di discriminazione, ma di disponibilità dei dati: la casistica sulle ripercussioni fisiologiche dei voli spaziali è quasi tutta al maschile. Nonostante ciò il recruiting delle astronaute sta aumentando (basti pensare a Samantha Cristoforetti, prima astronauta italiana nell’ESA che detiene il record femminile di permanenza nello spazio in un singolo viaggio). Ilaria vive all’estero ormai da alcuni anni e ha l’impressione che molti italiani abbiano perso motivazione nel raggiungimento dei propri obiettivi, eppure con la sua storia ci vuole «soltanto far capire che, a volte, se ci si mette d’impegno si può raggiungere l’obiettivo che davvero ci interessa».•

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ful green

UN LITRO DI LUCE Alla scoperta dell’innovativa ONG Liter of light e della sua sede italiana T esto

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uesta storia ha come protagonista una bottiglia di plastica. Sì, proprio come una di quelle che contengono la nostra molto poco salutare bibita zuccherosa preferita. Dopo averne bevuto il contenuto, da bravi ecologisti la smaltiamo nella raccolta differenziata per riciclarla. Ma c’è qualcuno che ha pensato a un finale diverso per dare a queste bottiglie nuova vita trasformandole da rifiuti in elementi architettonici di primaria importanza. Illac Diaz è un imprenditore sociale italo-filippino, laureatosi in architettura e urbanistica al MIT di Boston. Nel 2006 ha fondato My Shelter Foundation con la quale ha iniziato a usare le bottiglie di plastica come dei mattoni per la costruzione di veri e propri edifici. Qualche anno prima, nel 2002, in Brasile, Alfredo Moser aveva inventato quella che poi fu chiamata la Moser Lamp: una lampada costituita da una bottiglia di plastica riempita di acqua e candeggina che, inserita nel soffitto – metà dentro e metà fuori dall’edificio – era capace di illuminare gli ambienti rifrangendo i raggi solari. Chiaramente solo di giorno… Illac Diaz, che di bottiglie ne sapeva già qualcosa, non esitò ad utilizzare questa invenzione nelle sue costruzioni e pensò anche di diffonderla su scala globale. Così nel 2011 nasce Liter of Light! Ma come poter far funzionare queste lampade anche di notte? Per rispondere a questa esigenza, a cavallo tra il 2012 e il 2013, nasce il progetto Liter of light at night. Le nuove lampade sono composte da pannelli solari, un circuito e un led posizionato dentro la bottiglia. I diversi modelli si adattano ai materiali rinvenibili direttamente nei vari luoghi di installazione, in modo da rendere il processo il più autonomo e sostenibile possibile. La loro prima applicazione è avvenuta nelle Filippine durante il tifone Jolanda. .8

ENGLISH VERSION>>>> The protagonist of this story is a plastic bottle. After drinking our favourite drink, we usually throw it away but there’s someone who has decided to give to these bottles a new life by transforming them in architectural elements of primary importance. Illac Diaz is an Italian-Filipino entrepreneur who graduated in architecture and city planning at MIT Boston. In 2006 he founded My Shelter Foundation and started using plastic bottles as bricks to build houses. In 2002, in Brazil, Alfredo Moser invented the so called Moser Lamp, a lamp built with a plastic bottle full of water and bleach, that – inserted in the roof, half outside and half inside of it – was able to refract the rays of light and let them enter the house… but only at daylight. Illac Diaz decided to use this technique and spread it all over the world. In 2011 Liter of Light was born! How could he make them work also at night? In 2012-2013 the project Liter of Light at night was created and new bottles were invented. They started building plastic bottles with a solar panel, a circuit and a LED inserted inside them. They were used for the first time in the Philippines after the Jolanda typhoon. Liter of Light doesn’t produce or give energy but it shares knowledge and competences inside the communities. There are different steps in the process of making these bottles and they are all shared with the beneficiaries. In Italy Liter of Light arrived quite by mistake. Lorenzo Giorgi met Illac Diaz in Florence during a conference. In 2014 he started working with him as external consultant for international cooperation. In 2015 Liter of Light rooted in Prato, its Italian headquarter, with the help of Giorgio Giorgi, Giacomo Battaini and Simone Gori. By the end of 2015 they became supervisors for the European coordination. Liter of Light Italia deals with research and development, it establishes intervention strategies at European level and follows some projects. Till now they have been mainly in Africa, but soon they will go also to Latin America.


Liter of light non produce lampade né fornisce energia, ma diffonde nelle comunità la conoscenza e le competenze necessarie alla loro costruzione e produzione. Le fasi di lavoro sono molteplici. A monte vi è un momento di ricerca e di sviluppo tecnologico sui vari modelli di lampade. In seguito viene studiata la fattibilità dei vari progetti. Una volta passato questo vaglio, il progetto viene valutato assieme alla comunità dei destinatari e adattato alle, spesso imprevedibili, esigenze del contesto specifico. Partono poi i vari workshop destinati ai membri della comunità sui metodi di assemblaggio e installazione delle lampade. Dove è possibile, e spesso in collaborazione con ONG che si occupano di micro-finanziamento, viene anche stimolata la nascita di micro-imprese per diffondere e mantenere queste installazioni. L’obbiettivo, insomma, è quello di creare l’intera filiera del processo nei singoli contesti d’azione, adattandola sempre alle peculiarità specifiche. Perseguendo questa filosofia, sono addirittura riusciti a trovare il modo di costruire e installare lampade senza bisogno di ricorrere all’utilizzo di elettricità! In Italia Liter of light è arrivata quasi per caso. Lorenzo Giorgi incontrò Illac Diaz a una festa a Firenze, restarono in contatto e dal 2014 iniziò a collaborare con lui come consulente esterno per la cooperazione internazionale. Nel 2015 nasce ufficialmente a Prato la sede italiana per opera dello stesso Lorenzo, di suo fratello Giorgio, Giacomo Battaini e Simone Gori. Entro la fine del 2015 diventano

anche responsabili per la gestione del coordinamento europeo. Il loro lavoro quotidiano consiste nell’occuparsi di ricerca e sviluppo, stabilire le linee di intervento a livello europeo e seguire direttamente i progetti di sviluppo del cosiddetto sud del mondo. Finora hanno operato soprattutto in Africa, ma presto contribuiranno anche all’illuminazione dell’America latina. Lorenzo ci racconta che «l’aspetto che lo appassiona di più è quello di sviluppare i vari progetti di intervento basandosi su forme di design cooperativo (co-design) e sistemico, coinvolgendo professionalità diverse e soprattutto mettendo al centro le

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esigenze e il contributo dei beneficiari. Quando il beneficiario diviene anche produttore vi è la garanzia che il progetto risponda effettivamente alle sue esigenze». Un approccio alla cooperazione internazionale che fa calare i progetti dall’alto è, secondo Liter of Light, inutile, se non addirittura dannoso. Solo se i beneficiari sentono proprio il progetto, questo può influire veramente sulle loro vite e migliorare radicalmente gli spazi e, di conseguenza, anche le relazioni all’interno della comunità nel lungo periodo. «Il nostro interesse» continua Lorenzo «non è solo quello di elettrificare, ma soprattutto quello di creare dei circoli virtuosi nati dal basso capaci di rendere le persone indipendenti anche a livello professionale». Anche per questo Liter of light è una delle pochissime ONG a non avere nemmeno un espatriato a lavorare nei luoghi dei progetti. Le prime lampade per uso privato create da Liter of light erano da 1 watt. In seguito sono state potenziate fino a 10 watt includendo anche un caricabatterie interno. Poi sono venuti i lampioni da 20 watt, fino alle illuminazioni per ambienti

pubblici e sportivi da 40 watt. Attualmente uno dei progetti di ricerca più stimolanti è incentrato sull’inserimento di un ripetitore Wi-fi all’interno dei lampioni. Ancora oggi ci sono 1.3 miliardi di persone al mondo prive di accesso all’energia. Il problema non è evidentemente la mancanza di fonti energetiche, ma il loro costo. Non devono quindi cambiare solo le tecnologie, ma anche e soprattutto i loro metodi di diffusione e le politiche sociali. Liter of light fa decisamente un grande lavoro in questa direzione e ha fatto fare tanta strada alla bottiglia della nostra bibita zuccherosa preferita! •

Lorenzo told us that the aspect of this work that thrills him the most «is the one of developing projects based on co-design, involving different professionalisms, keeping always in mind the needs and the contributions of the beneficiary». According to him any project is successful when it involves the beneficiary in the making. «Our interest» continues Lorenzo «is creating a virtuous cycle that make people professionally independent». For this very reason Liter of Light is one of the few NGOs that has got no member of staff working abroad. Still today there are 1.3 billion people without access to energy. The problem is not the lack of energy sources, but their cost. Liter of Light wants to help people understand that we must change the methods and political practices of access to energy. Our favourite sugar drink has gone a long way! •

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ful video-arte

B IL L VI O LA la tecnologia al servizio dell’anima Testo di Roberta Poggi, immagini Bill Viola

Come mistico e contemporaneo si fondono nella video-arte di Bill Viola in Bill Viola. Rinascimento elettronico (10 marzo-23 luglio 2017 @Palazzo Strozzi).

Inverted Birth, Bill Viola, 2014, 8’22”

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al fucsia di Ai Weiwei al blu di Bill Viola, i manifesti e le pubblicità itineranti sugli autobus continuano a colorare Firenze. Palazzo Strozzi ospita uno dei maestri della video-arte internazionale, con un’esposizione dedicata al dialogo tra antico e contemporaneo attraverso l’indagine sull’umanità, da anni oggetto privilegiato del lavoro di Bill Viola. Sperimentando con spazi, immagini e suoni, la mostra pone in contrasto le grandi opere del passato dei nostri ben noti artisti (per lo più rinascimentali) con opere video moderne, intrise di rimandi alla storia artistica e

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spirituale dell’essere umano. Curata da Arturo Galansino e Kira Perov, compagna di Viola nonché direttore esecutivo del suo studio (BillViolaStudio), la mostra si dirama nel centro fiorentino con installazioni video agli Uffizi, Santa Maria Novella, al Battistero e al Museo dell’Opera del Duomo. Tra le altre opere, Emergence (2002), la cui struttura visiva è ricalcata sull’affresco quattrocentesco del Cristo in pietà di Masolino, e il video Acceptance (2008) in dialogo con la Pietà Bandini di Michelangelo. Entrambe vogliono andare a scavare nelle implicazioni psicologiche legate allo spirito di adattamento dell’uomo e alla sua rinascita nei secoli. L’acqua, segno della vulnerabilità umana ed elemento naturale tanto essenziale quanto temibile, che disseta e che annega, è un tema ricorrente in Viola: ne restò infatti segnato quando a sei anni cascò in un laghetto rischiando di affogare. Le immagini distorte dal movimento dell’acqua e dalla difficoltà dell’occhio di metterle a fuoco, insieme ai suoni rallentati del mondo in superficie, lo fecero sentire come in una dimensione parallela, una sorta di paradiso. «C’è molto oltre alla superficie della vita. Le cose reali si trovano sotto quella superficie». Ecco perché gran parte del suo lavoro si ispira all’esperienza della percezione umana e a come l’uomo interagisce con le potenti forze

ENGLISH VERSION>>>> Palazzo Strozzi is now hosting Bill Viola’s video-art exhibition, a dialogue between antiques and contemporary through a study of humanity. The exhibition sets great ancient masterpieces in contrast with modern videos: Emergence’s visual structure has been traced onto Masolino’s Cristo in Pietà (2002), and Acceptance dialogues with Michelangelo’s Pietà Bandini (2008). They both aim to dig into the psychological implications tied to human’s ability to adapt through the centuries. Water is an essential element which may be fearsome, sign of human vulnerability, and it’s Viola’s recurring theme: when he was six he almost drowned in a lake and while he was under water he felt like he was in a parallel dimension. «There’s much beyond the surface of life. Real things are underneath». That’s why most of his work is about human perception and how men interact with nature. The result often matches with a painful feeling that leads to mystic, to religion, to spirituality: see the combination of the video Observance with Donatello’s Maddalena penitente.

della natura. Spesso il risultato coincide con un sentimento di dolore e sofferenza, da cui scaturisce il bisogno innato di immergersi nel mistico, nella religione, nella spiritualità: questo è il senso dell’accostamento della Maddalena penitente di Donatello, scultura legata al mito religioso situata all’interno del Battistero, con l’opera video Observance (2002), in cui alcune figure escono dall’oscurità verso il portale dello schermo, guardando verso di noi come alla ricerca di un nuovo reale, di un aldilà terreno. Ma dopo qualche minuto, sconsolate, se ne vanno, ed escono dal campo visivo della telecamera. Bill Viola ha vissuto e studiato a fondo le diverse religioni del mondo contemporaneo, dalle tradizioni mistiche cristiane al buddismo zen e il sofismo islamico. Rielabora costantemente temi come quello della morte, della trascendenza e della rinascita attraverso la tecnologia più avanzata del suono, dell’immagine e dell’elettronica, in una mescolanza profondamente spirituale di stili, culture ed epoche storiche. In costante sperimentazione tecnica, è approdato a uno stile che manipola l’immagine (nella luce e nella distorsione del tempo lineare dei fotogrammi) in modo quasi eccessivo, come con l’utilizzo dell’ultra slow-motion, che isola la scena da un qualsiasi senso di realtà terrena, catapultandoci in un mondo parallelo in cui poter raggiungere una profonda connessione con i significati delle opere. Firenze non è stata scelta per caso: è qui che l’artista ha dato inizio alla sua carriera nel mondo della video-arte, lavorando negli anni ’70 come direttore tecnico per art/tapes/22, uno dei quattro centri italiani di produzione videoartistica che The Deluge (Going Forth By Day) Bill Viola, 2002, 36’

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Emergence, Bill Viola, 2002, 11’40”

hanno fatto la storia nazionale di questo mezzo espressivo. Oggi, a quarant’anni di distanza, questa mostra riassume il risultato della sua ostinata ricerca tecnologica e riflessione estetica, basata su un’idea di dualismo e di confronto tra opposti: per comprendere a fondo un concetto è infatti necessario conoscerne il suo opposto. Il tutto catturato e trattenuto dalle telecamere: «Cameras are like soul keepers». L’apertura mentale e spirituale dell’uomo al mondo delle tecnologie è la chiave per

arginare una società alla deriva, per ridere sereni di fronte a uno scenario alla Black Mirror. Il vero oggetto di studio non sono i mezzi, ma noi stessi in quanto esseri umani, e sta solo a noi riuscire a vedere nella tecnologia la stessa forza dell’acqua: capire che può essere sia nostra nemica, sia custode delle nostre anime. • Bill Viola. Rinascimento elettronico 10 marzo-23 luglio 2017 / Palazzo Strozzi

Bill Viola constantly re-elaborates subjects like death and rebirth through videos and electronics, mixing styles, cultures and eras. He uses ultra slow-motion, isolating a scene from reality and taking us to a parallel world. Viola started his video-art career here in Florence forty years ago working as a technical director for art/tapes/22, one of the four Italian centres of video-art production. «Cameras are like soul keepers» but the real subject of study are us as human beings, and it’s us who can see that technology has the same strength of water: it can be our enemy or our guardian. •

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ful gusto

IL GELATO È COME IL VINO Vetulio Bondi, mastro gelatiere, ci spiega perchè vorrebbe una DOC T esti

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l gelato non è uguale per tutti. È l’assioma di Vetulio Bondi, che ne ha fatto il titolo di un libro, uscito recentemente grazie a un editore indipendente. Perché Vetulio, mastro gelatiere da più di 30 anni, non le manda a dire a nessuno. «C’è un’idea distorta del gelato – dichiara – che fa sì che cerchiamo un prodotto sempre morbido, vellutato, caldo al palato. Ma questo non è il gelato tradizionale artigianale. Abbiamo perso il gusto dei prodotti veri, come la frutta fresca. Quando la troviamo nel gelato non la riconosciamo e non ci piace». Se pensate che la «distorsione del gelato» sia un problema solo degli stranieri, con le loro diete a base di milkshake e hamburger, vi sbagliate di grosso. Perché siamo noi italiani (e fiorentini), inventori del gelato, a sbagliare per primi. «L’85% delle gelaterie artigianali in Italia usa prodotti preparati», afferma Vetulio Bondi. Insomma, le famose polverine in busta. «E può farlo perché la legge lo consente», continua. Se vi sembra uno shock insostenibile, fate una riprova, la stessa

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che lo chef del gelato ha suggerito alla sottoscritta. Vi è mai capitato di sentirvi appesantiti dopo aver gustato un gelato detto artigianale? Di averlo trovato poco digeribile? Ecco, quello è il primo segnale che vi è stato aggiunto qualcosa che di base non dovrebbe starci. Il tanto vituperato olio di palma, tanto per cominciare, «che serve a rendere cremoso il prodotto», spiega Vetulio. Ma insomma, come ci si salva? Come si riconosce un gelato fatto con ingredienti “veri”? Prima di tutto dal colore: provate a osservare le varie tonalità del gusto pistacchio, ad esempio. Poi la consistenza: se resta attaccato al palato o impasta la bocca, c’è qualcosa che non va. Ma per diventare esperti bisogna fare molta pratica. È come per il vino: servono tanti assaggi per imparare a conoscerlo e capire cosa ci piace. E ci vorrebbe una regolamentazione più stringente per tutelare la ricetta originale. E un buon gelatiere da cosa si riconosce? Per fare questo mestiere serve dedizione e fantasia. Nel panorama degli chef e dei pasticceri, i gelatieri sono considerati figli di un dio minore, come se fosse un mestiere più facile degli altri. Ma non è così. È solo appassionandosi alla materia che si imparano tecnica, segreti, dosaggi. E ci si può permettere poi di sperimentare, creando gusti unici, che ci differenzino dagli altri. Vorrei che le persone venissero da me per gustare il mio pistacchio, non solo un gelato al pistacchio. Perché lo faccio con pistacchi di Corfù, li uso interi e ci aggiungo un pizzico di sale.


Qual è il gusto di cui sei più fiero? In questo momento il gelato all’olio extravergine d’oliva, con una spruzzata di cavolo nero e granella di pane croccante, messo in carta anche da un famoso chef in odore di stella Michelin. Ma anche del caramello salato. Per produrlo ci vado quasi in rimessa, ma si trova solo da me. A proposito di costi: qual è il prezzo giusto di un gelato? Se lo fai con gli ingredienti “veri”, ovvero frutta fresca, zucchero, burro, uova, latte e poco più, mettendoci anche un po’ di fantasia nei gusti, quando paghi una coppetta piccola 2 euro, non è mai caro. Anzi. Ci vuole tempo, ci vogliono macchinari, ci vogliono anche le persone giuste per produrre un gelato artigianale di qualità. E ci sono materie prime più care di altre. Basti pensare ai pinoli o ai pistacchi, che paghi da 40 a 60 euro al chilo. Parlando di personale, hai molta richiesta per lavorare con te? Si presentano in molti per fare un tirocinio e imparare un mestiere. Però per lavorare insieme ci vuole fiducia reciproca. Confesso che il mio sogno è quello di avviare un programma di insegnamento destinato alle scuole alberghiere d’Italia. Una delle esperienze che mi ha toccato di più è stata il progetto di formazione nel carcere minorile di Firenze. Alcuni dei ragazzi che hanno frequentato le lezioni oggi lavorano come gelatieri. Come Associazione Gelatieri Fiorentini organizzate spesso corsi di formazione?

ENGLISH VERSION>>>> Ice-cream is not the same for everyone. This is Vetulio Bondi’s axiom that gave the title also to his book, recently published by an independent publisher. Vetulio, master icecream maker for 30 years, is very direct: «There is a distorted idea of ice-cream by which we always want a soft, not too cold and velvety ice-cream. But this is not the traditional artisanal recipe». If you think that the “distortion of icecream” is only a foreign matter, you’re wrong. In Italy and in Florence, too, we are the inventors of ice-cream but also the first to make mistakes. «85% of the artisanal ice-cream makers use prepared products» affirms Vetulio Bondi. «They can do it because the Italian law allows it». When you eat an ice-cream and it lies on your stomach it’s maybe because there is something added inside it, like palm oil for example, used to make it creamy. How can we recognise an ice-cream made with “real” ingredients? First of all from the colour: think about the different tones of pistachio. Then consistency: if it sticks to the palate, there is something wrong. But it’s not easy. There should be a more strict regulation to protect the original recipe. And how can we recognise a good ice-cream maker? To make this work you need dedication and fantasy. Icecream makers are considered inferior to chefs. A good icecream maker must have passion, be free of experimenting and creating original and unique tastes. I would like people

Ogni mese comincia un nuovo corso. Le lezioni alternano teoria e pratica e il fatto che siano tenute da persone che esercitano davvero questo mestiere dà qualcosa in più al percorso. Formiamo al massimo 12 persone alla volta, proprio per mantenere un rapporto il più diretto possibile tra insegnanti e studenti. Che non sono solo giovani. Poi ci sono i corsi brevi, rivolti per lo più a stranieri, che teniamo a Firenze e all’estero, per diffondere la cultura del gelato artigianale. Una volta ho avuto come “allieva” la numero due di Facebook, il braccio destro di Zuckerberg e tutt’ora ogni tanto mi scrive per avere qualche consiglio. È un mestiere che consiglieresti ai giovani? Assolutamente sì. C’è ancora molto margine per questo lavoro, soprattutto se si ha voglia di andare all’estero. •

to come here and taste my pistachio, I make it with Corfù pistachios and I add some salt. What’s the taste you are most proud of? Olive oil with a spray of black cabbage and crunchy bread grain. A famous chef inserted it in his menu. But also salted caramel, in order to produce it I take a loss, but I’m the only one to make it. What’s the right price for an ice-cream? If you make it with “real” ingredients like butter, fresh fruit, sugar, eggs, milk and nothing else, 2 € for a cup is never expensive. It takes time, machines, the right people to make a quality artisanal ice-cream. Are there a lot of people who want to work with you? A lot of people want to make an internship or simply learn the job but I need to trust my colleagues. My dream is to organize a class for the Italian hospitality training institutes. One of the most touching experience, for me, has been the one in the juvenile prison. Now some of them work as ice-cream makers. Does the Florentine Ice-Cream Makers Association organize classes? Once a month a new class starts. Classes alternates theory and practice. There must be a maximum of 12 people in order to keep a more direct relationship. There are also shorter classes, addressed mainly to foreign people. Once also Zuckerberg’s right hand-woman came to our class, and she still now writes to me in order to have some advice. Would you recommend your job to young people? Absolutely yes. •

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ful musica

BEYOND THE GARDEN

l’umano troppo umano di Bonfire, il loro album di debutto T esto

di

N iccolò B righella ,

U

foto di

F rancesca M adiai

n ragazzo fugge dalla società cui appartiene, dai suoi affetti, dalle pastoie di un mondo che non sente più suo. Fugge nella giungla, risale il fiume, come i protagonisti di Cuore di Tenebra di Conrad o Apocalypse Now di Coppola, per trovare un’effimera pace là dove una tribù primitiva vive serena. Col tempo, però, le catene di quel mondo di sopraffazione e potere da cui è fuggito si ripresentano e il ragazzo, egemonizzando lentamente la tribù, ne diviene il primo dittatore, tiranno di un mondo verde e azzurro che ha privato della sua innocenza. Questo il lungo percorso in 10 canzoni che i Beyond The Garden raccontano nel loro primo album: Bonfire. Una storia affascinante, narrata attraverso ritmi pop e indie, atmosfere mistiche ed energica fisicità, da cui traspirano un profondo bisogno di libertà, uno sguardo disincantato sull’ineluttabilità dei nostri retaggi culturali e una speranza mai sopita. «La storia è nata in modo molto naturale, forse perché sentivamo anche noi di doverci liberare di certi artifizi, di certe complessità. Il tema della fuga è proprio questo: un ritorno alla semplicità, alla leggerezza; un’evasione da certi schemi oppressivi che tendono però a ripresentarsi in un ciclo perpetuo. Il tema ha un’accezione positiva: come il protagonista siamo tutti alla ricerca della felicità. O di una speranza, ovunque si trovino felicità e speranza».

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I Beyond the Garden sono una formazione nata nel 2011 che ha già al suo attivo alcuni importanti successi tra cui la vittoria nel Rock Contest del 2014, l’inserimento nel libro Firenze suona di Elisa Giobbi e la conquista di un posto nell’ambito Toscana100Band, concorso finanziato dalla Regione Toscana che ha visto 100 realtà musicali su 700 ottenere il sostegno delle istituzioni. Il nome della band è ispirato al titolo del penultimo capolavoro di Sellers: «Siamo rimasti colpiti dal messaggio del film e dalla frase che lo riassume: “la vita è uno stato mentale”. Inoltre il titolo originale è “being there” (essendo lì), mentre “beyond the garden” è la traduzione del titolo della versione italiana “oltre il giardino”. Ci sembrava che la traduzione del titolo italiano potesse comunicare qualcosa in più; quella voglia di scrutare oltre le comode mura domestiche. Ci siamo quindi concessi una piccola licenza poetica». Una band che lavora alla propria musica come un pittore a un quadro: «Proviamo a dipingere un’immagine sonora che abbiamo in testa, per questo spesso la musica può venire prima delle parole, ci aiuta a creare un’atmosfera». Un’atmosfera che conserva in sé una certa ruvidezza giovanile stemperata però dalla

ENGLISH VERSION>>>> A guy who runs away from the society he belongs to, from his loved ones, from a world he no longer feels part of. He runs to the jungle where a primitive tribe lives to feel in peace. But as time passes by, the chains of that world of prevarication he ran from come back and the guy slowly becomes the dictator of the tribe. In their first album Bonfire, Beyond The Garden describe this path through pop and indie sounds, mystic atmospheres, where a longing of freedom emerges from our cultural legacy. «The story was born in a very natural way, maybe because we also felt we had to escape from artifices and certain intricacies. This is what Escape is all about: a comeback to simplicity and lightness. We all look for happiness, or for hope, wherever hope and happiness may be». Beyond the Garden is a band that was born in 2011 and has achieved good success: they won the Rock Contest in 2014 and were mentioned in the book Firenze suona by Elisa Giobbi. The band name is the translation of the Italian title of one of Sellers’s masterpieces (in English the title is significantly Being There). «We were very impressed by this film, and by

raffinatezza tecnica del gruppo e dal suo sentiero creativo: «Può essere una frase, un urlo, qualcosa che non può non essere detto, a farci lavorare prima alla parte vocale, come in una poesia, curando soltanto in seguito l’arrangiamento. Il processo creativo è comunque molto spontaneo, non viene inseguito, restiamo in attesa di quella vibrazione che prima o poi arriva, provando a tenere le antenne sempre dritte, curiosando a trecentosessanta gradi nella vita». Dopo questo accattivante esordio i Beyond The Garden, impegnati nei live di Bonfire, sono già alla ricerca di suggestioni, visioni, sperimentazioni per il prossimo lavoro, una nuova storia da narrare in musica, come quest’ultima, pensiamo, ricca di spunti, ispirazione e carattere. • its meaning “life is a state of mind” but we also thought the Italian title could be more significant». A band that works at its music as a painter works at his painting «We try to draw a sounding image, that’s why music often comes before words, because it helps us creating the atmosphere we want». After Bonfire, the Beyond The Garden are already looking for visions and experimentations for their next story to be told through music. •

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ful arte

DENTRO L’ARTE DI UN OUTSIDER

ERO

l’eco che si ripete per Firenze T esto

di

M artina S capigliati ,

foto di

ERO

N

iente di più urban lifestyle di ERO. No social, no sito internet, no email: identità blindata nell’anonimato per ragioni di opportunità (il vero writer, teme le autorità).

ERO si trova in strada. Un tag che si ripete, ossessivo, per tutta Firenze e a cui ho sempre fatto caso. Tre lettere che sembrano suggerire qualcosa di esatto, nella parsimonia del linguaggio. Un malinconico memento alla sostanza tossica, pensavo. O un poetico e nostalgico imperfetto dell’infinito essere. No. ERO non è un pensiero pieno ridotto a una forma breve, ma un fatto breve che ha trovato la sua forma esatta. Pur trovandosi, in maniera compulsiva, su tutte le pareti, e le cabine, i pali, in tutto il tessuto urbano della città, ERO non vuol dire nulla. È il risultato dell’accostamento di tre lettere che, tra le altre, formano il nome del writer trentenne. «Il vero writer è come una ragazza anoressica», dice, «lei dimagrisce e continua a vedersi grassa. Io scrivo e continuo a vedere troppi muri bianchi». ERO: la sua esattezza ha qualcosa di musicale. Il suo tag ha la chiarezza e il vuoto stesso di una nota. Si ripete,

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ENGLISH VERSION>>>> ERO is in the streets. A repetitive, obsessive tag spread all over Florence. Even though it’s everywhere – walls, telephone boxes, lamp posts… – ERO doesn’t mean anything. It’s just three letters which form the real name of the 30-years-old writer. «The real writer is like an anorexic girl who loses weight but keeps on seeing herself fat. I write but keep on seeing too many white walls», he says about himself. ERO is a tag then, but it’s not a sign of narcissism or vanity. It’s a way of communicating something unforeseen. ERO has been tagging Florence for ten years without mentioning politics or spread protests, because his tag is his graphic way of existing. As Japanese’s koan, ERO’s graffiti don’t necessarily have to make sense or to be «solved», they just need to be «absorbed». ERO is not just on walls but on trains too. He sprays them at nights and doesn’t care if it’s hot or cold, bad or good weather. Once he made a back jump (an “assault” to a public mean of transportation) during daytime spraying carriages while the train was stopping at the station for a few minutes, then waited for hours to see his work passing again by. A week ago I was on a train going to Milan. While the carriage was leaving Florence station I looked outside and saw ERO tags everywhere. He has a naïf style that celebrates the comedy of art, creating multiple meanings for those who want to pay attention. •


miliardi di volte, come un’eco per i muri della città. Il gesto di far sparire il muro dietro al proprio nome scritto a bomboletta non è semplicemente uno dei prodotti del narcisismo occidentale, segno di una vanità presuntuosa. Piuttosto, è la poetica maniera di trasmettere, di tracciare qualcosa di imprevisto per la strada. Da dieci anni ERO si muove nel mondo del writing ma non si occupa di politica, non usa i muri per diffondere frasi contestatarie, per anni ha taggato la città con questa scrittura alla prima, in cui lo schizzo o il ripensamento, il tentativo e la correzione sono ugualmente impossibili, perché il tratto non esprime un’affermazione dell’io, ma un modo grafico di esistere. Come koan giapponesi, anche i murales di ERO non devono essere risolti, come avessero un senso, e nemmeno deve essere afferrata la loro assurdità (che sarebbe ancora un senso), ma vanno rimasticati, ripercorsi con la memoria – come tutte le opere d’arte – vanno assorbiti. ERO non è solo sui muri, ma anche i treni. Qui lo spray acquista un valore pittorico e romanzesco. ERO di notte frequenta le yard (i depositi dei treni), dipinge, sbattendo bombolette, al rumore delle biglie di ferro che rimbalzano all’interno, non c’è caldo e non c’è freddo, non esiste cattivo tempo, esiste solo cattivo equipaggiamento. Crea pannelli – come si dice in gergo – sospeso nella dimensione irreale delle stazioni, tra partenze e ritorni, tra testoni e frontalini. Ha fatto back jump (“assalto” a un mezzo in servizio) anche in pieno giorno, dipingendo vagoni in viaggio, nei pochi

minuti in cui sostavano in stazione; per poi aspettare ore e ore, in attesa di rivedere passare il convoglio, per ritrovare l’opera. Una settimana fa ero in treno, andavo a Milano. Dal finestrino guardavo il lungolinea, per lo più dipinto da lui: ERO in graffiti piccoli, poi giganteschi.Tutti ormai scoppiati oltre i margini delle tre lettere, in un furore fantastico di colori e forme. La sua è una pittura naïf, simile a quella di un bambino, che celebra la commedia dell’arte. E l’essenza dei suoi lavori è collettivizzata con quella di tutti gli altri writers: opere pubbliche che si frantumano tra i binari, tra le vie della città, creando significanti molteplici, che, in modo silenzioso, coinvolgono solo chi decide di prestare attenzione. • 19.


ful formazione

SACIMX

Il programma interdisciplinare di SACI in collaborazione con i principali musei fiorentini M aria A ntonia R inaldi D irector of MA in H istory of A rt , insegnante di M useologia C amilla T orna D irector of MFA in C ommunication D esign , insegnante di G raphic D esign foto di SACI – S tudio A rts C ollege I nternational

U

n tempo i bambini venivano trascinati nei musei, adesso ti ci portano loro. Il museo si è trasformato in uno spazio partecipativo dove la nuova tentazione è la tecnologia: gli schermi provocano l’azione, non la persuasione. E l’azione, qui, significa comprensione e cultura. A SACI una classe non ci sembrava sufficiente per invitare gli studenti a riflettere sul nuovo ruolo del museo. Ecco che è nata l’idea di SACIMX – Designing the Museum Experience, un programma interdisciplinare per coinvolgere gli studenti sia con gli aspetti concreti sia con quelli impalpabili della visita a un museo.

Work by SACI. Graphic Design student Alexandra Wong - Fall 2016 .20

ENGLISH VERSION>>>> We once had to drag children to museums. Now they beg us to go! The museum has become a participative space, where technology is the new temptation: displays call for action, not persuasion. And, in this case, action means comprehension and culture. At SACI, we didn’t think that one course was sufficient to induce students to reflect upon the new role of museums. That is why we created SACIMX ‒ Designing the Museum Experience, an interdisciplinary program that engages students in both the concrete and the intangible aspects of the museum visit experience. Our initial idea was to create more structured internships for our students so that their work experience inside Florentine museums would be more significant. But after a meeting with Paola D’Agostino (Bargello Musei) and Cecilie Hollberg (Galleria dell’Accademia), the two museum directors who, generously, were the first to open their doors to us, it was immediately clear that together we could create a completely new project—one that would range from interviews with museum visitors to the conception of new forms of experience before, during, and after a museum visit. SACI students participating in SACIMX are MA in Art History and MFA in Communication Design candidates, together with undergraduates in Museology, Graphic Design, Illustration, and Typography. At the end of the term, students make presentations to the museum directors who have commissioned the projects—because one of the aims of SACIMX is that the projects meet very precise needs of the museums. During these presentations, students put on their best “performance.” They learn how to present their ideas in a professional way. Above all, they have a unique opportunity to learn directly from individuals who work inside the museums at the highest levels about the organizational needs and problems they face every day. Currently, our students are working on a project to make the Galleria dell’Accademia accessible to the partially-sighted and the blind. To this purpose, we met with Niccolò


All’origine vi era da parte nostra il desiderio di creare delle internship più strutturate per dare la possibilità ai nostri studenti di lavorare in maniera significativa all’interno delle istituzioni museali fiorentine. Ma incontrando Paola D’Agostino (Bargello Musei) e Cecilie Hollberg (Galleria dell’Accademia), le due direttrici che per prime ci hanno aperto generosamente le porte dei loro musei, è stato subito chiaro che insieme avremmo potuto creare un progetto del tutto nuovo, che spazia dalle interviste ai visitatori fino alla concezione di nuove forme di fruizione ‒ prima, durante e dopo la visita. Gli studenti coinvolti in SACIMX sono quelli del Master di Storia dell’Arte e del MFA in Communication Design, insieme a quelli di Museology, Graphic Design, Illustration e Typography: alla fine del semestre presentano i progetti anche ai direttori dei musei che hanno commissionato i lavori; perché, altra particolarità di SACIMX è che i progetti a cui gli studenti devono lavorare rispondono alle precise necessità dei musei. In queste occasioni gli studenti danno il meglio in termini di “performance”, imparando nella pratica come esporre in maniera professionale una propria idea, ma soprattutto hanno la grande opportunità di ascoltare direttamente da chi lavora ai vertici di tali istituzioni i problemi di ordine burocratico e le necessità organizzative che ogni giorno devono affrontare. In questo momento i nostri studenti stanno lavorando a modi per rendere accessibile la Galleria dell’Accademia a visitatori ipovedenti (partially sighted) e ciechi. A questo scopo, abbiamo organizzato un incontro con Niccolò Zeppi, direttore dell’Unione Ciechi

Italiani di Firenze e con Giulia Polito, giovane cieca parziale, per comprendere bene quali siano le loro necessità, quali strumenti ritengono più idonei e quali fossero le modalità da seguire. Allo stesso modo abbiamo incontrato chi

Work by SACI. Graphic Design student Jonnea Herman - Fall 2016

lavora da molti anni nel campo dell’accessibilità nei musei, come la storica dell’arte Chiara Lachi dell’associazione “L’Immaginario”. Questi incontri sono aiuti concreti e fondanti non solo per la preparazione dei progetti, ma in un più ampio panorama didattico rendono palese quanto ogni progetto museale sia il frutto di una collaborazione tra molte figure professionali. Tutto questo rende l’insegnamento più complesso ‒ più responsabilità, maggiore impegno (anche solo per creare le sinergie tra le varie classi coinvolte), ma allo stesso tempo assolutamente stimolante sia per noi sia per i gruppi di lavoro che si formano in classe. Stiamo già prendendo accordi per espandere il progetto e lavorare con altri musei di Firenze e dintorni. • www.saci-florence.edu

Zeppi, Director of the Unione Ciechi Italiani di Firenze (the Florence chapter of the Italian Association of the Visually Impaired) and with Giulia Polito, a partially-blind youth, in order to better understand their needs, to learn which tools are most suitable, and which procedures should be followed. Similarly, we met with those who have worked for many years in the field of museum accessibility, such as the art historian Chiara Lachi of the L’Immaginario association. These types of meetings are of concrete and fundamental help, not only for the preparation of the projects, but also in wider didactic terms. They make it clear that every museum project is the result of a collaboration among multiple professionals. All this makes our job as instructors more complex—there is greater responsibility, greater commitment (especially in creating synergy among the various classes involved). But at the same time, it is more stimulating—both for us and the students involved in the projects. We are already making arrangements to expand these projects and to work with other museums in and near Florence. • www.saci-florence.edu

Work by SACI. Graphic Design student Tiffany Lam - Fall 2016 21.


ful help

DEDALO, oltre i disturbi alimentari T esto

di

R ita B arbieri

D

edalo è il più grande architetto della storia d’Occidente: nella mitologia infatti, il protagonista entra nel famoso labirinto facendo fronte alle sue paure e, muovendosi all’interno dei suoi meandri illogici, arriva a trovare le soluzioni e le risposte adeguate anche a fronte di ostacoli non previsti né tantomeno immaginati. Ecco perché, a Firenze, si è scelto proprio il nome Dedalo per designare un centro (parte anche della FIDA, Federazione Italiana Disturbi Alimentari) che promuove, attraverso un approccio psicoanalitico e un’equipe multidisciplinare, la prevenzione e la cura dei disordini alimentari e di tutti gli altri sintomi di ordine psicologico. Abbiamo intervistato il dott. Lorenzo Franchi, presidente dell’associazione: Dottore, il problema dei disturbi alimentari sembra essere ancora molto presente nella nostra società. È così? Chi sono i soggetti che ne soffrono di più? Sicuramente è così. La società moderna e occidentale ha a che fare con questo fenomeno proprio a causa del suo benessere. Nei cosiddetti paesi del terzo mondo, dove il cibo scarseggia, il problema non esiste. Sembra assurdo ma ci ammaliamo proprio perché esiste un surplus, in termini di quantità e scelta, che ci permette di farlo. I soggetti a rischio continuano a essere le donne, ma in misura minore anche gli uomini. Perché soprattutto le donne? Intanto forse, semplicemente le donne ammettono più

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ENGLISH VERSION>>>>

Dedalo, in mythology, is the architect that enters the labyrinth overcoming his fears and moving in its illogical meanders to find the right solutions. To him is entitled the Association Dedalo, a centre that promotes the prevention and treatment of eating disorders. We interviewed Lorenzo Franchi, doctor and president of the association. Eating disorders seem to be still very actual. Which are the most affected subjects? They indeed are. Our modern society, in the Western part of the world, is fighting this problem due to its wellbeing. We get sick because of this surplus, both in quantity and choice, in fact the third world countries don’t have it. The people at risk are mainly women and to a lesser extent men. Why women? Firstly, because they admit more easily to have a problem and are generally more prone to start a terapeutic and psychoanalytic treatment. Secondly because they have the capacity to feed. Food is first of all a nutrient, if this concept loses its nature, problems start.


facilmente di avere un problema e sono generalmente più propense a iniziare un percorso terapeutico e psicoanalitico. Poi perché le donne, biologicamente e storicamente, a differenza degli uomini possiedono la capacità di nutrire. Il cibo è prima di tutto, nutrimento, anche se questo concetto apparentemente banale è stato completamente snaturato. Perché? Perché abbiamo caricato il cibo di significati completamente diversi da questo. Da un lato esiste una deriva ortoressica della società che ci porta ad avere una ossessione per la magrezza e per la salute ma dall’altro invece esiste una sorta di esasperazione, dove l’alimento diventa quasi un oggetto o perfino un sostituto sessuale. In inglese esiste un termine, “foodporn”, intraducibile in italiano, utilizzato tra gli hashtag più frequenti su Instagram e altri social media. Esatto, è espressione della relazione passionale verso il cibo: Lacan direbbe che il cibo è soddisfazione della pulsione e non del desiderio. Ci appaga sul momento ma continuiamo sempre a desiderarlo: non siamo mai totalmente soddisfatti. Il cibo è paragonabile quasi a uno stupefacente: ti fai una dose, ma subito dopo ne vuoi un’altra. In un circolo potenzialmente pericoloso.

psicanalisi laica fiorentina

Ma quando si inizia a parlare di veri disturbi alimentari? Quali sono i sintomi? Quando, parafrasando ciò che dici, il cibo è solo sintomo visibile di un disagio più profondo e nascosto. Non è l’abbuffata una tantum o la dieta per perdere un po’ di peso a produrre la bulimia o l’anoressia. Purtroppo ci sono ben altri fattori. Quali per esempio? Intanto la tavola apparecchiata è, nella nostra tradizione, sinonimo di condivisione. Per questo, nella maggior parte dei casi, i problemi sono legati alla socialità del soggetto: la famiglia, il partner... Il cibo è scelto come sostituto metonimico di una relazione personale. Molto spesso il vero problema sta proprio nella dimensione affettiva: però è una verità troppo scomoda da ammettere per cui si ’sceglie’ di manifestare il disagio in un altro modo. Non mangiando o mangiando troppo? Per esempio, ma le gamme sono davvero infinite. Si passa dalla demonizzazione di alcuni alimenti all’assunzione delle cose più strane. Ma perché si sceglie questa e non un’altra forma? Perché è ciò che abbiamo più sottomano. Ci alimentiamo sempre, almeno tre volte al giorno. Non possiamo vivere senza. Quindi è ciò che è meno complicato sottrarre, controllare o aumentare. Ma come possiamo guarire? Le forme più gravi della malattia portano alla morte... Questo è vero. Ma in molti casi guarire è non solo possibile ma reale. Il primo step è cercare di andare oltre l’evidenza del corpo malato: scavare più a fondo e ascoltare,

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individuare l’origine del disagio. Io non mi occupo dell’aspetto prettamente fisiologico: calorie, dieta ecc. Il lavoro dell’analisi non sta nel correggere forzatamente il rapporto con il cibo, ma nell’ascoltare il soggetto, aiutandolo a dialogare con quelle parti di sè che lo spaventano. Ricordiamoci che il problema principale non è nel piatto, ma altrove. Che tipo di approccio curativo proponete nel vostro centro, a differenza di altri? Offriamo sempre una prima consulenza gratuita e molto spesso, i nostri pazienti, sono sorpresi di trovarsi in un posto dove per la prima volta parlano di se stessi e non della loro malattia. Perché, credimi, il vero problema non è mai il disturbo, ma cosa nasconde e cosa significa. Siamo una squadra di cinque collaboratori e abbiamo una tecnica multidisciplinare: con le colleghe proponiamo diversi percorsi artistici, teatrali, comunicativi per cercare di superare il blocco e procedere nella terapia. Come vi contattano le persone che hanno bisogno di aiuto? Nell’80% dei casi via mail: ci chiedono un primo appuntamento informativo e in seguito valutiamo singolarmente come proseguire e se affidarci a altre figure mediche (nutrizionisti, internisti ecc.) e strutture. Ma ci tengo a sottolineare che nella maggior parte dei casi, questi disturbi non sono irreversibili. Anzi, sono perfettamente curabili e più diffusi e frequenti di quello che si pensa. A questo proposito, molto spesso si parla di un impatto negativo dei modelli estetici, veicolati e diffusi capillarmente dai media o dalla pubblicità. Cosa pensa di questo? Direi che è un po’ riduttivo e fuorviante riportare un comportamento patologico a un semplice tentativo di emulazione di modelli su cui, ovviamente, si può sempre discutere. Non credo che una ragazzina, per esempio, si metta a dieta semplicemente perché vuole diventare come la velina di turno... Ritengo più probabile, per esempio, che voglia farlo perché ha difficoltà ad accettarsi e a piacersi. Con questo, proporre modelli più variegati sarebbe senza dubbio più sano, realistico e sensato. Ma probabilmente, da un punto di vista commerciale, un fallimento. Questo è vero: sulle diete, la cosmesi ecc. si è costruito un mercato enorme a livello globale... Sì, e ne siamo tutti target più o meno consapevoli. La pubblicità fa leva sulle nostre insicurezze, sui nostri disagi per offrire la soluzione più semplice e immediata. Che però, molto spesso, sul lungo termine non è la vera strada. Qual è la soluzione allora? Lavorare su se stessi, sulle proprie relazioni e storie personali. Risalire la foce, anche controcorrente. Non nascondersi dietro a un dito (o al disturbo nel piatto) ma andare a fondo. Grazie, dottore. Grazie a te per l’intervista. • DEDALO Psicanalisi Laica Fiorentina – FIDA Firenze Via Masaccio, 116 – 50132 – Firenze.

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Why? Because food is charged with completely different meanings. On one side the obsession for skinny bodies and health, on the other a sick relationship with food that becomes a sexual substitute. “Foodporn” is one of the most frequent hashtags on Instagram and other social medias... It expresses this passional relationship with food. Lacan would say that food is satisfaction of the impulse and not of the desire. It is only a temporary satisfaction, you keep craving for it. Which are the real eating disorders and their symptoms? The problems with food are only the visible symptoms of a deeper problem. There are many other factors. For example? A laid out table, in our tradition, means sharing. And it’s for this reason that in the majority of cases, the problems are linked to the sociality of the subject: the family, the partner, to their sentimental sphere. Eating too much or not enough. But why choosing food? Because we always eat, at least three times a day and we cannot live without. So it is easy to cheat. How can we heal before it’s too late? The first step is go beyond the body: dig deep to get to the origin of the problem. I listen to my patient and try to help him recover a correct relatioship with the part of himself that scares him the most. What type of approach do you use at Dedalo? We offer a first free session in which our patients usually are surprised of being asked to talk about themselves and not their illness. We are in five and we use a multisciplinary approach: art, theatre, communication in order to overcome the block and proceed in the therapy. Very often it is said that the aesthetic models proposed by media and publicity are negative. What do you think about it? This is downsizing the problem, a pathological behaviour is not just an attempt to emulate controversial models. A young girl doesn’t go on a diet just to become a soubrette, she is probably struggling to accept herself. Having said that, offering different models would be more healthy, realistic and reasonable, but probably a commercial failure. Publicity calls on our insecurities, offering the most simple solution, but on the long run it’s not the right way. And which is the right way? Work on ourselves, on our relationships and personal stories, go back to the origins.•


ful tecnologia

FLUIDMESH il futuro parla italiano con un accento fiorentino T esto

di

M arco F allani ,

foto di

F luid M esh

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rmai non ci facciamo più caso, ma negli ultimi anni l’evoluzione della connettività ha raggiunto livelli fantascientifici, impensabili fino a pochi anni fa. Possiamo guardare Netflix, aggiornare il nostro profilo Facebook, controllare in tempo reale come è il traffico sulla tangenziale per tornare a casa, e fra non molto probabilmente anche se il nostro cane sta facendo casino in giardino, o se tuo marito ha rifatto il letto a casa. Tutto questo a prescindere da dove ci troviamo, su un treno ad alta velocità lanciati a più di trecento chilometri orari, sulla metro a decine di metri sotto terra, sott’acqua a chissà quali profondità, e dovunque altro vi venga in mente di essere in questo nostro telematico pianeta. Ormai da qualche anno infatti, interi sistemi portuali, città e linee ferroviarie sono connesse alla rete globale, e trasmettono in tempo reale immagini e suoni ad alta definizione. Dietro questa rivoluzione, c’è tanto commitment come ci racconta Cosimo Malesci, fiorentino classe ’82, uno dei fondatori di FluidMesh Networks.

ENGLISH VERSION>>>> In the last years the evolution of connectivity has reached futuristic levels, unthinkable up until a few years ago. We can watch Netflix, check the traffic in real time and soon probably also check on what is doing our dog in the garden. All this independently from where we are. This revolution only happened thanks to the commitment of people such Cosimo Malesci, one of the founders of FluidMesh Networks. Hi Cosimo, could you introduce yourself to our readers? I was born and bread in Florence until I was 19 when I had the chance to follow my two passions: the sea and engineering. At MIT in Boston there is a course in Ocean Engineering: I loved the idea of designing and using submarines and underwater sonar. Thanks to my family, my passion and some luck I managed to get into one of the most prestigious university of the world. What led you to become an entrepreneur instead of being a “calm” employee? My brother was working to some Mesh protocols for wireless networks, while I was dedicating to designing electronics for sea environments. We joined forces to submit a wireless product for video-surveillance to a MIT competition. We didn’t win but the project became reality and we decided to create FluidMesh with another two friends. We built the first radios and in six months we had a deal with an Italian distributor. The real turning point was in 2010 when we found two big American investors.

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Ciao Cosimo, che ne dici di presentarti ai lettori di FUL ? Sono nato e vissuto a Firenze fino a diciannove anni, quando ho avuto la possibilità di seguire le mie due passioni, il mare e l’ingegneria. Al MIT di Boston infatti esiste il corso di laurea in Ingegneria Oceanografica: come non farsi affascinare dall’idea di progettare e utilizzare droni sottomarini, sommergibili e sonar subacquei? Soltanto grazie all’appoggio della mia famiglia, alla mia dedizione e non lo nego a un po’ di fortuna, sono riuscito a entrare in una delle università più prestigiose al mondo. Cosa ti ha portato a intraprendere un percorso da imprenditore, invece di diventare un “tranquillo” dipendente? È successo quasi per gioco, al MIT di Boston esiste una

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competizione dove puoi proporre il tuo progetto con un Business Plan. Mio fratello stava lavorando a dei protocolli Mesh per le reti wireless, mentre io mi stavo dedicando alla progettazione e costruzione di elettronica per ambienti marini. Unimmo le forze per proporre l’idea di un prodotto wireless per applicazioni di video sorveglianza. La competizione non fu un successo, ma il progetto diventò reale e decidemmo di creare FluidMesh convinti che avremo comunque imparato molto da questa piccola avventura. L’estate stessa due amici si convinsero a partecipare al progetto. Costruimmo le prime radio e in sei mesi ci trovammo a chiudere il primo accordo con un distributore in Italia. Ma la vera svolta fu nel 2010 quando riuscimmo


a coinvolgere due grossi fondi di investimento di Chicago che ci permisero di sviluppare molte delle nuove tecnologie che adesso abbiamo immesso nel mercato. In cosa consisteva la vostra idea e perché era innovativa? Abbiamo creato una radio che usa le stesse frequenze del wi-fi ma con un protocollo di linguaggio diverso. In poche parole abbiamo insegnato alla wi-fi un miglior linguaggio di comunicazione, questo ha permesso il trasferimento di immagini e suoni in alta definizione, accrescendo notevolmente le potenzialità effettive dei servizi di videosorveglianza. Posso dire che ad oggi, dopo circa undici anni, FluidMesh è il leader mondiale nel settore delle applicazioni di videosorveglianza. Oltre a questo abbiamo sviluppato, ormai quattro anni fa, la nuova soluzione per connettività veicolari per sistemi terra-treno. Pensa che i treni ad alta velocità e le metro delle grandi metropoli, usano il nostro sistema per connettersi alla rete. Pensi che restando in Italia avreste raggiunto gli stessi risultati? Credo di sì, ho molta fiducia nell’imprenditoria in Italia, anche se negli Usa è più facile fare impresa, c’è meno burocrazia e una mentalità più aperta verso tutto ciò che è nuovo. D’altro canto in Italia la competenza è altissima, infatti la maggior parte dei nostri ingegneri sono italiani e lavorano principalmente nella nostra sede di ricerca e sviluppo a Pisa. Un problema in cui ci

siamo imbattuti più volte è forse la mancanza di coraggio nel buttarsi in avventure nuove, si predilige spesso il posto fisso a dispetto di altre prospettive. Ci sono stati dei momenti in cui hai pensato di abbandonare tutto? Senza dubbio, ci sono stati dei momenti difficili, soprattutto nei primi anni. Credo che sia normale per chiunque faccia imprenditoria, non ci sono certezze sul futuro, lo stipendio spesso non esce fuori, l’importante è cercare di non mollare. Per fortuna ho tre partner in azienda con cui vado estremamente d’accordo e questo ci ha dato la forza necessaria per proseguire. Perché i soci sono importanti e come andrebbero scelti? I soci sono fondamentali, almeno un co-founder con la tua stessa visione e la tua stessa dedizione è essenziale a prescindere dal ruolo specifico in azienda. Chiaramente il socio deve avere delle capacità inerenti al progetto ma la cosa fondamentale è la voglia di mettersi in gioco. Soprattutto all’inizio serve qualcuno che riesca a tenere duro. Che ne dici di svelarci il segreto del vostro successo? In base alla mia esperienza posso dirti che non credo al mito del genio americano. Quello in cui credo sono le ore di lavoro e la capacità e l’umiltà di imparare continuamente. Quando hai un’idea realizzabile, un mercato interessato e dei soci idonei serve solo tanto, tanto, commitment. Questa grande dedizione al lavoro ti ha penalizzato nella vita privata? Be’ la famiglia mi manca ma ormai sono tanti anni che vivo a Boston e abbiamo trovato un nostro equilibrio. Fra poco mi sposerò con una ragazza italiana che ho conosciuto a New York e comunque non ho abbandonato la mia passione per il mare e la fotografia. (Cosimo ha anche un blog fotografico: www.cosimomalesci.com). Diciamo che ormai abbiamo “scollinato” e la parte più ingrata spero sia passata. • www.fluidmesh.com

What was your idea and why it was innovative? We created a radio that uses the same frequencies of wi-fi but with a protocol in a different language. In short we have taught wi-fi a better language of communication that allows the transfer of high-res sounds and images, increasing remarkably the effective potentialities of video-surveillance systems. After eleven years we are still leaders in the field. Besides we have developed a new solution for vehicular connectivity for train-to-ground systems. High-speed trains and metros in big cities use our system to go online. Do you think that in Italy you would have had the same results? I think so, I trust the Italian business world, although in Usa it’s easier to have a business, less bureaucracy and a more open mentality. But in Italy the skills are very high, as a matter of fact the majority of our engineers are Italians and work from our office in Pisa. Did you have moments in which you thought to quit everything? Of course, we had tough times, especially at the beginning. I think it’s normal, there are no certainties for the future. The important is not to give up. I am lucky to have three partners with whom I get along very well. Why are partners so important? They are fundamental. At least one of the co-founders needs to share your vision and passion. The most important thing is be willing to take a challenge and stay strong. What is the secret of your success? I don’t believe to the myth of the American genius. I believe in hours of work and the capacity and humility to keep learning. When you have an idea, an interested market and good partners you just need a lot of commitment. This incredible passion for your work affected your private life? I miss my family but now it’s a long time that I live abroad. Soon I’ll marry my girlfriend, an Italian girl I met in New York and I still have my passion for sea and photography (ww.cosimomalesci.com/). I think that now the worst has passed. •

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5di5 TUORLO DESIGN STUDIO by Kasia Nasilowska e Jessica Russo | Instagram | Facebook -> tuorlodesignstudio www.tuorlodesignstudio.com

Cofondato da Kasia Nasilowska e Jessica Russo, Tuorlo è uno studio di design che si occupa di prodotto e comunicazione, con sede a Firenze. Tuorlo Design Studio lavora in collaborazione con imprese artigiane italiane, insieme alle quali sviluppa i propri prodotti seguendone anche l’intero processo produttivo. «L’intenzione che abbiamo, ogni volta che ci troviamo di fronte a un nuovo progetto, è quella di rendere i nostri prodotti capaci di raccontare delle storie, oggetti narrati, così che possano trasformarsi in veri e propri abitanti delle case, figure familiari e presenze amichevoli». Co-founded by Kasia Nasilowska and Jessica Russo, Tuorlo is a design studio that deals with products and communication, located in Florence. Tuorlo Design Studio works in collaboration with Italian artisan businesses, with which develops its products following the whole productive process. «Our intention, every time that we have a new project ahead, is that of making products that tell stories, narrated objects that can be transformed into real inhabitants of our homes, familiar figures and friendly presences».

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ful uno straniero a firenze /\ un fiorentino all’estero

MAKA CHUBINIDZE

Mi chiamo Maka, ho 29 anni e mi sono trasferita a Firenze circa sette anni fa. Tutto è accaduto un po’ per caso, dopo che ho lasciato la mia città natale, Tbilisi (la capitale della Georgia), per andare in Germania in vista di un’esperienza all’estero. Poi, un po’ per caso o per destino, chissà, ho conosciuto una persona di cui mi sono innamorata che mi ha portato a Firenze. Qui ho sempre lavorato nel turismo, come cameriera, receptionist, commessa, e ora sto seguendo il corso di accompagnatore turistico, visto che il turismo sembra sia l’unico settore che funzioni in Italia! Ma oltre a questo, amo stare a contatto e relazionarmi con il pubblico, conoscere gente nuova da diversi angoli del mondo... quindi è decisamente quello che fa per me. Cosa porteresti a Firenze da Tbilisi? Porterei la mentalità delle persone. Infatti, nonostante Tbilisi conti più di un milione di abitanti, hai sempre la sensazione di vivere come in una grande famiglia: è facile creare amicizie ed entrare in confidenza con le persone, il che a Firenze manca un pochino. A parte questo, credo che non porterei niente né da una parte né dall’altra perché penso che tutti i posti siano magici a modo loro e che la loro vera bellezza risieda nel capirli e nel farsi assorbire da ciò che hanno da offrire, senza scambi e sostituzioni da uno all’altro. Cosa porteresti a Tbilisi da Firenze? Prima di tutto il cibo, che, inutile dirlo, è buonissimo. Ma anche lo stile di vita, il modo in cui le persone si vestono e si divertono mi piace molto. Come dicevo prima, ogni posto ha in realtà la sua bellezza nel suo essere diverso, ma credo che Firenze ne sia la regina mondiale, con la sua magia che ti contagia, da cui anche se parti resta un legame che ti trattiene e alla fine ti costringe a tornare. E questa sensazione me la porterei dietro ovunque viaggiassi nel mondo.

My name is Maka, I’m 29 and I moved to Florence almost seven years ago. Everything happened after I left my hometown, Tbilisi (the capital of Georgia), to go to Germany for an experience abroad. Then, by chance or destiny, who knows, I met someone I fell in love with who took me to Florence. Here I have always worked in tourism, as waitress, receptionist, shop assistant, and now I am attending the course to become tourist guide, since tourism seems to be the only sector that works in Italy! But in the end I love being in contact with the public and get to know people from different corners of the world... so it’s the right thing for me. What would you take to Florence from Tbilisi? I would take the mentality of people. Even if Tbilisi counts more than a million citizens, you always have the impression to live in a big family: it’s easy to make friends and get closer to people, in Florence this is missing. Apart from that, I think that all the places are magic in their own way and I wouldn’t take anything one way or the other. Their true beauty is getting to understand them and let yourself be absorbed by what they have to offer. What would you take from Florence to Tbilisi? First of all food, it goes without saying that is amazing. But also the lifestyle, the way people dress and have fun. As I was saying before, every place has its own beauty in being different, but I think Florence is the world queen, with its contagious magic. Even when you leave there is a bond that holds you and in the end you are forced to come back. This sensation I would take it with me anywhere I’d go. •

LORENZA ROBICCI

Sono Lorenza, 26 anni, grintosa maestra di sci e travel addict. Ho studiato per due anni in Germania ma la necessità di vivere all’estero non mi è ancora passata. Dubai è arrivata per caso: la conclusione di un rapporto lavorativo e la voglia di mettersi in gioco, in un luogo lontano da un affezionato gusto “sobrio” ma vivo, energico e dalle mille possibilità. Mi ha accolto con un’aria e una luce calda, un appartamento condiviso da ragazzi di mista provenienza (dall’India alla Russia) e uno spirito di condivisione che mi riporta ai tempi dell’Erasmus. Come base lavorativa un ufficio elegante e luminoso nello stiloso Design District, una bolla di aziende giovani e affermate ma con un denominatore comune: una grande energia lavorativa, un immenso desiderio di crescita e la possibilità concreta di veder realizzare un progetto. Cosa porteresti a Firenze da Dubai? Il coraggio di crescere. Dubai ha poco più di un secolo di storia e la sua vera crescita si è svolta negli ultimi 50 anni. Non è certo una città legata al passato ma, al contrario, stretta al futuro. Sicuramente la notevole disponibilità economica gioca un ruolo importante ma non credo che sia l’unica ragione del suo sviluppo. Spesso Firenze ha paura dei cambiamenti, di fare passi nuovi, di sbilanciarsi oltre al percorso che la sua lunga storia gli ha tracciato. Dubai in questo può essere modello. Una realtà che non teme di mostrare al mondo la sua evoluzione, ma che al contrario ne fa il suo punto di forza. Cosa porteresti a Dubai da Firenze? Porterei il gusto per le cose semplici. Una passeggiata in un parco, un picnic all’ombra e la possibilità di passare una giornata senza dover necessariamente fare shopping in un mall o salire sulla torre più alta del mondo. Porterei una piazza, con panchine, alberi e una fontana tonda, senza luci particolari o getti danzanti. Non la più grande o bella al mondo ma una piazza con due chioschini e musica dal vivo in cui poter godere del tempo spensierato.

I’m Lorenza, 26-year-old gritty ski instructor and travel addict. I studied for two years in Germany but the need to leave abroad has not yet passed. Dubai arrived by chance: at the end of a job and with the will to take a challenge in a place far from a “sober” taste but alive, energetic, full of possibilities. It welcomed me with a warm air and light, a flat shared by people of different origins (from India to Russia) and the same spirit of community I had during Erasmus. My elegant office is located in the stylish Design District, an area of young and successful companies whose common denominator is a great working energy, a huge longing for growth and the concrete possibility to succeed. What would you take to Florence from Dubai? The courage to grow. Dubai has got less than a century of history and its real growth happened in the last 50 years. It’s not tied to the past but attached to the future. They can count on a considerable amount of money but I don’t think this is the only reason of its development. Often Florence is afraid of changes, of taking new steps that go over the path that its long history has traced. In this sense Dubai can be a model. A reality that is not afraid of showing to the world its evolution, that is now its strenght. What would you take from Florence to Dubai? I’d take the flair for simple things. A stroll in the park, a picnic, the opportunity to spend a day without necessarily having to shop in a mall or to climb the highest tower in the world. I’d take a square, with benches, trees and a round fountain, without particular lights or water games. I don’t want the biggest or beautiful in the world just a piazza with some food kiosks and live music for having a good time. •

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la pagina dell'artista*

per il numero XXV è a cura di ANTONIO MALASPINA www.instagram.com/malaspinantonio | www.facebook.com/malaspinantonio

Antonio Malaspina è un artista italiano. Il suo lavoro spinge lo spettatore a rinegoziare l’arte come parte di un reattivo, per trovare un significato poetico nella vita quotidiana. Attualmente vive e lavora a Firenze. Antonio Malaspina is an Italian artist. His work drives the viewer to renegotiate art as part of a reactive, to find a poetic meaning in daily life. He currently lives and works in Florence. •

antoniomalaspina89@gmail.com .30


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I NOSTRI COCKTAIL NON CONTENGONO OLIO DI PALMA.

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