FUL | Firenze Urban Lifestyle #39

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anno

n • trentanove www.f irenzeurbanlifestyle.com

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prendimi

set - ott '19



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WIND ROSE musica

settembre - ottobre '19

ful - n. 39

www.firenzeurbanlifestyle.com

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SANDRA VÁSQUEZ DE LA HORRA arte

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MICHELE BORZONI

Settembre: Firenze si ripopola (non di gente ovviamente, ma di auto). Con la Rificolona tornano anche i bambini e i tanti festival del mese: dal Firenze Jazz a Firenze RiVista, Nextech, Cirk Fantastik, God is Green, Firenze Film Festival... E noi che si fa? Si fa anche noi una cosina... la Festa dell’Orto che la si terrà il 29 settembre alla Tenuta del Podestà. Una domenica in compagnia tra musica, cibo, street art, mercatini, vu’ venite, vero? Ovvia giù, vi aspettiamo!

La creatività non conosce confini: fotografia, moda, danza, musica, design, viaggi, letteratura, cinema, teatro, natura... qual è la vostra musa? Contattateci per proporre collaborazioni, articoli, eventi. Like us on Facebook. Tweet us. Follow us. Read us. Love us. www.firenzeurbanlifestyle.com FB: ful.magazine IG: ful_magazine Twitter: ful_magazine

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MUSEO VILLORESI musei

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Annalisa Lottini

AVETE QUALCOSA DA RACCONTARE?

fotografia

FLORENCE UNCONVENTIONAL LINK Aut. del Tribunale di Firenze n. 5838 del 9 Maggio 2011 Direttore responsabile Riccardo Basile Proprietario FMP Editore e realizzazione grafica Ilaria Marchi

Ideazione Marco Provinciali e Ilaria Marchi Coordinamento editoriale Annalisa Lottini Comunicazione e progetti Jacopo Visani Se sei interessato all’acquisto di uno spazio pubblicitario: marco@firenzeurbanlifestyle.com tel. 392 08 57 675 Se vuoi comunicare con noi ci puoi scrivere ai seguenti indirizzi: ufficiostampa@firenzeurbanlifestyle.com redazione@firenzeurbanlifestyle.com commerciale@firenzeurbanlifestyle.com Copertina: Etnik Titolo: Untitled

fumetto

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RISTORANTE PAOLI gusto

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FRANCO ZEFFIRELLI teatro

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TREKKING CALAFURIA natura

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ETNIK arte

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GENERAZIONE SLASHER rubrica

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LILIAN SETAGHAYAN pagina dell'artista

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ful musica

WIND ROSE: LE NUOVE DIVINITA DEL METAL PARLANO TOSCANO Il “mondo secondario” di J.R.R. Tolkien mai così vicino alla Toscana grazie ai Wind Rose, che stanno spopolando su YouTube con il loro ultimo singolo. Testo di Giulia Farsetti, Foto di Tommaso Barletta

«Ma una piccola figura scura che nessuno aveva notato sbucò dalle ombre con un roco grido: Baruk Khazâd! Khazâd ai-mênu! Un’ascia oscillò e cadde. Due Orchi piombarono in terra decapitati. Gli altri fuggirono.»

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parsi tra la provincia di Pisa e quella di Firenze, i cinque componenti dei Wind Rose (Francesco Cavalieri, Claudio Falconcini, Federico Meranda, Cristiano Bertocchi e Federico Gatti) hanno ideato un nuovo genere musicale: il Dwarven Metal, un power metal in chiave moderna con sfaccettature di folk, ispirato al mondo di Tolkien. Dal 2010 a oggi si contano più di 150 concerti di rilievo, milioni di visualizzazioni su YouTube e Facebook e 3 album; il quarto sarà rilasciato il 27 settembre 2019 ed è stato preceduto dal singolo Diggy Diggy Hole, che ha avuto un successo planetario con oltre 4 milioni di visualizzazioni in meno di due mesi. .4


Abbiamo incontrato il frontman della band, il cantante Francesco Cavalieri. Partiamo proprio da qui, vi aspettavate un successo del genere con il rilascio di Diggy Diggy Hole? Ci speravamo! Scegliere come singolo d’uscita la cover Diggy Diggy Hole è stata una mossa vincente perché ci ha permesso di avvicinarci al mondo nerd, che è rimasto colpito prima dalla canzone e poi si è affezionato al gruppo. Firmando con la Napalm Records, una delle più grosse etichette nel nostro campo, dovevamo dare un vero scossone nel panorama Metal… ci siamo riusciti con questo singolo e, con questo successo, è cresciuto molto anche l’hype per il nuovo album. Già due anni fa con il singolo To Erebor avevate raggiunto molte visualizzazioni online, si può dire che quella è stata la svolta? La vera svolta per la band è stata l’uscita di Diggy Diggy Hole, ma da un punto di vista di personalità del gruppo sicuramente To Erebor è stato un punto chiave; abbiamo suonato con gruppi importanti come gli Ensiferum, gli Epica, gli Ex Deo e abbiamo conosciuto Maurizio Iacono, che adesso è il nostro manager. Il vostro successo arriva principalmente dall’estero (Europa, America e Asia), ma in Italia? Cosa c’è di diverso qui?

Purtroppo in Italia fare musica è considerato un hobby e non un lavoro; preferiamo andare ai concerti di nomi famosi piuttosto che andare ad ascoltare band emergenti, quindi i locali che chiamano le band a suonare non pagano (o pagano poco), ma è comprensibile, considerando che il locale sarà probabilmente vuoto. È un cerchio senza fine e per ora non ci sono vie d’uscita. All’estero, invece, c’è una cultura della musica diversa, una coesistenza di generi che ti porta a esplorare anche le nuove realtà, senza un indottrinamento ben preciso (Festival di Sanremo e i vari talent musicali). Ma a febbraio 2020 tornerete a suonare a Milano con un tour europeo di 20 date, preceduto da un tour in UK a ottobre… Sì, con queste date promuoveremo il nostro nuovo album Wintersaga. Eravamo pronti anche per una ventina di date in America, ma per problemi burocratici legati alle nuove leggi sull’immigrazione siamo stati costretti a rinunciare. Cosa significa stare in tour all’estero per mesi? La cosa più particolare è la sensazione del ritorno a casa. Nel 2018 abbiamo fatto un tour di 42 giorni e 38 concerti e la nostra normalità era mangiare in autostrada, dormire su un mezzo in movimento, fare concerti e divertirci con i fan, una vera vita da nightliner, men-

Cerchiamo sempre di dare un tocco in più, di non accontentarci delle parole banali come “sword, fire, dragon”.

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tre quando sei a casa rimani lì, in attesa del soundcheck e di esibirti… la sfida vera è questa, reinventarsi nel quotidiano! Come nascono le canzoni dei Wind Rose? Le canzoni le scriviamo io, Claudio Falconcini e Federico Meranda. Dal punto di vista letterario, la difficoltà è riuscire a esprimere qualcosa in maniera poetica in una lingua che non è la nostra: noi cerchiamo sempre di dare un tocco in più, di non accontentarci delle parole banali come “sword, fire, dragon” e, quindi, di non scrivere cose scontate perché non interessano a nessuno, al contrario nei nostri testi c’è una ricerca spasmodica della parola giusta, che si differenzia da qualsiasi ordinario testo Power Metal. Ora è ancora più complicato. Ci siamo legati al mondo fantasy, nello specifico a quello del Signore degli Anelli e ancora più nel dettaglio, dei nani: è difficile trovare sempre qualcosa da scrivere… per questo aspettiamo sempre che ci sia la giusta ispirazione: è fondamentale che il testo venga di getto, poi lo sistemiamo e lo adattiamo, ma deve funzionare subito. Come vi siete avvicinati al mondo “dwarf ” e cosa dobbiamo aspettarci dall’ultimo album in uscita? Negli anni 2015-2017 c’erano due filoni inflazionati: il Viking Metal e il mondo degli elfi, soprattutto in riferimento a Tolkien. Noi ci siamo avvicinati alle sonorità del Viking e al fantasy di Tolkien a modo nostro, diventando la prima band al mondo a parlare dei nani. La prima canzone in cui se ne parla è del 2015 The Breed of Durin e all’epoca ebbe molto successo, quindi nel 2017 abbiamo fatto uscire l’album Stonheymn con due tematiche principali: gli indiani d’America e i nani, connubio interessante per parlare di due popolazioni (una reale e una fantastica) cacciate dalle proprie terre, che hanno combattuto e resistito strenuamente. Il passo successivo è stato naturale: era arrivato il momento di fare un album dedicato solo ai nani e così è nato Wintersaga; è il giusto equilibrio tra quello che piace alle persone e quello che piace fare a noi! •

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ENGLISH VERSION>>>> From the province of Pisa and Florence, the five components of the band Wind Rose (Francesco Cavalieri, Claudio Falconcini, Federico Meranda, Cristiano Bertocchi e Federico Gatti) have created a new musical genre: a modern Power Metal with some folk elements, inspired by Tolkien, and called Dwarven Metal. Since 2010 they have collected more than 150 concerts, millions of viewings on YouTube and Facebook, with three albums. The fourth will be released on 27th September 2019. We met Francesco Cavalieri, the frontman of the band. Diggy Diggy Hole is the first single of the new album and you have already had 4 millions viewings. Did you expect such a success? We were definitely hoping for it. It’s been a winning strategy because with this song we got closer to the world of nerd. Signing with Napalm Records, one of the biggest companies, we knew we could give Metal a real blow, and this happened with the single. Two years ago something similar happened with the single To Erebor. Was that the turning point of your career? The real turning point has been the release of Diggy Diggy Hole, but To Erebor has been a key for the definition of our personality. You have more success abroad (Europe, America, Asia). What about Italy? Unfortunately making music in Italy is considered a hobby and not a job; we prefer to go to famous people’s concerts rather than listen to debut bands, so nightclubs don’t pay much newcomers because they know the place will probably be empty. Abroad, instead, there is a music culture, a coexistence among genres that leads to explore new realities, outside mainstream culture. But in February 2020 you’ll play in Milan and you’ll start a 20-dateEuropean-tour, and before that you have a tour in UK in October… It’s the promotional tour for Wintersaga, the new album. We were supposed to go to US too, but we had problems with the laws on immigration. What does it mean to stay on tour abroad for months? The best thing is the sensation of going back home. In 2018 we did a 24-daytour and 38 concerts and our normal routine was eating on the motorway, sleeping on 4 wheels, having fun with the fans, a real nightliner’s life. When you’re at home you just have to wait the beginning of the soundcheck… the real challenge is this, reinvent yourself in the daily life! How do you write your songs? Claudio Falconcini, Federico Meranda and I write the songs. We try not to use the same banal words like “sword, fire, dragon”, we are constantly looking for the right word and now it’s even more complicated because we are linked to the world of fantasy and The Lord of the Rings, and more specifically to dwarves. What shall we expect from the new album? It’s completely dedicated to dwarves. Wintersaga is the right balance between what people likes and what we like to do! •


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ful arte

SANDRA VASQUEZ DE LA HORRA: AGUAS PROFUNDAS Al Museo Novecento fino al 17 ottobre la prima esibizione personale in un museo italiano dell’artista cilena. Intervista e brevi riflessioni con la curatrice della mostra, Rubina Romanelli. Testo di Martina Scapigliati, Foto di Leonardo Morfini

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andra Vásquez De La Horra, artista cilena contemporanea (Viña del Mar, 1967) è appassionata ed evocativa: di origine mestiza, è nata in una cultura che comprendeva quella spagnola e quella africana Yoruba, popolazione deportata ormai da secoli ma presente nelle zone dove è cresciuta, prima di partire per la Germania e studiare con Jannis Kounellis. Nel lavoro di Vásquez De La Horra, la testimonianza politica è forte, avendo l’artista vissuto la violenta dittatura di Pinochet. Non solo: nelle sue opere evoca le radici della cultura e delle tradizioni animiste. I suoi disegni, una volta compiuti, vengono immersi nella cera: questa fissa definitivamente la grafite sulla carta, che viene così indurita e colorata da un suggestivo tocco opaco. Nel lavoro di Vásquez De La Horra, prevale la figura femminile. Fondamentali e forti sono poi le influenze e le reminiscenze del paesaggio, che vanno a costituire il corpo umano e le abitazioni – come nella prima casa “aperta”, realizzata appositamente per questa mostra – fatta di laghi, nuvole, cielo, fiumi, alberi, arcobaleni. Oltre ai disegni, in mostra vi sono i “leporelli”, lavori tridimensionali: fogli piegati che diventano scultura. La piccola scultura Yo soy Casa, fa parte dell’ultimissima produzione dell’artista ed è la prima di una nuova serie. Paesaggi domestici e ritratti offrono una visuale affascinante e suggestiva, carica di spunti etici e antropologici, con potenti forze oniriche e immaginative. Messaggi universali meditati fanno riflettere sul ruolo della donna, la casa, i confini, il rifugio, la Natura madre. Titolare di un curriculum notevole, Sandra Vásquez De La Horra ha opere nelle collezioni del Museum of Modern Art (MoMA) di New York, Art Institute di Chicago, Morgan Library & Museum, MNAM - Centre G. Pompidou di Parigi, Bonnefantenmuseum di Maastricht, Pinakothek der Modern di Monaco e molte altre. Abbiamo incontrato e intervistato la curatrice della mostra, Rubina Romanelli. Rubina: raccontati in una mini-biografia. Sei curatrice in Italia per il Museo Novecento: in quali altri progetti collabori? Sono nata a Fiesole e ho la cittadinanza inglese. Provengo dalla dinastia di scultori fiorentini Romanelli. Pasquale, il primo, fu allievo di Lorenzo Bartolini (1777-1850). Ancora oggi la mia famiglia ha lo studio di scultura in Borgo San Frediano 70, dove hanno scolpito prima Bartolini e poi i nostri antenati e attualmente è gestito

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da mio fratello. Si tratta di una ex chiesa, una gipsoteca ricolma di sculture, luogo fascinosissimo e unico, che commercia sculture e offre corsi di scultura secondo tradizioni antiche. Ho lavorato in varie gallerie in Italia e all’estero. A Firenze nella mia galleria, poi da Alessandro Bagnai e a Londra come Gallery Manager da Sprovieri, lavorando con artisti come Jannis Kounellis, Ilya ed Emilia Kabalov, Nan Goldin… Ho ideato, organizzato e curato molti progetti indipendenti, tra cui un ciclo di aste di beneficenza in tre città italiane in collaborazione con Christie’s. Collaboro con la neonata associazione NOS che si occupa di produzione d’arte contemporanea e che ha vinto un bando dell’Italian Council, per un progetto con Flavio Favelli e più recentemente sta collaborando con il collettivo Alterazioni Video. Ho un proficuo rapporto col Museo Novecento e nell’ultimo anno ho curato due mostre: quella di Francesco Carone e quella in corso dell’artista cilena Sandra Vásquez De La Horra. Da agosto mi sono trasferita a Londra ma ho intenzione di continuare a creare ponti tra i miei due mondi e non solo. Qual è in concreto il lavoro del curatore? Come si fa a trasformare una passione in lavoro? Ho letteralmente l’arte nel sangue e anche se all’inizio non volevo seguire questa via, mi ci sono ritrovata. Il mio legame con l’arte è indissolubile, ma è in quella contemporanea e nel lavoro diretto con gli artisti che ho trovato la mia “vocazione”. Curare una mo-

stra significa innanzitutto prendersi cura del rapporto con l’artista, accarezzarne i progetti, talvolta sostenerli fino a renderli concreti seguendone i passaggi anche più pratici. Nel lavoro di curatore vi sono tante sfumature che talvolta non sono legate solo al discorso teorico di progettazione artistica o della produzione di testi, ma anche a ciò che si riesce a creare a livello più ampio, attraverso il dialogo tra artista, pubblico, istituzioni e altri soggetti interessati. Come hai conosciuto l’artista cilena Vásquez De La Horra? Ho conosciuto Sandra circa quindici anni fa, quando organizzai una sua mostra a Londra da Sprovieri; da allora sono innamorata del suo lavoro e la seguo. Negli ultimi due anni sono andata a vedere diverse sue mostre all’estero e pian piano ho ideato un progetto per il Museo Novecento che offrisse una visione del suo lavoro, incluse le recenti sperimentazioni, che sottolineano il passaggio dal disegno a una dimensione scultorea. Su quale criterio hai svolto la selezione delle opere e la scelta degli impianti espositivi? Le opere selezionate appartengono agli ultimi anni e comprendono disegni e opere tridimensionali. I disegni sono per la maggior parte di ampio formato; i suoi lavori tridimensionali, i “leporelli”, sono fogli piegati a fisarmonica che seguono lo stesso procedimento tecnico dei disegni, ossia vengono immersi nella cera. Le “case” sono disegnate sulle pareti esterne e infine due lavori inediti che saranno presentati

Messaggi universali meditati fanno riflettere sul ruolo della donna, la casa, i confini, il rifugio, la Natura madre.

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per la prima volta al Museo Novecento, di cui non svelo niente perché mi auguro che andrete a vederli. Mi premeva mostrare la complessità del mondo dell’artista e delle tematiche che emergono nel suo lavoro: il mondo latinoamericano, le sue origini indigene, il tema della migrazione, del sincretismo religioso, del disagio sociale, del rapporto uomo/donna e un filone più autobiografico ma che si fa universale, legato alla donna come madrepatria e come casa. Qual è la tua riflessione sul panorama artistico fiorentino? Il panorama fiorentino è in un momento di slancio, grazie alle piccole e grandi istituzioni e ai venti favorevoli dell’attuale amministrazione, in particolare al sostegno del sindaco Dario Nardella. Inoltre, grazie al Museo Novecento e al lavoro del suo direttore artistico Sergio Risaliti, la città si è attivata con innumerevoli progetti che si sono sviluppati non solo al museo ma anche al Forte Belvedere, in piazza della Signoria e in altre istituzioni. Palazzo Strozzi ha anche il merito di presentare mostre di artisti contemporanei molto conosciuti, alternandole a mostre storiche. Qual è stato il lascito di questa esperienza per te? E per l’artista? Sono orgogliosa e onorata di aver curato la prima personale in Italia di questa artista che all’estero è presente in collezioni davvero importanti. Sandra ha avuto l’opportunità di lasciarsi ispirare dalla storia della città e dalle opere del museo, soprattutto da quelle di Mario Sironi, creando dei nuovi lavori che sono esposti qui per la prima volta. È stata una grande soddisfazione aver potuto “nutrire” questa grande artista con del “materiale fiorentino”! La mostra, all’interno dello spazio Room, prosegue il ciclo di mostre di artiste donne iniziato con Maria Lai e successivamente con il duo Goldschmied & Chiari. Il Museo Novecento si trova in piazza Santa Maria Novella 10, Firenze • info@muse.comune.fi.it

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ENGLISH VERSION>>>> Sandra Vásquez De La Horra, contemporary artist from Chile, is passionate and evocative: her origin is mestiza, she is born in a culture half Spanish and half African Yoruba, then she emigrated to Germany and studied with Jannis Kounellis. In her work, politics is central, (she lived during the Pinochet dictatorship), but she also evokes her origins, there are many female characters and landscapes. Her works have been exhibited to MoMA in New York, Chicago Art Institute, Morgan Library & Museum, MNAM - Centre G. Pompidou in Paris and many others. We met the curator of the exhibition, Rubina Romanelli. Rubina: what’s your story? I was born in Fiesole but I have British citizenship. I belong to a dynasty of Florentine sculptors and my family still has a studio in Borgo San Frediano 70. I worked in many galleries here and abroad, having the chance to know artists such Jannis Kounellis, Ilya and Emilia Kabalov, Nan Goldin… Recently I have curated two exhibitions for Museo Novecento: Francesco Carone and Sandra Vásquez De La Horra. What does it mean to be a curator? Art is in my blood, literally, and although at the beginning I didn’t want to be in this world, then I found my vocation in the direct work with the artists. Curate an exhibition is first of all curate the relationship with the artist, support him/her and deal with the most practical things. How did you meet Vásquez De La Horra? I met her more or less 15 years ago, when I organized her exhibition at Sprovieri in London. In the last two years I followed her and then I came up with a project for Museo Novecento. How did you choose her works? They belong to the last years and comprehend drawings and tridimensional works, the so-called “leporelli”. The “houses” are on the external walls and there are also two new works. I don’t want to spoil the surprise to the reader who should come to see it firsthand. I wanted to show the complexity of the artist’s world and her themes: Latin America, migration, religion, the role of men/woman. What do you think about the Florentine art world? It’s a good moment, thanks to small and big institutions and to the actual administration, the support of Mayor Nardella and the work of Sergio Risaliti, artistic director of Museo Novecento. What have you received from this experience? And the artist? I am proud and honoured to have curated this first exhibition in Italy. Sandra had the opportunity to be inspired by the city and the other works in the museum. It’s been a satisfaction to nurture this artist with Florentine material! •


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ful fotografia

WORKFORCE: LA “FINE DEL LAVORO” PER IMMAGINI FUL incontra il fotografo Michele Borzoni in occasione dell’uscita del suo libro fotografico. Una raccolta di scatti che testimoniano il declino dell’occupazione in Italia. Testo di Francesco Sani, Foto di Michele Borzoni

Cooperativa Bolfra, Castelfiorentino (FI), 2017. Cooperativa di workers buyout fondata nel 2012 da 8 ex dipendenti. Attualmente 23 persone lavorano nella cooperativa specializzata in profili in legno per cornici.

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artiamo da un assunto solenne: «L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro». Così recita il primo articolo della nostra Costituzione, ma quale tipo di lavoro e quanto ancora incide sulla formazione del PIL? Quello inteso come occupazione salariale ha perso progressivamente di valore rispetto al capitale dalla metà del Novecento. Dal 2000, poi, il confronto è spietato, in Italia come in ogni paese ad economia avanzata. In termini monetari questo significa un arretramento enorme nella distribuzione del reddito. Sempre più precario e sempre meno concorrente alla ricchezza nazionale, “il lavoro” ha ormai un significato diverso per chi è nato a partire dagli anni ’80 rispetto alla generazione dei padri costituenti.

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Workforce di Michele Borzoni, edito da L’Artiere, è un’opera fotografica che si inserisce in un momento topico della storia economica contemporanea. La grande crisi, scatenata con la fine della bolla speculativa della finanza nel 2008, attaccando l’economia reale, ha avuto come nefasta conseguenza proprio la riduzione dell’occupazione. Di contro, il capitale ha aumentato la sua rendita in maniera impensabile fino a non molto tempo fa, spinto da nuove forme di creazione di valore. È la new economy, quella di Amazon ad esempio, che guadagna sulla movimentazione delle merci e non sulla loro produzione. Ecco quindi fotografie di centri logistici, ma anche palazzetti dello sport ospitanti migliaia di candidati per un concorso pubblico da pochi posti, call centre, aste fallimentari, capannoni dell’industria manifatturiera dismessi, picchetti sindacali a difesa di lavori che stanno per sparire o semplicemente in trasferimento all’estero dove costano meno. Perché anche “la crisi” ha fatto un lavoro: pulizia. Gli spazi fotografati da Borzoni sono l’istantanea di un mondo che è stato investito da un cambiamento epocale. Poi c’è l’attualità dell’immigrazione, testimoniata dai braccianti stranieri, in condizioni di vita anche peggiore di quelli che Karl Marx definì “sottoproletariato urbano” nel 1848. Si chiude con una nota di speranza: le foto che immortalano quei lavoratori licenziati e ripartiti proprio con il recupero delle loro fabbriche fallite. Ho incontrato il fotografo, membro del collettivo Terra Project, e scambiato due chiacchere sulla sua ultima opera. Workforce rappresenta uno spaccato della situazione occupazionale dell’ultimo decennio. Come nasce? Questo progetto nasce dalla necessità di raccontare le difficoltà del nostro presente. Per tanti anni mi sono dedicato a una ricerca fotografica su temi e luoghi spesso esotici. Con questo progetto invece ho sentito l’esigenza di parlare alle persone della mia generazione. Infatti ho cercato di raccontare un tema che in qualche modo chiamasse direttamente in causa chi osserva le foto. Perché compra su Amazon o sceglie i vestiti del Made in Italy, oppure perché riceve chiamate dai call centre, o forse più semplicemente perché conosce qualcuno che sta cercando un impiego. Nel 1995 il saggio di Jeremy Rifkin The End of Work divenne un bestseller internazionale. Prevedeva il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato. Oggi il tuo libro immortala lo scenario da lui profetizzato? Sicuramente stiamo vivendo un momento di cambiamento molto importante, molto più di quello che pensiamo. L’ingresso nella quarta rivoluzione industriale ne è soltanto un esempio. Certamente il sistema, inteso come quello capitalistico, credo che rimarrà per molti anni ancora a venire. I distretti industriali toscani non sono stati immuni alla crisi economica e sono presenti nelle tue fotografie. Che idea ti sei fatto

Questo progetto nasce dalla necessità di raccontare le difficoltà del nostro presente.

Ufficio regionale di Poste Italiane, Firenze, 2015. Presidio sindacale dei dipendenti dell’azienda.

Call&Call, Pistoia, 2015. Call center della Call&Call, 250 dipendenti di cui 80% donne con età media di 35 anni.

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sulla nostra realtà locale, per quello che hai potuto testimoniare? Le mie sono immagini molto evocative, seppur con un linguaggio abbastanza oggettivo. La maggior parte delle aziende che hanno chiuso non sono riuscite a reggere il confronto nel mercato globale. Quelle che invece hanno puntato sull’eccellenza e la qualità si sono ritagliate la loro nicchia di mercato. La parte di Workforce che preferisco è quella finale, le foto ai lavoratori che hanno rilevato la loro fabbrica fallita e sono ripartiti. È un messaggio di speranza? Sì, infatti è l’unica serie dove gli operai tornano al centro della scena, guardano l’obiettivo della macchina fotografica da protagonisti e si riprendono il loro futuro. È una speranza data dal lavoro collettivo e cooperativo, orizzontale, che restituisce dignità ai lavoratori. •

Manifattura della Robbia, Montemurlo (PO), 2015. Vendita all’asta in III incanto dei beni appartenenti al fallimento della Manifattura della Robbia, azienda di filatura a Montemurlo.

ENGLISH VERSION>>>> Work for the people born in the ’80s has a different meaning compared to the people who saw the birth of our Constitution and decided to found our republic on it. Michele Borzoni’s Workforce is a photographic reportage about the effects of the so-called new economy (Amazon, for example, earns money moving wares not producing them). Borzoni represents with his pictures taken in warehouses, factories, call centres a world that has gone through a massive shift. How was born the idea for this project? For many years my photography concentrated on themes and exotic places, with this project I felt the need to talk to the people of my generation: the one who buys on Amazon or chooses Made in Italy clothes. In 1995 Jeremy Rifkin’s The End of Work was an international bestseller. It foresaw the decline of global workforce and the coming of postmarket era. Is your book portraying the scenario he prophetized? We are living a crucial moment of change. The start of the fourth industrial revolution is just an example. But I think that the capitalistic system will last a few more years. What is your idea about the Tuscan industrial districts? My images are very evocative although they use a rather objective language. The majority of the factories that had to shut down couldn’t stand the competition with the global market, the ones who chose excellence have conquered a niche in their market. I like in particular the last part of Workforce. Is there a message of hope there? Yes, it is the only series in which workers come back at the centre of the scene, they have taken back their factory and look ahead to the future.• .14

Travertino Toscano, Rapolano (SI), 2017. Cooperativa di workers buyout fondata nel 2011 da 15 ex dipendenti dello storico stabilimento di produzione di travertino.


ful musei

IL MUSEO VILLORESI E LA METAFISICA DEL PROFUMO Nasce a Firenze il primo museo in Italia dedicato all’arte della profumeria. Testo di Valeria Cobianchi, Foto di Museo Villoresi

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musei sono luoghi pensati e dedicati alla raccolta e all’esposizione al pubblico di opere che hanno un interesse artistico, storico o scientifico; l’origine del termine si riferisce al luogo sacro dedicato alle Muse che nell’antica Grecia erano divinità minori, ma di vitale importanza poiché rappresentavano l’ideale supremo dell’arte, l’espressione eterna e immutabile del divino. L’idea di museo è cambiata nel corso dei secoli nella progettazione e negli oggetti d’interesse, materiali o virtuali che siano, tuttavia mantiene intatto il concetto di spazio contenitore di opere esemplari. Visitare il museo Villoresi significa scavalcare letteralmente i confini del museo per compiere un viaggio tra gli odori e l’arte del profumo, perché in questo luogo l’arte, l’abilità e la creazione si fondono insieme come negli antichi mestieri che si praticavano nelle case medievali. Non a caso il museo si trova nel palazzo quattrocentesco della famiglia Villoresi in via de’ Bardi ed è stato inaugurato il 1 giugno 2019 da Lorenzo Villoresi, maestro profumiere fiorentino insignito nel 2006 del prestigioso Prix François Coty. Il progetto nasce dal desiderio di condividere l’esperienza di tanti anni nell’arte del profumo e di far conoscere l’origine e i segreti del mestiere a chiunque desideri intraprendere un viaggio millenario nel mondo dell’olfatto. A fare gli onori di casa è proprio Ludovica, moglie di Lorenzo Villoresi, guida ufficiale di tutto il percorso che si snoda su tre piani di sale, ambienti dedicati allo studio e agli incontri, una cucina – il mondo del cibo è strettamente legato agli odori – e un giardino interno che contiene più di 80 specie di piante aromatiche provenienti da tutto il mondo, di cui è possibile annusare la fragranza attraverso foglie, fiori e scorze dei frutti. Il visitatore è letteralmente iniziato a un percorso olfattivo vero e proprio, partendo da un dizionario di


parole usate in profumeria, redatto dallo stesso Villoresi, il quale prima di diventare profumiere aveva studiato filosofia: infatti gli odori vengono descritti in diversi modi. «Ciò che è dolce per un enologo, non è detto che lo sia per un micologo: occorre mettersi d’accordo e usare i termini correttamente» afferma Ludovica. Con lo stesso rigore scientifico sono presentate le diverse tecniche di estrazione delle materie aromatiche e la genesi del processo olfattivo nell’uomo; la percezione di un odore scatena stimoli potentissimi nel cervello umano, che richiama immediatamente alla memoria un oggetto, un ricordo, un pericolo. Seguono pannelli interattivi che ripercorrono l’evoluzione del profumo nella storia e illustrano le antiche rotte commerciali in cui viaggiavano le materie prime aromatiche necessarie alla loro creazione: grazie a piccole teche di vetro che contengono il prodotto da cui ha origine l’essenza, è possibile osservare ma anche annusare, incensi e resine dallo Yemen, spezie come il pepe, la noce moscata, il cacao, e gli agrumi considerati i re dei profumi perché se ne possono sfruttare i fiori, le foglie e la scorza, per giungere poi ai cosiddetti “fiori impossibili”, fiori che possiedono odori intensi ma la cui fragranza è impossibile da distillare: mughetto, gardenia e persino l’iris di cui la Toscana è la più grande produttrice di rizomi in Italia, ma che vengono appositamente distillati in Francia. Essenze rare e preziose giungono poi dal mondo animale come l’ambra grigia ricavata da una specie particolare di cetaceo; è quasi un istante unico e irripetibile ma nello stesso tempo famigliare quando il visitatore annusa l’essenza di civetta, sostanza usata nell’arte della profumeria come il più conosciuto musk, sostanza emanata dal cervo. L’apice di questo viaggio multisensoriale si tocca entrando nell’Osmorama, che assomiglia alla stazione di una navicella spaziale, ma che in realtà è una collezione di essenze antiche e moderne, naturali e sintetiche dove l’aggettivo sintetico non è inteso nella sua accezione negativa di “artificiale” ma è colto nel suo significato

di prodotto di sintesi. Qui trovano posto le essenze di nuova generazione come l’odore di erba tagliata e di marshmallow, che arricchiscono il bagaglio olfattivo e consentono a un “naso” di avere più possibilità creativa. Queste essenze, oltre a incontrare le direzioni più innovative e contemporanee della profumeria, permettono di trasformare un’idea di profumo in qualcosa di oggettivo e tangibile, quasi una metafisica delle essenze: esistono procedimenti scientifici e strumentazioni tecnologiche all’avanguardia che sorvolano la Foresta Amazzonica catturandone l’atmosfera e trasformandola in un’essenza. Il viaggio si avvia alla conclusione con la spiegazione dei diversi procedimenti di combinazione delle molecole di un’essenza che portano un maestro profumiere a creare un profumo unico e inimitabile, frutto di competenze scientifiche ed estro creativo; in realtà ciò che lascia al visitatore il museo Villoresi è il desiderio di continuare un cammino che apre mille interrogativi, curiosità e sensazioni. Del resto è proprio il compito di un profumo quello di prendere per mano chi lo indossa e condurlo chissà dove, e i profumi creati da Villoresi, acquistabili nella boutique d’entrata del palazzo, riescono a farlo perfettamente. •

Un viaggio millenario nel mondo dell’olfatto.

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ENGLISH VERSION>>>> Visiting Museum Villoresi is a journey through the sense of smell and the art of perfume. It is located in via de’ Bardi, in the XVth-century-building owned by Villoresi family and has been opened last June by Lorenzo Villoresi, Florentine perfumer master that won in 2006 the prestigious Prix François Coty. The project was born from the will to share his experience of many years and to disclose the secrets of this craft. Ludovica, Lorenzo’s wife, is the official guide of the three-floor-exhibition. There are studios, meeting rooms, a kitchen and a garden that contains more that 80 species of aromatic plants, of which you can smell the leaves, flowers, woods, fruits. It is a real olfactory journey: from the dictionary of perfumery, to the extraction techniques, to the history of perfume and its raw materials; and then the Osmorama, a sort of spaceship which in reality is a collection of ancient and modern essences, natural and synthetic (produced by synthesis). There are also essences of the new generation such as the smell of cut grass or marshmallow that enrich the olfactory baggage of the perfumers. The journey ends with the explanation of the different procedures to combine the molecules of the essences. And of course you can buy Villoresi’s creations in the boutique at the entrance of the palazzo.•


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ful gusto

RISTORANTE PAOLI, IL PIU ANTICO RISTORANTE DI FIRENZE Dal 1827 punto di riferimento del mangiare bene in città. Testo di Marco Provinciali, Foto di Luca Managlia

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n una tarda mattinata di luglio abbiamo avuto il piacere di sederci al tavolo di questo “prezioso” ristorante situato nel cuore di Firenze. In via dei Tavolini ovvero quella via che un tempo fungeva da confine fra i due quartieri di Santa Croce e di San Giovanni e che veniva chiamata “la via dei lanaioli” dato che sin dal quattrocento si concentrava qui la maggior parte delle manifatture dell’Arte della Lana. Ed è proprio da un negoziante di lana, Angelo Banchelli, che in questa via, a inizio ’800, Pietro Paoli prese in affitto un locale al piano terra per aprirvi la sua pizzicheria. Era il 1827 e così si iniziò a scrivere la storia della ristorazione fiorentina. Seguendo le tracce lasciate dai suoi avventori si evince che la pizzicheria divenne ben presto un’istituzione nella cottura dei fagioli che venivano accompagnati (come tradizione fiorentina comanda) sia dalla carne che dal pesce oppure con il caviale di cui durante l’800 al porto di Livorno si trovavano numerose botti. Ovviamente non mancavano i fagioli all’uccelletta buoni oltretutto per la “scarpetta”, che ai tempi non era solo un vezzo bensì un importante “rinforzino” per la dieta quotidiana. Negli anni ’30 del ’900 il ristorante divenne apprezzato per le sue carni, sia per il quinto quarto sia per il “roast beef ”, lo stufatino, l’ossobuco e le cotolette con salsa di pomodoro e acciuga. Negli anni fra le due guerre la bistecca alla fiorentina e le pollastrelle arrosto iniziarono a divenire i piatti più richiesti. Pochi esercizi degli storici sopravvissero al cambiamento della società moderna e del nuovo concetto di ristorazione, uno dei pochi fu proprio il Paoli che seppe trasformarsi da pizzicheria/osteria in trattoria. Entrare al Paoli dopo aver scrutato le vetrine di via dei Calzaiuoli e aver fatto lo slalom tra le numerose comitive di turisti è immergersi improvvisamente in una piacevole atmosfera elegante ma familiare. Camerieri in pantaloni neri, camicia bianca e papillon ci accompagnano al tavolo, nella Saletta delle Rose (abbiamo pranzato in una delle salette interne affrescate da Galielo Chini nel 1919), per proporci un menù da vera trattoria. Trattoria con la T maiuscola, concetto tutto italiano di ristorazione, dove si conservano e si difendono i valori del buon mangiare alla casalinga. Qui si proteggono con amore le ricette più autentiche della nostra

Era il 1827 e il Paoli iniziò a scrivere la storia della ristorazione fiorentina.

Costanza Fontani

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Staff

tradizione gastronomica. Al Paoli non solo si trovano le ricette di un tempo realizzate secondo tecniche moderne, ma anche l’atmosfera di ambiente dal carattere rurale ma decisamente confortante, proprio come l’iconografia della trattoria esige. Di fatto il ristorante è oggi parte del brand toscano “Casa Trattoria” di proprietà delle famiglie Fontani e Verrecchia, che comprende ben 9 ristoranti a Firenze, due a Milano e uno a Forte dei Marmi tutti accomunati dalla medesima mission, ovvero: promuovere, valorizzare e salvaguardare la cucina della tradizione gastronomica toscana. •

Il libro degli ospiti del ristorante Paoli ha più di 1000 pagine su cui hanno lasciato la propria firma personaggi illustri di oltre un secolo di storia mondiale. Troviamo tra gli altri: Giacomo Puccini, Ruggero Leoncavallo, Renato Fucini, Sergio Tofano, Pirandello, Marinetti, Charlie Chaplin. In tempi più recenti: Sergio Staino, Milo Manara, Eugenio Scalfari, Claudia Schiffer, Dacia Maraini, Gianni Morandi. .22


Zuppa alla fiorentina

Cuore di baccalà alla Paoli

CHE COSA VI CONSIGLIAMO DI MANGIARE? Gran selezione di salumi, pecorini dop e crostini toscani Pici caserecci al ragù toscano Trippa alla fiorentina Cuore di baccalà alla Paoli Zuppa alla fiorentina

ENGLISH VERSION>>>> Ristorante Paoli is in via dei Tavolini, between the neighbourhoods of Santa Croce and San Giovanni. The street once was home to the majority of the wool manufacturers, called lanaioli, and it’s from one of them, Angelo Banchelli, that Pietro Paoli bought the venue for a grocery shop at the beginning of XIXth century. 1827: the start of the history of Florentine catering. Following the traces left by its customers, we know that the grocery shop became soon very famous for his beans cooked with meat or fish, or even caviar (from Leghorn’s harbour), and fagioli all’uccelletta with which you could clean your dish (fare scarpetta, we say). In the 1930s the restaurant was appreciated for quinto quarto and roast beef, stew, ossobuco and breaded cutlet with tomato and anchovy sauce. In the years during the two world wars, Florentine steak and rooster were the most requested. Few historical activities survived the change over the years and the rise of a new concept of catering, Paoli is one of them: from grocery shop to tavern and now trattoria. So when you enter the restaurant you find a pleasant atmosphere, elegant but familiar. Waiters dressed in black with papillon lead us to the Roses’ room (with frescoes from Galileo Chini, 1919). The menu comprises authentic recipes from the tradition realized with modern techniques. Today the restaurant is part of Casa Trattoria brand and owned by Fontani and Verrecchia families.•

Trippa alla fiorentina

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ful teatro

FRANCO ZEFFIRELLI: QUEL CHE LA CUPOLA ISPIRO Un ritratto del regista da poco scomparso. Il rapporto intenso tra Zeffirelli e Firenze. Testo di Rita Barbieri, Illustrazione di Pietro Tatini

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erte appartenenze non si possono scegliere. Non si possono scegliere la famiglia di origine, la nazionalità, i tratti somatici. Certe altre invece, sì. Si può scegliere un nome d’arte, un credo politico, una città da abitare. Perfino una nuova identità. Ogni artista, a un certo punto, si trasforma: esce da ciò a cui appartiene e diventa altro, quello che sceglie di essere. Appartenenze e scelte, un’altalena su cui Zeffirelli si è beffardamente dondolato tutta la vita. Era nato fuori dal matrimonio e, per questo, la madre lo fece registrare con il cognome inventato di Zeffirelli, lasciandosi ispirare dall’Idomeneo di Mozart, in cui compaiono gli ‘zeffiretti’: il cognome gli si adatta talmente bene che diventa ben presto il suo nome d’arte. Studia a Firenze, prima con Giorgio La Pira e poi all’Accademia di Belle Arti, dove il suo talento artistico inizia già a emergere. Ma è solo dall’incontro con Luchino Visconti, nel secondo dopoguerra che la sua cifra artistica arriva alla ribalta del pubblico. Proprio con Luchino Visconti, Zeffirelli avrà anche una lunga e travagliata storia d’amore, consumata – in tutti i sensi – nella villa romana del regista. Un talento irrequieto che trova espressione e spazio nel teatro: l’opera è il suo regno, il mondo lo acclama, perfino la reticente Maria Callas si lascerà convincere a tornare sulle scene soltanto grazie a lui. D’altronde il dramma e lo splendore, la depressione e lo sfarzo, la passione e la tragedia sembrano essere quegli stessi sentimenti che si agitano nel suo animo: «Ho sempre pensato che l’opera sia un pianeta dove le muse lavorano assieme, battono le mani e celebrano tutte le arti» dice. Una drammaticità vivida, maestosa e imponente che si percepisce negli allestimenti, nelle opere, nei progetti abbozzati. Nei film. Se il teatro, in particolare la lirica, sono il suo habitat naturale, anche il cinema lo tenta: tra il 1996 e il 1999, infatti, dirige due film di grande successo, Jane Eyre e Un tè con Mussolini, l’ultimo ambientato a Firenze e liberamente ispirato a fatti della sua infanzia. Continua indomito a lavorare fino al 2019: muore il 15 giugno, giusto il sabato precedente alla prima della Traviata di cui ha curato la regia. Una vita consacrata all’arte ma non solo: in lui il fuoco arde anche per un’altra passione, quella politica. Cattolico, anticomunista, molto vicino al centro-destra e amico intimo di Silvio Berlusconi, viene

eletto Senatore della Repubblica nel 1994 nelle liste di Forza Italia e riconfermato nel 1996. Nonostante fosse dichiaratamente omosessuale, non ha nessuna simpatia per il movimento gay che critica aspramente nei suoi interventi pubblici. L’arte, la lirica, il teatro, il cinema, la politica... il quadro non sarebbe completo se non citassimo, tra i grandi amori di Zeffirelli, quello per la sua città di origine: Firenze. A partire dalla fede calcistica, con la devozione più completa e totale alla Fiorentina e l’avversione (nemmeno poi tanto celata) per la Juventus, Zeffirelli nel corso della sua lunga carriera ha ripetutamente e indiscretamente omaggiato Firenze. Che fosse il set di uno dei suoi film, oggetto di documentario o fonte di ispirazione, Firenze ha avuto un significato profondo per il regista. In una delle sue frasi più famose Zeffirelli dice: «Quando sento che mi prende la depressione, torno a Firenze a guardare la cupola del Brunelleschi: se il genio dell’uomo è arrivato a tanto, allora anche io posso e devo provare a creare, agire, vivere». A giudicare dai suoi numerosi successi, quella cupola deve averla guardata infinite volte. Alla Firenze alluvionata, per esempio, Zeffirelli ha dedicato un toccante docufilm: Per Firenze, appunto. Un emozionatissimo Richard Burton, in un italiano un po’ malfermo, fa appello alla coscienza di tutti per salvare quella città che è stata vittima – anche se non succube – di una tragedia: l’alluvione del ’66. Seguono immagini in bianco e nero che mostrano devastazione, ma anche forza e volontà di riscatto. Era un omaggio doveroso che l’artista voleva rendere a quella città a cui egli apparteneva. O a cui aveva scelto di appartenere. Una figura dai forti contrasti, capace di suscitare sentimenti altrettanto contrastanti nel suo pubblico. Successi, insuccessi, cadute rovinose e iperboliche ascese: un’altalena continua e incessante da cui, a un certo punto, a 96 anni anche lui è dovuto scendere, mentre era ancora in movimento. Resta però pur sempre quella cupola, a fare da ispirazione agli artisti di ieri, di oggi e – speriamo – di domani. •

Successi, insuccessi, cadute rovinose e iperboliche ascese: un’altalena continua e incessante.

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Si ringrazia la Fondazione Franco Zeffirelli Piazza San Firenze, 5 Tel. 055 281038


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ful natura

I LOVE TREKKING: MARE E MONTI A CALAFURIA Litorale profondamente inciso, falesie a picco sul mare, leccete con uno sguardo all’orizzonte, venti di storia e leggenda che spirano da molto lontano. La Costa degli Etruschi inizia così. Testo e foto di Benedetta Perissi

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a Costa degli Etruschi: già a sentir parlar di loro la mente vaga lontano, in atmosfere affascinanti e sfuggenti, ignote, ma che in qualche modo sembrano risvegliare un déjà-vu, una storia primordiale che anche al fiorentino più campanilista induce un pensiero: «Non solo il cupolone è la mia culla». Anche i venti e le onde che prorompenti si infrangono sulle scogliere livornesi, suscitano il fascino, la potenza, il senso selvaggiamente familiare di quando ci si trova al cospetto di nostra Santa Maria del Fiore. All’inizio della Costa degli Etruschi ci si imbatte in Calafuria e la sua torre, che sia bel tempo o brutto tempo, non si può fare a meno di fermarsi. Se il mare è calmo, niente fa più voglia di scendere la scogliera e immergervisi, se il mare è arrabbiato e il cielo minaccioso, niente di più affascinante, anche il nome stesso lo rimanda, è lo spettacolo dell’impeto del mare che affronta e sfida la scogliera e la torre, una tempesta fuori che sembra cullare e placare la malinconica tempesta dentro, che ognuno ha i suoi tormenti. La costa è frastagliata e in molti punti impervia, con falesie che si incuneano nelle acque blu e cristalline del Mar Ligure, sì, non il Mar Tirreno. È tradizione e convenzione comune far partire il Tirreno dal confine ligure ma geograficamente non è corretto, parte da una linea ideale tirata da Piombino alla Corsica in giù. Proprio per la costa così frastagliata, per volere della nostra tanto amata famiglia dei Medici, vennero costruite numerose torri d’avvistamento lungo il litorale livornese, da ogni postazione era necessario vedere quella vicina, per diffondere prontamente i segnali d’allarme alla città di Livorno, per minacce provenienti prevalentemente dal mare come quella dei pirati, che in epoca medievale e rinascimentale infestavano quei mari. La Torre di Calafuria e le vicine torri del Maroccone o del Diavolo, integrata oggi nel Castello del Boccale e di San Salvatore, l’attuale Castello Sonnino, facevano parte di questo sistema difensivo. Persi i suoi scopi difensivi, la Torre di Calafuria nel secolo scorso fu studio e dimora, fino a primi

Ettari di natura incontaminata, lontani dal caos estivo delle spiagge livornesi, e quando l’uomo non c’è, si sa, gli animali ballano o meglio, la fauna prospera. 27.


anni duemila, dell’artista livornese Alberto Fremura, che confinato fra mura cariche di storia a picco sul mare diede ispirazione al suo estro. Ma Calafuria non titola soltanto una torre situata in uno dei tratti più belli della Costa degli Etruschi, nomina anche la natura sorprendentemente rigogliosa che vi è alle spalle del litorale. La Riserva naturale di Calafuria fu istituita per tutelare l’ambiente naturale di particolare pregio che vi è in questa zona. Si spinge per circa 16 ettari nell’entroterra, comprendendo la parte occidentale dei Monti Livornesi, tutelando ombreggianti boschi di leccio e la profumata macchia mediterranea che lascia spazio a panorami sul mare e la costa mozzafiato. Ettari di natura incontaminata, lontani dal noto caos che si riversa sulle spiagge livornesi soprattutto nel periodo estivo, e quando l’uomo non c’è, si sa, gli animali ballano o meglio, la fauna prospera; molte sono le specie selvatiche che abitano questi boschi, anche specie piuttosto rare. La riserva offre esperienze trekking alla portata di tutti ed è irradiata da una sentieristica che conduce, con dislivelli non troppo impegnativi, a scoprirne la natura e gli scorci che si aprono sulla Costa degli Etruschi, raggiungendo anche il borgo di Montenero, dove sorge l’omonimo santuario, meta di pellegrinaggi fin dal lontano Medioevo. Altrimenti detto Santuario della Madonna delle Grazie, attualmente è sotto la custodia dei monaci benedettini di Vallombrosa: che si abbia molta o poca fede, è un luogo da visitare, se non altro per rimanere sorpresi dalla quantità e dalla storia intrisa di leggenda degli ex-voto, conservati nella galleria lungo i fianchi della chiesa. Se all’andata qualche panorama può sfuggire perché si sale dando le spalle al mare e per un po’ di fatica sulle gambe, al ritorno non ci sono distrazioni, la macchia mediterranea e i paesaggi sono oltre l’orizzonte. Si scende così di nuovo alla torre, dove oggi c’è un bar, per prendere una bibita fresca, estremamente soddisfacente dopo una giornata di escursione, e andarsi a godere un aperitivo a picco sul mare, a sedere sulla scogliera, a toccar quasi il tramonto. Per informazioni e prenotazioni sull’escursione scrivere a redazione@firenzeurbanlifestyle.com .28

ENGLISH VERSION>>>> The Etruscan Coast: just naming them evokes ancient unknown atmospheres, a déjà-vu, a history that can induce even the most parochial Florentine the thought: «Not only the cupola is my cradle». The winds and the waves that breaks on the Livorno cliffs cause the same fascination and sense of power as Santa Maria del Fiore. At the beginning of the Etruscan Coast we bump into Calafuria and its tower and with good or bad weather it’s impossible not to stop. If the sea is calm, you’ll want to climb down the cliff and take a swim, if it’s angry and threatening, you’ll be hypnotized by the view: the impetus of the sea who challenges the cliff and the tower, a storm outside that rocks the one everyone has got inside. The coast is jagged with many cliffs that enter the clear blue waters of the Ligurian Sea, yes, not the Tyrrhenian one. The tradition to make the Tyrrhenian Sea start from the geographical boundary with Liguria is not correct, it actually starts from an ideal line drawn from Piombino and Corsica southwards. It was for the jagged coast and the will of the Medici family that many towers were built, next to each other, so that they could communicate with Livorno in case of danger (like the pirates). The Tower of Calafuria and the nearby Tower of Maroccone (also called Devil Tower), that nowadays is part of Boccale and San Salvatore Castle (now called Sonnino Castle) are part of this defensive system. More recently the Calafuria Tower has been studio and home to the local artist Alberto Fremura. Calafuria is also the name of the Natural Reserve that is located behind the coastal area. It’s 16 hectars of land that includes the western part of Monti Livornesi, with its holm oak woods, Mediterranean scrub and wild animal species. The reserve offers trekking experiences for everyone thanks to the many trails that arrives also to Montenero village and its sanctuary full of impressive ex-voto. If on the way out you give the shoulders to the sea, therefore missing the view, on the way back the landscape is fully visible. Until you arrive again to the tower and its bar for a well deserved refresco.


Bevi responsabilmente

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ful arte

E T N I K. CINQUE LETTERE NELLO SPAZIO Alla scoperta dell’universo creativo di uno degli street artist italiani più famosi all’estero. Testo di Jacopo Visani, Foto di Etnik

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TNIK nasce a Stoccolma ma cresce in Toscana, trascorrendo anche diversi anni a Firenze. Nei primi anni novanta fa un incontro che gli cambia la vita: tra Firenze e Pisa conosce e inizia a praticare il writing. Questa passione lo porta a viaggiare per tutta l’Italia, a incontrare le varie “scene” del nascente movimento e, insieme ad altri, a unificare, almeno parzialmente, quella Toscana. In quegli anni non c’erano tanti writers in Italia, ma questa tecnica si stava diffondendo e lo spray delle bombolette iniziava a unire persone che non si conoscevano e provenivano dai luoghi più disparati. In seguito a queste prime esperienze, sente lo stimolo di sperimentare, provando a trascendere i limite del graffiti writing classico. Facendosi ispirare da varie correnti e discipline – tra le quali l’architettura industriale dismessa, il brutalismo, il design industriale, le sezioni del disegno meccanico, la pittura astratta e geometrica e il disegno fantastico à la Moebius – il suo stile diviene sempre più legato all’uso di forme, ingranaggi, architetture ed elementi naturali. In un primo momento le sue rappresentazioni mantengono un discreto livello di realismo e cura dei dettagli, ma con il passare del tempo il suo stile si fa sempre più semplice e sintetico, quasi minimale. Questo sviluppo stilistico radicale non ha però in alcun modo intaccato il suo legame con il lettering, infatti ogni sua opera (sì, anche quella che compare nella copertina di questa rivista!) ha come punto di partenza il suo nome: ETNIK (riuscite a trovarlo?). Da forma primordiale di Tag, queste cinque lettere si evolvono in vo.30

lumi sui quali progettare l’intera composizione. Le lettere – ormai pressoché irriconoscibili – conquistano quindi una loro nuova dimensione divenendo elementi naturali, meccanici e architettonici, molto spesso in contrapposizione tra loro. Questa espansione estetica sembra avvenire in una sospensione spaziale e dilatazione temporale nella quale i vari elementi vanno lentamente acquisendo un equilibrio instabile e aboliscono ogni riferimento a un punto di vista univoco, facendo così perdere tra di loro lo sguardo dello spettatore. La città, lo spazio urbano, è sia il luogo dove compaiono tante delle opere di ETNIK, ma è allo stesso tempo il protagonista delle sue opere. Cemento, arredi urbani, edifici e un po’ di natura fluttuano in questo spazio indefinito trasmettendo una condizione di costrizione e precarietà. In questo modo i suoi pezzi vanno a criticare una visione della città e della società molto diffusa, apparendo proprio sulle strutture figlie di questa visione, in un gioco ambivalente nel quale soggetto e “tela” si rispecchiano.

da forma primordiale di Tag, queste cinque lettere si evolvono in volumi sui quali progettare l’intera composizione


Le sue opere compaiono spesso in luoghi depressi e periferici della città e cercano sempre di intesservi uno stretto dialogo critico. Essendo il grigio il colore predominante di questi spazi, ETNIK cerca di portare un’esplosione cromatica, usando diversi colori in modo da creare un forte impatto estetico. Molto spesso l’area dove compare l’opera – o addirittura l’edificio stesso – ne diviene il soggetto, chiaramente completamente decostruito e reinterpretato (riconoscete che elementi di Firenze sono presenti nella nostra copertina?). L’obbiettivo è che il passante venga colpito da quello spazio che in precedenza era del tutto anonimo ed entrava passivamente nella sua visione periferica e sia portato a riflettere sulla cattiva gestione e, di contro, sulle potenzialità dell’area nella quale vive. Quello di cui c’è bisogno in tante periferie delle nostre città, del resto, è proprio una riqualificazione pensata e ben fatta che non sia solo di facciata e che non sfoci in gentrificazione. Purtroppo però la street art in questi ultimi anni sta invece divenendo una forma di decorazione urbana superficiale. L’obbiettivo sembra essere il mero abbellimento e il soddisfare in modo ruffiano le istituzioni. Questo secondo ETNIK accade anche perché spesso i progetti sono curati da figure pseudo-professionali che non sono preparate e che prendono decisioni guidate esclusivamente dalle tendenze del momento. Al di là della facciata scintillante, il risultato purtroppo è insoddisfacente sia per il pubblico, che non può fruire di una offerta artistica originale e variegata, che per il movimento artistico, che subisce un impoverimento di stili e una perdita di talenti. ETNIK, invece, è sempre voluto rimanere fedele al nucleo originale della sua arte – le cinque lettere del suo nome – portandolo però a uno sviluppo stilistico estremo e a un messaggio più ampio. Attualmente il suo campo base è a Torino, ma viaggia costantemente per realizzare opere in tutto il mondo. In questi mesi è impegnato in un grande progetto dedicato ai cinque solidi platonici che prevede la realizzazione di cinque installazioni e altrettanti murali in diverse città del mondo: Millançay (Francia), Jacksonville (Florida, USA), Volos (Grecia), Barcellona e Parigi. Il suo viaggio di sperimentazione artistica continuerà e lo porterà sempre a nuovi esiti, ma senza alcun dubbio ruoterà sempre attorno alle cinque lettere che compongono il suo nome! •

ENGLISH VERSION>>>> ETNIK is born in Stockholm but grew up in Tuscany and spent also some years in Florence. At the beginning of the ’90 he had a life-changing encounter with graffiti writing, since then he started to travel through Italy to get to know other writers. After these first experiences, he started experimenting trying to transcend the limits of classical graffiti writing. He drew inspiration from industrial architecture, brutalism, industrial design, abstract painting – his style became more and more linked to the use of forms, gears, natural and architectural elements and with time became very minimal. The connection with lettering remained through the use of his name as starting point of each work. From primordial tag the letters of his name became volumes on which create the whole composition. They are always present (also in our cover, can you recognize them?). The city, the urban space, is both the place where many of ETNIK’s works are but also its protagonist, so that they are a critic to a certain vision of the society and the city itself. They are often located in the outskirts, where grey is the predominant colour, so ETNIK tries to bring an explosion of colour, that can capture the attention of the passer-by. The subject portrayed is often the area or the building where the graffiti is done, so that the viewer might reflect on the bad maintanance and the potentiality of the place in which he lives. Not just a mere form of decoration but a real engaged form of art. ETNIK is currently based in Turin but travels constantly. Recently he is working on a big project dedicated to the five platonic solids that will result in the creation of five installations in: Millançay (France), Jacksonville (Florida, USA), Volos (Greece), Barcellona and Paris. •

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Lyzard-KZ1 An innovative sound experience from a 0.5â€? high-efficiency driver | k-array.com In K-array concentriamo tutti i nostri sforzi e risorse nella progettazione e produzione rivoluzionaria di sistemi audio ad alta efficienza. Inutile dire che il nostro Lyzard-KZ1 è un diffusore incredibilmente piccolo. Infatti, misura 22 x 37 x 10 mm e pesa solo 23 grammi.

At K-array, we concentrate all our efforts and resources in the revolutionary design and manufacture of highlyefficient sound systems. Needless to say, our Lyzard-KZ1 is an astoundingly small loudspeaker. In fact, it measures 22 x 37 x 10 mm and weighs only 23 grams.


generazione slasher

, LUIGI PATISSO E L ARTE DELLA SOPRAVVIVENZA IG: luigi_patasso

Luigi Patisso, 24 anni, originario di Lecce, vive a Firenze da quattro anni dove è arrivato inseguendo la sua passione per l’arte e studia all’Accademia di Belle Arti. Se dovessero chiederti cosa fai nella vita, cosa risponderesti? Bella domanda. La mia è più una sopravvivenza. Cerco di essere un artista, o meglio, di entrare nel mondo dell’arte. Ma quello che faccio ora per sopravvivere mi sta togliendo la voce e ogni stimolo. Qual è la tua barra? Eh beh, ne ho tante. Ho due lavori part-time e due occasionali a chiamata. Lavoro come sicurezza eventi stand/cameriere/addetto vendita sky/addetto vendita profumi/pubblicità Nintendo o commerciali/rider consegnando radio. Descrivimi la tua giornata tipo... Ho diverse giornate tipo. A volte lavoro dalle 12 alle 16 in pizzeria e dalle 16 alle 20 come rider. Ma se mi capita di essere contattato per la sicurezza o come promoter, faccio orari come 9-11 radio, 13-15 pizzeria, 16-18 radio, 18-9 sicurezza. Come vedi il tuo futuro? Non riesco a vedermi. Nemmeno da qui a cinque anni o a qualche mese. Non ambisco alla ricchezza, solamente ad andare a cena fuori e riuscire a pagare l’affitto allo stesso tempo. Però mi piacerebbe entrare nel mondo dell’arte. Dipingo da quando sono piccolo ma ho sempre saputo che l’arte non ti fa guadagnare. Per non parlare poi del fatto che in Italia il sistema è sbagliato perché ci sono pochi concorsi e poche gallerie d’arte contemporanea. Firenze in particolare è come una cartolina ed è tutto fatto in modo tale che uno compri la cartolina o una calamita da attaccare sul frigo. Inoltre, secondo me, se non riesci a porti al pubblico e sentirti completo, il lavoro artistico

ti brucia. L’opera deve parlare da sé ma per arrivare a questo devi lavorare costantemente, e non per pagare l’affitto e per mangiare... Questo mi porta a estraniarmi sempre di più dal mondo artistico, a capire che non può darmi da vivere e pian piano a non farlo più. Prossimi progetti per il futuro? Vorrei lavorare part-time mettendo soldi da parte per almeno un anno per poi andare all’estero. Lì c’è una mentalità più aperta e il mestiere dell’artista è visto come un vero e proprio lavoro. In Italia è visto più come un hobby, qualcosa che puoi fare dopo il lavoro che ti permette di vivere. Prima hai detto che sopravvivi, piuttosto che vivere. Cosa intendi per sopravvivenza? Sopravvivo perché non sento di vivere a pieno, ho pochissimo tempo per quello che voglio davvero fare. A volte penso di voler salire una montagna non sapendo se in cima troverò quello che voglio. Soffri di ansia? Ti sei mai sentito inutile? Sì, soffro di ansia. Ansia da fallimento: ho paura di non essere abbastanza abile, ma ho anche paura del contrario, di essere abile e di non riuscire comunque a vivere di quello che mi piace. Il mio tempo libero è stato sempre scandito da attimi di arte ma ora mi sembra di avere meno stimoli e poco tempo per concentrarmi su quello che amo. Mi è capitato di sentirmi inutile. Per carattere cerco di impegnarmi al massimo per raggiungere ogni obiettivo ma a volte mi sento limitato perché non riesco ad affrontare ciò che mi capita. Accetto di sentirmi inutile e cerco di andare avanti. • 33.


ful pagina dell'artista

per il numero XXXIX è a cura di

LILIAN SETAGHAYAN

www.lilifloitlili.wixsite.com/lilianset | IG: Lilian.setaghayan

La rêve de rester dans une ville magique. Lilian Setaghayan di origini armene è nata in Iran, si trasferisce in Italia a 20 anni per realizzare i suoi sogni nell’ambito di moda e design, ha frequentato i corsi di Entertainment, Design e Fashion design a Firenze. Lilian Setaghayan has got Armenian origins and was born in Iran. She moved to Italy when she was 20 years old to follow her dream in the field of fashion and design. She has attended the courses of Entertainment, Design and Fashion design in Florence. •

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Il Miglior Modo per Festeggiare i 20 Anni del Nostro CRU

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26 | 27 | 28 settembre settembre 2019


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