PCM - Dicembre 2014/Gennaio 2015

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PERSONAL CHEF MAGAZINE | FIPPC | N. 04/2014 | Dic. 2014/Genn. 2015

PCM MISS PUGLIA CHEF SPECIALE FINGER FOOD SEBASTIANO ROVIDA DEBORA FANTINI IL PRIMO PERSONAL CONTEST CLAUDIO SADLER IRENE BERNI

LA RIVISTA ITALIANA DEL PERSONAL CHEF


PCM

PERSONAL CHEF MAGAZINE periodico di cultura enogastronomica organo ufficiale FIPPC - federazione professional personal chef

cover Foto originale: Sabrina Conforti, per gentile concessione di Realize Networks Elaborazione: Giorgio Giorgetti

in campo Per salvaguardare la voce autentica degli associati e su richiesta diretta di molti autori, sia gli articoli della sezione IN CAMPO, sia quelli della direzione Fippc non sono sottoposti ad alcuna revisione editoriale, ma pubblicati integralmente, così come giungono in redazione.

COLOPHON editore e direttore: Giorgio Trovato direttore responsabile: Giorgio Giorgetti redazione: Stefania Erroi hanno collaborato: Paolo Antonio Cancedda, Federica De Prezzo, Alessandra Malagnini grafica e impaginazione: Giorgio Giorgetti su un modello di broluthfi (http://goo.gl/SenrTk) Quest’opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione 3.0 Italia.

FIPPC - FEDERAZIONE ITALIANA PROFESSIONAL PERSONAL CHEF sede legale: via Tito Schipa, 1/D - 73058 Tuglie (Le) e-mail: segreteriafippic@gmail.com www.fippc.com 04/2014 dicembre 2014/gennaio 2015



messaggio pubbliredazionale

AGNELLI CI CONQUISTA La nostra Federazione offre sempre ai suoi clienti i migliori prodotti reperibili sul mercato. Per sua natura, quindi, e con la medesima coerenza, la Fippc sceglie l’eccellenza anche fra i partner che la sostengono nella crescita e nell’immagine. È così che Pentole Agnelli ci ha conquistati. Perché la grande azienda italiana non è soltanto un brand di primissimo livello, ma soprattutto un’azienda che, con convizione, ha fatto della qualità e dell’innovazione il fulcro del suo successo. A dimostrazione di ciò, il centro di ricerca Saps di Pentole Agnelli testa quotidianamente strumenti di cottura professionali e sistemi di lavoro capaci di migliorare il lavoro in cucina e la qualità dei cibi, in osservanza della valorizzazione delle materie prime usate. Ha messo a punto un innovativo rivestimento di grande resistenza, il B-Cristal, per garantire performance eccezionali di durata nel tempo e di antiaderenza, applicandolo anche agli strumenti di cottura in alluminio per consentire le cotture a induzione. Oggi, quindi, la grande novità è aver rivestito con l’innovativo B-Cristal lo strumento di cottura in pur-alluminio per alimenti sia dentro sia fuori, garantendo altissima durata, antiaderenza totale, facilità di pulizia in qualsiasi lavastoviglie e con qualsiasi detergente, facilità d’uso sui piani di cottura ad induzione. La pentola Al Black B-Cristal in alluminio, nella versione classica 3 e 5 mm e per piani cottura ad induzione, si presta in modo particolare a essere mostrata in pubblico, in tutte quelle occasioni in cui là dove lo strumento di cottura diventa parte del servizio e lo spadellare viene eseguito a vista: una situazione che i personal chef ben conoscono, nel loro lavoro sotto gli occhi attenti dei clienti. i pregi di al black b-cristal • un’ottima conducibilità termica; • un notevole risparmio energetico, grazie all’elevata capacità di condurre il calore; • è resistente agli urti, agli shock termici e alla corrosione; • un eccellente rapporto qualità/convenienza, garantito dalla scelta di un marchio qualificato che offre una verniciatura all’avanguardia, garanzia di qualità e durata; • applicando al fondo un disco in acciaio ferritico, la pentola è idonea anche alla cottura per induzione; • praticità di utilizzo e facilità di pulizia; • sicurezza dal punto di vista igienico; • conformità alle leggi in materia; • leggerezza grazie al ridotto peso specifico: una dote da non sottovalutare per chi opera professionalmente nel settore e che solleva pesi tutto il giorno; • è ideale per cotture veloci e dinamiche; • promuove una cucina a basso contenuto di grassi.



messaggio pubbliredazionale

BAccalà, speck e aceto balsamico tradizionale di modena d.o.p.

Ricetta di GIORGIO TROVATO. Realizzazione e foto di GIORGIO GIORGETTI.

Ingredienti per quattro persone: 400 g di filetto di baccalà già ammollato, 10-12 fettine di speck, 20 g di pinoli, 4 patate piccole con la buccia, maggiorana fresca, olio extravergine d’oliva, Aceto Balsamico Tradizionale di Modena D.O.P. extravecchio 25 anni. Preparazione: Metti le patate in acqua fredda, porta a bollore e fai lessare per una decina di minuti: devono essere cotte al dente. Nel frattempo, taglia in otto pezzi il filetto di baccalà, pareggiando i bordi. Avvolgi i tranci nelle fettine di speck, magari aiutandoti con uno stuzzicadenti. Metti il filetto in una teglia e cuocilo per 7-8 minuti in forno a 200 °C. Prendi le patate lessate e tagliale a rondelle. Tostale in un po’ d’olio extravergine d’oliva, appena sufficiente per non farle attaccare alla padella, e qualche fogliolina di maggiorana fresca. Una volta cotti, poni i pezzi di baccalà in una padellina con il liquido di cottura (se c’è), i pinoli e qualche goccia di Aceto Balsamico Tradizionale di Modena D.O.P. extravecchio 25 anni, facendolo velocemente sfumare. In un piatto di portata, stendi prima un letto di patate, poi i filetti avvolti nello speck e nappa con il sughetto e i pinoli.



EDITORIALI giorgio trovato P. 10 giorgio GIORGETTI P. 12

FIPPC ACADEMY STEFANIA ERROI P. 14

PRIMO CONTEST FIPPC FRITTATE IN GARA! P. 16

TOP & STAR STEFANIA ERROI Evviva il gambero giramondo!

P. 18 CLAUDIO SADLER Le occasioni della metropoli

P. 24 GIORGIO TROVATO Un presidente nel paese delle meraviglie

P. 28

SPECIALE FINGER SEBASTIANO ROVIDA Mr. Finger Food

P. 34 DEBORA FANTINI Quel piccolo cielo che si tocca con un dito

P. 50

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PERSONAL CHEF MAGAZINE


TENDENZE IRENE BERNI Il bello di Irene

P. 54 LAURA DI RENZO Bio & logico

P. 68 DE.CO, DOP E COSì VIA Nella selva delle sigle

P. 76

OFF TOPIC COMUNICARE MEGLIO Foto orrenda, cucina tremenda

P. 88

IN CAMPO PAOLO ANTONIO CANCEDDA Al Convito di Curina c’è chi ruba con gli occhi!

P. 100 FEDERICA DE PREZZO Guida i critici gastronomici (da non incontrare mai)

P. 104 ALESSANDRA MALAGNINI Gioie e dolori nella reggia di chef Giorgio

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QUALITà IN STILE FIPPC editoriale di Giorgio trovato, presidente fippc

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pesso oggi, tanto per cambiare, si abusa anche dell’espressione qualità senza accorgersi poi di quanta contraddizione ci sia tra i gesti concreti e ciò che si proclama. Invochiamo spesso una qualità della vita che si concentra semplicemente sugli aspetti materialistici dimenticandoci della qualità reale: la scelta di quello che mangiamo, la scelta dei rapporti umani, la scelta delle esperienze che decidiamo di vivere e la scelta dell’importanza che decidiamo di dare alla nostra formazione. Fippc sin dall’inizio, attraverso l’attività dei suoi organi istituzionali ha cercato di fare in modo che tra la qualità delle azioni intraprese e la realtà non ci fossero discrepanze e che la qualità fosse realmente un elemento distintivo. Superato il primo step oggi posso certamente affermare che la qualità è uno degli elementi caratterizzanti del modus operandi Fippc. • Qualità nella formazione dei propri associati, attraverso l’attività svolta dalla Academy, attività che nel corso del tempo sta cercando non solo di creare e rafforzare basi che fanno del Personal Chef professionista un soggetto che opera con uno stile completamente differente da quello di altri competitors ma anche migliorando ed ampliando le tematiche e le specializzazioni attraverso la possibilità di calarsi attivamente in una realtà ristorativa di qualità attraverso le Work Esperience Fippc con l’intento di aumentare quanto più il livello specialistico di ogni singolo operatore. • Qualità nell’espletamento del servizio teso a realizzare al meglio un evento unico con la giusta attenzione sia alla sostanza che ai dettagli partendo dalle tradizioni ma contestualizzandole allo stile di vita attuale, rispettando il gusto e allo stesso tempo cercando di strizzare un occhio agli aspetti salutistici. • Qualità nella scelta dei partners, non dei semplici sponsor ma delle realtà di primissimo piano con le quali interagire in modo continuativo e proficuo facendo sì che ogni associato possa godere dei benefici di tali partnership.

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• Qualità significa anche avere la forza e la capacità di dire no, di essere selettivi e di rifuggire da facili palcoscenici e da momenti di visibilità apparente capace di sciogliersi come neve al sole. La qualità, la rigidità metodica purtroppo hanno un dazio da pagare che spesso si concretizza o in semplice impopolarità o anche in mancati introiti economici. Ma ben vengano situazioni del genere se devono essere utili ad una crescita qualitativa dell’intero movimento Fippc. • Qualità anche nel rinnovato restyling del PCM, organo ufficiale di comunicazione Fippc affidato alle cure del nostro Giorgio Giorgetti, il direttore che ha sposato l’idea di far diventare il Personal Chef Magazine uno strumento di confronto, di informazione e di supporto sia per gli associati che per i lettori appassionati e tecnici del settore. La qualità paga sempre chi ha la forza e la capacità di riuscire ad offrirla aspettando le giuste tempistiche.

Oltre che presidente della Federazione e rettore di Fippc Academy, Giorgio Trovato è executive chef e restaurant manager a Il Convito di Curina del Villa Curina Resort a Castelnuovo Berardenga (Si). Ha prestato la sua consulenza all’estero per numerosi ristoranti nel mondo: come quando ha guidato 65 cuochi di Stefano’s Fine Food Factory a Kiev in Ucraina o ha seguito la cucina de Il Vicoletto a Dublino.

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eccola qua! editoriale di Giorgio GIORGETTI, DIRETTORE RESPONSABILE

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ignore e signori, la nuova rivista è questa. Finalmente! E dovrei fermarmi qui, riprendere un attimo il fiato e mettermi anch’io a guardarla come se già non mi uscisse dagli occhi, tante volte ho fatto scorrere queste pagine, questi testi e queste immagini. Mi piacerebbe raccontartela tutta, questa nuova PCM. Ma è probabile che la storia t’interessi poco e che tu non veda l’ora di sfogliarla, se già non l’hai fatto. Era la rivista che volevo io? Sì, quasi, insomma, abbastanza. Ci sono ancora un po’ di cose da sistemare, ma esistono ampi margini di miglioramento, già nel prossimo futuro. Era la rivista che volevi tu? Non lo so, questo me lo devi dire tu, magari sulla prima novità di PCM: una pagina su Facebook tutta dedicata alla rivista e al suo rapporto con i lettori, che probabilmente hai già visitato (e, se non l’hai fatto, fallo subito: http://goo.gl/qHPokv). La seconda novità è che la grafica è del tutto cambiata, con un'impaginazione più simile a quella di una rivista seria. E spero che questo la renda non soltanto più accattivante, ma soprattutto più facile da leggere e sfogliare. Ma fermarsi alla semplice estetica sarebbe un errore. La vera, grande novità (e siamo già a tre) riguarda i contenuti. Articoli, interviste, esperienze che credo finalmente comprensibili, utili, originali e soprattutto esclusivi. La nuova PCM, infatti, non parla soltanto della nostra Federazione e non raccoglie solo le testimonianze degli associati, ma vuole diventare un punto di riferimento autentico per chiunque desideri intraprendere la professione del personal chef. E per chiunque ami la cucina. Il bistellato Claudio Sadler, che non ha certo bisogno di presentazioni; lo chef Sebastiano Rovida, balzato al successo televisivo prima con

Fuori Menù, poi con Finger Food Factory; Debora Fantini, vincitrice del campionato italiano di finger nel 2012; Irene Berni, maestra d’accoglienza e di mise en place, tutti insomma parlano con noi e per noi personal chef, non per altri. E possiamo trovare le loro interviste qua e solo qua. E poi tutto il resto, per oltre 100 pagine tutte da leggere e da guardare. Una rivista vera, insomma, che nessun’altra Federazione italiana di cuochi prossiede. Neppure lontanamente. Per

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lo meno, non così bella e attuale. Alla faccia della falsa modestia! Naturalmente, c’è sempre spazio per tutti, non soltanto per gli ospiti. Lo scrigno che conserva i testi di chiunque desideri collaborare si chiama IN CAMPO ed è un nome parlante: io, tu, noi, voi, tutti con le nostre vicissitudini tra lavoro, vita, stage e corsi, a volte comiche, a volte drammatiche, a volte spiritose e avventurose. In mezzo a tutte queste novità, di cui ho ormai perso il conto, ne spuntano di sicuro anche altre. Ma questa di sicuro ti stimolerà: corri a pagina 16 e scopri il CONCORSONE, il primo contest Fippc a cui tutti possono partecipare! C’è una gara di frittate e un bellissimo premio al vincitore... Che cosa vuoi di più? Ok, basta, potrei scrivere per ore, parlando di queste pagine. Meglio se ti lascio scoprire tutto da solo. E, se hai voglia, non dimenticarti di raccontare che cosa ne pensi sulla pagina PCM di Facebook. Lì potrai postare commenti, suggerimenti, idee, critiche e quanto desideri. A me premeva una sola cosa: che tu avessi una nuova rivista e che anche la Fippc l’avesse. Prima non c’era, ora c’è. Davvero.

Giorgio Giorgetti è un giornalista che si occupa principalmente di divulgazione scientifica e vive con una moglie, un cane e un ferocissimo gatto in una cittadina della provincia di Varese, così piccola da sembrare un paesino delle fiabe. È anche un sommelier Ais, ma non lo dice quasi mai.

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ALLA RICERCA DELLA CREATIVITà di STEFANIA ERROI, SEGRETARIA FIPPC

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a quando ho iniziato ad interessarmi a livello professionale di cucina, ho incontrato la parola “creatività” almeno un milione di volte. Ho letto di cucina creativa, ho sentito in tv parlare di cucina creativa e mi sono imbattuta in un’infinità di persone, soprattutto appassionati di cucina a livello amatoriale che, nella descrizione di sé e presentandosi hanno usato con me l’aggettivo “creativo”. Sarà stato per il fatto che di creativo, avendo una mente più improntata alla logica e alla matematica, non ho mai pensato di possedere granché, sarà perché ho sempre immaginato il creativo come un essere speciale al limite del genio, ad un certo punto ho deciso di approfondire (cosa che mi affascina e mi riesce bene). Così ho cercato di capire cosa sia questa così tanto sbandierata e celebrata “creatività”. Un po’ tutti concordavano nel considerarla una specie di balzo, veloce e inconsapevole del pensiero o un cortocircuito dei normali processi di ragionamento. Una particolare abilità quindi che permette di produrre qualcosa di “nuovo”. Distruggere per ricostruire… più o meno. A questo punto mi sono chiesta se Darwin o Einstein allora fossero dei creativi e se pur possedendo doti naturali che pochi sapranno eguagliare in futuro, i cosiddetti “doni di natura”, potessero queste doti lavorare senza sforzo e per intuizioni repentine. Ovviamente no. Perché l’intuizione è lo stadio finale di un lungo processo cognitivo e lo stesso Einstein dovette cimentarsi in un lunghissimo e faticoso lavoro prima di arrivare alle sue teorie. È la combinazione tra vincoli e imprevedibilità, tra familiarità e sorpresa che fa balenare il lampo creativo. Allora perché saremmo tutti creativi? Forse si confonde creatività con originalità (ma poi siamo così sicuri che quel piatto non sia stato già pensato ed esista?) o peggio con trasgressione e sregolatezza. Ma il genio quando produce lavora con metodo, dedizione e applicazione sia che si tratti di un artista che di uno scienziato o un cuoco. Se mescolare ingredienti a caso fa pensare che basti questo per essere innovativi, originali e creativi forse non si è sulla strada giusta e forse il risultato più probabile sarà quello di produrre pietanze al limite tra l’immangiabile e il tossico. Allora come si lega il concetto di creatività a quello di cucina dopo un’introduzione forse un po’ noiosa? Il legame c’è ed è molto forte. La cucina può essere considerata il “campo di applicazione” della creatività a patto che quest’ultima consista nel “cuocere” virtualmente conoscenze profonde, informazioni di qualità e notizie fresche reperendole direttamente dal “mercato” della cultura.

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Nella vita normale, semplicità è sinonimo di “facile da fare”, ma quando un cuoco usa questa parola, significa “ci vuole una vita per imparare”. (Bill Buford)

Per avere quindi “materiale” su cui e con cui operare bisogna passare attraverso lo studio e la formazione di qualità. Se la scorsa volta ho spiegato che l’improvvisazione non paga in nessun settore stavolta vi spiego come la creatività si possa esprimere attraverso tante attività, anche le più apparentemente banali e quotidiane e a una grande quantità di livelli. Un esempio…? Basti pensare alla cucina degli “avanzi”, con i quali si possono preparare piatti o decorazioni gourmet e che non possono prescindere a maggior ragione da ingegno e abilità. Se la Fippc applica in modo rigoroso certi concetti e certi passaggi attraverso la gradualità è solo perché ha l’ambizioso desiderio di consegnare insieme ad un attestato di formazione professionale anche qualcosa di differente, a mio parere di valore inestimabile: la tranquillità di operare correttamente eliminando il più possibile il margine di rischio con i propri clienti e la sicurezza di avere dei punti di riferimento che un po’ come la rosa dei venti non faccia mai sentire smarriti.

Responsabile del coordinamento segreteria e partnership della Federazione e direttrice di Fippc Academy, Stefania dirige sia un ben avviato studio legale, sia un’impegnativa famiglia. Professional personal chef e chef de cuisine, nel 2014 ha vinto il titolo di Miss Chef Puglia Imperiale.

DIVENTA PROFESSIONAL PERSONAL CHEF! I PROSSIMI APPUNTAMENTI CON I CORSI FIPPC INTERMEDIATE

Dal 12 al 18 gennaio 2015 a LECCE, in Puglia. A febbraio 2015 in Lombardia (date e sede da definire). A marzo 2015 in Sicilia (date e sede da definire). Gli altri appuntamenti sulla pagina Fippc Academy di Facebook. Clicca su http://goo.gl/8lwGUx. Per info: segreteriafippc@gmail.com.

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CONTEST FIPPC N. 1 LA GRANDE SFIDA A COLPI DI FRITTATA La prima competizione fra i personal chef della Federazione

POSTATE FOTO E RICETTA SULLA PAGINA FACEBOOK DELLA NOSTRA RIVISTA

è su un piatto che sembra facile, ma che invece presenta mille insidie

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Niki Segnit, nel suo libro La grammatica dei sapori, dice che la frittata è l’equivalente gastronomico della tuta da casa: comoda, informale, familiare. E conclude affermando che, se nel frigo ti ritrovi due uova, presto o tardi farai anche tu una frittata. Non si scampa, insomma: la frittata è come il destino. Eppure, questo piatto all’apparenza banale possiede mille variazioni sul tema e milioni di difficoltà, non ultima quella dell’impiattamento: hai mai visto una frittata ben accomodata, che non somigli a qualcosa di osceno? Beh, non è facile.


CONCORSONE! Per tutti questi motivi, la prima sfida degli chef Fippc sarà proprio contro questo difficilissimo

frittata e di omelette, dolci o salati. Via libera anche con gli ingredienti: basta che ci siano le uova, che possono essere anche di struzzo o di serpente, se proprio lo desideri!

Per partecipare basta inventarsi una ricetta (una sola a concorrente), preparare la frittata e fotografarla meglio che si può. Foto e ricetta devono essere postate sulla pagina Facebook della rivista entro e non oltre il 31 gennaio 2015. In bocca al lupo e vinca il migliore!

BELLA FOTO. Anche la foto avrà il suo peso...

piatto. Sono ammessi tutti i tipi possibili di

REGOLE FACILI FACILI Il concorso è aperto a tutti, a eccezione dei membri della direzione Fippc. La consegna del materiale è fissata per il 31 gennaio 2015. In bocca al lupo! Chi vincerà avrà in premio il libro Quello che piace a Irene, di Irene Berni, con dedica personalizzata dell’autrice. VALE TUTTO. Basta che possa definirsi una frittata o un’omelette. Vietate soltanto le crêpes.

PRIMO PREMIO. Il libro con dedica personalizzata riservato al miglior creatore di frittate. Non sai chi è Irene Berni? Corri a pagina 54, allora!

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EVVIVA IL GAMBERO GIRAMONDO! La nostra infaticabile Stefania conquista il titolo di Miss Chef 2014 DI GIORGIO GIORGETTI Su di lei si narrano mille storie favolose. Come di quella volta che, durante una sua lezione di cucina, indicò perentoria la porta a Tonino Cannavacciuolo, raggelandolo con una sola parola: Addìos! O di quando si mise a insegnare a Gordon Ramsay imprecazioni in pugliese. O dell’invidia secolare che Carlo Cracco continua a nutrire nei suoi confronti (sembra che lei gli abbia detto di accontentarsi della San Carlo... o qualcosa del genere...). Ma questa non è una delle mie solite news e neppure una leggenda metropolitana. È la vera verità: Stefania Erroi, la nostra Stefania Erroi, è Miss Chef Puglia Imperiale 2014! La Fippc, insomma, in qualche modo ha conquistato anche questa bellissima regione. O viceversa, che in fin dei conti è quasi la medesima cosa. «Seconda è arrivata Gabriella Masi, anche lei professional personal chef della Fippc» dice Stefania. «Così, anche se non avessi vinto io, la fascia sarebbe lo stesso rimasta in Federazione. Gabriella è stata eccezionale e non avrei proprio voluto essere nei panni della giuria: abbiamo dato vita a un vero scontro fra Tuglie e Corato, Lecce contro Bari, come capita sempre dalle nostre parti... Come mi sono sentita quando hanno detto che avevo vinto? Sono scoppiata a ridere perché non ci potevo credere». Ok, Stefania, allora partiamo dall’inizio di quest’avventura. Come ci sei finita dentro? «Un giorno mi chiama l’organizzatrice della manifestazione, Mariangela Petruzzelli, e mi dice che ero stata segnalata per rappresentare la provincia di Lecce a questa competizione. In palio c’era il titolo di Miss Chef Puglia Imperiale...». E tu? «Io ho detto sì, anche se all’inizio non so bene perché l’abbia fatto. Forse perché mi piaceva l’idea della sfida, soprattutto di confrontarmi con me stessa in una situazione di questo tipo». E così, lo scorso 16 settembre, si trovarono in quattro a scendere in campo per duellare in uno show-cooking all’ultimo sangue: le nostre Stefania e Gabriella, più Maria Falcone di Manfredonia e Lory Ignone di Carovigno. Palcoscenico dello scontro la Masseria Sei Carri di Andria, a porte serrate per l’occasione. Due le giurie, una di tecnici esperti e l’altra di personaggi della cultura, della politica, dell’imprenditoria, dello spettacolo e dell’enogastronomia. «La maggior soddisfazione l’ho avuta con loro, con gli esponenti della seconda giuria. Quando hanno assaggiato il mio piatto, avevano un’autentica espressione fisica di gioia e di estasi. È stato bellissimo, per quanto mi riguarda avevo già vinto la mia battaglia».


Ci sono stati momenti dello show-cooking in cui ti sei sentita impaurita o a disagio? «Se devo dirla tutta, il momento in cui mi sono sentita più “strana” è quando mi hanno fatto vestire da sera, con tutti i trucchi e parrucchi possibili e immaginabili, subito dopo la presentazione dei piatti... Continuavo a ridere, mentre c’era tutta questa gente che mi correva attorno, mi metteva i vestiti, mi raccoglieva i capelli, mi truccava... Ma dai, io sono un maschiaccio, lo sanno tutti! Invece hanno voluto trasformarmi in una fatina...». Però, alla fine, la nostra fatina un incantesimo l’ha fatto. Un incantesimo bello e buono. Racconta un po’ il tuo piatto, che già dal nome pare piuttosto originale: “Un gambero a spasso”. «Il gambero è quello viola di Gallipoli» dice Stefania. «È il crostaceo che amo di più, perché da una parte somiglia molto al gambero rosso, dall’altra è persino più delicato e tenero, gustosissimo. Si pesca nello Ionio e anche in Liguria ed è un prodotto locale fantastico, anche se sempre più difficile da reperire. Lo puoi fare davvero in tutti i modi, in carpaccio, in tartare, è buonissimo così com’è... Volevo che fosse il protagonista del mio piatto fin da subito. Ma non avevo pensato che avrei avuto bisogno di ben 42 esemplari!». Perché così tanto? «Perché si doveva servire un piatto a ciascun giurato. E considera che il mio piatto era un trittico: tre gamberi cucinati in tre modi diversi». E allora? «E allora è andata a finire che tutti i pescatori del porto, quando hanno saputo che rappresentavo Lecce, si sono messi assieme per cercare in fretta e furia 42 gamberi viola. Ce l’abbiamo fatta per il rotto della cuffia». Raccontami il piatto, dai. «Come dice il titolo, è un gambero che va a spasso, che fa un bel viaggio d’andata e ritorno. Parte da Gallipoli, è ovvio, e attraversa le Puglie, incontrandosi con la nostra burrata. Quindi il primo gambero è stato preparato in carpaccio con emulsione di burrata, zest di lime e timo limonato. Poi esce dall’Italia e si lascia suggestionare dall’Oriente: quindi eccolo in tartare, su uno zoccolo di mango con succo di frutto della passione e una spruzzata di

BRINDISI, INCORONAZIONE, GLORIA ALLA NOSTRA CHEF CHE HA VINTO PER LECCE, MA ANCHE PER TUTTI NOI

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cardamomo. Terza e ultima parte del trittico: il ritorno a casa del nostro gambero girellone. Naturalmente, la prende un po’ larga e passa anche dalla Sicilia e dalla Toscana. Eccolo quindi in crosta di lardo di Colonnata con caponatina siciliana rivisitata». Una ricetta piuttosto complicata... «A dirla tutta, la cosa più difficile è stata preparare i 14 piatti, che dovevano essere tutti uguali e tutti perfetti. Se un gambero ti cadeva, non stava in equilibrio, erano dolori. Ma poi, in sé e per sé, le ricette non erano difficili da realizzarsi. Sono stati piuttosto gli impiattamenti a sfibrarmi... Ero già tesa per la gara, emozionata. Però è andata bene. Lo ripeto: il momento più bello non è stato quello della vittoria vera e propria. Non lo dico per modestia. Gabriella aveva fatto un piatto strepitoso e io mi ero già vista seconda. Quando hanno detto il mio nome, la sorpresa è stata così grande che quasi non sono neppure riuscita a godermela».

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Ma allora qual è stato il momento più bello della serata, per te? «Te l’ho detto. È stato quando la giuria istituzionale, quella insomma formata non dagli addetti ai lavori, ha assaggiato i miei gamberi. La giuria tecnica era stata molto compassata, si vedeva che i giurati facevano il possibile per darsi un contegno, per assaggiare in maniera spassionata. Gli altri, invece, il mio piatto se lo sono proprio goduto. Sai quando vedi un cliente che raggiunge l’estasi per qualcosa che hai preparato? Ecco, è stato così. Questo è stato davvero il momento più emozionante, in cui mi sono sentita gratificata tantissimo per questa reazione spontanea di piacere e gioia». Sia come sia, la Puglia ha una nuova Miss Chef e si chiama Stefania Erroi. E, con lei, sul podio ci finisce anche un po’ la Fippc. È nata una nuova stella della cucina: lasciamola brillare libera e felice per qualche miliardo di anni.



SADLER CLAUDIO SADLER, chef bistellato di Milano, patròn dell’omonimo ristorante in via Ascanio Sforza 77.

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LE OCCASIONI DELLA METROPOLI Il grande chef milanese offre la sua interpretazione del rapporto fra cucina e territorio DI GIORGIO GIORGETTI Claudio Sadler, due stelle Michelin da tempo infinito e d’altrettanto tempo sinonimo di qualità indiscussa in tutta Milano. E oltre, naturalmente. I meneghini più vecchi se lo ricordano ancora quando era patron dell’Osteria di Porta Cicca, in Ripa di Porta Ticinese: era qui che andavano le famiglie bene del capoluogo e provincia, quando volevano mangiar davvero i piatti della tradizione. Ci andavano i genitori di un mio caro amico, negli anni Ottanta-Novanta, ogni tanto si portavano dietro il figlio, un ragazzino come me ma già appassionato di cucina. Del Sadler di quei tempi, quindi, ho soltanto racconti di seconda mano, per lo più sfocati dal ricordo. Un tempio della gastronomia milanese, mi dicevano. L’unico posto dove si possono gustare i veri piatti meneghini, mi ridicevano. Il fatto che a due passi ci fosse anche l’altro mito di Milano, Al Pont de Ferr, a quanto pare non disturbava. Ma a quei tempi, a casa mia, neppure l’auto avevamo: figurati se riuscivamo ad andare in quattro all’Osteria di Porta Cicca, che nel 1991 aveva già conquistato la sua prima stella Michelin. E, a questo punto, era chiaro che l’osteria s’era fatta stretta. Il locale si spostò così in via Trollo, sempre in zona Navigli, e nel 2002 si prese la seconda stella. Ed è questo il Sadler che comincio a conoscere pur io, finalmente, soprattutto quando il ristorante approda in via Ascanio Sforza. Quello di una cucina meditata ma non saccente, quello della ricetta “che forse ce la faccio anch’io”, ma che non ti viene mai uguale. Quello che ti pare tutto facile, poi alla fine capisci che quest’apparente semplicità è questione di grandissima tecnica. E di stile. Il suo, benedetto da un cognome che è da solo un marchio naturale e che dà nome al ristorante, a scanso di equivoci. Sadler. Bellissimo. Mica Giorgio Giorgetti, che quando ti presenti, devi giustificare la fantasia di mamma e papà! «Il bello di lavorare a Milano è che questa citta è moderna e cosmopolita» afferma Sadler in prima battuta, quando gli chiedo come concilia prodotti del territorio e cucina. «Qui la logica del chilometro zero non esiste, non ha molto senso. Credo che uno chef, piuttosto, debba essere capace di sfruttare le occasioni che un mercato gli offre, piuttosto che intestardirsi su una determinata filosofia, che in alcuni luoghi può essere sterile o addirittura controproducente per tutti, clienti inclusi». Mi spieghi meglio... «Il mercato del mondo passa da qui, da Milano»

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RISOTTO AL NERO DI SEPPIA, CONTRASTO DI MANGO, CALAMARI E UOVA DI PESCE VOLANTE Ingredienti per dieci persone: 800 g di riso Carnaroli, due scalogni tritati, 4 l di brodo di pesce, vino bianco q.b., 50 g di nero di seppia, tobiko (uova di pesce volante) q.b., 100 g di Parmigiano Reggiano, 50 g di burro, olio extravergine d’oliva all’aglio q.b., tre calamari tagliati a julienne, citronette q.b. per la salsa di mango: due manghi ben maturi e dolci. Preparazione: Prepara un buon brodo di pesce. In una casseruola fai soffriggere lo scalogno assieme all’olio, tosta il riso, sfuma con vino bianco, bagna con il brodo di pesce e cuoci per 15 minuti. Negli ultimi minuti di cottura, aggiungi il nero di seppia al riso. In seguito prepara la salsa di mango, frullando con un mixer i manghi, passando il tutto al colino. Taglia i calamari a julienne e condiscili con la citronette, il sale e il pepe. A cottura ultimata del riso, mantecalo con burro, Parmigiano e olio all’aglio. Servi in un piatto piano con al centro il riso, la salsa attorno e la julienne di calamari sopra.

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Una ricetta firmata dal grande CLAUDIO SADLER. Sito ufficiale www.sadler.it

dice. «A Milano si trova tutto, basta cercarlo e pagarlo. Magari non c’è l’ortaggio colto e mangiato del contadino, ma è più facile avere l’agnello irlandese. E questa è una risorsa non da poco, per un ristoratore». Quindi niente km zero? «Non ho detto questo. Dico che a Milano è difficile. Altre possibilità, invece, sono molto più suggestive. Occorre avere una visione più ampia del concetto di territorio: la vera eccellenza di Milano è il suo mercato cosmopolita ed è importante saperlo sfruttare bene, con intelligenza e sensibilità, con attenzione alla qualità. Da altre parti, sarà vero il contrario, sarà più sfruttabile il km zero, non lo so. Ma io opero qua, non in altre località d’Italia». Ma come riesce a coniugare la tradizione gastronomica con la produzione locale? «Non so se le due cose sono così inscindibili. Penso ad alcuni piatti tipici milanesi... Non è che le materie prime che li compongono siano state, anche storicamente, meneghine al cento per cento. La ricerca della qualità viene prima dell’aderenza cieca alla produzione locale. Anche perché non è detto che nostrano sia sinonimo di bontà. Se a ciò si aggiunge che la cucina tradizionale, fatta come un tempo, non la si propone più...». Mi sta parlando di rivisitazione... «Sì, ma una rivisitazione intelligente. Piatti milanesi in carta ne tengo ancora, perché qualcuno che li chiede c’è sempre. Ma sono proposti in maniera più leggera, con rosolature più delicate e, quando occorre, magari con cotture a bassa temperatura. E poi per queste pietanze c’è soprattutto la mia trattoria, Chic’n Quick, dove si fa

più tradizione che nel ristorante principale e ritengo che la si faccia bene e con intelligenza. Al Chic’n Quick si possono trovare il riso giallo al salto, la costoletta alla milanese e così via. Anche qui, cerco di seguire la stagionalità pur contenendo i prezzi, rendendo la buona cucina più accessibile». La riporto al ristorante vero e proprio e alla sua cucina, quella che è più legata al suo nome. Ci sono punti fermi che vorrebbe indicare? «Il vero punto fermo è che non sto mai fermo. Che dopo tutti questi anni provo e sperimento ancora, che stare in cucina mi piace ed è anche per questo che ogni due mesi circa cambio il menù. Ho poi la fortuna di avere un personale di cucina molto creativo: anche se il ristorante è mio, i miei ragazzi vivono e creano con me» racconta. «Come dicevo, mi piace sperimentare, ma non ho mai amato l’astrusità. Il piatto, per me, deve esser comprensibile. In tutti i sensi. Se il cliente lo guarda perplesso, è molto probabile che tu abbia fallito. Credo che questo sia un buon consiglio da dare a un personal chef: proporre piatti riconoscibili, identificabili». Qualche altro suggerimento? «Di studiare bene il territorio e le sue eccellenze. Di capire come sfruttarlo al meglio. Come dicevo prima, se si sta in una grande città, magari non si ottiene il km zero, ma si hanno occasioni maggiori per trovare prodotti rari. Se invece si sta in centri più piccoli, si ha magari a portata di mano cibi eccellenti, che è bello usare per riscoprire e farli riscoprire, valorizzandoli. Il territorio deve essere sfruttato con intelligenza, insomma, non con idee precostituite».

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TROVATO

UN PRESIDENTE NE DELLE MERAVIGLIE

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EL PAESE E Metti una sera in cui devi sbucciar carote e alla tivù non c’è nulla di nulla. Metti che termini lo zapping sul canale di Alice tv (221), proprio sulla faccia sorridente dello chef Persegani e sul quella un po’ più seria della Rizzi. Ok, mi dico: Persegani mi piace, mi è simpatico, mi ricorda persino un mio amico del Modenese... E poi magari ti tira fuori dalla pentola qualcosa di carino... E così, mentre con le mani pelo carote, con un occhio guardo il pelapatate, con l’altro sbircio Persegani e con tutto il resto vivo da qualche altra parte, ecco che mi sveglio all’improvviso dall’ipnosi quando la Rizzi, tutta giuliva, cinguetta il nome del prossimo ospite, Giorgio Trovato. Giorgio Trovato? Ho capito bene? Ma dai, penso, ma davvero è lui? Non faccio in tempo a chiedermelo davvero che eccolo lì, faccia da pirata con tanto di microchignon in testa, sorriso un po’ teso e vorrei vedere, perché starsene in tivù non è mica facile! Ok, è proprio lui, il nostro presidente. Che cucina e parla con la Rizzi... Prima sbuccia una carota, taglia una patata e le mani gli tremano un po’, ma poi si riprende, perché i gesti tra pentole e coltelli sono quelli di una vita e l’emozione li può rallentare soltanto per un attimo. Naturalmente, parla anche di noi, della Federazione, e spiega che cosa fa un personal chef e in che modo è diverso da un cuoco di ristorante. Nel frattempo, la ricetta va avanti. «È una cosa facile, facile. Si può realizzare anche mentre si sta facendo altro...», afferma. Con i gamberi che non ci sono e allora via libera alle mazzancolle. Con la Rizzi che lo tampina e che cerca di intervistarlo, di scucirgli qualche informazione in più sulla sua vita, la sua esperienza. Ma basterebbe guardargli le mani per avere tutte le risposte. Mani che parlano della maestria di uno chef che porta in tivù anche una parte di noi, assieme alle sue squisitezze.

ma guarda un po’ chi è ospite DI franca rizzi a casa alice!

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MA IL PIATTO... se l’è portato DA CURINA?


preparazione: metti la carota, lo scalogno, il sedano e le patate con la buccia in una casseruola con un po’ d’acqua e fai bollire per 10 minuti circa. Passa con il frullatore a immersione fino a ottenere una vellutata. Pulisci i gamberi o le mazzancolle e tagliali a tocchetti. In un piatto fondo, metti un ramaiolo di vellutata, i pezzetti di gambero, le fettine di cedro candito (una per ogni tocchetto di gambero), le bacche di Goji e il cuore sfilacciato della burrata. Condisci con un pizzico di sale nero di Cipro e con un filo d’olio extravergine d’oliva.



Foto di SABRINA CONFORTI, per gentile concessione di rEALIZE NETWORKS, il primo food talent italiano.

FINGER


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MR. FINGER FOOD un’intervista di GIORGIO GIORGETTI


Foto di SABRINA CONFORTI, per gentile concessione di rEALIZE NETWORKS.

Una trasmissione, una rivista e adesso persino un libro, uscito da pochi giorni, dedicato al cibo più maneggevole del mondo... Non si scappa: il titolo di Mr. Finger Food dell’anno è tutto per Sebastiano Rovida, cuore da chef autentico, ma faccia malandrina e sguardo ironico in prestito alla tivù. «Finché dura...» aggiunge lui, il Seba, con quella voce che par sempre ti sfotta un po’, pari pari a quella che si sente a Fuori Menù. Com’è che a Finger Food Factory, invece, sei diventato serio? «Guarda che non è che io faccio o divento a seconda del programma», mi sottolinea al telefono. «Sono così, punto e basta. Non sono un attore... Sono un cuoco in tivù. Non ho mai lasciato la cucina. Ho 32 anni, sono sposato e anche papà, e la televisione mi ha permesso di mettermi in proprio, di farmi conoscere, di avere clienti che prima neppure potevo sognarmi... Ed è bellissimo, ma non dimentico mai che l’esperienza in tivù potrebbe finire, mentre il mio lavoro in cucina no». Ok, s’è capito. Io non volevo rubargli troppo tempo per quest’intervista, ma Sebastiano è un fiume in piena, quando parla. E non si risparmia, è tutta passione. Parliamo dei finger food, Seba: hai scelto questo filone modaiolo perché te l’hanno imposto, perché sei un furbetto o perché ti piacciono davvero? «Mah, furbetto mica tanto. I finger sono ancora un prodotto di nicchia. Magari si vedono in giro, ma non si sa come si chiamano... Forse una trasmissione con proposte più convenzionali avrebbe fatto un maggior ascolto, non lo so. I finger, comunque, io li amo davvero. Mi piace tantissimo crearli e prepararli. Anzi, penso proprio di essere stato fra i primi, in Italia, a proporre finger food. Si era più o meno nel 2003, erano i tempi dei “bicchierini”, che a Milano erano una novità e quindi lo erano di certo in tutto il resto del Paese. Non è che fossero già dei finger; erano ancora un po’ incerte, come

LO CHEF PIÙ IRONICO della TIVÙ CI SVELA I SEGRETI DEL CIBO PIÙ MANEGGEVOLE DEL MONDO

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Foto di SABRINA CONFORTI, per gentile concessione di SPERLING & KUPFER, dal libro FINGER FOOD FACTORY.

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I finger food, quindi, possono essere una buona arma nell'arsenale di un personal chef? «Sicuramente. Anzi, io li consiglio proprio. Come ti dicevo, ho fatto e faccio tantissimi catering, grossi eventi, grandi numeri. Ci sono stati periodi, nella mia vita, in cui preparavo dieci matrimoni al giorno, una follia. Poi ho imparato a ridurre gli interventi... I finger, dicevamo. Sì, i finger, soprattutto quando non sei nel chiuso di un ristorante, hanno un valore aggiunto». Perché sono belli... «Perché sono belli ma, soprattutto, perché sono duttili. Li adatti alla situazione, al luogo, al cliente. Che ne so? Fai un matrimonio e prepari tutti finger bianchi, per esempio. Oppure sai che al tuo cliente e ai suoi ospiti piace qualcosa in particolare... Non per forza un alimento vero e proprio, magari un sapore, una sensazione, una suggestione... Puoi fare finger che s’ispirano ai piatti della tradizione o a quelli più apprezzati dal tuo cliente, oppure esotici, strani, curiosi, che accendono la fantasia e l’interesse. Perché quando un pranzo o una cena cominciano con il piede giusto, il resto è più facile». Questo è interessante, soprattutto per noi personal chef. Puoi approfondire? «Sai, ho sempre pensato che il momento più bello di una cena sia l’aperitivo. Perché in quell’occasione sei aperto a tutto, sei totalmente ricettivo, rilassato. Non sei ancora alle prese con coltello, forchetta, tovagliolo e così via. Non stai davvero mangiando. Stai chiacchierando, ti diverti,

IL FINGER È UN’ARMA ECCELLENTE, QUANDO SI VUOLE PERSONALIZZARE UNA CENA O UN BUFFET

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Foto di SABRINA CONFORTI, per gentile concessione di rEALIZE NETWORKS.

preparazioni. Comunque l’idea era lì e a me è piaciuta subito». Perché? «Perché un finger è un piatto vero ma in miniatura. Non è un antipastino, tipo pizzetta, frittatina, frittura mista, oliva ascolana o quello che vuoi. È una preparazione vera e propria, ma tanto piccola che si prende con le dita o con una posatina e che si mangia in un boccone. Se te li trovi davanti, non resisti. Li vuoi provare tutti, perché ogni boccone è diverso dal precedente e tutto è una sorpresa. E se uno non ti piace, poco male perché ne mangi subito un altro, che magari ti fa andare in estasi. Un po’ come il sushi... Anzi, se ci pensi, il finger food per eccellenza è proprio il sushi. E poi i finger sono belli e questo è un valore aggiunto». In che senso? «Nel senso che ci sono locali che diventano famosi o sono molto frequentati soltanto perché sono molto belli. Per i finger è un po’ così. Sono belli, ti attirano, li vuoi provare tutti perché ti catturano gli occhi: è come girare un sacco di bei locali, tutti diversi. Il piatto tradizionale, che sia un primo, un secondo o un dessert, tanto per intenderci, ha il suo fascino e nessuno glielo toglie. Ma l’esperienza che si fa con i finger è diversa perché è molto meno impegnativa e più libera, spensierata. Lo chef, quando crea vari finger, può buttarci dentro davvero tutta la sua fantasia e chi li assaggia ce la ritrova tutta questa fantasia: è un processo liberatorio per entrambi».


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Questa e le precedenti sono foto di SABRINA CONFORTI, per gentile concessione di SPERLING & KUPFER, dal libro FINGER FOOD FACTORY.

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Foto di SABRINA CONFORTI, per gentile concessione di rEALIZE NETWORKS.


entri in sintonia con la gente e il luogo. E nel frattempo porti qualcosa alla bocca ma, come dicevo, non stai davvero mangiando. Mangiucchi. Ed ecco che un finger ti cattura, orienta la tua attenzione sul cibo senza impegnarti troppo. Non è anonimo come un salatino o banale come i soliti stuzzichini, che neppure ti accorgi che esistono anche se continui a ingollarne... Il finger ti dà invece subito il tono della serata, senza però toglierti le chiacchiere, il coinvolgimento che si sta pian piano creando. Non è l’antipasto magari bellissimo ma formale, che ti viene servito a tavola. È qualcosa che vai in giro a spilluzzicare, probabilmente in compagnia. È il cibo che crea i primi commenti, che rompe il ghiaccio e che comincia a interessarti. Dopo, il resto della cena è più facile, soprattutto per lo chef. Perché ha già conquistato i suoi ospiti e, a meno che non faccia cavolate spaventose, li ha già dalla sua parte». Chiarissimo. Che tu sappia, nei finger ci sono nuove tendenze, nuove mode o qualcosa così? «La vera tendenza, in questo momento, è soprattutto estetica. Più il finger è bello, architettonicamente suggestivo e colorato, meglio è. E infatti l’industria degli accessori sta sfornando prodotti sempre nuovi e diversi. Il mio consiglio, quindi, è di cominciare a prendere confidenza anche con queste nuove presentazioni e non limitarsi ai classici cucchiaini, bicchierini, tazzine e così via. Che vanno benissimo, per carità, ma dobbiamo cercare sempre di provare e sperimentare qualcosa di nuovo». E per quanto riguarda i sapori? «Qui non si scappa. Il finger, come tutte le cose che si cucinano, deve essere soprattutto buono. Se è anche bello, meglio. Ma se non è buono, non c’è presentazione al mondo che lo salvi. Che una preparazione sia buona, deve essere dato per scontato». E infatti lo do per scontato anch’io. Ma in realtà chiedevo se esistono nuove tendenze nei sapori...

«Da quel che vedo, credo che esista ancora molta libertà, che non ci sia una sorta di orientamento che primeggia sugli altri... Personalmente, io consiglio sempre di conoscere bene il cliente, parlando con lui, girando per la location che ha scelto... Per lo meno, io faccio così e mi sono sempre trovato bene. Le idee nascono da lì, perché il finger, che è estremamente duttile, è davvero il modo migliore per cucire su misura l’esperienza gastronomica addosso al cliente, per renderla davvero sua. Alcuni miei clienti sono stilisti o aziende di moda, così quando guardo le loro creazioni mi ispiro e cerco di ricrearle in ciò che cucino, studiando bene colori e testure. Con il finger queste cose le fai, le puoi fare. Riesci anche a mantenere un certo filo logico, a ricreare un’atmosfera, a personalizzare il momento. Con un piatto classico fai più fatica. Se trovi il tipo che ama i sapori particolari, il finger ti permette di proporglieli senza rischiare troppo. Al limite, di tutte le cose che prepari, magari proprio quella non gli piace, ma in fin dei conti è solo un boccone, dopo un po’ se lo dimentica. Non puoi rischiare così tanto con un piatto vero e proprio. E, di contro, se il tuo finger lo colpisce, lo affascina, se lo ricorda per tutta la cena e anche oltre. Resta dentro». Finger food forever, quindi. «Ma sì, senza dubbio. Anche se non è detto che prepararli sia sempre facilissimo. A volte possono essere impegnativi come un piatto vero e proprio. Comunque, uno se li sceglie in rapporto alle sue capacità e alle sue forze. Non è che se ne devi fare a centinaia ti vai a prendere proprio quello che ti ci vogliono due ore per farne uno...». Una trasmissione di successo su Real Time (canale 31) e un libro, edito da Sperling & Kupfer, che si chiama proprio Finger Food Factory: quante ricette sono davvero tue e quante ne hai prese da qualche altra parte? «Sono tutte mie, giuro. Fra la tivù e il libro, nell’ultimo anno

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GAMBERO ROSSO BARDATO CON PANCETTA E HUMMUS DI CECI Ingredienti per 10 finger: dieci gamberi rossi, dieci fette di pancetta, 260 g di ceci lessati e sgocciolati, mezzo limone, salsa di soia, tahina (pasta di sesamo). Preparazione. Prepara i gamberi: elimina il guscio e la testa, lavali con cura e privali delle interiora. Avvolgi ogni gambero in una fetta di pancetta e infilzalo con una forchettina di legno da finger. Inforna i gamberi a 200 °C per quattro minuti. Prepara l’humus: frulla i ceci con un cucchiaio di tahina, un goccio di salsa di soia e il succo di mezzo limone, fino a ottenere una salsa morbida e omogenea, abbastanza liquida. Componi il finger: stendi una goccia di salsa di ceci a specchio su un piatto di portata e appoggia il gambero con la forchettina in verticale.

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DAL LIBRO DI SEBASTIANO ROVIDA

Questa e la seguente sono foto di SABRINA CONFORTI, per gentile concessione di SPERLING & KUPFER, dal libro FINGER FOOD FACTORY.

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ho creato più di 200 ricette. Poi, per carità, magari inconsapevolmente ho fatto qualcosa a cui aveva già pensato qualcun altro... Ma in cucina capita. Non è che, alla fine, t’inventi tante cose nuove. Ho in casa non so più quanti libri di cucina e ogni tanto, quando ne apro uno, finisce che ci trovo qualcosa che credevo di aver pensato solo io... Ma è così, è normale. Rielaborare fa parte del processo creativo. Comunque, nel libro ci sono sia le ricette della trasmissione, sia ricette inedite. Penso con sincerità che sia una buona fonte d’idee, per chi vuole dedicarsi a questo tipo di preparazione».

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Finiamola qui, se no ti monopolizzo il pomeriggio. Consigli ai personal chef? «Riassumo: fate i finger food personalizzandoli sul vostro cliente. Non trattateli come una sorta di riempitivo o di sfizio, ma usateli proprio per far capire al vostro ospite che la cena o il pranzo o il buffet sono dedicati esclusivamente a lui, ai suoi gusti, alle sue passioni, alle sue curiosità. E se è un evento aziendale, stessa cosa, però declinata sull’attività della ditta. Sono quei particolari che poi spianano la strada a tutto il resto, perché vi fanno partire subito con il piede giusto». Parola di Mr. Finger Food.



QUEL PICCOLO cielo CHE si tocca con un dito I finger food sul podio: una delle proposte più creative degli ultimi anni dimostra di non essere soltanto una moda passeggera, ma un’arma vincente anche e soprattutto per il personal chef. Ce ne svela i segreti un’autentica artista di questa golosità DI DEBORA FANTINI Parecchi anni fa partecipai a una cena di gala in un noto ristorante di Imola, dove fu servito l’aperitivo in un’accogliente cantina ristruttura. Lì, per la prima volta, assaggiai piccole pietanze appetitose, colorate e sfiziose. Fui letteralmente rapita dall’eleganza delle presentazioni, dall’attenzione per gli abbinamenti e affascinata dal gusto primordiale di poter mangiare con le mani. La cena in generale fu sublime, ma il ricordo della gradevolezza e dello stupore

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per quel cibo mignon mi aveva del tutto conquistato. In quel momento ancora non lo sapevo, ma avevo appena assaggiato i finger food, una preparazione che avrebbe avuto molta importanza nella mia carriera professionale di chef. Il termine finger food entrò nell’uso comune fra le berrette bianche più o meno attorno agli inizi del 2000, grazie a concorsi internazionali in cui i giudici creavano regole


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Le immagini sono state gentilmente offerte da debora fantini.


sempre più specifiche per questa particolare creazione gastronomica. In quegli anni, insomma, furono fissate linee guida severe e precise per codificare la nuova tendenza, facilmente sintetizzabili e comprensibili a tutti. Quindi cominciamo a definire nella maniera più precisa possibile che cosa sia davvero questo incredibile piatto. Il finger food è una vivanda che si degusta in un sol boccone, con le mani o con idonee e specifiche attrezzature (piccole posate, stuzzicadenti e così via). Per questo motivo, deve esser di piccole dimensioni e pesare fra i 15 e i 30 grammi, non di più. È comunque uno sbaglio ritenerlo una sorta di pietanza miniaturizzata: al contrario, deve essere una preparazione ben ragionata e armoniosa nella forma e nel gusto. La sua composizione prevede un minimo di tre ingredienti riconoscibili e non destrutturati, accostati secondo i canoni dell’equilibrio, quindi attraverso abbinamenti per contrasto e per analogia. Un finger food può essere caldo o freddo e realizzabile con qualsivoglia metodo di cottura, sempre che non cozzi con i principi di una sana alimentazione. I finger food possono essere accompagnati da salse o gelatine, ma non devono mai perdere la caratteristica

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di poter esser portati alla bocca in un unico gesto. Tecnica e precisione nei tagli fanno la differenza, naturalmente, in piatti così minuscoli, poiché la ricerca della perfezione anche estetica è importantissima, soprattutto nelle competizioni. Meglio ancora se già al primo colpo d’occhio paiono appetitosi, con colori vivi, lucidi ma naturali: l’uso dei coloranti è caldamente sconsigliato. Eleganza, gusto, praticità, persino spensieratezza... La tendenza a usare sempre di più questi autentici gioielli gastronomici in miniatura offre più di una freccia all’arco dello chef e, soprattutto, del personal chef. Il finger food rende il convivio leggero, poiché si adatta sia alla cena raffinata, sia all’aperitivo più spartano. Inoltre, permette ai professionisti di divertirsi, sbizzarendosi in forme e giochi di colore sorprendenti. Grazie anche a cucchiaini, forchettine, bicchierini o involucri naturali, diverse fiere del settore ci propongono molteplici alternative di modelli e materiali, aiutandoci nella produzione in serie di numerosissimi piccoli sfizi. Anche perché l’unico limite del finger food è la fantasia dell’esecutore e le sue capacità tecniche. Altri confini non li pone, poiché questo tipo di preparazione è slegatissimo da tradizioni, convenzioni o aspettative di alcun genere, se non la propria golosità. Via libera,


quindi, a qualsiasi tipo d’idea e di contaminazione: si possono creare finger food partendo dai prodotti del proprio territorio, realizzando una vera e propria antologia di delizie locali e rare, interpretandole fuori dagli schemi della cucina tradizionale, magari creando aperitivi a tema. Si possono scoprire e far scoprire cibi esotici oppure mescolare tutto, alla ricerca di suggestioni innovative e mai provate prima. Anche perché il finger food, ammettiamolo, è una preparazione un po’ trasgressiva: non soltanto perché si può (anzi, si deve) mangiare con le dita, ma perché ci permette di passare da carne a pesce, da dolce a salato, da freddo a caldo senza vincoli e senza problemi, boccone dopo boccone, con l’unico scopo di assaggiare più cose possibili, di scoprire un gusto nuovo a ogni morso. Questa sorta di felice libertà di gustare, unita alla ricerca dell’eleganza e della precisione, mi ha affascinato fin da subito e penso che possa conquistare più di un professionista, anche se non si è mai avvicinato ai finger food. Quando mi sono innamorata del mondo delle competizioni, mi chiedevo come fosse

possibile racchiudere così tante regole in un elaborato così piccolo. La risposta l’ho trovata nelle notti insonni trascorse a provare, nei disegni a colori sulla carta per cerca la giusta cromia della composizione, nelle ore e ore passate in auto per poter raggiungere questo o quel luogo del concorso, nella scarica d’adrenalina mentre attendevo il momento della gara, quell'istante a cui avrei dato vita alle mie idee davanti a una giuria. Una piccola giungla di preoccupazioni in cui mi sono andata a cacciare, guidata esclusivamente dalla passione. Ma, dopottutto, non è la passione a far sì che ogni cuoco ami il suo ruolo? Non è forse la passione che ci porta a dare tutto di noi stessi in attesa di un unico gesto, quello del commensale che porta il cibo alla bocca? Perché dall’espressione di quel volto dipende ogni nostro investimento, fisico ed emotivo: un sorriso, un piacere, uno stupore o, purtroppo, una delusione, uno sbadiglio annoiato... L’essenza del finger food, alla fine, è la medesima che alimenta la passione dello chef: catturare la delizia sul volto di chi mangia le nostre creazioni, sperando ogni volta che gli ospiti si lecchino le dita e si sorprendano, come accadde a me qualche anno fa, cambiandomi per sempre l’esistenza.

Debora Fantini è chef al Fantini Club di Milano Marittima (Ra) e membro della Nazionale Italiana Cuochi. Vera regina dei concorsi, ha tra l’altro vinto il campionato italiano di finger food nel 2012 e quello di cucina fredda nel 2013. Ha creato www.squisitaly.it, per portare i prodotti dell’alta cucina nelle case di tutti.

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IL BELLO


DI IRENE

fotografie di IRENE BERNI un’intervista di GIORGIO GIORGETTI


Irene Berni, proprietaria del b&b più affascinante d’Italia, regala idee e suggestioni che rendono indimenticabile ogni cena o evento che un personal chef prima o poi affronterà. Dai suggerimenti all’ospite alle invenzioni per stupire...

Non sono mai stato al Valdirose, il bed&breakfast di Irene Berni a Lastra a Signa, un passo da Firenze. Però me lo sogno pieno di luce, come se possedesse un sole tutto suo. Me lo sono immaginato così, la prima volta che l’ho visto in foto, ed è stato amore a prima vista. Perché Irene è una di quelle rare persone che la bella luce ce l’ha dentro, tatuata nei cromosomi del Dna, uno di quei talenti che lo possiedi o non lo possiedi, lei Mozart e tutti gli altri Salieri. Una bellezza che illumina, che elimina le ombre e, in qualche modo, persino l’irrequietezza, come una primavera serena. Non so come vi riesca: Irene posa un cucchiaio su un asse di legno ed è magico. Se lo faccio io, il cucchiaio pare scordato da un ospite distratto e il legno del tavolo appena uscito da una discarica. È un mistero che mi affascina ogni volta. «Sono soltanto una che ha un bed&breakfast» mi dice al telefono, mentre percorre in auto gli Appennini dell’Autosole, con la linea che crolla di colpo a ogni galleria. Sarà. Però dal suo talento è nato anche un libro pieno di eleganza, luce, suggerimenti, idee e ricette, che è unico come il suo Valdirose: s’intitola Quello che piace a Irene ed è pubblicato da Guido Tommasi Editore. Un libro stupendo, tutta farina del suo sacco, tanto per

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dimostrare ancora una volta che il tocco d’Irene è come quello di Mida: magari non trasforma in oro tutto ciò che sfiora, ma vicino ci arriva. E allora ho pensato bene di sfruttarne il dono. Per quei giorni in cui qualche cliente ti chiede consigli sull’apparecchiatura, sulla tavola, sul modo migliore per sorprendere il partner o gli amici, per far sì che la serata sia qualcosa di speciale e non soltanto un momento in cui si paga qualcuno per cucinare a casa propria. «Beh, già il fatto che si prenda un personal chef per fare una sorpresa mi sembra già una gran cosa» mi dice. «Se un ospite arriva già a questa pensata, il più direi che è fatto. A quel punto, per rendere l’atmosfera ancora più interessante, penso che sia importante continuare nel gioco, nell’importanza del momento. Sottolinearlo il più possibile, insomma». In pratica, quindi, che cosa dovrei suggerire? A volte capitano clienti un po’ intimiditi dalla situazione nuova, mai sperimentata, e che temono di sprecare l’occasione... «Di solito, quando ci si concentra su un’idea originale, come una cena appositamente preparata da un personal chef, si lascia un po’ in disparte l’impatto decorativo, il contesto, il contorno» mi racconta Irene. «L’errore, in questo caso,


Irene Berni, 37 anni, è nata e cresciuta sulle colline di Lastra a Signa, vicino a Firenze. Lavoro, viaggi e scoperte hanno affinato il suo amore per la decorazione, che ha poi sfruttato per ristrutturare e arredare la sua casa di famiglia, Valdirose (www.valdirose.com), trasformandola in un bed&breakfast di successo. Tiene anche uno splendido blog, fonte d’infinita ispirazione.

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è pensare che la grande idea basti e avanzi. Avere un professionista che cucina apposta per chi vuoi tu, in casa tua, che ti prepara piatti da ristorante di lusso, è come se fosse un sogno. E quindi occorre ampliare i confini del sogno il più possibile. Prendo l’idea di una cena romantica per fare qualche esempio, perché è più facile. Mettiamo che io organizzi qualcosa di questo tipo per mio marito: penso alla sorpresa, al fatto che per qualche ora saremo serviti e riveriti nella nostra casa come in un locale stellato... E allora che locale stellato sia! Tiriamo fuori la migliore tovaglia che possediamo, magari quella che non mettiamo neppure per le feste comandate! Stessa cosa per i piatti, i bicchieri, le posate... Se si ha qualcosa di bello in casa, è il momento di tirarlo fuori per costruire un sogno vero a 360 gradi, da godere senza troppe preoccupazioni». Mi viene in mente che un personal chef potrebbe farsi un piccolo elenco, anche solo mentale, delle cose che una padrona di casa potrebbe chiedergli, durante l’intervista preliminare, o che potrebbe addirittura suggerire di sua iniziativa... «Se l’ospite ci chiede qualche consiglio, la cosa migliore da fare, secondo me, è di focalizzare l’attenzione sui particolari. Se la cena è per qualcuno che ci è caro, mettiamo sulla tavola un mazzo dei suoi fiori preferiti, oppure un oggetto che abbia un valore affettivo particolare. Naturalmente, deve essere in tono con l’occasione: quel vaso che lui o lei vi hanno regalato, per esempio. E se s’invita la suocera, è il momento di resuscitare quel soprammobile nascosto in uno stanzino da anni, tanto per intenderci!». E poi? «E poi bisogna apparecchiare a modino» prosegue Irene, fra una galleria e una fresca risata al cellulare. «Tavola ordinata e precisa, senza raffazzonare e buttar lì le cose, se no si rovina tutto. Posate al posto giusto, come galateo vuole; coltello con la lama rivolta verso il piatto e così via. Se non si conoscono le regole base della mise en place, si cerchi su internet: esistono un sacco di siti* dove se ne parla e tante foto da cui prendere ispirazione. A me piacciono molto i piccoli segnaposto, per esempio. Anche se si è in due, perché

UN SEGRETO? METTERE A PROPRIO AGIO GLI OSPITI E STUPIRLI CON UNA SORPRESA, ANCHE MINUSCOLA

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fa tanto tavolo riservato, evento speciale... Anzi, magari potrebbe proprio farli il personal chef e metterli in tavola prima del servizio vero e proprio... Mi sembra una cosa carina, che porta via poco tempo. Anche qui, internet è piena di idee e suggerimenti, basta cercare qualcosa che si è in grado di fare... Credo sia l’occasione giusta per essere più formali del solito, perché in un ristorante di lusso la formalità si respira ovunque. E in casa occorrerebbe ricreare la medesima atmosfera, giocare fino in fondo alla grande serata, all’appuntamento insolito, insomma». Quindi sono queste le cose che, se tu fossi una personal chef, suggeriresti a un cliente in cerca di un po’ d’aiuto? «Fondamentalmente sì. Inviterei il cliente a lasciarsi andare del tutto al gioco, al momento. Sentendosi il più possibile a suo agio, che è un po’ la parola d’ordine, soprattutto se la serata coinvolge un gruppo di persone amiche fra loro e non soltanto una coppia romantica. Anche nel caso del gruppo, un po’ di attenzione ai dettagli non guasta: se si fa venire un personal chef, in qualche modo è giusto sottolineare che l’evento non è qualcosa di comune o di banale. È anche questa una favola da saper gestire, magari un sogno della padrona di casa: invitare gli amici più cari a una serata specialissima, raffinata, fuori dagli schemi. L’importante è che niente sia troppo forzato. Anche perché, secondo me, sentirsi a proprio agio, senza seguire mode o trend, seguendo unicamente il proprio carattere e la propria sensibilità, è sempre la cosa migliore, che dà i migliori risultati». Grazie, Irene, ma non ti libererai di me con troppa facilità. Perché finora abbiamo parlato dei suggerimenti che, eventualmente, un personal chef può offrire - su richiesta - a un cliente. Ma c’è un aspetto che m’interessa assai di più: che cosa può fare, un personal chef, per rendere unica una serata? «Spero che la domanda riguardi sempre l’accoglienza... Adoro cucinare, ma non mi ritengo una professionista...». Tranquilla, t’interrogo soltanto sull’accoglienza. «Benissimo, allora!» sorride. «Ti racconto un po’ di cose che mi giungono dall’esperienza diretta del Valdirose, il mio b&b. La prima cosa

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è il fuoriprogramma, la sorpresa. Poche cose fanno più piacere a un cliente di un momento inaspettato, che non era nel menù, nella lista della spesa concordata, nei piatti, nell’apparecchiatura... Non c’è bisogno che sia qualcosa di grosso, di dispendioso. Basta pochissimo. Prima ti dicevo dei segnaposti: si comprano dei cartoncini carini e te li puoi fare da solo, a mano o lasciandoti aiutare da chi ha una bella calligrafia. Un piccolo fiore sul tovagliolo o addirittura un fermatovagliolo originale, che si lascia come cadeau... Possono essere anche sorprese commestibili, che magari sono più in tono con il personal chef. Qualcosa all’inizio o in chiusura della cena, per esempio: dall’antipasto non previsto al finale con un cioccolatino. Mi piace molto l’idea del biscotto della buonanotte...» che sarebbe? «Sarebbe quel biscottino che lasci sul cuscino in camera degli ospiti. Così quando salgono, la sera, lo vedono e ne restano felici davvero. È un modo per farli sentire speciali sul serio, perché lo sono, lo meritano e tu non l’hai dimenticato. Non sono soltanto clienti, insomma». Trovo complicato, per un cuoco, andare in camera da letto dei suoi avventori... «Non ce n’è bisogno. Basterebbe lasciare l’omaggio in cucina, dopo che l’abbiamo pulita e riordinata, magari con un piccolo bigliettino di saluto. Anche qui, possiamo pensare a un fiore, a un piccolo dolce, a un cioccolatino... Basta poco. Ma è sufficiente a fare la differenza».

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Regalami un’altra idea e ti lascio libera... «Amo la sensazione dell’abbondanza e ho notato che piace anche agli altri» mi suggerisce. «Tempo fa, quando preparavo la

colazione al Valdirose, chiedevo ai clienti che cosa volevano, tè, caffè, latte e così via. Poi portavo le cose un po’ alla volta e finiva sempre che qualcuno voleva ancora qualche altra cosa, chi ci aveva ripensato per la spremuta, chi si è lasciato incuriosire dal dolce... Così un giorno mi sono detta: ma se tanto, alla fine, mi chiedono tutto, perché non porto subito tutt’assieme, in una volta sola? Beh, puoi non crederci, ma vederti arrivare un vassoio carico di roba da mangiare fa il suo effetto! Al cliente stesso sembra molto di più, si sente ingolosito e non è più bloccato dall’imbarazzo della scelta». E come l’applicheresti a una cena servita da un personal chef? «Gli antipasti, per esempio. Invece di proporne uno, farne tanti piccoli. La cosa può essere anche concordata, con il cliente, non c’è bisogno che sia per forza una sorpresa. La sorpresa la si ha quando li si vedono servire tutti assieme, nel medesimo momento... Anche a fine cena si può fare la medesima cosa con dei dolcetti da servire con il caffè. Se si pensa già di terminare la serata con caffè e liquori, meglio servire tutto assieme piuttosto che una cosa per volta, petit four compresi. Sembrerà di averne dieci volte di più». L’intervista termina qui, ma la luce che Irene ha diffuso è ancora nell’aria e nelle sue foto. «Non sono una fotografa.... Ho cominciato a fare qualche scatto perché tenevo il blog del Valdirose, mi sembrava un buon modo per farlo vedere... Poi ho fatto il libro e mi sono regalata una fotocamera migliore... Tutto qui». Sì, certo, è tutto qui. Per Irene, naturalmente. C’è chi nasce con la bellezza dentro, non si sfugge...

MISE EN PLACE: Un eccellente testo per imparare tutti i segreti della mise en place lo trovi su www.salabar.it, che non è tanto un sito, quanto un vero e proprio internet ebook, scritto da Oscar Galeazzi. Qui il capitolo dedicato, appunto, all’apparecchiatura formale: http://www.salabar.it/node/185.

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DAL LIBRO DI IRENE BERNI

PASTA, SALSICCIA E VERZA Amo questo ortaggio buono e bello. Cucinarlo è un vero piacere: staccare le sue foglie esterne increspate e ben serrate, sentirle “croccare”, tagliarlo in due per scoprire quel cuore verde e leggero, cuocerlo lentamente e ritrovare il suo dolce sapore... Ingredienti per sei persone: mezza verza, un porro, tre cucchiai d’olio e due salsicce. Preparazione: Scegli una verza pesante, con le foglie intatte e ben chiuse. Elimina le foglie esterne più rovinate e lava la verza con acqua corrente. Tagliala a metà e successivamente in quarti. Procedi poi a tagliarla ancora in tante striscioline. Pulisci il porro privandolo della barba alla base e delle foglie esterne. Taglialo a rondelle sottili. Prendi una pentola antiaderente e facci rosolare il porro con l’olio: quando sarà rosolato, aggiungi la verza. Salta per qualche minuto, poi copri e continua la cottura a fiamma bassa, aggiungendo mezzo bicchiere d’acqua calda, se necessario. Terminata la cottura, aggiungi la polpa di salsiccia saltata a fiamma viva e usa il sugo per condire la pasta.

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Tutte le fotografie sono di GIORGIO GIORGETTI


BIO & LOGICO Un cibo biologico è più salutare di uno d’agricoltura o d’allevamento convenzionali? Secondo molti esperti, la differenza è minima e non giustificherebbe i costi maggiori. Ma uno studio italiano chiarisce una volta per tutte la questione, dati scientifici alla mano: un alimento naturale può davvero aiutare la nostra salute. E di parecchio di Giorgio Giorgetti

Mi sono sempre chiesto se mangiare bio fosse meglio che usare prodotti d’agricoltura e d’allevamento tradizionali. Da quando sono personal chef me lo chiedo ancor di più, perché - quando dico a un cliente che uso soltanto cibi biologici garantiti - voglio sapere se sto vendendo autentica qualità oppure il solito fumo modaiolo. Le prime ricerche, lo ammetto, sono state sconfortanti: moltissimi esperti, capitanati anche da note associazioni di consumatori, affermavano che una gran differenza non c’era. Una carota bio, insomma, si differenziava assai poco da una tradizionale: medesima composizione, medesime vitamine, medesimi oligoelementi, medesime calorie... Spendere di più per mangiare bio non sarebbe servito a nulla e io, da buon personal chef, tutte le volte che decantavo a qualcuno la lista dei miei produttori di fiducia, altro non facevo che marketing. E nulla più. Intendimi, ti prego. Non è che volessi per forza che qualcuno mi dicesse, dati alla mano, che bio è meglio. Però mi dispiaceva. Vedevo e vedo nell’agricoltura bio un modo per affrontare il futuro in maniera diversa, una sorta di palestra dello

spirito e delle intenzioni. Del tipo: se ancora c’è chi coltiva senza pesticidi, magari un giorno impariamo davvero a farlo anche nell’agricoltura e nell’allevamento intensivi e il pianeta respira di più. E poi c’erano i bambini. Io figli non ne ho: ma i miei potenziali clienti sì e m’infastidiva pensare che la mia scelta bio fosse soltanto un modo per conquistarli, mettendo avanti la salute dei bimbi. Perché, quando si mettono in mezzo i figli, si guarda assai meno al portafoglio. Le madri che decidono di passare ai cibi biologici, nonostante il loro prezzo più elevato, sono infatti sempre più in aumento: il 74 % delle donne intervistate dal sito Alfemminile.com dichiara di prestar sempre più attenzione a ciò che mangia e di riconoscere la miglior qualità del bio, acquistando in prevalenza frutta e verdura (60 %) e carne (22 %). Ciò che anni fa poteva apparire una moda o una reazione alle cattive acque in cui naufragavano l’agricoltura e l’allevamento convenzionali (mucca pazza e polli alla diossina in primis), ora è una realtà di fatto, che interessa un settore forse ancor ristretto, ma non più indifferente della nostra economia. Allora, prima

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un’autentica miniera di preziosi ANTIOSSIDANTI

di tentare di trovare qualcuno che avesse davvero studiato a fondo il problema, ho provato ad approfondire la materia e di capire che cosa volesse dire “bio” e in che cosa si allontanasse dal resto. Ma cercare di comprendere la natura e il significato del cibo biologico è impossibile senza parlare della filiera che lo produce. Al contrario di quanto si pensi, l’agricoltura biologica non è soltanto un modo diverso (magari più scomodo, ma forse più salutare) per giungere ai medesimi risultati delle coltivazioni convenzionali. È, invece, un sistema più vasto di relazioni, persino filosofiche o spirituali, in cui ambiente e coltivatore instaurano un dialogo fitto e continuo, in una sorta d’impegno reciproco, comune.

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Quest’ultima definizione, che di primo acchito pare un po’ New Age, acquista maggior senso se si spendono due parole sui metodi dell’agricoltura convenzionale, nel pieno rispetto delle leggi vigenti. L’attività agricola non biologica ha dovuto semplificare la struttura dell’ambiente che occupa in vaste aree, riducendo a un numero sparuto di colture e di animali domestici la pluralità di specie che caratterizza un ecosistema naturale. Inoltre, l’intera produzione agraria è indirizzata all’esterno, al mercato, lasciando all’interno dell’habitat soltanto scorie: ciò comporta una perdita d’energia e materia tale da limitare la capacità del sistema di autosostenersi. Il risultato finale è un sistema ecologico artificiale dall’equilibrio precario: per esser


mantenuto stabile, necessita via via di interventi umani sempre maggiori. Ha bisogno di un costante apporto artificiale (concimi chimici, diserbanti, fitofarmaci) per mantenere la sua artificiosità. L’agricoltura biologica è invece una procedura che prende in considerazione l’intero ecosistema, con l’intento di creare tra i vari elementi una ragnatela di rapporti e relazioni, consentendo l’autosostentamento dell’ambiente ed evitandone impatti negativi come l’inquinamento delle acque,

del terreno e dell’aria. Tale pratica tenta di adeguarsi il più possibile al cosiddetto principio dell’autorganizzazione: la capacità di un ecosistema di perpetuarsi da sé, in un circuito chiuso che non necessita di interventi esterni. In pratica, la fertilità della terra è mantenuta attraverso il lavoro dei microrganismi e dei decompositori, che provvedono a riciclare come concime il materiale organico prodotto dall’azienda agricola. L’acqua per le irrigazioni proviene dal riciclo della pioggia e non prelevata da fuori. I parassiti sono eliminati per mezzo della biodiversità locale, grazie ai loro antagonisti naturali. La semina è effettuata con i semi del raccolto precedente e non con semenze importate. La resistenza alle malattie è creata attraverso lo sfruttamento delle varietà autoctone e così via. Naturalmente, l’impiego di tecniche agronomiche tradizionali (come la rotazione delle colture, ad esempio) non esclude pratiche più moderne (come la sarchiatura meccanica dei terreni, approvata a livello europeo), purché restino ancorate alla filosofia di fondo, che è di ridurre al minimo l’impatto ambientale e alla conservazione della catena di rapporti tra agricoltura e territorio. Particolare attenzione meritano inoltre i metodi d’allevamento del bestiame: vietati gli alimenti Ogm, gli antibiotici e gli stimolatori

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LA NATURA CHE FUNZIONA Fibra, carboidrati, proteine, grassi.. Nei suoi macroelementi, una carota bio è simile a una carota non bio. Ciò che però cambia è la presenza di microelementi in più, indispensabili per la salute umana. Si parla, insomma, di pigmenti vegetali come i polifenoli e i bioflavonoidi, le vitamine, il selenio, il rame , lo zinco, il coenzima Q10, il licopene e così via...

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i BIOALIMENTI costaNO di piÙ, ma SOSTITUISCONO in modo egregio qualsiasi integratore in pillole

della crescita, così come la crescita in gabbia o in batteria. Gli animali devono essere alimentati anch’essi con prodotti biologici certificati, accuditi in ambienti idonei alla loro fisiologia, con possibilità di movimento, luce e pascolo. La Regione Toscana fu la prima, in tutt’Europa, a dotarsi di una legge sulla zootecnia biologica, nel 1995, durante gli anni caldi dell’encefalopatia spongiforme bovina, conosciuta anche con il termine di Bse (Bovine spongiform encephalopathy) o “malattia della mucca pazza”. In seguito, l’Unione Europea varò un regolamento specifico, il n. 1804/99. Il prodotto bio, insomma, nasce da un duro lavoro, senza troppi compromessi, che sul mercato si traduce in un costo maggiore. La domanda, soprattutto in tempi di crisi come questi, sorge spontanea e ci riporta all’inizio di quest’articolo: vale la pena pagare di più per una carota biologica? Prima di far parlare la scienza, una provocazione: se l’alternativa al mangiare frutta e verdura bio è non mangiare affatto frutta e verdura, allora non ne vale la pena. Che siano d’agricoltura convenzionale o no, i vegetali sono indispensabili in una sana e corretta alimentazione. Però, potendo, il bio è meglio. Ed ecco che qualcuno mi spiega finalmente perché, dati alla mano e senza troppe chiacchiere alla moda. «Lo dico nella maniera più chiara possibile: non sono una scienziata prezzolata dalle aziende, ma una libera ricercatrice dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata». Laura Di Renzo, docente alla Scuola di specializzazione in Scienza dell’alimentazione, mette subito le mani avanti. «Quando affermo che, secondo i dati ricavati da anni di studi e ricerche, i prodotti bio sono migliori da un punto di vista nutrizionale, spesso mi si accusa di esser di parte. Invece non c’è nessuna parte: non rispondo a logiche economiche, politiche e quant’altro. Sono libera e non ho sudditanze con sponsor o chi per loro». Allora partiamo dal risultato di questi studi, che è senz’altro ciò che più interessa: perché un alimento bio è superiore a quello d’agricoltura convenzionale? «Perché le capacità antiossidanti degli alimenti bio sono di gran lunga superiori a quelle dei prodotti agricoli più comuni. Significa che la differenza sta proprio in quei microelementi indispensabili nella dieta umana. Parlo di pigmenti vegetali come i polifenoli e bioflavonoidi, le vitamine, alcuni microelementi ed enzimi

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come il selenio, il rame, lo zinco, il coenzima Q10, il licopene e così via. Nei suoi macroelementi, una carota bio è simile a una carota non bio. Avrà una determinata quantità di fibra, di carboidrati, di proteine e di grassi che non varia, perché sempre una carota è. Ciò che cambia è la quantità dei microelementi che ho appena citato. E, dal punto di vista della salute, non è una differenza da poco, se posso permettermi di sottolinearlo». «In linea di massima» prosegue la dottoressa «seguire una dieta ricca di antiossidanti è molto utile per rallentare i processi degenerativi e favorire una buona attività metabolica. Non per nulla gli esperti consigliano un consumo di almeno cinque porzioni tra frutta e verdura fresche e di stagione, all’incirca due etti di frutta e di tre di verdura. Poiché i vegetali bio sono più ricchi di antiossidanti, dare a essi la preferenza è senza dubbio la mossa migliore per aumentare la nostra quota giornaliera di questi microelementi. Certo, costano poco di più, dipende da dove sono acquistati. La spesa per l’acquisto di un prodotto di qualità per una dieta sana e biologica, che aiuta a mantenere il buono stato di salute e a prevenire eventuali patologie legate alla cattiva alimentazione, riduce comunque i costi sanitari per acquisto di pillole e integratori; diventerebbero un investimento, più che una spesa». «Tutto è cominciato nel 2006, con la pubblicazione dei dati raccolti nel cosiddetto Progetto Sabio, guidato dal professor Antonino De Lorenzo, docente di Alimentazione e nutrizione umana dell’Università Tor Vergata» prosegue. «In questo studio volevamo capire se, effettivamente, gli alimenti biologici che costituiscono la base della Dieta mediterranea avessero proprietà nutrizionali davvero maggiori degli altri, oppure non ci fosse alcuna differenza. Le nostre ricerche non lasciano spazio a dubbi: durante i tre anni

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del progetto, ho analizzato centinaia di alimenti bio e sono arrivata a conclusioni molto indicative. La prima: la capacità antiossidante del bio è superiore al convenzionale da un minimo del 5 % a un massimo del 300 %. La seconda: non esiste differenza nella quantità di micotossine». Può spiegare meglio quest’ultimo punto? «Le micotossine sono composti tossici prodotti da diversi tipi di funghi, che di solito entrano nella filiera alimentare attraverso colture contaminate. Uno dei punti più controversi del bio è sempre stato che, poiché queste colture non sono trattate con fungicidi e pesticidi vari, dovrebbero presentare un rischio micotossine più elevato di quelle dell’agricoltura tradizionale, che invece le combatte con i prodotti chimici. Il risultato, invece, afferma che nei vegetali convenzionali si trovano tante micotossine quanto nel bio. Quindi, da questo punto di vista, la differenza non c’è. Ma il bio, però, vince: perché, a parità di micotossine del convenzionale, presenta molte meno tracce di pesticidi». D’accordo sulla minor presenza di pesticidi nel bio, che potrebbe esser cosa ovvia. Ma perché si è così certi delle sue proprietà nutrizionali? «La certezza nasce da una lunga ricerca. Sul modello della Dieta mediterranea, abbiamo costruito piani dietetici diversi per un gruppo di soggetti, del tutto inconsapevoli dell’origine degli alimenti. Una parte di essi era nutrita con prodotti bio, l’altra parte con i medesimi prodotti, ma d’origine convenzionale: poi i gruppi si scambiavano e, finito l’esperimento, i vari soggetti arruolati prendevano loro stessi il controllo della loro alimentazione. Confrontando i dati ottenuti, abbiamo notato che, nei soggetti nutriti con prodotti bio, la capacità antiossidante era aumentata del 10-15 %. Ma questo non basta: abbiamo fatto il medesimo esperimento su soggetti ammalati e i risultati sono stati al di là di qualsiasi nostra previsione». «Abbiamo proposto una dieta bio a persone che soffrivano d’insufficienza renale cronica e, dopo un certo periodo, abbiamo scoperto che il livello di colesterolo nel sangue si era abbassato, mentre era aumentato il colesterolo Hdl, quello cosiddetto buono. Ciò significa che anche il rischio cardiovascolare diminuiva. Non solo. La perdita di albumina* nel sangue, che è indice di malnutrizione, si riduceva. L’omocisteina* si riduceva: ciò significava che attraverso la dieta venivano apportati quantitativi maggiori di acido folico, quindi di vitamina B12 e B6. Si riducevano anche i fosfati e quindi si aveva un rischio minore di danni renali. Sono andata a provare questa dieta bio anche in una comunità chiusa come quella di un convento, tra i frati che mangiano tutti alla medesima mensa, senza avere la possibilità di nutrirsi in altro modo. I valori evidenziati si presentavano sempre e comunque, confermando la superiorità nutrizionale del bio».

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Laura Di Renzo è professoressa aggregata e ricercatrice presso la Sezione di nutrizione clinica e nutrigenomica del Dipartimento di biomedicina e prevenzione dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata.

ALBUMINA: l’albumina è una proteina del plasma, prodotta dalle cellule del fegato. Valori bassi indicano appunto un problema a quest’organo. Inoltre, è anche un importante marcatore di disfunzioni renali. OMOCISTEINA: è un amminoacido presente nel sangue. Livelli troppo alti di omocisteina sono considerati un fattore di rischio cardiovascolare.

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NELLA SELVA DELLE SIGLE Se sei un professional personal chef della nostra Federazione, hai fatto il corso con Giorgio e Stefania e magari ti leggi pure PCM, allora saprai probabilmente vita, morte e miracoli dei prodotti De.Co. Può darsi, però, che qualche dubbio ti resti in fondo al cervello, non tanto perché non hai compreso che cosa sia una Denominazione Comunale, quanto perché non hai un’idea chiara di come si ponga nei confronti di altre sigle e altre indicazioni merceologiche. Perché, ammettiamolo, tutti questi marchi paiono infiniti! Igp, Doc, Stg, Dop... ma quante sono e a che cosa corrispondono, queste sigle? Ci servono, nel nostro lavoro, o potremmo senza problemi farne a meno? E se proponiamo a un nostro cliente un prodotto Dop, gli stiamo davvero vendendo qualità oppure gettiamo solo un po’ di fumo negli occhi? Ecco, se senti il bisogno di una guida veloce veloce che ti faccia da bussola nella selva delle sigle, questo è l’articolo che fa per te. Qui avrai le spiegazioni di ogni denominazione, con le parole più semplici che sono riuscito a trovare. La prima cosa da fare, però, è eliminare dalla nostra lista quelle sigle che non ci servono tutti i giorni. Parlo delle denominazioni tipiche del vino italiano, che può essere utile approfondire in un discorso più ampio sulla produzione vitivinicola nazionale. Ma, per ora, limitiamoci al cibo. Alle bevande, a parte il breve accenno che segue, penseremo un’altra volta. Le sigle del vino, ti dicevo: Doc, Docg e Igt si trovano molto spesso sulle bottiglie e significano, rispettivamente, Denominazione di origine controllata, Denominazione di origine controllata e garantita e, infine, Indicazione geografica tipica. Ma, come ho detto, per adesso togliamocele dalla mente, che non c’interessano.

GIORGIO GIORGETTI. testi e foto d’apertura.

una bussola per non perdersi fra le Indicazioni dei prodotti tipici



de.co. Pensiamo invece al cibo vero e proprio, magari partendo proprio dalla nostra amata sigla De.Co., che sta appunto per Denominazione comunale. Che cosa significa? Semplice: che, attraverso una delibera del Comune, un particolare prodotto locale è stato dichiarato rappresentativo di quella cittadina. Tanto per fare un esempio: io abito a Cantello, in provincia di Varese. Il prodotto De.Co. di Cantello è l’asparago bianco, chiamato appunto asparago di Cantello.

Gallo di razza padovana, zucca bertagnina e formaggio Murazzano. Insalata Rosa di Gorizia (foto di Cate Sherpa).

Un prodotto De.Co. è sinonimo di qualità? In teoria fino a un certo punto, in pratica sì e ora vediamo perché. In teoria la Denominazione comunale non risponde ad alcuna legge nazionale o comunitaria. Non deve, insomma, rispettare determinati standard di qualità davanti a una commissione che ne accerterà la bontà. In pratica, però, un prodotto De.Co. è molto spesso di qualità perché sono gli stessi produttori ad autoregolarsi, magari stilando un regolamento (si chiama disciplinare) in cui specificano le linee guida della produzione,


PECORINO DI MONTE PORO al mercato di Vibo Valentia, in Calabria. Foto di Cherrye Moore -www.italiannotebook.com/author/cherrye.

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proprio per mantenere un alto livello qualitativo. Il marchio, insomma, definisce un prodotto legato intimamente a un territorio e ha una valenza soprattutto pubblicitaria e commerciale, non legale. Alla Comunità europea, per esempio, non interessa nulla che un formaggio sia De.Co. oppure no. Per l’Europa (ma anche per il nostro stesso Paese) la De.Co. non offre alcuna garanzia. arche e presidi. Piuttosto simili alle De.Co. sono le Arche e i Presidi Slowfood, la nota fondazione che ormai ha valicato i confini del nostro territorio per diventare una realtà mondiale. Queste iniziative di Slowfood somigliano in qualche misura alle De.Co. Perché vogliono anch’esse evidenziare e preservare produzioni di nicchia, che con il tempo potrebbero sparire del tutto oppure sono addirittura già svanite e soltanto negli ultimi anni recuperate con difficoltà. Anche questo marchio ha fini del tutto commerciali, basandosi sulla ben nota legge che, se una cosa non viene comprata e mangiata, prima o poi sparisce. Ma qual è la differenza fra Arca e Presidio? Facile: l’Arca non è che una voce in un registro, un catalogo di prodotti che vuole denunciare il rischio di estinzione di determinati cibi, invitando tutti a far qualcosa per salvaguardarli. Il Presidio, invece, è l’attuazione di un piano di salvaguardia: è quindi la fase operativa su un prodotto individuato dal catalogo dell’Arca. Anche qui, il discorso sulla qualità in senso stretto diventa difficile. Soltanto il produttore (e Slowfood, che ci mette la faccia) può garantire con il suo buon operato la bontà dell’alimento, della coltivazione, dell’allevamento. Altre vere e proprie garanzie non esistono. Provare e assaggiare, insomma, è l’unica soluzione. L'elenco dei prodotti è su www.fondazione-slowfood.it/presidi-italia. Tutto questo discorso sulla garanzia di qualità è importante perché, come vedrai, molte altre sigle sono state invece create proprio per assicurare uno standard produttivo e quindi hanno un determinato peso davanti alla legge italiana ed estera. Nel frattempo, se ti piacciono le liste, puoi scaricarti quella che elenca tutti i prodotti Dop, Igp e Stg italiani nel sito ufficiale del ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali: http://goo.gl/OfPv19. DOP. Cominciamo con la più famosa, la sigla Dop. Dop significa Denominazione di origine protetta e già il nome qualcosa svela. Innanzi tutto, questa sigla è nata in Europa, viene attributa dalla Comunità europea e in tutta Europa si usa, non soltanto nel nostro Paese: vale in tutto il territorio dell’Unione e, grazie a particolari accordi internazionali, anche nel resto del mondo.

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SONO DAVVERO TANTI I PRODOTTI LOCALI CONTRADDISTINTI DA UNA SIGLA. NON SOLO ALIMENTI DI BASE, MA ANCHE ANIMALI E PIANTE, DOLCI, PASTE E PIATTI TIPICI

Il formaggio Salato d’Asìno, foto di Luca Maruffa. Sale marino artigianale di Cervia. Formaggella del Luinese. Frutti di chinotto, foto di Vincent Albanese.

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I prodotti Dop sono quindi di qualità? Sì, almeno sulla carta. Questo perché un disciplinare, per quanto rigido sia, indicherà sempre e soltanto le metodiche produttive per giungere a un livello qualitativo di base. Un livello buono, insomma, ma non per forza eccelso. Starà al produttore stesso ricercare una qualità oltre il minimo richiesto dalla legge, se lo desidera: ecco spiegato perché gli stessi prodotti Dop hanno spesso prezzi così differenti. L’Asiago, per esempio, è un formaggio Dop, ma può essere prodotto con livelli base di qualità da un’industria casearia o con livelli qualitativi altissimi da un artigiano locale. Naturalmente i prezzi varieranno, così come varia la qualità reale, pur essendo entrambi prodotti Dop. Questo, di sicuro, è il discorso più complicato da comprendere: il medesimo prodotto Dop può avere qualità e prezzi assai differenti a seconda delle capacità e degli intenti del produttore. Per la legge, insomma, basta che siano rispettati livelli minimi, sufficienti comunque a garantirci la provenienza, l’integrità e la salubrità di questo cibo. IGP. Questa sigla significa Indicazione geografica protetta e, a primo avviso, non parrebbe troppo diversa dalla Dop. Invece la differenza esiste e non è proprio piccolissima. Ciò che afferma, infatti, è che un prodotto è in qualche maniera legato

LA CONOSCENZA DEI MARCHI è UN VALIDO AIUTO NELLA RICERCA DELLA MIGLIOR QUALITà

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DONNE PULISCONO L’UVA MOSCATO AL GOVERNO DI SARACENA, presidio Slowfood.

Al contrario della De.Co., la Dop sancisce uno standard qualitativo regolamentato dalla legge. Che cosa significa, in soldoni? Che per ogni prodotto Dop si garantisce l’area di provenienza specifica e un processo produttivo conforme a un disciplinare controllato, perché è proprio lì, in quel luogo e in nessun altro, che tale cibo ha raggiunto l’eccellenza. E quindi non può essere slegato dal nome del luogo e dalla produzione locale, appunto. Per fare un esempio, l’Aceto balsamico tradizionale di Modena può riportare il marchio Dop se è stato prodotto nella zona stabilita per legge (in questo caso la zona di Modena, in Emilia Romagna), seguendo un ben preciso disciplinare di produzione, che ne garantisca un buono standard qualitativo.


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BASILICO GENOVESE DOP

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a un territorio che, nel corso del tempo, è stato per il prodotto stesso sinonimo di qualità e reputazione, ma non è detto che tutta la filiera di produzione debba svolgersi in quel luogo. Troppo arzigogolato? Proviamo con un esempio. Il Limone femminello del Gargano è un prodotto Igp. Significa che nel Gargano quel particolare tipo d’agrume ha raggiunto livelli di qualità e di reputazione notevoli. Non significa, però, che soltanto nel Gargano si possano coltivare limoni femminelli. Lo si può fare anche in altre parti d’Italia e li si può anche chiamare proprio così, limoni femminelli. Però, da sempre, i più famosi e probabilmente anche i più buoni sono quelli del Gargano. Se invece fosse stato un prodotto Dop, soltanto i limoni femminelli del Gargano avrebbero potuto essere commercializzati con questo nome: gli altri avrebbero dovuto trovarsene un altro. Per questo non c’è un Asiago calabrese o toscano! Questa, però, non è la sola diversità con la Dop. Anzi, quella che segue è molto importante per lo chef che punta alla vera qualità. A differenza della Dop, infatti, per la legge europea e italiana non è importante che tutte le tappe della filiera produttiva di un prodotto Igp siano effettuate nel luogo preposto. Sembra folle, ma è così. Per essere definito Igp, infatti, è sufficiente che un alimento abbia avuto almeno un passaggio nell’area geografica determinata. Gli altri possono essere compiuti da qualsiasi altra parte. Proprio per garantire ciò che la legge non riesce ad assicurare fino in fondo, quindi, sono nati i Consorzi. Che, a loro volta, controllano e targano i prodotti che ritengono davvero corretti, mettendoci la faccia in prima persona. Hai dubbi sulla reale provenienza/qualità di un cibo Dop o Igp? Vai sul sito del Consorzio e controlla fra i suoi soci

se trovi il nome del produttore. Sarà un’ulteriore garanzia di qualità che puoi offrire al tuo cliente. Per il discorso della bontà di un prodotto Igp, vale quanto detto per la Dop: il disciplinare regola uno standard minimo, tocca poi al singolo fare di più, se lo desidera. STG. La Specialità tradizionale garantita è ben poca cosa e vale più all’estero che da noi. In pratica, in Italia abbiamo soltanto due prodotti Stg: la mozzarella e la pizza napoletana, i due cibi nostrani forse più imitati al mondo. E, in effetti, questo marchio vuole proteggere soltanto un nome, come a ricordare che la vera mozzarella è quella napoletana, idem per la pizza. Poi, per carità, possono essere fatte da chiunque e ovunque, anche in Lituania. Ma ricordatevi che la patria d’origine è questa. A conti fatti, per il nostro lavoro di personal chef questa sigla è del tutto inutile! PAT. Questa sigla ti giunge nuova? Non preoccuparti, capita. Può darsi che tu l’abbia piuttosto sentita citare come Prodotto agroalimentare tradizionale. La lista di queste produzioni è piuttosto lunga e la sua genesi parecchio complicata, se vogliamo molto “all’italiana”. In qualche maniera, i Pat potrebbero essere considerati gli antenati dei prodotti De.Co: non per nulla, parecchi De.Co. sono anche Pat. La storia, a grandi linee, è questa. Circa una ventina d’anni fa, l’Italia si trovò ad affrontare il complicato scenario della politica agricola europea, assai più “di massa” della nostra. E non si parla tanto di qualità, quanto di quantità: da noi mancano estensioni di terra coltivabile che possano competere con quelle di altre nazioni. Lo Stato italiano, per trovare un terreno su cui competere, decise di puntare sulle produzioni di nicchia, chiedendo alle singole regioni di stilare un catalogo di prodotti tradizionali caratteristici

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che, naturalmente, non fossero già Dop, Igp o Stg. Così fecero, ma non servì in pratica a nulla, perché l’Europa si rifiutò (e tuttora si rifiuta) di accettare queste indicazioni, in quanto finirebbero per confondersi con le Dop e le Igt, senza produrre le garanzie qualitative di quest’ultime. Chiaro, no? Infatti, per entrare nei Pat di una regione, a un prodotto è sufficiente essere stato ottenuto con metodi di lavorazione, conservazione e stagionatura consolidati nel tempo, omogenei per tutto il territorio interessato, secondo regole tradizionali, per un periodo di tempo non inferiore ai 25 anni. Insomma, tante garanzie non se ne vedono. Basta che ci sia una lunga pratica. A questa definizione potrebbe corrispondere sia un prodotto può essere così infimo da essere immangiabile, sia un capolavoro della gastronomia mondiale.

PECORINI A PIENZA, IN TOSCANA. Foto di Dan.

Come se non bastasse, molti di questi elenchi regionali sono difficili da trovare anche sui portali della propria Regione. Il metodo più sicuro per buttarvi un occhio è aprire la pagina di Wikipedia corrispondente (http:// it.wikipedia.org/wiki/Prodotti_agroalimentari_ tradizionali_italiani) e cercare l’elenco che interessa, anche se di solito non è mai aggiornato, purtroppo. I Pat sono sinonimo di qualità? No. Perché non vi è obbligo di alcun disciplinare, a meno che i produttori non se lo siano dato per loro diretta iniziativa. Anche qui, assaggiare e giudicare è la prima regola. Tutto il resto non conta o conta pochissimo. Leggere l’elenco regionale dei Pat è però utilissimo per imparare a conoscere i prodotti locali più interessanti. Che non è poco, anzi! Si può dire, infatti, che un buon personal chef, se vuole esser legato al territorio dove principalmente opera, dovrebbe conoscere molto bene i prodotti tradizionali della sua provincia e di quelle limitrofe. Questi elenchi, quindi, dovrebbero esser consultati come la Bibbia. Buona caccia!

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GIORGIO GIORGETTI, fotografo.


FF TOPI

FOTO ORRENDA, CUCINA TREMENDA DI GIORGIO GIORGETTI

Nulla come un’immagine da incubo è in grado di allontanare i potenziali clienti. Se il tuo sito o il tuo blog sono afflitti da scatti nauseabondi, ecco i primi passi per migliorare l’aspetto dei tuoi piatti anche sul web, non solo in tavola

Il 90 % delle foto di cibo che trovo in giro fa parecchio schifo. Scusami, ma davvero non so in che altro modo scriverlo. Se vuoi ti dico che sono così così, che non sono poi tanto male, che in fin dei conti l’importante è il contenuto, non la forma... Ma mi viene da ridere... No, no, fanno proprio schifo! Ti dico come funziona nella stragrande maggioranza dei casi. Un giorno mi sveglio e decido di diventare personal chef. Allora, per pubblicizzare la mia nuova attività, apro una pagina Facebook, un blog o addirittura un sito e, poiché cuoco sono, mi metto in testa di fotografare i miei piatti migliori. Così tutti li vedono. E vedono anche quanto sono bravo. Però c’è un però. Una volta fotografato, il mio meraviglioso sformatino di quinoa alle verdurine dell’orto con gocce di aceto balsamico tradizionale e scaglie di Castelmagno sembra il vomito del mio cane quando mangia cose che non dovrebbe. Persino la mia crema pasticciata al caramello di melanzana somiglia pericolosamente a una cosa che il mio gatto ha deposto sul tappeto. Qualcosa che avrebbe fatto meglio a deporre nella sua lettiera, intendo...

Ecco, se a questo punto tiri su le spalle e ti racconti che l’importante è mettere qualcosa in pagina e che sei uno che spadella e non un professionista della fotografia, commetti un errore gravissimo. Che può costarti caro. Tu puoi essere il personal chef più bravo del mondo, ma se le foto dei tuoi piatti fanno schifo, la gente che non ti conosce penserà malissimo della tua cucina. Mai sentito dire che un’immagine val più di mille parole? Significa che il senso della vista, per il nostro cervello, è più importante di qualsiasi altra cosa. Per noi esseri umani, ciò che vediamo è ciò che esiste, che è, che è vero. E se vediamo una cosa schifosa, per noi è e resterà schifosa per sempre. Potrà avere il profumo e il sapore migliori del mondo, ma continuerà a farci schifo. Quindi, ogni volta che metti sul tuo sito, sul tuo blog o in qualsiasi altra tua presentazione una foto da ribrezzo, sappi che susciterai ribrezzo anche negli altri. E chi mai si fiderebbe a chiamare a casa uno chef che cucina cose ributtanti? Ok, mi dirai, posso anche essere d’accordo con te. Ma mi dici che cosa dovrei fare? Devo diventare anche

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fotografo? No. Però se vuoi comunicare agli altri le tue capacità, devi trovare un modo davvero buono per farlo. Se no sarà tempo perso. Non pretendo di dirti come diventare un grande fotografo e neppure un fotografo. Voglio però elencarti tutto ciò che devi sapere per cominciare a migliorare le foto dei tuoi piatti. Poi, dipenderà da te e dalla tua volontà. UN PO’ DI AUTOCRITICA. Te lo giuro: spesso mi chiedo come sia possibile. Non credo di essere un signor Perfettino, ma tantissime volte trovo su internet immagini di piatti e di pietanze che mettono i brividi. E non certo d’entusiasmo. E allora mi chiedo: ma è possibile che questa foto faccia paura soltanto a me? Come mai chi l’ha scattata non vede quanto fa orrore? Un po’ è normale: siamo portati a essere indulgenti con ciò che facciamo, soprattutto in quei campi in cui non sappiamo nulla o quasi. È un po’ come se la nostra mente ci dicesse: «Beh, dopotutto non sei un fotografo! Non puoi mica pretendere chissà che cosa!». E così finisce che ci accontentiamo e pensiamo che quel risultato (orribile) sia il massimo che possiamo ottenere con le nostre forze. E invece non è così. Ciò che davvero manca è un po’ di autocritica. Fermarsi a guardare lo scatto in maniera oggettiva, come se a giudicarlo fosse un’altra persona. Chiedersi, in tutta sincerità: ma questa foto è una bella foto? Mi fa venire voglia di assaggiare questo piatto oppure preferirei la morte per impiccagione, piuttosto che ingoiarlo? Non ti è mai passata la fame tenendo in mano quei menù di ristoranti con le foto (spaventose) dei piatti che servono? Ci capitano fra le mani soprattutto all’estero e, ogni volta, devo farmi forza per ordinare, quando mi succede... Pensa che la medesima difficoltà l’avrà il tuo ipotetico cliente. Quindi, per favore, butta un occhio alle tue foto e sii sincero con te stesso: sono foto per lo meno decenti? Ti ingolosisce ciò che vedi o ti disgusta? L’immagine è bene a fuoco o è così mossa da essere irriconoscibile? I colori sono accattivanti o ricordano i rigurgiti di vomito di un neonato? Istintivamente, che odore assoceresti a quell’immagine? Qualcosa di gradevole o di fetente, modello fogna a cielo aperto? Non ridere. Sono domande che devi cominciare a porti sul serio, se vuoi compiere un salto di qualità con le tue foto. Il tempo dell’eccessiva indulgenza è terminato: ora devi essere critico per davvero. E rimboccarti le maniche. ADDIO AL CELLULARE. Ora che ti sei convinto a diventare davvero critico, è probabile che le tue foto non ti piacciano più.

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Alcune immagini rubate dai siti di alcuni fra i più importanti food photographer del mondo. Trovi qualcosa che ti piacerebbe studiare per ricreare anche nelle tue immagini?

NELLA PAGINA A SINISTRA, DALL’ALTO. Zuppa di pollo e tè verde da www.topwithcinnamon.com. Noci da www.epicureaperture.com, di Nadine Greeff. FOTO 1. Waffles, sempre di Nadine Greeff. FOTO 2. Cheesecake ai lamponi, di Tim Hill. FOTO 3. Antipasto elegante di Béatrice Peltre. FOTO 4. Cocktail di frutti rossi da www.sproutedkitchen.com.

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QUALCHE IDEA PER IMMAGINI SEMPRE MIGLIORI

Quasi come un quadro. Fagioli rossi, foto di Paulette Tavormina.

E che tu ti deprima così tanto da non produrre più nulla. Sarebbe uno sbaglio. Non sei un incapace: hai solo acquistato la consapevolezza che devi imparare un po’ di cose e che devi impratichirti. Niente di drammatico, è normale. Nella tua vita ti è già capitato molte volte, anche e soprattutto in cucina. Ricordi quei tortellini che non volevano venire, quella torta che si sformava malissimo, quel soufflé che si sgonfiava? Stessa cosa. Quindi non amareggiarti e rimettiti in pista con ottimismo. Il primo passo è scegliere strumenti giusti. Non sfiletti una cernia con un temperino. Allo stesso modo, non puoi realizzare belle foto con l’apparecchio sbagliato. Che, sono pronto a giurarlo, nel tuo caso significa che devi smettere di fotografare i tuoi impiattamenti con il cellulare. Ma come, dirai tu? Guarda che il mio smartphone ha più megapixel di una macchina fotografica! Può essere. Anzi, magari hai ragione. Però non c’entra. Per vari motivi. La prima, è che probabilmente tu non scatti mai le tue foto usando tutta la risoluzione che il cellulare ti consentirebbe, perché non vuoi sfruttare troppo la memoria. E, inoltre, più una foto è pesante più fai fatica a condividerla con gli amici o sui network. Immaginiamo però che tu voglia usare l’intera potenza del tuo smartphone... Beh, mi dispiace dirtelo, ma i risultati non saranno buoni lo stesso. Ciò è dovuto all’obbiettivo del tuo telefonino, che è piccino picciò e di qualità non eccelsa. Fa quello che può, coglie dettagli quanto vi riesce, ma non può competere con un obbiettivo vero e proprio.

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Gallette di cereali in fiocchi di Vanessa Rees (http://vkrees.is). Mozzarelle, di David Munns.

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E allora? E allora, se vuoi fotografare davvero bene i tuoi piatti, devi procurarti una macchina fotografica reflex. Una fotocamera reflex ha almeno due vantaggi che tutti gli altri apparecchi (cellulari, smartphone e tablet compresi) non hanno: obbiettivi davvero potenti in grado di catturare molti dettagli e la visione reale dell’inquadratura. Significa che ciò che compare nel mirino sarà ciò che vedrai nella foto finale. È importante, te l’assicuro. COMPRA UNA REFLEX. Ma dove le trovo queste fotocamere? Ovunque si vendano macchine fotografiche. Anche nei centri commerciali, anche su internet. Se vai su Amazon.it, per esempio, e digiti reflex, ti viene mostrata un’infinità di modelli. Sì, lo so che cosa stai per dire e quindi ti anticipo. Le reflex costano e ti girano un po’ i cabasisi a pensare di spendere tutti quei soldi solo per fare foto. Finora gli scatti col cellulare ti sono sempre bastati. Perché dovresti spendere di più? Pensalo come investimento per la tua attività. Una buona foto attirerà l’attenzione di un potenziale cliente. Una foto orribile lo allontanerà per sempre. E poi non tutte le reflex sono costose. Per i tuoi scopi, un apparecchio base basta e avanza. Se l’attività ti appassiona e vorrai progredire, avrai tempo di farlo in seguito. Per adesso, vediamo che cosa ti serve per cominciare. Un modello base di Canon o di Nikon può essere più che sufficiente. Su Amazon, tanto per dare un punto di riferimento, una Canon EOS 1100D costa sui 350 euro e più o meno spunta quella cifra una Nikon D3100, compreso un obbiettivo che va benissimo per il nostro scopo. Se non te ne intendi, ordina la selezione fatta da Amazon per prezzo crescente e guarda quale modello costa meno. Andrà sicuramente bene. L’importante è che ci sia chiaramente indicato che si tratta di una reflex e non di una compatta. CERCA CIÒ CHE TI PIACE. Mentre accantoni nel tuo salvadanaio i soldini per comprarti una reflex, magari rinunciando all’ultimo modello di iPhone o di Galaxy o di Lumia di cui non ti fai nulla, ti consiglio di guardarti attorno per cercare lo stile fotografico che ti piace di più. Sì, hai capito bene. Ti sto dicendo di copiare il lavoro altrui. Quando s’impara qualcosa di nuovo, infatti, fare di testa propria non conviene mai. Occorre invece armarsi di modestia e apprendere da chi ne sa più di noi, cercando di imitarlo. Nessuno nasce imparato, come si dice. Anche i grandi maestri hanno avuto maestri a loro volta. E se il maestro è grande, meglio ancora. Quindi vai su internet e comincia a frugare fra le immagini, magari raccogliendo in una cartellina quelle che ti colpiscono di più.

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96 PERSONAL CHEF MAGAZINE Tagliatelle con carbonara di arachidi e asparagi. Foto di GIORGIO GIORGETTI.


Affidati al tuo gusto, non ti tradirà. In queste pagine ti ho messo un po’ di foto di grandi maestri del food: alcune di queste immagini richiedono davvero un’attrezzatura professionale, altre invece no. Tutte, comunque, possono servire come modello per capire quale tipo di food photografer sei. Per approfondire, puoi cercare i loro siti su Google oppure le loro foto su Instagram o su Flickr: non hai che l’imbarazzo della scelta. IMPARA A COPIARE. Copiare, ti dicevo. Esattamente. Sei mai andato in un ristorante e assaggiato un piatto che ti è piaciuto tantissimo? Magari sei riuscito a procurarti la ricetta, magari no... Però ti sei messo in testa di rifarlo. Beh, a meno che tu non sia un mago, sono abbastanza sicuro che tu non sia riuscito a riprodurlo perfettamente al primo tentativo. E forse neppure al secondo e al terzo. Copiare, insomma, è tutt’altro che facile. Ci vuole studio e attenzione. Come si copia una foto? Più o meno come una ricetta: prestando attenzione ai dettagli. Prendi l’immagine (qui a sinistra) delle tagliatelle alla carbonara di arachidi e asparagi verdi e analizzala velocemente. Innanzi tutto, prova a capire se l’aspetto complessivo ti appare appetitoso oppure in qualche modo ti disgusta. Se percepisci l’insieme abbastanza commestibile, allora puoi pensare di usarlo come modello. In caso contrario, lascia perdere e passa ad analizzare un’altra foto. Una volta deciso che l’immagine non ti schifa, ma che anzi potrebbe valere la pena di emularla, poni attenzione ai particolari. La luce, per esempio. Controlla le ombre: se ne vedi poche e leggere, come in questo caso, significa che è stata usata una luce diffusa, forse da una finestra illuminata. Magari il fotografo ha anche usato qualcosa per schiarire le ombre, ma questo lo vedremo meglio in altri articoli, nei prossimi numeri di PCM. La messa a fuoco: ti appare sfuocata o nitida? Uhmm, a ben guardare, pare che l’immagine non sia del tutto a fuoco: alcune zone sono addirittura molto incise, altre più sfumate. L’effetto non sembra casuale, ma realizzato per focalizzare l'attenzione,

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per farci concentrare sui punti più vicini ai nostri occhi (il primo piano) e rendere più apprezzabile, più “tattile”, la testura della pasta fatta in casa e degli asparagi. Parrebbe quindi che, grazie a tutti gli espedienti usati (luce diffusa, primo piano a fuoco e secondo piano sfuocato, dettagli molto incisi), l’autore abbia voluto suggerire un'idea molto chiara di cibo: un piatto reale, materico, da prender su con una forchetta e masticare, senza troppe domande e troppe leziosaggini. Quindi, se desideri copiare questa foto, dovrai concentrarci sui particolari che hai evidenziato nella tua analisi e tentare di riprodurli nel modo migliore che tu possa. Devi insomma creare una foto il più simile possibile al modello. IMPADRONIRSI DELLA TECNICA. Ma a che cosa mi serve, dirai? L’idea che questo fotografo ha del cibo non ha nulla a che vedere come la mia. Anzi, vorrei proprio rappresentare i miei piatti in modo del tutto diverso... Vero, ma dovrai imparare a esprimere le tue idee. Per adesso, non ne sei ancora capace. Per questo devi cominciare copiando. Copiare ti serve non per ricalcare le orme di un fotografo che ti piace, quanto per prendere confidenza con la tecnica. Quando avrai capito come usare la luce, ammorbidire le ombre, calibrare la messa a fuoco e così via, potrai usare queste tecniche per comporre le tue immagini. Ma se non hai, all’inizio, un punto di riferimento, non potrai raggiungere nessun traguardo e le tue foto saranno sempre dilettantesche. O, peggio ancora, ributtanti. Quindi, se vuoi cominciare a fare i primi passi nella food photography, questo è l’inizio. Il resto seguirà. Su PCM, of course.

Pane di zucca, sempre dal sito Sprouted Kitchen (www.sproutedkitchen.com).

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ESCI DAL GUSCIO E RACCONTACI DI TE ESPERIENZE, STORIE ED ENTUSIASMI DALLA VIVA VOCE DEI PROTAGONISTI


Al convito di CURIN CHI RUBA... CON GLI O Ferie d’agosto lontano dalla famiglia e catapultato nella cucina di un grande ristorante toscano. Quasi una missione impossibile per il nostro Paolo, che però l’affronta con il sorriso sulle labbra. E si porta a casa un bagaglio di esperienze e tecniche, paesaggi e colori, atmosfere e buona tavola da far invidia anche a chi, in vacanza, ci è andato davvero

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NA C’è OCCHI!

IN QUALSIASI POSTO MI TROVO, SENTO CHE DEVO ESPLORARE IL LUOGO DOVE SONO, DEVO CONOSCERE, VISITARE...

Tutte le foto del servizio sono di PAOLO ANTONIO CANCEDDA.

di PAOLO ANTONIO CANCEDDA

Le persone normalmente sfruttano il periodo delle ferie estive per ristorare corpo e mente facendo una bella vacanza. Io che di normale devo aver poco, quest’anno ho deciso di investire le mie ferie sfruttando l’occasione dataci dallo Chef Trovato e la Federazione di fare una Work Experience al Convito di Curina. Parlatone a tavolino con moglie e figli, ho dato la mia disponibilità per lo Stage dal 17/08 al 31/08 incluso. Affrontato tutto il viaggio e arrivato in quel di Curina, nel cuore del Chianti, come tante persone, sono stato preso dal paesaggio che mi circondava che nessuno può negare essere incantevole. Senza perdermi in tanti preamboli, appena accolto calorosamente in cucina, ho gentilmente rifiutato l’offerta dello Chef di cenare la sera e ho cercato di mettermi subito all’opera o perlomeno di iniziare a capire cosa dover fare. Ho quindi cenato con la ciurma composta da Ervis, Alty, Daniele e Agostino. È poi iniziata la prima serata in cucina, quella dove non sai dove metter le mani e non sai neanche cosa fare. In fondo quando non sei tra i tuoi fornelli ci va un attimo a capire dove si trovino attrezzi e materie prime. La prima serata quindi mi è servita proprio a questo, ad ambientarmi, in attesa di iniziare la giornata successiva a pieno ritmo. La prima settimana è stata dura, devo dire la verità, seguire il ritmo dello Chef “Saetta” Trovato e del suo secondo Ervis, non è stato facile. È però vero che al di là delle corse durante il servizio il fatto di essere li a “rubare con gli occhi” ed imparare mi ripagava della stanchezza. Praticamente qualsiasi fosse l’ora che finivamo la sera, ben carico di adrenalina, alla mattina alle sette ero già in piedi, colazione con frutta in camera e via in giro con macchina fotografica al seguito, tranne ovviamente i due giorni che facevamo le preparazioni già dal mattino. In qualsiasi posto mi trovo, sento che devo esplorare il luogo dove sono, devo conoscere, visitare le particolarità e assaporare ciò che c’è di caratteristico il posto offre. Sapete che a Curina c’è una delle Cappelle più particolari, meravigliose e ben conservate? Così ho girato nel piccolo paese di Castelnuovo Berardenga e soprattutto ho girato in lungo e largo Siena, visitando la Torre del Mangia in piena Piazza del Palio, facendo un po’ il turista, ma ho girato anche il vero e autentico Chianti avendo anche

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la possibilità di visitare le Cantine del Conte Ricasoli. Io ed i ragazzi della brigata avevamo differenti orari di sveglia pertanto colazione e pranzo mi arrangiavo da me, mangiando qualche volta a Siena, o a Castelnuovo Berardenga, o al Convito preparando da me qualcosa, comunque sempre in posti diversi. La cena invece puntuale come degli Svizzeri la facevo con la Brigata al Convito alle 18:30. Devo dire che la seconda settimana è andata decisamente meglio, unico neo negativo, quando cominci a muoverti come si deve è già tutto finito, mi ci sarebbe voluta ancora una settimana in verità. Forse quando son partito da casa non mi aspettavo che comunque il servizio fosse così duro, in tutta sincerità lo è stato di più, ma solo perché non si è abituati a cucinare a quelle velocità e a quei ritmi. Cucinare in un ristorante tutti i piatti espresso non è cosa da molti ma ogni centesimo che il cliente spende posso dire che li vale tutti e non ripaga certo degli sforzi e fatiche di chi li prepara.

Nato nel 1974 in Provincia di Cagliari, mi sono trasferito in Piemonte 18 anni fa. Felicemente sposato, padre di tre splendidi figli, nella vita di tutti i giorni sono immerso in un mondo di numeri e burocrazia, in quanto lavoro in uno Studio di Consulenza del Lavoro. Giusto un anno fa sono approdato in FIPPC in quanto alla continua ricerca di una seria Federazione che potesse portare la mia passione per la cucina ad un livello professionale. Numerose le esperienze oramai riportate in quest’anno, e belle o brutte, tutte hanno avuto aspetti positivi e negativi.

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Villa Curina, Chianti, Toscana. A pochi chilometri da Siena, in questo territorio basta affacciarsi a una finestra, aprire una porta a vetri su una veranda, uscire da una porta, per ritrovarsi in paradiso.

La grande sala da pranzo a Il Convito di Curina. Scorci dalla Terrazza sul Chianti di Villa Curina. Ogni giorno un paesaggio da favola. La dependance dell’albergo, dove anche Paolo aveva la sua cameretta.

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Guida ai critici gastronomici (DA NON INCONTRARE MAI) di FEDERICA DE PREZZO La mia estate lavorativa è stata entusiasmante. La prima in cui io mi sono dedicata completamente al mio lavoro di Personal Chef. Molta fatica ma anche tante soddisfazioni. Ho conosciuto dei colleghi che hanno dimostrato tanto affetto nei miei confronti. In tutto questo idillio, per carità, forse dato dal fatto che finalmente faccio un lavoro che mi fa saltare di gioia e che non mi ritrae seduta dietro una scrivania, una nota stonata l’ho trovata. Sono un’ingenua, lo so... Ogni volta che ho raccontato qualche aneddoto a chi ha più esperienza di me sono stata derisa perché considerata più imbarazzante di Cappuccetto Rosso quando, alla quarta domanda rivolta alla nonna, non aveva capito che invece ci fosse il lupo. Mi riferisco, così come anticipato nel titolo, ai cosiddetti Critici Gastronomici, improvvisati e non. Quei gentili signori che sbucano fuori negli eventi e che poi il giorno dopo scriveranno di te sui social media e su rinomate (spesso solo a loro) riviste. In giro per il Salento sono incappata in un nutrito campionario di queste preziose figure e solo a fine stagione ho avuto un quadro preciso di quello che possono in realtà essere. Allora cari amici e colleghi, per chi non avesse ancora avuto a che fare con loro – ma data l’elevata densità penso che almeno uno lo abbiate conosciuto -, ho pensato bene di stilare una lista di profili da evitare, o perlomeno da affrontare equipaggiati, nel caso in cui voi ve li trovaste di fronte in qualche sagra, evento, vernissage

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o in una di quelle occasioni in cui è presente l’odiatissimo prefisso “aperi-”. Vale a dire in qualsiasi posto in cui si mangi gratis, e tanto. Cioè, vi consiglio proprio di parlare in arabo e spiegare a gesti che voi siete solo l’aiutante dello Chef che è dovuto purtroppo scappare per motivi di famiglia, tanto non ne caverete un fico secco, datemi retta. 1. Autoreferenziale. Colui che, prima ancora di avvicinarsi, sta già recitando il suo curriculum a memoria, vantandosi delle super doti di vero esperto del settore e delle sue 4 lauree. “Signora lei non sa chi sono io, sono uno importante nella mia regione, mi faccia assaggiare solo il pane, tutto il resto non lo gradisco”. Subito dopo ci dirà che nel risotto sua moglie ci mette l’uva passa. Così, a prescindere. 2. Vip. Arriva neanche fosse Sophia Loren nello spot del prosciutto “accattatevillo”, con tutta la corte a seguito. Mosè durante l’apertura della acque. Si offre volentieri per i selfie con i suoi fan e conosce l’Italia solo per macroregioni: nord, centro, sud. 3. Gigi Marzullo. Della serie “Fatti una domanda e risponditi da solo”. Ti chiederà che cosa hai preparato e come, in quanto tempo, che grano hai usato ecc, ma non preoccuparti se la tua salivazione si è azzerata: sarà perfettamente inutile. Alla sua domanda, senza soluzione di continuità, sarà lui stesso a rispondere. Tu non dovrai fare altro


Mi chiamo Federica e fin qui tutto bene. In quanto madre, moglie e personal chef la mia vita si complica. Ho un orsetto di 5 anni che dicono essere mio figlio, un marito part-time e un lavoro da sogno che mi fa vivere tra farine, sesamo, anice stellato e pani dai mille profumi. Ah... sono anche schizofrenica, facilmente divento Desdemona, Dorina o qualsiasi altra maschera il teatro mi impone di indossare.

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che restare fermo, annuire e chiudere la bocca che accidentalmente ti si è bloccata sulla A di un “Allora…” d’esordio, e che ti sta facendo assumere le fattezze di un deficiente. 4. Esigente. Quello a cui, in un evento con 1000 persone in fila che aspettano di mangiare, non basta sapere che il tuo pane è fatto di farina Senator Cappelli proveniente direttamente da Foggia, ma pretende anche che tu gli spieghi la Riforma Agraria che ha portato alla distinzione tra grani duri e grani teneri. Ovviamente tu, il cui unico sforzo mnemonico ti conduce alla tabellina del 2, vieni additata come la solita incompetente che si accinge a fare un lavoro senza sapere le basi. Se non conosci almeno il Piano Marshall non sei praticamente nessuno. Ignorante! 5. Scroccone. Elogia le doti del malcapitato a patto di ricevere come compenso quantità industriali di prodotti o di mangiare gratuitamente nel suo ristorante. Generalmente, “lo scroccone” pesa oltre i cento chili e l’ultima volta che ha fatto la spesa è stato nel 2001. 6. Modaiolo. Segue le mode del momento. Copia le recensioni di chi è più in alto di lui, apportando modifiche che scientificamente peggiorano i contenuti e usando inutili neologismi anglosassoni per far vedere che lui non è un tipo out(let). Se proprio non riesce a reperire informazioni, si rivolge al suo ultimo dio: Trip Advisor. 7. Controcorrente. Colui che vuole distinguersi da tutti, l’anticonformista per eccellenza. L’hipster (!). Al solo sentir nominare Gualtiero Marchesi assume la postura da conato di vomito e pensa che sarebbe stato meglio che il Maestro fosse rimasto solo un musicista. «Chi è lui per opporsi alla grande guida Michelin, prodotta da un marchio famoso nel mondo per la produzione di gomme da strada?». 8. L’amico degli amici. Nel senso che gli amici da segnalare già ce li ha. Coloro che sono intoccabili e per forza di cose devono essere spinti. Si presenta agli eventi ma non si preoccupa neanche di far finta di essere interessato alla tua proposta gastronomica. Non ti guarda neppure. Non esisti proprio. Niente. Nada. Zero. Il pover’uomo deve correre a fare il selfie con l’amico importante, o rischia di non finire sull’Evento Fb del mese. Non faccio di tutta un’erba un fascio e mi rendo conto di non aver avuto a che fare con “grandi” nomi della critica enogastronomica, ma chi ci assicura, in realtà, che ad alti livelli il risultato cambi? Di critica ai critici (scusate la ridondanza) sono piene le riviste, i libri e i social network. Una critica è sempre di parte, d’accordo, ma il motore dovrebbe essere la passione e il fine nobile quello di esaltare eccellenze e mettere in luce nuovi talenti. In fin dei conti il critico offre sempre la “sua”

GUIDA MICHELIN. È anche su app la guida più famosa del mondo.

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VERSILIA GOURMET. Anche i singoli territori hanno le loro belle guide.

ALL’ESTERO E IN ITALIA. Non si vive di sole stelle e stelline...

visione delle cose, e se i critici denoantri che ho incontrato io per la maggior parte sono persone a cui della critica costruttiva non importa nulla perché mossi da interessi personali o per accontentare l’editore di turno, immaginiamo che cosa possa mai succedere ad alti livelli, dove gli interessi di marketing ed economici soverchiano quelli puramente gastronomici. E poi, diciamola proprio tutta, chi è che segue fino in fondo i critici, quelli veri? Chi è che acquista le guide? In quanti ristoranti stellati si mangia davvero bene? Quanti ristoranti presenti nelle guide non sono almeno chiusi da due anni? Che il tanto odiato Trip Advisor sia la nuova guida 2.0? Ai posteri l’ardua sentenza. P.S. Ho incontrato un critico che assomma in sé tutte e 8 le caratteristiche. Ma non vi dirò mai chi è.

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Ciao, sono Alessandra, madre, moglie e figlia adorabile (così dice la mia mamma!). Amo tutto ciò che è arte e che mi teletrasporta la mente da una situazione all’altra: il disegno, il ballo, la lettura e, ovviamente, il magico mondo dei fornelli. Il mio colore preferito è il rosso, il mio cantante Biagio Antonacci e il Profumo del mosto selvatico è il film più dolce che abbia mai visto. Ah, dimenticavo... Sono golosissima e non può mancare il cioccolato a fine pasto!

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GIOIE E DOLORI nelLA REGGIA di chef giorgio di ALESSANDRA MALAGNINI Ce l’ho fattaaaaaaaaa! Ho mandato richiesta di partecipazione alla work experience presso Villa Curina e sono sopravvissuta a 15 giorni nella cucina del Big Chef Giorgio Trovato e la sua troupe! La decisione è stata abbastanza travagliata, perché lasciare la famiglia non è mai facile per me. Oltretutto ho dovuto rinunciare alle mie ferie estive per poterle avere nel periodo utile per la work experience e mio marito a casa ha dovuto prendere le redini di tutto. Pochi giorni prima della partenza, ho saputo che avrei condiviso il percorso formativo con la mia collega Francesa Maselli, conosciuta a maggio presso il Cibus di Parma. L’ho contattata e ci siamo organizzate per la partenza insieme. Arrivate lì la domenica sera, abbiamo avvertito un’aria molto tesa e il primo pensiero è stato ma chi me l’ha fatto fare!!! Lo chef Giorgio ci ha dato subito indicazioni di cosa dovessimo fare e in particolare NON fare. Vi assicuro che per una donna che normalmente a casa e a lavoro è un leader non fa per niente piacere sentirsi dare indicazioni cosi precise e dettagliate. Ma ero in casa sua e dovevo eseguire. Diciamo che ci siamo ricredute subito dopo mentre a cena gustavamo le prelibatezze di Giorgio. Le ore in cucina trascorrevano veloci. È stato bellissimo preparare insieme allo chef e ad Ervis, lo chef in seconda, pasta fresca, marmellate, zuppe, dessert, approfitto per fare un saluto agli altri colleghi di cucina e servizio Daniele, Alty e Agostino. Meno piacevole era lavare

e tagliare verdura e frutta in quantità industriali portate la mattina da Chef Giorgio. Queste preparazioni servivano la sera per il servizio in sala e in quei momenti vi assicuro mi sembrava di essere in un reality show! Padelle che sfiammavano da tutte le parti, banchi d’acciaio pieni di piatti e lo chef che sembrava essere un pittore per quanta cura metteva nel decorarli. C’erano rumori, odori, colori tutto sembrava surreale e io? Estasiata da quanto stavo vivendo, nonostante non mi sia fatta mancare nulla... ...mal di testa, dolore ai piedi, polso infiammato... mi è sembrato di vivere una prova di resistenza fisica, morale ed emotiva. Per fortuna ad allentare un po’ la fatica c’è stata la sorpresa di mio marito e mio figlio in occassione del nostro anniversario di matrimonio. Il 10 settembre mi arriva la foto di mio figlio su whatsapp scattata sotto l’insegna di Villa Curina. Siiiii erano lì da me, carramba che sorpresaaa! Che dire ancora... ringrazio la Fippc per l’occasione professionale, la mia famiglia per avermi supportato e la grande Francyyyy sempre carica di adrenalinaaaa, bravissima autista, cicerone e ottima coinquilina. Grazie a questa esperienza oggi ho aquisito maggior conoscenza e sicurezza ma in particolre un’amica in più, FRANCESCA MASELLI. È stata un’esperienza molto ricca. Ricca di emozioni, sensazioni, conoscenza, teorie, pratica, nostalgia e chi più ne ha più ne metta! Un saluto a tutti i lettori e alla prossima!

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