PCM - Agosto 2014

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personal chef magazine N째 03/2014 - Agosto 2014

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PROGRESS

il mensile dei personal chef italiani


PCM - Personal Chef Magazine Periodico di cultura enogastronomica Organo Ufficiale Fippc Federazione Professional Personal Chef Direttore ed Editore Giorgio Trovato Direttore Responsabile Giorgio Giorgetti Redazione Stefania Erroi Grafica e impaginazione Stefano Raia Sede legale: Via Tito Schipa, 1/D - 73058 Tuglie (Lecce) e-mail: segreteriafippc@gmail.com sito internet: www.fippc.it Tutti i contenuti di Pcm, siano articoli, ricette o fotografie sono protetti da copyright ai sensi di legge e non possono essere riprodotti nemmeno in maniera parziale senza il consenso esplicito dell'autore.


In questo numero: Editoriale

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Brodo di ciceri rosci (minestra di ceci)

pag. 34

Editoriale

pag. 3

Staff Ice System

pag. 36

La spiaggia non spegne gli eroi di Parma

pag. 4

Un tranquillo week-end di premura

pag. 38

Il successo di Cibus esalta i nuovi personal chef

pag. 6

Work experience al Convito di Curina

pag. 42

Alla faccia dell’insalata

pag. 8

La mia ricetta per una nuova passione

pag. 10

Convito di Curina, delirio creativo

pag. 12

Un Sultano in Sicilia

pag. 14

Prodotti De.co., figli del territorio

pag. 18

Parma, l’amicizia è servita

pag. 20

Io, la Maugeri e la rapa rossa

pag. 24

A ogni cliente il suo gelato

pag. 26

Metti una sera a cena... a casa dello chef

pag. 28

Viaggio tra le De.co. di Calabria

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Editoriale di Giorgio Giorgetti

Giuro che è andata così. Avevo chiesto al nostro chef Giorgio Trovato di provare un piatto di mia invenzione. Lui l’ha guardato, l’ha annusato, ne ha tastato la consistenza con la forchetta, se n’è portato un pezzettino alla bocca e ha cercato con tutte le sue forze di assaggiarlo. Poi ha fatto una faccia strana, che non gli avevo mai visto prima, e ha esclamato: «Per il bene di tutti, dobbiamo assolutamente allontanarti dalla cucina!». E così eccomi qui. Ancora una volta in mezzo alle parole e distante dalle padelle. Immagino che dovrei presentarmi, ma per non annoiarvi troppo non lo farò. Se ne sentite il bisogno, invierò via e-mail il mio curriculum vitae a chiunque ne faccia richiesta diretta. Così facciamo prima. Parliamo invece del cambio della guardia, cosa assai più succulenta. Il numero scorso è stato l’ultimo curato da Clara Mennella, che ringrazio per l’eccellente lavoro svolto finora. Quest’edizione, invece, è già tutta mia. Notate qualche differenza? Nessuna nessuna? Bravi, avete buon occhio: infatti non è cambiato proprio nulla. Tutto è rimasto come prima. Ma sarà soltanto per questa volta, non fateci l’abitudine. Il motivo per cui non ho smosso le acque di questo numero c’è ed è molto pratico: PCM non usciva dallo scorso marzo ed era assurdo prolungare questo silenzio. Tutti assieme abbiamo vissuto momenti importanti, come la partecipazione al Cibus di Parma, e tutti noi sentiamo il bisogno di riflettere su queste esperienze, di ritrovarci, di mettere i nostri ricordi e le nostre valutazioni in una scatola familiare e confortevole. Stravolgere la rivista avrebbe invece richiesto tempo, troppo tempo ancora. Non mi sembrava il caso. Non ora, per lo meno. Ci sarà il momento della ristrutturazione e delle novità. Per adesso restiamo saldi nelle certezze presenti, tutt’altro che disprezzabili. Qualche anticipazione è però d’obbligo. Quando penso a una rivista che s’intitola Personal Chef Magazine, vedo una pubblicazione fatta PER i personal chef. Finora, invece, PCM è stata una rivista fatta DAI personal chef. Ritengo quindi che le fondamenta di ogni prossimo cambiamento debbano consolidarsi qui: rendere queste pagine più vicine alle necessità e alle esigenze dei suoi lettori. Non soltanto un luogo dove raccontarsi, quindi, ma soprattutto un’occasione per scoprire, imparare, ottenere nuove suggestioni e affrontare le tante avventure che questa professione offre. Il mio desiderio? Avere una rivista meno scritta da personal chef e più letta da personal chef. Una rivista utile. Che io sappia, infatti, nessuno ha ancora realizzato una pubblicazione dedicata al nostro lavoro. Che non è quello del cuoco, dello chef di brigata, del cameriere, del gelataio, del pizzaiolo e così via. Noi siamo personal chef e abbiamo bisogno di una rivista che ci aiuti a fare bene questo mestiere. A migliorare la nostra professionalità e ad allargare le nostre conoscenze. Credo che sia l’unica via da seguire. Spero quindi che la seguirete assieme a me. A questo proposito, vi invito a rivelarmi i vostri desideri, le vostre aspettative, i vostri suggerimenti. Io di idee ne ho parecchie, ma sono sicuro che voi ne avrete senz’altro una più di me, proprio quella che in questo momento mi sta sfuggendo. Raccontatemela. La mia pagina su Facebook la vedete e se non l’avete mai vista apritela ora e scrivetemi in privato ciò che vi piacerebbe trovare su queste pagine. Se ce la faccio, lo troverete.

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Editoriale di Giorgio Trovato

Quando, tempo fa, ho cominciato a elaborare l'idea della Fippc, coinvolgendo amici e presunti tali, ho sempre avuto in mente una struttura semplice, la stessa che sta alla base della cucina: non può esistere una grande cucina senza unità di intenti e senza rispetto dei e per i ruoli. Nella mia brigata, il lavapiatti è forse l'elemento più importante, ma deve esser ven consapevole che il suo ruolo è determinato e non può permettersi di mancare di rispetto o di passare avanti al mio sous chef. Un tale atteggiamento con lui sarebbe come se l'avesse con me: e una cucina in cui il lavapiatti mette in discussione l'operato dello chef è una cucina destinata a fallire. Un serio professionista non può permetterlo. Voglio quindi affidarmi alle parole del filosofo e scrittore Pietro Ubaldi, che chiarisce il concetto più di quanto io possa fare con le mie. “Bisogna oggi aiutare questo passaggio da una forma individuale di vita ad una collettiva. Il collettivismo allora non deve costituire un assalto all’individualità per demolirla, ma deve rispettarne l’egocentrismo, perché la sua funzione è un’altra, cioè quella di coordinare per far cooperare, e così raggiungere, per ciascuno come per tutti, quel maggior rendimento, potenza, di cui ora parlavamo. Ecco quali sono i rapporti che oggi devono correre tra individualismo e collettivismo. Non si tratta più dell’ “ama il prossimo tuo come te stesso”, ma di calcolare l’utilità che viene dall’andare d’accordo, invece che aggredirsi l’un l’altro. Si tratta di capire quanto fosse controproducente il vecchio sistema e così passare per gradi dall’individualismo al collettivismo senza distruggere il primo, che non è nemico del secondo, ma è la base su cui questo potrà essere costruito. Bisogna decidersi a superare il vecchio sistema separatista per cui il mio vantaggio lo traggo dal tuo danno, e tu ottieni il tuo vantaggio traendolo dal mio danno. Bisogna capire che ciò che frutta più per tutti è il coordinarsi e collaborare, invece che cercare di asservire per sfruttare. Pare che alcuni popoli più intelligenti lo abbiamo già capito. Sono le prime foglie che spuntano. La vita cammina in questo senso”. Siamo stati fermi un numero di Personal chef magazine per effettuare migliorie che vanno in quella direzione di crescita che è alla base del progetto Fippc. Ne approfitto quindi per dare a Giorgio Giorgetti il mio personale benvenuto alla direzione della rivista: Giorgio ha deciso di scendere in campo attivamente, cercando di aiutare, con la sua capacità ed esperienza, questo nostro mezzo di comunicazione e, di conseguenza, tutto il nuovo corso Fippc. E ringrazio anche tutti coloro che hanno agito e lavorato affinché la Fippc e Pcm potessero compiere questo nuovo passo.

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La pioggia non spegne gli eroi di Parma di Paolo Cancedda

Una cosa ho capito di Parma: che quando piove, piove davvero. E che neppure durante il Cibus piovono polpette, ma gocce d’acqua belle grosse e bagnate, alla faccia della più grande fiera alimentare d’Italia! Però, sempre a Parma, ho imparato un’altra cosa: che ci vuol ben più di una notte buia e tempestosa per spegnere l’entusiasmo e l’amicizia. Figuratevi che non ce l’hanno fatta neppure due giorni di temporale! La storia è questa e comincia con la nostra Federazione che decise di partecipare alla fiera non soltanto con uno stand nei padiglioni espositivi, ma anche con un banchetto a Cibusland, la filiale cittadina della manifestazione. Noi, insomma, siamo stati anche lì, fra quella manciata di eventi gastronomici nel centro storico parmense, che faceva da cassa di risonanza alla fiera vera e propria. Fippc ovunque e in ogni luogo, come una nuova divinità nel paradiso dei professional personal chef. Due maggio: ero partito da casa, alla volta di Parma, con l’auto piena zeppa di prodotti tipici del Canavese, che è quella zona del Piemonte che sta all’incirca fra Torino e la Valle d’Aosta. Una e trina la missione: far conoscere le specialità del mio territorio, lavorare per la Federazione e visitare il Cibus, che sarebbe cominciato soltanto il 5. Un programma bello intenso, insomma. Una volta a destinazione, ecco tutta l’allegra brigata riunita: Stefania che ci coordinava, poi il gruppo della Puglia, sempre numerosissimo, con Francesca, Cristina, Raffaele, Elisa, Alessandra e Gabriella. Arianna, invece, giungeva da Roma e Mara direttamente dalla veneta Cortina d’Ampezzo. Il Piemonte lo rappresentavo io, naturalmente. Non ci siamo persi in chiacchiere: intruppati dal presidente Giorgio Trovato, che s’era appena smazzato un lungo viaggio da Siena, siamo andati nel Piazzale Santo Stefano, a ridosso della Casa della Musica, e abbiamo cominciato a montare i vari gazebo che costituivano le nostre postazioni. Ho dimenticato qualcuno? Ah, già, che sbadato! Non ho citato la nostra più fedele compagna di quei giorni: la pioggia. Perché non abbiamo fatto in tempo neppure a finir di montare i banconi, che subito è scoppiato il temporale. Beh, c’è da dire che quando si è bagnati fradici è più facile fare gruppo e sentirsi tutti nella stessa barca (piena zeppa d’acqua). A fine serata abbiamo smontato tutto (sotto la pioggia), siamo tornati in albergo per concederci una doccia calda e poi tutti in libera uscita. Sempre sotto la pioggia, è ovvio. Il secondo giorno pareva che il tempo concedesse una tregua. Abbiamo allestito di nuovo le postazioni, sistemato i tavoli e, con i prodotti tipici che avevamo con noi, abbiamo preparato buonissime friselle, cucinato il salampatata e la farina di mais del Canavese, e stappato i vini pugliesi, pronti per affrontare l’ora dell’aperitivo. Peccato che non si trattasse davvero di tregua, ma soltanto della pace prima della tempesta: il cielo non si fece impietosire neppure da quelli tra noi che s’erano presi la briga di distribuire volantini per invitar gente ai nostri tendoni. Alle 18 e 45, 15 minuti prima che cominciassimo il servizio, le nuvole sono esplose ed è venuta giù tanta di quell’acqua che pensavamo d’annegare. Il lavoro di un’intera giornata spazzato via così, in un attimo. Di corsa abbiamo ritirato tutto, smontato i tendoni, riposto i banconi e poi via, a ripararci in albergo, desiderando 4


soltanto una doccia calda. Prima morale della favola: sono stati giorni intensi e, soprattutto, burrascosi. Al posto degli aperitivi in programma, ci siamo presi rinfreschi di ben altro genere, grazie alla tanta acqua che ci siamo beccati! La domenica, però, ci siamo rifatti. Fin dal mattino, infatti, abbiamo cominciato a preparare un favoloso brunch in stile Fippc. Il sole, che finalmente appariva, aveva acceso il cielo di luce, regalandoci l’occasione non solo di allestire al meglio le postazioni e di sentirci ancor più gruppo, ma anche di poter conversare con la gente che pian piano usciva di casa. Che bello parlare con le persone che, anche con un solo bicchiere di vino in mano, restavano con noi a chiacchierare e a ricordare i veri sapori di una volta, proprio come noi avevamo intenzione di riproporre. Due vecchietti furono davvero indimenticabili: dopo essersi fatti un giro a curiosare e aver detto di non voler niente, alla fine hanno cenato prendendo una frisella dietro l’altra e un bicchiere di buon vino via l’altro, conquistati dalle nostre specialità a Denominazione comunale. Seconda morale della favola: ognuno di noi, in quei giorni, ha fatto la sua parte. Non è stato come lavorare nella cucina attrezzata di un ristorante, ma direi che ce la siamo cavata egregiamente. In fondo, al di là di ciò che abbiamo cucinato, eravamo a Parma per promuovere la Federazione. Come quando si mette un oggetto in vetrina: la sua sola presenza basta a testimoniarne l’esistenza e la bellezza. Anche l’amicizia ha fatto bella mostra di sé: nonostante non ci conoscessimo tutti, si sono subito creati affiatamento e complicità. Ognuno di noi ha ricoperto un suo ruolo e tentato di svolgerlo al meglio. La storia sta per terminare e mi accorgo di aver scordato una persona. Nunzio, che spero non s’offenda se l’ho lasciato per ultimo, in quest’elenco di eroi semiaffogati dalla pioggia. Chi è Nunzio? È il marito di Alessandra e, per tutti quei giorni, è stato anche il nostro personale e fantastico elettricista, a cui abbiamo messo in mano la sorte delle luci che illuminavano i nostri gazebo. Eccoci alla fine. Ma soltanto di quest’avventura. Per quanto mi riguarda, l’esperienza mi ha regalato così tante idee, che ora i progetti che ho in mente e che sto cominciando a realizzare sono davvero numerosi. Go ahead in Fippc Style!

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Il successo di Cibus esalta i nuovi personal chef Chi ha detto che il 17 porta sfortuna? La Federazione italiana professional personal chef (www.fippc.it) no di certo, soprattutto dopo aver goduto del record di presenze che ha registrato l'ultima edizione – la 17°, appunto - di Cibus, la fiera internazionale dell'alimentare, che si tiene a Parma ogni due anni. Oltre 67 mila visitatori si sono sparsi fra i padiglioni più stimolanti, attratti dagli stand più golosi, curiosi e intriganti. E fra questi, appunto, anche quello della Fippc, l'unica associazione che in Italia alleva, forma, istruisce e qualifica chiunque voglia cimentarsi con una professione nuova, dal futuro interessante: il personal chef, il cuoco che modella sul desiderio del cliente un'esperienza su misura di sapori, profumi e colori. Foodblogger pronti a passare dalla tastiera del computer ai fornelli, diplomati di scuole alberghiere in cerca di specializzazione, professionisti della ristorazione desiderosi di diversificare, semplici appassionati di cucina che vorrebbero apprendere di più... Il pubblico che ha scoperto, magari per la prima volta, l'occasione di diventare uno chef itinerante, è stato tanto e vario, proprio come la Federazione s'aspettava. La promessa di Cibus è stata mantenuta, illuminando a giorno il nuovo corso professionale della cucina italiana inaugurato dalla Fippc su tanti palcoscenici d'eccezione. Il primo è stato lo stand vero e proprio, all'interno del Salone, dove chiunque poteva chiedere e ottenere informazioni e risposte. Gli altri palchi sono stati le virtuosistiche prove on the road dei maestri e degli allievi: dai banchetti gastronomici in pieno centro storico parmese, alla Casa della Musica, fino alle cene di gala nello storico ristorante Corale Verdi. Insomma, fra le 2.700 aziende che il Cibus ha ospitato, infrangendo l'ennesimo record d'affluenza, la Fippc si è trovata del tutto a suo agio: la grande fiera di Parma ha spalancato le porte alla Federazione e ha permesso che il grande pubblico conoscesse un'innovativa proposta di formazione: il personal chef professionista. Professionista per davvero.

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Alla faccia dell’insalata! di Roberta Cannavale

«Sei vegano? Ecché, mangi sempre insalata?» Quante volte ho sentito questa frase e chissà quante volte l’avrà sentita anche il mio personal coach Daniele Di Benedetti, che come me ha fortissime simpatie verso questo stile alimentare. Stupiti perché una personal chef ha un personal coach? E che entrambi amiamo il modus vivendi dei vegani, ossia dei vegetariani che non mangiano alcun prodotto animale, compresi latte, formaggi e uova? Allora vi racconto la mia esperienza, così vi sarà subito chiaro. La storia comincia quattro anni fa, quando a mia figlia, a soli 12 anni, diagnosticarono il diabete di tipo 1, quello insulino-dipendente. Come si può immaginare, quest’evento ha sconvolto non soltanto la vita di mia figlia, ma anche la mia e la mia cucina, che è sempre stata di stampo tradizionale e che non s’era mai fatta problemi di intolleranze e divieti. Quasi dall’oggi al domani ho dovuto stravolgere tutto, pur di seguire nel modo migliore la malattia di mia figlia. E, all’inizio, confesso che gestire una bimba con il diabete di tipo 1 sembrava impossibile, non soltanto per i problemi fisici, ma anche e soprattutto per le ripercussioni psicologiche. Così mi sono avvalsa dell’aiuto di Daniele Di Benedetti, di professione personal coach: è così che ci siamo conosciuti e, in seguito, a collaborare. Daniele è un personal coach molto preparato, attento e sensibile. Nei suoi seminari guida i partecipanti verso uno stile di vita sano, naturale, incentrato sul benessere psicofisico. Ovviamente, in tutto ciò è coinvolta anche l’alimentazione, che lui predilige vegana. E il punto dolente dei suoi seminari era proprio questo: l’idea che le persone avevano del cibo vegano. La gente, insomma, usciva dai suoi seminari pensando di dover mangiare vita natural durante soltanto insalate e verdure grigliate. Così, per tentare di scalzare questo preconcetto duro a morire, Daniele ha pensato a un workshop dove, a una prima parte teorica, potesse seguire una dimostrazione pratica di quanto fosse gustoso e versatile questo tipo di cucina. Dal dire al fare il passo è stato breve. E così, quando Daniele mi ha proposto di curare la seconda parte del workshop, quella di cucina pratica, mi sono subito entusiasmata. Da personal chef tradizionale qual sono, ma ormai esperta in cucina vegana per la storia di mia figlia, ho subito preparato un menù e un piccolo show-cooking per stupire piacevolmente gli ospiti del workshop. E, considerando che siamo in estate, ho pensato per l’occasione di allestire un menù vegano crudista, ossia di soli cibi crudi, fresco ed energizzante per fare il pieno di vitamine e sali minerali. L’esperienza è stata davvero eccezionale. Trovo molto interessante la cucina vegana crudista, mi piace l’idea di mangiare cibi freschi e vivi, che ti trasmettono energia. E, inoltre, cucina crudista non significa mangiare solo piatti freddi: i cibi possono anche essere scaldati o addirittura cotti a bagnomaria, a fuoco bassissimo e a una temperatura costante che non superi i 42 �C, affinché restino inalterati i minerali, le vitamine, le proprietà organolettiche degli alimenti e ogni altra sostanza nutritiva, che le alte temperatura distruggono in massima parte. Esiste una specifica arte culinaria crudista, che usa svariate tecniche per preparare i piatti. Per esempio, la marinatura, l’ammollo, la germinazione, 8


la fermentazione, la disidratazione, la centrifugazione, la frullatura e lo sminuzzamento sono metodi che rendono il cibo molto appetitoso e consentono di preparare infiniti piatti, dall’antipasto al dolce. Tra queste mi piacerebbe parlarvi proprio della germinazione e, quindi, dei germogli, un alimento davvero interessante. I germogli, infatti, sono “cibo vivo”: contengono sostanze nutritive essenziali e minerali difficili da trovare anche nella frutta e nella verdura fresche. I benefici dei germogli sono documentati da secoli nella letteratura occidentale e orientale. Ai tempi dell’Antica Roma, poiché i legionari avevano bisogno di cibo energetico e poco ingombrante, i soldati portavano legate in vita sacche di stoffa che contenevano semi. Con il calore e l’umidità del corpo questi semi germogliavano e venivano usati per preparare focacce - se c’era tempo - oppure sgranocchiati così, da soli. Piccoli semi che nutrivano interi eserciti. Anche l’esploratore inglese James Cook portava sulle sue navi, dove era impossibile disporre a lungo di frutta e verdure fresche, semi da far germogliare durante le traversate: erano ricchi di vitamine, soprattutto di vitamina C, e molto utili per combattere lo scorbuto, una malattia debilitante e spesso mortale, considerata un vero flagello per i marinai, che non potevano mangiare cibi freschi per periodi spesso interminabili. Non tutti i germogli sono però buoni da mangiare: bisogna evitare quelli delle solanacee (patate, pomodori e melanzane), perché contengono la solanina, una sostanza tossica anche in modeste quantità. Questo primo workshop è stato molto interessante e divertente, ha ottenuto un buon successo ed è già in programma il secondo. Con la vitalità e la forza di un seme che germoglia, insomma, mi preparo al secondo appuntamento.

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La mia ricetta per una nuova passione di Alessandra Malagnini

Se guardo la mia vita, mi sembra di averla percorsa in senso inverso. Le donne studiano, trovano un lavoro che le appassioni, dopo magari si sposano, si sistemano, hanno figli e formano una famiglia... Io, al contrario, ho compiuto scelte affrettate, istintive. Scelte felici, per fortuna, ma che inevitabilmente hanno condizionato la mia esistenza. Mi sono sposata molto giovane e sono diventata mamma per la prima volta a 21 anni, la seconda a 26. E quando si hanno figli, lavorare in due è d’obbligo, se si vuol migliorare il tenore familiare. Così mi sono rimboccata le maniche e mi sono guardata attorno. Inutile dire che, nei primi tempi, più che impieghi precari non trovavo. Prendevo quel che capitava, insomma. Poi, alla fine, riuscii a farmi assumere in un call center, a tempo indeterminato. Una vera fortuna, di questi tempi, tanto più che il lavoro non mi dispiaceva affatto. Però, anno dopo anno, un vuoto dentro di me l’avvertivo. Per quanto mi piacesse la mia occupazione, sentivo di rinunciare alla mia vera identità, alla mia voglia di fare. Avevo bisogno di qualcosa che non si limitasse al semplice stipendio, ma che mi rilassasse la mente, che permettesse alla mia parte creativa di sbocciare davvero. L’idea mi venne davanti al televisore. Non amo molto i programmi tivù, lo confesso. Però, quando si tratta di ricette, di pentole e di fornelli, è tutta un’altra cosa: non ci resisto. E così, un giorno, mi misi a cercare su internet qualche corso di cucina nella mia zona, per sperimentare sul campo la mia nuova passione. Finii per iscrivermi a un corso base di cucina e di pasticceria. Fu durante quegli appuntamenti settimanali che, per la prima volta, compresi dove si dirigesse il mio cuore. Cucinare mi estraniava dal mondo: per tre ore a lezione ero immersa anima e corpo tra i fornelli. La passione, ormai, divampava e cresceva sempre più. E quindi rieccomi a frugare il web, questa volta alla ricerca di una scuola davvero professionale. Fu così che incontrai la Fippc dello chef Giorgio Trovato. Il mio primo contatto? Stefania Erroi, segretaria della Federazione e professional personal chef. Fu lei a darmi tutte le informazioni necessarie per prendere la decisione di iscrivermi al corso. Rullo di tamburi: nel novembre del 2013, scesi in pista per inseguire la mia nuova, grande passione, affrontando una settimana full immersion in un agriturismo di Lecce. Missione una volta tanto non impossibile: diventare un professional personal chef! Furono sette giorni quasi impossibili da raccontare: intensi, appassionanti, anche faticosi se si vuole, ma sempre entusiasmanti. Perché in questo corso non ho imparato soltanto tecniche di cottura, abbinamenti di ingredienti e la storia di ogni singola pietanza... La cosa più importante che ho appreso è che nutrirsi non è solo l’appagamento di un bisogno fisiologico. Giorgio mi ha insegnato che, elaborando un piatto, uno chef non si limita a cucinare qualcosa di commestibile e gradevole, ma vuole rievocare ricordi di famiglia, piaceri condivisi con gli amici, momenti dell’esistenza che restano impressi nella memoria e che il profumo e il sapore di un piatto riescono a suscitare, ricreare e trasmettere di nuovo. Non basta: un altro prezioso insegnamento è che ogni personal chef ha la sua identità, la sua impronta, il suo tocco, diverso da quello di un altro. Non esiste una figura unica di personal chef: esistono tanti personal chef, ciascuno differente dall’altro, con una personalità propria, distinta, che deve restare tale, senza uniformarsi o banalizzarsi. In cucina, intanto, il tempo volava e la fatica neppure si sentiva: era come intraprendere un lungo e meraviglioso viaggio, trasportata dai racconti e dalle esperienze culinarie dello chef. Giorgio riusciva a destare la mia attenzione, quasi mi mostrasse un film o mi leggesse un libro pieno zeppo di illustrazioni, un’esperienza esaltante che ho condiviso con altre sei fortunate persone, che a loro volta hanno condiviso con me le loro esperienze. Non ero sola, nella mia nuova passione! 10


Grazie a questa avventura, oggi so che cosa conosco e ciò che ancora mi manca per completare la mia cultura in cucina, per proseguire con maggior consapevolezza lungo la strada tracciata dai miei sogni. E le occasioni per apprendere non mancano e non mancheranno: a maggio ho partecipato al Cibus di Parma, assieme a tanti miei compagni di corso, e a settembre affronterò uno stage di due settimane al Convito di Curina, il ristorante di Villa Curina, a Castelnuovo Berardenga, in cui lavora lo chef Trovato. Forse le altre persone prima inseguono i loro sogni, poi si sposano e formano una famiglia. Forse. Però, la mia vita al contrario ha avverato tanti sogni: ora spero che anche questa grande passione diventi realtà.

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Convito di Curina, delirio creativo di Raffaele Mariani (foto comprese)

La strada che mi conduceva al resort di Villa Curina, fra Monteaperti e Castelnuovo Berardenga in provincia di Siena, già mi lasciava presagire scenari misti fra il fiabesco e il mirabolante, tanto che non ho resistito a fermare l’auto e a scattare qualche foto deliziosa e incantevole. La sensazione si è subito dimostrata vera non appena giunto a destinazione: Villa Curina è un posto mozzafiato, perfettamente integrato con il paesaggio, un edificio curatissimo immerso nel suo immenso giardino. Subito mi accingo a entrare nel ristorante Il Convito di Curina, dove mi stava attendendo lo chef Giorgio Trovato. Mi viene incontro un ragazzo simpaticissimo e molto educato, dall’accento straniero e dal nome insolito: Alti. Mi fa accomodare sul divanetto vicino all’entrata e dopo pochissimo ecco il nostro chef Giorgio che, con la sua consueta gentilezza e affabilità, mi saluta abbracciandomi. Per rinfrescarmi dal lungo viaggio, chiede a Alti di portami un bicchiere di “vino della casa”... Non so bene che cosa aspettarmi ma, dato che siamo in pieno Chianti... E invece no! A sorpresa il “vino della casa” di Villa Curina è uno Champagne di qualità eccezionale! Lo ammetto: sono così frastornato dall’inattesa bellezza del luogo e da tanta cortesia, che quasi non riesco neppure a parlare con Giorgio. Mi rendo conto di aver farfugliato qualche parola sconnessa, senza quasi un senso logico, ma davvero non riesco proprio a riprendermi: preferisco godermi questa sensazione di smarrimento in un ambiente del tutto nuovo e inaspettato. Lo chef, intanto, mi fa accomodare a un tavolo sull’incredibile Terrazza sul Chianti e mi fa servire, una a una, alcune delle specialità che caratterizzano il menù del suo ristorante. Come benvenuto ecco il sorbetto al peperone con chips di pane (delizioso e forte al tempo stesso), poi una porzione della sublime e celeberrima pappa al pomodoro e a seguire i fagioli cannellini sormontati dal “tonno del Chianti”. È la volta dei dolci: il geniale predessert, zuppetta di frutta e verdure marinate al frutto della passione e mango, per giungere, dulcis in fundo, al dessert vero e proprio, un sorbetto al cetriolo poggiato su due dita di Porto. La sensazione di smarrimento e d’ubriacatura non fa che aumentare vertiginosamente... Mi guardo attorno e mi chiedo se ciò che sto vivendo sia reale o un sogno. L’appuntamento con Giorgio è per il mattino dopo. In programma c’è la visita alla cucina, dove svolgerò il mio stage di due settimane. Lo chef mi presenta Ervis e Agostino, due ragazzi stranieri che lavorano nel ristorante da parecchi anni. Cominciamo il lavoro mostrandomi velocemente dove si tengono le stoviglie, il cibo, le farine, i frigoriferi e così via... Dopo soltanto cinque minuti già mi sentivo del tutto sperduto! Ma non ho avuto tempo per riprendermi: ci siamo messi a preparare il pane e la focaccia al cacao, i pomodorini confit e il sorbetto all’ananas. Il tempo correva e, pian piano, arrivò la sera, assieme ai primi avventori. Lo chef si muoveva in cucina come un funambolo, impartendo ordini a tutti, perché tutto doveva essere svolto alla velocità della luce! Dopo due ore di quell’autentico delirio, già cominciavo ad avere idea che le mie sarebbero state due settimane davvero molto difficili! Anche perché, secondo me, Ervis e Agostino si divertivano a darmi informazioni fuorvianti, incomplete e inesatte: avevo però compreso da subito che tutto ciò faceva parte del gioco e che avrei dovuto confrontarmi anche con questo. 12


Mentre mi barcamenavo con le mie nuove mansioni, non potevo evitare di notare quanto Giorgio fosse semplicemente geniale nella cura che metteva nei piatti che inventa e prepara: con perfetto sincronismo cucinava contemporaneamente cinque o sei pietanze diverse, mantenendo una gestione del tempo invidiabile, senza sbagliare mai. E vedevo anche quanto si divertisse a impiattare le sue prelibatezze, creando vere e proprie opere d’arte. Il suo demone artistico è perfettamente visibile ed è un tutt’uno con la sua natura: davvero non avrebbe potuto fare null’altro nella vita se non lo chef. La sua è una missione, un’autentica vocazione che gli permette di andare ben oltre il semplice cucinare. Il terzo giorno in cucina, lo ammetto, ho seriamente pensato di tornarmene a casa! Cominci a lavorare duramente alle 15 e rimani in piedi fino all’una di notte, quando va tutto bene, in uno stato di tensione così alta che non riuscivo a prender sonno serenamente, quando finalmente raggiungevo il letto. Però non ho ceduto, perché era troppo affascinante guardare lo chef creare e avere la possibilità di imparare da lui. Così ho serrato i denti e mi sono immerso nell’esperienza. Non per niente sono uno specialista d’immersioni! E quante cose nuove ho imparato! Non potrò mai ringraziare Giorgio abbastanza, per avermi offerto un’occasione così rara e importante. Sono riuscito a resistere per tutte e due le settimane, facendo grandi progressi giorno dopo giorno. È stata un’esperienza fantastica e avvincente al tempo stesso. Grazie, Giorgio, grazie davvero! Il giorno in cui sono partito per tornare alla mia città, gli ho anche chiesto se sarebbe stato possibile ripetere quest’avventura. Quindi a presto, Villa Curina! A presto, Monteaperti! A presto, chef! A presto, Stefania! A presto, paesaggio unico e mozzafiato! Sento con forza e chiarezza che qui vi tornerò sicuramente, molto prima di quanto si possa immaginare. Tutte le immagini sono di Raffaele Mariani

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Un Sultano in Sicilia di Giorgio Giorgetti

Nel mondo esistono luoghi che prima di tutto sono racconti. Squarci di paesaggi che cantano labirintiche novelle fra boschi, monti, azzurri di cielo e mare, durezza di pietre e pieghe segrete di terra. La Sicilia è uno di questi: così ricca che non crederesti abbia bisogno di una voce, eppure celata, scontrosa, un’ombra che non t’aspetti sotto il suo sole implacabile. Un cristallo d’ingannevole limpidezza, tanto abbagliante da confondere lo sguardo. Della Sicilia puoi goderne ciecamente così, sostando alla gradevolezza della superficie, come galleggiando su un basso fondale, dove ancora ti pare di aver compreso ogni forma dell’acqua. Dove il mare è mare, il cielo è cielo e la terra un tappeto magico di architetture e culture. Oppure puoi tentare di immergerti. Ed è qui che ti perdi. Perché la favola che pareva semplice diventa più complessa man mano affondi. I coralli si confondono con i sogni di un palazzo antico, le alghe scolorano in ombre di sirene. E ti chiedi quale storia stia davvero raccontando questa terra. Quale filo ti condurrà al cuore di questo labirinto, che a ogni passo diventa più gravido di risonanze, di sapori, di culture embricate fra loro come tegole. Se davvero ti lasci sprofondare nella Sicilia, senti l’esigenza di una voce, un filo d’Arianna che ti guidi in questa caverna di tesori, per non annichilitirti di fronte a tanta ricchezza. Per fortuna, la Sicilia il suo cantastorie l’ha trovato: si chiama Ciccio Sultano ed è lo chef bistellato patron del ristorante Duomo di Ragusa Ibla. In esclusiva per la nostra rivista, il grande cantore dell’isola ha concesso un’intervista, per raccontare ai personal chef della Federazione il suo rapporto con il territorio e le sue eccellenze e come sfruttare al meglio i prodotti che ci circondano e che contribuiscono a rinsaldare le autentiche radici di una terra. La prima domanda è inevitabile: da dove deve trarre ispirazione uno chef? A che cosa occorre offrire maggior attenzione? Alla storia gastronomica di un territorio, alla scoperta e alla valorizzazione di un prodotto tipico o piuttosto lasciarsi guidare solo e soltanto dalla voglia di osare e sperimentare? «Non credo debba esistere una sorta di gerarchia dell’attenzione» dice Ciccio Sultano. «La mia vera identità, per esempio, è quella del cuoco. E come tale mi muovo e ragiono. Non sono uno storico, non sono un sociologo o un esploratore. La mia dimensione è quella del cuoco, quindi da tale posizione ascolto ciò che mi circonda, senza preclusioni. Ascolto la tradizione, assaggio i frutti della mia terra, mi lascio guidare dalla passione... Non vedo il senso di dare la preferenza a un aspetto piuttosto che a un altro. Un cuoco pensa a cucinare e si muove di conseguenza. Non ci sono gerarchie, ma armonia e circolarità». Se un cibo non viene cucinato e mangiato, prima o poi sparisce. Quanto sei d’accordo e quanto credi possa fare uno chef per salvaguardare i prodotti in via d’estinzione? «Penso che ognuno di noi, nel nostro piccolo e qualsiasi attività svolga, debba pensare a un bene supremo. Mi piace citare il filosofo tedesco Immanuel Kant: “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si 14


occupa di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”. Per il bene di tutti e del futuro di tutti, noi cuochi dobbiamo rispettare la nostra terra, difendere i suoi frutti e tutelarne l’enorme patrimonio gastronomico». L’alta cucina è spesso rimproverata dalle persone più tradizionaliste, che vorrebbero piatti storici eseguiti filologicamente e senza piuttosto che interpretazioni e adattamenti. L’onesta trattoria locale, insomma, la vincerebbe sull’alta cucina. Come rispondi a queste provocazioni? Che linee guida dovrebbe seguire un novello personal chef? «Innanzi tutto, io non la vivo come una provocazione. Sono piuttosto due atteggiamenti, quello della ricerca filologica di un piatto tradizionale e quello della sua reinterpretazione, che hanno entrambi dignità di esistere. Tutto il cibo, se fatto bene, rispettato e amato, ha dignità di essere, dal semplice piatto di legumi cucinato secondo tutti i dettami della tradizione all’invenzione estemporanea del grande chef. La cosa importante non è tanto il filosofeggiare sul risultato finale, ma sul lavoro che vi è dietro. Se il processo ha richiesto amore, cura, attenzione e rispetto, questi valori si riscopriranno nel piatto, qualunque esso sia». La tua esperienza di chef è strettamente legata alla Sicilia. Ma, a tuo avviso, che cosa significa interpretare una tradizione e fin dove ci si può davvero spingere senza snaturarla? «La mia cucina, lo ammetto, è molto legata alla Sicilia. Ma, non per questo, eseguo con pedanteria ciò che propongo. Mi piace guardare alla Sicilia, certo, ma mi piace anche condividere con chi siede alla mia tavola le seduzioni della cucina di tutto il mondo. Mi piace, insomma, pensare alla cucina con un atteggiamento di apertura dove, perché no, possono trovare posto echi di culture apparentemente distanti da noi. Ciò che voglio dire è che il legame con un territorio, anche quando è intenso, non deve mai diventare prigione, inaridimento o, peggio ancora, banalità». Come vai alla ricerca di un prodotto tipico? Che cosa ti guida e che cosa ti attira in questa caccia? Per esempio: come hai scoperto il miele dell’ape nera sicula o una produzione che a te è particolarmente cara? «Mi piace essere aperto a tutto ciò che è buono. Proprio per questo sono un curioso, come l’Ulisse di Dante: sono spinto a varcare i limiti della conoscenza gastronomica. Alla fine, comunque, cerco sempre di stare sintonizzato con il meglio che mi sta attorno, che circonda la mia attività in questo luogo». Si dice spesso che la tua è una cucina barocca, più che altro perché - a differenza di quella di tanti tuoi colleghi - ama aggiungere e stratificare piuttosto che togliere: anche in questo cogli l’anima di una certa “sicilianità”? Come è nata questa tua “variante Sultano”, come tu stesso definisci il tuo modo di fare? Penso a un piatto come gli gnocchi di patate al Ragusano con polpettine di seppia e maiale, sugo di vongole e cozze e salsa alla carbonara... A leggerlo sul menù sembra una follia, invece è una delle tue ricette più celebrate: come ci si arriva? «Prima di tutto, voglio dire che l’abbinamento di seppia e maiale esisteva già nella cucina tradizionale di Gela, quindi era un accostamento che già si conosceva, non è farina del mio sacco. Per il resto, tutti gli altri ingredienti dialogano fra loro con armonia: perché interrompere, quindi, un ordine naturalmente costituito? La mia non è stata che un’intuizione...». Infine, c’è qualcosa che vorresti dire sul legame con la tua terra? «Sì. Che non potrei vivere a lungo lontano da essa». Un ottimo modo per approfondire la conoscenza dello chef è visitare il suo blog, “La variante Sultano” (www.cicciosultano.it).

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Spaghetti freschi con tartara di alici, bottarga di tonno e succo di carota Ingredienti (per 4 persone): spaghetti freschi - 400 g alici fresche disliscate - 12 bottarga di tonno rosso - 100 g (90 g grattugiata, 10 g a fettine) succo di limone - 18 g

buccia di limone grattugiata - 4 g il succo di 8 carote Olio extravergine siciliano (da olive biancolilla) peperoncino fresco tritato aglio e prezzemolo

Preparazione: Trita al coltello le alici e la bottarga (sia la parte grattugiata, sia quella a fettine), metti tutto in una ciotola e condisci il trito con un po' d'olio, prezzemolo tritato, peperoncino, il succo e la buccia del limone. Centrifuga le carote precedentemente pulite e raccogliene il succo. Poni sul fuoco una pentola d'acqua e, quando è bollente, versaci gli spaghetti. Nel frattempo, in una padella, fai colorire uno spicchio d'aglio con l'olio e un po' di pepe-roncino. Blocca la cottura con una cucchiaiata o due d'acqua della pasta e aggiungi un po' di prezzemolo tritato. Una volta cotti, scola al dente gli spagnetti e saltali in padella con l'olio insaporito. Scolali una seconda volta, per privarli dell'unto eccessivo. Servizio: In un piatto fondo, componi a nido gli spaghetti e collocavi sopra la tartare di alici e bottar-ga. Versa il succo di carote e servi immediatamente.

Ricetta dello chef Ciccio Sultano del ristorante Duomo a Ragusa Ibla. Foto di Giorgio Giorgetti

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Prodotti De.co., figli del territorio di Francesca Maselli

“Come io ammiro Picasso perché lo riconosco, così posso apprezzare un vino o qualsiasi altra cosa che viene dalla terra, se la riconosco. Trovo che questo sia un recupero di civiltà, di intelligenza e di libertà estremamente importante“ LUIGI VERONELLI

Mi sono imbattuta nelle De.co., una sigla che sta per Denominazione comunale, da quando faccio la personal chef nella nostra Federazione, vivendo in prima persona quella continua ricerca e promozione dei prodotti tipici che la Fippc, appunto, porta avanti con grande passione. Prodotti tipici, naturalmente, che siano soprattutto espressione del territorio, della sua storia, della cultura e delle sue tradizioni. Spiegare che cosa sia una denominazione comunale, dal punto di vista puramente burocratico, non è molto complicato. Innanzi tutto, al contrario di quanto si crede, la De.co. non è un marchio di qualità, come potrebbe essere una Dop, una Igp e così via. Per quanto preziosi e necessari siano queste etichette, le De.co. non hanno nulla a che spartire con esse. Non rappresentano insomma nessun tipo di tutela, di consorzio o di via breve per raggiungere qualche denominazione europea riconosciuta. Hanno un’altra ragion d’essere. La De.co., infatti, è soltanto un certificato notarile che il sindaco di un paese contrassegna dopo una delibera comunale. Una delibera che, a sua volta, registra un dato di fatto: un prodotto, un piatto, un sapere con i quali la comunità di quella cittadina s’identifica. Un modo buono per valorizzare le risorse del territorio e di trarne anche vantaggi, sia dal punto di vista turistico, sia economico. Ma se la De.co., di fronte alla legge, può sembrare una piccola cosa, nei nostri cuori il suo richiamo suscita echi e valori ben più ampi. Perché le De.co sono la carta d’identità di un prodotto, ci dicono dove nasce e si sviluppa con quelle caratteristiche che lo rendono particolarmente unico e prezioso. Mi è molto facile, quindi, pensare alle De.co. come se fossero persone autentiche, vere. Quelle persone che è sempre più raro incontrare sul nostro cammino, che quando le incontri ti mettono di fronte a ciò che sei o sei diventato o saresti voluto diventare. È così, insomma: da quando ho cominciato a conoscere i prodotti tipici, i veri figli di un territorio, la mia vita è diventata una scoperta continua. È come se ogni volta partissi per un viaggio, vivessi e lottassi per affermare un’idea, un sogno, un desiderio. Perché, e penso che lo si avverta, il mio cuore non mi conduce solo verso quei prodotti che hanno ormai ricevuto la benedizione di un sindaco, ma va ben oltre, verso quei cibi che ancora si celano, secretati nelle pieghe delle tradizioni familiari, nei casolari degli ultimi contadini, nei laboratori di artigiani coraggiosi che, anno dopo anno, combattono perché quei sapori, quei profumi, quei tesori non siano ancora abbandonati. Così il mio percorso attraverso le De.co. scorre lungo due strade, che alla fine s’intersecano e diventano una sola: da una parte conoscere quanto già si è fatto per identificare e salvaguardare, dall’altra ricercare quanto ancora non è venuto alla luce, scoprire ciò che si nasconde perché troppo minuscolo per essere visto, troppo particolare per poter piacere a tutti. In questo viaggio mi accorgo di non essere sola: tanta gente, infatti, prova il mio stesso entusiasmo, anche se non sempre ne è consapevole. Nei giorni di Cibusland noi della Fippc siamo scesi in piazza, a Parma, per promuovere i prodotti De.co. che avevamo portato con noi, la loro storia, i territori che rappresentavano. Abbiamo incontrato uomini e donne con cui abbiamo scambiato ogni tipo d’emozione, provato sapori e aromi, resuscitato antichi ricordi e favole e valori che sembravano dimenticati, arricchendoci l’un con l’altro. Non siamo soli: tutti avvertiamo che le nostre radici più autentiche e profonde stanno qui, in queste produzioni rare e spesso sconosciute. 18


E se, da una parte, il nostro presidente Giorgio Trovato c’invoglia a ricercare senza posa le eccellenze del territorio, sta a noi portarle nelle case dei nostri clienti, donando loro una nuova primavera e regalando ricordi antichi accostati a nuove sensazioni. Perché il territorio continui a vivere e crescere attraverso di loro, perché la nostra natura più vera non muoia mai. Poiché questo ho imparato, senza ombra di dubbio: che il futuro di una terra sorge soltanto dalla sua tradizione migliore.

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Parma, l'amicizia è servita! di Giusy Rotelli

Da quando appartengo alla nostra federazione, ogni evento a cui partecipo è sempre unico. Anche l'avventura al Cibus di Parma non mi ha certo deluso. Già le cifre della manifestazione erano imponenti: dal 3 all'8 maggio scorso, la cittadina emiliana è stata invasa da oltre 70 mila visitatori: un palcoscenico d'eccellenza che ha visto la fippc un'altra volta protagonista. Assieme, naturalmente, agli ottimi prodotti De.Co che abbiamo potuto far conoscere e provare in diretta nei banchetti che avevamo allestiti nei pressi della Casa della Musica. Missione quotidiana: preparare aperitivi e veloci merende, che a volte si potevano trasformare anche in una robusta cena a base di prelibatezze tutte nostre. Ma non è finita: smontati i gazebo nella piazzetta, non facevamo in tempo a tirare il fiato che eccoci pronti per una seconda sfida: la cena di gala (anzi, le due cene di gala, in due diverse serate) presso il ristorante Corale Verdi, in vicolo Asdente. Bastava mettervi piede per sentirsi catapultati nel passato: musica lirica di sottofondo, immagini del grande musicista di Busseto ovunque, un'atmosfera di tempi lontani che, inverosimilmente, in quel momento parevano forse un po' vintage, ma attualissimi. Lavorare al Corale Verdi è stato esaltante. Non tanto per la parte vera e propria della cucina, che grava soprattutto sulle spalle del nostro presidente, quanto perché potevamo muoverci in armonia con tutti i nostri amici. Vecchie conoscenze che potevamo di nuovo rivedere, amicizie di corso che si consolidavano e nuove che se ne formavano... Insomma, la vera gioia era questa. Ma anche la cena insé, ammettiamolo, aveva il suo bel perché. Tema: un percorso gastronomico tra le eccellenze De.Co che ci facevano da sponsor. Ecco quindi la vellutata di lenticchie di Onano, in provincia di viterbo, accompagnata dalla granella di amaretti e da qualche preziosissima goccia di aceto blasamico tradizionale di Modena, presentato agli ospiti in diretta dai rappresentanti dell'omonimo Consorzio. Stupendi anche i maritati con salame e mozzarella di bufala campana e indimenticabili la vellutata di patate di Sant'Eufemia d'Aspromonte, il tutto accompagnato dall'ottimo pane fatto da noi e dalle buonissime olive “ammòdu” di Cittanova, sempre calabresi come le patate. Scontato il risultato: commensali soddisfatti e noi entusiasti per aver arricchito le loro esperienze gastronomiche, servendo il meglio del made in Italy. A fine serata i complimenti, i ringraziamenti, gli abbracci e gli arrivederci alla prossima esperienza targata Fippc.

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Il mio piatto vuole essere un itinerario gastronomico in miniatura, arricchito da un po' del nostro sole. Per questo ho scelto come titolo il nome della struttura che più caratterizza la Puglia: i trulli, appunto. Come tutti sapranno, i trulli sono casse a forma di cono che in particolare si possono trovare nella famosa Alberobello, ma anche in tutta la regione, magari con qualche variazione a seconda dei paesi che li ospitano. Ma ecco subito la ricetta.

Trullo pugliese Ingredienti (per 4 persone): Riso basmati - 50 g acqua e sale q.b. tè alla menta - 1 bustina Flora 1 carciofo 1 pomodoro

1 pezzo di peperone 4 ciuffi di rosmarino sale nero q.b. Fauna Maiale nostrano capocollo di Martina – 150 g pangrattato q.b., sale q.b. olio extravergine d'oliva a discrezione

Preparazione: Prendi il capocollo di maiale nostrano e taglialo a listarelle. Impanalo nel pangrattato, aggiungendo tutte le spezie. Prendi una padella antiaderenti, mettici un filo d'olio e fai saltare il capocollo, fino a ottenere una crosticina croccante in superficie. Fai bollire un po' d'acqua in un pentolino e poi metti in infusione il te. Fai lessare il riso basmati.Una volta pronto, passalo velocemente in padella con un filo d'olio, aggiustandolo di sale. Prendi un normale imbuto e premi all'interno il riso, fino a dargli una forma di cono rovesciato. Capovolgi l'imbuto nel piatto e, appunto, impiatta il riso, che avrà la forma del classico trullo. A questo punto prendi il carciofo, puliscilo, mettilo in acqua e limone, aprilo a fiore con le dita e friggilo in un pentolino in abbondante olio. Ora dai spazio alla tua fanatsia e aggiungi il carciofo al piatto, ornando il tutto con il pomodoro e il pezzo di peperone, disposti come vi sembrano più eleganti e appetitosi. Rifinite con qualche goccia d'olio e un pizzico di sale nero.

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I cibi conservati con la tecnica del sottovuoto, una volta cucinati, non hanno nulla da invidiare ai cibi freschi proprio perché il vuoto ne mantiene invariate le caratteristiche organolettiche. La creazione del sottovuoto blocca il processo di ossidazione per cui le pietanze così conservate non perdono gusto, ma risultano più stuzzicanti. Il sottovuoto evita la proliferazione di quei piccoli parassiti che, normalmente, si formano nella pasta, nel riso, nelle farine o nella frutta secca. L'irrancidimento di grassi ed olii, la formazione delle muffe, anche nei cibi conservati sott'olio. Evita di dover ricorrere alla conservazione di insaccati in olio o in strutto, sottraendosi così ad una fastidiosa e senza dubbio noiosa incombenza, ossia la fase di pulitura.

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Io, la Maugeri e la rapa rossa di Federica De Prezzo

Tu sei lì, gironzoli in un angolo della tua città - come cantano i Pink Floyd - e ti arriva una telefonata: «Ciao Fede, tra qualche giorno faremo la presentazione di Las Vegans, il nuovo libro di Paola Maugeri. Tu FARAI uno show-cooking preparando una ricetta vegana tratta dal libro». Eh? Show-cooking? Io? Ma, soprattutto, IO cucinerò per Paola Maugeri?In quel momento ho scandagliato la mia memoria fotografica e sentimentale: gli anni di MTV, di meravigliose canzoni, dei primi vj, del suo adorabile caschetto blu, del… Paola Maugeri vegana?! Chi l’avrebbe mai detto. Sembra così in salute. Questo era pressappoco il mio stato d’animo subito dopo la telefonata di Gianpiero Pisanello, il curatore di "Tuglie incontra - Festival del Libro": paura, angoscia, ansia e pregiudizio (se Jane Austen fosse viva, avrei un titolo da suggerirle per un sequel). Dicevamo. Che ne sapevo io di cucina vegana? Mi chiedevo se avrei saputo cogliere quella sfida tripla: addentrarmi in un mondo a me sconosciuto, preparare del cibo per una persona famosa e, last but not least, non far sfigurare la Federazione italiana professional personal chef di cui io, fieramente, indosso la divisa. Tutto ciò che sapevo era che i vegani non mangiano uova, né latte, né qualsiasi altro cibo di origine animale. Un bel problema. Era assolutamente necessario che giungessi preparata all’evento, per cui mi sono affidata, con studio matto e disperatissimo - per dirla con Leopardi -, a Google, Wikipedia e al libro di Paola. L’impatto con Las Vegans è stato dei migliori: chiaro, scritto bene, con una bella grafica, pieno di canzoni che adoro e che sono parte integrante della vita di Paola Maugeri, e con ricette che, a dispetto dei miei pregiudizi, apparivano molto appetitose. Il Personal Chef che è in me era decisamente sollecitato e stava per lanciarsi in questa nuova avventura animal free. Ho dovuto scegliere una ricetta che si potesse fare in meno di 15 minuti e che avesse almeno un ingrediente tipico della cucina vegana. Questo, per chi di norma si nutre di zuccheri raffinati, formaggi grassi, farine piene di glutine e pancetta, vuol dire districarsi fra tofu, miso, alga nori, tahina, agro di umeboshi e altri termini che a me richiamano alla mente solo gli anime giapponesi che vedevo da piccola (non solo da piccola, visto che sono solita circondarmi di un figlio quattrenne). Il tofu. Dovevo partire da qui. Per la bieca, unica e sola ragione che ricordavo di averlo visto nel supermercato sotto casa. E poi, per una sorta di eterogenesi dei fini, era contenuto in una ricetta che aveva attirato la mia attenzione: “Crema di rapa rossa e tofu”, bilanciata, colorata e dolce al punto giusto. Da lì l’idea di servirla su tre tipi di pane fatto da me e altrettanto colorato: integrale, alla curcuma e al grano arso. Ognuno di questi pani avrebbe contrastato gradevolmente la dolcezza della rapa rossa, mitigata anche dall’erba cipollina e dalla granella di nocciole. Durante le mille prove e mentre TUTTO ciò che mi circondava si tingeva di rosso (pentole, tavolo, frullatore, pavimento, capelli…), io affidavo i miei nevrotici pensieri a chi, sono certa, avrebbe potuto comprendere il mio stato d’animo, cioè ai Rolling Stones: “I see a red door and I want it painted black | No colors anymore I want them to turn black”! Chissà se a Paola sarebbe piaciuto quest’accostamento… Disastro. Per un attimo ho creduto che la comune passione musicale fosse l’unica cosa che avrebbe potuto salvarmi, fino a quando non ho assaggiato la crema: un velluto rosso e suadente che sprigionava man mano contrasti e profumi, che allietava non solo il palato ma anche gli occhi. Ero soddisfatta. Quella giornata di preparazione era stata un’altalena tra ansia e felicità. Ansia che si è placata quando, appena prima che cominciasse la serata - una splendida e gratificante serata - ho finalmente conosciuto Paola. Una persona dolce e garbata, al contempo grintosa e contagiosa, che al mio «Scusa, ma tutti quelli a cui ho chiesto l’agro di umeboshi (un aceto di albicocche previsto nella ricetta) mi hanno preso per pazza, per cui ho optato per l’aceto di vino che produce mio suocero, 100% biologico e a chilometro 0», mi ha risposto come avrebbe fatto Lorenzo: «Mi fido di te». 24


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A ogni cliente il suo gelato di Gianluca Renoldi

Gli anni passano, ma il gelato non tramonta mai. Al contrario, sembra quasi che ne esista una storia diversa in ciascun libro che ne parli e per ogni nazione che ne vanti l’origine. Basterebbe pensare a quanto sia antica l’idea di ghiacciare i cibi per gustarli freschi, so-prattutto durante la calura estiva: si può davvero dire che il gelato ha più o meno l’età della neve. Si narra che i Persiani, e in seguito gli Arabi, usassero il ghiaccio per raffreddare delicate misture a base di frutta e miele prima, zucchero di canna poi. Si chiamavano sherbet, che viene dall’arabo sharbat, bibita fresca. Da qui al sorbetto c’è soltanto un passo, anche nel nome. Greci e Romani sostituirono il miele allo zucchero di canna e l’imperatore Nerone tentò addirittura di emulare quelle dolci bevande, inviando i suoi schiavi in alta montagna per raccogliere neve. Dall’altra parte del mondo, in Cina, la neve si usava per preparare soffici miscele di frutta, che nel XII secolo, durante i suoi viaggi, scoprì anche il nostro Marco Polo. Il sorbetto conobbe grande fama con Caterina de’ Medici e, alla corte di Francia, con Carlo I fu trasformato da suo cuoco in gelato, con l’aggiunta di panna e latte. Il brivido dolce restò però sempre esclusiva di pochi ricchi, che potevano permettersi tale prelibatezza, fino al 1840, quando una lungimirante casalinga americana mise a punto la prima gelatiera a manovella. In seguito, nel 1904 a Saint Louis, nacque il cono gelato. Nel frattempo, naturalmente, si era sviluppato in piena autonomia anche in tante altre parti del globo. Negli Stati Uniti era stato “americanizzato” con biscotti dolci, creme e burro d’arachidi. In Francia era stato arricchito con creme a base d’uovo, per renderlo più setoso. In Italia, in-vece, il sorbetto sconfinava spesso in qualcosa di più simile alla granita, per cogliere ap-pieno i sapori e i profumi delle eccezionali materie prime che caratterizzano il nostro Pae-se, evitando di coprirne i sapori con panna e uova. Il gelato, quindi, in ogni parte del mondo è stato adattato per esaltare gli ingredienti tipici e le usanze alimentari del territorio: è diventato, insomma, una vera e propria ricetta, figlia di luoghi, lavoro, passione e desiderio di innovare e stupire. Così, anche nel lavoro di un personal chef, il gelato può essere un mezzo per sorprendere un cliente e per valorizzare la produzione di un territorio. A tal proposito, esistono macchinari, prodotti da aziende italiane (le migliori), che consentono di adattare le gelatiere ai propri scopi, con programmi che permettono di scaldare, applicare fruste e regolare velocità e fasi di raffreddamento. Veri e propri robot da cucina, insomma, con l’opzione “gelato”. Per meravigliare i nostri clienti, sarà quindi importante non restare legati a tutti i costi ai gusti classici della tradizione, ma piuttosto pensare al gelato come a una vera e propria ricetta, adattabile all’occorrenza al nostro menù. Perché anche il gelato vuole la medesima cura nella scelta degli ingredienti e dei fornitori, tale e quale a quella che usiamo per qualsiasi altra ricetta. Come alcuni di voi sapranno, oltre che essere un personal chef, io lavoro anche nell’azienda di famiglia dove mi occupo, tra le altre cose, della produzione di gelati e deri-vati del latte. Ho avuto così l’opportunità di farmi una certa esperienza in proposito e di avere nel tempo coltivato parecchie idee, che sono lieto di condividere. Il primo passo è capire che tipo di avventore avete di fronte. Desidera riscoprire sapori as-saggiati un tempo? Vuole provare sensazioni nuove? È 26


affascinato dai moderni gusti salati? Cercate di interpretare il vostro cliente, quindi, di leggere fra le righe delle sue parole che cosa più l’attira o l’incuriosisce. Se è molto legato al suo passato, potrete proporre un gusto di frutta tipica dei luoghi dove è nato, oppure a base di frutta secca, considerando che l’Italia è per due terzi colonizzata dalle nocciole del Piemonte, che contendono il dominio alle mandorle e ai pistacchi di Sicilia. Se invece capite che esiste la possibilità di osare, magari perché ve lo chiede il cliente stesso, allora potrete dar libero sfogo alla fantasia con gelati a base di fiori commestibili come la violetta, la rosa e il sambuco, che potranno farla da padrone. In alternativa, potre-te proporre gelati ispirati a bevande e cocktail famosi, come la sangria, il Garibaldi (Bitter Campari e succo d’arancia), il Bellini (Prosecco e pesca), il Rossini (Prosecco e fragola) e chi più ne ha, più ne metta. Sarà importante, in questo caso, accertarsi di aver fatto evaporare completamente l’alcol, per non rischiare di avere un gelato troppo molle (l’alcol, infatti, non gela). Vi consiglio, inoltre, di non usare nessun tipo di neutro (la base semilavorata per i gelati alla crema) o di base (stesso impiego del neutro, ma per i gusti di frutta), ma di concen-trarvi sulle fibre naturali, sulle temperature e sulla corretta solubilizzazione ed emulsione degli ingredienti, al fine di ottenere un gelato più stabile e setoso. Per quanto riguarda profumi e aromi, sarà preferibile privilegiare, laddove possibile, tempi lunghi e basse temperature, in modo da valorizzarli. La tecnica che vi consiglio di usare è quella dell’infusione a freddo. Alla fine, vi confido che, se avrete sempre cura, eleganza, ricerca e delicatezza nel proporre i vostri sorbetti e gelati, avrete in mano la vera ricetta per realizzare il vostro successo. E nulla, credetemi, vi ripagherà di più dall’avere la possibilità di chiedere al vostro cliente quali sensazioni abbia evocato in lui quel dolce cucchiaino di nettare, figlio del vostro tempo e della vostra passione.

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Metti una sera a cena... a casa dello chef! di Stefano Pasotti

Avevo sempre immaginato che un personal chef cucinasse a domicilio. Invece no. A volte, gli può persino capitare di aprire a casa propria un ristorantino privato per clienti dalle esigenze particolari, che trasformano la tua sala da pranzo in un esclusivo separè privato per starsene in pace, lontani da tutto e tutti. Andò così. Un caro amico, dopo aver saputo del mio corso da professional personal chef, si interessò subito a quanto avevo imparato e a che cosa avrei potuto fare per lui. Mi chiese quindi di preparare e gestire un'intera serata per lui e la sua compagna: avrebbe dovuto essere una cena romantica, un evento intimo e tranquillo. Nessun problema, gli dissi. Anzi, l'idea che la mia prima volta fosse con una coppia di amici in qualche modo mi tranquillizzava. Ecco però la richiesta insolita: cena romantica per due sì, ma non a casa loro. A casa mia! Che dire? Niente, se non accettare. Dopotutto, pensai, non soltanto cucinavano per amici, come tante volte mi è già capitato, ma potevo addirittura muovermi in un ambiente familiare. Nella mia cucina so come destreggiarmi con sicurezza e quindi anche le mie preoccupazioni di un qualsivoglia intoppo scemavano sempre più. Ancora non sapevo che la strana richiesta avrebbe lasciato, a fine serata, una piccola eco di personale smarrimento: di cene, a casa mia, ne ho date parecchie. Quella è stata l'unica in cui non mi sono mai potuto sedere a tavola con i miei ospiti. E la cosa, non so come meglio spiegare, mi ha fatto sentire un po' estraneo a casa mia. Per questo, lo anticipo, nonostante il successo della serata non so se avrei voglia di ripetere quest'esperienza, per quanto istruttiva sotto diversi punti di vista. Ma torniamo alla storia. Ci accordiamo sulla data dell'evento e del menù. Io, dal mio canto, mi riservo di non rivelare qualche sorpresina... Ecco la mia proposta: come antipasto, uno sformatino alla ricotta con miele al tartufo e, per primo piatto, una lasagnetta ai funghi. Per secondo, una rana pescatrice con guanciale, salsa barbecue e vinagrette all'arancia. Dopo un intermezzo di sorbetto al lampone con riduzione di aceto balsamico, ecco il piatto forte della serata: guancetta di vitello cotta sottovuoto a bassa temperatura per 52 ore, accompagnata da crema di porri. Dulcis in fundo, ed è il caso di dirlo, un tortino al cioccolato su crema al rum. Mica male, no? Poiché sarebbe stata una serata romantica, ho fatto scorta di candele e ho abbassato le luci. Come musica di sottofondo ho pensato al jazz, qualcosa di rilassante ma non di soporifero: si è rivelata una scelta azzeccata, anche per me che stavo cucinando, perché l'atmosfera tranquilla che si era creata contribuiva a concentrarmi su quanto facevo e non sui discorsi dei miei ospiti. La tavola era imbandita al meglio delle mie possibilità: oltre alle candele, avevo tirato fuori grossi calici per il vino, un bel bicchiere colorato per l'acqua e i piatti del servizio buono, come si faceva una volta per gli ospiti davvero importanti. Non mi sono fatto mancare neppure un centro tavola. . Ma la mia prima attenzione, lo ammetto, è stata la mise en place della mia linea, in modo che potessi avere tutto sotto controllo, con piatti e stoviglie già pronti all'occorrenza. Teso? Un po': ma, dopo tutto, stavo giocando in casa! Ed eccoci alla fatidica serata. Arriva la mia coppia di amici, con lei all'oscuro di tutto. Certo, quando ha varcato il portone di casa mia, la ragazza ha mangiato la foglia ma, dall'espressione che aveva sul viso non appena ha visto la tavola imbandita, credo proprio sia rimasta meravigliata. 28


Calo il mio primo jolly a sorpresa: un aperitivo di benvenuto con cous cous agli agrumi e gazpacho andaluso del tutto fuori menù, che Giorgio Trovato ci aveva consigliato durante il corso Fippc. Dalle loro espressioni soddisfatte, direi che l'idea è stata davvero ottima. La cena comincia, si susseguono i piatti e tutto, per mia gioia, è piacevolmente apprezzato. Naturalmente, ho fatto il possibile perché tutto andasse liscio anche per lo chef! Considerando che era un lunedì e che io lavoro fino alle 18, ho pensato a un menù che mi permettesse di gestire tutto senza dover spadellare di corsa fino all'ultimo minuto. La maggior parte dei piatti, infatti, poteva essere cotta in forno e questo mi concedeva di sfruttare ogni minuto di tempo: uscita una portata, infornavo la seconda che era pronta non appena i miei ospiti terminavano la prima. Qualche piatto, inoltre, sono riuscito a farlo il giorno prima, come il gazpacho e il tortino al cioccolato, per esempio. E, per la prima volta nella mia vita, mi sono ritrovato a disegnare su carta l'impiattamento previsto: volevo avere un'idea chiarissima di come avrei presentato i miei piatti. La scelta del vino, su richiesta del mio ospite, è ricaduta su di me. Poiché sia lui, sia lei amano i rossi, ho deciso per un Chianti, che mi è sembrato dopotutto un buon compromesso. Avevo comunque pronte due alternative, in caso non fosse stato gradito. Altro jolly a fine serata, la mia ultima coccola: cioccolatini mignon e un goccio di liquore al basilico, che faccio personalmente. La cena, finalmente, può dirsi davvero finita. La coppia cessa di essere formata da ospiti paganti, ma soltanto da semplici amici. Ora posso sedermi con loro e scambiare due chiacchiere, bere assieme un bicchiere e ascoltare le loro impressioni. Che sono a dir poco entusiaste, tanto che ora sono tra i miei più grandi sostenitori. E, sempre con mia immensa soddisfazione, mi chiedono persino qualche ricetta e qualche dritta sulla preparazione: credo non ci sia piacere più grande, per un cuoco. Ci salutiamo. Posso pulire e finalmente andare anch'io a riposarmi. Morale della storia: questa situazione insolita mi ha permesso di provare a gestire una serata in totale autonomia, concedendomi il lusso di far pratica senza il peso dell'ambiente estraneo e del numero delle persone. Certo, tra organizzare per due e organizzare per dieci, la musica cambia e parecchio, ne sono cosciente. Tanto che,sotto sotto, potrei anche specializzarmi in serate romantiche per coppiette. La formula mi piace. Sai mai...

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Pentole AGNELLI sempre più personal Un accordo triennale con la Federazione italiana professional personal chef sigla un'unione naturale scaturita dal desiderio d'innovazione, buona cucina e tradizionale affidabilità

Pentole Agnelli, l'azienda bergamasca che da oltre un secolo crea le batterie da cucina in alluminio più famose nel mondo, ha stretto un accordo triennale con la Fippc, la Federazione italiana personal chef. Da oggi, gli strumenti firmati Pentole Agnelli sono le pentole e le padelle ufficiali degli chef che inventano e organizzano esperienze culinarie direttamente a casa del cliente. Una nuova strada si è quindi aperta per entrambe le realtà. Pentole Agnelli, con questo accordo, ha trovato un modo alternativo per entrare nelle case degli italiani e la Fippc può disporre di strumenti che, per comodità, praticità, maneggevolezza e capacità di condurre il calore, non hanno uguali. Modernità e tradizione, insomma, vanno ancora una volta a braccetto. Da una parte l'affidabilità di un'azienda che ha puntato ogni sua scommessa sulla qualità assoluta dei suoi manufatti, dall'altra la vivacità di una Federazione che ha creato un nuovo modo di intendere la cucina d'autore: non più fra le mura di ristoranti stellati, ma nel calore e nell'intimità delle abitazioni private. Questa solida unione permette a entrambi di trasformare qualsiasi evento culinario e gastronomico in un'esperienza unica e indimenticabile come mai prima d'ora. Il connubio fra una leggenda manifatturiera nazionale, com'è da sempre Pentole Agnelli, e la spigliata,innovativa fantasia dei professional personal chef della Fippc, apre nuove e infinite possibilità di conquistare il cuore degli italiani. Non per nulla, Pentole Agnelli nasce dalla genialità di un uomo che seppe fiutare il vento dell'innovazione: Baldassare Agnelli, giovane e intraprendente bergamasco che, nel 1907, comprese quanto quel materiale nuovo e quasi sconosciuto, l'alluminio, potesse diventare la chiave di volta per un svolta industriale davvero epocale. Non è certo un caso che oggi l'azienda abbia conquistato il cuore di un pubblico notoriamente esigente: gli chef professionisti e gli appassionati gourmand di tutto il mondo. Un legame con la Fippc, a questo punto, non poteva mancare. Fondata nel 2013 da Giorgio Trovato, attuale executive chef al Convito di Curina del resort Villa Curina, nel cuore del Chianti, ha subito identificato la propria missione: allevare una nuova generazione di chef professionisti che sapesse rispondere alle mutate esigenze del gusto e del costume. Il professional personal chef, infatti, è il cuoco che entra nel cuore della casa e imbandisce un menù su misura del cliente. Obiettivo? Far vivere al cliente un'esperienza integrale e coinvolgente, modellata su un mosaico di sapori, profumi, suoni, visioni e intime rievocazioni. Così, mentre si frequenta un ristorante per apprezzare la cucina di uno chef, si invita a casa propria un personal chef affinché interpreti i nostri desideri e imbastisca un menù come fosse un abito di sartoria, esclusivamente per noi e per i nostri ospiti. Impossibile, a questo punto, evitare una naturale attrazione fra la Fippc e Pentole Agnelli: quale strumento migliore, per un personal chef, di una batteria da cucina che asseconda ogni cottura e ogni ricetta fra i fornelli, sia essa studiata con millimetrica precisione o improvvisata al momento? E Pentole Agnelli, che ha già saputo conquistare il cuore dei professionisti, avrà un palcoscenico d'eccezione per ammaliare tanti e tanti altri appassionati della buona cucina.


IL RAME STAGNATO, DOVE REGNA LA NOBILTÀ DEL FUOCO

Il Rame Baldassare Agnelli è particolarmente indicato per le cotture più lunghe ed accurate, per le lavorazioni anche pasticciere a temperature precise, e per gli appassionati che sanno“muovere” le pentole fra i fornelli, governando a dovere calore e colpi di oamma. Le pentole in rame si tramandano di generazione in generazione; la patina del tempo le rende più che mai affascinanti. Frutto di una grande maestria artigiana, la gamma è disponibile sia in rame liscio, la lavorazione più attuale, dal moderno design, che in rame martellato, la lavorazione più classica, dal fascino antico.

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Viaggio tra le De.co. di Calabria di Rosario Previtera*

Un'infinità di produzioni agroalimentari tradizionali allettano, da sempre, i palati dei fortunati turisti e viaggiatori che hanno la possibilità di degustarle e la fantasia di chef e gastronomi giramondo. Si tratta di prodotti di nicchia, spesso depositari di storie, leggende e tradizioni, molte volte baluardi della biodiversità biologica e alimentare, qualche volta in via d'estinzione. Da qui la necessità di valorizzare (nel vero senso del termine) tali produzioni, conferendo loro un valore aggiunto, una nuova possibilità di commercializzazione, con il fine di stimolare i produttori a continuare o a riprenderne la realizzazione, attraverso attività di marketing territoriale mirato. La Denominazione comunale di origine deriva da una brllante intuizione di Luigi Veronelli che, nel suo girovagare tra i giacimenti enogastronomici italiani durante gli anni '70 e '80 del secolo scorso, era sempre più venuto in contatto con minuscole realtà produttive comunale, ma dell'eccezionale esclusività e potenzialità. Veri giacimenti enogastronomici da scoprire, da far emergere e far conoscere al grande pubblico. Veronelli si rese conto, insomma, che tali produzioni non potevano assurgere a quelle certificazioni comunitarie proprie dei prodotti di largo consumo, ossia dei veri prodotti tipici (IGP e DOP per ortofrutta, olio, pasta, pane e altri prodotti e pietanze; IGT e DOC per i vini), ma potevano diventare “il prodotto a firma del sindaco”, in quanto emblema di quel territorio comunale. Il marchio Denominazione Comunale di Origine fu poi ripreso e lanciato dall'Anci (Associazione nazionale comuni italiani) negli anni '90, nell'ambito di un ambizioso, interessante e travagliato progetto di valorizzazione diffuso: un progetto che, da qualche anno a questa parte, è stato ripreso e aggiornato, rispetto alla nuova normativa comunitaria in materia, da più soggetti e organismi in diverse regioni italiane, e che oggi è sostenuto anche dalla recente legge sull'etichettatura per l'indicazione dei luoghi d'origine dei prodotti agroalimentari. I prodotti che adottano la De.c.o. (o comunque la semplice De.co., la comune Denominazione comunale) sono stati centinaia in Italia, ma sono davvero poche le produzioni realmente commercializzate con questo marchio che si basano su disciplinari di produzione e regolamenti comunali specifici, a tutela del prodotto stesso e dell'uso del marchio. Un marchio che, appunto, deve intendersi come marchio collettivo e private label, gestito e tutelato dal comune d'appartenenza, che indica esclusivamente e soltanto che il prodotto ha origine da quel territorio. Le azioni di marketing contestuali fanno il resto e contribuiscono alla diffusione e commercializzazione dei prodotti agricoli, agroalimentari, artigianali individuati e censiti. Le prugne di Terranova. Tale sviluppo integrato reale è quanto accaduto al piccolo borgo di Terranova Sappo Minulio (RC) chem con le sue tradizionali e squisite prugne dei frati, ha oltrepassato i confini nazionali e ha consentito di incrementare l’economia rurale del comune. La cooperativa Terranova, appositamente costituita nel 2008 con il sostegno dell’amministrazione comunale, è passata dalle prugne a marchio “Prugne di Terranova De.c.o.” (www.prugnediterranova.it), commercializzate in estate, alle confetture e alle prugne secche: un prodotto eccezionale che, in poco tempo, ha riscosso grande successo. Il tutto ha consentito di portare il nome del comune e i suoi prodotti in diverse regioni d’Italia, in Svezia, in Australia oltre a creare nuova economia e posti di lavoro. Dunque un marchio e un prodotto legati ad un territorio, tali da far si che l’uno richiami l’altro, con risultati concreti e di lungo periodo. Lo stesso si sta realizzando in altre realtà comunali. Il pane di Cerchiara. Il famoso pane di Cerchiara (CS), quello originale, rischia di essere sempre più imitato e soppiantato dai falsi realizzati fuori dai confini comunali. Da qui la scelta del sindaco e dei panificatori più attenti di valutare il percorso d'attribuzione del marchio De.c.o. al famoso 32


pane scanato e agire con apposito piano di comunicazione ed eventi a tema (come la “Gran festa del pane di Cerchiara”), che consentano sia la valorizzazione del pane, sia l’attrazione turistica in questo splendido borgo medievale alle falde del Pollino, dotato di eccezionali valenze storico culturali e religiose, oltre che dell’ostello comunale e delle rinomate terme. I fagioli di Cortale. Per i già noti fagioli di Cortale (CZ) si è avuto un diverso approccio: con il marchio De.c.o. e con gli eventi programmati si vogliono stimolare gli agricoltori e i giovani del comune, riuniti in cooperativa, a incrementare la coltivazione di questi caratteristici fagioli. aumentandone la commercializzazione anche tramite azioni e strumenti di marketing moderni e più incisivi. La Graffiòla e la seta di Cortale. Ai fagioli di Cortale De.c.o. si aggiungono nel paniere delle tipicità anche un dolce unico e squisito qual è la Graffiòla (marzapane e glassa di zucchero) e soprattutto la tipica seta cortalese: col marchio “Seta di Cortale De.c.o.” si vuole contribuire a una maggiore visibilità di una produzione straordinaria (dal baco alla seta), che affonda le radici nei secoli passati. Cortale, insomma, non sarà solo conosciuto per aver dato i natali al pittore impressionista Andrea Cefaly, ma anche per le sue produzioni agricole, dolciarie e artigianali esclusivamente comunali. Le De.c.o. di Reggio. Il viaggio prosegue direttamente giù verso lo Stretto: l’amministrazione della città di Reggio Calabria ha già voluto valorizzarem con la Denominazione Comunale di Origine, due prodotti storici reggini: l’arancia di San Giuseppe, l’ovale Belladonna dolcissima e senza semi, che matura tra aprile e maggio, e la tropicale Annona (Annona cherimola), gustosa leccornia disponibile fra ottobre e dicembre. E la provincia reggina appare la più attiva in tal senso. Le De.c.o. di Cittanova. Le rinomate Patate di Sant’Eufemia di Aspromonte De.c.o., prodotte in pieno Parco Nazionale d’Aspromonte, fanno sempre più coppia con lo Stocco di Cittanova De.c.o. E il comune di Cittanova, ridente cittadina della Piana di Gioia Tauro, ha valorizzato altri tre prodotti grazie al marchio De.c.o.: la Biondina di Cittanova e il Torrone Ferro per i più golosi e, recentemente, le rinomate e tradizionali olive in salamoia che tanto successo hanno riscosso alle manifestazioni fieristiche Cibus a Parma e Golosaria di Riccione: le Olive ammodu di Cittanova De.c.o. Tutte azioni di grande e sicuro impatto economico sul comparto agricolo e turistico locale che consentiranno di incrementare il paniere delle Deco regionali già disponibile sul web (www.calabriadeco.it), assieme a tutte le altre produzioni italiane (sia reali, sia virtuali) ospitate su www.infodeco.it. Il variegato mondo delle Denominazioni comunali, infatti, continua a crescere e a prendere forma a partire proprio dal web, divenendo sempre più un vero e proprio strumento di valorizzazione territoriale del territorio, in cui gli elementi endogeni possono costituire una vera leva di crescita socioeconomica e di sviluppo sostenibile. Un nuovo esempio di sviluppo glocal: valorizzazione dell’economia locale tramite gli strumenti propri della globalizzazione. *agronomo, esperto di sviluppo locale (www.calabriadeco.it).

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Brodo di ciceri rosci (minestra di ceci) di Enzo Gola

Ecco un'altra ricetta tratta dal Libro de arte coquinaria di Maestro Martino, questa volta dal secondo capitolo della sua opera, “Per fare ogne maniera de vivande”, dedicato appunto a ricette (soprattutto zuppe e minestre) che non comprendessero carne, pesce, salse, dolci e frittelle. Tradizione vuole che Maestro Martino sia nato a mo, attorno al 1430, ma è assai più probabile che fosse del villaggio di Torre, in Valle di Bienio, allora nel Ducato di Milano, oggi nell'attuale Canton Ticino, in Svizzerra. Il Maestro Martino si sposta a Udine, poi a Milano, dov'è a servizio di Francesco Sforza, per poi raggiungere Roma. Non si conosce l'esatta data di morte, che è presumibilmente avvenuta nell'ultimo ventennio del secolo. Dalla seconda metà degli anni ‘50 fino al 1465, è cuoco personale di un alto prelato: il cardinale camerlengo Ludovico Scarampi Mezzarota, Patriarca di Aquilea. Il successo e la divulgazione in Italia e in tutta Europa delle ricette di Martino è, però, merito del suo più convinto sostenitore: l'umanista, suo contemporaneo, Bartolomeo Sacchi, detto il Platina (1421-1480), prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana. Il Platina incorporò le ricette di Martino - trascrivendole in latino e arricchendole di commenti - nel suo De honesta voluptade et valetudine, opera nella quale si prodiga in elogi nei confronti di colui che definisce «il principe dei cuochi», affermando che Maestro Martino era anche un amabile conversatore, dotato di una cultura così vasta da permettergli di sostenere, con efficacia, discussioni sui più disparati argomenti, non solo di natura gastronomica.

Per fare il brodo di ciceri rosci Per farne octo menestre: togli una librra et meza di ciceri et lavali con acqua calda et poneli in quella pignatta dove gli vorrai cocere et che siano sciutti et mettevi meza oncia di farina, cioè del fiore, et mettevi pocho olio et bono, et un pocho di sale, et circha vinti granelli di pepe rotto, et un pocha di canella posta, et mena molto bene tute queste cose inseme con le mani. Dapoi ponivi tre bocali d’acqua et unpocha di salvia, et rosmarino, et radici di petrosillo, et fagli bollire tanto che siano consumati a la quantiatde di octo menestre. Et quando sono quasi cotti mitivi un pocho d’oglio. Et se lo brodo si facesse per ammalati non gli porre né olio né spetie. Per fare otto piatti, prendi una libbra e mezza di ceci e lavali con acqua calda, scolali e mettili nella casseruola che vorrai usare per cuocerli. Aggiungi mezza oncia di farina, fior di farina, un po’ di olio buono, un po’ di sale, e circa venti grani di pepe spezzettato, un po’ di cannella macinata, quindi mescola bene con le mani queste cose insieme. Aggiungi tre boccali d’acqua, un po’ di salvia, di rosmarino e prezzemolo e falli bollire fin quando siano ridotti al quantitativo di otto piatti. Quando sono quasi cotti, versaci un po’ di olio. Se si prepara la minestra per dei malati non metterci né olio né spezie.

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La minestra di ceci del Maestro Martino Ingredienti (per 4 persone): Ceci - 200 g Farina - 1 cucchiaio Olio d'oliva - 2 cucchiai Pepe - 10 grani macinati grossolanamente Cannella in polvere - mezzo cucchiaino Salvia, Rosmarino, Prezzemolo, Sale Preparazione: La sera prima, monda e lava i ceci: assicurati che siano dell'annata e non piĂš vecchi. Mettili a bagno in acqua tiepida per tutta la notte. Il giorno dopo, mescola farina, olio, pepe e cannella in una pentola capiente. Aggiungere i ceci e mescola ancora una volta con le mani. Ricopri d'acqua fredda, possibilmente che non contenga molto calcare, altrimenti i ceci cuociono con difficoltĂ e restano duri. Porta a ebollizione e, se necessario, schiuma in superficie. Aggiungi un rametto di salvia e uno di rosmarino, legati assieme, nonchĂŠ un mazzetto di prezzemolo. Lascia sobbollire per due ore a fiamma molto bassa, finchĂŠ i ceci non sono diventati molto teneri. Sala soltanto a fine cottura.

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STAFF ICE SYSTEM L’aspetto più fresco e dolce dell’ultima edizione di Cibus, il Salone internazionale dell’alimentazione che ogni due anni apre i battenti a Parma, è stato creato da Staff Ice System, l’azienda riminese leader nel campo delle macchine per gelato. Complice di tanta golosità il team della Federazione italiana professional personal chef (Fippc), capitanato dal suo presidente, lo chef Giorgio Trovato: professionalità ed estro creativo, infatti, non potevano restare relegati negli spazi ristretti di uno stand fieristico, ma dovevano mettersi alla prova davanti a un pubblico dal palato esigente, in grado di apprezzare quanto di meglio Staff Ice System e Fippc fossero capaci di creare assieme. La sfida, naturalmente, è stata accettata con entusiasmo. Prova su strada senza rete e senza possibilità d’appello è stata la cena del 7 maggio scorso durante Cibusland, la ras-segna open air del Salone: palco d’eccezione il ristorante parmense Corale Verdi, al civico 9 di Vicolo Asdente. Al termine di tante portate dedicate ad alcuni dei migliori prodotti a Denominazione comunale, i fortunati ospiti hanno potuto concludere il loro viaggio nei sapori della tradizione italiana con un delizioso gelato di frutta e crema realizzato al momento, grazie proprio alla tecnologia Staff Ice System e alla fantasia di Giorgio Trovato. Inutile dire che il dessert ha strappato un bis, e non soltanto di applausi. Il successo, però, non è stato certo frutto d’improvvisazione. L’azienda di Rimini, infatti, dal 1959 vanta un’esperienza che ha pochi rivali nel campo della tecnologia del freddo. I mantecatori a estrazione manuale o automatica sono infatti da sempre il fiore all’occhiello di Staff Ice System, perfetti per adeguarsi a qualsiasi esigenza e situazione professionale. Ma non basta. Punta di diamante di questa tecnologia tutta italiana sono le macchine multifunzione, sempre targate Staff: uniche al mondo, non soltanto producono gelati perfetti, ma sono ideali per qualsiasi altra preparazione calda o fredda che la pasticceria e la gastronomia possano escogitare. Con una sola macchina, insomma, si fa tutto, dalla crema pasticciera allo zucchero fondente, dalla besciamella al risotto o al ragù. Con un rapporto qualità/prezzo invidiabile.

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Fonte Euromonitor International Limited, volume di vendita al dettaglio in unità robot da cucina marchio KitchenAid per il 2012.

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P I Ù L O U S I , P I Ù D I V E N TA B E L L O . Un design inconfondibile e prestazioni professionali per un robot da cucina amato ed apprezzato anche dai grandi chef. Grazie a 18 accessori opzionali, si rende indispensabile in cucina: mescola, impasta, trita, affetta, macina... Ecco perché è il robot da cucina più venduto al mondo.* Scopri tutte le sue potenzialità ai mini-corsi KitchenAid. Info e date su www.KitchenAid.it

www.kitchenaid.it

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Un tranquillo week-end di premura di Monica Donati

È un tranquillo mercoledì mattina di metà luglio. Io lavoro in un ufficio pubblico e mi sciroppo tutti I giorni circa sei ore di sportello a contatto con la gente, che ti rovescia addosso tutti I problemi e tutte le ansie che, di questi tempi, colgono un po' tutti. A un certo punto il mio cellulare s'illumina. È arrivato un messaggio, aspetto la pausa e leggo: «Cosa fai sabato?». Domanda retorica: io di sabato lavoro. Poi: «Ti va di venire a dare una mano per un evento un po' particolare?». Come si dice dalle mie parti, è un po' come invitare un'oca a bere. Certo che mi va. Ma resta il problema che io il sabato mattina non sono libera. Ma dov'è il problema? Alla fine della mattinata di sabato, parto e mi precipito verso la meta. Tempi strettissimi, naturalmente. A dieci minuti dal punto stabilito per l'incontro con il nostro chef Giorgio Trovato, dovrò inviare un messaggio e subito mi sarà comunicato che cosa debbo fare. Peccato che non ci sia campo... E adesso? Dove mi faccio recuperare? Con un giro di telefonate a centinaia di chilometri dal luogo dell'appuntamento, mi vengono finalmente date le indicazioni: devo arrivare, cambiarmi e aspettare che mi carichino per andare nel posto dove si svolgerà l'evento. Ok, fatto. Ora mi siedo e aspetto. A un certo punto compare l'auto dello chef, scarica al volo un suo collega che, entrando di corsa, mi dice «sbrigati, che siete in ritardo!». Salgo in auto e via, verso la meta. In Macchina si parla poco, è tardi e gli ospiti stanno per arrivare, quindi bisogna volare letteralmente per finire il buffet. Dopo aver percorso strade sterrate in mezzo alle colline a una velocità non proprio da passeggiata, ci si apre davanti uno spettacolo di vigneti ordinati, puliti e di un verde brillante che sono una favola, un vero paradiso. Percorriamo altri viottoli tra il bosco e arriviamo finalmente nel luogo dell'evento: due magnifiche case rustiche, una meraviglia. Nel cortile sono stati allestiti I tavoli per la cena, al bordo piscina l'aperitivo, mentre il cortile superiore ospiterà il dolce, a tempo debito. Appena il tempo di presentarsi agli altri, cambiarsi e infilare giacca e grembiule e le mani sono già in pasta: c'è da preparare I finger food, da tagliare il pane, sistemare le stoviglie che serviranno per I primi e I secondi. Ognuno ha il suo compito; anch'io sono ben presto immersa nell'atmosfera che si crea in una cucina, anche piccola come questa, quando si fanno le preparazioni di un evento. Intanto, all'esterno, lo chef ha cominciato ad allestire il tavolo dell'aperitivo. Con un gioco di geometrie ha creato un tavolo che sembra un quadro di Mondrian. I finger food così colorati e d'effetto sono proprio belli e, a quanto pare, anche molto buoni: non si ha neppure il tempo di rifornire gli ospiti golosi! Al tramonto, gli invitati si spostano nel cortile dove sarà servita la cena. La luce delle candele crea un'atmosfera quasi magica. Non si sentono rumori diversi dal fruscio che fa il vento in mezzo agli alberi e il brusio dei commensali, che sembrano quasi intimiditi dall'atmosfera, ma non dal cibo. Anzi. Tutti, infatti, si servono abbondantemente e gustano I piatti che via via sono portati in tavola. I padroni di casa si complimentano con lo chef per l'organizzazione, per la qualità del cibo e per come solo poche ore prima non ci fosse nulla di pronto, cosa che li aveva preoccupati un 38


un poco. E cosĂŹ, alla fine, quando le persone si sono accommodate in giardino dove presto sarebbe stato servito il dolce e I liquori e dopo aver aiutato a togliere dai tavoli le stoviglie, ci siamo seduti per cinque minuti di pausa in questo paradiso, che ho avuto la fortuna di vedere. Il rumore della musica che accompagnava il desser arrivava attutito. I grilli, i gufi e gli altri animali del bosco invece si sentivano benissimo: era un momento di vero relax. Peccato che il mio appuntamento notturno con l'istrice stavolta non si sia realizzato... Lo chef si era dimenticato di chiederglielo!

Rausa

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L’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena è sicuramente uno dei prodotti più antichi e naturali. Il periodo di invecchiamento trascorso in botte determina la qualità dell’aceto: da un minimo di 12 anni fino a 25 anni ed anche oltre per il prodotto extravecchio. Solo dopo aver superato le analisi chimico fisiche ed il panel test della Commissione di Esperti Degustatori, viene imbottigliato nella bottiglietta progettata da Giugiaro da 100 ml, di forma sferica con base rettangolare, inserita nel disciplinare di produzione DOP (Denominazione di Origine Protetta). Ogni bottiglia è contrassegnata da un sigillo di garanzia a serie numerata. L’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena, grazie ai sui aromi dolci e delicati, può essere abbinato dall’antipasto alla frutta. Per informazioni ed acquisti: paganoprom@hotmail.com


Raviolo alla fragoline dell'orto, ricotta e parmigiano reggiano con riduzione all'Aceto Balsamico Tradizionale di Modena DOP 25 anni Consorzio Produttori Antiche Acetaie Ricetta per 4 persone: Per il ripieno: Ricotta fresca di mucca - 400 g Fragole fresche maturate in campo - 300 g Parmigiano Reggiano 36 mesi - 75 g Un pizzico di sale

Per la salsa Scalogno tagliato finissimo - 20 g 1/2 bicchierino di Champagne Il Convito di Curina 2+1 cucchiai di Aceto Balsamico Tradizionale di Modena Consorzio Produttori Antiche Acetaie 1 cucchiaio d’olio extravergine d’oliva toscano Dop Sale e pepe q.b.

Per la sfoglia: Farina 00 - 200 g Farina integrale - 100 g Farina di farro - 100 g 4 uova Un pizzico di sale

Preparazione: Lava e lascia asciugare le fragoline. Mettile nel robot da cucina o in un frullatore, cercando di spezzettarle soltanto e di non frullarle. Versa in un recipiente le fragole spezzettate e aggiungi la ricotta. Amalgama tutto delicatamente, aggiungendo il Parmigiano Reggiano grattugiato. Metti in frigo dopo aver raggiunto la densità voluta. Prepara una sfoglia con le 4 uova, le tre farine e il pizzico di sale. Stendila e taglia dei quadrati di circa 9-10 cm di lato. Poni al centro di ciascun quadrato una pallina della ricotta con le fragole. Puoi chiudere i quadrati a triangolo, facendo molta attenzione che i lati siano ben aderenti e saldati fra loro, per evitare di perdere la farcia durante la cottura: una buona idea è spennellare i lati con un po’ d’albume prima di sovrapporli. Metti una pentola d’acqua sul fornello, aggiungendo un po’ di sale grosso non appena comincia a bollire. Nel frattempo, poni sul fuoco una padella, aggiungi l’olio extravergine d’oliva e lo scalogno. Fai rosolare per alcuni minuti, aggiungi lo Champagne e lascia sfumare. Aggiusta di sale. Aggiungi l’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena Dop 25 anni del Consorzio Produttori Antiche Acetaie e lascia sfumare per un minuto. Togli dal fuoco. Butta delicatamente i ravioli nell’acqua bollente e lascia riprendere il bollore: saranno cotti non appena salgono a galla. Raccoglili con una mescola forata e ponili nella padella del sugo. Mescola i ravioli con attenzione, per evitare di romperli, ma comunque in modo che siano ben conditi: l’ideale sarebbe saltarli velocemente nella padella stessa. Servili cospargendoli di petali di Parmigiano Reggiano e, soltanto all’ultimo, con qualche goccia di Aceto Balsamico Tradizionale di Modena Dop 25 anni del Consorzio Produttori Antiche Acetaie. Possono essere impiattati ponendo una leggerissima scaglia di Parmigiano Reggiano su ciascun raviolo.

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Work esperience al Convito di Curina di Stefania Erroi

«Vorrei tanto che ci fosse un libro di cucina anche per la vita, con tutte le ricette che ti dicono come affrontarla nel modo giusto! Lo so, adesso lei mi dirà: “Si impara sbagliando...”». «No, quello che stavo per dirle, e lei lo sa meglio di tutti, è che sono le ricette che uno si inventa quelle che funzionano meglio di tutte!». (dal film Sapori e dissapori) «Cucinare è passione!». Questa è la frase più usata, quasi abusata oserei dire, in questo periodo di boom mediatico di cui è vittima/protagonista la cucina. Ed è forse per questo motivo, unito ad altri non meno nobili, che la Fippc ha deciso di stringere una convenzione in Work esperience con la struttura attualmente coordinata e gestita, in qualità di chef executive e food manager, dal nostro presidente Giorgio Trovato: il ristorante Il Convito di Curina, presso il Villa Curina Resort a Castelnuovo Berardenga. Lo scenario è davvero suggestivo. Si è immersi nei vigneti del Chianti e in un silenzio a tratti irreale, che favorisce il relax soprattutto a chi viene da città caotiche e rumorose. Se però l'atmosfera esterna ha un che di fiabesco e ovattato, lo stesso non si può dire della cucina, dove i ritmi sono spesso così sostenuti e i rumori di pentole e tegami così fragorosi, che a volte incutono timore a chi vi si avvicina per la prima volta. L'idea era soprattutto quella di offrire ai nostri associati l'esatta dimensione di che cosa significhi cucina davvero per gli altri e di come la realtà si discosti dall'idea romantica o, al contrario, terrificante della cucina, che tivù e altri mezzi di comunicazione tentano ostinatamente di far passare. La cucina, quella vera, non è sempre “frusta”, né tantomeno sempre “sorrisi”. È fatica, è sudore, è reggere ritmi pesanti senza mai perdere lo spirito, è responsabilità nei confronti di chi, al tavolo, ha attese e vuole emozionarsi. In cucina, poi, non ci si limita a mettere in pratica parte delle tecniche apprese durante i nostri corsi Fippc professionali, ma si cerca di far comprendere quanto cucinare abbia a che fare con il raccontare storie, condividere linguaggi, sapori, culture, allargare i propri orizzonti. In una parola: crescere. Una cucina professionale è infatti un mondo a sé. Un microcosmo, come una volta ha scritto Gualtiero Marchesi. È un microcosmo, non soltanto per il fatto che contiene una rigida serie di gerarchie e procedure, ma anche perché è qui che si compie il miracolo della creazione culinaria. Si comprendono i meccanismi dei contrasti, il fascino dell'impiattamento, si usano prodotti e spezie molto particolari, si fanno vere e proprie scoperte che aiutano a rivelare quella parte di noi che ci ha spinto ad avvicinarci a un mondo così particolare e affascinante. 42


Non meno importanza riveste la condivisione del luogo di lavoro con altri professionisti, cuochi, camerieri e tutto lo staff della cucina. Questo contatto umano continuo aiuta a sviluppare capacità relazionali e di concertazione che mettono a fuoco sia l’importanza dei ruoli e della professionalità espressa dai singoli, sia l’importanza di percepirsi e muoversi in maniera coordinata e armoniosa, proprio come un team. Un team: è questa la parola chiave che ci distingue forse da altre realtà formative. Il concetto di squadra che per noi fa la differenza e vuol essere un punto di forza in un momento in cui l'individualismo sfrenato impera. Si è obbligati a stare insieme e, affinché tutto possa filare liscio, devono venir fuori rispetto, tolleranza, umiltà, precisione, cura e coraggio oltre che spirito di solidarietà, che lo si voglia o no. Infine si è pensato che, per i nostri associati, fosse importante capire che dietro ogni chef di un certo livello, in questo caso il loro formatore, si trova un mondo che merita un'attenzione ancora maggiore. Un mondo che, dopo un'esperienza pratica, o lo si abbraccia con passione o lo si rigetta con forza. I banchi di prova del resto servono proprio a questo: o rafforzano o allontanano, fanno desistere. Tutto questo naturalmente a costo zero e con vitto e alloggio offerti dalla proprietà in convenzione con Fippc, in pieno contrasto con quella che è ormai la norma in questi stage, che spesso costano almeno un migliaio di euro a settimana, vitto e alloggio esclusi. Un'esperienza formativa, certo, ma anche di vita. Riprendendo la citazione iniziale, penso che la nostra Federazione abbia inventato una gran bella ricetta formativa, lontana da spersonalizzazione e meri fini di lucro... Speriamo soltanto che funzioni e che si possa crescere insieme. Seguiteci su www.fippc.it per conoscere le date degli imminenti corsi autunnali e le modalità per parteciparvi. Le scadenze per le iscrizioni termineranno il 20 settembre 2014. Buone vacanze a tutti.

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