Personal Chef Magazine - N°2/2015

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PERSONAL CHEF MAGAZINE | FIPPC | N. 02/2015

LUCA MONTERSINO IL PROFUMO DELLA SALUTE IL GASTRONAUTA EAT ART CON DANIEL SPOERRI DI UN NUOVO VIAGGIO

LA RIVISTA ITALIANA DEL PERSONAL CHEF


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PERSONAL CHEF MAGAZINE Numero 2 - Anno 1 - Bimestrale - Giugno 2015

FIPPC - FEDERAZIONE ITALIANA PROFESSIONA PERSONAL CHEF sede legale: via Tito Schipa, 1/D - 73058 Tuglie (LE) Cod.Fisc/P. IVA: 04538520752 - REA LE 300669 email: segreteria@fippc.com - segreteriafippc@gmail.com www.fippc.com

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direttore responsabile: Alessandro Allocco - direttore.pcmagazine@gmail.com redazione: Stefania Erroi, Giorgio Trovato, Alessandra Zarlottin progetto grafico e impaginazione: Stefano Raia hanno collaborato a questo numero: Enzo Gola, Antonio Lamberto Martino, Gianni Passante, Rosa Potenza, Roberta Sabbadin, Generoso Urcioli, Alessandra Zarlottin fotografie: Alessandra Zarlottin contributi fotografici: Enrico Scarsi fotografie FIPPC Academy: Stefania Erroi redazione: ufficio_stampa@fippc.com pubblicità: a cura dell’editore marketing e relazioni esterne: Stefania Erroi - segreteriafippc@gmail.com piattaforma: issuu.com/fippc

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I cibi conservati con la tecnica del sottovuoto, una volta cucinati, non hanno nulla da invidiare ai cibi freschi proprio perché il vuoto ne mantiene invariate le caratteristiche organolettiche. La creazione del sottovuoto blocca il processo di ossidazione per cui le pietanze così conservate non perdono gusto, ma risultano più stuzzicanti. Il sottovuoto evita la proliferazione di quei piccoli parassiti che, normalmente, si formano nella pasta, nel riso, nelle farine o nella frutta secca. L'irrancidimento di grassi ed olii, la formazione delle muffe, anche nei cibi conservati sott'olio. Evita di dover ricorrere alla conservazione di insaccati in olio o in strutto, sottraendosi così ad una fastidiosa e senza dubbio noiosa incombenza, ossia la fase di pulitura.

Orved Cooking System

www.orved.it - orved@orved.it

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MESSAGGIO PUBBLIREDAZIONALE

Dal 1932 la storica Collezione di Baldassare Agnelli Per cucinare, per servire con stile gli ospiti , per regalare, per contenere, per arredare... Lo stile in cucina è un linguaggio fatto da un lessico pieno di ingredienti e da una sintassi che ne intreccia le regole. Chi manovra le pentole non può prescindere da questi due elementi e chi gode della tavola sa che i grandi piatti non provengono mai da ostentazione di destrezza e di originalità estrema. Così per consacrare il rito del cucinare e del mangiare bene Pentole Agnelli ha riprodotto, in chiave moderna, una collezione di strumenti di cottura - per cucinare e per servire - nata nel 1932. La nuova linea Baldassare Agnelli 1932, recupera il valore della buona cucina e l’arte della tavola nei diversi metalli da quello più nobile come l’oro, a quello più tradizionale come il rame, a quello più leggero e multifunzionale, oltre che avveniristico, come l’alluminio. Il corretto dimensionamento sia delle forme che dei materiali e degli spessori oltre che le più raffinate finiture, rendono le pentole della Collezione Baldassare Agnelli 1932 oggetti unici in cui la preparazione è servita nello strumento di cottura, in porzione singola. Diverse, le belle e pratiche finiture disponibili: in puro alluminio alimentare con spessore professionale di 3 mm, nello speciale e resistessimo antiaderente Withford colore bianco ceramico, in rame stagnato, in oro.


IL RAME STAGNATO, DOVE REGNA LA NOBILTÀ DEL FUOCO

Il Rame Baldassare Agnelli è particolarmente indicato per le cotture più lunghe ed accurate, per le lavorazioni anche pasticciere a temperature precise, e per gli appassionati che sanno“muovere” le pentole fra i fornelli, governando a dovere calore e colpi di fiamma. Le pentole in rame si tramandano di generazione in generazione; la patina del tempo le rende più che mai affascinanti. Frutto di una grande maestria artigiana, la gamma è disponibile sia in rame liscio, la lavorazione più attuale, dal moderno design, che in rame martellato, la lavorazione più classica, dal fascino antico.


EDITORIALI GIORGIO TROVATO PAG. 10 ALESSANDRO ALLOCCO PAG. 12

FIPPC ACADEMY STEFANIA ERROI PAG. 14

TOP & STAR INTERVISTA A LUCA MONTERSINO: INVITA UNO CHEF A CENA A cura di Alessandro ALLOCCO

PAG. 16

RUBRICHE SPECIALE FINGER Stefano Spolato: il Gastronauta. Cibo veramente spaziale Intervista a cura di Alessandro ALLOCCO

PAG. 24 CUCIN*ARTE EAT ART con Daniel SPOERRI

PAG. 30 HISTORICAL FOOD Biancomangiar Gonzaga Enzo GOLA

PAG. 34 Bollito all’ittita? Nessun problema con archeoricette Contributo di Generoso URCIOLI

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PERSONAL CHEF MAGAZINE


BIO E LOGICO SALUTE E GUSTO Germogli di salute! Antonio Lamberto MARTINO

PAG. 42 GUSTO SANO Il profumo della salute

PAG. 44 RICICLO & NATURA ‘Na tazzulella ‘e café Roberta SABBADIN

PAG. 46 Nuovi sapori, antica tradizione MAMELI & PANNESE

PAG. 50

TENDENZE BISTROT: UN PO’ RISTORANTE UN PO’ COCKTAIL BAR Alessandro ALLOCCO

PAG. 52

OFF TOPIC STORIE DI FOOD: IMMAGINI DI IERI - TENDENZE DI OGGI Alessandra ZARLOTTIN

PAG. 56

IN CAMPO A cura di Stefania ERROI (Fuori dal Guscio: diamo voce alle voci in accademia)

SOLO PASSIONE? Gianni PASSANTE

PAG. 62 DI UN NUOVO VIAGGIO Rosa POTENZA

PAG. 64 PCM

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MESSAGGIO PUBBLIREDAZIONALE

Insalata di rana pescatrice con polvere di capperi di Pantelleria su insalatina di campo ed aceto tradizionale del Consorzio Produttori Antiche Acetaie di Modena Ingrediente per 4 pax Insalata di campo 160 gr carote 50 gr Finocchio 80 gr rana pescatrice 500 gr capperi 25 gr erba cipollina 12 fili menta 4 foglie Pepe rosa 3 gr Aceto balsamico tradizionale di Modena D.O.P 25 anni 4 ml Procedimento Pulite e lavate tutte le diverse tipologie di erbe e le diverse tipologie di insalata . Per la polvere di capperi da preparare il giorno prima Scolate i capperi dalla salamoia, sciacquateli e scolateli e ponete all’interno di una teglia traforata. Fate cucinare in forno a 60° per almeno 12 ore , fate freddare e tritate fino a ridurre il tutto in polvere. Pulire la coda di rospo togliendo la pelle e la spina centrale . Tagliate i filetti di pesce a fettine di mezzo cm circa e passiamo in una padella antiaderente ben calda in modo da sigillarle su ogni lato. A questo punto ci prepariamo ad impiattare con l’aiuto di un ring che collocheremo al centro del piatto . All’interno inseriremo le insalate e le erbe , adagiamo sopra la coda di rospo, una leggerissima spolverata di capperi . A questo punto condire il tutto con l’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena invecchiato 25 anni , un filo di Olio DOP della zona di Trapani , ed aggiungiamo qualche bacca di pepe rosa leggermente schiacciata .


L’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena è sicuramente uno dei prodotti più antichi e naturali. Il periodo di invecchiamento trascorso in botte

100 ml, di forma sferica con base rettangolare, inserita nel disciplinare di produzione DOP (Denominazione di Origine Protetta). Ogni bottiglia è contrassegnata da un sigillo di garanzia a serie numerata. L’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena, grazie ai sui aromi dolci e delicati, può essere abbinato dall’antipasto alla frutta.


EDITORIALE di GIORGIO TROVATO, Presidente FIPPC

Nutrire il Pianeta... In questi giorni in cui sembra possibile parlare solo di Expo, la FIPPC ancora una volta può e deve evidenziare la propria tipicità. La scelta di un’alimentazione consapevole del rispetto territoriale, dell’eco-sostenibilità e della reinterpretazione dei classici adeguati ai tempi moderni ed alle nuove tecnologie. FIPPC da anni oramai sta cercando di portare avanti questa visione sia per ciò che riguarda le proposte che le tecniche di cotture e nel proprio piccolo si concretizza attraverso un programma di azioni volte ad adottare criteri di sostenibilità in tutto il ciclo di vita ed in tutti gli ambiti dell’evento, al fine di prevenire, mitigare e compensare i possibili effetti negativi sull’ambiente e le comunità locali. Il sostegno agli “artigiani del Gusto“, al mondo De.Co ed a tutte le piccole realtà artigianali svolge molteplici obiettivi. Per questo il rispetto del decalogo FIPPC vuole andare ben al di là di una semplice trovata ma vuole essere il frutto di un approccio alla qualità della vita, al benessere della stessa che non trova eguali. Nell’ambito dell’Expo “la Carta dei Valori e degli Impegni“ rappresenta il risultato di un processo che ha coinvolto molteplici attori all’interno e all’esterno dell’azienda e mira, tramite il confronto sull’importanza di un grande evento internazionale del XXI

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PERSONAL CHEF MAGAZINE - EDITORIALE


secolo, a movimentare risorse tanto economiche quanto umane, sfruttando le potenzialità di comunicazione e di coinvolgimento di un vasto pubblico. L’obiettivo è quello di esplorare tutte queste potenzialità e raggiungere dei risultati che stimolino a fare sempre meglio nel rispetto dell’ambiente, con particolare attenzione alla prevenzione dell’inquinamento, delle risorse pubbliche e degli interessi legittimi di tutte le parti interessate. Fippc propone un modello essenzialmente di carattere culturale, basato sopratutto su standard qualitativi elevati capaci di fare in modo che l’italian style, le tipicità e la ricerca possano coesistere dando vita ad esperienze capaci di accrescere conoscenze e sapori ma sopratutto consapevolezza della qualità del proprio tempo e conseguentemente delle scelte. Tutto ciò è possibile solo ed esclusivamente con dedizione, collaborazione e voglia continua di crescere.

Oltre che presidente della Federazione e rettore di Fippc Academy, Giorgio Trovato è executive chef e restaurant manager a Il Convito di Curina del Villa Curina Resort a Castelnuovo Berardenga (Si). Ha prestato la sua consulenza all’estero per numerosi ristoranti nel mondo: come quando ha guidato 65 cuochi di Stefano’s Fine Food Factory a Kiev in Ucraina o ha seguito la cucina de Il Vicoletto a Dublino.

DI GIORGIO TROVATO, PRESIDENTE FIPPC

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EDITORIALE di ALESSANDRO ALLOCCO, Direttore PCM

Finger food che partono perfettamente stabilizzati per… lo spazio? Niente di più normale per la creatività di ingegneri aerospaziali prestati alla cucina e sapientemente diretti da uno Chef di livello che prepara con passione e creatività il “comfort food” per la missione spaziale Futura. Personaggi televisivi e insegnanti che possiamo invitare a cena? Certo, basta cucinare qualcosa di buono! Ristoranti dove ci si sente letteralmente “le roi soleil”? È naturale quando le stelle scendono alla Reggia! Su PCMagazine le ultime trovate della creatività che fa del cibo arte e mestiere proposte, come sempre, in una veste accattivante e sofisticata a costituire fonte di ispirazione, sia per nuove idee da realizzare con “effetti e ritorni spettacolari” che per nuovi e inusitati percorsi professionali. Vi condurremo attraverso l’Italia, l’Europa fino allo spazio alla scoperta di sapori, colori, profumi, aromi, tendenze. Sarà bello assistere assieme, ai colpi di genio di artisti che dalla tavola imbandita o dai suoi avanzi, traggono opere fotografiche di assoluto valore dando il via, addirittura, ad un genere artistico del tutto nuovo. Ci concederemo un momento di storia culinaria con le antiche ricette proposte da Enzo Gola e nutriremo anche la nostra voglia di immagini d’antan che hanno fatto la storia della “food photography.”

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PERSONAL CHEF MAGAZINE - EDITORIALE


E poi conosceremo meglio grandi personaggi come Luca Montersino descritto in una veste, ci auguriamo, accattivante! Ma non è finita… conosceremo meglio anche lo chef degli astronauti Stefano Polato e cercheremo di carpire qualche segreto per… non si sa mai! Magari un giorno faremo cena tra le stelle! In questo numero troverete tante deliziose portate culturali che vi permetteranno di sognare comodamente sdraiati sul vostro divano (aprile dolce dormire), sane, cotte a puntino e profumate oppure intrise di tradizione per ingenerare un romantico senso di nostalgia. Ovviamente il riciclo sarà sempre là, a monito per tutti verso un assoluto rispetto del pianeta che ci ospita. Questo e tanto altro sulla vostra rivista. Ora non mi resta che augurarvi buona lettura!

DI ALESSANDRO ALLOCCO, DIRETTORE PCM

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FIPPC ACADEMY

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Personal Chef

CADEMY

di STEFANIA ERROI

Coordinamento segreteria e partnership Direzione personal chef academy

La giusta maniera di fare, lo stile, non è un concetto vano. È semplicemente il modo di fare ciò che deve essere fatto. Che poi il modo giusto, a cosa compiuta, risulti anche bello, è un fatto accidentale Ernest Hemingway

Lo stile trattato da Hemingway è oggi un concetto complesso. Parlare di stile e non scivolare nella banalizzazione è spesso impossibile e quindi ci si lancia sulle innovazioni: nutraceutica che identifica uno stile alimentare in cui il cibo si trasforma in farmaco - sensorialità, scienza in cui i sensi vengono educati e stimolati ad arte per produrre emozioni che vanno aldilà del gusto - wellness e cucina salutistica che hanno creato un prima e un dopo tra gli chef e i gourmand di tutto il mondo cambiando radicalmente la mentalità focalizzando l’importanza sulla qualità senza eccessi di quantità, di grassi, da degustare in totale relax senza pensieri neanche per la linea. Tendenzialmente, in cucina l’attenzione si è spostata dalla dieta mediterranea e i suoi principi strettamente collegati all’equilibrio salutare dei suoi componenti, alla cucina vegetariana e vegana nella quale viene escluso totalmente l’uso di prodotti animali e loro derivati (carne, pesce, latticini, uova, miele e pappa reale) e che si pone come obiettivo finale la formulazione di un insieme di piatti che contribuiscano all’osservanza di un comportamento alimentare consono a quello che nella filosofia vegana è considerato “istinto naturale dell’uomo” Cibarsi prevalentemente di frutta, semi oleaginosi (noci, mandorle, nocciole, ecc.) e vegetali, così come è caratteristico di molti primati che nella scala evolutiva sono da considerare i più vicini all’uomo è, per i vegani, la vera essenza nella nutrizione umana. L’ossessione per il salutistico poi, ci ha molto avvicinati alle filosofie orientali e il fascino per il sushi conta ormai moltissimi adepti anche qui in Italia. Siamo insomma tutti un po’ travolti da mille splendide sollecitazioni.

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PERSONAL CHEF MAGAZINE - FIPPC ACADEMY


Ma la domanda che mi pongo è: “Esiste uno stile in cucina?” oppure “Cosa significa avere stile in cucina?” “La moda passa, il tuo stile resta” scrive Cinzia Fellicetti, direttore di Marie Claire Maison e Marie Claire Travel sottolineando che la differenza fra moda e stile risiede nel fatto che quest’ultimo ha un carattere di permanenza, è qualcosa che si rafforza con il tempo e si sostanzia della personalità di chi lo interpreta. Sono perfettamente d’accordo con questa affermazione. Lo stile non passa, si consolida e, se la moda è fatta da tendenze generali, lo stile è invece personale e per questo è unico e distintivo della persona. Ecco perché la Fippc Academy ha elaborato un suo personalissimo concetto di stile formalizzato nella creazione di un codice deontologico in cui predominano il rigore nel rispetto del cliente, l’eleganza e la raffinatezza del servizio, lo studio, la ricerca e il continuo aggiornamento in ambito enogastronomico. Questo il nostro carattere distintivo in tempi in cui spesso si assiste a faciloneria e improvvisazione che finiscono con lo svilire una materia che per molti è ragione di vita. Nasce da questo concetto la mia espressione “Fippc - Style” che racchiude un po’ quanto fin qui detto sintetizzandolo. Mai come oggi andrebbe recuperata la saggezza contenuta nell’aforisma di Anthelme Brillat Savarin, un magistrato del ‘700 affascinato dal piacere della gastronomia, che scrisse: “Gli animali si nutrono, l’uomo mangia, e solo l’uomo intelligente sa mangiare” ricordandoci come attraverso il cibo avvengano scambi relazionali, si faccia cultura, si costruiscano i diversi livelli dell’identità trasmettendo quell’energia spirituale di cui ognuno avrebbe bisogno.

DI STEFANIA ERROI

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PERSONAL CHEF MAGAZINE - LUCA MONTERSINO

di ALESSANDRO ALLOCCO

LUCA MONTERSINO

un intervista di ALESSANDRO ALLOCCO


Invita lo chef a pranzo!

Lo osservo durante la lezione: gira per i tavoli, sorride agli allievi, corregge errori, dispensa consigli, assaggia ed invita ad assaggiare. Il tutto in maniera pacata, affabile, piacevole, simpatica. Mi stupisce in un certo senso perché mi rendo conto che non è un atteggiamento studiato in controtendenza con le sfuriate televisive dei vari Master chef, lui è proprio così. Chiarisco subito … ad un profano come me Luca Montersino appariva come un pasticcere e, nella mia ignoranza, credevo che pasticceri e chef fossero assolutamente diversi. Sbagliato! Anzi sbagliatissimo! Con il suo piglio gentile, il sorriso aperto e il tono pacato, mi fa piccolo piccolo: “guardi è solo una questione di abitudine, uno chef cucina indifferentemente dolci e piatti salati anzi, le dico di più arrosto e pan di spagna hanno lo stesso....” e mi spiega con dovizia di particolari da perfetto insegnante tempi di cottura, di riposo e tecniche di impiattamento. Caspita che bravo, penso:” quasi quasi ci provo e mi metto a cucinare, sembra così facile! Invece è tutto il contrario ... e solo che Luca Montersino è un comunicatore nato. Il nostro colloquio prosegue: “certo lo stile con le sfuriate in cucina è ormai superato, io non ne ho prese tante sa … perché ero un po’ secchione e lavoravo senza sosta cercando di imparare tutti i segreti del mestiere. Io correggo e, se devo, mi arrabbio pure, ma quando lo faccio mantengo sempre il rispetto e rimango sempre nei limiti anche perché è inutile colpire nella dignità una persona, non è che così impara prima e meglio”. Luca Montersino è uno chef instancabile, colto, raffinato, ordinato e queste sue peculiari caratteristiche le trasferisce ogni giorno ai suoi allievi: “ io mi ritengo uno chef generoso, se si vuole formare le future generazioni non si può essere egoisti e tenere per sé stessi i segreti del mestiere, bisogna trasmettere tutto e anche di più. Soprattutto bisogna far capire che nessuno è immune dagli errori. Io per esempio parlo sempre dei miei errori così da evitare che i miei allievi li ripetano anche se loro ne inventano sempre di nuovi ...” Cosa serve per diventare un grande chef? So che la domanda è scontata, ma glielo devo chiedere! Innanzi tutto la passione, in secondo luogo la tecnica, la creatività e il buon gusto. I primi tre possono essere insegnati mentre il quarto è un elemento che si ha oppure no! Per quello non si possono fare miracoli! La passione serve perché ci si trova spesso lontani da casa, in cucina per giorni, si lavora di notte, si deve mantenere la calma anche con clienti impossibili, bisogna studiare molto ed avere molta cultura per approcciarsi a tutti. E gli altri elementi? La tecnica si impara con lo studio, la perseveranza, la ripe-

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tizione; bisogna saper copiare perfettamente le creazioni del proprio insegnate per poi riprodurle e modificarle secondo il proprio estro e la propria sensibilità, bisogna essere golosi e assaggiare tutto in cucina, provando, capendo e facendo proprie diverse combinazioni di sapori. Finché non si riproduce alla perfezione un piatto che è nato magari dopo innumerevoli tentativi, applicando ad esso tutte le competenze e la storia di uno chef, non si può pensare veramente di possedere il piatto e quindi non si può da lì partire per creare qualcosa di diverso. Da questo punto in poi la creatività e il buon gusto la fanno da padrone e, più uno chef ne possiede, prima e meglio riesce ad emergere!

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tenuti un poco più elevati. Questo mi fa pensare che la società in crisi ai giorni nostri dovrebbe nutrirsi di cose belle anziché essere tragicamente attratta dal dramma quasi ad esorcizzarne la paura. Certo quello sociale è un problema. Conosco persone che non riescono a prendere decisioni, si bloccano e si lagnano di fronte alle difficoltà arrivando alla resa come unico risultato. Se si pensasse di più in termini positivi, impegnandosi e lavorando per passione e non solo per denaro, trattando le difficoltà come opportunità di crescita anziché ostacoli, si potrebbero raggiungere risultati di assoluta eccellenza.

Lei è uno chef famosissimo che però ha mantenuto i piedi per terra, preparato e umile. Come spiega il suo successo?

Mi sembra che lei li abbia raggiunti! E il suo futuro?

Il mio fans club fondato all’inizio a mia insaputa, conta 25.000 followers. Io non faccio niente di particolare, semplicemente propongo in televisione e sui giornali il mio stile che ritengo moderno e innovativo in maniera semplice e positiva. Credo che sia importante non assecondare l’umana tendenza al trash e proporre sempre, quando se ne ha l’occasione, con-

Guardi, io ho lavorato molto in questi anni scrivendo libri, ben 14, aprendo un’azienda dolciaria, facendo consulenze esterne per grandi marchi, insegnando, partecipando a show televisivi, collaborando con locali, organizzando eventi e cene … mi sembra che basti! Si dei risultati li ho raggiunti ora penso a mantenerli curando tutto ciò che ho realizzato al meglio.

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Ma mi scusi, sono le 17,30 e so che lei è appena a metà della sua giornata, riesce a mangiare, a rilassarsi un po’, come mantiene questo ritmo? E’ per questo che vi chiedo di invitare uno chef a pranzo o cena, non vi fate dei problemi! Non vi do un voto per i vostri piatti, non vi interrogo, mi siedo e mi rilasso… io mangio di tutto sapete anche se scotto, non abbiate paura di cucinare per uno chef almeno per me! Io non mordo.

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PERSONAL CHEF MAGAZINE - LUCA MONTERSINO


REgala un personal chef per un pranzo o una cena

Tutta la professionalità dei nostri chef e l’alta cucina garantita FIPPC direttamente a casa tua per le tue occasioni speciali. Contattaci e scopri quello che abbiamo preparato per te e i tuoi ospiti!

informazioni e condizioni segreteriafippc@gmail.com

www.fippc.com DI ALESSANDRO ALLOCCO

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SPECIALE FINGER: IL GASTRONAUTA CIBO DAVVERO SPAZIALE intervista a cura di ALESSANDRO ALLOCCO

E si! Già sapevo che gli italiani nel mondo sono apprezzati perché preparati, colti, simpatici e talvolta geniali! Ora capisco anche perché gran parte delle scoperte scientifiche e culturali fatte negli ultimi periodi storici hanno visto coinvolti i nostri connazionali. Conosco Stefano Polato e subito mi colpisce con la sua simpatia, il suo piacevole accento veneto (terra che io amo enormemente e alla quale sono legati bellissimi ricordi) e che mi mette subito di buon umore. Uno chef; un uomo d’altri tempi nono-

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PERSONAL CHEF MAGAZINE - SPECIALE FINGER: IL GASTRONAUTA CIBO DAVVERO SPAZIALE


IL FINGER FOOD È UNA PROPOSTA GASTRONOMICA ADATTA A QUALSIASI FORMULA RISTORATIVA

stante la giovane età: educato, rispettoso, preparato, lavoratore e non so più come altro definirlo tanto mi ha fatto una buona impressione. In ogni caso non è importante l’impressione che ha fatto a me … è importante l’impressione che ha fatto a Samantha Cristoforetti, astronauta italiana della missione Futura. Stefano Polato è da sempre attratto dal cibo buono e sano, attento ai sapori e ai valori nutritivi, conoscitore della nutrigenomica, attento alla texture del cibo come all’aspetto “visivo” della pietanza. I suoi clienti lo apprezzano soprattutto per questo tanto da seguire i suoi consigli alimentari anche a casa. Mi racconta i suoi stati d’animo tra il serio e il faceto a seguito della telefonata di colei che, all’epoca non ancora conosciuta, avrebbe portato i prodotti italiani dal suolo patrio allo spazio. “Samantha mi telefona su segnalazione del prof. Filippo Ongaro medico nutrizionista con il quale ho collaborato. Iniziamo a parlare di cibo, lei mi chiede dei consigli, io rispondo, ci troviamo d’accordo praticamente su tutto! Ad un certo punto inizia a parlarmi di difficoltà nel consumare i pasti in microgravità??!!... Coosa?! Scusa, ma che lavoro fai!” Sì, avete capito bene: fino alla fine della telefonata il nostro povero Stefano non sapeva che l’impegno di cucinare per Samantha Cristoforetti era un impegno per lo spazio! Cosa hai provato in quel momento? Dopo aver messo giù la cornetta non so cosa ho provato: gioia insieme a sgomento insieme a paura insieme a incredulità insieme ad inadeguatezza insieme ad orgoglio insieme ad impazienza..... Di tutto un po’! Da lì è iniziata l’avventura che ancora adesso mi coinvolge totalmente: sono approdato alla Argotec di Torino che da anni si occupa delle preparazioni per gli astronauti. Mi sono trovato a lavorare con giovani ingegneri e scienziati che con entusiasmo mi hanno seguito in questo percorso professionale fatto di costante preparazione, duro lavoro e studio inaudito durato due anni e non ancora finito. Rispettoso dei principi della nutrigenomica e della epigenetica (pensate l’ignoranza non sapevo neanche esistessero e vi invito a chiedere a Stefano ulteriori

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INTERVISTA A CURA DI ALESSANDRO ALLOCCO

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spiegazioni), lo chef ha srotolato nella sua cucina (quasi un laboratorio scientifico a dire la verità fornito di tutti i macchinari più avanzati) il DNA degli alimenti come gli scienziati hanno srotolato il DNA umano – alla faccia della finta cucina molecolare, pensate un po’ studiare per creare una mappa genetica alimentare combinando tra loro gli alimenti per ottenere i risultati migliori in termini di gusto e benessere! In questa ricerca “al microscopio” Stefano Polato e il team di scienziati hanno combinato gli elementi nutritivi più salutari, gustosi e completi per fornire pasti equilibrati, saporiti e belli come appena preparati al ristorante per gli astronauti della missione Futura.

prodotto è proprio quella delle barrette ai cereali che anche noi sulla terra consumiamo!

Scusa, ma come hai fatto a curare l’aspetto del cibo … “tu non sei normale”!

Io mi sento più chef! Ho però ben presente la salute dei miei clienti che spesso mangiano da me cinque giorni a settimana. Se non mi prendessi cura di loro dovrei cambiarli ogni dieci anni e non è bello! A parte gli scherzi, sono seriamente convinto che il cliente debba essere aiutato a star bene facendogli apprezzare il cibo buono e sano, preparato con cura. E’ quello che dico sempre anche ai miei stagisti cercando di fare dei focus specifici sulle nuove forme di cottura che sicuramente ottimizzano le caratteristiche organolettiche traendone profumi, colori e texture di gusto assolutamente genuini.

Ma figurati dai! Anche l’occhio vuole la sua parte. Ammetto che non è stato facile mantenere colori... Certo rendere appetitosi i pasti anche in situazioni estreme con un’attenzione costante all’impiattamento, al colore, al profumo, non è cosa da poco e non lo è soprattutto l’attenzione che Polato mette nella preparazione dei pasti quotidiani il cui contenuto è stato messo a punto dallo chef in accordo con Samantha Cristoforetti fatto di legumi, carne bianca, frutta e verdurae non quelli “della festa “ che vedono tutti noi esagerare un po’. In effetti bisogna dire che apparecchiare la tavola nello spazio è cosa per nulla scontata, figuriamoci poi mangiare o bere in assenza di gravità… e vi immaginate Samantha Cristoforetti che si avventa su un’oliva con un cipiglio degno di Fantozzi, facendola schizzare come un proiettile nell’occhio dell’astronauta più vicino? Ad evitandum quod... le pietanze vengono sì preparate secondo la tradizione. Non per questo sono antiche! Vengono sottoposte a termostabilizzazione a bassa temperatura e alta pressione mantenendo intatti valori nutritivi e sapore. Ormai pilloline e pappe sono superate gli astronauti hanno il diritto di mangiare come a casa senza liofilizzati che rinvengono magicamente come le “scimmie di mare” con aggiunta di acqua. Non si usano più i liofilizzati? Abbiamo studiato e realizzato delle barrette snack “antibriciole”. I frutti all’interno sono liofilizzati, ma la consistenza del

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Beh un po’ più “tecnologiche”? Si,un po’ più studiate certamente anche se l’obiettivo è identico a quello che si vuole ottenere sulla terra: concedere e concedersi una pausa dal lavoro rilassante, rinvigorente, consumando uno spuntino sano. In questo modo speriamo che anche lontano chilometri dal suolo, gli astronauti si sentano come a casa! Ma tu, ti senti più nutrizionista o più scienziato?

Credo che uno chef debba essere istruito e preparato su tutti i campi inerenti la cucina, non può mancare di preparazione in fondamentali come la cottura dei cibi (e ho notato che spesso invece accade). I tuoi colleghi? Sono invidiosi del tuo successo? Ti posso dire con certezza di no! Sono molti quelli che mi hanno telefonato complimentandosi sinceramente.

Che dire di più: il cibo che Stefano Polato insieme ad Argotec realizza è appagante dal punto di vista olfattivo e visivo è sano ed è anche buono, leggero e di qualità superiore: potrei ribattezzarlo “Gold Finger Food” di una consistenza tale che può essere mangiato con la forchetta o il cucchiaio (risotto e zuppa inclusi) oltre che cono le mani e, sicuramente, vale milioni di dollari. Quando si dice: “Wow,le tue insalate?stellari! E quella di Quinoa e sgombro? SPAZIALE!”

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INTERVISTA A CURA DI ALESSANDRO ALLOCCO

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EAT ART CON DANIEL SPOERRI

Oggi, è universalmente riconosciuto un certo rapporto simbiotico tra Arte e Cucina. Gli chef contemporanei creano piatti dal sapore unico, ma il senso del gusto è

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stimolato soltanto dopo quello dell’olfatto che si attiva appena giunti in un ristorante e quello della vista che scatta immediatamente quando contempliamo

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un’opera culinaria. Al pari degli artisti, gli chef combinano colori, trasparenze, profondità, rotondità in un’unica opera poetica. Molti pittori, scultori e fotografi


hanno intrecciato con chef e cibo relazioni durature e creato opere d’arte di sicuro valore culturale. È il caso di Daniel Spoerri, acclamato maestro dell’arte contemporanea esponente del Nouveau Realisme (anche se questa categoria tende a non imbrigliarlo assolutamente). Ottantaduenne di origini rumene, cresce in Svizzera che considera la sua patria. Ballerino, coreografo, poeta, regista teatrale, ad un certo punto della sua vita decide di dedicarsi alla ristorazione sviluppando, attraverso la sua sensibilità, un rapporto privilegiato con il cibo e con il

“rito” di stare a tavola. Ed è proprio pensando all’alimentazione e alla tavola che il poliedrico Spoerri fonda negli anni ‘60 la “Eat Art”. Conia il nome e realizza opere d’arte (oggi in importanti musei, collezioni private e trattati da grandi gallerie d’arte internazionali) utilizzando tavole imbandite con resti di cibo consumato, grandi banchetti con prodotti, stoviglie e rifiuti di cibo, piatti e bicchieri riversi su tavolacci ingombri di resti di grandiose feste e molto molto altro ancora. La sua è arte e provocazione allo stesso tempo, tanto che su molti quadri scrive di suo pugno “Attention, Ouvre d’art”. Spoerri denuncia

lo spreco di cibo, orrendo nei suoi postulati. Riesce però a renderlo quasi poetico, velato da una malinconia, una tristezza e spossatezza che fanno arrabbiare lo spettatore per non essere stato invitato alla festa e nello stesso momento lo rendono fiero di non aver preso parte allo scempio che ne è scaturito. Guardando le sue opere sul cibo e sulla tavola o meglio attraverso il cibo e attraverso la tavola, in un momento come quello che stiamo vivendo oggi, dove l’enogastronomia racchiude non solo tradizione e un mondo simbolico molto

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profondo, ma anche moda, business e intrattenimento a tutto tondo, si comprende quanto fu grande la Sua intuizione e la sua idea di Eat Art, in anticipo di 50 anni sui tempi. Dagli anni ‘90 Spoerri vive in Toscana dove ha realizzato un Parco “infarcito” di meravigliose sculture nel quale, questo vecchio saggio e disincantato, trova nell’orto e nell’arte un grande sollievo consolante che ci insegna come “l’espressione” o meglio la possibilità dell’espressione sia l’unica ragione di vita su questa terra. Sul modello toscano nel 2009 è stato aperto il “Kunststaulager Spoerri” a Hadersdorf am Kamp (Austria). L’enorme elenco delle sue mostre negli ultimi anni, testimonia l’ininterrotta evoluzione dell’artista e il grande interesse che il suo visionario lavoro continua a suscitare in Europa. Vorrei qui ricordare alcuni importanti lavori di Spoerri che hanno fatto la storia della Eat Art: L’Ultima Cena (19.11.1970), organizzato in occasione del decimo anniversario del Nouveau Réalisme, con cibi ispirati alle opere dei Nouveaux Réalistes (per esem-

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PERSONAL CHEF MAGAZINE - EAT ART CON DANIEL SPOERRI

pio frutti di mare immersi in gelatina, piatto ispirato alle accumulazioni di Arman). Küche der Armen der Welt (“La cucina dei poveri del mondo”, 4.6.1972), diversi piatti semplicissimi e molto nutrienti (come zuppa di piselli, patate e stoccafisso). Hommage à Karl Marx (14.4.1978). Il direttore della ex scuola professionale di Colonia si chiamava proprio Karl Marx. In suo onore, Spoerri realizzò con gli studenti dell’istituto una cena cui parteciparono solo invitati dai nomi importanti: Johann Wolfgang Goethe, Richard Wagner, Franz Schubert etc. Anche i cibi proposti avevano definizioni altisonanti, come “aringa alla Bismarck”, “palle di Mozart” etc. Le Diner Travesti (18.8.1988, Graz); banchetto in seguito presentato in forma analoga, ma con il nome di “Palindromisches Diner” (“Cena palindroma”; tenutosi, tra l’altro, nel 2001 in onore della mostra del Fluxus nella Collezione Schnepel, Museum Neue Weserburg, Brema e nel 2002 nel museo Jeu de Paume, Parigi). Si caratterizza per l’inversione apparente dell’ordine dei cibi; si comincia con un caffè, che in realtà è un consommé servito in una tazzina, etc.


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BIANCOMANGIAR GONZAGA Antiche preparazioni di corte di ENZO GOLA

La cucina dei Gonzaga, come le altre cucine dei grandi Signori italiani del Rinascimento, si segnalò per raffinatezza e magnificenza soprattutto tra Trecento e Seicento, secoli nei quali i Gonzaga raggiunsero a poco a poco il massimo splendore iniziando con Gianfrancesco dei Gonzaga che iniziòiniziata, praticamente alla fine del Trecento, quando Gianfrancesco Gonzaga inaugurò una splendida stagione per la città di Mantova portando la famiglia da semplici “signori“ a marchesi ed infine gran duchi con rami cadetti a governare in lungo e in largo la penisola italiana. Tutti i grandi cuochi dell’epoca da Mastro Martino a Messisbugo a Bartolomeo Stefani (cuoco dei Gonzaga) si dedicarono al “biancomangiare”. Il biancomangiare non era una ricetta specifica, ma una preparazione medievale basata sulle presunte qualità del colore bianco, simbolo di purezza e ascetismo. Cibo destinato alle classi superiori, prese il nome dal colore degli ingredienti prevalenti nella sua elaborazione, come petto di pollo, latte, mandorle, riso, zucchero, lardo, zenzero bianco, ecc... Poteva essere indifferentemente ricetta dolce o salata interpretata variamente a seconda delle diverse aree geografiche perché, a dire il vero, non esisteva un solo


biancomangiare, ma moltissimi biancomangiare. Nel ‘400 Mastro Martino suggerì una confezione più elaborata e delicata con l’eliminazione del lardo e l’introduzione di brodo di cappone, mollica di pane bianco, acqua rosata, agresto e zenzero. Altre varianti poi furono inserite nei ricettari del Messisbugo, dello Scappi, fino ai trattati di cucina seicenteschi, in particolare quelli dello Stefani, leggendo i quali si deduce che il biancomangiare era concepito come minestra, secondo piatto o salsa da versare per lo più su carni lessate oppure pesce. Mantova, da sempre baciata dai laghi formati dal fiume Mincio (anticamente paludi) ebbe fin dagli albori della sua fondazione, la vocazione per la pesca ottima e abbondante nelle allora limpide acque ricche di succulenti prodotti ittici. E il pesce principe per eccellenza era ed è tutt’ora il luccio. Bartolomeo Stefani nel suo libro “L’Arte di Ben Cucinare” lo descrive in questo modo:

Deve il luccio essere di fiume overo di lago buono e non paludoso, fra tutti i pesci, questo da buon nutrimento: di questi i cuochi ne possono fare molte vivande: cotti in bianco, serviti con oglio, succo di limoni, e verdure: nello spiedo lardati con angiove, serviti con salsa di capperini, code di gambari, zuccaro, e aceto rosato: se ne fanno braciolette messe in adobbo con polvere d’erbe odorifere e cotte alla

gradella, onte con aglio: se ne fanno polpette e polpettoni con i suoi ingredienti e aggiungendovi polpa d’anguilla, riescono migliori e più tenere: se ne fanno piccate calde e fredde; calde si condiscono con butiro, noce moscata e zuccaro sopra; fredde si condiscono con oglio di mandorle dolci, succo d’aranci, zuccaro e pepe ammaccato, e altre vivande, conforme al genio. E fu proprio Bartolomeo Stefani che ci ha tramandato la sua ricetta del “Luccio in Biancomangiare”:

Bianco mangiare di polpa di luccio. Haverai lucci grossi, cotti in bianco nell’acqua schietta, pigliando sei libre di quella polpa, cavatole tutte le spine, la pesterai nel mortaro, pesta che sarà, la stemprarai con una libra d’acqua rosa ed una di gelsomini aggiungendovi due libre d’amido stemprate in quattro libre di latte,e s’è vigilia in libre tre d’acqua; metterai tutto al fuoco in un vaso ben polito mescolando sempre con la spadola, perché è pericoloso; quando sarà a meza cottura, vi porrai una libra e mezza di zuccaio fino, con un grano di muschio macinato; cotto che sarà lo levarai dal fuoco, gettandolo in piatti d’argento, o di maiolica, e non in stampe. Questa ricetta può essere oggi reintepretata pur rimanendo saldamente ancorata ad una tradizione culinaria che non è solamente mantovana, ma si estende a tutti i territori appartenenti all’antico Gran Ducato.

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Preparazione della ricetta del “luccio in salsa di biancomangiare e capperi” dei giorni nostri.

Ingredienti Un kg di luccio pulito; una costa di sedano; una carota tagliata a pezzi; una cipolla tagliata a metà; uno spicchio d’aglio; un limone; due foglie di alloro secco e quattro foglie di alloro fresco; sale, pepe in grani. Per la salsa: mezzo bicchiere di olio d’oliva; quattro acciughe dissalate e spezzettate; il succo e la scorza di un limone; venti grammi di capperi strizzati e tritati; mezzo peperone sottaceto tritato; mezzo spicchio d’aglio tritato; un ciuffetto di prezzemolo tritato.

Preparazione In una pentola con acqua mettete: sedano, cipolla, carota, aglio, alloro, limone, sale e pepe in grani; portate a ebollizione e lasciate cuocere per dieci minuti circa. Lavate il pesce e togliete le scaglie, mettetelo in pentola lasciandolo sobbollire a fuoco molto basso, perché non si rompa, per circa venticinque minuti. Spegnete e lasciatelo raffreddare nel liquido di cottura. Preparate intanto la salsa mettendo in un tegame sul fuoco basso: l’olio e le acciughe spezzettate; rigiratele e schiacciatele con un cucchiaio di legno, finché non si saranno sciolte. Aggiungete allora tutti gli altri ingredienti e rigirate ancora in modo da amalgamare il tutto ottenendo un intingolo vellutato al termine della cottura di circa quindici minuti. Togliete il pesce dal liquido di cottura, privatelo della testa, della pelle, mettete la polpa su un piatto di portata e versatevi sopra la salsa calda. Coprite e lasciate riposare il pesce così preparato per dodici ore prima di servirlo. Non è comunque l’unica ricetta in biancomangiare come già prima accennato. Un’altra ricetta di come preparare il luccio arriva da Rivalta Sul Mincio, terra di pescatori a pochi passi dalla città. Il luccio, cotto come nella ricetta precedente, viene poi ricoperto da formaggio padano invecchiato, succo di limone e un olio delicato come quello del Garda. Anch’esso, come nella ricetta con i capperi, deve riposare almeno tre giorni e servito con polenta gratinata.

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BOLLITO ALL’ITTITA? NESSUN PROBLEMA CON LE ARCHEORICETTE articolo realizzato con il contributo giornalistico di repubblica.it contributo di GENEROSO URCIOLI

Vi siete mai chiesti da dove arrivano i piatti che oggi nel mondo si gustano a colazione, pranzo e cena? Ad un certo punto qualcuno ha iniziato a mettere insieme qualcosa che qualcun altro ha trovato buono e da lì in poi si è sempre fatto così oppure la storia ci racconta una cosa diversa? Beh! Devo dirvi che ho avuto la fortuna di conoscere uno studioso che sta rispolverando e studiando questo importante momento di vita quotidiana del passato. Generoso Urcioli, laureato in civiltà bizantina con una tesi a metà strada tra archeologia e storia con varie specializzazioni accademiche e sul campo, si sta concentrando da qualche tempo su un progetto innovativo dall’alto contenuto storico, accademico e di ricerca. “Archeoricette” il nome del progetto e sotto questo titolo Generoso inizia una ricerca puntuale sulle usanze culinarie antiche come mezzo per capire le tradizionali preparazioni culinarie del mondo odierno; certamente aspetto caratterizzante di un popolo assieme alla lingua. “ In rete o nei testi degli studiosi non mancano certo le storie dell’alimentazione mi dice ... Quello che ho voluto cambiare è l’approccio, facendolo diventare più divulgativo. Come in uno scavo, indago attraverso i testi storici per arrivare a una ricostruzione filologicamente accettabile delle ricette degli antichi”. Innanzitutto bisogna capire e confrontare il metodo di cucinare oggi rispetto alla cucina antica. In ogni caso oggi ogni chef parte da una ricetta che indica ingredienti e me-


todi di cottura. In passato non era così: “Sembra quasi che queste informazioni non fossero fondamentali da trasmettere a tutti, perché appartenenti solo agli addetti ai lavori che si tramandavano con il saper fare i segreti del loro mestiere anche se evidentemente esistono le classiche eccezioni che confermano la regola, ma sono poche”. Generoso cerca di recuperare tutte queste indicazioni grazie all’analisi del contesto condotta su centinaia di documenti e reperti cercando di assemblare in maniera verosimile o in ogni caso accettabile gusti e sapori che, certamente non sono ricostruzione storica (anche perché non sarebbe possibile condividere i gusti provenienti da un tempo così lontano), ma altrettanto sicuramente sono un racconto infarcito di dosi, ingredienti e tempi di cottura che, in alcuni casi si trasformano in punto di partenza per analizzare una civiltà antica; in altri casi, punto di arrivo per la conoscenza di altre civiltà. Appassionato più che di archeologia accademica di quella stratigrafica - cioè quella esercitata sul campo, all’interno degli scavi - Urcioli ha provato a trasmettere le stesse dinamiche alla sua ricerca. «L’archeologia stratigrafica individua i rapporti tra gli strati e definisce la loro relazione. Anche l’alimento è come uno strato: da solo è poco indicativo ma diventa affascinante se contestualizzato, non solo dal punto di vista delle coordinate cronologiche ma anche di quelle geografiche. Il cibo si trova al centro di un processo complesso che si realizza con

molteplici azioni: conservazione, stoccaggio, trasporto, trasformazione, consumo e smercio». Archeoricette nasce un po’ come un gioco: Generoso è ospite, come archeologo, di una trasmissione radiofonica su un network nazionale e racconta la storia di una ricetta. Gli ascoltatori chiamano, scrivono, si interessano. Insomma, è un successo. Da qui l’idea di aprire un canale contemporaneo che affronti tematiche antiche. Trascorsi tre mesi dal primo post pubblicato sui social network, Generoso poteva vantare oltre 6500 followers. Il blog di archeoricette poi è stato preso d’assalto da tesisti che richiedono informazioni scientifiche come da casalinghe che gli scrivono per avere ricette antiche da provare a casa. A volte la ricetta viene interpretata, partendo da inscrizioni o disegni, altre volte è invece presente in modo esplicito, basta saperla trovare. «Il ricettario ritenuto più antico è quello di Apicio, di tarda età repubblicana-inizio era imperiale romana, ma una tavoletta d’argilla risalente al 3000 a. C. e ritrovata a Uruk aveva questa iscrizione: “Disporre amsikurak in un paiolo con un po’ di latte. Far cuocere a fiamma dolce. Quando amsikurak sono cotti unirli a menta e latte e preparare una salsina. Colare la salsa così ottenuta sopra i kippu e rimettere tutto nel paiolo un altro po’ a cuocere. A cottura ultimata servire con un po’ di latte freddo! Buon appetito!” Non è forse paragonabile a una ricetta moderna?». Ed è proprio alla contemporaneità che

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guarda Urcioli. Passa le serate a fare ricerche condividendole con i “fan” usando i social, importanti canali contemporanei di comunicazione come filtro interpretativo alle sue indagini. A volte i post sono delle semplici citazioni dei testi antichi, in cui si scopre che la zuppa di ratti era pregiatissima e iperproteica oppure che stando a Omero, Polifemo era un casaro esperto che produceva caci prelibati facendo cagliare il latte e deponendolo in canestri intrecciati. Altre volte vengono lanciati dei dibattiti, come l’indagine sulle portate dell’Ultima Cena (prossimo libro di Generoso Urcioli in uscita prima dell’estate). “All’inizio non pubblicavo le dosi per realizzare i piatti, ma i lettori me le chiedevano sempre più spesso. Così ho iniziato a comparare diverse fonti, dall’iconografia alla numismatica, dall’analisi dei dati di scavo ai corredi funerari o ad attingere da altre discipline consorelle dell’archeologia, come l’archeobotanica che ha per oggetto di analisi i resti vegetali rinvenuti in contesti archeologici. Soprattutto l’apporto di quest’ultima è fondamentale per il mio progetto: le ceramiche da forno, dalla preistoria al medioevo, non hanno praticamente avuto una grande evolu-

zione tecnica, quindi gli studiosi che le rinvenivano negli scavi non le hanno mai tenute in grande considerazione. Con l’archeobotanica invece si è fatto un grande passo avanti perché permette di analizzare il contenuto di questi recipienti: si possono così scoprire resti di stufato o succulente pietanze”. Come dicevamo la ricostruzione non può che essere ipotetica, anche se basata su analisi del testo e paralleli. “Ovviamente non sapremo mai il gusto che avevano certe piatti, perché il sapore delle materie prime è cambiato notevolmente. È ovvio che la carne usata nelle polpette raccontate da Apicio non avrà mai il sapore della carne sulle nostre tavole, ma la suggestione resta quella, (in questa sua attualizzazione degli antichi cibi Urcioli collabora con il Personal Chef Paolo Antonio Cancedda provando insieme a lui a realizzare le ricette presentate e organizzando cene-lezioni che sono tra gli appuntamenti torinesi più seguiti, ottenendo ricostruzioni filologicamente corrette nel pieno rispetto delle fonti storiche analizzate. Quindi tenete d’occhio la pagina facebook di Archeoricette e il blog (archeoricette.com): potrebbe essere un’occasione curiosa per assaggiare il tortino di carne all’Hammurabi.

Generoso Urciuoli Archeologo e divulgatore, ideatore e responsabile scientifico del progetto Archeoricette.

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IO & LOGIC

GERMOGLI DI SALUTE! di DOTT. ANTONIO LAMBERTO MARTINO

Manager di rete Podere Pereto, Azienda Agricola Biologica Nel nostro quotidiano, ci imbattiamo ogni giorno in alimenti che, soprattutto per quanto riguarda frutta e verdura, speriamo siano freschi, sani, possibilmente biologici e privi di medicinali. Se per certi versi è possibile verificare la freschezza della verdura e della frutta, non è altrettanto facile accertarne l’origine in particolar modo per i prodotti sui banchi del mercato. Ovviare a questo problema è possibile: come? In mancanza di indicazioni di provenienza e presi alla sprovvista dall’arrivo a cena di un ospite importante, possiamo creare ottimi piatti con i germogli. Sono facilissimi da coltivare anche a casa (bastano un paio di giorni e i germogli sono pronti all’uso; quindi possiamo avere una scorta di verdura freschissima a km sotto zero sempre a portata di mano). Offrendoli ai nostri ospiti o consumandoli personalmente facciamo e ci facciamo del bene: i germogli sono una una vera miniera di vitamine come la A, la B e la K e sali minerali come calcio, ferro e rame oltre che importante fonte di oligoelementi e proteine. Sono ideali per preparare fresche insalate, per arricchire zuppe e minestre e pensa-


te... gli chef più esperti sono in grado di realizzare anche dessert deliziosi e salutari. Sono ottimi non soltanto crudi e, se cotti con metodologie poco aggressive come la cottura al vapore, mantengono inalterate caratteristiche organolettiche, profumo e sapore. Vengono usati anche sotto forma di gustosi e nutrienti centrifugati e apportano all’organismo vitamine pari al doppio di quelle presenti nel seme e al triplo rispetto alla pianta adulta. Questo perché principi nutritivi, sali minerali ed i diversi oligoelementi contenuti nel seme divengono nel germoglio più facilmente assimilabili in quanto chelati con gli amminoacidi aumentando così la quota nutritiva. Molte varietà di germogli poi, contengono sostanze anticancerogene non presenti nel seme o che si disperdono nella pianta adulta.

I germogli di ceci Normalizzano la funzione del tratto digestivo, migliorano la carnagione, migliorano la composizione del sangue, decongestionano fegato e reni e sono un valido alleato contro i tumori solidi. I germogli di grano di varietà antica Niente a che fare con la farina e altri suoi derivati. Sono alimento ideale dal punto di vista nutrizionale e detengono il primato fra tutti i cereali. Sono ricchi di proteine, ossigeno, minerali, vitamine, enzimi e antiossidanti, inoltre sono altamente digeribili. Se usati sistematicamente i germogli di grano depurano, alcalinizzano e ringiovaniscono l’organismo. I germogli di grano saraceno

Un’alimentazione equilibrata e sana, non può prescindere dal consumo costante di vegetali freschi, tra cui appunto anche i germogli che, grazie alle loro proprietà, contribuiscono meglio e prima a rafforzare le difese immunitarie apportando benefici all’organismo in generale. I germogli tendenzialmente, aiutano il processo digestivo, depurano l’organismo e lo rendono più reattivo nei confronti dei malanni e contribuiscono a proteggere dalle malattie fegato, reni e polmoni. Naturalmente consiglio di partire da semi biologici per ottenere poi germogli sani e appetitosi per tutta la famiglia. Di seguito vediamo insieme alcune delle proprietà di alcuni tipi di germogli: I germogli di avena

Ricchi di proteine complete e altamente digeribili. Contengono grandi quantità di fosforo, calcio, ferro, manganese, zinco, rame, ma anche vitamine B, P, PP, E. Rafforzano il cuore e i vasi sanguigni e hanno un effetto estremamente valido sulla tiroide. Aumentano la resistenza e la forza muscolare e migliorano la qualità del sangue. Si possono tranquillamente mangiare anche le foglie verdi della pianta. I germogli di lenticchie Anche loro sono una fonte consistente di proteine ben digeribili, inoltre contengono microelementi e micronutrienti molto utili al nostro organismo. Sono consigliate in situazioni di forte sforzo fisico. Detto ciò non mi resta che augurarvi buon lavoro nel seguire con cura le vostre piantine e Salute!

Aiutano chi ha la digestione difficoltosa e disturbi polmonari. Depurano e rinforzano l’organismo e contribuiscono al suo miglioramento generale agendo non solo come cibo, ma anche come rimedio naturale. I germogli di fagioli Molto nutrienti e ricchissimi di proteine forniscono energia e esercitano un azione benefica sul fegato eliminando a poco a poco gli intasamenti di bilirubina. Rafforzano lo stomaco, aumentano la potenza, dissolvono i calcoli e sono anche loro ottimi per i polmoni.

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IL PROFUMO DELLA SALUTE I broccoli, godono di pessima fama, come i cavolini di Bruxelles (anche se in effetti il sapore è gradevole). Trovatemi un bambino che li mangi con gusto e vi darò?... Niente perchè non lo troverete. Questa splendida verdura, coltivata per lo più in Europa, appartiene alla famiglia delle crocifere. La parte edibile della pianta (51%) sono sia le foglie sia il suo interno. Ha pochissime calorie e per questa sua caratteristica viene spesso abbinato a diete ipocaloriche generalmente lessato o cotto al vapore rendendolo ancora più odiato per il suo valore simbolico (mangio il broccolo al posto di una cassata siciliana … che tristezza!). Tipico alimento invernale ben noto fin dai tempi antichi; sacro per i Greci ed i Romani che ne facevano uso per curare diverse malattie e addirittura lo consumavano crudo prima dei banchetti per consentire all’organismo di assorbire meglio l’alcool, con il passare del tempo, si è diffuso a macchia d’olio in tutta Europa. Considerato cibo ideale nei periodi difficili il broccolo è ricco di elementi benefici (forse l’unico elemento negativo insito in questi ortaggi è lo sgradevole odore emanato durante la cottura: ciò e dovuto allo zolfo in essi contenuto in discreta quantità): è ricco di sali minerali, calcio, ferro, fosforo, potassio vitamine, fibre. Fà bene insomma e in più previene la crescita di cellule cancerogene (in particolare indicato contro i tumori intestinali, polmonari e del seno).


Intendiamoci, non è che adesso dobbiamo consumare broccoli, broccoletti e cavoli come se non ci fosse un domani, dobbiamo semplicemente approfittare di questo straordinario aiuto naturale per far bene alla nostra salute. Tanto più che i broccoli hanno anche un potere antianemico, emolliente, diuretico, cicatrizzante, depurativo, vermifugo. Sono indicati nei casi di stitichezza cronica per l’enorme ricchezza di fibre vegetali. Inoltre, gli specialisti consigliano il loro consumo per l’alto potere antiossidante in essi contenuto che aiuta a rafforzare le difese immunitarie, riducono il rischio di cataratta e proteggono dall’ictus e sono efficaci nelle situazioni di estremo affaticamento e di carenze vitaminiche nonchè utili nelle situazioni di estremo nervosismo ed eccessiva irritabilità, toccasana per combattere le affezioni polmonari e respiratorie in genere. Peccato che abbiano un odore disgustoso!

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‘NA TAZZULELLA ‘E CAFE’ di ROBERTA SABBADIN

Non so se avete notato, negli ultimi mesi, una proliferazione di distributori di caffè in città in ogni dove.

c’è quello sfuso. Ed il bancone è pronto per un nuovo avventore, anche la tazzina, dopo un po’ d’acqua.

Premetto che ero già sufficientemente satura delle “macchinette” che incontro in qualsiasi luogo di aggregazione: dagli uffici pubblici alle palestre, dalle aziende agli studi medici, dalle scuole alle biblioteche, dalle associazioni culturali agli ospedali.

Ora proviamo a prendere un caffè alla macchinetta: sono sola, chiudo gli occhi e sento il frastuono delle auto in strada, annuso e sento smog e polvere, prendo un bicchierino di plastica con un bastoncino di plastica, bevo (lasciamo stare) e butto via tutto. Infatti, di fianco al distributore c’è un cestino di indifferenziato pieno di bicchierini e bastoncini. Ecco quello che rimane di questa esperienza: un gusto indefinibile in bocca ed un sacco della spazzatura pieno.

Ora, questi orrendi (impossibile sostenerne la piacevolezza) distributori automatici si stanno piazzando in qualsiasi strada, corso, via, slargo… ma perché? Veramente non riesco a trovare risposta, che non sia un’impellente ed improcrastinabile necessità di bere una bevanda tiepida dal colore e dal gusto imprecisato in un bicchierino di plastica.

No, ma dico: come chiamarla pausa caffè? Fabbrica di bicchierini sporchi mi sembra la definizione esatta.

Chi cerca il caffè dei distributori mi pare non abbia mai saputo cosa sia il caffè, o se ne sia perlomeno dimenticato; non intendo solamente il suo gusto ma anche il suo profumo e tutto ciò che gli sta attorno.

Meno? Meno rispetto a cosa? A quelle monetine che utilizziamo sul momento?

Vorrei suggerire a queste persone di andare in un bar, chiudere gli occhi e ascoltare le persone che parlano vicino a loro, il tintinnio delle tazzine e dei cucchiaini, annusare il profumo nell’aria ed infine appoggiare le labbra su una calda tazzina piena di una bevanda antica. E quando abbiamo terminato questa piacevole pausa, cosa rimane del nostro piacere? A livello di sensazione fisica e mentale il piacere si protrae… In concreto, non ne rimane traccia: il barista ripone tazzina e cucchiaino nella lavapiatti, chi non può rinunciare al dolce lascia un po’ di carta della bustina dello zucchero se non

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Beh, costa meno….

Se non avete mai sentito parlare di “impronta ecologica”, vi illustro brevemente il concetto. L’impronta ecologica di un individuo, o di una popolazione, misura l’area biologicamente produttiva di mare e di terra necessaria a rigenerare le risorse consumate e ad assorbire i rifiuti prodotti; è possibile quindi stimare quanti “pianeta Terra” servirebbero per sostenere l’umanità, qualora tutti vivessero secondo un determinato stile di vita. Se tutte le persone al mondo vivessero con gli stili di vita del cittadino urbano italiano medio, avremmo bisogno di almeno altri 3 pianeti e mezzo. Circa metà dell’impronta è da imputare al consumo di terra per l’energia cioè quella superficie che serve per assorbire l’anidride carbonica legata al ciclo di produzione e consumo dei singoli beni: questa parte dell’impronta è note-


DI ROBERTA SABBADIN

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volmente aumentata con un fattore moltiplicativo di circa 1.7 nel giro di circa sette anni a causa soprattutto dell’inquinamento veicolare e da riscaldamento. In questo stesso arco temporale, i consumi energetici urbani sono in crescita nonostante le città italiane registrino una diminuzione della popolazione. Oggi, l’umanità utilizza l’equivalente di un pianeta e mezzo, ovvero il nostro pianeta ha bisogno di un anno e sei mesi per rigenerare tutto ciò che noi usiamo in un anno. Global Footprint Network (un team internazionale che promuovere la sostenibilità attraverso l’uso dell’impronta ecologica) e il WWF (La più grande organizzazione per la conservazione della natura), suggeriscono che nel 2030 avremo bisogno di due pianeti per far fronte alla nostra richiesta di beni. Ricordiamoci questa frase: non usare è comunque meglio che riciclare. I rifiuti sono l’esito di un precedente ciclo di produzione, commercio e consumo. Prima ancora di doverli riciclare, sarebbe meglio cercare di non produrli proprio. E allora, quanto ci costa questa pseudo pausa di pseudo caffè? Intanto, io mi godo una tazzina profumata e bollente comodamente seduta davanti ad un quotidiano… .

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ICICLO & NATUR

IL CAFFÉ È UN POTENTE ANTIOSSIDANTE, PREVIENE IL DIABETE E FA BENE AL CERVELLO

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NUOVI SAPORI, ANTICA TRADIZIONE

Cosa abbia condotto, nel lontano secolo scorso il nonno di Elisa dalla Sardegna al “Continente” è presto detto: non tanto la povertà che probabilmente non attanagliava la sua famiglia dato il numero di ovini posseduti, quanto la voglia di realizzarsi, la sfida, il sogno, la speranza in un futuro splendente. Certo, all’inizio le avversità e le difficoltà furono davvero tante: ovini sardi da latte trapiantati in Toscana?! Sapori forti, profumi intensi come quelli della terra dei Nuraghi da proporre a gente abituata ad altri gusti?! Si, tutto questo e tante altre difficoltà. E poi, lavoro massacrante, incertezza, tasse e poi ancora, lentamente, la creazione e commercializzazione di un prodotto del tutto nuovo sui mercati e sulle tavole toscane. E sì, perché la terra di Pellegrino Artusi e le sue particolari caratteristiche climatiche e agricole ha contribuito non poco a creare un formaggio profumato, fragrante, con tratti certamente sardi, ma sicuramente fisionomia toscana, un perfetto connubio tra isola e terraferma. L’unica cosa inalterata di questo spettacolare formaggio è il metodo di lavorazione, identico da decenni. Quello che mi ha incuriosito e spero di riuscire ad incuriosire anche voi è la storia connessa ad ogni singola forma di formaggio.


Elisa mi racconta tutto del suo prodotto, quello che c’è dentro: sole, erba, acqua, luoghi di stagionatura sensibilmente diversi tra, certo, da quelli di suo nonno con il quale però condivide la stessa passione e la stessa professionalità. Questo anche se lei lavora dieci volte tanto il latte che si lavorava in passato. Me lo racconta il suo formaggio e io me lo immagino come se stessi leggendo della “Contea” di John Ronald Reuel Tolkien e la passione che ci mette è contagiosa. Lei, come suo nonno è attratta da nuove fide, resiste all’industrializzazione come suo nonno ha resistito all’idea di fare qualcosa di diverso, tenta nuove strade esattamente come il trasferimento di armi, bagagli e pecore nella campagna aretina, trasmette fierezza nel portare avanti una tradizione difficile quanto appagante di un mestiere antico che ha coinvolto una famiglia intera fino alla terza generazione. Resiste Elisa al mondo contemporaneo fatto di web, velocità, ottimizzazione dei tempi, ma che non si sofferma più tanto a capire, a imparare, a trasmettere. Vuole mantenere intatta la qualità altissima di un prodotto vivo che solo lavorato a mano tira fuori tutte le sue caratteristiche organolettiche migliori facendone un prodotto talmente di nicchia che è difficile

trovarne tracce addirittura online. Oggi la Mameli (questo il Cognome di Elisa che identifica l’azienda) produce vari tipi di formaggio dal più fresco a quello a media stagionatura, profumato con foglie di mirto o con le noci che si trova sulle tavole degli chef toscani più importanti. Concede poco Elisa alla sperimentazione o alla creatività perché dice:” Io lavoro con una materia, il latte, che è viva e ci pensa già lei a creare e innovare senza che io possa in alcun modo condurla se voglio rispettarla”. E il rispetto e il sentimento che conduce la “Mameli” nel suo percorso lungo la tradizione. Ovvio che il formaggio di oggi ha ben poco in comune con quello del nonno, ma l’assaggio porta i commensali a ricordi di infanzia, di quando le cose erano genuine e gustose senza adulterazioni, di quando la vita la vita era slow e il minestrone cuoceva per ore sulla cucina economica che era al tempo stesso termosifone e asciugatrice. Mi confida: quando mi dicono che il mio formaggio, riesce a riportare indietro nel tempo, mi riempio di orgoglio, non c’è complimento migliore di questo”. Una visione certamente romantica e commovente che spesso noi mortali perdiamo nel frenetico mondo di oggi.

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“BISTROT”: UN PO’ RISTORANTE, UN PO’ COCKTAIL BAR di Alessandro allocco

“быстро быстро” ovvero bouistro, bouistro, “rapido, rapido!” urlavano i soldati cosacchi nel 1814 quando si accamparono sui Campi Elisi parigini. Sì perchè gli osti, furiosi soprattutto per il fatto che gli stranieri raramente pagavano, servivano loro da bere molto, molto lentamente e di solito ... schifezze! Questo almeno quello che riportano alcune interpretazioni come le “Memoires de Roquette” di Padre Georges Moreau del 1884. Altre scuole di pensiero come le affermazioni contenute in “ Voyage au bout de la nuit” di Louis Ferdinand Céline, ritengono che potrebbe trattarsi di un’espressione regionale derivata da Bistraud (Nord della Francia) o da Bistroquet, il nome dato agli aiutanti dei commercianti di vino o allo stesso vignaiolo, che dal 1800 da Parigi si è diffuso in tutta la Francia in assonanza con l’espressione argot (vernacolo) e bistingo (antica espressione che identifica il cabaret. Comunque sia oggi Bistrot (la variazione contemporanea dei vocaboli di cui sopra) è parola universalmente riconosciuta e identifica un locale unico ed eclettico: ristorante e cocktail bar allo stesso tempo. Sono sempre più tendenza diffusa in giro per il mondo; nelle grandi capitali come nelle piccole città, questi ambienti dall’immagine rustica o di design che nelle diverse ore del giorno e della sera, possono essere spazio per mangiare e, al tempo stesso, caffetteria dove fare colazione o locale dove bere un buon drink. Ma i bistrot in giro per il mondo sono botteghe che ci tengono a darsi delle arie da ristorante o ristoranti di livello che si celano sotto le mentite spoglie di gastronomie?


In Italia suppongo si tratti soprattutto di una formula anticrisi per chi ha il sogno di entrare a pieno titolo nel mondo della ristorazione mentre nel mondo le “épiceries-bistrots” sono una realtà semplice, golosa, economica e ben rodata da molti anni ormai. Questa nuova tendenza food da gourmet ha raggiunto, negli ultimi anni, cifre impressionanti: nella sola Francia 36.500 con 600 nuove aperture ogni anno, 27.400 in Italia con 1000 nuove aperture circa ogni anno. Piccoli, certo! Anzi piccoli gioielli eleganti e convenienti dagli arredi volutamente nostalgici o vintage con piccole strizzatine d’occhio al contemporaneo o al fashion come il “Bistrot- Related” decisamente trandy e cordiale opera di Jean Paul Lacombe a Lyon. Se volete immergervi in un’esperienza unica tra buona cucina e letteratura dovete senza dubbio visitare “Cookbook”, uno dei primi bistrot nato nel decennio 1960/1970 ad opera di Michel Oliver cuoco e scrittore figlio del più famoso Raymond Oliver creatore dell’Oliveto Bistrot. E come dimenticare il Leon de Lyon o il Guy Savoy di Michel Rostang a Parigi. In Italia a Roma il Josephine Bistrot, un localino che si ispira alla Parigi degli anni ‘20 con arredi ed complementi in stile, elegante senza troppo ostentare. Un tocco vintage anche nel menu e nella cocktail list o La Moderna, ricavato negli spazi del Nuovo Mercato Testaccio, sintesi di come oggi un locale alla moda debba essere eclettico: bar per ricche colazioni, ristorante nelle ore pasti, pizzeria compresa, e cocktail bar per un aperitivo o un drink dopo-cena. Se volete tenervi in linea con i dettami di semplicità, informalità e attenzione ai piatti preparati, basterà recarsi in zona Sempione a Milano, da Aromando Bistrot, e potrete gustare alimenti da agricoltura biologica e materie prime selezionate con cura e ricerca per la loro genuinità. Provate le vellutate di verdure, la fritturina di alici o il filetto di maiale con farro e carote e accompagnate il tutto con il pane fatto in casa con farine biologiche selezionate e arricchite con fiori e semi che ne conferiscono sapore e particolarità. La lista dei vini, composta da oltre 600 etichette, completa il quadro di ricercatezza e, in fondo, sofisticatezza del locale. Se invece i vostri gusti si rivolgono ad un ambiente franco-partenopeo dovete visitare “Filumè”, con sottotitolo “bistrot napoletano”,

locale aperto non per moda o per cavalcare una qualsiasi strategia di banale attività di cucina etnica, ma bensì per esperienza consolidata di aperture di locali in Francia, alcuni ancora felicemente con i fuochi accesi, da parte di Michele Sirica, protagonista in società di questa nuova avventura ristorativa. A Torino la Bottega Gastronomica, in pieno centro nel cuore di Porta Palazzo, scenario di uno dei più grandi mercati all’aperto d’Europa. Il claim della Bottega è una vera dichiarazione d’intenti: “varda, cata, mangia” per i non torinesi, guarda, compra, mangia. In concreto: scegli quel che ti piace, poi o lo porti a casa o lo mangi sul posto. Una filosofia che ormai si sta diffondendo in diversi locali appena aperti in città. Il caso della Bottega è emblematico, per via della location – una casa d’epoca recuperata in un progetto di social housing, proprio davanti alla famosa Tettoia dei Contadini del mercato – e della doppia anima. Da una parte la gastronomia, le proposte artigianali di piccoli produttori selezionati dallo chef Giacomo Tabellini e i piatti pronti: dunque un posto dove fare la spesa e dove gustare, nel retrobottega, uno spuntino preparato al momento proprio con quanto scelto dal bancone della gastronomia, uno street food, un panino fatto con il classico pane piemontese, la biova. Dall’altra parte, proprio accanto, c’è l’Osteria del Mercato, per un piatto unico a pranzo, la cena o il brunch la domenica. Se siete giovani o volete sentirvi tali pranzando o cenando con universitari e professionisti della cultura il consiglio è di frequentare il Convivium: look studiato minimal-natural/contemporaneo - vintage, in uno spazio ampio e luminoso recuperato con gusto dove tutto è preparato fresco in un mix tra caffetteria, pasticceria e ristorante con una tendenza che ricorda un poco i locali d’antan. La cucina, genuina con piatti della tradizione mediterranea come di quella internazionale è sempre salutare e preparata in un ambiente a vista e , per la sera, i cocktails di livello rivaleggiano con la scelta dei vini. Questi e tanti altri ancora a Firenze, Bologna, Venezia, affinità d’eccellenza con le épicerie-bistrot che grandi chef aprono nella vicina Francia. Sarà pure l’ennesima formula per rispondere alla crisi, certo è una bella scoperta e a prezzi intelligenti.

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STORIE DI FOOD

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Immagini di ieri e tendenze di oggi

Interpretare il food attraverso l’immagine sta diventando sempre più pratica diffusa e richiesta, non solo per gli addetti al settore, ma anche per soddisfare il bisogno di un vasto pubblico, abituato a conoscere il cibo anche attraverso gli occhi. La “food photography” però, non è così contemporanea, possiede radici lontane nel tempo, praticamente da quando esiste la fotografia ci sono stati soggetti interessati a guardare attraverso l’obbiettivo il mondo del cibo passando attraverso le sue infinite declinazioni e ricerche artistiche. Quindi va da sé che, per comprendere i gusti e le tendenze di oggi in fatto di immagine, occorre fare due passi nella storia per scoprire cosa ci ha preceduto e cosa è cambiato nel tempo. Le prime composizioni fotografiche a soggetto gastronomico risalgono alla seconda metà dell’800, quando, pionieri della fotografia come Roger Fenton e Heinrich Kühn ritraggono sulle loro lastre, nature morte ricche di frutta, brocche di vetro, teiere, tazze in porcellana e tessuti, con uno sguardo romantico che indulge ancora verso una sfumatura pittorica. Il ‘900 vede la nascita dello “Still life” che ha successivamente dato origine ad una storia poliedrica e cangiante legandosi al mondo pubblicitario ed editoriale. Già negli anni Trenta del Novecento fotografi come Albert Renger-Patzsch e Heinrich Freytag collaborano con le riviste dell’epoca e realizzano cataloghi corredati di immagini estremamente contemporanee, dove sono di scena prodotti e oggetti narrati con un forte realismo. Un maestro come Edward Weston realizza splendidi scatti di verdure e frutta di estrema raffinatezza e armonia nelle scelte plastiche e luministiche nei quali la nitidezza, raggiunta attraverso la tecnica close up, dona all’immagine una qualità tattile. Ed è così che Cabbage Leaf e Pepper n° 30, del 1931 sono diventati eccellenti modelli di riferimento per molta attuale fotografia di food che mira alla fedeltà riproduttiva, ad uno stile essenziale e pulito, in grado di cogliere la forza emotiva del soggetto. Molte delle fotografie che osserviamo oggi sono ben consapevoli di portare con sé questi riferimenti e sono ormai codificate nel nostro immaginario visivo. Il fotografo americano Harold E. Edgerton, esperto in fotografia stroboscopica, ha creato immagini familiari per il nostro gusto estetico, come l’opera Schizzo di Latte (1936) nella quale un semplice fenomeno fisico viene reso forma scultorea e dinamica. Oggi navigando sul web si trovano moltissime realizzazioni fotografiche simili a questo scatto davvero avanguardistico.

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Sofisticati anche gli scatti di André Kertéz, ricchi di una sensibilità estetica giocata tra luci ed ombre, dove gli strumenti del quotidiano e della cucina vengono raccontati passando il filtro di uno sguardo assolutamente moderno, che ci ha abituati a vedere rappresentati anche gli oggetti più semplici in una veste mai banale. Dagli anni Quaranta del Novecento il colore inizia ad essere utilizzato per descrivere il cibo, nelle visioni non convenzionali di un fotografo come Paul Outerbridge, che unisce i prodotti confezionati agli ortaggi e alle materie prime della cucina in un ambiente di ordinaria familiarità, rompendo i precedenti canoni estetici . Gli autori che abbiamo citato fino ad ora ci conducono e preparano ad ammirare le opere di un grande maestro dello Still Life come Irving Penn, capace di realizzare scene elegantissime nello stile, dove il cibo viene fotografato anche nella sua corruzione e nel suo deperimento, simbolo di una vanitas che rimanda concettualmente, ma in chiave grafica e contemporanea, a certi dipinti secenteschi. Lungo il corso degli anni Novanta, molti gli artisti che hanno giocato fotografica-

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mente con il cibo, facendolo esplodere, cadere, interpretandolo secondo un gusto kitsch, provocando e inventando scenari dalla poetica favolistica e surreale. Con la diffusione del digitale, sempre più ampia nel secondo millennio, la food photography si sviluppa largamente mettendosi a servizio di campagne pubblicitarie gestite da studi fotografici, si trova tra le pagine di riviste che si occupano di cucina, dove l’immagine diviene prestigiosa protagonista e, in larga misura, su siti e blog che parlano di arte culinaria. Le tendenze oggi sono cambiate e le immagini che osserviamo sono frutto di una ricerca che mira alla naturalezza e dedica molto spazio all’ambientazione dei piatti. Il lavoro dello styling diviene perciò fondamentale per dare il giusto sapore e la precisa atmosfera all’immagine, che genera una storia di stile, di colori e di forme. La messa in scena degli elementi, dei più piccoli dettagli, conferisce un gusto sofisticato alla fotografia dalla quale emergono trame, consistenze, armonie, in cui gli oggetti si amalgamano con l’ambiente che sembra essere vivo e al contempo vissuto.


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Il clima è quello di un universo quotidiano nel quale si respira un’aria casalinga, dove il cibo è l’attore principale e viene reso gustoso nella sua qualità naturalmente artistica e artigianale. Splendidi esempi di questo nuovo linguaggio sono gli scatti di Ilva Beretta, di Ali Allen e Tara Fisher, che si trovano numerosi sul web, sulle riviste di food e su curatissimi libri di cucina. Una delle ultime novità in fatto di stile è l’esperienza dell’australiana Katie Quinn Davis, fotografa di talento e cuoca brillante, nonché food blogger, che ha pubblicato meravigliosi ricettari accompagnati da bellissime fotografie dallo stile naturale e al tempo stesso ricercato tali da condurre il lettore in un mondo genuino fatto di cose semplici. Il suo “In cucina con Katie. Ricette e altri piccoli segreti” è un prezioso tesoro per ricette originali ed ispirazioni fotografiche. E per concludere questa carrellata a spasso tra le immagini, in vista di Expo2015, dal 10

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UN PIATTO È ARTE QUANDO È AUTORALE, QUANDO SI CREA E RICREA PIÙ VOLTE QUALCOSA CON GUSTI, PROFUMI, COLORI E FORME Aprile fino al 1° Novembre alla Triennale di Milano, la mostra curata da Germano Celant Arts & Food. Cucina e Ultracorpi, un viaggio nella storia tra arte e cibo attraverso 1500 opere tra pittura, fotografia, design, installazioni, life style e personaggi dalla metà dell’Ottocento ai giorni nostri. Uno spunto stimolante e gustoso adesso che l’arte del cibo si trova sotto tutti i riflettori.

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SOLO PASSIONE? di GIANNI PASSANTE

Passione… solo un’indescrivibile ed irrefrenabile passione… È questa la risposta che istintivamente si ripropone sulle mie labbra quando, immancabilmente, mi viene domandato come mai un “ragazzo” di 45 anni con studi scientifici alle spalle, esperienza da tecnico e da imprenditore, si immerge nella sua bolla d’aria dietro ai fornelli. Poi, però provare a descrivere in cosa consista questa passione non è certo cosa facile. Almeno quarant’anni fa, quando la mia mamma e la mia nonna periodicamente si dedicavano alla preparazione di biscotti, focacce, pasta fatta in casa e quant’altro si potesse realizzare dietro ai fornelli o davanti al forno, erano costrette a lasciarmi fare un impasto tutto mio, che sicuramente veniva poi gettato. Forse non pensavano che avrei continuato a farlo in ogni momento libero. E andando avanti con l’età quando a undici anni ho realizzato per tutta la famiglia il primo piatto di “Tubettini alle cozze” sotto la guida di mio padre che era ed è ancora capace di trasformare in maniera sublime tutto ciò che il mare ci può dare, non erano di moda i programmi di cucina, reality e blog vari… La passione comunque nasce anche dall’amore per il buon cibo ed i buoni sapori… Ecco così che negli anni dell’università, quello che poteva passare per un vezzo divenne una necessità. Abituato a mangiar bene e provata per un paio di settimane “l’ottima” cucina della mensa, con i miei compagni dell’epoca decidemmo che avremmo fatto sempre la spesa insieme ed avremmo cucinato ogni giorno: di tutto, principalmente imitando i piatti che preparavano le nostre mamme, sentendoci non più studenti fuori sede ma casalinghi superpiù. La cucina

era sicuramente quella della tradizione… c’era anche la frustrazione dovuta al fatto che pur utilizzando gli stessi ingredienti e ripetendo gli stessi passaggi attenendoci scrupolosamente alle ricette, la fragranza ed il sapore delle varie pietanze non erano mai quelli delle stesse preparate dalle nostre mamme con i loro rituali. Sì, perché citando fra tanti anche il nostro Presidente Giorgio Trovato, le più grandi cuoche della storia sono state sicuramente le nostre mamme e le nostre nonne, che con ingredienti semplici e molto spesso con quel (poco a volte) che avevano a disposizione dovevano ogni giorno misurarsi con un “invention test”, approntando sopraffini menù, per il palato di giudici mai molto teneri. Nasce da qui, dalla voglia di riscoprire tecniche ed ingredienti quasi dimenticati, direi quasi ormai di nicchia, il piacere tutto mio di provare a carpire i segreti della loro preparazione e l’esigenza di dedicare un po’ di tempo alle visite in quelle masserie ed aziende agricole di cui è disseminata la nostra Puglia, in cui ancora oggi il formaggio si fa (spesso per il solo consumo personale) come una volta, lo stesso per il pane, e per ortaggi e verdure che non si affacciano al mondo della grande distribuzione e non ultime le erbe spontanee. Un discorso a parte merita invece il nostro mare e la smisurata voglia costante di consumarne avidamente i tesori, crudi e cotti. Arriva poi il momento in cui tutto questo viene un po’ accantonato, perché questa non è la mia professione, ma non il piacere di cucinare. Preso dagli impegni lavorativi estenuanti poiché un piccolo imprenditore non ha orari, viene un po’ accantonata la ricerca di cose nuove fino a quando, complice la crisi da cui il nostro Paese non è ancora venuto fuori, il tempo a disposi-


zione è venuto nuovamente ad aumentare. Non mi bastava più però andare in giro e poi sperimentare… ora c’era bisogno di dare un’impronta un po’ diversa. E’ arrivata, come un fulmine a ciel sereno, la partecipazione a corsi di cucina di base per imparare anche un po’ di tecnica (la sola passione non basta). Poi naturalmente l’appetito vien mangiando, e non è bastato più ricevere il plauso degli amici o dei commensali. Un immenso ringraziamento va anche a mia moglie, Miriam, che mi è sempre stata accanto e non mi ha mai fermato, non si è mai lamentata per le montagne di piatti e padelle da lavare (a dir la verità insieme) e la casa da rassettare (lei da sola) dopo ogni goliardica rappresentazione culinaria con gli amici (sempre almeno 15). Tra le varie sessioni di navigazione in rete per cercare di scoprire non ricette ma idee su qualche ingrediente inusuale ho trovato il riferimento alla pagina di un Personal Chef, di cui non ricordo ahimè il nome, che mi ha colpito perché non inondava la home page con le foto delle preparazioni e con ricette o proposte di menù, ma con le sue esperienze ed il suo curriculum. Tra queste voci spiccava la partecipazione ai corsi tenuti da una federazione, la FIPPC, dai quali aveva incominciato per intraprendere quella che poi sarebbe diventata la sua professione. Ecco, mi sono detto... penso che dovrò frequentare anch’io un corso come questo… mi piacerebbe che la cucina pian piano diventasse la mia professione. Voglio inseguire quella gratificazione che incomincia con la trasformazione di un qualsiasi ingrediente e si perpetra nel giudizio e si spera il plauso di chi assaggia. Mi sono messo quindi alla ricerca di questa FIPPC ed ho scoperto che di lì a poco ci sarebbe stato un corso proprio in Puglia. Non potevo lasciarmelo sfuggire e sono venuto in contatto con la preziosa Stefania Erroi che è stata fondamentale per tutta la durata del corso. Ormai ero in ballo e dovevo ballare. Non sapevo però cosa dovessi aspettarmi da questo corso che però è stato un “avvolgente”. Non è un corso che ha la pretesa di insegnarti a cucinare (se le capacità non le hai, i miracoli non li fanno), ma ti instilla un’idea, un metodo, un modo di vedere le cose da un’altra prospettiva. Non è solo cucinare. Devi diventare il regista di un evento completo. Ti fa capire come coccolare un Cliente e come fare perché questo sia veramente soddisfatto in modo che ci sia una doppia gratificazione: la nostra e la Sua. Ti insegna a pensare un menù dal benvenuto al dessert ed alla coccola finale, perché non basta mettere insieme un’accozzaglia di ingredienti anche se della stessa categoria. Ed è stata l’occasione per vedere all’opera ogni giorno un Maestro, Giorgio Trovato che ha eviscerato per tutte le preparazioni effettuate una miriade di accorgimenti e piccoli segreti. E poi un grande tesoro è stata la conoscenza con i compagni di corso, Annaluisa, Fabio, Francesco, Luca, Massimiliano, Rosa, Rossana, Rubina, Simone, Virgilio B. e Virgilio C. con i quali quasi ogni giorno continuiamo a sentirci e a scambiarci aiuto e consigli. La strada è stata segnata… Ora tocca a noi percorrerla. Avanti Tutta!!! (cit. G. Trovato)

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DI UN NUOVO VIAGGIO di ROSA POTENZA

Cibo uguale opportunità. Amo il cibo. Lo amo in tutte le forme semplici e ricercate, ma soprattutto amo manipolare gli ingredienti che trasformo in cibo. Amo

i mercati li cerco nelle città che visito e mi faccio inebriare dai profumi e dai colori, dai panorami di cibo amorevolmente esposto agli occhi.

DI UN NUOVO VIAGGIO Ho smesso di contare le volte in cui, arrivata alla seconda riga, ho cancellato e riscritto tutto nuovamente. Cercavo un inizio ad effetto, qualcosa di poetico e vero allo stesso tempo, qualcosa di grandioso, ma agli occhi. Non ci sono riuscita. Poi ho capito, ricordando ciò che non avevo mai saputo: che per i grandi cuori che muoiono nel corpo ma che continuano a battere nel respiro della notte, non ci sono canoni o bellezze regolari, armonie esteriori, ma tuoni e temporali devastanti che portano ad illuminare un fiore, nascosto, di struggente bellezza. Frida Kahlo

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PERSONAL CHEF MAGAZINE - DI UN NUOVO VIAGGIO

Cibo uguale viaggio. Tra i miei primi ricordi di infanzia ci sono immagini chiare di profumi, cibo e persone. Mi sono cimentata ai fornelli fin da ragazzina, entrando


in competizione con mia madre. I pranzi e le cene erano il perno portante della nostra famiglia, il momento in cui ci si riuniva e si scambiavano idee, in cui facevamo e continuiamo ancora oggi a fare progetti, a rinsaldare i vincoli della mia meravigliosa famiglia. Così ho imparato che la convivialità è il migliore veicolo per scambiare e conoscere: la maggiore soddisfazione è rendersi strumento di aggregazione, cucinando il cibo da portare a tavola. Cibo uguale condivisione. O anche cono-

scenza potrei dire. Durante i miei viaggi il cibo mi ha aiutato a capire i luoghi che visitavo. I mercati sono luoghi incantati e meravigliosi, crocevia di aromi, colori e sapori. Mi sono sempre portata a casa ricette nuove e nuovi modi di concepire il cibo. Ho cucinato, viaggiato e sperimentato, avvicinandomi a culture e continenti. Cibo uguale creatività. Un altro aspetto che ha costantemente nutrito questa mia passione è l’idea di poter manipolare gli ingredienti che trasformo, ottenendo “cose vecchie in modo nuovo e cose nuove in modi vecchi”.

Ma la mia vita era lontana dal risolvere l’equazione cibo uguale lavoro. La vera svolta è arrivata quando con brusco uno stop nella mia attività lavorativa, sono stata catapultata nella cucina di una masseria pugliese per ospiti inglesi. Di lì è stato un crescendo, nonché un primo passo compiuto verso il mio trampolino di lancio: fare della mia passione un lavoro. E così ho iniziato a costruire. Con determinazione, dedizione e pazienza sono partita dalle basi. Mi era chiaro che per poter dare maggiore spazio alla mia passione era necessario approfon-

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dire, imparare e acquisire competenza. Così sono passata dai fornelli ai banchi di scuola. Lo studio e le esperienze successive sono state uno step decisivo sia nella misura in cui ho potuto approfondire e conoscere metodi e strumenti di manipolazione e realizzazione, sia perché mi hanno concesso di arrivare di fronte ad una verità fondamentale: a me non interessava diventare parte dell’ingranaggio di un ristorante con i suoi ritmi frenetici. Mi interessava solamente cucinare per gli altri e attraverso questo gesto entrare in un’intima connessione con le persone, al di là delle distanze geografiche, linguistiche e culturali. Io volevo scambiare emozioni con chi è altro da me, offrire e allo stesso tempo raccogliere, anche solo attraverso uno sguardo. Volevo concedermi il lusso e il piacere insieme, di guardare quel barlume di felicità che si accende negli occhi di chi assaggia un mio piatto. Il Personal Chef era la mia strada. Lavorare al fianco dei commensali anche di spalle, ma vicino, così tanto vicino da percepirne i pensieri. Così ho cominciato a fare corsi, imitare maestri, e nel mio cercare per trovare una sintesi ho incontrato Tommaso Schiena Chef in quel di Taranto, il mio mentore: anche lui arrivato al cibo come professione per vie non convenzionali. Incontrarlo è stato mettere in ordine in tutto quello che sapevo fare. Mi ha aiutata a realizzare la mia idea di cibo e di cucina. Mi ha incoraggiata a seguire il mio istinto, a viaggiare tra gli ingredienti costruendo nuovi approcci agli elementi. Ho iniziato a creare piatti miei, a sperimentare nuovi metodi di cottura, ma soprattutto a seguire i miei sensi e ad aver fiducia in me. È stata un’esperienza ispiratrice e chiarificatrice. Decisamente motivante. Cibo uguale studio. L’unico tassello mancante riguardava l’aspetto commerciale ed organizzativo, vuoto che ho colmato attraverso il corso della FIPPC, ultima e recente esperienza formativa. Il corso mi ha lasciato non solo didatticamente più preparata, ma la conoscenza e l’amicizia di colleghi, e tutta l’esperienza che ho capitalizzato rubando con gli occhi ogni gesto e ogni parola che lo Chef Giorgio Trovato, con pazienza e dedizione ha speso ogni giorno durante la formazione. Il mio progetto si è trasformato in una “Officina dei sogni” dove il leit motiv era mettermi nuovamente alla prova e quin-

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di partire con la mia “patacca” appuntata al cuore, innanzitutto partire da dove l’idea del cuoco a domicilio è nata in me: Londra. Appena arrivata ho contattato le persone che conoscevo – i miei già clienti - per iniziare a promuovere la mia nuova attività. È stato incredibilmente eccitante, anche se faticoso, perché ho subito preso le misure con la città: non si può svolgere la professione di Professional Personal Chef degnamente, trasportando tutta l’attrezzatura tra bus e metro. Proprio no. Senza tener conto che le cucine degli anglosassoni spesso sono sprovviste anche delle attrezzature minime e degli accessori indispensabili, anche per le preparazioni più semplici. Quindi realizzando che non avevo a disposizione un’auto, ho ricalibrato il mio progetto, cambiando appena la connotazione e mi si è presentata prestissimo una delle innumerevoli possibilità che questa meravigliosa città offre. Appena dopo tre giorni dal mio arrivo ho fatto due giornate di prova presso una famiglia, nella quale mi si richiedeva di preparare quotidianamente pranzi e cene e la disponibilità per eventi due, tre volte al mese. E questa è la storia di oggi. Cibo uguale lavoro. Ogni giorno metto in tavola qualcosa di diverso, unico; nel senso che difficilmente ripeto la stessa preparazione: non ho un menù imposto da rispettare che ingabbierebbe il mio estro creativo. Scelgo tra gli ingredienti della stagione, rimescolo le cose che conosco, con le richieste degli ospiti. Stendo un ponte tra la mia terra e quella che mi ospita. Manipolo le carte... ogni giorno per vincere una sfida. Sperimento con ingredienti nuovi, oppure uguali come aspetto a quelli che conosco, ma che hanno profumi o consistenze differenti. Saggio spezie e erbe, mi faccio guidare dall’intuito, dalla natura e dalla musica: Sì, nella mia cucina quando voglio fare le cose per bene, non manca mai la musica, una grattata di passione e una spruzzata di entusiasmo. Cibo uguale soddisfazione. La mia cucina è al servizio del mio cliente, asseconda le sue esigenze, si accomoda tra i suoi desideri: metto sempre un pezzo di cuore nelle pietanze che preparo. Metto anche un pezzetto di me e dei panorami con cui sono cresciuta, fatti di fili di lana caprina a cui sono legati tradizione e innovazione, ricerca delle materie prime e prodotti a marchio. I pezzi di questo puzzle, sono quelli della mia storia composta di molti


ingredienti, alcuni volatili come il piacere per la manipolazione in assoluta creatività. Con un piatto posso raccontare la storia della terra dalla quale sono partita, il valore sacro della tavola e del cibo, la stagionalità di una particolare ricetta. Con i miei piatti posso raccontare tradizioni, antiche cotture, emozioni, sapori tradizionali. Cibo uguale conoscenza. Mi fanno tante domande, vogliono imparare, sbirciano curiosi, a volte imitano. Con il cibo racconto la mia terra, porto i miei clienti a viaggiare tra sapori e suggestioni cromatiche e mi dicono che conferisco abilmente colore alle emozioni. Consento loro di avvicinarsi alla mia tradizione, che diventa linguaggio con il quale racconto della nostra meravigliosa diversità. Voglio stendere un ponte tra la mia terra e quella che mi ospita. Cibo uguale valore sociale. Cibo come recupero. Voglio rendere consapevoli i miei ospiti che una preparazione non è semplicemente un insieme di ingredienti, ma nasconde una sorta di magia alimentata da un immaginario collettivo e da milioni di movimenti ripetuti con perizia: un diaframma complicato da superare da chi facilmente acquista cibo pronto al supermercato, e consuma i pranzi della settimana lavorativa fuori di casa con cibo preconfezionato dal sapore standardizzato, anche se con l’aspetto ricercato.... Cibo uguale scoperta. Posso affermare che i britannici, in generale, sono incuriositi e innamorati della nostra terra. Provano quasi un sacro rispetto per la nostra capacità di creare piatti saporiti con ingredienti semplici. E sono entusiasti del nostro vivere il cibo non solo come un elemento attraverso il quale nutrirsi, ma come il simbolo della nostra storia... di una tradizione che non muore con gli anni ma si rinnova, passa di mano in mano, di madre in figlio. Sono appassionati della nostra cultura e della nostra storia – da dove la loro in qualche modo principia – conoscono i nostri panorami e la luce fresca dei nostri orizzonti. In ogni casa che ho visitato, ho trovato libri che parlano di noi..... Il prossimo step? Diventare foodteller. Cibo uguale sogno.

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