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Italiano non italiano: il grande dilemma

ATTUALITÀ ITALIANO NON ITALIANO

IL GRANDE DILEMMA

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GIULIA BURIGOTTO, 5bb “Gl’Italiani hanno voluto far un’Italia nuova, e loro rimanere gl’Italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico la loro rovina; perché pensano a riformare l’Italia, e nessuno s’accorge che per riuscirci bisogna, prima, che si riformino loro.”

Così scrive Massimo d’Azeglio ne “I miei ricordi” (1867), quando il nostro Stato era nato da appena sei anni e la sua identità nazionale si trovava ancora ad uno stato embrionale. Nonostante sia ormai passato oltre un secolo, se consideriamo la proposta sollevata da Enrico Letta, segretario del Partito Democratico, di riformare il sistema tradizionale che regola la concessione della cittadinanza da ius sanguinis a ius soli, egli sembra rivolgersi agli Italiani di oggi. La legge odierna prevede infatti l’ottenimento della cittadinanza italiana fin dal concepimento per i figli naturali o adottati da cittadini italiani, a 18 anni per tutti coloro nati da genitori stranieri e dopo 10 anni di residenza per tutti gli altri che non siano apolidi (a questo punto la durata minima richiesta è di 5 anni) o sposati con cittadini italiani, sottolineando tuttavia che le tempistiche possono allungarsi anche di due/tre anni per l’ intricata burocrazia in cui è avvinghiato il nostro Paese. Fino ad allora, l’Italiano non italiano deve circolare obbligatoriamente con il permesso di soggiorno.

Alcuni esponenti politici hanno definito l’iniziativa di Letta “una stupidata”, sottolineando inoltre l’inadeguatezza del momento in cui è stata lanciata, come se esistesse davvero l’occasione giusta per parlare di diritti. Difatti, come alcuni si ricorderanno, già più di un anno fa nel nostro Paese si è aperta una discussione poi sfociata nel nulla riguardante l’approvazione della ius culturae, una felice soluzione tra le istanze più progressiste della sinistra e quelle più conservative della destra, che vedono nella difesa della presunta italianità un principio cardine invalicabile. Essa prevede l’attribuzione della cittadinanza a tutti coloro che abbiano completato la scuola primaria o un ciclo di studi di almeno 5 anni, ga-

rantendo così un sistema di integrazione più efficiente. La questione non è quindi nuova, eppure sempre più attuale.

Le statistiche hanno registrato nel 2020 la presenza di circa 6,3 milioni di stranieri su suolo italiano (circa il 10,3% della popolazione), numero certamente inferiore ad altre medie europee ma significativo se a quei milioni associamo il viso di un bambino, di una donna o di un uomo. Metà di questi provengono da Stati europei come Romania, Albania e Ucraina, seguiti poi da Paesi africani come Marocco, Tunisia, Egitto, Senegal, da quelli asiatici come Bangladesh, Pakistan, India, Cina e Filippine e infine da quelli latini come Ecuador, Perù e Brasile. In questi anni infatti si è assistito a un consistente flusso migratorio da tutto il mondo causato spesso da guerre civili, estrema povertà e istaurazione di regimi dittatoriali. Dovendo gestire questo fenomeno, l’Italia ha cercato di attuare una politica non di assimilazione ma di integrazione, così da permettere ad ognuno di apprendere la nuova lingua e le nuove usanze pur mantenendo la sua cultura identitaria, spesso legata a realtà totalmente differenti da quella occidentale (basti pensare al continente sud americano e quello africano), ma siamo davvero sicuri sia così?

Per rispondere a questa domanda bisogna operare una breve riflessione sul concetto di “italianità”. Cosa significa essere Italiani oggi? Figli del fascismo e del capitalismo, quella italiana è innegabilmente una cultura anche xenofoba che vede nello straniero una minaccia alla propria integrità nazionale. Così qualche anno fa “l’invasore” era costituito dai cittadini cinesi, soppiantati poi dai “ladri e zingari” albanesi e rumeni per arrivare infine al “n****” africano e allo “spacciatore” tunisino. Il pregiudizio diviene così la forma di difesa prediletta dell’antico impero italico di fronte a un mondo che muta, si evolve, supera i confini nazionali e getta l’uomo nella foresta della multiculturalità. L’ Italiano è quindi colui che, naufrago di un paese ormai alla deriva, cerca un appoggio nella tradizione culinaria, sportiva, religiosa e rifiuta drasticamente qualsiasi elemento che possa destabilizzare le sue certezze. Possiamo indicare quindi l’Italiano come un individuo anonimo, mediocre, senza identità ma

che ne ricerca disperatamente una nei miti del passato, e ciò è dimostrabile da banali esempi di vita quotidiana. Vi sarà certamente capitato di sentire frasi come “Ah ma sei Albanese/ Rumeno? Sai che sembravi italiano?”, “Parli bene l’italiano per essere straniero”, “Sei più italiano tu di certi connazionali”, “Di che origini sei?” (domanda posta in relazione a tratti fisionomici differenti dall’immaginario comune), “Io non ho nulla contro di loro, basta stiano nel loro Paese”, ecc.

Tutte queste esclamazioni e domande apparentemente innocenti rivelano invece un tratto caratteristico della nostra educazione tipicamente fascista, ovvero una debolezza e fragilità ideologica di fondo, da cui scaturisce la fobia per il cambiamento, accompagnata da razzismo e odio. Offrono inoltre la testimonianza di come risulti ancora farraginoso il processo di accettazione dell’idea di un italiano diverso da quello che possiamo trovare nei film di Fellini, Totò o Fantozzi (non a caso, ad esempio, nella maggior parte delle profumerie la disponibilità di shades di un fondotinta risulta adatta solo per pelli chiare e olivastre e nei saloni di bellezza quasi nessun parrucchiere è in grado di offrire un servizio soddisfacente per clienti dai capelli afro poiché non sufficientemente preparato).

Da giovane studentessa di sinistra mi chiedo quindi se l’unico modo per preservare la nostra identità nazionale non sia rinunciare all’ italianità stessa, aprendoci alla commistione con tradizioni e usanze differenti e iniziando a contemplare l’idea che possa esistere un cittadino “italo-rumeno”, “italo-nigeriano”, “italo-peruviano”, “italo-cinese” senza necessariamente essere per questo “meno” italiano di altri e perciò aspettare 18 anni per entrare formalmente a far parte di una nazione (ricordiamoci infatti che spesso il giovane figlio di stranieri non ha mai visitato il paese di origine dei suoi genitori, sentendosi quindi lì un turista ma trovandosi al contempo nella condizione di estraneo in quella che dovrebbe essere casa sua, ovvero l’ Italia) . Mi chiedo se possa esistere un futuro per noi sia a livello politico sia a livello economico senza prima passare per una rivoluzione sociale. In fondo, come diceva Massimo d’Azeglio nel 1867, prima di riformare l’Italia dovremmo pensare a riformare gli Italiani.

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