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Missione terra: il paradiso sotto i nostri piedi che dobbia- mo salvare
AMBIENTE MISSIONE TERRA
IL PARADISO SOTTO I NOSTRI PIEDI CHE DOBBIAMO SALVARE
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VERONICA GUARISCO, 1D La perseveranza e l’impegno nell’inquinare ogni metro quadrato del nostro Pianeta sta portando a grandi risultati, come cancellare le monotone distese di verde sulla sua superficie ed accenderle di giallo o dipingere e decorare gli oceani con sostanze chimiche e fisiche tra le più svariate, un po’ di petrolio qui e qualche tonnellata di plastica lì. Il tanto celebre cambiamento climatico, che nelle nostre menti rimanda immagini di orsi polari affamati e bambini che trasportano catini di acqua in testa per kilometri, è arrivato puntuale. Il continente più colpito è forse l’Africa, ma ormai anche i sassi sanno che, per quanto il Mondo possa sembrarci grande, sempre un Mondo solo e limitato rimane, un sistema chiuso in cui nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma secondo leggi molto più vecchie di noi.
La Nigeria, ritenuto uno dei Paesi più ricchi del continente africano, deve la sua “fortuna” e la rapida industrializzazione degli ultimi decenni ai giacimenti di petrolio al largo delle sue coste. Tuttavia l’abbondanza di giacimenti di oro nero è anche la sua maledizione poiché ha dato vita a un clima politico sempre più corrotto e ha causato numerosi danni ambientali. Basti pensare che gli enormi profitti economici coinvolgono solo l’1% della popolazione, mentre la maggioranza patisce ancora la fame e manca di beni e servizi essenziali.
Il popolo Ogoni, stabilito sul delta del Niger, prova a difendere le sue terre e le sue acque sin dal 1956, quando i giganti del petrolio si sono stanziati nella regione per sfruttare gli imponenti giacimenti. Nel 2011, un rapporto dello United Nation Environment Programme (Unep) ha dimostrato come alcuni pozzi, utilizzati dai villaggi per bere, lavarsi e cucinare, contenessero livelli di benzene (idrocarburo cancerogeno) mille volte superiori le soglie ammesse in Nigeria (3 µg/L), tre volte la concentrazione ammessa in Italia, suscitando uno scandalo internazionale. Nel corso degli anni sono
state organizzate innumerevoli campagne per chiedere la regolamentazione dell’attività estrattiva, e tra le più significative fu il raduno organizzato nel 1994 da Ken Saro Wiwa, scrittore e poeta, a cui parteciparono 300.000 persone e costò la vita al promotore a seguito di un ingiusto processo.
La comunità Ikebiri, con il supporto di Friends of the Earth (FoE), nel 2018 ha avviato una causa a Milano chiedendo di essere risarcita per l’inquinamento delle sue terre causato, questa volta, da Eni e dalla sua controllata nigeriana Naoc: la causa si è conclusa con un accordo extragiudiziale i cui dettagli non sono noti, ma molti ritengono che Eni e Naoc abbiano di fatto ammesso le proprie responsabilità. A L’Aia, nei Paesi Bassi, un altro processo iniziato nel 2008 e conclusosi lo scorso 29 gennaio ha portato ad un chiaro pronunciamento della Corte d’Appello, che ha ordinato alla controllata nigeriana di Shell di compensare quattro contadini di Oruma e Goi, due villaggi del delta del Niger, per i danni causati alle loro terre dalle perdite degli oleodotti. Per la prima volta i singoli agricoltori che si sono visti portar via le loro fonti di sostentamento nel Delta del Niger stanno ottenendo giustizia. La notizia è stata accolta con entusiasmo tra gli attivisti ambientali in quanto potrebbe aprire una marea di ulteriori contenziosi contro la Shell e altre società coinvolte nell’esplorazione petrolifera nella regione.
Le linee guida del Governo nigeriano stabiliscono un tempo massimo di 24 ore per visitare il sito a seguito di una segnalazione di fuoriuscita, tuttavia secondo i dati raccolti da Amnesty International le società impiegano spesso delle settimane prima di recarsi a verificare. L’azienda Eni ha battuto ogni triste record lasciando trascorre 430 giorni prima di rispondere a una fuoriuscita nello stato di Bayelsa, facendo defluire per più di un anno il petrolio dall’oleodotto nelle paludi e nei fiumi vicini, conseguente contaminazione del terreno e dell’acqua utilizzata dalle persone per lavarsi e per bere.
Ci piace pensare che il vento stia cambiando e che l’umanità stia imparando a rispettare la propria Casa prestando attenzione a nobili progetti, pur ignorando spesso (talvolta involontariamente) le catastrofi che avvengono al di là del mare. Forse è ancora possibile che con l’impegno di molti si riesca a rimediare ai danni causati da pochi. Quando prenderemo coscienza del fatto che viviamo tutti qui e che dobbiamo remare tutti dalla stessa parte per farcela, allora riusciremo davvero a salvare il nostro Pianeta e dimostreremo ai numerosi portatori di paraocchi che il merito è esattamente di tutti quei piccoli, determinati, folli ottimisti che non credono nel “prima o poi” ma che ogni giorno cercano di abbattere il muro dell’indifferenza.