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Il peccato originale

ATTUALITÀ IL PECCATO ORIGINALE

LUCA SARACHO, 3F Nel mondo del sensibile tutto scorre, ogni cosa è in costante evoluzione. In linea con la più celebre massima di Eraclito, “tutto fluisce”, e io oserei dire “tutto si degenera” dal deperimento delle carni, fino allo snaturamento degli ideali. È precisamente in questo degrado generalizzato, che coinvolge sia il reale che l’ideale, che sorge la contraddizione del moderno progressismo: un movimento storicamente a favore dell’uguaglianza universale nelle sue più svariate sfaccettature, sta diventando sempre più una corrente, e in alcuni casi persino un culto, che predica la superiorità di certi gruppi di individui ai danni di altri, attraverso la demonizzazione del capro espiatorio. Il progressismo, a tal merito, è un caso particolarmente lampante di come un’idea possa facilmente essere convertita nel proprio contrario, di come l’uomo possa essere tentato di perpetrare gli stessi mali contro i quali un tempo si era così veementemente scagliato. In tale maniera, movimenti nati sul concetto di uguaglianza di genere ed emancipazione femminile si stanno inesorabilmente tramutando in associazioni fortemente sessiste e misandriche, e tra le folte schiere di tutti coloro che, giustamente, si oppongono alla discriminazione razziale si stanno facendo sempre più spazio coloro che vedono come unica possibilità per una società migliore l’abolizione di tutto ciò che l’Occidente ha rappresentato e partorito per secoli.

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Per quanto riguarda la questione del genere, vorrei proporre l’analisi di un libro che ha fatto parlare in molti negli ultimi mesi. Si tratta del “celeberrimo capolavoro” della francese Pauline Harmange, pubblicato per la prima volta sul finire dell’agosto dell’anno scorso, col titolo originale Moi, les hommes, je les déteste, tradotto in italiano da Garzanti come Odio gli uomini. Al che mi si potrebbe obiettare, di primo acchito, che si tratta dell’ennesimo titolo sensazionalistico e provocatorio, che ha il solo scopo di attirare l’attenzione del lettore per permettergli invece di riflettere su importanti tematiche, promuovendo sane soluzioni all’insegna dell’uguaglianza. La realtà dei fatti, tuttavia, si scontra fortemente con questa posizione. Nessun titolo, a mio parere, possiede maggiore capacità di sintetizza-

re il contenuto in tre uniche parole: Odio gli uomini. L’intero libro è infatti un denso concentrato di misandria e discriminazione allo stato puro, in cui gli uomini vengono ripetutamente denigrati in virtù di una sola ed inaccettabile colpa: l’essere essi stessi uomini. “Odiare gli uomini, in quanto gruppo sociale e spesso anche in quanto individui, mi riempie di gioia” si legge testualmente in questo manifesto della deriva radical-femminista dei giorni nostri. O ancora “Dai, mi butto, ve lo confesso: io odio gli uomini. Ma proprio tutti? Sì, tutti. A priori ne ho un’opinione molto bassa”. In questo caso, il capro espiatorio in questione è l’Uomo, senza distinzione, il quale, secondo vera e propria kalokagathia, è sistematicamente indicato come “essere violento, egoista, pigro e vigliacco”, a contrasto dicotomico con la “sorellanza” femminile. Ebbene, chi a questo punto vorrebbe ancora trovare del positivo nel movimento ideologico da cui questo capolavoro è stato generato, potrebbe sostenere che Pauline rappresenta una piccola ed estrema branca che, in quanto tale, è unanimemente rigettata dallo stesso movimento di cui fa parte. Ma allora non si spiegherebbe come le entusiastiche recensioni di importanti testate giornalistiche italiane abbiano promosso la pubblicazione di questo libro: “Un libricino prima confidenziale, diventato pamphlet, poi manifesto e infine un grido di liberazione” – il Messaggero; “Quasi una chiamata alle armi: se le donne vogliono qualcosa se la devono andare a prendere” – il Foglio; “Un caso letterario” – la Repubblica.

Per ciò che concerne invece il tema del razzismo, o per meglio dire del progressista anti-razzismo, preoccupanti aggiornamenti stanno incessantemente arrivando da oltreoceano. È infatti notizia di poche settimane fa che Coca Cola abbia promosso fra i suoi dipendenti un corso online organizzato da Robin DiAngelo, la radicale e controversa autrice di “White fragility”, finalizzato a, letteralmente, “essere meno bianchi”. Secondo la delirante teoria di DiAngelo, essere meno bianchi significherebbe essere “meno oppressivi, meno arroganti, meno sicuri, meno difensivi, meno ignoranti, più umili”, ma soprattutto “smetterla con la solidarietà fra bianchi”. Le eminenti personalità dell’avanguardia progressista sono così passate dall’additare il razzismo e il pregiudizio razziale come il cancro della società, come effettivamente lo sono, a far utilizzo del medesimo pregiudizio e stereotipo contro il Bianco, l’Occidentale, il capro espiatorio colpevole di un -assurdo- male ancestrale. Ciò che tuttavia fa rabbrividire è osservare come questa radicale e totalitaria ideologia non solo sia stata imbracciata da una delle principali multinazionali a livello globale, ma si stia silenziosamente insinuando anche nelle istituzioni scolastiche. Un esempio di ciò può essere rappresentato da un grave episodio avvenuto il mese

scorso, in cui il preside della East Side Community School, liceo situato nel quartiere di East Village a Manhattan, New York, ha inviato alle famiglie un grafico che esortava i ragazzi a “smantellare il regime della bianchezza”. Tale grafico presentava otto diversi livelli di “essere bianco”, che variavano da “white supremacist” a “white traitor”, fino ad ascendere al sommo livello anelabile da un caucasico, ovvero quello di “white abolitionist”. Quest’ultimo termine, in particolare, indicherebbe colui che “cambia le istituzioni (che, si deve ricordare, secondo queste strampalate teorie sono irrimediabilmente razziste, dalla prima all’ultima), smantella la bianchezza e impedisce che la bianchezza si possa riaffermare nuovamente”.

Il fine ultimo di tutte queste iniziative è chiaro: fare sentire in colpa l’uomo bianco per tutti i mali che lui, non in quanto individuo unico e irripetibile con proprie caratteristiche psicologiche, ma lui in quanto appartenente alla propria etnia e al proprio sesso, ha compiuto. L’obbiettivo è quello di suscitare nelle persone la cosiddetta “white guilt” (ovvero la “colpa dei bianchi”), che si traduce nel brutale pentimento di essere nati nel modo in cui si è nati, con la carnagione con cui si è nati. Lo scopo di tale pazzia è quello di far loro rinnegar “’l seme di lor semenza e di lor nascimenti”, rendendo con queste poche parole omaggio al grande maestro della nostra letteratura e alludendo alla condizione a dir poco infernale in cui ci ritroviamo immersi. Un inferno in cui la storia europea sta vivendo un processo di revisione all’insegna del politicamente corretto e della falsa inclusività. Esempio di ciò può essere rappresentato dalla serie storica per bambini “The Story of Britain” prodotta dalla BBC, in cui sin dalle origini più remote delle popolazioni dell’isola, sono stati rappresentati fabbri neolitici neri, soldati anglosassoni neri, feroci vichinghi neri: tutto rigorosamente permeato da “inclusività”. Ma già nel 2018 sempre la BBC, in collaborazione con Netflix, aveva prodotto una miniserie in otto episodi intitolata Troy: Fall of a City, nel quale i personaggi omerici di Achille, Patroclo e Zeus sono stati interpretati da attori neri: tutto ancora rigorosamente all’insegna del politically correct.

Il giovane Amleto, in uno dei più memorabili soliloqui della letteratura mondiale, si chiese “To be, or not to be – that is the question”, “Essere o non essere, questo è il problema”. Queste parole, estratte da una riflessione esistenziale sulla vita e sulla morte, possono essere drammaticamente proposte al giorno d’oggi, in una società in cui coloro che professano l’uguaglianza basano paradossalmente il loro operato sulle più razziste e sessiste delle convinzioni, accusando l’uomo bianco del suo peccato originale: esistere. Tutto fluisce, tutto si degenera – questo è il problema.

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