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L’EMANCIPAZIONE FEMMINILE IN ITALIA
di Margherita Ingoglia
La condizione della donna rappresenta uno degli argomenti storici più discussi, il cui dibattito risulta ancora particolarmente attuale. Le donne oggi sono padrone di se stesse e godono dell’eguaglianza giuridica e di tutti gli stessi diritti degli uomini ma non sempre è stato così (e non lo è tutt’oggi in tanti Paesi). La storia politica femminile italiana è una storia recente. Alla fine del XIII secolo, le donne europee non godevano dei diritti civili né politici, concessi solo a parti ristrette della popolazione. Il messaggio di libertà ed uguaglianza della Rivoluzione Francese, al quale le donne aderirono con entusiasmo, introdusse la questione dell’estensione del diritto al voto alle donne. Pur non essendo state prese in considerazione le rivendicazioni della Rivoluzione, si aprì un dibattito politico nuovo che spianerà la strada alle successive lotte per il riconoscimento dei diritti civili, politici e giuridici delle donne. In Italia, il lungo cammino verso la parità e la piena cittadinanza politica, abbraccia il periodo che va dall’Unità d’Italia ai nostri giorni ovvero dalla conquista del voto alle più recenti politiche di pari opportunità. Nel Codice di Famiglia del 1865 le donne non avevano il diritto di esercitare la tutela sui figli legittimi, né tanto meno quello ad essere ammesse ai pubblici uffici; se sposate, non potevano gestire i soldi guadagnati con il proprio lavoro, perché ciò spettava al marito. Alle donne veniva ancora chiesta l’”autorizzazione maritale” per donare, alienare beni immobili, sottoporli a ipoteca, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali, né potevano transigere o stare in giudizio relativamente a tali atti. L’articolo 486 del Codice Penale prevedeva una pena detentiva da tre mesi a due anni per la donna adultera, mentre puniva il marito solo in caso di concubinato. Nel Risorgimento, il dibattito sui diritti delle donne, la loro educazione ed emancipazione fu molto provinciale; molti degli “illustri pensatori” di quest’ epoca si limitarono a ribadire la subordinazione della donna. Per citare Gioberti (primo presidente della Camera dei deputati del Regno di Sardegna): “La donna, insomma, è in un certo modo verso l’uomo ciò che è il vegetale verso l’animale, o la pianta parassita verso quella che si regge e si sostenta da sé”. Per Rosmini (famoso teologo e filosofo): “Compete al marito, secondo la convenienza della natura, essere capo e signore; compete alla moglie, e sta bene, essere quasi un’accessione, un compimento del marito, tutta consacrata a lui e dal suo nome dominata”. Simili teorie furono alla base del diritto di famiglia dell’Italia Unita, riformato soltanto nel 1975. Nell’Italia Unita le donne vennero quindi escluse dal godimento dei diritti politici. Nel 1966 la contessa di Belgioioso, patriota e letterata, scriveva in proposito: “Quelle poche voci femminili che si innalzano chiedendo agli uomini il riconoscimento formale delle loro uguaglianza formale, hanno più avversa la maggior parte delle donne che degli uomini stessi. Le donne che ambiscono a un nuovo ordine di cose, debbono armarsi di pazienza e contentarsi di preparare il suolo, seminarlo, ma non pretendere di raccoglierne le messi”. Infatti, la Camera dei deputati del Regno d’Italia respinse la proposta dell’On. Morelli volta a modificare la legge elettorale che
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escludeva dal voto politico e amministrativo le donne al pari degli “analfabeti, interdetti e detenuti” ed a concedere quindi alle donne tutti i diritti riconosciuti ai cittadini. Nonostante Anna Maria Mozzoni avesse fondato nel 1879 una Lega promotrice degli interessi femminili che si batteva per il diritto di voto alle donne, le prime femministe italiane si interessarono molto di più alle questioni sociali, anche per influenza del neonato Partito Socialista; effettivamente la condizione socioeconomica delle donne fra fine ‘800 e primi del ‘900 era di grande disparità. Lo stipendio delle lavoratrici era in genere poco più della metà di quello dei lavoratori di sesso maschile; poiché anche il lavoro dei bambini era diffuso e sottopagato, prima della prima guerra mondiale furono emanate alcune leggi per tutelare “donne e fanciulli”, quali soggetti deboli e sfruttati. I salari più bassi delle donne venivano percepiti dagli altri lavoratori come una forma di concorrenza sleale e quindi le prime proposte di legge cercavano di garantire un minimo salariale alle lavoratrici, anche per “mantenere sul mercato” la manodopera maschile. Lo Stato mostrava di voler favorire al massimo il rientro delle donne in quella che riteneva essere la loro sede naturale: la casa. D’altronde nell’enciclica papale Rerum Novarum, uscita in quegli anni, era scritto: “Certi lavori non si confanno alle donne, fatte da natura per i lavori domestici, i quali grandemente proteggono l’onestà del debole sesso”. La legge del 1902 non riduceva nemmeno il divario salariale con gli uomini: le lavoratrici fra i 16 e i 21 anni, venivano equiparate in capacità e abilità (e quindi in stipendio) ai lavoratori con meno di 15 anni e questa era l’unica prescrizione in materia di stipendi. Sul fronte dell’istruzione, venne permesso soltanto nel 1874 l’accesso delle donne ai licei e alle università, anche se in realtà continuarono ad essere respinte le iscrizioni femminili. Ventisei anni dopo, nel 1900, risultano comunque iscritte all’università in Italia 250 donne, 287 ai licei, 267 alle scuole di magistero superiore, 1178 ai ginnasi e quasi 10.000 alle scuole professionali e commerciali; il titolo di studio però non garantiva ancora l’accesso alle professioni. Nel 1881 infatti una sentenza del Tribunale annullò la decisione dell’Ordine degli avvocati di ammettere l’iscrizione di Lidia Poët, laureata in legge e procuratrice legale. E’ con la prima guerra mondiale che le donne escono dal tradizionale ruolo di “angelo del focolare”; con gli uomini al fronte esse cominciarono a prenderne il posto nelle attività lavorative pubbliche e private e sono proprio questi venti di cambiamento che il fascismo volle disperdere. Esso inaugurava una sua politica sul tema dei diritti delle donne. Le donne vennero spinte, per quanto possibile, tra le mura domestiche, secondo lo slogan: “la maternità sta alla donna come la guerra sta all’uomo”. Le donne prolifiche venivano insignite di apposite medaglie e il controllo delle nascite era formalmente vietato dal Codice Rocco che lo considerava un “attentato all’integrità della stirpe”. Nel 1925 con la legge Acerbo viene concesso il diritto al voto amministrativo ad alcune categorie di donne ma subito dopo fu cancellato il diritto appena riconosciuto. Il Codice di Famiglia venne inasprito dal fascismo: le donne vennero poste in uno stato di totale sudditanza di fronte al marito che poteva decidere autonomamente il luogo di residenza ed al quale le donne dovevano eterna fedeltà, anche in caso di separazione. Sul piano economico tutti i beni appartenevano al marito, ed in caso di morte venivano ereditati dai figli, mentre alla donna spettava solo l’usufrutto. Il 31 gennaio del 1945, il Consiglio dei ministri presieduto da Ivanoe Bonomi emanò un decreto che riconosceva il diritto di voto alle donne. Il 10 marzo 1946 si tennero le prime elezioni amministrative in cui fu riconosciuto il suffragio femminile universale. Il 2 giugno 1946, i cittadini italiani, sia uomini che donne, furono chiamati a votare per scegliere tra repubblica e monarchia ed eleggere la Costituente, un’assemblea con il compito di redigere la nuova Carta Costituzionale. All’Assemblea Costituente furono elette ben 21 donne e quattro di queste entrarono a far parte della Commissione dei 75 incaricata di redigere la Costituzione. Essa garantiva l’uguaglianza formale fra i due sessi, ma di fatto restavano in vigore tutte le discriminazioni legali vigenti durante il periodo precedente, in particolare quelle contenute nel Codice di Famiglia e il Codice Penale; il panorama sociale rimase pressoché invariato, anche per la vigenza del codice civile del 1942 emanato in epoca fascista ed espressione dei valori patriarcali fatti propri dal regime. A partire dagli anni Cinquanta, in particolare, i giuristi svolsero un delicato compito di “defascistizzazione” delle norme codicistiche in contrasto con la Costituzione. La Costituzione afferma: • L’ uguaglianza davanti la legge • L’ uguaglianza morale giuridica dei coniugi • La protezione della maternità • La parità nel lavoro • La parità nella partecipazione politica • La parità all’accesso delle cariche pubbliche

La costituzione si configurò quindi come l’ architrave su cui continuare ad edificare. Ulteriori passi in avanti volti a migliorare la condizione femminile furono rappresentati dalla legge Merlin che aboliva la prostituzione e dalla legge che regolava il lavoro domestico. Tuttavia, nonostante le riforme legislative e il lavoro dei giuristi, la condi-
zione femminile nei primi anni Sessanta non mutò radicalmente, l’accesso alla maggior parte dei posti pubblici risultava ancora preclusa alle donne e, come spesso accadde nella storia italiana, fu il sistema giudiziario a supplire alle lentezze del legislatore. In tale contesto si colloca la vicenda di Rosa Oliva, che si era vista rifiutare l’accesso alla carriera prefettizia in quanto donna. La giovane, difesa dal costituzionalista Costantino Mortati, presentò ricorso contro il Ministero dell’Interno; la Corte Costituzionale dichiarò l’illegittimità della norma che impediva alle donne l’accesso alle principali carriere e uffici pubblici. Si trattò di una sentenza storica nel lungo percorso sul fronte della parità dei sessi. Ulteriore vicenda emblematica del mutato clima culturale della società italiana fu quella di Giulia Occhini, compagna del popolare ciclista Fausto Coppi, arrestata per adulterio nel 1954. Il codice penale vigente all’epoca era stato emanato negli anni Trenta ed era quindi anch’esso, al pari di quello civile, espressione di valori propri della morale fascista e non più in linea con lo spirito dei tempi. Anche in questo caso, dinanzi ai ritardi del legislatore, intervenne la Corte Costituzionale dichiarando l’illegittimità dell’articolo 559 del codice penale, considerato discriminatorio rispetto al principio di uguaglianza morale e giuridica dei coniugi affermato nell’articolo 29 della Costituzione. Un ulteriore caso che condizionò l’opinione pubblica italiana fu quello di Franca Viola, una giovane ragazza siciliana che all’età di 17 anni fu rapita e violentata dal fidanzato. Era costume dell’epoca che, in tali casi, la donna sposasse il proprio rapitore, al fine di salvare il proprio onore e quello della famiglia. La legge stessa, all’articolo 544 del codice penale, prevedeva l’istituto del matrimonio riparatore, secondo cui il reato si estingueva se la persona offesa avesse sposato l’autore del reato. Il rifiuto della ragazza di sposarsi sollevò molte polemiche in Italia, ponendo nuovamente l’attenzione sul tema dell’emancipazione femminile.
Il dibattito sulla condizione femminile in Italia subì una brusca accelerazione. Rispetto alle lotte di inizio Novecento, finalizzate all’ottenimento del diritto di voto e di pari condizioni salariali, le proteste degli anni Settanta ebbero a oggetto il superamento del tradizionale modello familiare ereditato dalle generazioni precedenti, che relegava la donna a un ruolo di secondo piano nella società, subalterno rispetto a quello degli uomini. I movimenti femministi degli anni Settanta miravano a dar vita a una battaglia culturale che travolgesse i vecchi stereotipi; sulla spinta dei grandi movimenti di massa, il legislatore introdusse riforme epocali, tra cui la legge sul divorzio e quella sull’interruzione di gravidanza. La riforma più importante, però, fu quella riguardante il diritto di famiglia con la legge n. 151 del 1975. Le modifiche al diritto di famiglia erano avvertite come necessarie negli anni Settanta in quanto l’impianto codicistico rispecchiava un concetto di famiglia e di rapporti tra coniugi che appariva anacronistico e superato. Il legislatore, rifacendosi all’articolo 29 della Costituzione, apportò modifiche sostanziali alla normativa in materia, mutando radicalmente il concetto di famiglia. Tra i punti più importanti della riforma vi fu il riconoscimento della piena parità giuridica e morale dei coniugi e dell’eguaglianza giuridica tra figli legittimi e illegittimi, riconoscendo a questi ultimi i diritti di successione. Fu istituita la comunione legale dei beni tra i coniugi come regime patrimoniale della famiglia in mancanza di diversa disposizione; venne abolita la patria potestà e sostituita con la potestà genitoriale condivisa tra entrambi i coniugi. Scomparve l’istituto della dote e del patrimonio familiare. Il cammino dell’emancipazione è sicuramente ancora lungo e da superare sono senza dubbio ancora molti limiti sociali, culturali ed economici, marcati soprattutto in alcune parti del mondo. Si tratta di un tema particolarmente complesso che può essere analizzato da più angolazioni, coinvolgendo i settori dell’antropologia, della storia, del diritto.
Da Platone che sosteneva che non c’era posto per la donna nella buona organizzazione sociale, e dalla concezione che vede il diritto al voto alle donne come favoritismo nei confronti degli uomini sposati ai quali veniva così concesso doppio voto (dando per scontato che le mogli si uniformassero al pensiero politico del consorte) siamo giunti ad oggi, in cui per la prima volta nella storia d’ Italia, una donna ricopre una delle massime cariche come la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Impensabile che una donna potesse arrivare a gestire la “res pubblica”.
