Martedì, 19 maggio 2020
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Prossima uscita il 16 giugno 2020
Caritas Attivo il numero antiusura a crisi sta creando impoverimento e difficoltà economiche a numerose famiglie e a L tante categorie di lavoratori. In questo conte-
Inserto mensile della diocesi di Macerata Tolentino-Recanati-Cingoli-Treia A cura della redazione EMMETV Via Cincinelli, 4 - 62100 Macerata
sto il pericolo del ricorso all’usura si fa sempre più concreto, anche nel nostro territorio. L’attività del Servizio antiusura della Caritas diocesana è stata sospesa per l’impossibilità di gestire i necessari contatti personali. Tuttavia, in attesa di poter riprendere il servizio, viene messo a disposizione di chi versa in situazione di bisogno, un servizio di “ascolto telefonico” al quale far pervenire le proprie necessità. Il numero da contattare è il + 39 351 2902 524. Ogni segnalazione verrà trattata con rigorosa riservatezza.
Maceratasette
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Inserto di
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Fase 1. Marconi: ciò che abbiamo vissuto non va rimosso, anche lì è passato e ha operato il Signore
lutto
«Orme» di Dio già tracciate
Morta il 30 aprile la mamma del nostro vescovo
«Se non cresciamo nella coscienza del nostro limite, rischiamo di restare invischiati nella fede superstiziosa nell’onnipotenza della scienza» DI
NAZZARENO MARCONI *
I
18 maggio 2020: Messa delle 7 all’abbazia di Fiastra
ipotesi rilevanti per la vita quotidiana. È significativo che fino a ieri, quando succedevano disastri o malattie, subito corressimo a cercare cosa non aveva funzionato, o di chi era la colpa, nella
convinzione che se tutto funziona e ognuno fa correttamente la sua parte, tutti saranno felici e vivranno per sempre. Pensavamo che: se il mondo funziona non abbiamo bisogno di essere salvati e
quindi neppure di un Salvatore. Tanti purtroppo continuano a ragionare così anche riguardo a questa epidemia, da ciò prendono forza le teorie complottiste che cercano “chi ha sbagliato”, chi ha
celebrazioni A San Giorgio Messa del mattino ol cessare del blocco delle celebrazioni con C presenza dei fedeli, la Messa torna a essere celebrata nella chiesa di San Giorgio a Macerata alle ore 7.30 dei giorni feriali e alle 10.30 della domenica. La trasmissione sarà curata come di consueto da EmmeTv Canale 89. La celebrazione sarà visibile anche sul canale YouTube e sulla pagina Facebook della diocesi. Non verrà più trasmessa quindi dall’episcopio la Messa del vescovo. In qualche occasione sarà ancora monsignor Marconi a celebrare (come ieri, ad esempio), ma il vescovo si ripromette soprattutto di tornare a essere presente nelle parrocchie, celebrando lì l’Eucaristia.
I Maggio all’Ospedale di Macerata: omaggio ai sanitari morti per Covid l 1° maggio di fronte all’ospedale di Macerata si è svolta in modo semplice ma solenne l’iniziativa “Forza e coraggio” Ipromossa dalla Questura e dedicata ai medici, agli infermieri
tributo
n questa complessa storia del Covid, l’attuale cosiddetta “Fase due” è in realtà solo l’inizio di un tempo lungo segnato ogni giorno da un cambiamento che sarà lento e graduale. Se risultava facile dire: «Tutto è chiuso», pur facendo arrabbiare molti, definire ora cosa si possa o non si possa gradualmente fare e soprattutto come vada fatto, sarà più complesso e temo che farà arrabbiare un numero ancora maggiore di persone. Infatti, se nessuno può mangiare, siamo tutti poveri eguali, ma se qualcuno può mangiare carne e qualcun altro solo formaggio, il secondo griderà certo alla discriminazione, anche se mangiare formaggio è certo preferibile al digiuno! Non voglio fare il difensore del Governo, ma cerco di essere oggettivo, come tutti dovremo sforzarci di fare nei prossimi mesi. La fine della “Fase uno”, comporta il fatto che un tempo sia oggettivamente chiuso e quindi su quel tempo si possa iniziare a fare una riflessione spirituale e pastorale seria e matura. Vorrei aprire la riflessione ribadendo un dato della fede: Dio trae sempre del bene anche dalle cose più negative. Perciò la “Fase uno” non deve essere rimossa o cancellata: anche lì è certamente passato lo Spirito del Signore e ha operato. Sta a noi riconoscere le tracce dello Spirito e l’insegnamento che ci ha lasciato; leggere le orme di Dio in questa storia conclusa. Ne abbozzo un paio, invitando il lettore a trovarne altre che certo ci sono. La prima “orma” mi sembra la rinnovata coscienza del nostro limite. O almeno la possibilità concreta di imparare di nuovo a riconoscerci limitati. Infatti la storia italiana recente, priva di guerre e segnata da un notevole progresso in campo tecnico e soprattutto medico, ci aveva abituati a rimuovere l’idea del limite e della morte come
e agli operatori sanitari che hanno perso la vita prodigandosi per i malati di coronavirus. È stato anche reso omaggio all’agente Pasquale Apicella, della Questura di Napoli, ucciso nei giorni precedenti mentre tentava di bloccare due rapinatori. Presenti il Questore Pignataro, il vescovo Marconi e il direttore dell’Area Vasta 3 Maccioni. È stato eseguito l’inno di Mameli.
creato il virus per conquistare il mondo, o anche la certezza granitica che presto troveremo un vaccino perfetto che farà tornare tutto come era prima. In realtà in natura i virus mutano, senza bisogno di ricercatori impazziti che vogliono sterminare il mondo, per cui in futuro potremmo avere a che fare con un Covid–3 o un Vattelapesca–1. Non vorrei passare per menagramo, ma la certezza “scientifica” che si troverà un vaccino perfetto per il Covid–2 non esiste, anche se constato una crescente “fede” nella infallibilità ed onnipotenza della scienza e degli scienziati, che di realmente “scientifico” mi sembra davvero avere molto poco. Se non cresceremo un po’ nella coscienza del nostro limite, anche dei limiti della scienza e nella certezza veramente “scientifica” che l’uomo è un essere mortale, il nostro mondo dopo aver superato la fede superstiziosa nella onnipotenza della magia, potrebbe restare invischiato in una nuova fede superstiziosa: nella onnipotenza della scienza in grado di darci l’immortalità. La seconda orma di Dio è stata una preziosa rivelazione della differenza tra virtuale e reale. Il fascino del mondo virtuale creato dai computer ci aveva sborniato, facendoci credere che si potesse vivere solo di amici di Facebook, di like, di emoticon, di video su Whatsapp… La “Fase uno” ci ha invece in pochi mesi riempito di nostalgia delle cose e delle persone che non solo si vedono in uno schermo, ma si toccano e si abbracciano. Un salutare bagno di realtà: l’umanità non è un terminale elettronico! La presenza viva, “live” come dicono i computer, è molto più concreta di un “live” elettronico. C’è un livello dello spirito dell’uomo e dello Spirito di Dio che passa solo nell’incontro della carne e del sangue. Fino a oggi faticavo a spiegare quanto fosse importante la materia nella celebrazione dei sacramenti: l’acqua del Battesimo, l’olio dell’Unzione, il pane e vino dell’Eucaristia… Oggi per tutti è chiaro che dire: «Dio per me si fa pane» invece che fare fisicamente la comunione, sono davvero esperienze spirituali molto diverse. Se a volte stavamo a Messa, passivi e vuoti come si sta davanti alla tv, ora abbiamo sperimentato la differenza tra guardare ed essere comunità che celebra. Tutte orme preziose di Dio nella nostra storia che spero non dimenticheremo. * vescovo
a prova più dura che ha accompagnato la reclusione per l’emergenza coronavirus è certo stata l’impossibilità di un degno accompagnamento alla morte e alla sepoltura dei propri cari, sia vittime del contagio, sia deceduti per qualsiasi altra causa. È l’esperienza che ha colpito anche il vescovo Nazzareno Marconi, impossibilitato a tornare in famiglia in Umbria quando si è capito che la mamma Emiliana era prossima alla fine, e con l’aggiunta amara che la morte è avvenuta pochissimi giorni prima della fine del divieto di celebrare i funerali. Come racconta il fratello del vescovo, Massimo, «dopo il decesso lo strazio, perché nonostante non ci fosse alcun sospetto di infezione da Covid, nella nostra zona non si fosse registrato alcun caso e lei non uscisse di casa da due anni, la salma non ha potuto essere toccata, ma solo infilata in un sacco di plastica nero e deposta in una bara immediatamente sigillata. Il dolore è stato lenito solo dalle parole di Nazzareno: “Tranquilli, il vestito per il Paradiso glielo regalerà la Madonna”». Il vescovo, come ogni altro parente non convivente, ha potuto essere presente solo per via telematica: «Abbiamo vissuto una serata di preghiera con lui e il primo maggio Nazzareno ha celebrato una Messa alla quale abbiamo assistito dalle Emiliana Marconi nostre case». Questo il primo maggio, quando monsignor Marconi ha anche puntualmente celebrato l’Eucaristia diffusa dai media diocesani e si è recato poi, assieme al questore, all’ospedale di Macerata per un gesto di ringraziamento a tutti i sanitari. Uno stile e una forza d’animo di cui si coglie la radice nell’esempio della madre. Ricorda ancora il fratello Massimo: «Negli ultimi mesi, in cui ha sofferto molto, ha dato prova di una serenità e una fede per le quali non trovo paragoni, ma tutta la sua vita è stata all’insegna della croce. Rimasta vedova a 27 anni – io avevo 48 giorni –, senza lavoro, con tre figli da far crescere, non ha mai perso fiducia nella Provvidenza che non ci ha mai abbandonato. La ricordo che schiacciava una fettina di carne per farla apparire più grande e poi la divideva tra noi, mentre lei diceva di non avere fame e si accontentava di una fetta di pane e olio». E ancora: «Da lei due grandi lezioni: il suo modo di affrontare il dolore e l’umiltà verso tutti. Il giorno della morte ho dovuto ricaricare il cellulare quattro volte per le tantissime telefonate ricevute, tutte accomunate nel riconoscimento di questo suo modo di essere». Chiedo a Massimo se ha una frase che gli è rimasta particolarmente impressa: «Sì: “I soldi vanno ammazzati da piccoli, perché da grandi comandano loro”, incoraggiandoci a una vita senza rincorsa a lauti stipendi o a posizioni di prestigio». Piero Chinellato
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Smart working: dalla rivelazione all’indigestione Portando il lavoro in casa la vita privata è stata proiettata nel palcoscenico pubblico, ma l’ambiente domestico va protetto da invasioni inopportune DI
GIANCARLO CARTECHINI
S
ono sorprendenti questi giorni senza respiro. Giorni sfilacciati in cui ogni confine sembra smarrito, e l’orologio non serve più a distinguere tra lavoro e tempo libero, casa e ufficio, amici e colleghi. Benvenuti nel regno dello smart working. Regno im-
provvisato e confusionario, ma tant’è. Ci si arrangia come si può, tra connessioni non sempre all’altezza del compito, modem esausti che non riescono a districare il traffico familiare di lezioni online, call conference su Microsoft Teams, conversazioni via Skype, partite all’ultimo respiro di “Call of Duty” dei figli adolescenti. Parole che si comprendono a malapena, immagini che si bloccano deformandosi in stringhe confuse, interventi che si sovrappongono, e nessuno sa bene quando iniziare a parlare. Perché, al di là di tutto, l’esigenza prioritaria sembra quella di ricreare l’ambiente di prima, quello in cui negli uffici ci si poteva incontrare di persona, e nessuno aveva paura che l’organizzazione del lavoro
potesse sfuggire di mano. Diciamo la verità: questa trasformazione ci ha colto impreparati. Più che esplorare le nuove opportunità che il “lavoro agile” dovrebbe consentire, stiamo dando vita ad una brutta copia del lavoro di prima, con l’unica variante di una socialità impoverita. Probabilmente non poteva essere altrimenti. Lo sconvolgimento degli ultimi tempi è stato troppo grande per consentire adeguata lucidità di pensiero, le pressioni dettate dall’emergenza troppo forti per consentire una qualche forma di sperimentazione. Quando il tempo scorre nelle sue forme ordinarie e automatiche, dando vita ad un “mondo predisposto” – ha affermato il filosofo Salvatore Natoli – si insinua il ri-
schio di vivere senza pensare. Nel momento in cui si verifica un evento che spezza l’automatismo della vita sociale, e che potrebbe rappresentare una opportunità preziosa di cambiamento, molti si sentono perduti. Eppure le immagini che promuovono il lavoro agile sono tutte così rassicuranti, luminose… Un giovane uomo seduto di fronte ad una scrivania bianca, con un bambino in braccio sta prendendo appunti su un taccuino. In primo piano, appena sfuocati, due mattoncini Lego Duplo. Lo sguardo dell’uomo è concentrato, riflessivo; quello del bambino si sofferma curioso sui movimenti della mano del papà che scrive con la matita. Sono dei calcoli quelli che sta tracciando? O sta cercando di
mettere a fuoco una intuizione, l’embrione di un nuovo progetto pronto per essere trasferito sul MacBook acceso che attende in standby? Ecco, se fino a qualche mese fa ci avessero detto di immaginare come sarebbe potuto essere un lavoro svolto da casa, lo avremmo pensato probabilmente così: un lavoro proficuo svolto in un ambiente comodo, uno spazio opportuno attraverso cui esprimere il meglio di sé. Senza vincoli imposti, se non quelli che il lavoro stesso ci avrebbe dettato. E invece, per una curiosa legge del contrappasso – o per uno dei mille rivoli in cui si dirama la famosa legge di Murphy, quella secondo cui «se qualcosa può andar male, lo farà» – l’ambiente familiare, ai
Una situazione di smart working domestico
tempi del coronavirus, si è trasformato in una convivenza caotica a causa delle risorse digitali da centellinare, e i controlli a distanza più invasivi di quelli in presenza. Ci illudevamo di portare il lavoro in casa, e invece abbiamo proiettato la nostra vita privata nel palcoscenico pubblico del lavoro. La casa è una fonte preziosa di
pensieri e progetti, a patto che siano garantiti, in essa, un luogo e un tempo disconnessi, protetti da invasioni inopportune. Ma in fondo va bene anche così. E pazienza se per una volta si andrà a dormire tardi, accompagnati da un caffè leggero, per riflettere, scrivendo, su questo lavoro prezioso che ci è dato.