DIMMI CHE MI AMI - Le Dolomiti di Claudio Barbier

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DIMMI CHE MI AMI

Le Dolomiti di Claudio Barbier

EDIZIONI VERSANTE SUD | I RAMPICANTI
Monica Malfatti

Claude (Claudio) Barbier è stato, senza timore di smentita, uno dei più grandi arrampicatori solitari che le Dolomiti abbiano mai conosciuto.

Scontroso ma non arrogante, caratterizzato da una veemenza incompresa e da una gentilezza inespressa, Barbier possedeva un’etica ferma ma talmente garbata da evitare ogni scontro pubblico e ha inanellato durante le sue estati in Dolomiti –arrampicando praticamente senza sosta, ogni giorno – imprese visionarie.

Nel suo modo di scalare, solo e veloce, ha condensato vent’anni di profondi cambiamenti nello stile e nella storia dell’arrampicata moderna. Dal 1957, anno della sua prima apparizione in Dolomiti, al 1977, quando morì senza spiegazioni nella falesia di Freyr, in Belgio – dov’era nato e dove viveva quando non frequentava l’Italia – Claudio si è rivelato dirimente per tutto quello che sarebbe venuto dopo, ma non ha mai ottenuto il riconoscimento che meritava.

Dal primo concatenamento in velocità nella storia dell’arrampicata – siglato da Barbier nel 1961 sulle cinque pareti nord delle Tre Cime di Lavaredo – all’apertura dell’indomita Via del Drago in Lagazuoi, questo libro intende ripercorrere le tracce lasciate da Claudio sulle montagne che lui stesso amava alla follia. L’intento è quello di rendere finalmente giustizia alla sua impressionante attività e scongiurare il rischio, oltre che l’errore, di relegare la sua figura così decisiva all’oblio.

MONICA MALFATTI è nata a Trento il 29 aprile 1996, ama la montagna per osmosi e scrivere da quando ne è capace.

Laureata in Filosofia e linguaggi della modernità, lavora da freelance nell’ambito della comunicazione, collaborando con diverse testate giornalistiche e occupandosi di vari uffici stampa.

Nel 2020 ha pubblicato Destino ridicolo. Fabrizio De André ascoltato da una filosofa (Marco Serra Tarantola Editore).

Dal 2022 è addetta stampa per il Soccorso Alpino e Speleologico Trentino. Dal 2023 è Accompagnatrice di Media Montagna.

Copertina: Claudio nel 1973. Foto: Eddy Abts

Retro: Claudio sulle Dolomiti, 1965. Foto: Chris Bonnington

DIMMI CHE MI AMI

2024 © VERSANTE SUD S.r.l.

Via Rosso di San Secondo, 1 – Milano

Per l’edizione italiana tutti i diritti riservati

1ª edizione marzo 2024

www.versantesud.it

ISBN: 978 88 55471 855

MONICA MALFATTI

DIMMI CHE MI AMI

Le Dolomiti di Claudio Barbier

EDIZIONI VERSANTE SUD | COLLANA I RAMPICANTI
4 Monica Malfatti DIMMI CHE MI AMI INDICE Introduzione 09 Le Dolomiti 10 Gli inizi dell'alpinismo in Dolomiti 16 La fine di un'era, l'inizio di un'altra 26 Libera, artificiale 28 Prologo 33 Le prime volte 35 Alla ricerca della cordata perfetta 38 Solo 40 Philipp-Flamm (e Barbier, e Marchart) 42 Solo e veloce 45 La storia arrampica accanto 46 Imparare, ripetere 48 La rincorsa 50 Il salto 52 Il primo concatenamento 56 Chiudere il cerchio 58 Fama? 60 La più bella 63 “Barbier mona!” 65 Les américains e altri incontri (e scontri) 68 L'inutile e la sua conquista 72 Strapiombi e draghi 77 Bistecche 78 Inutile o impossibile? 82 Rivoluzione 83 Chiodi gialli 88 Lunga vita al drago 91 “L'inaspettato che succede” 93 Epilogo 97 Perché? Da una relazione di Anna Lauwaert 99 Come? 106 Bibliografia e sitografia 108 Attività alpinistica di Claudio Barbier in ordine cronologico 109 Ringraziamenti 142

Voglio dedicare questo mio lavoro a Cesare Maestri ed Ermanno Salvaterra, scomparsi rispettivamente mentre iniziavo a scriverlo e mentre lo terminavo. Perché credo nel destino che governa le coincidenze. E credo anche, infine, nella riconciliazione.

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Meglio leggere un buon libro che arrampicare male.

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INT r O duz ION e

Parlare di Claudio Barbier equivale a parlare di Dolomiti. Ed è vero pure il contrario: parlare di Dolomiti equivale a parlare di Claudio Barbier. La ragione è presto detta: le montagne non sono mai di nessuno e appartengono sempre a tutti. Appartengono al mondo, e il mondo non è mai pienamente nostro. Appartengono a chi le ama, e chi ama qualcosa lo fa suo, come una seconda pelle.

Claudio ha fatto esattamente questo con le “sue” Dolomiti: le ha amate, se n’è rivestito e ha voluto infine lasciarvi un segno, indelebile ed evidentissimo.

Solo che spesso i segni più evidenti sono anche quelli più difficili da decifrare. O meglio: da guardare sul serio, con sincero interesse. Per questo di Claudio si parla poco, decisamente troppo poco.

Si parla poco di quella sua gentilezza mista a scontrosità che ne animava il carattere. Si parla poco delle estati intere che, dal 1957 fino alla sua morte, ha trascorso arrampicando in Italia, partendo dal Belgio, suo paese d’origine, e con qualche sporadica incursione nelle Alpi occidentali.

Si parla poco del suo aver voluto a tutti i costi italianizzarsi il nome, da Claude a Claudio, come ennesimo atto d’amore verso il Paese che ospitava le “sue” montagne. Si parla poco delle epiche imprese solitarie e della sofferenza che definiva tutti i suoi rapporti umani, caratterizzati parimenti da quell’estrema correttezza che pretendeva da se stesso e dagli altri.

Si parla poco dell’etica ferma, spesso fraintesa, che lo portò a chiamare Via del Drago un itinerario di arrampicata ancora oggi storico, rifacendosi a un celebre articolo di Messner ma anche alla mitologia e alla letteratura che tanto amava. Si parla poco proprio della mitologia e della letteratura che amava, di quel suo essere curioso a 360 gradi: una curiosità così totale che talvolta lo portava a sviluppare una meticolosità snervante, ma sempre sincera e rispettosa degli spazi propri e altrui.

Si parla poco della sua passione per la musica.

Si parla poco della velocità che caratterizzò tantissime sue salite: del modo maniacale con cui segnava i propri tempi di percorrenza, scandendo i minuti come un orologio svizzero. Salvo poi lasciare ovunque e da nessuna parte la miriade di foglietti sparsi su cui scriveva tutto. Quasi come stesse rincorrendo qualcosa, fra quelle rocce, qualcosa da cui, allo stesso modo, fuggiva.

Di Claudio si parla dunque poco, decisamente troppo poco.

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Questo libro nasce allora dal desiderio di parlarne, per impedire al silenzio di trasformarsi in indifferenza e all’indifferenza di diventare ingratitudine. Perché a personaggi come Claudio Barbier dovremo essere tutti grati, alpinisti e amanti della montagna, esperti e neofiti. Quella sua maniera di vivere e scalare, così inedita per i tempi, ha aperto la strada alla montagna che conosciamo noi, al modo di andare in montagna che dal 1977 – anno della sua scomparsa – ad oggi si è sviluppato.

Questo libro prende corpo grazie alla generosità incondizionata di Anna Lauwaert, ultima compagna di Claudio, donna altrettanto totale, solitaria e incisiva: in tre parole, sua perfetta metà. Ho avuto il piacere di contattarla nell’estate 2020, in piena pandemia da Covid-19, prendendo spunto da una frase contenuta nelle sue memorie degli anni trascorsi insieme a Barbier, pubblicate da CdA con il titolo La Via del Drago: «Il libro che può tracciare il ritratto di Claudio alpinista è ancora da scrivere; sarei felicissima se finalmente giustizia gli fosse resa». Ho bussato alla sua porta raccogliendo questo pubblico invito e il suo primo consiglio – quello di partire dai miei sentimenti, dalle mie emozioni e dal mio amore per le Dolomiti e la montagna – è stato il primo di tanti abbracci che virtualmente ci siamo scambiate. Sono grata a lei e a tutte le persone che mi hanno aiutata in questo viaggio e che cercherò di citare nei ringraziamenti, senza dimenticarne nessuna.

Questo mio libro inizia allora con un augurio per chiunque voglia leggerlo: che Claudio Barbier sia d’ispirazione, nella vita e nell’alpinismo, a chi, dopo averne conosciuto la storia, ne subirà irrimediabilmente il fascino.

Come è accaduto a me, ormai qualche anno fa.

L e d OLOMITI

Nel 1788, il mineralista francese che rispondeva al pantagruelico nome di Déodat-Guy-Tancrède de Gratet de Dolomieu fece una scoperta strana: la roccia delle montagne che faranno da scenario a questo lavoro, al contrario del comune calcare non reagiva con effervescenza se trattata con acidi. Incuriosito, ne inviò un frammento a Théodore de Saussure per averne un’opinione. Théodore era figlio del grande Horace, trasversalmente considerato il fondatore dell’alpinismo grazie all’ascensione del Monte Bianco che Horace de Saussure stesso aveva commissionato a Paccard e Balmat nel 1786.

Dolomieu volle in seguito chiamare saussurite il nuovo minerale, ma a questo punto si oppose lo stesso Théodore che impose il nome dolomite, in uno strano valzer di onori e cortesie.

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Nel 1837, l’editore Murray di Londra, nella guida A Handbook for Travellers in Southern Germany, utilizzò per la prima volta la locuzione “montagne di dolomite” ma questo neologismo non ebbe alcuna applicazione pratica finché non si scrissero libri che parlassero esplicitamente di quelle cime.

Da allora il termine “Dolomiti” si affermò improvviso e definitivo: nessun altro nome fu usato per significare queste montagne così uniche al mondo.

Partire dai miei sentimenti, dalle mie emozioni e dal mio amore per le Dolomiti e la montagna, come mi ha suggerito Anna, significa partire dall’esistenza stessa di queste montagne, così ricche di fascino e di storie, foriere di silenzi e di avventure. Per descrivere qualcosa o qualcuno, e in un qualsiasi lavoro biografico, l’esistenza scorre di pari passo con l’esperienza di chi sta narrando e di chi viene narrato. Ed è pur vero che la narrazione di un’esperienza passa giocoforza attraverso il confronto di esperienze fra loro analoghe o diverse. Su questo gioco si delinea ogni incontro e ogni racconto che si rispetti.

Parlare di Dolomiti, allora, significa parlare per sottrazione di Alpi occidentali: dei loro orizzonti sempre chiusi, dei loro paesaggi a tratti cupi e severi, favorevoli a un certo spirito romantico tedesco.

Una qualsiasi poesia “naturale” di Goethe – il quale nel 1786 (proprio mentre l’alpinismo iniziava, con la conquista del Bianco) al cospetto delle Dolomiti stesse aveva esclamato di sentirsi come un fanciullo che impara a vivere –potrebbe benissimo spiegare questo accostamento forse bizzarro, già proposto da Gian Piero Motti nella sua lungimirante opera La storia dell’alpinismo.

Il Canto del viandante nella tempesta, ad esempio, recita così:

Nella macchia il sentiero si perde, dietro i suoi passi si chiudono di colpo gli arbusti, si rialzano l’erbe, l’inghiotte la solitudine.

E ancora i Canti notturni del viandante:

Su tutte le vette è silenzio, dalle cime degli alberi odi appena un sospiro.

Gli uccellini tacciono nel bosco. Attendi, solo: presto riposerai anche tu.

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Secondo quanto ci dicono le biografie del poeta, questi ultimi versi furono scritti a matita il 7 settembre 1780 sulla parete di un capanno di caccia, situato sullo Kicklehahn, montagna nei pressi di Weimar, in Germania, un luogo senz’altro molto lontano da quelli che voglio raccontare in questo libro.

Si narra che una sera di molti anni dopo, il 26 agosto 1831, Goethe venne accompagnato da amici su quella stessa montagna e si recò nel luogo dove ricordava di aver scritto quei versi: come li vide pianse, e dopo qualche istante lesse con tono malinconico l’ultima parte della breve lirica. Se le prime righe, dunque, sembrano pervase da un senso di pace e di silenzio che alimenta la solenne contemplazione della natura, gli ultimi due versi riprendono il tema del contrasto tra la quiete della natura e l’inquietudine dell’uomo, un tema già presente nel Canto del viandante nella tempesta

Ma non lo fanno in termini drammatici: c’è solo la speranza, che è insieme una certezza, di poter corrispondere a questa calma. Sembra sia solo questione di tempo prima di poter raggiungere questo placarsi delle passioni e delle ansie umane, nella pace tanto agognata.

Ecco, le Alpi occidentali sanno destare nell’uomo che le visita esattamente questo effetto: vi è una costante ricerca della luce, della pace.

Quella stessa luce che esercita sul paesaggio un fascino straordinario, creando contrasti in grado di rilevare cornici montuose altrimenti invisibili.

In questo vi è quasi un invito a salire, camminando e arrampicando, per sfuggire alle ombre tenebrose di un fondovalle incerto: soltanto salendo si scoprono quegli orizzonti sconfinati, contraltari di valli profonde.

Il mondo dolomitico è invece profondamente diverso. Se vi è un aggettivo in grado di comunicarlo davvero, lo ha trovato ancora una volta Gian Piero Motti. Per raccontare le Dolomiti, Motti utilizza il termine “ridenti”, continuando così la propria descrizione:

Su grandi altopiani di un verde smeraldino, dalle linee molli e ondulate, macchiati dal verde scuro delle foreste di larici, come per incanto si drizzano torri rocciose e castelli turriti dalle linee verticali: gli spigoli sono netti e affilati, vertiginosi. (…) L’orizzonte non è mai chiuso, gli spazi sono sempre aperti e sconfinati; il sole al tramonto cala basso e tinge le rocce di colori indescrivibili, tali da far impazzire la penna degli scrittori più romantici.

E pure la mia, innamorata così come sono delle Dolomiti fin da bambina. Per certi versi, proprio le Dolomiti sono una montagna bambina: nel fitto dei loro boschi vivono gnomi e folletti, benigni o maligni.

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Più in alto, fra le gole che si insinuano verso pareti a picco, tra i grandi massi e le ghiaie, regnano le fate, i nani e tutte quelle leggende che li vedono protagonisti. Due esempi valgono per tutti: il mito del regno dei Fanes e il giardino delle rose in Catinaccio.

La prima leggenda narra dell’espansione e del declino del regno dei Fanes, in origine un popolo mite, caratterizzato dall’alleanza con le marmotte dell’omonimo altopiano: quando però la regina sposò un re straniero, avido e bellicoso, che arrivò a sostituire con un’aquila lo stemma dei Fanes, raffigurante da sempre una marmotta, il clima cambiò. Ben presto, l’avido re fece della figlia Dolasilla un’amazzone imbattibile, aiutata da frecce infallibili e da una corazza impenetrabile, donatele dai nani. Con Dolasilla al suo comando, il regno si espanse fino al fatale scontro della principessa col guerriero nemico Ey de Net. I due, in realtà, già incontratisi anni prima, si innamorarono e decisero di convolare a nozze nonostante il forte dissenso del re che, informato dai nani, sapeva che l’invincibilità di Dolasilla sarebbe durata solo finché non si fosse innamorata. Prevedendo la fine del suo regno, il re vendette così Dolasilla e il suo popolo, mandandoli allo sbaraglio nell’ultima battaglia, durante la quale Dolasilla morì, uccisa dalle sue stesse frecce fatate, rubatele con l’inganno dallo stregone Spina de Mul. Il re traditore venne tramutato in pietra e i pochi superstiti del regno di Fanes si recarono con le marmotte in un antro sotto le rocce della loro valle (l’omonima val di Fanes), in attesa che ancora suonino le trombe argentate, a segnalarne la rinascita.

La seconda leggenda, molto più nota, fornisce inoltre una spiegazione sia al nome tedesco del gruppo montuoso del Catinaccio (Rosengarten, ovvero giardino di rose), sia allo straordinario colorito che queste particolarissime cime dolomitiche assumono all’alba e al crepuscolo (il fenomeno dell’enrosadira).

Il re Laurino era sovrano del popolo dei nani, che sulle montagne cercavano pietre preziose e minerali. Egli possedeva un magnifico palazzo sotterraneo di cristallo, ma il suo più grande orgoglio era il bellissimo giardino di rose che cresceva rigoglioso proprio davanti ad esso. Un bel giorno il re dell’Adige volle dare in sposa sua figlia Similde: invitò tutti i nobili della zona, escludendo però il re Laurino, che, grazie al suo cappello magico, decise di parteciparvi comunque come ospite invisibile. Si innamorò così della bella Similde e, molto bruscamente, la portò via dal palazzo.

Alcuni cavalieri, guidati da Dietrich da Berna, lo inseguirono e lo bloccarono nel suo giardino di rose. Iniziò una strenua lotta, ma Laurino possedeva una cintura magica in grado di fornirgli la forza di dodici uomini. Nonostante ciò, fu comunque catturato da Dietrich da Berna.

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pr OLO g O

Il comune di Etterbeek, in Belgio, possiede una peculiare etimologia. La radice celtica ett, infatti, starebbe a significare un non meglio precisato “movimento rapido” laddove beek, parola fiamminga, è letteralmente traducibile con “flusso” (nel senso di fiume, ruscello). Lo stesso flusso, gli stessi movimenti rapidi con i quali occorre affrontare il lungo traverso che troviamo esattamente a metà della Via del Drago, l’itinerario dolomitico più ricordato di Claudio in Lagazuoi. Un passaggio di una quarantina di metri circa, con due soli chiodi, in grado di far registrare difficoltà che si stabilizzano intorno al sesto: per il 1969, anno della sua apertura, tutto questo si poneva ancora al limite del visionario.

Ma 31 anni prima, il 7 gennaio 1938, Barbier non immaginava certamente il percorso che lo avrebbe portato a realizzare quella e altre storiche salite. Le montagne, nella Etterbeek dov’era appena nato, sembravano un miraggio lontano. Eppure, ad appena un’ora di auto, la falesia più grande e importante del Belgio aspettava solamente di essere scoperta e valorizzata. Freyr, massiccio di roccia calcarea posto fra l’omonimo paesino e il fiume Mosa, avrebbe ben presto offerto ai suoi frequentatori monotiri e vie caratterizzati dall’eterogeneo susseguirsi di placche verticali e strapiombi. D’altronde, nella mitologia nordica, Freyr è una delle divinità più importanti, capace di concedere pace e piacere ai mortali: per esteso, potrebbe benissimo configurarsi come il dio della montagna.

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Mai nome fu dunque più appropriato per quella falesia, dove anni più tardi Claudio avrebbe trovato dapprima l’amore e poi la morte.

In quel 1938 però, tutto questo era ancora ben lungi dal divenire, perché nel 1938, alpinisticamente parlando, il profumo della roccia riscaldata dal sole stava ancora nascosto dietro l’odore del ghiaccio instabile, fra il sapore eroico del sangue in bocca e il rumore assordante di una propaganda vanagloriosa.

Fu infatti l’anno della Nord all’Eiger e dello Sperone Walker alle Grandes Jorasses, ma fu anche l’anno in cui Benito Mussolini e Adolf Hitler s’incontrarono a Roma, il Parlamento fascista approvò le leggi razziali e i patti di Monaco permisero alle armate naziste di espandersi in Boemia. Insomma, nel 1938 nacque Claudio e andò in scena il prologo della Seconda Guerra Mondiale, farcito da succulenti prove di epica alpinistica sfruttate dai regimi per perorare le loro ideologie.

“Superare i limiti della natura a costo della vita” fu in pratica il grido nazista che invitava i giovani alpinisti teutonici a sfidare l’Orco, ovvero la temibile parete nord dell’Eiger.

Prima ancora che Toni Hiebeler la scalasse in invernale nel 1961, dando al libro che racconta quell’epopea l’emblematico titolo di Eiger, Parete Nord. La morte arrampica accanto, di vittime su quel versante maledetto ne caddero veramente a decine. La tragedia forse più scioccante fu quella che coinvolse nel 1936 Toni Kurz, il quale, dopo aver visto morire uno a uno i compagni Willy Angerer, Edi Rainer e Andreas Hinterstoisser, tentò poi di raggiungere i soccorritori calandosi in doppia, salvo poi morire per sfinimento a un passo dalla salvezza, appeso alle corde. La Nord dell’Eiger fu infine vinta nell’estate del 1938 da una cordata austro-tedesca composta da Andreas Heckmair, Ludwig Vörg, Fritz Kasparek e Heinrich Harrer. Quest’ultimo – interpretato da Brad Pitt nel film Sette anni in Tibet – finirà per arruolarsi volontario fra le SS.

Sullo Sperone Walker alle Grandes Jorasses trionfò invece pochi giorni più tardi Riccardo Cassin: il Ragno di Lecco, il risolutore. Di fatto, lo Sperone si configurava come il grande problema insoluto degli anni Trenta, mentre sbucava dal mare di ghiaccio attendendo soltanto lui, Gino Esposito e Ugo Tizzoni per decidersi a capitolare – ma soltanto dopo una lotta lunga tre giorni, milleduecento metri di quinto e sesto grado, nebbie e strapiombi.

Quando la Walker apparve nelle cronache alpinistiche, si conquistò di diritto il titolo di scalata più difficile delle Alpi, dando il via a una vera e propria corsa per le ripetizioni, riservate ai migliori scalatori.

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Nel 1969 toccherà anche a Claudio cimentarsi sullo Sperone, un terreno decisamente non nelle sue corde. Ma ci riuscirà, condendo l’ascensione di momenti al limite del drammatico ma dando comunque prova di uno straordinario eclettismo.

Cassin, per la sua impresa, ricevette una medaglia dal Duce in persona, e non è difficile immaginarlo, qualche anno più tardi, mentre la indossa beffardamente al collo, lui che fu protagonista della Resistenza. Quella sì, un’impresa ben più epica e dirimente.

L e pr IM e VOLT e L’ascensione di Claudio alla Walker nel 1969 fu drammatica. La citeremo più avanti, ma è importante parlarne fin dall’inizio, perché la poca affezione alla neve, alla presenza di ghiaccio e all’alpinismo invernale si radicò probabilmente in Barbier già a partire dalle sue prime esperienze in montagna.

Figlio unico di una ricca famiglia borghese – il padre ricopriva una posizione dirigenziale presso l’ente telegrafico e telefonico belga – Claudio trascorse la prima infanzia a Gent, trasferendosi poi in un secondo momento a Bruxelles, insieme alla famiglia.

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Claudio con la madre al Großglockner. Foto: Arch. Barbier, 1950

Fu sempre grazie ai genitori che poté avere un primo incontro ravvicinato con la montagna, che avvenne intorno agli 11 anni, durante una vacanza in Austria. Vi è una fotografia di quel periodo, che lo mostra insieme alla madre: siamo nell’estate del 1950, ai piedi del Großglockner, cima delle Alpi centro-orientali che con i suoi 3.798 metri è la più elevata dell’Austria.

Se vogliamo però dare un contesto alla sua prima vera esperienza alpinistica, si deve fare un balzo in avanti d’un paio di anni. Il 20 luglio 1953, mentre si trovava in vacanza con i genitori a Pralognan, Claudio decise di avventurarsi per la prima volta da solo, ritrovandosi ben presto bloccato su un nevaio. Passarono le ore, scese la sera e i genitori, non vedendolo rientrare, avvisarono le guide e i soccorritori locali. La squadra era ormai pronta a partire, quando Claudio finalmente ritornò: a un certo punto, nell’attraversare il nevaio incontrato sul suo cammino, non aveva più saputo come progredire, né come tornare sui propri passi, e aveva seriamente rischiato di scivolare nel vuoto.

Finalmente, strisciando centimetro dopo centimetro, era riuscito a evitare la caduta, restando tuttavia traumatizzato per il resto della sua vita, fino a non sentirsi mai veramente a proprio agio in presenza della neve. Il giorno dopo i genitori lo mandarono a provare una vera ascensione, in compagnia di una guida locale, allo scopo di imparare i pericoli della montagna.

Possiamo saperlo con precisione perché è a partire da allora che Claudio inizierà a scrivere e ad appuntare, in maniera quasi maniacale, la propria vita alpinistica su prezioso quanto caotico fogliame sparso, riportando sempre date, luoghi, persone, tempi, talvolta sensazioni. La via percorsa quel giorno fu la normale del Dôme de Polset, adatta ai principianti desiderosi d’imparare la progressione su un ghiacciaio che, nonostante sia sprovvisto in questo caso di pendii eccessivamente ripidi, può presentarsi variamente crepacciato.

La cordata – composta da Barbier, una guida alpina di Pralognan-la-Valoise e un ragazzo di Parigi – riuscì a salire sul Dôme in 5 ore, concatenando anche la vicina Aiguille. Claudio tornò a casa con le gambe arrostite dal sole perché, per non rovinare i pantaloni lunghi della festa, era partito con i calzoncini corti.

Equipaggiamento a parte, la montagna lo aveva decisamente stregato: l’anno seguente, mentre Lino Lacedelli e Achille Compagnoni conquistavano il K2, la famiglia Barbier decise di passare l’estate visitando le Alpi Bernesi, in Svizzera, dove il 23 luglio 1954 Claudio percorse in 6 ore la via Normale del Gspaltenhorn, con le guide Alfred Stäger di Mürren e Steiner di Losanna.

Fu allora che Barbier poté ammirare per la prima volta l’Eiger e la Jungfrau, fantasticando forse di poterne raggiungere un giorno le cime.

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Ma la neve e il ghiaccio continuarono a esercitare su di lui forti timori e l’estate successiva fu dedicata quasi per intero alla scoperta della roccia, che divenne ben presto l’ambiente prediletto.

Nel 1955 infatti, a 17 anni, Barbier ottenne dai genitori il permesso di arrampicare con Lino Lacedelli, durante il periodo di vacanza che la famiglia stava trascorrendo a Cortina d’Ampezzo. Guida e mito, forte della fama conquistata con il K2 l’anno precedente, Lacedelli portò il giovane Claudio alla scoperta di itinerari classici e storici nei diversi gruppi limitrofi: dalla Normale della Torre Inglese nel Nuvolau, alla Torre di Falzarego nel gruppo di Fanes, passando per la via Dimai alla parete Sud della Tofana di Rozes. Il tutto coronato dalla prima visita di Barbier al Monte Bianco, dove percorse – sempre insieme all’imprescindibile Lacedelli – il Col Infranchissable sui Dômes de Miage.

Tornato a casa, scoprì proprio durante quell’autunno la già citata falesia di Freyr e le potenzialità illimitate che essa serbava. Entrò inoltre a far parte del Club Alpino Belga.

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Claudio Barbier con Lino Lacedelli. Foto: Arch. Barbier, 1972

Abbiamo parlato poco della fama di Claudio in Belgio, più che altro perché l’intenzione programmatica di questo libro è quella di focalizzarsi sulle Dolomiti. Tuttavia è importante ricordare come in patria Barbier fosse conosciuto per essere stato uno dei primi inventori dell’espressione en jaune, ovvero “in giallo”, che gli arrampicatori francesi avrebbero poi utilizzato per indicare il superamento di passaggi difficili senza usare per la progressione i chiodi infissi nella roccia. Sembra che su una parete di Freyr Claudio avesse polemizzato in prima persona contro chi faceva un uso troppo spregiudicato dell’arrampicata artificiale, affermando con scanzonata ironia che avrebbe dipinto di giallo tutti quei chiodi che dovevano servire per la sola sicurezza.

«Ricordo anche di quella volta che, nel 1971, arrampicammo sulla Normale del Campanile di Valmontanaia» rievoca ancora Almo.

«Durante la sua storica discesa lungo la parete nord, nel 1906, Tita Piaz aveva tentato una doppia che partiva dal ballatoio, ma la sua corda non era abbastanza lunga per coprire il tratto necessario. Dunque dovette scendere dearrampicando per quattro/cinque metri e piantare poi due nuovi chiodi per poter fare le doppie dal nuovo ancoraggio.

Nel settembre del 1971, mentre io e Claudio scendevamo di lì, successe una cosa che dà l’idea di quanto Barbier fosse istintivo nella sua etica.

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Claudio in cima al Campanile di Valmontanaia. Foto: Almo Giambisi, 1971

Avevamo corde più lunghe, dunque le nostre doppie partirono dal ballatoio. Io era già sceso e stavo tenendo le corde aspettando Claudio.

A un certo punto sentii dei colpi nella roccia, delle vere e proprie martellate, e pensai che Claudio non si fidasse dei chiodi e cercasse di fissarli meglio.

Mi sembrò sciocco, ma non feci troppe domande. Alla fine ridiscese e me lo trovai davanti con due chiodi in mano: aveva bloccato la propria calata cinque metri sotto il ballatoio per poter togliere i chiodi di Tita, ormai superflui.

“Uno per me e uno per te” esclamò entusiasta». Almo conserva ancora oggi quel chiodo, appeso alla parete del suo soggiorno.

L u N g A VITA AL dr A g O

L’autunno del 1969 iniziò in maniera straordinaria. Erano giorni puntellati da qualche acquazzone capace di tingere il cielo di scuro, ma in linea di massima il meteo reggeva e rimaneva piuttosto stabile, almeno in Dolomiti.

A fine luglio Claudio era riuscito nella ripetizione della Walker, un’esperienza tragicomica che avrebbe evitato di raccontare in giro, con l’odiata neve dappertutto, un freddo allucinante e la voglia di scappare a ogni metro.

Il 7 agosto il corpo di Gary Hemming era stato ritrovato lungo le rive del lago Jenny, in Wyoming, con un colpo di arma da fuoco nella tempia destra.

«Il silenzio l’ha ucciso. È stato il silenzio del suo libro mai stampato, il silenzio delle sue donne, il silenzio della sua montagna». Così scrisse l’amico giornalista Pierre Joffroy su un quotidiano francese uscito il giorno seguente. Chissà se Claudio, che quei giorni era di base a Chamonix, abbia mai letto quelle righe. Al di là di ogni congettura, agosto cedette presto il passo a settembre, le Alpi occidentali alle Dolomiti, e Claudio si ritrovò immerso in un clima di grande fermento: tutti gli amici che aveva intorno volevano d’un tratto approfittare delle buone condizioni per aprire nuove vie, effettuare ripetizioni di valore o anche semplici salite di allenamento. Heinz Steinkötter, quando la moglie Vitty era impossibilitata ad arrampicare con lui, chiedeva sempre più spesso a Claudio di accompagnarlo. In quel periodo, ad accompagnarsi a Claudio, c'era anche Jacques Collaer, che arrampicherà molto insieme a lui fino a metà degli anni Settanta.

«Erano forti e folli uguali» commenta Almo, che raccoglie proprio in quel periodo un'idea maturata da Claudio in risposta alle integerrime prese di posizione di Messner. «In quei giorni di fine estate mi raccontò di una sua piccola incursione che aveva fatto in Lagazuoi Nord» continua Almo «durante la quale aveva “visto il Drago”».

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Monica Malfatti DIMMI CHE MI AMI Lagazuoi Nord, Via del Drago Foto: Giuseppe Malfatti, 2023

Erano state quelle le sue esatte parole, prima di rimandare la conversazione a un altro momento e tornare a passare le proprie giornate con Steinkötter, Vitty e Collaer. Almo d’altronde era impegnato con la chiusura della stagione nel suo nuovo albergo in Pordoi, ma era riuscito nel mentre a raccogliere l’adesione di un terzo, prezioso, compagno di cordata per quell’avventura, che già profumava di mito. Carlo Platter si era legato poche volte con Claudio, ma l’entusiasmo del belga aveva coinvolto il suo amico Almo e sicuramente un motivo c’era.

Il motivo era una parete di 300 metri, verticale e bellissima, sulla quale aprire un nuovo itinerario con difficoltà di IV e di V grado. Un percorso logico, esposto e astuto, dove i passaggi di arrampicata libera venivano spinti al massimo, con l’intento palese di resuscitare quel drago che Messner dava per spacciato. Capolavoro di arditezza e intelligenza alpinistica, la via superava una repulsiva parete, seguendo una linea di diedri e camini fin sotto una grande fascia gialla strapiombante dalla quale, con una lunga traversata verso sinistra e un’uscita lungo un diedro, si guadagnava la vetta.

«Claudio aveva la salita perfettamente disegnata in testa» spiega Almo.

«Io e Platter eravamo testimoni corollari di una creatività alpinistica senza eguali, del merito di uno scalatore mai veramente riconosciuto e che con quella salita, a mio avviso, è riuscito a rappresentare il massimo della propria arditezza e della propria semplicità: il massimo di ciò che era Claudio, di quello che rappresentava e di quello che molti non hanno voluto vedere in lui».

Lagazuoi Nord, Via del Drago con Carlo Platter e Almo Giambisi – leggiamo negli appunti di Barbier – Prima ascensione. Partenza ore 10:30, cima ore 17:30. Il drago è morto, lunga vita al drago!

“L’INAS pe TTATO CH e S u CC ede ”

«L'attività di Claudio in Dolomiti proseguì» racconta Almo «ma era fisiologico che a periodi di grande forma ne subentrassero altri un po' meno brillanti. Entrato nei trenta, aveva ancora talento da vendere ma doveva fare i conti con gli anni che passavano e i fantasmi che s'ingigantivano».

Secondo Alberto Dorigatti la sua ultima grande impresa solitaria ebbe luogo l’anno successivo. Non in Dolomiti, bensì sulla via Cassin, al Badile.

«Claudio mi raccontò» ricorda Alberto «che quasi al termine della salita, su uno dei passaggi più duri, ovvero un lungo traverso, aveva trovato uno spezzone di corda. Probabilmente era stato lasciato dal secondo della cordata che l'aveva preceduto: intimorito dal quel lungo passaggio orizzontale, l'aveva verosimilmente utilizzato come corrimano.

93 ST r A p IOMBI e dr A g HI

BIBLIOGRAFIA

Riccardo Cassin, Capocordata. La mia vita di alpinista, CdA&Vivalda Editori, 2004.

Enrico Camanni, Daniele Ribola, Pietro Spirito, La stagione degli eroi. Castiglioni, Comici, Gervasutti, CdA&Vivalda Editori, 1994.

Enrico Camanni, Se non dovessi tornare. La vita bruciata di Gary Hemming , Mondadori, 2023.

Alessio Conz, Spit in Dolomiti, Versante Sud Edizioni, 2022.

Matteo Della Bordella, La via meno battuta , Rizzoli, 2020.

Marco Ferrari, Freney 1961. Un viaggio senza fine, CdA&Vivalda Editori, 1997.

Alessandro Gogna, Dolomiti e calcari di Nordest. 150 anni di vie di roccia , CdA&Vivalda Editori, 2007.

Toni Hiebeler, Eiger. La morte arrampica accanto, Tamari Editori, Bologna, 1966.

Anna Lauwaert, La Via del Drago, CdA, 1992.

Anna Lauwaert, Le grimpeur maudit. L’histoire de l’alpiniste Claude Barbier, Edition Tatamis, 2012.

Reinhold Messner, L’arrampicata libera di Paul Preuss , Istituto Geografico De Agostini, 1987.

Reinhold Messner, Settimo grado, Istituto Geografico De Agostini, 1974.

Gian Piero Motti, Storia dell’alpinismo, CdA&Vivalda Editori, 1997.

Heinrich Steinkötter, La montagna del vecchio Heinz , Curcu&Genovese, 2014.

Heinrich Steinkötter, Sopra e sotto le nuvole. Ricordi della vita di un alpinista , Curcu&Genovese, 2016.

Lionel Terray, I conquistatori dell’inutile, CdA&Vivalda Editori, 2004.

SITOGRAFIA

www.claudiobarbier.be è un sito in lingua francese che raccoglie immagini, articoli e aneddoti sulla vita di Claudio, con testimonianze dirette o indirette delle persone che lo hanno conosciuto: vi si trovano anche preziose relazioni delle vie aperte da Barbier.

www.angeloelli.it è in pratica il bignami online dell’alpinismo, facile da consultare e difficile da imitare: in una parola, imprescindibile.

108
MI AMI
Monica Malfatti DIMMI CHE

ATTIVITÀ ALPINISTICA DI CLAUDIO BARBIER

IN ORDINE CRONOLOGICO

(Il seguente elenco è tratto dagli appunti personali di Claudio, sparsi qua e là fra scatoloni e cassetti, trascritti da Anna Lauwaert e dalla figlia Pascale Binamé e in seguito rivisti e corretti grazie al prezioso aiuto dell’amico Alberto Dorigatti. Spesso Barbier aggiunge commenti e annotazioni personali, talvolta non propriamente alpinistici; alcuni abbiamo deciso di riportarli comunque)

1953

21.07.1953

Massiccio della Vanoise (Savoia, Alpi Graie francesi):

Dôme e Aguille de Polset, come terzo di cordata. Insieme a una guida alpina di Pralognan-la-Valoise e un ragazzo di Parigi. Partenza ore 4:25 e ritorno ore 11:30, cinque ore per la salita e due per la discesa.

1954

(Anno della conquista italiana al K2)

23.07.1954

Alpi Bernesi (Svizzera):

Via Normale del Gspaltenhorn. Con le guide Alfred Stäger di Mürren e Steiner di Losanna. Partenza ore 4:30 e ritorno ore 14:30. Sei ore per la salita e quattro per la discesa).

1955

Attività estiva con la guida Lino Lacedelli

Gruppo del Nuvolau – Cinque Torri (Dolomiti – Italia):

– Torre Inglese, via Normale

– Torre Lusy, via Normale

– Torre Grande, parete nord, via Dibona

– Torre del Barancio, parete nord

Gruppo di Fanes (Dolomiti – Italia):

– Torre Falzarego

Gruppo del Pomagagnon (Dolomiti – Italia):

– Punta Fiames, via Dimai-Verzì

– Punta Fiames, spigolo sud, via Jori

Gruppo delle Tofane (Dolomiti – Italia):

– Tofana di Rozes, parete sud, via Dimai

– Massiccio del Monte Bianco (Francia)

– Dômes de Miage, per il Col Infranchissable.

1956

Domenica 5.08.1956

Gruppo delle Tre Cime di Lavaredo (Dolomiti – Italia):

Cima Piccola di Lavaredo, Spigolo Giallo.

Con Henri Mabille.

Attacco alle ore 11. Quattro ore per giungere alla placca bianca: tentativo abortito a causa della lentezza.

Lunedì 6.08.1956

Nuovo tentativo allo Spigolo Giallo.

Con Henri Mabille.

Alle 8:30 siamo sopra la placca bianca.

Passaggio estremamente difficile, arriviamo a una cengia 8 metri a sinistra dello spigolo, facciamo una doppia “pendolare” e strapiombante per poi attraversare verso il canale Leyl-Hartl.

Mercoledì 8.08.1956

Cima Grande, via Comici-Dimai.

Con Henri Mabille. Undici ore totali.

Domenica 12.08.956

Gruppo del Civetta (Dolomiti – Italia):

Punta Civetta, via Solleder-Lettenbauer. Con Henri Mabille. Attacco alle ore 6. Perdiamo la via e raggiungiamo il canale dai camini. Roccia pessima, arriviamo in cima alle 8:30 ma non riusciamo a trovare il rifugio (si riferisce al Torrani, NdR ). Bivacchiamo dalle 10 alle 4 del mattino seguente.

109 ATTIVITÀ ALPINISTICA DI CLAUDIO BARBIER

Giovedì 16.08.1956

Torre Venezia, via Tissi-Bortoli-Andrich. Con Henri Mabille. Partenza ore 8:30 e ritorno ore 15:30.

Sabato 18.08.1956

Torre Venezia, via Castiglioni. Con Alberto (cognome ignoto, NdR ) di Como. Durante la discesa volo insieme alla presa che avevo in mano da un passaggio di secondo grado.

Martedì 21.08.1956

Torre di Babele, Spigolo Soldà. Con Richard Weiss. Quattro ore e mezza di effettiva scalata.

Mercoledì 22 agosto 1956

Torre Venezia, via Castiglioni. Con Richard Weiss.Per passare il tempo: eravamo in realtà partiti per la via Ratti dalla quale siamo stati fuorviati a causa della variante Couzy.

Giovedì 23.08.1956

Torre Venezia, via Ratti. Con Richard Weiss. Tre ore e 45 minuti totali.

Sabato 25.08.1956

Cima Su Alto, parete nord-ovest, via RattiVitali. Con Richard Weiss. Quinta ripetizione. dieci ore di scalata effettiva, dodici ore in totale. Sono volato all’inizio delle prime difficoltà perché né l’appiglio né il chiodo tenevano più: 20 metri di pendolo. Colpito nel morale, faccio quasi tutta la via da secondo di cordata. Arriviamo in vetta alle 17:30 e bivacchiamo sulla cima, a causa della nebbia.

Martedì 4.09.1956

Cima della Busazza, spigolo sud-ovest, via Rittler-Videsot-Rudatis. Con Richard Weiss. Trentacinquesima ripetizione. Nove ore e 15 minuti, soste comprese.

Giovedì 6.09.1956

Torre di Valgrande, via Carlesso-Menti. Con Richard Weiss. Undici ore in tutto e 2 voli: era il nostro terzo tentativo.

110
Monica Malfatti DIMMI CHE MI AMI Claudio scende in doppia dalla parete nord del Campanile di Valmontanaia. Foto: Almo Giambisi, 1971

1957

Durante il mese di aprile 1957

Pirenei (Francia):

– Cresta nord occidentale del Balaïtous

– Sperone sud orientale del Pic de Maupas

– Cresta orientale del Pic de Spijeoles.

Da venerdì 19.04.1957 a lunedì 22.04.1957

Sassois (Francia).

Domenica 4.08.1957

Gruppo del Civetta (Dolomiti – Italia)

Torre Venezia, via Andrich.

Con Georg Ehmann. Tre ore e 40 minuti complessivi dall’attacco della via.

Lunedì 5 e martedì 6.08.1957

Cima della Busazza, via Castiglioni-Gilberti.

Con Georg Ehmann. Sesta ripetizione. Sette ore e mezza in totale.

Giovedì 8.08.1957

Punta Agordo, via Da Roït (compagno di cordata sconosciuto, NdR ).

Sabato 10.08.1957

Campanile di Brabante, parete sud est (compagno di cordata sconosciuto, NdR ).

Lunedì 12.08.1957

Torre Venezia, via Castiglioni. Con Walter Lena.

Mercoledì 21.08.1957

Torre Trieste, via Tissi. Con Karl Ritzmann.

Giovedì 22.08.1957

Guglia della 43 a Legione (o Bocia), prima via Normale. Con Hiebeler e Ruhard, poi via Andrich. DA SOLO.

Domenica 25.08.1957

Gruppo delle Tre Cime di Lavaredo (Dolomiti – Italia):

Cima Grande di Lavaredo, spigolo nord-est, via Dibona. Con Richard Bachman.

Martedì 27.08.1957

Gruppo del Nuvolau – Cinque Torri (Dolomiti – Italia):

– Torre Inglese. DA SOLO

– Torre Romana, diedro nord. DA SOLO

Sabato 31.08.1957

Gruppo del Civetta (Dolomiti – Italia): Torre d’Alleghe, VIA NUOVA sulla parete nord-ovest. Con Walter Philipp e Diether Marchart. Otto ore complessive.

Giovedì 5.09.1957

Cima Tissi, VIA NUOVA sul diedro fra la Solleder e la Comici (diventerà poi il celebre diedro Philipp-Flamm, NdR ). Con Diether Marchart, Philipp e Flamm. Partenza ore 8:30. Alle 14:30 Marchard, alla fine della parete gialla, viene colpito al ginocchio da un sasso. Scendo con lui in corda doppia, Philipp e Flamm aprono il diedro.

Martedì 10.09.1957

Torre Trieste, via Carlesso-Sandri. Con Diether Marchart. Tredicesima ascensione. Partenza alle 2:45 e arrivo in vetta alle 19:15. Bivacco sulla cima.

Per la restante parte dell’anno arrampico nelle Ardenne (falesia di Freyr, Belgio, NdR ). Con Jean Alzetta e Denise Escande.

1958

Niente arrampicata nel 1958 a causa del servizio militare.

1959

Domenica 28.06.1959

Gruppo delle Tre Cime di Lavaredo (Dolomiti – Italia): Cima Ovest, spigolo nord-est, via Demuth. Con Rainer Betterman a comando alternato. Partenza ore 8:05, cima raggiunta alle 12:40. Un'ora e un quarto per la discesa. Gli Scoiattoli (di Cortina, NdR ) attaccano la Direttissima della Cima Ovest. Sono arrivati Pierre Mazeaud, Pierre Kohlmann e altri due francesi.

Mercoledì 1.07.1959

Cima Piccolissima, via Cassin. Con Rainer Betterman. Partenza alle 12:30 e arrivo in cima (uscita della via) alle 16:15.

111 ATTIVITÀ ALPINISTICA DI CLAUDIO BARBIER

Finito di stampare nel mese di marzo 2024 da Tipolitografia Pagani (Brescia) per conto di Versante Sud Srl - Milano

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— CLAUDIO BARBIER

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