SPECIALE INDIA DEL NORD

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MiT_ Quaderni di viaggio - Supplemento a Mondointasca.org - Portale on line di Turismo e Cultura del Viaggiare - Anno XI

QUADERNI DI VIAGGIO

SPECIALE

India del Nord Himalaya dimora delle nevi Assam Varanasi Delhi

Ladakh: India sotto zero Orissa: mosaico etnico Volti e Colori Yoga&Ayurveda Cucina indiana


Il modernissimo Bahai Temple di New Delhi è il simbolo di un’India rivolta al futuro che non abbandona il proprio passato. Come il Pantheon di Roma, il tempio di tutti gli dei, il Bahai non è stato edificato per una religione specifica: non vi sono sacerdoti nè culto, esso è il tributo al divino espresso in qualunque religione. La sua forma ricorda un fiore di loto e simboleggia l’induismo, il giainismo, il buddismo, l’Islam e tutte le religioni che convivono nel grande subcontinente indiano

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Pietro Ricciardi

uesto numero di mit “Quaderni di viaggio di Mondointasca” presenta una parte dell’India, quella del nord, partendo dall’Himalaya e dalle sorgenti del Gange per finire a Varanasi, la città sacra induista, passando per l’Assam, estremo oriente, e il mosaico etnico dell’Orissa. Solo una “parte” perché, si dice da sempre, l’India è un sub-continente, tanto è vasta. Di fatto, è un’immensa penisola che si insinua tra il Mare Arabico e l’Oceano Indiano, profondamente incollata all’Asia dalla più elevata catena montuosa della terra: l’Himalaya.

È questa parte settentrionale del Paese che i giornalisti e i fotografi italiani di Mondointasca hanno visitato, a più riprese, traendone spunto per illustrare con immagini e con descrizioni intensamente vissute, le variegate e affascinanti realtà paesaggistiche e sociali incontrate.

L’India è un Paese che da sempre costituisce meraviglia per noi occidentali; per via dei mille colori che la dipingono, per la sontuosità delle cerimonie religiose e civili che la caratterizzano, per i profumi e gli odori che la permeano, per quel grande miscuglio di vita, infine, che ne fanno una nazione a un tempo antichissima e modernissima. In altre parole, l’India è un sogno continuo ad occhi aperti per chi viene da lontano e riesce ad assimilarne, seppure parzialmente, quell’insieme di sensazioni terrene, quindi tangibili, al pari della diffusa spiritualità che aleggia ovunque e costituisce riconosciuto balsamo per l’anima. “Incredible India” è l’azzeccatissimo invito che invoglia a visitare il Paese. E davvero è un invito da cogliere senza riserve, lasciandosi trasportare dalle intense emozioni che un viaggio del genere è in grado di offrire. 3


MiT - Quaderni di viaggio - Giugno 2013 Supplemento di Mondointasca.org webzine di turismo e cultura del viaggiare

I colori dell’India

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L’India è il più vasto e variopinto mosaico umano e naturale del mondo

I colori hanno la loro festa. Si chiama Holi e si svolge nell’India del nord in primavera. La gente si accalca per le strade e si lancia polveri e acqua colorata in una baraonda festante

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Dai tessuti alle sete agli ori lavorati alle pietre preziose agli oggetti di antiquariato

Danza & Musica

Teatro, danza, musica tutte le arti tentano di rendere visibile il divino

REPORTAGE Grandi vette e verdi vallate permeano la vita e la religiosità della gente

Alle sorgenti del Gange

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Le acque del fiume sacro sono destinate a lavare le colpe dell’umanità

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Alla scoperta del fascino di una natura isolata dal mondo ma ricca di calore umano

Nomadi in Ladakh

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Nel villaggio di Pango Sumdo a 4500 metri vivono i Khampa, rifugiati tibetani

Dagli occhi e dall’intensità degli sguardi si percepisce l’anima di un popolo

Everest “Dea Madre” della terra

Grandi montagne, colline coltivate a tè, foreste e aree protette

Di bronzi di ogni dimensione e fattura è piena l’India, in particolare la zona di Varanasi conta parecchie fonderie

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La fama delle sete e dei tessuti preziosi indiani si perde nella notte dei tempi

Foto dal satellite. Vista dallo spazio la catena himalyana riflette i contrasti di colore, ispira meraviglia e una grande suggestione

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22 Tra le vette himalayane la dimora delle divinità indiane. Foto: La montagna del gruppo del Bhagirati dove nasce il fiume Gange

Una città unica con le sue antiche rovine e i suoi moderni quartieri

Assam estremo oriente indiano

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Sette passi per la vita Saptadapi

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Orissa: un mosaico etnico

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Varanasi città di vita e di morte

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Rishikesh capitale dello yoga e della spiritualità

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La natura è splendida e la fauna dei grandi parchi è uno spettacolo

Il rito del matrimonio in India ha radici profonde e significati spirituali

Uno stato sul golfo del Bengala con tribù diverse per etnia, lingua e tradizioni

L’antica Benares con i suoi contrasti. Un grande teatro umano

Affollata di templi, ashram, shadu è luogo di meditazione e sport

Equilibrio, controllo della mente e del corpo e soprattutto benessere

Architettura & Urbanistica

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Chandigarh la città armoniosa, a misura d’uomo, costruita da Le Corbusier

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Una rassegna ragionata di volumi pubblicati su questo sub-continente

Donne nelle acque della “Madre Ganga” mentre svolgono il rituale bagno purificatore. Ogni singolo gesto è una preghiera

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Nutrire corpo e spirito al ristorante India. Anche il mangiare è un fatto mistico

Libri & guide

La tigre è tra le specie protette in India. Molti parchi e riserve naturali dell’Assam sono definite dei santuari. Qui gli animali sono protetti

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In Orissa sono state censite sessantadue tribù. Ognuna ha i suoi usi, le sue architetture, il suo dialetto e a volte anche una propria lingua

Il linguaggio delle mani è una parte essenziale nella danza indiana, ricca di simbologia. Tra gli strumenti che accompagnano la danza ci sono i Tabla, le percussioni più antiche

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I COLORI

L'India è il più vasto e variopinto mosaico umano e naturale del mondo. Dalle città rosa, azzurre, dorate, brulicanti di genti di svariate razze, lingue e religioni. Una incredibile ricchezza di storie, riti, bellezza, culture. In queste pagine un caleidoscopio di colori partendo al femminile


foto di Alessandra Iaia - Faefadf adfadf dfdf df

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LA FESTA DEI COLORI 8


Un giorno il giovane Krishna, un’incarnazione (avatar) del dio Vishnu rappresentato con la carnagione bluastra, disse a sua madre Yashoda che invidiava il colore chiaro dell’incarnato di Radha, la giovinetta da lui amata. La madre per scherzo gli rispose che avrebbe potuto tingere la pelle di Radha con qualunque colore. Su questo racconto mitologico si fonda la festa primaverile dell’Holi che si svolge nell’India del nord, durante la quale la gente, accalcata per le strade, si lancia per gioco polveri e acqua colorata in una baraonda festante. 9


I COLORI DELLE CITTA’

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Città rosa, bianche, dorate, azzurre ognuna brulicante di gente di svariate razze, lingue, religioni. In queste pagine una panoramica della bianca città di Udaipur e dell’azzurra Jodhpur, dove il blu contraddistingue le abitazioni dei brahmini, la casta eletta. Per gli indù questo colore è associato alla saggezza e al simbolo della lotta del Bene contro il Male. Sopra: Il tempio di Vishvanath a Khajuraho, nello stato del Madhya Pradesh, dove si trova il maggior numero di templi medievali induisti e giainisti. A sinistra in basso: Hawa Mahal Palace (Palazzo dei Venti) a Jaipur è costruito in arenaria rosa e dipinto con ocra-rosa, il colore della generosità.

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A ognuno il suo regalo È possibile acquistare brillanti a prezzi relativamente bassi ma bisogna sapere che i diamanti del mercato indiano sono gialli paglierino e il loro valore è assai più basso rispetto alle pietre sudafricane; ma se la pietra viene ben incastonata può essere di notevole effetto anche se colorata. Si trovano anche altre pietre stupende come rubini e zaffiri ma dato il loro altissimo prezzo è sconsigliato l’acquisto se non si è più che esperti

Nei negozi di antiquariato non è difficile trovare vecchi stampi in legno per tessuti, possono essere antichi e avere un discreto valore ma anche di recente fattura. Hanno motivi in rilievo classici delle stoffe indiane e alcuni presentano ancora sulla superficie di stampa tracce del colore originale

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uando ci si appresta ad affrontare un viaggio si pensa a cosa mettere in valigia, cosa ci può servire a seconda dei luoghi dove si va. Poi si pensa a cosa portare a casa di particolare, curioso, unico che ci ricordi il viaggio e da regalare ad amici e parenti. Se scegliete di andare in India, potreste partire senza bagaglio, come vi dimostro in breve in queste pagine. Lì trovate di tutto a prezzi assai convenienti, l’utile e il voluttuario: argento e oro lavorato in tutte le fogge, oggetti d’antiquariato, gioielli, pietre preziose, tessuti, batik, scialli e pashmine di seta dai colori dell’arcobaleno, miniature. In qualsiasi posto dell’India andiate a fare acquisti, tenete a mente due cose. Primo non comprare troppo se non volete pagare il sovrappeso in aeroporto. Secondo: non pagate mai il primo prezzo che vi chiedono. Contrattare in India è una sorta di sport nazionale, nonché il modo per stabilire il miglior prezzo possibile per entrambe le parti coinvolte nella trattativa. Il venditore deve percepire che “l’ultimo prezzo” corrisponde al massimo che il compratore vuole spendere; il compratore deve essere convinto che “l’ultimo prezzo” è il minimo che il venditore intende accettare. Ci sono articoli di uso comune per gli indiani, che hanno un prezzo fisso, o trattabile in misura modesta. Se gli acquisti riguardano oggetti preziosi e quindi costosi, occorre più pazienza e la trattativa può durare addirittura dei giorni. Con queste piccole informazioni di servizio ci si può avventurare a fare shopping nell’incredibile mondo indiano

Gioielli e pietre preziose

Il Rajasthan, meta molto gettonata turisticamente, ha un fiorente artigianato. L’offerta è ricchissima e di valore. Per farvi un’idea di tutto ciò che si produce è utile fare una visita agli empori governativi chiamati Rajasthali: se ne trovano in ogni città, i prezzi sono fissi (a volte un po’ più alti che nei negozi privati), vi serviranno come base di paragone se dovrete contrattare altrove. Ogni città rajastana ha i suoi oggetti tipici. Jaipur, la capitale è una delle città famose per il taglio delle pietre preziose. A questo proposito, una raccomandazione: essendo le pietre preziose un prodotto molto particolare, se non siete degli esperti è meglio non rischiare, anche se si possono fare buoni affari. Jaipur è nota anche per i tessuti: tovaglie, tende, accessori per la

L’oreficeria indiana è molto tradizionale e assai lavorata. I gioielli sono pesanti e vistosi e molto ricchi. Si vende molto oro, ma bisogna fare attenzione perché, oltre alle placcature dorate e alle leghe, oggetti d’oro venduti come tali sono quasi sempre di bassa lega e di basso valore. In alto a sinistra la riproduzione di una stampa Moghul. Sempre in alto a destra un bracciale cerimoniale tibetano in argento e pietre dure

casa. Qui si trovano le tipiche ceramiche blu e i caratteristici strumenti musicali indiani: tablas, sirta, bansoori, shenhai. Tra le curiosità, nella città vecchia centinaia di negozietti di souvenir propongono le simpatiche babuccie rajasthane, tovaglie e braccialetti fatti di lacca e specchietti. Se andate a visitare Jodhpur, la città blu, e siete appassionati di antiquariato (soprattutto mobili), è il posto giusto. Lungo la strada che conduce all’Umaid Bhawan, troverete negozi per curiosare tra oggetti nuovi e vecchi: stampe, dipinti, foto d’epoca e mobili di ogni dimensione. Tessuti e miniature: i coloratissimi tessuti decorati con gli specchietti fatti con vecchi vestiti dalle


Di bronzi di ogni dimensione e fattura è piena l’India, in particolare la zona di Varanasi conta parecchie fonderie. Non è impossibile trovare pezzi strani e preziosi come questo antico “copri Linga”: un oggetto di culto con cui si copre il Linga, una pietra di forma ovale che rappresenta il sesso di Shiva

La fama delle sete e dei tessuti preziosi indiani si perde nella notte dei tempi. Per la lavorazione vengono impiegati seta e oro. Queste stoffe sono assai preziose e costose. Anche per gli acquisti bisogna sapere ciò che si ha intenzione di comprare o farsi ben cosigliare

genti del Deserto di Thar sono una particolarità della città di Jaisalmer. Si trovano in ogni angolo, pur essendo poco pregiati bisogna trattare e lottare per riuscire a spuntare un buon prezzo.

Delhi: grande bazar

Per quantità e varietà di offerta, Delhi è sicuramente la migliore piazza per fare gli acquisti, soprattutto se di valore. Il Sunder Nagar Market è una catena di negozi che propone mobili, oggetti in legno, rame e bronzo, tessuti provenienti da ogni parte dell’India e gioielli tradizionali: bracciali moghul in oro, pietre preziose e smalto, collane dell’Himachal Pradesh, orecchini molto elaborati del Tamil Nadu (India del sud) oltre a ornamenti tibetani. A New Delhi ci sono svariati negozi di lusso per l’abbigliamento e i tessuti dove scegliere scialli in seta, lana e pashmina, sari ricamati e vestiti.

Molto belli gli shalwar kameez da donna composti da pantaloni, tunica e scialle in shantung di seta, per una serata elegante. Shopping di lusso si può fare anche nelle aree commerciali di Greater Kailash e Defence Colony. Per le cose a buon mercato bisogna andare a Connaugth Place, una piazza molto animata di New Delhi dove i procacciatori sono un po’ insistenti e a volte fastidiosi. Di tutto, dai gioielli alle spezie, si trova anche nei bazar di Old Delhi.

Agra: fare attenzione

Il turista che si reca ad Agra ha due mete primarie il Forte Rosso, classificato patrimonio mondiale dell’umanità dall’’Unesco, e il Taj Mahal, uno straordinario mausoleo dedicato all’amore, fatto costruire nel 1632 dall'imperatore moghul Shah Jahan in memoria della moglie preferita Arjumand Banu Begum. I turisti che arrivano a vedere queste meraviglie sono considerati dai commercianti locali dei polli da spennare. Sia le guide, sia i conduttori di risciò vi fanno fare almeno una sosta indesiderata in qualche centro di artigianato, dove prendono la commissione per ogni acquisto. E non si riesce a fare due passi per guardarsi attorno senza essere assaliti da noiosissimi venditori che vogliono appiopparti cartoline, riproduzioni in miniatura del Taj Mahal, scacchi di marmo, guide della città, bamboline con il sari, polveri colorate e paccottiglia varia. Un incubo! Agra è famosa anche per l’artigianato e la manifattura. Qui sono esperti nella tessitura dei tappeti e nella lavorazione della pelle e delle pietre dure. È facile incontrare sui marciapiedi dei maestri scalpellini che lavorano il marmo e le pietre dure con motivi che richiamano il Taj Mahal e non solo.

Varanasi la città sacra

Varanasi, conosciuta anche come Benares, è la città sacra induista sulle rive del Gange. Sotto l’aspetto commerciale si rivela anch’essa molto terrena. La merce è piuttosto simile in tutti i negozi. Tra gli acquisti tipici di Varanasi ci sono amuleti e oggetti legati al culto di Shiva, ma anche collane e bracciali lavorati in argento e oro. In tutte le bancarelle lungo la strada che porta ai ghat si vendono per poche rupie collane fatte con una specie di noce che dicono faccia bene alla pressione sanguigna. La città inoltre è famosa per i dolci, molto buoni, che vengono preparati e offerti per onorare le diverse divinità.

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Teatro e danza rappresentazioni del divino Sentimento, musica, ritmo una fusione armonica di musica, danza e recitazione con un profondo valore simbolico. Tutte le arti tentano di rendere visibile il divino

La danza indiana è linguaggio che si manifesta attraverso i movimenti del corpo eseguiti con grazia e bellezza. Sono ben 67

le posizioni delle mani, chiamate Mudra. Ogni movimento delle mani, delle dita, delle palpebre, degli occhi, del tronco o dei piedi sono segni di un preciso linguaggio

Nel pantheon indiano Shiva è una deità tra le più importanti, più antiche e complesse. Shiva Nataraja è il signore della danza, ma rappresenta anche tutti gli elementi: terra, fuoco, acqua, aria, etere. Il tempio di Shiva Nataraja si trova a Chidabaram

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’arte per l’arte, intesa cioè come il prodotto di un’estetica è un concetto tipicamente occidentale e tutto sommato moderno. In India è la religione induista il motore di tutta la produzione artistica, sia figurativa, sia il teatro e la danza e la musica. Nell'Induismo ci sono infinite divinità ma Dio resta uno e non ha forma. Sono gli artisti che gli danno forma, nome, colore e voce. Paradossalmente non è Dio a creare gli esseri umani a sua immagine e somiglianza, ma sono gli esseri umani a creare Dio a loro immagine e somiglianza. In India religione e teatro si fondono l'una nell'altro. Secondo il mito il teatro è stato creato dal saggio Bharata su incarico degli dei che volevano un nuovo divertimento che potesse essere ascoltato e anche visto. Bharata inventò così l’arte della danza e il quinto Veda, il Natyaved. Poiché era difficile da comprendere lo riscrisse in una forma più semplice: il Natya Sastra, il più noto dei trattati indiani sul teatro, la musica e la danza, dove si dichiara l'origine divina del dramma in quanto invenzione di Brahma e che nei piani della divinità avrebbe dovuto avere la stessa dignità della religione. Negli antichi trattati il nome Bharata indica un attore o un danzatore ed è anche l’acronimo delle parole bhava (sentimento), raga (musica) e tata (ritmo), i tre elementi del dramma. Danza e teatro hanno la funzione “alta” di catechesi dei testi sacri e quella popolare di diffusione delle storie epiche e difatti mettono in scena storie di divinità e di eroi archetipi che confermano il divenire della società. Gli antichi testi del Mahabharata e del Ramayana descrivono la vita di corte e gli intrattenimenti più diffusi legati all'arte della danza e l’Arthasastra distingue tra attrici professioniste e le devadasi, le “schiave degli dei” che si esibiscono nei templi e danzano esclusivamente per le divinità. Esistono anche tre figure professionali di danzatori: il nata, l'attore generico; il nartaka, il danzatore specializzato e la ganika, la cortigiana, abile danzatrice e musicista. Insomma, come abbiamo visto, il teatro-danza indiano è una fusione armonica di musica, danza e recitazione con un profondo valore simbolico perché rappresenta emozioni o ve-

rità religiose e, pertanto non è possibile separarli. Il cantastorie è spesso l’interprete principale e utilizza uno strumento musicale per suonare, ma anche come unico attrezzo di scena che secondo i casi ha la funzione di rappresentare qualcosa d’altro: un arco, una spada, una mazza, un fiume, un esercito o un fiore. Le arti indiane tentano di rendere visibile il divino e l'artista deve cercarlo in sé ed evocarlo. Le danze classiche indiane sono sette, hanno provenienze geografiche diverse e nomi diversi: Bharatnatyam, Kathakali, Mohini Attam, Kuchipudi, Odissi, Kathak e Manipuri; hanno stili, costumi, linguaggi, strumenti musicali e musiche diverse, ma sono tutte basate sulla cultura Hindù. Gli stilemi delle danze classiche si sono cristallizzati attorno alle espressioni descritte nel Natya Sastra nel quale furono fissate le regole della coreografia: le posizioni del corpo e delle braccia, i passi dei piedi e le azioni dei danzatori. Alla base della danza classica indiana ci sono ben 67 posizioni delle mani chiamate Mudra e nell'arco di quasi duemila anni si è arricchita ampliando i segni e il linguaggio; fino a scendere nei particolari, approfondendo i movimenti di altre parti del corpo come la testa, gli occhi, le dita, i fianchi, la


un percorso che oltre ad insegnare la tecnica, comprendeva uno sviluppo spirituale, morale e religioso dell'individuo. Ancora oggi la musica classica indiana si basa su canoni e regole cristallizzate. Questa rigidità da un lato offre poche possibilità ai musicisti di apportare modifiche, dall’altro permette di tramandare la tradizione popolare della musica.

pancia, le ginocchia, le sopracciglia. Il danzatore deve anche interpretare nove “sentimenti” principali: erotismo, umorismo, pathos, esuberanza, eroismo, terrore, odio, mistero e pace. La rappresentazione perfetta di un danzatore è la somma dei gesti e delle posture del corpo, dalle espressioni verbali e facciali, dai costumi e dagli ornamenti. In un unicum artistico con le altre arti.

Musica e danza una sola arte

Strumenti musicali diversi: tabla, bansuri, sitar, saranghi, tambura sono elementi essenziali alla danza. Musicisti e danzatori diventano interpreti della spiritualità

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on può esserci danza senza musica, le due arti sono indissolubilmente legate. Anche l'origine della musica classica indiana è antichissima e si fa risalire al periodo dei Veda, quando gli inni e i canti devozionali degli Ari, furono raccolti in un unico testo: il Rig-Veda. Questo corpus fa sì che la musica indiana sia la più antica tradizione vocale del mondo giunta senza interruzioni sino ai giorni nostri. Anticamente i musicisti appartenevano a una precisa casta ed erano educati fin da bambini con

Sopra: il compositore e musicista indiano Ravi Shankar, universalmente riconosciuto come uno tra i più grandi virtuosi di Sitar. A lato e sotto, alcuni strumenti tipici dell’India settentrionale: il Sitar, una specie di liuto a venti corde, i Tabla, percussioni tra i più antichi e gli strumenti a fiato Bansoori e Shenhai

Esistono due stili musicali precisi: nel Nord dell’India la musica Indostana, la musica Carnatica nell'India meridionale. In comune hanno l’utilizzo del raga, la struttura melodica, e del tata la suddivisione ritmica che si devono combinare in maniera equilibrata. La musica Indostana è influenzata da quella persiana, retaggio del periodo Moghul, mentre quella Carnatica si è preservata integra, legata sempre più al mondo dravidico, alla vita dei templi e al servizio dei riti religiosi. Ancor oggi la spiritualità è l'essenza dei contenuti della musica Carnatica e si affida molto all'uso della voce. Gli strumenti tradizionali della musica Indostana sono: il sitar, il surbahar, il sarod, la tambura e il saranghi tra gli strumenti a corda; il bansuri e lo shenhai per quelli a fiato; le tabla, il bayan e il pakhavaj per gli strumenti a percussione. Esiste anche una tastiera indiana: l'harmonium. Il sitar e le tabla sono alla base di ogni composizione di musica Indostana. Il Sitar è lo strumento simbolo della musica indiana, costruito generalmente in legno di teak, ha una cassa di risonanza al fondo di una lunga tastiera che si suona con il plettro. Lo strumento ha 6 o 7 corde principali, di cui 4 si usano per la melodia mentre le altre servono per creare il bordone. Ci sono anche altre corde (9 o 13) che non sono suonate ma vibrano per “simpatia” creando un particolare suono armonico. I più grandi musicisti di musica sono Vilayat Khan e Ravi Shankar, famoso anche fuori dall’India. Le Tabla sono un set di due tamburi che si suonano con le dita e con i palmi delle mani, in grado di produrre una grande varietà di suoni, timbri e tonalità diverse. Tabla vuoi dire "tamburo suonato con la mano destra". L’influsso sull’Occidente Nel corso del XX secolo numerosi artisti occidentali si sono avvicinati allo studio della musica indiana, fra i primi i Beatles già alla fine degli anni Sessanta. Collaboravano con musicisti indiani e sperimentavano l'uso dei loro strumenti. Altri artisti, interessati alla musica indiana, che hanno suonato fianco a fianco dei più grandi artisti locali sono John Cage, John Coltrane, George Harrison, Michael Brook, Ry Cooder, John McLaughlin, Jan Garbarek, i Rolling Stones, Jimi Hendrix, i Traffic e i GratefuI Dead.

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HIMALAYA dimora delle nevi

India paese caldo, ma non solo. Le grandi vette e le verdi valli degli stati nord occidentali sono luoghi nei quali la natura, in tutte le sue splendide varietà, permea la vita e la religiosità della gente. Vista dallo spazio, la catena himalayana, con i suoi contrasti di colore amplificati dall’altezza siderale, ispira sicuramente meraviglia, ma anche soggezione, rispetto di Federico Formignani

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Queste montagne, da sempre, sono considerate la Casa delle divinità indiane. Dalle innumerevoli vette, lungo le articolate valli che le separano, nasce e scorre il grande dono degli Dei: l’acqua. Da qui hanno origine numerosi fiumi, tra i più imponenti della terra. Uno fra tutti, il Gange 17


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Le grandiose catene montuose dell’Hindu Kush, del Karakorum, si dispiegano ad arco dall’Afghanistan al Pakistan all’India, sino alla Cina, per proseguire poi verso est con le vette e le valli Himalayane che a loro volta si allargano a ventaglio a comprendere un’area vastissima tra India, Nepal e Bhutan a sud; Tibet e Cina a nord. Sono quattordici le vette più alte del mondo che superano gli ottomila metri d’altezza. Qui nascono alcuni dei più importanti fiumi della terra (Indo, Gange, Brahmaputra, Mekong, Irawaddi ed altri ancora). In questo universo fatto di montagne altissime, concatenate le une alle altre per mezzo di valli profonde scavate da fiumi e torrenti impetuosi, l’uomo si perde nella sua nullità e la natura incute persino timore tanto è assoluta, Lungo molti anni, a prorompente, inarrivabile. grande prezzo, Estesi altipiani dalla vegetazione essenziale, ghiacviaggiando attraverso ciai immensi, nevi eterne, nubi possenti e mutevoli, molti paesi, andai a trascinate da venti vorticosi e pressoché continui, vedere alte montagne, contribuiscono a rendere il “tetto del mondo” un andai a vedere oceani. universo completamente a sé, abitato da popolaSoltanto non vidi, dallo zioni speciali che nel tempo hanno creato toponimi scalino della mia porta, vari e fantasiosi per indicare i differenti luoghi fisici, la goccia di rugiada grazie alle radici linguistiche tibetane, nepalesi, scintillante sulla spiga sanscrite, combinate e mescolate con le molte di grano altre lingue parlate dalle genti delle vette. Ecco alRabindranath Tagore lora che l’Himalaya è “la dimora delle nevi”; il Karakorum sono “le pietraie nere”; il famoso K2, in lingua locale Chogo Ri, altro non è che “il grande monte”. Ogni vetta, valle, altura, ha nomi tramandati dalla notte dei tempi; c’è persino “il monte bianco” (Dhaulagiri, 8167 metri) alto quasi il doppio

di quello europeo! L’India, nella sua parte settentrionale, è quindi una nazione montuosa e possiede località e paesaggi che meritano di essere conosciuti e visitati. Proprio a cominciare dall’estremo nord-ovest.

Nomi affascinanti e terre contese Lo Jammu-Kashmir è conteso da tre stati: India, Pakistan e Cina. Oggi la parte nord (Gilgit-Baltistan) e quella centro-ovest (Azad-Kashmir) sono rivendicate dal Pakistan, mentre analoghe rivendicazioni sono avanzate ad est da parte dei cinesi sulle vallate dello Shaksgam e sulla più vasta area dell’Aksai Chin, oltre il Ladakh. Lo JammuKashmir indiano, capitale Srinagar e invernale Jammu, è quello che di fatto presenta le migliori possibilità turistiche, perché il paesaggio è vario e chiunque ami la montagna vi trova grandi vette come vallate ampie e luminose, laghi d’altura e fiumi che, provenendo dai ghiacciai eterni, sono ricchi di acque che convoglieranno alla fine verso il piano. La stessa Srinagar è circondata da acque abbondanti: lo Jhelum vivifica i molti giardini Mughal e nelle vicinanze, incastonato fra i monti, c’è il lago Dal con le località turistiche di Shalimar e Nishat, prossime al bacino lacustre. Poco distante da Srinagar c’è Pahalgam, una stazione montana molto frequentata dagli amanti del trekking, che da questa base partono per emozionanti escursioni verso il ghiacciaio Kolahoi. La capitale invernale Jammu, attraversata dal fiume Chelab, è stata un tempo dimora dei re Hindu Dogra; i templi e i rifugi sparsi nelle foreste circostanti rappresentano un dei molti obiettivi tusegue

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Geografia umana dell’India. Pressoché universale. Oltre un miliardo e duecento milioni di abitanti; melting-pot di razze, etnìe, tribù; una decina di lingue “ufficiali” e quasi un migliaio di dialetti. La coesistenza? Qualche problema può esserci, ma in fondo non va così male, perché quasi tutti conoscono l’insegnamento ghandiano della ahimsa (non violenza)

HIMALAYA ristici. Poi c’è il Ladakh. Un altopiano ai piedi della catena himalayana, con diversi monasteri buddisti il cui cammino per raggiungerli è costellato da variopinte bandierine di preghiera. Il Ladakh è il luogo indiano abitato più alto del paese; i quasi quattromila metri d’altitudine ispirano pace e contemplazione, ma inducono anche gli sportivi a praticare emozionanti percorsi di trekking, gare di rafting, scalate avventurose. Se il Kashmir è stato definito da molti viaggiatori e poeti, “il più bel luogo della Terra”, il Ladakh, del quale è parte integrante, possiede altri “nomi” che indulgono alla fantasia e alla leggenda: Moonland, Shangri-La, Piccolo Tibet. Tutti pertinenti. Le foreste di questo stato himalayano, e il legname che ne viene ricavato, rappresentano la maggior risorsa economica del luogo. Anche qui, grandi altitudini e valli verdissime ricoperte di betulle, cedri deodara, abeti, pini e larici. Più in basso, i terreni coltivati producono frutta, grano, orzo, mais, miglio e, in certe zone anche riso. Il digradare delle vette himalayane (l’Himachal Pradesh vanta ben 136 montagne che superano i cinquemila metri!) disegna, attraverso colline, ampie vallate e picchi innevati, le antiche vie commerciali che conducevano al Tibet e all’Asia centrale; itinerari che per secoli hanno favorito la diffusione del buddismo. La capitale dello stato e Shimla, situata su un costone di montagna a 2.213 metri d’altezza. È una città che conserva molte testimonianze dell’epoca coloniale britannica; gli inglesi l’avevano eletta a

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luogo di residenza estiva. Rudyard Kipling (nei suoi romanzi ‘Kim’ e ‘Sotto i cedri dell’India’) ne ha descritto gli stili di vita, la laboriosità della gente e le caratteristiche dei monumenti cittadini. Quali, ad esempio, il vecchio Ufficio Postale e quello del Telegrafo; il primo, una struttura in legno color carta da zucchero; il secondo, un fabbricato in stile Tudor edificato in mattoni color sangue di bue con le parti in legno di un verde intenso. Altro edificio “colorato” è la Cattedrale Anglicana del 1857: un fantasioso fiorire di pinnacoli e archi color zafferano. Località turistiche popolari sono Kulli, situata in una vallata pittoresca e famosa per la coltivazioni delle mele e per la produzione di lane e tessuti lavorati con telai a mano; quindi Manali, che dispone di laghi e di sorgenti naturali. Ancora, fra i luoghi che sono sia turistici che religiosi, troviamo Chamba, Dalhousie e Dharamsala, nella quale vivono numerose comunità tibetane. Per lo sci e l’alpinismo ecco Kufri, le valli di Kangra e Kinnaur, mentre Lahaul e Spiri, aree montane remote scelte per l’alpinismo d’alta quota, si trovano sulle vie per il Tibet.

Uttarakhand, aria salubre e luoghi di preghiera Nel novembre dell’anno 2000 l’Uttaranchal, poi denominato Uttarakhand, è divenuto il 27.mo stato della Repubblica Indiana. Nato dalle “costole” dell’Uttar Pradesh, confina anche con Nepal e Cina. “Regina delle Colline”: questo è l’appellativo di Mussoorie, località ad appena 34 chilometri dal


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La vita di un uomo dovrebbe essere fresca come un fiume. Dovrebbe essere lo stesso canale ma una nuova acqua in ogni istante

capoluogo Dehradun, a 2000 metri d’altitudine. Forse è superfluo farlo notare, ma in questa vasta zona dell’India del nord-ovest, il termine “collina” va interpretato in maniera del tutto differente rispetto al comune sentire di noi europei. Qui chiamano colline dei veri e propri monti, nettamente sovrastati, questo è vero, dalle vette dell’Himalaya che “appiattiscono” tutto il resto! L’aria è salubre, ovviamente, e l’Uttarakhand è una delle mete preferite dagli indiani che vogliono lasciare le calde pianure sottostanti; la stessa Delhi non è poi così lontana, realtà che induce molti abitanti della capitale a scegliere questi luoghi per i fine settimana o per le loro vacanze. Numerosi sono i luoghi sacri hindu (Kedarnath, Badrinath, Gangotri, Yamunotri, Haridwar, Rishikesh) e i pellegrinaggi devozionali sono quindi frequenti e convogliano un gran numero di fedeli. La “scoperta” di Mussoorie come meta turistica data dal 1820, per merito del Capitano Young dell’esercito britannico che decise di venirci a vivere. Nel raggio di pochi chilometri dalla cittadina, vi sono panorami naturali e località davvero interessanti. Ad esempio, le tre bellissime cascate: Jahripani, Bhatta e Kempty Fall; specie quest’ultima, ritenuta la più grande e la più bella, situata ad oltre quattromila metri d’altitudine e circondata da altissime montagne. Tra le possibili mete non mancano i templi: Nag Devta Temple e Jwalaji Temple, che consente la vista degli impressionanti picchi himalayani. E a proposito della massima vetta mondiale (Everest, 8848 metri), a circa sei chilometri da

Henry Davis Thoreau

Mussoorie c’è la Sir George Everest House, primo ispettore generale dell’India, che ha dato il nome alla montagna. Era addetto a rilievi topografici, controlli del territorio e incombenze varie. Non immaginava certo che il suo cognome sarebbe diventato così famoso. Per gli amanti dello sci, c’è infine la stazione invernale di Auli, nella regione di Garhwal. Le piste sono le migliori del paese e scendono dai tremila ai duemila e cinquecento metri d’altitudine. Altra destinazione per trekking, alpinismo d’altura e avventura in genere, la catena montana del Nanda-Devi Trisul.

Sulle acque dell’India, siano esse di fiume, di lago, di mare, scorre la vita con le sue cerimonie di imbarcazioni e di luci. Anche la morte, scorre sull’acqua, per un trapasso dolce verso la reincarnazione

Il confinante Uttar Pradesh non ha vette elevatissime, comprese queste nel vicino Nepal. Ma tutte le aree di montagna hanno qualcosa d’interessante da mostrare ai visitatori. Nelle attività sportive troviamo la pesca (trote, salmoni), le escursioni in battello, in canoa, sui fiumi e sui laghi; poi c’è il rafting nei fiumi e nei torrenti, con rapide che talvolta raggiungono il punto 8 della scala Colorado (il massimo è 10), assicurando così vere emozioni forti. Per gli splendidi panorami delle vette innevate, sta ora prendendo piede anche la navigazione aerostatica (ballooning), oltre al deltaplano. Sci, roccia e alpinismo, completano il quadro delle possibili attività sportive. Girando tra le vette è possibile (anche se raro) imbattersi nel leopardo delle nevi; più facile avvistare il cervo muschiato, l’ibex e splendidi fagiani. Nelle alte valli vi sono poi i cervi chinkara, daini, orsi e persino i panda rossi.

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Alle sorgenti del

Un’ascesa continua e faticosa verso la dimora delle divinità indiane, fra le vette dell’Himalaya. Ghiacciai perenni dai quali nascono i fiumi che scenderanno al piano; fra tutti, il Gange, le cui acque purificatrici sono da sempre destinate a lavare le colpe dell’umanità

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Testo e foto di Aldo Pavan

mida, entra nelle ossa, la nebbia del primo mattino. Come un velo bianco si posa sui pini e sui solenni cedri deodara. Fluttua sul fondo della valle dove rumoreggia il Gange e si sposta silenziosa sospinta da fiacchi aliti di vento. Il termometro è appena sopra lo zero. I pellegrini che salgono con me sono sagome di fantasmi evanescenti che si muovono con passi ovattati. Alcuni sono scalzi, altri indossano semplici ciabatte. Portano con loro recipienti per raccogliere l’acqua del sacro fiume. Ci sono sadhu, uomini santi, ma anche gente comune: famiglie intere, donne, vecchi, ragazzi. E poi muli stracarichi. Perfino palanchini sostenuti da quattro portatori. Siamo tutti su questo pio sentiero ad ansimare verso la meta, verso il ghiacciaio, l’incipit del fiume più sacro dell’India, lì nel cuore dell’Himalaya. Coloro che si immergono in questo tratto di fiume hanno garantita la pulizia del corpo e dell’anima. I peccati vengono cancellati come da un colpo di spugna. Il bagno sacro è catartico.

Verso la Casa degli Dei Gangotri, a 3048 metri di quota, è alle spalle. Da qui mancano circa 23 chilometri da percorrere a piedi. Passo dopo passo, lungo una mulattiera, con il fiato corto, con il cuore che pulsa forte. La carenza di ossigeno si fa sentire. Ora la nebbia si alza. Lentamente, per la prima volta lo sguardo percorre la vallata, ne accarezza i pendii spogli, levigati dalle morene primordiali. Poi, laggiù, sul fondo, si svela la dimora degli dei: è la spettacolare quinta delle tre lame del Bhagirath, montagna bianca di nevi perenni, che si protende fino a 6860 metri di altitudine. Di fronte si eleva solenne, inviolato dagli alpinisti, il sorprendente pinnacolo di roccia e ghiaccio del Shivling, il lingua di Shiva, 6540 metri. Solo un attimo, il tempo di posare lo sguardo sulle cime sacre himalayane e poi la nebbia cala ancora e tutto diventa indistinguibile, vacuo come in un sogno. La pianura è a circa 300 chilometri più in basso. Per arrivare quassù si segue il corso del Gange che

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Shiva con il suo mistico tridente è il dio che, secondo la leggenda, fermò con la sua chioma, l’impeto delle acque sgorgate dall’alluce di Vishnu, trasformandoli in mille rivoli

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La dimora delle divinità indiane, fra le vette dell’Himalaya. Ghiacciai perenni dai quali nascono i fiumi. La montagna del gruppo del Bhagirati dove nasce il Gange

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Alle sorgenti del

si fa spazio tra le montagne incidendole con gole, forre e cascate. Fino a Gangotri si arriva in auto. Il paesino, inaccessibile durante l’inverno, si anima da maggio a settembre. Vi sono decine di ashram (luoghi di preghiera) e dharamsala (case per i pellegrini). Meta principale è il tempio dedicato al fiume sacro, anzi alla dea di nome Ganga, costruito sul posto dove secondo la più diffusa delle varie credenze popolari, racconta di re Bhagiratha che voleva lavare le gravi colpe di vita dei suoi antenati, grazie alle sacre acque del Gange e per questo si sottopose a mille anni di austerità e privazioni, rimanendo in meditazione su una sola gamba e a braccia alzate, all’interno di un cerchio composto da cinque falò ardenti (panchatapas, l’ardore dei cinque fuochi). Toccato dall’ascesi del re, Shiva acconsentì affinché le acque del Gange scendessero in terra, passando però prima dalla sua chioma intricata, per smorzarne la violenza. Questa leggenda è rappresentata da uno splendido bassorilievo che si trova nel tempio di Mammalapuram, vicino a Chennai.

Dalla “Bocca della Mucca”, il fiume Ormai è metà mattina. Ritornato il sole, l’aria si è fatta sottile. Le nuvole in cielo sembrano greggi erranti che si rincorrono. L’ampia vallata di Bhojbasa si apre improvvisa simile a un alpeggio alpino.

Siamo a quota 3792. Le cime himalayane la stringono in grembo. In basso prati, sopra ghiacciai perenni. Qua e là svettano bandiere rosse quasi travolte dal vento che soffia forte: indicano i rifugi degli anacoreti indù. Sono tende costruite alla meglio oppure bassi rifugi eretti con i sassi del Gange. C’è chi ci passa tutto l’inverno pregando e meditando. Il mio fiato intanto è sempre più corto, la testa si fa pesante e mi gira. Altri cinque chilometri e sarò arrivato. Gaumukh, a 3892 metri, è la bocca del ghiacciaio Gangotri dalla quale sgorga il Gange. La maggior parte dei pellegrini si ferma qui, davanti alla volta verde-azzurra di Gaumuk, la vasta caverna del ghiacciaio dalla quale sgorgano le acque del Gange. Le acque sono impetuose. Fanno paura, sono torbide e travolgenti. Ciononostante c’è chi si immerge, chi si lava, chi riempie i recipienti del sacro liquido. Gaumukh, letteralmente bocca della mucca, ha l’aspetto di una caverna buia. Il ghiaccio è grigio, sporco di detriti morenici. Lascia intravedere crepe e fenditure che si sfaldano. Grandi sfoglie di ghiaccio collassano sul letto del fiume. Mi guardo attorno con un misto di riverenza e timore. Faccio come fanno tutti: decido di togliermi le scarpe e di immergere almeno i piedi nelle acque ghiacciate. Chissà se mi assicuro il paradiso, no-

GANGE

Muli trasportano provviste e materiali per una spedizione. A sinistra: donna in cammino per raggiungere le sorgenti della Madre Ganga

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nostante i miei peccati... Il Gange nasce da qui, o almeno così si ritiene nella credenza popolare. Il grande fiume prenderebbe vita da un ghiacciaio di 28 chilometri che scende dalle pendici del monte Chaukhamba. Ma per la verità la grande massa grigiastra del ghiacciaio Gangotri è lambita e alimentata dalle acque che in estate scendono dalle alte cime che la racchiudono. È possibile tornare a vedere il Gange allo stato liquido ancora più in alto, salendo ulteriormente di quota. E cioè raggiungendo la terrazza glaciale di Tapovan che si estende sotto l’impressionante Shivling. La via per le sorgenti è ancora lunga, sale molto più in alto. Attraversa il ghiacciaio e si porta sulla sua morena sinistra, scavalcando ripidi pendii fioriti di rododendri. Ci rimettiamo in cammino. Fa strada Barat, la guida. Conosce i passaggi tra i crepacci. Ora si tratta di aggirare il fronte del ghiacciaio, di salirvi sopra e di attraversarlo in larghezza prima di affrontare l’ultima salita che conduce ai 4460 metri di Tapovan. Il sentiero non è segnato. La via cambia a seconda dei movimenti del ghiaccio per evitare le improvvisi fenditure che si verificano. Sembra di salire verso il nulla, verso il cielo dove ora volteggiano le aquile. L’altitudine mi fa terribilmente penare. Un gruppo di nepalesi dalle facce bruciate dal sole scende veloce. Portano enormi carichi: provviste e materiali per una spedizione alpinistica. Saltano come capre di sasso in sasso.

Dalla dimora di Shiva, il sacro Gange Finalmente! Ecco il terrazzo di Tapovan, la vasta e spettacolare radura fiorita che si estende ai piedi dello Shivling, l’immagine stessa della sfida alpinistica; mentre di fronte si erge il poderoso gruppo del Bhagirathi. È un palcoscenico meraviglioso dove la natura fa da sfondo al sacro. Qui pregò re Bhagirath rimanendo immobile per lungo tempo prima che la dea Ganga iniziasse a sgorgare dal cielo per lavare le colpe degli antenati del re. E qui, tra l’erba, si raccolgono gorgheggianti le acque che scendono dallo Shivling per formare l’Akash Ganga. Forse è qui il vero incipit del grande fiume? Questi fili d’acqua che scendono in ordine sparso sono il Gange? Barat sostiene di sì, che questa è la vera sorgente. “Non c’è posto più sacro per la nascita di un fiume sacro”, è la sua spiegazione. E per coronare la riuscita della nostra ascesa si accende una delle sue pipe caricandola con sostanze allucinogene. Subito vola verso l’alto, verso le cime immacolate. In un solo colpo d’ala raggiunge lo Shivling e le tre vette del Bhagirath superando il ghiacciaio Gangotri. Poi dice di vedere, lì a est, il monte Meru, la montagna sacra per gli induisti e i buddisti da cui discenderebbe la vita attraverso i fiumi che si irradiano in tutto il pianeta. Lui vola e racconta ciò che vede. Io immagino l’Himalaya dall’alto. Sogno o sono desto? Fanno uno strano effetto queste montagne sacre. Forse ho fumato anch’io? 26

Il punto in cui il Gange lascia le valli Himalayane per iniziare il suo percorso è la città di Haridward. Per questa ragione gli induisti la considerano una città santa. Questo è anche uno dei quattro centri dove viene tenuto periodicamente il Kumbh Mela, la festa religiosa che richiama milioni di fedeli e di “sadhu” da ogni parte del Subcontinente per bagnarsi e purificarsi nelle acque del fiume


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La Ganga soprattutto è il fiume dell’India... Un simbolo dell’eterna cultura e civiltà indiana, che sempre cambia e sempre scorre, eppure rimane sempre la stessa.... Jawaharlal Nerhu


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l'India sottozero

Un’esperienza invernale nel Ladakh, alla scoperta del fascino di una natura isolata dal mondo ma ravvivata dal calore umano di gente semplice e ospitale di Benedetta Rusconi

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Come la rugiada è asciugata dal sole del mattino così, alla vista dell’Himalya, i peccati dell’umanità

Purana (testi sacri dell’Induismo)

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Anziana donna tibetana recita le preghiere con il suo mulino di Dio, simbolo di spiritualità. All’interno, i mulini portatili hanno una cavità dove si trovano delle strisce di carta con innumerevoli ripetizioni del mantra

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C ,, “Om, Mani, Padme, Hum”, recita il “fiore di loto”, la preghiera che ringrazia Buddha per la sua infinita saggezza

i sono arrivata in un giorno di gennaio, con uno dei pochi voli che, condizioni atmosferiche permettendo, si alzano all'alba da Delhi, sorvolano le montagne dell'Imachal Pradesh e atterrano nel piccolo aeroporto militare di Leh. Ci sono arrivata nel periodo più sconsigliato dell'anno, senza sapere cosa avrei trovato; con un bagaglio carico di indumenti pesanti, "perché” mi avevano ripetuto l'estate prima “il freddo qui non concede tregue". E ci sono arrivata ricordando una Leh affollata, con le poche strade che la attraversano piene di macchine, camion, corriere sgangherate e poliziotti che fingono di controllare il traffico; viva, insomma, e persino troppo rumorosa e inquinata per trovarsi accanto all'Himalaya. E invece sono atterrata in una cittadina spoglia, desolante e terribilmente silenziosa. Poca neve ghiacciata ai lati delle strade, la maggior parte delle botteghe chiuse in attesa dell'arrivo dei turisti, il mercato che, se il tempo è buono e gli aerei provenienti dalla capitale indiana possono atterrare, offre verdure fresche e polli interi, altrimenti propone cibi in scatola.

Ai confini del mondo In inverno, si raggiunge Leh soltanto in aereo, perché le due strade militari che la collegano con il Sud dell'India o con il Kashmir sono impraticabili. In due ore si passa dalla pianura di Delhi ai 3500 metri di altitudine della capitale del Ladakh, e questo può rappresentare un problema. Il secondo è il clima: un freddo secco e pungente, con temperature costantemente qualche decina di gradi sotto lo zero. Nonostante Leh sia la cittadina più sviluppata di questa regione del Nord indiano, il riscaldamento delle case è assicurato dalle stufe a legna; non c'è acqua corrente e l'elettricità è concessa soltanto tre-quattro ore al giorno. Insomma, ci si sveglia all'alba, con il canto del muezzin - il 16% della popolazione del Ladakh è musulmana e accanto al tempio buddista esiste da secoli una grande moschea - con un solo, assillante pensiero: trovare il coraggio di uscire dal sacco a pelo per accendere la stufa e scaldare un po' d'acqua. I primi giorni a Leh, nel tentativo di abituare il mio corpo al clima e alla quota, non ho potuto fare a meno di chiedermi perché avessi deciso di trascorrere l'inverno in un posto simile. Ospite di una famiglia che avevo conosciuto l'estate precedente, mi sentivo continuamente gli occhi di tutti addosso. La curiosità di scoprire se un'occidentale sarebbe riuscita a restare in mezzo a loro così a lungo era persino imbarazzante; e non potevo fare a meno di sentirmi coinvolta in un'assurda sfida personale, in cui dimostrare che sarei riuscita a vivere come loro. Passeggiando per la cittadina ho però lentamente ritrovato il motivo per cui vi ero arrivata. Gli abitanti di Leh lavorano poco in inverno, perché non possono coltivare la terra e non hanno turisti da intratsegue

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tenere. E allora si concedono del tempo, e trascorrono lunghe giornate scandite da abitudini e ritmi lenti e rassicuranti. Non escono mai di casa prima delle dieci, e si infilano in una delle poche botteghe aperte o nella biblioteca cittadina a leggere il giornale appena arrivato da Delhi. Giocano a hockey sul laghetto ghiacciato nel cuore della città, raccolgono la legna per la stufa, vanno al mercato… Ma soprattutto, chiacchierano. Parlano per ore, seduti al tavolo di qualche ristorante tibetano con una tazza di tè bollente tenuta avidamente tra le mani, per scaldarsi. Parlano tra loro, e soprattutto parlano con gli stranieri che vagano per l’abitato alla ricerca del motivo del loro viaggio. Si raccontano, fanno domande, restano ad ascoltare le risposte. E poi, aspettano. Aspettano sempre qualcosa o qualcuno. Il volo da Delhi che porta la merce per il mercato e la posta per loro; la squadra di hockey della regione vicina, per un'appassionata competizione sportiva; la visita di un noto Lama da Dharamsala (nel vicino stato indiano dell'Imachal Pradesh e sede del governo tibetano in esilio), che possa tenerli impegnati per giorni nel Tempio, a pregare e ad ascoltare i suoi insegnamenti.

Com'è il Chadar? E aspettano anche, con un'ansia incomprensibile per lo straniero, che faccia ancora più freddo e si sfiorino i -30, -35°C. È infatti con queste temperature che gli abitanti della valle dello Zanskar, una delle più isolate di tutta la regione, racchiusa tra ghiacciai che sfiorano i 7000 metri, segnano il confine con le terre del Kashmir e rendono impossibile ogni spostamento da ottobre sino a maggio, quando riescono a uscire dai loro villaggi e raggiungere Leh, per portare burro e formaggio di yak al mercato da barattare con riso e legumi e far visita ai parenti che hanno deciso di vivere in città. Possono farlo solo tra gennaio e febbraio perché, grazie alle temperature terribilmente basse di questo periodo, il fiume Zanskar ghiaccia e diventa una "strada". Un evento straordinario, che permette agli abitanti della vallata di dimenticare il loro isolamento. "Chadar" in lingua locale significa "fiume ghiacciato" e in questo periodo non si fa che citarlo. "Com'è il Chadar?"; "È pronto il ghiaccio? È abbastanza spesso?"… Quando finalmente, in uno dei soliti ristoranti tibetani dove le giornate scorrono lente sorseggiando tè, entrano i primi uomini arrivati dal Chadar, la gioia di tutti è grande e l'accoglienza commovente. Li fanno sedere, li rifocillano, li bombardano di domande sulle condizioni del fiume, si contendono la loro compagnia, perché sono mesi che non li vedono e l'attraversata dello Zanskar non è mai uno scherzo. Ho chiesto a un gruppo di uomini arrivati dal Chadar quando sarebbero tornati in valle; mi sono unita a loro e ho cominciato così il mio viaggio sul fiume ghiacciato. Le regole erano poche ma molto chiare: si marciava per 7-8 ore al giorno, concedendosi segue 32

Pashmina Scialli e sciarpe rappresentano uno dei vanti de “La Via delle Indie”. Stoffe indiane rare e preziose che fanno parte del più sofisticato artigianato popolare sin dal 1440, anno in cui le donne e gli uomini delle montagne iniziarono a tessere e ricamare

questi scialli pregiati. Lo sapeva bene Napoleone che, di ritorno dalla campagna d’Egitto (le Pashmina già viaggiavano per il mondo!) ne fece dono all’imperatrice Giuseppina. Pashmina, in antica lingua persiana, significa semplicemente “lana“; oggi è sinonimo della migliore lana del mondo: soffice e calda, viene ricavata dal pelo di alcune capre che vivono fra le alture dell’Himalaya. Grazie all’elevata altitudine, le fibre di questi filamenti si presentano particolarmente sottili, con un diametro cinque volte inferiore a quello di un capello umano


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La vita è un ponte, non costruitevi sopra alcuna dimora. È un fiume, non aggrappatevi alle sue sponde. È una palestra, usatela per sviluppare lo spirito, esercitandolo sull’apparato delle circostanze. È un viaggio: compitelo e procedete!

Buddha

Le bandierine di preghiera Buddiste vengono solitamente posizionate nelle gole più ventose in modo che sia più facile per la preghiera essere trasportata in tutto il mondo. Le bandierine poggiano sulla groppa del cavallo del vento e 4 animali (il Dragone, la Tigre, il Leone delle Nevi e il Garuda) che sono incaricati di donarle al mondo

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Dardi, discendenti ‘biondi’ di Alessandro Magno La valle di Dha-Hanu è racchiusa tra il Kashmir e il confine pakistano e da qualche anno, a causa delle tensioni tra India e Pakistan, si è riempita di chek-point militari. Qui, da oltre duemila anni, vive una popolazione di origine indoeuropea che nulla ha in comune con i vicini tibetani e indiani: i Dardi, chiamati anche “Brokpa” (cioè “pastori”). Non più di 700 individui, sparsi in piccoli villaggi a nord di Kargil, con i lineamenti occidentali, la pelle chiara e un dialetto simile a quello parlato ancora oggi nell’area di Gilgit, in Asia centrale, dove venne fermato Alessandro Magno intorno nel IV° secolo a.C. Non si sono mai mescolati con le altre popolazioni, mantengono curiose tradizioni e dalla terra in cui hanno deciso di fermarsi hanno assimilato soltanto la religione buddista, ovviamente interpretata a modo loro. Oggi, per raggiungere questo popolo, è necessario procurarsi un permesso speciale e a volte accettare di essere fermati e interrogati dai soldati indiani. Ma la presenza militare ha anche permesso ai Dardi di avere qualche agevolazione, come i pannelli solari sui tetti delle case, gli autobus gratuiti diretti ogni giorno a Leh, oltre a televisori e antenne paraboliche per scoprire che il mondo non finisce sulla vicina strada per Kargillana e proponendo una vasta gamma di colori e disegni nella migliore tradizione artigianale indiana.

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una sosta a metà giornata per mangiare e bere qualcosa di caldo. Si dormiva nelle grotte lungo il fiume, e ognuno contribuiva alla ricerca della legna per il fuoco e alla raccolta dell'acqua in grosse taniche di metallo. Ma c'era anche un'altra regola, implicita, che aveva condizionato sin dall'inizio la mia presenza nel gruppo: bisognava resistere al freddo, non lamentarsi mai, non tradire alcuna debolezza che in qualche modo potesse compromettere anche la marcia degli altri. Nei primi giorni ho consumato la maggior parte delle mie energie nel tentativo di non sentire freddo, di adattarmi alla vita nelle grotte e dimostrare ai miei compagni di viaggio che avrei potuto farcela. Ma all'ennesima domanda di rito "Come stai? Hai freddo?", ho risposto loro: "Sì, mi spiace; ho freddo e non so cosa farci". Il Chadar, ovvero quel tratto di fiume che scorre in un canyon e non è toccato da nessun villaggio, è lungo oltre 130 chilometri ed è percorribile normalmente in sei-otto giorni di cammino; sempre che il ghiaccio si sia formato lungo tutto il fiume, e non sia invece necessario aspettare qualche giorno o tentare deviazioni più lunghe. Sul fiume ognuno deve essere autonomo, badare a se stesso, portarsi il proprio


zaino e non essere di peso a nessuno. Quindi, anche sentire freddo può diventare un grosso problema per tutto il gruppo. Da quella confessione, il mio rapporto con loro è cambiato, naturalmente; e affidarsi ciecamente ai loro consigli e alle loro usanze è stato inevitabile, oltre che doveroso. Ho permesso loro di prendersi cura di me; ho bevuto quell'improbabile tè con burro e sale che, come mi ripetevano ogni volta, "scalda il corpo e dà energia"; ho mangiato chili di aglio per aumentare le mie difese immunitarie e ho provato tutti i loro espedienti per non farmi stancare dalle basse temperature. Non sono riuscita in ogni caso a risolvere il problema del freddo, ma in compenso mi sono tolta di dosso quell'arroganza tutta occidentale che mi teneva inevitabilmente lontana da loro. Il viaggio sul Chadar e nella valle dello Zanskar è durato quasi un mese e quando sono tornata a Leh le temperature cominciavano a sembrare più accettabili, pur mantenendosi intorno allo zero. Leh e i vicini monasteri di Stok e Matho stavano festeggiando l'inizio dell'anno tibetano con feste buddiste emozionanti, richiamando pellegrini da tutta la

regione. Il Ladakh stava vivendo il suo periodo spirituale più importante. Alcuni monaci e contadini "cedevano" il loro corpo ad antichi oracoli tibetani; dopo un lungo periodo di totale isolamento e meditazione, si mostravano alla gente in cerimonie che erano un perfetto sincretismo di buddismo, animismo e superstizione. E alla fine di febbraio, nei cosiddetti "giorni di prostrazione" migliaia di fedeli di tutte le età hanno attraversato la città ripetendo mantra e inchinandosi a terra, senza mai fermarsi. Io continuavo ad avere freddo, ma questo non riusciva più a preoccuparmi. Lo ammettevo senza esitazioni a chi continuava a chiedermi come stavo. E quando ormai avevo imparato a trascorrere le giornate davanti a una tazza di tè bollente, semplicemente parlando e ascoltando, ha iniziato a nevicare - segno che le temperature si erano alzate e il rigido inverno si stava allontanando - bloccando i voli da Delhi per giorni. La "strada" gelata del Chadar, come ogni anno all'inizio di marzo, ha cominciato a sciogliersi e a tornare ad essere semplicemente acqua, obbligando così gli abitanti della valle dello Zanskar a continuare il loro isolamento. Almeno sino all'inizio dell'estate e all'arrivo dei primi turisti.

In Ladakh, e in particolare nella Valle dello Zanskar, esistono in tutto 20 monasteri buddisti femminili, spesso costruiti vicino a quelli maschili. Nel 1996 Tsering Palmo, una donna che ha studiato medicina tibetana e ha scelto la vita religiosa in età adulta ha fondato la Ladakh Nuns Association (LNA), per aiutare le monache in nuna sorta di adozione a distanza

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Incontro con i rifigiati tibetani nel piccolo villaggio di Poga Sumdo a 4500 metri di altitudine. I nomadi Khampa vivono in esilio una quotidianità fatta di lavoro e dura sopravvivenza, nella speranza, un giorno, di poter tornare a Lhasa oltre le creste rocciose himalayane Testo e foto di Angela Prati

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adakh, estremo nord dell’India. La regione segna il confine tra le cime dell'Himalaya occidentale e il vasto altopiano del Tibet. Chilometri di corsi d'acqua infiniti da percorrere a piedi mentre lo sguardo scorre il panorama lungo le montagne spesso senza nome. Salite e discese a oltre 5000 metri tra morene e gole e poi prati verdeggianti. E ancora le aride distese del deserto d'alta quota dell'altopiano tibetano di Chantang. Un posto dove i paesaggi continuano a variare con il sole, la pioggia, il vento, i silenzi, e dove l'immensità dei luoghi sembra non mutare mai. Lo sguardo del giovane “Khampa” è rivolto oltre le vette innevate e i ghiacciai dell’Hymalaya. Verso quella casa che non ha mai conosciuto. Lhasa è pura utopia per i rifugiati tibetani, nomadi sulle montagne del Ladakh. Alcuni di loro, nati e cresciuti in esilio, non hanno mai messo piede in


Tibet, oltre quelle creste rocciose. Sono da diversi giorni loro ospite a Poga Sumdo, un piccolo villaggio a 4500 metri d’altitudine, sulla pista che conduce verso il lago Tso Moriri, a una giornata di fuoristrada da Leh, il capoluogo della regione. Vivo con questa gente, ospite nelle loro case e divido con loro una quotidianità semplice, fatta di lavoro e di dura sopravvivenza. Ma anche di momenti di grande intimità religiosa, come l’ora della “puja” favorisce.

Momenti di vita quotidiana che trovano il completamento della giornata nella preghiera La preghiera buddhista raccoglie tutti, uomini, donne e bambini, avvolti nelle pelli di capra, nell’unica stanza grande del villaggio, appena intiepidita dagli ultimi raggi del sole. “Om, Mani, Padme, Hum”, recita il “fiore di loto”, la preghiera che ringrazia Buddha per la sua infinita saggezza.

Nel piccolo villaggio di Poga Sumdo, incontro il medico tibetano Dhondup, che una volta al mese, percorrendo le difficili piste d’altura, da Leh raggiunge gli accampamenti nomadi dei Khampa, un’etnia che vive in tenda sulle montagne situate oltre i 5500 metri d’altezza. Chiedo di poterlo accompagnare. Dhondup porta soccorso e cure, visita chi ne ha bisogno e dona medicine e vaccinazioni. Questa volta la sua missione è di vaccinare i bambini. Il medico cerca anche di infondere sentimenti di speranza a questo popolo di rifugiati ai quali, dopo l’invasione cinese del Tibet è proibito tornare nel loro paese. Un esilio che coinvolge anche la massima autorità religiosa, il Dalai Lama Tenzin Gyatso, che dal 1959 di è a Dharamsala in India. La vita di questa gente è durissima, in presenza di un clima impossibile, con temperature che nella stagione invernale raggiungono i trenta gradi sotto zero.

Immagini dei rifugiati tibetani a Poga Sumdo, seguaci di Budda. Il buddismo, nato in Indiia nel VI secolo a.C. trova una delle manifestazioni più importanti nella corrente buddista tibetana che nelle vallate dell’Himalaya ha incontrato ospitalità e dove ancora vive, a differenza di quanto avviene nei luoghi di origine (India del nord) dove non è più presente

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I VOLTI

Dai volti, dall’intensità degli sguardi, dalle espressioni, dalla luce degli occhi emerge e si percepisce l’anima di un popolo. L’india è un popolo e tanti popoli foto Alessandra Iaia - Aldo Pavan

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Il paese delle grandi montagne viene definito dai suoi abitanti, semplicemente, il “paradiso”. Paradiso di nevi eterne e ghiacciai, ma anche paradiso di coltivazioni e di fiori spettacolari negli altipiani e nelle vallate

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EVEREST “Dea Madre” della terra

Grandi montagne, ampie e profonde vallate, colline coltivate a tè, foreste e aree protette. Un infinito crogiuolo di razze, abitudini di vita, religioni e superstizioni, al quale va aggiunta la meraviglia di un famoso "Treno Giocattolo" di Claudio Pina

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Se l’India occidentale ha le sue più alte vette himalayane nei territori dello Jammu-Kashmir, del Ladack e negli stati dell’Himachal Pradesh e Uttarakhand, quella centrale è separata dalle cime più elevate dal Nepal, la cui altitudine si fa impressionante solo lungo i confini con il Tibet e la Cina. Qui sorge, assieme ad altre famose montagne, il celeberrimo Everest (8848,56 metri; e cresce ogni anno di qualche centimetro!). La vicinanza con i rilievi più imponenti del pianeta si fa ancora una volta diretta negli stati orientali del West Bengala, del Sikkim, dell’Arunachal Pradesh e, naturalmente, in corrispondenza dello Druk Yul, che altro non è che il Regno del Bhutan. Ancora; se la montagna regina della catena occidentale è il K2 (8611 metri) la più alta concentrazione dei famosi “ottomila” si registra in Nepal e lungo il confine cinese. All’inizio della catena orientale c’è poi la terza vetta del mondo, il Kanchenjunga (8586 metri) cima dominante del piccolo stato indiano del Sikkim. Certo, nella vasta area che si allarga poi tra India e Cina, non è che manchino altre notevoli montagne. Ma il fulcro dell’Himalaya, l’emozione di trovarsi perennemente nella dimora degli dei, la si avverte qui, nella catena orientale compresa tra i grandi e piccoli paesi citati. Senza contare che la toponomastica locale aggiunge, al fascino della natura, la suggestione di nomi altamente evocativi, coniati dallo scorrere dei secoli e dalle popolazioni che qui abitano. L’Everest, in lingua locale Chomo Lungma, sta per “dea madre della terra”; il Manaslu è la “montagna dello spirito”; l’Annapurna la “dea delle messi dell’abbondanza”; il Lhotse Shar è il “monte a sud est”, mentre il Kanchenjunga, poeticamente, racchiude “i cinque tesori della grande neve”.

Uno dei più piccoli stati indiani (grande poco meno del Friuli) ha avuto una storia indipendente sin dal lontano 1642, sotto la dinastia dei sovrani Chogyal, termine tibetano tradotto dal sanscrito “dharmaraja”, ovvero “sovrano difensore del dharma”. Nel 1975, attraverso un referendum, è entrato a far parte dell’India. Nel territorio interamente montagnoso del Sikkim, con capitale Gangtok (che sta per “collina elevata”) si parla una variante del nepalese. Va detto che sono moltissime le lingue e i dialetti che si ascoltano da queste parti, in gran parte originate dal ceppo linguistico sino-tibetano. Più a sud, oltre all’ufficiale (insieme all’inglese) hindu, la lingua dominante è il bengali. Gli antichi Lepcha che vivevano fra queste montagne chiamavano la loro terra “il paradiso”, mentre i tibetani, più concretamente, la definivano “la valle del riso”. Sanscrito è il termine maggiormente pertinente: “il paese delle montagne”. Oltre al già citato Kanchenjunga, vi sono le catene montuose della Singalila e della Donkhya, che generano profonde vallate che scendono al piano. Sono dive-

nute ultimamente luoghi frequentati da sportivi e turisti, per il trekking, l’alpinismo, il rafting. Volendo, anche per il riposo a la contemplazione, favoriti questi dai molti monasteri buddisti. Una nota di particolare interesse naturalistico riguarda le numerose varietà botaniche che impreziosiscono il territorio: 660 tipi di orchidee, 4000 specie di fiori, piante medicinali quali l’artemisia e la digitale. A Gangtok, oltre al Palazzo Reale, è interessante l’edificio che ospita l’Istituto di Tibetologia, fondato dal Dalai Lama prima dell’invasione cinese del Tibet.

Un “trenino” famoso: quello di Darjeeling Visto da lontano sembra un treno normale; man mano che si avvicina rivela dimensioni giocattolo, forme da cartoon, atmosfera da fiaba; insomma, da “effetti speciali”. Si tratta del trenino di Darjeeling, che scavalca non solo colline, ma anche logisegue

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Sono lembi di stoffa colorata, quadrati, a triangolo, a strisce, quasi sempre legati uno all’altro da corde o nastri, a testimoniare la riconoscenza degli uomini per le divinità che li proteggono. Si trovano lungo i sentieri impervi dei monti, a ridosso di monasteri o luoghi di sosta e ristoro. A renderli visibili e spettacolari, ci pensano i venti d’altura


ll “Toy Train”, treno a scartamento ridotto costruito tra il 1879 e il 1881, collega Shiliguri, prossima alla capitale del Bengala, Calcutta, a Darjeeling. E un “buffo” ma efficacissimo mezzo di trasporto che per coprire i 78 chilometri del percorso si inerpica dai 100 metri d’altitudine della metropoli ai 2.200 di Ghum, la più elevata stazione ferroviaria dell’India, poco oltre Darjeeling. Una linea ‘storica’ molto frequentata dai turisti

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La ‘cerimonia’ del Tè è famosa in quasi tutti i paesi d’Oriente. Ciascuno di questi paesi (e sono tanti) rivendica con puntiglio una primogenitura che riguarda sia la coltivazione, qualità e caratteristiche delle foglie, sia il rito della loro preparazione e consumo. La letteratura che coinvolge la ‘storia’ millenaria di questo diffusissimo infuso che proviene dalle foglioline aromatiche, è praticamente infinita

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che di costi e ricavi e di tecnologia. Sbuffando, si ribella ad orari “svizzeri”, dando priorità alle esigenze dei passeggeri. C’è anche una non ufficiale gara di colori tra i vivaci blu, azzurri, rossi del convoglio e i vestiti dei passeggeri, non meno squillanti e vari. Tra sari e turbanti, ceste e fagotti, il tutto spesso avvolto da folate di fumo della vaporiera, sembra più un musical di Bollywood, che un mezzo di trasporto pubblico. Ma l’India è sempre generosa di queste sorprese. E anche qui, nel Bengala occidentale, non manca di promesse. C’è persino un tocco leggermente umoristico che nasce dalle gradevoli sproporzioni tra vagoni e passeggeri; affacciati infatti ai finestrini, non è subito facile capire se siano viaggiatori giganti o sia il treno miniatura; insomma, una sorta di ”viaggi di Gulliver” indianizzato. Questo giocattolone, comunque, trasporta con impegno e ininterrottamente migliaia di persone lungo il tragitto Jalpaiguri-Darjeeling (86 chilometri) superando forti pendenze e salendo a duemila metri. E questo, dal lontano 1881. Ha due nomi: quello ufficiale è Darjeeling Himalayan Railway, ma quello usato da tutti è “Toy Train” (treno giocattolo). Dal 1999 è classificato tra i beni protetti dell’Unesco. A pochi chilometri da Darjeeling si trova il Tibetan Refugee Self-Help Centre, sorto alla fine degli anni Cinquanta per ospitare gli esuli tibetani e il XIV Dalai Lama, in seguito alla invasione cinese di Lasha. Qui vigono regole comunitarie e ritmi di vita secondo i sacri principi, ma fioriscono anche attività artigianali di tradizione tibetana. Numerosi sono i templi buddisti fondati intorno a Darjeeling dai profughi tibetani. Si trovano quasi tutti in posizioni elevate e molto panoramiche ed è possibile riconoscerli da lontano per le bandierine colorate sospese al vento: sono le preghiere e i voti dei fedeli di suggestiva e intensa semplicità.

Tè nero, profumato e prezioso Darjeeling ha firmato uno dei tè neri più pregiati e famosi del mondo: lo chiamano lo “champagne dei tè”. Tanto che il marchio viene talvolta falsificato; infatti pare ne venga commercializzato un volume doppio rispetto alla effettiva produzione. E’ coltivato dal 1841. E’ un tè di montagna, dalle piantagioni in quota, ultimo possibile limite per la coltivazione degli eleganti e lucidi cespugli della Camellia Sinensis. Siamo ai piedi della catena dell’Himalaya, appena sotto quel misterioso territorio che prende il nome di Sikkim, avvolto da quel stimolante divieto di accesso (ora revocato) che eccita da sempre il viaggiatore di vocazione. Una atmosfera alla Buzzati, una attesa da Deserto dei Tartari, che spesso, come nel capolavoro dello scrittore, va delusa. Per anni il divieto non ha scoraggiato quei viaggiatori che uniscono a quello che si può vedere quello che riescono a immaginare. Non si può passare da Darjeeling senza visitare

una “tea farm” o “tea garden” e vedere il processo dalla raccolta alla teiera. Una delle sorprese, a parte la danza della raccolta, è la valutazione che gli assaggiatori professionisti fanno del tè. Classificazione affidata al naso e alle mani che vengono chiuse a guscio dopo aver messo nel palmo una certa quantità di foglioline essiccate. Si soffia forte nello spazio aperto tra i pollici e poi si annusano gli aromi sprigionati. Ho avuto la sorte di assistere a lunghe discussioni tra assaggiatori: incomprensibili, ma molto suggestive! Altra scoperta nel processo di essiccazione su linee di scorrimento, l’azione tremula del nastro per far cadere le polveri di tè, dividendole dalle pregiate foglioline. Ecco l’origine della ormai universale bustina di tè inventata dagli inglesi, nata per recuperare le briciole del tè, sempre pregiate, ma non eleganti come le foglioline che si gonfiano nella teiera: un cucchiaino per ogni tazza, più uno appunto per la teiera. Tutto qui è ancora piacevolmente artigianale, gli strumenti sono elementari; è l’uomo, la sua esperienza e sensibilità a giocare il ruolo determinante. Le colline dell’Assam, dell’Arunachal Pradesh, del Sikkim, del Bhutan, ai piedi dell’Himalaya, disegnano un paesaggio molto dolce, uno dei mille volti dell’India. Gli innumerevoli paesini abbelliti da graziose costruzioni, villette sparse nel verde, danno al viaggiatore europeo una sensazione di paesaggio familiare ma con qualcosa in più, come l’esuberanza della vegetazione, il silenzio, i grandi spazi e una quieta operosità. Il lavoro nelle vaste piantagioni di tè infatti, ha in sé una grazia tranquilla e silenziosa, quasi una danza lenta nel rispetto della natura. La raccolta è affidata a giovani donne per la precisione e la delicatezza del tocco nella scelta delle tenere foglioline da far scivolare nelle grandi gerle. Un rituale antico, quasi una cerimonia. In questa zona si respira anche una piacevole ‘suspence’ contemplativa, che nasce dalla continua attesa che tra le nubi in movimento possa apparire anche solo per un attimo la grande montagna: forse il mitico Everest, forse un’altra delle innumerevoli vette coperte dalle nevi eterne. Più a oriente, ecco l’Arunachal Pradesh, stato “meno” indiano degli altri. L’influenza tibetana e birmana è notevole, l’animismo fronteggia con successo il buddismo e la natura è più incontaminata che altrove. Si passa dalle zone calde e umide lungo il Brahmaputra e del suo affluente Kameng, a quelle temperate delle medie altitudini con foreste sempreverdi, sino a quelle di montagna dove prevalgono le conifere. L’Arunachal Pradesh è un immenso zoo libero, che ospita una notevole varietà di animali: tigri, leopardi, orsi bruni, cervi, panda rossi, gibboni bianchi e una fauna avicola difficile da descrivere. Ai confini con la Cina, si elevano maestose le ultime grandi vette della catena himalayana.


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DELHI dal tuk-tuk al metrò

L’unica grande città storica, capitale e porta d’ingresso dell’India del nord, è un concentrato di eccessi e contrasti. Delhi come le grandi metropoli è frenetica, caotica. Una città unica con le sue antiche rovine e i suoi moderni quartieri di Paolo Stefanato

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frecciano auto a destra e a sinistra, sgommano, sfiorano, evitano, scartano. Auto vecchie, bucate dalla ruggine, gomme lisce dall'usura, e auto nuove, utilitarie che sono l'orgoglioso simbolo dell'ascesa sociale. Taxi neri, verdi e gialli, gialli e neri, tanti in stile inglese, e tanti “old Italy”, vecchie 1100 Fiat, auto da noi scomparse quarant'anni fa e poi passate, con le loro linee di montaggio, al mercato indiano. Nel fiume di traffico s'insinuano motorini, scooter, con famiglie intere sedute a sandwich, papà che guida, mamma che chiude, e in mezzo uno, due, tre bambini, stretti tra i genitori perché non cadano. Qua e là biciclette e tricicli carichi di ogni mercanzia, cartoni, valigie, blocchi di ghiaccio, galline. E poi, il monumento nazionale: i tuk-tuk, gli scooter a carretto, a tre ruote, per passeggeri o merci, il più diffuso dei mezzi pubblici, agile, svelto, relativamente comodo, economico, pericolosissimo. Ogni tragitto, a Delhi, può essere l'ultimo. Il traffico procede a fiumi, camion, autobus, cisterne di

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Giovani donne nei loro sari colorati si dirigono verso il Tempio di Loto. Una struttura di culto, aperta a tutti senza distinzione di religione. Completata nel 1986 il Tempio dalla singolare forma del fiore di loto, ha vinto numerosi premi di architettura, ed è diventata un’attrazione per la città. Sopra: Tassista Sikh



Sguardi e sorrisi di ragazzi, felici di farsi fotografare, in una città dove la vita si svolge in gran parte lungo le strade in un caos ordinato e assordante

acqua potabile, tre, quattro, cinque corsie per parte, tutte quelle che la strada permette, non c'è destra o sinistra che conti. Il rumore di fondo è assordante ma ci si fa l'abitudine e diventa una compagnia sonora costante e invisibile: stupirebbe il silenzio. Ogni tanto si assiste a un incidente: il miracolo è che siano così pochi, la sicurezza è affidata alla fortuna, a Budda, alla benevolenza degli antenati, all'astuzia. Non al codice della strada, che se anche esiste non gode di grande considerazione, non a cinture, non a caschi, che sono protezioni per poche minoranze consapevoli. Nessun straniero si avventurerebbe a guidare in questa città caotica; del resto, un autista costa poco e solo lui si può destreggiare nel suo habitat, come un aborigeno nella foresta. Di Delhi, dell'India, travolgono le quantità: di traffico, di gente, di bancarelle, di oggetti, di rumore, di cibo. Onde urbane che fluttuano. Mercati colossali, sacchi giganteschi di spezie, di riso, di tè, montagne di frutta e di verdure, esplosioni di colori imprevedibili. Mercati turistici carichi dei prodotti di artigiani lontani, abili e poveri, capaci di fabbricare gioie, giocattoli, souvenir, senza rendersi conto delle destinazioni finali che avranno. Lo stile di queste cose lusinga gli occidentali, offre tradizione a buon mercato e due braccialettini di osso risolvono pranzo e cena di una famiglia numerosa. Cataste immani di tessuti, vie intere di patchwork, copriletti, cuscini, tovaglie, manufatti d'arlecchino costruiti a riquadri cuciti tra loro e arricchiti di specchietti, perline, metalli e vetri, fantasie di donne amorevoli e intraprendenti. I commerci sono monocolturali: una via di tessuti, un'altra di oggetti in legno, un'altra, intera, di ceramiche, e via così, per tutta la città. Intorno alla grande moschea, un luogo tra i più vivaci di gente anche per la cultura araba che serpeggia nel tessuto urbano, sotto i portici e sui marciapiedi venditori di denti singoli e di dentiere complete, di arti artificiali, ma anche di immagini sacre, di bronzi d'arte, di statue in pietra. Banca-

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relle di pepe e di spezie, clienti di barbieri avvolti in lenzuola candide, tutto in mezzo alla strada, il luogo più naturale del mondo.

Anagrafe e vita urbana La città, dietro alla moschea, ansima di commerci. Cataste di paraurti, montagne di pneumatici, pesci vivi e morti, ceste di trombe di clacson, gabbie di galline sfarfallanti, case che sembrano sgomitare tra loro alla ricerca di spazio, appoggiate l'una all'altra come se ciascuna sostenesse non sé stessa ma l'intero quartiere, l'intera città. I torrenti di gente che cammina sono soggetti collettivi a sé: l'individuo non esiste, esiste solo la massa di individui, che si sposta con la lentezza e la complessità delle maree. Sulle grate che dividono le strade e che proteggono i marciapiedi si celebra il rito del bucato: ogni appendiglio possibile è occupato da un indumento. La gente vive sulla strada – dorme, mangia, procrea – e sulla strada stende i panni. Anche l'anagrafe riconosce il diritto di occupare i cigli delle carreggiate: del resto, se parcheggiano


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Oggi l’India ci appare come un museo di storia nel quale tutte le età dell’umanità coesistono in eterno presente Alain Daniélou

le auto, perché non possono parcheggiarsi le famiglie? E sui registri pubblici, le persone sono abbinate al luogo dove, semplicemente, stanno: tra il secondo e il terzo albero a destra, prima della cancellata. Così li si registra, ecco l'indirizzo dei documenti. Se la casa è la strada, il bagno è la stazione. Sulle banchine che attendono i treni la gente si lava alle fontane, si asciuga con una pezza portata da casa (si fa per dire), spazzola i denti col dentifricio e si mette in posa per le foto. Qui tutti sono felici di farsi fotografare, non c'è storpio o miserabile che – contro la nostra sensibilità di europei - non ami mettersi in posa per la fotocamera di un turista, soddisfatto poi di vedere ritratti il suo moncherino, le sue piaghe o la sua faccia ritardata. Non è cinismo di turista: è la disarmante, amorevole ingenuità di costoro, più poveri di qualunque povero occidentale, che li spinge a chiedere esplicitamente, umilmente, arrendevolmente una fotografia, esprimendo poi gesti di gratitudine. Così come in tanti quadri fiamminghi nelle scene popolari si individua sempre qualcuno intento a svuotar

vesciche o intestini contro un albero, presso un muro o in un cerchio forato nel ghiaccio, così in India a ben guardare ogni paesaggio è cosparso di silenziosi, discreti luoghi di evacuazioni, basta un cespuglio, dell'erba alta, un antro. La natura è natura, e ciò che è naturale è naturale. Perché scandalizzarsi? Nei campi delle periferie, specie di prima mattina, si scorgono le teste di corpi accovacciati, che poi si alzano e vanno, così, senza disagi e, forse, senza meta.

Il famoso tuk-tuk, tipico mezzo di trasporto. A metà tra il risciò a pedali e il taxi

Ma tutti gli indiani – quelli che guidano, quelli che camminano, quelli che vendono, quelli che aspettano, quelli che sorridono da una carrozzella – hanno una forza superba nello sguardo: appuntito, intelligente, penetrante, vivace. Nello sguardo di un vecchio o di un bambino, in quegli occhi sempre neri e aguzzi, c'è la voracità dell'intelligenza e la serenità della storia, la rassegnazione della religione e l'amore per il prossimo. Ciascuno è sempre uno sguardo fiero, onesto, denso di sentimento e di saggezza. Non lo si dimentica.

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La catena himalayana genera grandi quantità di acque. La vena portante dell’Assam è quella del Brahmaputra, immenso fiume che nasce nell’altopiano tibetano

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Certo, anche l'India è Asia! Ma gli stati a oriente del Bangladesh, che con l'Assam si insinuano a ridosso dei confini di Cina e Myanmar, hanno qualcosa di diverso e di speciale. Caratteristiche etniche, tradizioni di vita, legami forti con il territorio. La natura è splendida, il tè che vi si coltiva è il migliore del mondo e la fauna dei grandi Parchi uno spettacolo da non perdere Testo e foto diLucio Rossi

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li stati indiani a oriente del Bangladesh, che con l'Assam si insinuano a ridosso dei confini di Cina e Myanmar, hanno qualcosa di diverso e di speciale. Caratteristiche etniche, tradizioni di vita, legami forti con il territorio. La natura è splendida, il tè che vi si coltiva è il migliore del mondo e la fauna dei grandi Parchi uno spettacolo da non perdere. La “curiosità” geo-politica dell’India orientale appare subito evidente dando uno sguardo alla carta geografica. L’estremo nord del Bengala Occidentale e l’estremo est del Bihar, importanti stati dell’immenso territorio indiano, si restringono considerevolmente, infilandosi in uno stretto passaggio (puro capriccio di confini!) prima di sfociare nell’Assam e allargarsi nella grande piana dominata dal Brahmaputra. A nord, con le vette himalayane e prehimalayane, incombono gli stati del Nepal, del territorio autonomo del Sikkim, del Buhtan. A sud, il Bangladesh. L’India, a oriente, si allarga poi come una grande “mano” articolata a confinare con la Cina, il Myanmar, avvolgendo ancora una volta il Bangladesh musulmano. Non sembri oziosa questa descrizione del territorio, perché proprio gli arzigogolati confini fra stato e stato sono la risultanza di una particolare situazione politica, etnica ed economica (presenza del petrolio) che per anni ha caratterizzato e condizionato l’atteggiamento del governo di Delhi nei confronti delle popolazioni locali e, per logica conseguenza, anche quello che rifletteva i rapporti con gli stati esteri confinanti. Unitamente all’Assam, il più importante degli stati orientali, c’è poi una “corona” di altri stati indiani (Arunachal Pradesh, Nagaland, Manipur, Mizoram, Tripura e Meghalaya) che solo da pochi anni sono stati aperti al turismo. La capitale dell’Assam è Dispur, un quartiere “amministrativo” della più grande Guwahati (o Gauhati) di fatto la più importante città dei territori situati ad oriente.

Fondata dal re demone Narakasura Guwahati si sviluppa lungo la riva meridionale del Brahmaputra, pur avendo, al di là del grande fiume, un altro centro abitato chiamato North Guwahati. Curiosa è l’origine del nome della capitale di fatto dell’Assam. Le due parole che lo compongono (Guwa “noce di betel” e Hatt “mercato”) testimoniano che il luogo, situato fra colline e vallate, fungeva da centro di raccolta e vendita di questo prodotto e di moltissimi altri che la fertile terra della zona offriva. Per inciso, è noto che in quest’area, come nell’intero sud est asiatico, le foglie di betel, unite alle noci di areca, vengono abitualmente masticate, determinando alla lunga assuefazione in chi le usa. Un altro “nome” di Guwahati è quello di Pragiyotishpura (luce dell’est) antico centro di culto tantrico. Per quanto si riferisce infine al re demone Narakasura, lo stesso viene indicato come edificasegue 52


Quando è il tempo di raccolta del tè, le verdi colline si punteggiano di migliaia di vivaci colori: quelli degli abiti delle raccoglitrici; tra canti e confidenze, le gerle si riempiranno di preziose foglioline

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ASSAM

estremo oriente indiano

Thengal Mansion, la casa del tè Circondata da piante, fiori e naturalmente dalle coltivazioni di tè, la Thengal Mansion è un hotel heritage di sole cinque stanze: ma che stanze, e che casa! La palazzina, edificata circa 80 anni fa, conserva il fascino degli edifici coloniali dell’epoca. Originariamente di proprietà della famiglia Barooahs, famosi produttori di tè, è oggi meta di numerosi turisti alla ricerca di tranquillità, bon-ton e passione per il tè! Il piccolo, straordinario hotel, si trova in località Jalukanibari, prossima a Jorhat, capitale del tè dell’Assam.

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tore della città, che diventa così anche luogo “magico”. Di fatto questa parte di Assam è quella che ha accolto e amalgamato, da tempi assai lontani, diverse razze. Qui sono convenute dall’est popolazioni mongole che hanno incontrato gli indo-ariani dell’ovest, popoli che a loro volta si sono mescolati con i dravidici dell’emisfero australe. Sotto il profilo antropologico, quindi, le facce che si vedono nella regione sono la risultanza di tali profondi miscugli etnici. Guwahati, città viva, sul milione di abitanti, possiede alcuni bei templi, meritevoli di essere visitati. Il più noto è il Kamalhy Temple, sulla cima della collina Nilachal, che attira vere folle di pellegrini specie in occasione dell’Ambubashi, festa religiosa che coincide con il culmine della stagione monsonica, in giugno. Altro tempio notevole è il Bhuwaneshwari, anch’esso in posizione elevata rispetto al fiume. Ve ne sono poi altri che presentano differenti motivi d’attrazione: il Navagraha, prossimo al centro storico, è anche luogo di studio per l’astrologia e l’astronomia, tant’è vero che l’edificio è stato “dedicato” ai nove pianeti. Quello che comunque colpisce maggiormente la fantasia dei visitatori è il tempio di Umanando, dedicato a Shiva e situato su una piccola


isola del Brahmaputra: Peacock Island. E’ meta di visite devote ma anche occasione per piacevoli gite in battello sul grande corso d’acqua. Nel centro storico di Guwahati, Ambari, si trova il Museo di Stato dell’Assam e interessanti sono anche i Giardini Botanici e l’Erbario. Per mezzo di un ferry o attraverso il ponte Saraighat, si arriva a North Guwahati. Cosa vedere, in questa quieta e storica cittadina? Altri graziosi templi ma soprattutto, in prossimità di quello di Ashwakranta, l’impronta del piede di Krishna., scolpita su una roccia a bordo fiume e oggetto di profonda venerazione da parte dei locali. Al ritorno in città, un giro fra i mercati alla ricerca di stoffe, oggetti in metallo e bambù; nel Paltan Bazar e anche altrove c’è solo l’imbarazzo della scelta.

Brahmaputra, il fiume più alto della terra Verso est, sempre più a oriente, lungo l’imponente vena liquida del Brahmaputra. Più che un fiume, è un universo acquatico. Arriva dai remoti altipiani del Tibet e per un lunghissimo tratto del suo percorso è il fiume più “alto” della Terra, dato che scorre, da ovest verso est, sui quattromila metri d’altitudine. Poi comincia a scendere, compiendo un vorticoso giro su se stesso, puntando verso sud ovest, e in

territorio cinese si infila in un profondissimo canyon. Quando entra nell’Assam, non gli par vero di potersi espandere a dismisura nella fertile e vasta conca naturale che, divenuta in seguito grande pianura, accoglierà altre acque di grandi fiumi; il Gange su tutti. È in questo contesto paesaggistico e climatico più che favorevole, da media alta valle, che si trova uno dei due “beni” fondamentali (l’altro è il petrolio) dell’Assam: le immense, gradevoli alla vista e verdissime piantagioni di tè. Quello dell’Assam è il tè nero, sostanzialmente differente da quello verde della Cina. Sono piantagioni molto vaste, di centinaia di acri, a ricoprire colline e vallate. È un panorama di una dolcezza unica, quello che si incontra per chilometri e chilometri, punteggiato da distese d’alberi che filtrano i raggi del sole, favorendo zone d’ombra e di luce, completate dalle masse brunite dei cespugli di tè. Il verde diffuso, dicono i locali, è un vero sollievo fisico per la vista; la quiete e l’aria pura che si respira all’interno delle piantagioni, un vero balsamo per lo spirito. I colori contrastanti sono dati dagli abiti multicolori delle raccoglitrici, che non di rado accompagnano con canti la varie fasi del lavoro di raccolta delle preziose foglioline. Ogni “giardino-del-tè” dell’Assam vanta una propria storia, fatta di lavoro duro e di personaggi leggendari, quali

La pesca, o la cura degli armenti, intesa come gioco ma anche necessità di vita. Il lato positivo è che la fatica scivola via, con le risate e i lazzi tipici dell’età

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ad esempio Maniram Dutta Barooahs, un nobile assamese che insieme ad alcuni britannici diede inizio alla coltivazione su larga scala del tè, agli inizi del diciannovesimo secolo. Fra i molti bungalows e preziosi edifici costruiti nelle piantagioni, quale centro di organizzazione e raccolta del tè, spicca la Thengal Mansion di Jorhat, nell’Assam superiore. Appartenuta alla famiglia Barooahs, questa magnifica villa, dotata di stanze e locali illuminati da ampie vetrate e immersa in un vero paradiso di piante e fiori, è da tempo uno degli hotel più esclusivi della zona di Jorhat. La “Assam Company”, fondata nel 1839, è oggi la prima compagnia mondiale per la produzione e la commercializzazione del tè. E tutti, nell’Assam, non hanno dubbi su quale sia, nel mondo, il tè qualitativamente migliore.

Parchi e aree protette Uno dei problemi più sentiti dalle autorità indiane, nella tutela del patrimonio forestale nazionale e nella salvaguardia delle varie specie animali, è quello dell’antropizzazione sempre più incalzante delle molte zone create a protezione della fauna locale: parchi nazionali come aree specifiche, dette “santuari”. Non è difficile capirne le ragioni. Secondo una stima recente, nel 2010 la popolazione totale dell’India assommava a 1 miliardo e 174 milioni di individui; la Cina, il paese più popolato, nello stesso anno è arrivata a 1 miliardo e 330 milioni di persone. Gli esperti ipotizzano addirittura che nel 2037 l’India arrivi a superare il colosso cinese. Un tempo gli animali erano diffusi un po’ ovunque. Aree urbanizzate, deforestazione, bracconaggio e altri fenomeni negativi, hanno ridotto sempre più gli habitat originari e gli stessi rischi, in parte, li corrono anche i parchi, per via in questo caso degli insediamenti umani e delle colture introdotte in zone prima libere. Negli ultimi anni i grandi parchi dell’Assam (Kaziranga, Manas, Dibru-Saikhowa, Nameri e Rajiv Gandhi) sono stati ingranditi, specie in funzione delle necessità correlate alla fauna che ospitano. La grande attenzione per la salvaguardia della flora, della fauna stanziale o di passo da parte delle autorità, è dimostrata anche dalla creazione di ben 17 “Wildlife Sanctuaries”, o zone protette, disseminate nell’intero stato orientale.

Kaziranga superstar Il nome del Parco non ha un’etimologia certa, ma esistono diverse interpretazioni e numerose leggende, in proposito. Una di queste racconta dell’amore tra una fanciulla chiamata Ranga e un giovane del distretto di Karbi Anglong, il cui nome era Kazi. Poiché le famiglie contrastavano questa unione, i ragazzi scomparvero nella foresta, senza più fare ritorno alle loro case. Dai loro nomi, ecco quello del parco. Che si presenta, va detto subito, di una bellezza entusiasmante. C’è di tutto: foreste impenetrabili, laghi, zone paludose con i celebri canneti del Brah-

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maputra, stagni proco profondi. La varietà di piante e fiori è enorme, così come sono lussureggianti i pianori coperti di verdi praterie. Le acque del grande fiume talvolta esondano, mettendo in pericolo gli animali. Ma quando si ritirano, la vita riesplode con prepotenza. Il Parco Nazionale Kaziranga si trova a 233 chilometri da Guwahati e la città più vicina al parco e Bokakhat. Con una superficie di 859 chilometri quadrati, si estende tra le colline di Mikir e la riva sud del Brahmaputra. Se la tigre è la regina del parco, il rinoceronte indiano ne è l’indiscusso re. Ha corso i suoi rischi, questo splendido colosso, per via di una caccia indiscriminata. Grazie al parco, il numero di animali è oggi aumentato e si è addirittura abituato alla presenza umana, alle jeep dei rangers. Fra i molti altri animali presenti, spiccano per la loro imponenza gli elefanti asiatici, i bufali selvatici; vi sono poi orsi, leopardi, gatti selvatici, cervi di palude, cinghiali, maiali selvatici, uccelli acquatici, cicogne dal collo nero, aquile a coda circolare, pellicani, marabù, aironi. Numerose sono anche le specie di rettili e nelle zone acquitrinose troviamo gaviali, coccodrilli. Costituito nel 1926, il Kaziranga è oggi una splendida realtà che offre ai visitatori l’opportunità unica di una vera e propria “immersione” in un ambiente naturale protetto e abitato da una infinita varietà di specie animali. Il periodo migliore per visitarlo è compreso tra novembre e aprile.

L’Assam possiede molti Parchi e Riserve Naturali, definite Santuari. Animali protetti, alcune specie a rischio più di altre, ma sicuramente animali felici per la ricchezza dell’ambiente naturale che li ospita. Non solo splendide tigri, difficili da individuare nel folto della foresta, ma anche rinoceronti, bufali selvaggi, orsi, leopardi, elefantii e coccodrilli, per parlare degli animali più “vistosi”. Ma le specie presenti sono tantissime, comprese quelle ittiche e – straordinaria – un’avifauna da inizio del mondo



SAPTADAPI Sette passi per la vita

Nella parte centrale del rito matrimoniale, gli sposi compiono insieme sette passi intorno al fuoco sacro o lungo un percorso segnato da sette mucchietti di riso, fiori e altri simboli di prosperità sui quali procederà la sposa. Ad ogni passo reciteranno invocazioni e promesse per la loro futura vita coniugale. Al termine gli sposi sono marito e moglie

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di Anna Paola Zugni-Tauro

er far comprendere le radici profonde di una tradizione inestinguibile, traccerò una descrizione del classico matrimonio indiano, dei suoi riti, dei suoi significati spirituali. I rituali di famiglia sono un elemento comune nelle cerimonie nuziali fra le famiglie indù, musulmane, Sikh in qualsiasi zona dell’India. Naturalmente prevale la cultura indù, nella quale il cerimoniale fu dettato quaranta secoli fa nelle antiche scritture dei Veda. Numerosissima è la partecipazione degli ospiti, che possono godere della grandiosità nuziale, perché un matrimonio indiano non è solo lo sposalizio di un uomo e di una donna, ma anche l’unione dei componenti delle loro famiglie. Però nessun altro luogo dell’India può competere per ricchezza regale in questo campo con il Rajasthan, la patria dei raffinati sovrani Moghul. In questo colorato e nobile territorio le date delle nozze vengono fissate basandosi sulla posizione dei pianeti. La cerimonia avviene nella casa della sposa, dove la raggiunge lo sposo accompagnato da un corteo variopinto e chiassoso al suono di trombe e tamburi. Il protagonista si presenta su di un cavallo bianco, bardato con drappi di seta e finimenti luccicanti, vestito come un principe armato di spada o su di un elefante tutto decorato, oppure in un’automobile ornata di fiori, luci e coronata dall’immagine della divinità da lui onorata e, se è povero, a piedi. Come si conoscono gli sposi e come si fidanzano? Il matrimonio d’amore è osteggiato dai religiosi ortodossi, infatti può sfidare le barriere di casta, credo, età. Generalmente è la famiglia che decide e trova la sposa o lo sposo ideale. Tra i Rajput e ancora presso alcune tribù, si usa che le ragazze scelgano lo sposo fra molti giovani riuniti. Purtroppo i costi della festa di nozze e la pesante “dowry” (dote) che può distruggere l’economia di molte famiglie, sono ancora causa della non nascita e addirittura dell’infanticidio di tante bambine e ha creato l’usanza dei matrimoni infantili. Due film assai noti sono significativi su questi argomenti: “Monsoon Wedding” di Mira Nair, che ci ha dato un quadro indimenticabile della festa di un matrimonio e “Water” segue 58


La tradizione vuole che il giorno prima delle nozze le mani e i piedi della sposa vengano dipinti con la “henna” alla presenza delle amiche che cantano gli auguri accompagnate dalla musica. Nel luogo della cerimonia viene montato e decorato con fiori un gazebo detto “Mandapa”, sotto il quale viene acceso un fuoco sacro, vero testimone dei voti degli sposi

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SAPTADAPI

Sette passi per la vita

di Deepa Metha, che ci ha narrato il drammatico destino di una sposa bambina. La poligamia in India non è concepibile e viene perseguita per legge: il matrimonio indiano è considerato sacro, non solo per la continuità delle famiglie nei figli, ma anche a saldo di un debito con gli antenati. Nei Veda il maschio indù deve sostenere il ruolo prima di studente e poi di padrone di casa. Il giorno prima le mani e i piedi della sposa vengono dipinti con la “henna”, seguendo la tecnica “Mehendi”, alla presenza delle amiche che cantano gli auguri accompagnate dalla musica. Quindi nel luogo della cerimonia viene montato e decorato con fiori un gazebo detto “Mandapa”, sotto il quale viene acceso un fuoco sacro, vero testimone dei voti degli sposi. Il “Baarat” significa l’arrivo dello sposo con la famiglia e gli amici. I riti vengono presieduti dal sacerdote brahmano benedicente, mentre la sposa offre yogurt e miele allo sposo e i due si scambiano ghirlande di fiori. Lo sposo per tre volte assicura al padre della sposa di assistere la ragazza nella realizzazione dei tre scopi matrimoniali: “Dharma, Artha, Kama”. Il sacerdote lega un lembo del sari alla camicia dello sposo (Vivaaha) quindi i due si scambiano anelli e ghirlande, si prendono per mano e gettano offerte nel fuoco per farsi benedire dal loro testimone, cioè dal fuoco sacro (Samagree). Con il rito “Agni Parinaya” i due si tengono per mano e camminano attorno al fuoco cantando inni vedici per la prosperità, la fortuna, la fedeltà della coppia e infine si toccano all’altezza del cuore per unire menti e cuori. Con “Asmarohana” lo sposo sale su di una pietra, sulla quale la sposa appoggia la punta del piede destro: è un simbolo di fermezza. Dopo il “Septapadì” o sette passi attorno al fuoco con relativa promessa, diventano marito e moglie. Con il “Mangal Sutra Dharama” lo sposo allaccia alla sposa un girocollo con i simboli di Shiva o di Vishnu.

Tradizione e simbologia del matrimonio indiano Con “Suhaag” lo sposo pone una polvere rossa sulla scriminatura dei capelli sul capo di lei e la donna sposata la porterà per sempre. Con “Aashirvaad” la famiglia dello sposo offre i propri doni alla sposa e tutti i presenti lanciano petali di fiori. Ora gli sposi partono per la loro casa portando con sé il braciere del fuoco sacro, che dovrà essere tenuto sempre vivo. Il sacerdote pone una noce di cocco sotto lo zoccolo del cavallo o sotto la ruota della macchina, perché venga spezzata. Gli sposi omaggiano la costellazione dell’Orsa Maggiore, formata da sette stelle, che portano i nomi dei sette Saggi della tradizione vedica. Ne aggiungono un’ottava per ricordare le responsabilità cosmiche che devono onorare.Questi riti dimostrano la profonda unione della vita umana con l’armonia dell’Universo, concezione ispirata dall’antica sapienza indiana. I festeggiamenti durano di solito cinque giorni e

coinvolgono tutti, con cibi succulenti e speziati, dolci, profumi, danze e canti. Non dimentichiamo il ruolo dei gioielli, che sono preziosità diverse a seconda della classe sociale e rappresentano la dote che la famiglia deve provvedere per la figlia che si sposa, cioè i gioielli per il fidanzamento e i gioielli per il matrimonio: niente è affidato al caso o all’immaginazione, la tradizione è inflessibile. Alle pietre si attribuiscono speciali proprietà legate anche ai “chakra”, punti del corpo dove l’energia vitale è più intensa. Santi Choudary, proprietario della Royal Gems a Jaipur, vera capitale dei gioielli, ci informa che nella storia gli smeraldi provenivano dal Rajasthan, gli zaffiri dal Kashmir, i rubini dalla Birmania, per essere poi tagliati da mani esperte a Jaipur. Aggiunge inoltre che la famiglia deve fornire alla sposa, che a sua volta ne farà dono al marito, un corredo prezioso composto da un certo numero di pezzi: anelli, collana, orecchini, cavigliera, quattro anelli per i piedi, un anello per il naso. Tutto secondo quanto prescrive il rituale che, se non viene fedelmente rispettato, può compromettere seriamente l’esito degli sponsali.

Ogni fase della cerimonia si riallaccia a riti ancestrali e a promesse d’amore ripetute. Nel film di Mira Nair per la prima volta viene rappresentato il molteplice, intrecciato, talora sofferto aspetto dell’India cosmopolita del giorno d’oggi. Grande cinema, pieno di vita e di danzante leggerezza, di colore, di emozioni, di musica: “un vero e proprio film indiano che non assomiglia a nessun altro da me fatto prima”, come disse la regista. Un film che ha vinto il Leone d’oro

Come ho detto all’inizio Mira Nair ci ha regalato con “Monsoon Wedding” un’opera indimenticabile, che ci rivela il nuovo, vero, umano ritratto di un’India moderna difficile per noi da immaginare. La regista ha vinto con questo film il Leone d’oro alla 58.a Mostra del Cinema di Venezia nel 2001! Il soggetto è un grande matrimonio Punjabi in Nuova Delhi, che inizia con quotidiane scene di famiglia per poi inoltrarsi in un travolgente crescendo, cui danno vita sessantotto attori e nel gran finale le torrenziali e catartiche piogge monsoniche. La famiglia Verma, disseminata nel mondo dall’Australia all’America, si riunisce in occasione di un matrimonio combinato e organizzato in fretta. Nello svolgimento s’intrecciano cinque storie, ognuna significativa riguardo ai sentimenti d’amore che risentono anche delle diverse nazionalità e delle concezioni morali. Amore coniugale, affetti, turbamenti e ribellioni filiali, aspirazioni e delusioni giovanili, romantiche attese e slanci passionali, segreti, che nascondono oscure tendenze e rivelazioni che sconvolgono il sacro concetto della famiglia.

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ORISSA un mosaico etnico

Uno stato adagiato lungo le coste del golfo del Bengala, dove numerose Tribù, diverse per etnia, lingua e tradizioni, occupano i rilievi interni ricchi di fiumi e di foreste. Alcune di queste comunità, praticano ancora culti animistici pre-ariani di Stefano Tesi foto Angela Prati

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Il Tempio del Sole, a Konark, risale al XIII secolo e fu costruito dal re Narasimhadeva, per aver sconfitto gli invasori musulmani. È un capolavoro di arte e architettura medievale. Il Tempio è stato progettato come il carro celeste del Sole con dodici ruote giganti che rappresentano i 12 mesi dell’anno, guidati da sette cavalli quanti sono i giorni della settimana

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vunque nel mondo esistono confini visibili e confini invisibili. E ambedue trovano ampia cittadinanza in Orissa, specchio di un’India interiore, non ovvia, appartata, più defilata e rurale. Forse – aldilà delle apparenze – persino più contorta e variegata. Qui quei confini invisibili tracciano innanzitutto le scansioni tribali del mosaico etnico, ora seguendo la curva di fiumi e torrenti, ora snodandosi tra i campi, le risaie, le foreste, le forre, dando ragione di un intreccio antropologico millenario. Quelli visibili sembrano invece più espliciti, anche se spesso a contrassegnarli non sono cartelli o steccati, ma cambi di situazione e bruschi stati di fatto. Così, quando la candida Ambassador del nostro autista imbocca sbuffando lo stradone in salita attraverso il quale corrono i boundaries tra lo stato dell’Andhra Pradesh e, appunto, quello dell’Orissa, la percezione del trapasso non è tanto affidata allo sgargiante blocco di cemento dipinto che qualche solerte funzionario ha messo lì a fare da pietra miliare, ma all’improvviso, brutale restringersi della carreggiata. La quale si trasforma da dignitosa statale in flagrante mulattiera. Quasi a dire: da qui in poi non c’è bisogno di tutto quell’asfalto. Perché in effetti la geografia delle tribù, che si sovrappone a quella amministrativa del governo statale e a quella turistica del way of life induista, è modellata più dalla natura che dalla logica.

Il mercato, luogo d'amalgama provvisorio Assecondando un criterio idrografico, così come nella notte dei tempi le genti aborigene risalirono i corsi d’acqua per fuggire in altura, al riparo dall’invasore ariano, così oggi il popolo tribale ridiscende ogni mattina le stesse vie per raggiungere i mercati e, con sussiegoso distacco, prendersi il meglio di quanto portato dalla cultura dominante: il denaro dei commercianti e dei turisti. Nessuna sorpresa, dunque, se le poco sorridenti donne dei malfamati Bondo accondiscendono a farsi fotografare dai viandanti, posando pazienti con i loro pesanti anelli di metallo al collo: avranno in testa un’idea ben chiara della tariffa da pretendere per quel servizio. Un’idea che tenderà a dilatarsi se, verso l’ora di pranzo, si sarà sorpresi a fare click quando i giovani della stessa tribù, ebbri di salap o di maculi (rispettivamente, una linfa di palma fermentata e petali di mahua distillati), sono intenti a festeggiare tra loro i buoni profitti del commercio al mercato di Onokudelli, reso fiorente dal capitale che circola grazie alla centrale idroelettrica e alla diga costruiti qui venticinque anni fa. Arco e frecce in spalla, i baldanzosi guerrieri schiamazzano con fare da guappi al centro di un grande spiazzo, lanciano occhiatacce, si divertono nell’at-

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Le tribù censite ufficialmente in Orissa sono sessantadue. Ognuna ha i suoi usi, le sue architetture, i suoi retaggi, il suo dialetto e a volte anche una propria lingua. Due di queste sono ancora legate a culti animisti pre-ariani. Un arcipelago diffuso e complesso che in questa fetta di India profonda si è in qualche modo cristallizzato. È il mondo frammentato degli Adivasi, gli aborigeni indiani, schegge fossili di un flusso migratorio primitivo fatto di componenti africane, mongole, caucasiche, che riaffiorano nei tratti somatici della gente che si incontra nei villaggi, in quella che popola la sommità di alte e boscose colline, o, a volte, si dissolve nei mille rivoli di terra battuta che si addentrano nelle foreste


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Quella conoscenza che permette di distinguere in tutte le esistenze una natura spirituale unica, eterna, una nella molteplicità, è sotto l’influenza della virtù Bhagavad Gita


Kendoguda, un gruppo di ragazze improvvisa una demsa, festosa danza tribale dedicata al paffuto dio Ganesh, mentre il resto della tribù canta e batte il tempo come in un jump up caraibico

tesa di fare ritorno al villaggio, una decina di chilometri più in là e un migliaio di metri più su, sulla montagna impenetrabile. Sono sessantadue le tribù ufficialmente censite in Orissa, due delle quali ancora legate a culti animisti pre-ariani. Un arcipelago diffuso e complesso che, nonostante le inevitabili oscillazioni demografiche subite nell’accavallarsi dei secoli, in questa fetta di India profonda si è in qualche modo cristallizzato. A noi le coste e le pianure, a loro – come diceva la canzone – le montagne e l’entroterra. È il mondo frammentato degli Adivasi (ovvero, il “primo popolo”), gli aborigeni indiani, schegge fossili di un flusso migratorio primitivo fatto di componenti africane, mongole, caucasiche, che come un fiume carsico ora si immergono e riaffiorano nei tratti somatici della gente che si incontra nei villaggi, ora si ricompongono nel puzzle etnico che popola la sommità di alte e boscose colline, ora si dissolvono nei mille rivoli di terra battuta che si addentrano nelle foreste. Ognuna ha i suoi usi, le sue architetture, i suoi retaggi, il suo dialetto e a volte anche una propria lingua. Chi è agricoltore, chi è raccoglitore, chi

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artigiano. Chi semplicemente nomade. Dalle parti di Kenduguda, un gruppo di ragazze si riversa in strada e improvvisa una demsa, festosa danza tribale dedicata al paffuto dio Ganesh, mentre il resto della tribù canta e batte il tempo come in un jump up caraibico. Sulla strada per Bissamcuttack, le mondine di etnia Dongria, abbigliate con il sobrio gonnelline beige della tradizione, attendono pazienti che l’occhio del passante scorra su di loro, incuranti degli sguardi e dei nostri sorrisi. Forse aspettano che il fidanzato, secondo l’uso antico, venga a “rapirle” per dar modo ai genitori di poterle poi reclamare e intavolare così qualche affare con i futuri consuoceri. Forse senza saperlo, le tribù dell’Orissa sono attentamente protette dal governo federale. Sono proprietarie della terra che lavorano o su cui vivono, ma per legge non possono venderla. Per evitare lo sradicamento, è necessario infatti che tutto resti com’è, che i confini invisibili restino gli stessi tracciati da millenni di convivenza e di adattamento, percepibili anche quando l’alba fa calare tra le gole una nebbia pesante come piombo fuso, o quando le piogge trasformano le pianure in im-


cioè “polvere”, nel senso di “plebei”), da altri un’etnia autonoma, si distinguono per i tratti negroidi. Piuttosto numerosi e ben inseriti nella società, hanno perduto tuttavia il prestigio sociale avuto in passato, quando dominavano sulle tribù vassalle. La principale tribù dell’India, con oltre 7 milioni di soggetti, è quella dei Gond. Da sola rappresenta il 10% della popolazione tribale del paese. Diffusi in tutta l’India meridionale e centrale (Gondwana è la “terra dei Gond”), c’è chi, più che una tribù unica, li considera invece un gruppo linguistico che raggruppa tribù diverse, perché i Gond non hanno un’omogeneità né etnica né culturale. Una delle tribù più primitive e aggressive è invece quella dei Bondo, sovente considerati pericolosi dalle stesse altre tribù. Vivono tendenzialmente isolati in piccole comunità sulle montagne. Di origine e di lingua austro-asiatica (il loro idioma si chiama remo), migrarono migliaia di anni fa nell’area montuosa e selvaggia intorno a Jeypore. Si calcola che siano circa diecimila in tutto.

mensi acquitrini. Cittadini a tutti gli effetti, e come tali titolari dei diritti civili riconosciuti dallo stato, i membri delle tribù tendono tuttavia a rimanere, prima di ogni altra cosa, esponenti della propria comunità. Le scuole, non a caso, sono allestite nei villaggi ove altrimenti l’elusione dell’obbligo scolastico sarebbe elevatissima, per l’influenza di un sistema chiuso che offre agli appartenenti alla tribù un’educazione, una gerarchia sociale, un insieme di norme cogenti e assorbenti: “Voi vivete nel tempo – ammonisce un anziano Dongria, accoccolato sotto la veranda di fango della sua casa – mentre noi viviamo nello spazio”. Un principio che la sua tribù, di etnia Gond, applica rigorosamente, difendendo le proprie prerogative attraverso un sistema di scansioni feudali e vassallatiche tra clan che parifica il sangue, le donne e il territorio: tutti e tre gli elementi sono e rimangono tuoi – questo è l’assunto – anche se qualcun altro ne abusa. La zona dello stato che maggiormente le ospita è quella della parte sud occidentale. Tra le tribù più antiche c’è quella dei Dharma, presente in vari distretti. Considerati da alcuni studiosi una delle sottotribù dei Gond (il loro nome deriverebbe da dhur,

Gente (hor) della foresta (bir) sono per l’appunto i Birhor, diffusi nel nord dell’India, soprattutto nello stato del Bihar, tra il Gange e il Nepal, ma considerati a rischio in Orissa, dove non si contano più di mille soggetti. Piccoli di statura e scuri di pelle, sono principalmente raccoglitori di cibo o agricoltori-nomadi. Abilissimi nel cacciare le scimmie, sono spesso ingaggiati per abbatterle quando danneggiano i raccolti. Concentrati invece nei distretti meridionali dello stato sono i Gadaba, tra le tribù più numerose (oltre 70mila persone), vivaci e “colorate”. Il loro nome è composto da gada (ruscello) e ba (“quelli del …”) con riferimento alla regione montuosa del Vindhya, ricca di corsi d’acqua, da cui avrebbero preso origine prima di migrare, sospinti dalle invasioni di popoli più forti. Vivono principalmente di agricoltura, caccia e pesca. Infine, i Mahali, una delle più piccole tribù dell’Orissa, con una popolazione che non supera le 12mila unità. Originari probabilmente del Bengala e del Bihar, erano conosciuti come lavoratori del bambù. Parlano una loro lingua e si suddividono in cinque sottogruppi con diverse abitudini alimentari e differenti abitudini.

Questa piccola statuetta in avorio del XIV-XV secolo, probabilmente dell’Orissa, rappresenta il dio Ganesha, figlio di Shiva e Parvati, una divinità del pantheon indiano molto venerata. Egli rappresenta la forza, il benessere, la saggezza e molte altre virtù. La sua zanna sinistra spezzata sta a significare lo sforzo vincente del superamento di ogni ostacolo

La popolazione tribale dell’Orissa ammonta a circa otto milioni di persone, ovvero un quarto della popolazione totale dello stato. È suddivisa in centinaia di villaggi sparpagliati nell’entroterra, talora inaccessibili. Ma soprattutto è accompagnata da una rete di impalpabili relazioni linguistiche, etniche e religiose che rappresenta per gli antropologi una delle sfide più appassionanti del nostro tempo. La grande minaccia che incombe su queste regioni, impalpabile come i confini, è la politica. Nell’aria non se ne sente ancora l’odore, ma solo il fastidioso ronzio.

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VARANASI città di vita e di morte

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L’antica Benares indiana. Con i suoi contrasti violenti di colori e penombre, di odori e di incensi. Un grande teatro umano nel quale la vita e la morte altro non sono che semplici accadimenti di Benedetta Rusconi foto Alessandra Iaia

IL GHAT Se volete sentire parlare dei giorni andati, sedetevi su questa gradinata e prestate orecchio al mormorio dell’acqua che si increspa

Rabindranath Tagore

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on vorrei rischiare di essere fraintesa per ciò che scriverò in seguito e quindi comincio subito con una premessa: come molti occidentali, sono letteralmente innamorata dell’India e sento il bisogno, periodicamente, di rivisitarla. Vedere quanto è cambiata, sentirne gli odori, i rumori assordanti, l’aria umida e pesante che appiccica la polvere sulla pelle. Non so ancora spiegarmene il motivo, ma sono certa che continuerò a tornarvi. Però, come in ogni relazione che si rispetti, così come ne sono innamorata, spesso mi sorprendo anche a detestarla. A scoprirla insopportabile, invadente, eccessiva, persino teatrale e fasulla. Esattamente come Varanasi, una delle città più sacre di tutta l’India, il luogo dove ogni induista sogna di poter morire. Ma anche un posto a dir poco infernale. Si pensa alla spiritualità di questa "Madre Ganga" (così viene chiamato il Gange dai suoi pellegrini) che si prende cura delle anime e dei corpi e ci si trova di fronte a un immenso e caotico mercato, dove persino i bramini riescono a diventare ricchi vendendosi l’anima. Dai suoi duemila anni di storia, Varanasi (un tempo chiamata Benares) sembra aver imparato solo a essere diffidente e opportunista. Non c’è bramino che non ti metta un fiore in mano e non pretenda subito dopo dieci rupie, sadu che non ti spinga malamente se per sbaglio ti trovi sul suo cammino, autista o "risciò-wallah" che non tenti di portarti dove fa comodo a lui, albergatore che cambi le tariffe delle stanze a suo piacimento. E "Madre Ganga", il fiume sacro sulle cui rive si celebrano la vita e la morte come se fossero la stessa cosa, vista da vicino ha un’acqua spessa e scura, da cui emerge davvero di tutto; assopita e inespressiva, sembra persino rassegnata a questa discutibile "spiritualità".

La magica luce di Varanasi La frenesia di Varanasi ruota intorno ai suoi ghat, un centinaio in tutto: gradini di cemento che scendono sino al fiume e sui quali i pellegrini pregano e svolgono le loro abluzioni. Dopo quattro giorni di passeggiate lungo questi luoghi pieni di rituali, mi sentivo ancora profondamente a disagio e infastidita. E gli stranieri che incontravo nella città antica avevano tutti il mio stesso sguardo: stravolto e frastornato, che per evitare l’insistenza di venditori, barcaioli e bramini, aveva persino smesso di vedere ciò che gli stava intorno. Il quinto giorno ho fatto un ultimo tentativo per provare a comprendere la magia di questa città. Non ho preso taxi, risciò e nessun tipo di altra "mediazione" e mi sono avvicinata da sola a quel cuore di Varanasi che mi spaventava tanto: un labirinto indecifrabile di vicoli bui e maleodoranti, botteghe minu-

scole piene di ogni merce, tempietti nascosti da grovigli di cavi elettrici, mucche e biciclette che intralciano gli incroci e, ovunque, insegne di maestri di yoga, ristorantini, alberghi da poche rupie a notte, massaggiatori improvvisati e venditori di sete. Il segreto è stato perdersi, non sapere esattamente dove andare e limitarsi a seguire gli odori. I rumori. La luce. Ed è stata proprio quest’ultima a rassicurarmi, a prendermi per mano e farmi scoprire la Varanasi più dolce. A volte s’infilava nella bottega di un cartolaio e gli illuminava le mani impolverate mentre incartava alcuni blocchi da disegno. A volte si rifletteva su uno specchio e andava a cadere su un piatto di alluminio, pieno di dolci dai colori improbabili. O si posava sulle spalle sporgenti di un uomo dal corpo senza proporzioni: le gambe lunghe ed esili, il torace corto e ricurvo. Altre volte, invece, illuminava le collane e i fili di cotone colorato che i pellegrini indossano, prima di immergersi nel Gange, o i fiori gialli e arancio destinati ad essere abbandonati sulle acque e trascinati via dalle correnti. La luce invernale di Varanasi creava ombre scure e riflessi metallici che, con la polvere alzata dai passanti, copriva ogni cosa con un’impalpabile carta velina, un immaginario filtro argentato. Improvvisamente, si è posata sul manubrio della bicicletta di un bramino ed è arrivata sino al fiume, segue

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Sadu, seguace di Vaishnava, una delle tre principali correnti dell’induismo. Pagina a fianco: Sul ghat, la scalinata che dà sul fiume, si concentra la grande folla. Qui si recitano le preghiere (la puja) prima di scendere in acqua per il bagno purificatore. Momento più importante della giornata è la cerimonia Ganga Aarti che si tiene al tramonto presso l’Hari ki Pairi ghat, la scalinata di dio, quando i fedeli si assiepano sulle rive del fiume e rilasciano sull’acqua cestini galleggianti di offerte con lumini accesi


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Il sogno di ogni buon induista è di poter trascorrere gli ultimi momenti della propria vita sulle rive del sacro fiume Gange

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sui gradini sporchi di un ghat non molto affollato. L’ho seguita, e mi sono scoperta davanti a un Gange piatto e addormentato, con i barcaioli sdraiati al sole e le donne che approfittavano del calore di mezzogiorno per fare il bucato. Gli unici a non sembrare storditi da quello strano sole di dicembre erano i bambini, con gli occhi costantemente rivolti verso il cielo e un filo sottile tra le dita. Se è vero che la prima attività di Varanasi è la redenzione dello spirito, la seconda è sicuramente quella di far volare gli aquiloni. E se è vero che "Madre Ganga" è piena di preghiere, promesse e cadaveri, il cielo sopra di lei è affollato di pezzetti di carta colorata, attaccati a un lungo filo sottile e un bambino alla sua estremità.

Purificarsi nella Ganga alle prime luci dell’alba Varanasi, vista attraverso la sua luce e i suoi riflessi, sembra un’altra città. Appare persino discreta, silenziosa, accogliente. Le voci insistenti di procacciatori di clienti improvvisamente spariscono davanti al grande rituale del bagno nel Gange. L’alba è sicuramente il momento migliore per capire questa città santa; lo consigliano tutte le guide e c’è davvero da fidarsi. Cominciano ad arrivare ancora prima che il sole sorga, in rispettoso silenzio verso una città che sta ancora dormendo: migliaia di pellegrini, giunti sin qui da ogni angolo del Paese. I bramini li attendono accovacciati sulle loro pedane di legno, protetti da vistosi ombrelloni di paglia. Sussurrano i loro mantra compiendo alcuni gesti e rituali e invitando i devoti a ripetere le loro parole; poi benedicono le offerte e lasciano che i pellegrini continuino da soli il loro bagno sacro, scendendo i ghat e abbandonando in acqua ghirlande di fiori, grano e piccole lampade a olio. Il fiume si riempie così di luci fioche, preghiere e gesti, ed è questo il momento più emozionante della giornata. I pellegrini a questo punto si spogliano, senza alcun pudore, ed entrano nel fiume. Rivolti al sole, fanno schizzare l’acqua tra le mani come forma di saluto, poi se la versano sul capo e si immergono completamente. Quando escono, sembrano dimenticare ogni gesto spirituale e il silenzio dell’alba, e cominciano a insaponarsi. A Varanasi si viene per purificarsi l’anima, prima di tutto. Ma anche per pulirsi il corpo, i capelli, i vestiti e persino le scarpe, le pentole e ogni oggetto si abbia con sé. Usando una gran quantità di sapone schiumoso e ricoprendo i ghat dei colori vivaci di sari e camicie stesi al sole. Il Gange diventa una grande lavanderia, quindi, ma anche un immenso e rassicurante cimitero. A Varanasi si viene soprattutto per questo, e il sogno di ogni buon induista è di poter trascorrere gli ultimi momenti della propria vita sulle sue rive. Per tutto il giorno, lungo gli unici due ghat crematori (adibiti, cioè, alla cremazione dei defunti) – il Manikaranika e l’Harishchandra – corpi avvolti in

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teli bianchi vengono arsi per ore su pire la cui grandezza denuncia le possibilità economiche della famiglia del defunto: la legna, infatti, viene venduta a peso. I corpi sono legati su una lettiga di bambù e trasportati, da quelli che ancora vengono chiamati "intoccabili", attraverso la città antica. E così capita di contrattare con un venditore di sete e fermarsi un istante per far passare un piccolo corteo funebre, come se fosse la cosa più normale. La morte è di casa a Varanasi e un cadavere non fa più effetto di una vacca o di un sadu dal corpo dipinto di blu: si lascia loro il passo e si continua nelle proprie attività. Sui ghat crematori bruciano molte pire contemporaneamente e i parenti restano a guardare, in attesa che anche il teschio diventi cenere e possa essere donato al Gange. Al largo del fiume, capita di veder gettare in acqua corpi ancora avvolti nei loro teli bianchi, da quelle stesse barche a remi con cui i turisti costeggiano la città: sono quei defunti che non possono essere cremati e vengono abbandonati, così, alle correnti del fiume e alla voracità dei suoi coccodrilli.

Varanasi vista nel silenzio e nella luce del mattino è una città discreta, accogliente. Osservare dai gath o dalla riva del fiume uomini e donne nel rituale bagno purificatore, nelle acque della “Madre Ganga”, si impara a conoscere una preghiera in ogni singolo gesto che viene compiuto


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RISHIKESH capitale dello Yoga e della spiritualità

La città è il gatewai per l’Himalaya. Affollata di templi, ashram, shadu è il luogo di meditazione e benessere. Ogni anno si celebrara il Festival Internazionale dello Yoga. Si pratica sport come il trekking, rafting e kayaking, bugee jumping di Gianluca Ricciardi

er chi va in India curioso o affascinato dai riti di altre religioni o per scoprire i segreti del tantra, deve fare una tappa a Rishikesh. Bagnata dal Gange, è uno dei luoghi sacri per gli indù dove si insegnano i principi dello yoga. Una città strettamente vegetariana e conosciuta anche come la porta per l’Himalaya. Qui nasce lo yoga, una parola che evoca l’immagine di disciplina, benessere, tranquillità. L’unione dell’antico concetto indù di benessere olistico è diventato sinonimo di fitness, salute, spiritualità e, nel mondo, conta ormai milioni di praticanti. La notorietà di Rishikesh come centro mondiale dello yoga e della spiritualità gli arriva alla fine degli anni sessanta, grazie ai Beatles. Era il febbario del 1968 quando il gruppo rock originario di Liverpool si recò a Rishikesh soggiornando presso l’ashram del guru Maharishi Mahesh Yogi, oggi purtroppo chiuso, per praticare la meditazione yoga, studiare musica e arti. Durante la loro permanenza composero 48 canzoni e registrarono “The Happy Rishikesh Song”. La parte più interessante della cittadina si sviluppa sulla riva sinistra del Gange, tra due spettacolari lunghi ponti pedonali in ferro, il Ram Jhula e il Lakshman Julah. Qui, dove il Gange incontra la pianura, c’è un’atmosfera di intensa spiritualità. I ghat sul fiume sono affolati di sadhu (santoni) che fanno bagni rituali; ci sono molti templi e ashram che offrono ospitalità, corsi di yoga, meditazione e filosofia. Tra questi il più noto è quello di Sivananda che ha sedi in tutto il mondo, mentre il più scenogrtafico è quello di Kailashananda, un edificio di tredici piani ognuno dei quali dedicato a una divinità indù. Ogni anno, a febbraio, in questo palcoscenico naturale ai piedi dell’Himalya si tiene l’International Yoga Festival; quest’anno si è svolto dall’1 al 7 marzo. Rishikesh, però non è solo un luogo per meditare, è anche il posto per praticare sport d’avventura. Le acque del Gange si prestano bene al rafting e al kayaking. Escursioni e arrampicate sono l’attività sportiva più popolare. Quello che però è unico in tutta l’India è il bungee jumping: il jumpin Heights, una struttura che fa fare un volo di 83 metri.

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Statua di Shiva in posizione yoga. “L’uomo è la misura dell’universo. Le differenti entità che sono nell’universo sono anche nell’uomo, come le differenti entità che sono nell’uomo sono anche nell’universo” Charaka Samhita



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Yoga: una tecnica antica di 5.000 anni Le prime figure in posizioni yoga appaiono su sigilli di terracotta provenienti dagli scavi di Mohenjodaro, un’antica città sulla riva destra dell’Indo che, assieme ad Harappa è uno dei più vasti insediamenti del periodo del bronzo (3300 - 1300 a.C.)

Sequenza di immagini che mostrano un guru mentre medita ed esegue esercizi yoga

Equilibrio e controllo della mente e del proprio corpo. Lo yoga è un rigorosa autodisciplina di esercizi, concentrazione, respiro, meditazione

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’India è da sempre considerato un mondo a parte. Una porta sempre aperta. Come disse Ferdinand de Lanoye “Vi sono mille porte per entrare in India ma nemmeno una per uscirne”. Possiamo aver visitato e conosciuto il mondo, aver conquistato terre remote e impentrabili ma l’India, come ha scritto Alberto Moravia, ci offre la possibilità di esplorare dentro senza cercare più fuori, perché l’India è un viaggio interiore, è “esperienza”, esperienza spirituale. È impadronirsi della possibilità di esplorare la propria anima. L’india è una porta aperta dentro noi stessi, bisogna intraprendere il viaggio e avere il desiderio di esplorarsi, oltre ai riti e fuori dai templi. Questa India così incredibilmente moderna e antica al tempo stesso è un’altra delle grandi sorprese. Dalla fine degli anni sessanta è stato, e ancora oggi lo è, il rifugio di quanti vo-

gliono avvicinarsi alle filosofie orientali, per mettersi alla ricerca del proprio io nell’unione con Dio, e alla medicina alternativa per il benessere del corpo. Qui sono di casa lo yoga, praticato per ritrovare l’unione tra spirito e corpo, e l’ayurveda, disciplina medica che spazia dal benessere psicofisico ai trattamenti di ringiovanimento. Lo yoga è una rigorosa auto disciplina che insegna a conoscere sé stessi, con tutte le possibilità e tutti i limiti propri di ogni individuo; è una via che ognuno può percorrere, una via che si apprende solo attraverso la pratica costante e quotidiana. Antico come il mondo, è una pratica a cui le culture di tutti i tempi hanno sempre attinto e continuano ancora oggi ad attingere. È una disciplina straordinaria perché mette in grado la persona di partire da sé, dal suo corpo, dal suo respiro, dalla sua mente per poter agire su tutto ciò che la circonda. Yoga è l’identificazione con il proprio Sé spirituale. Alcuni maestri sostengono che è un errore dividere lo yoga in tante forme e correnti di pensiero, a volte dipende solo da chi lo tramanda. Risulta infatti che i religiosi lo interpretano solo come se fosse una religione (Yoga ishtadevata), i ginnasti la vedono come un insieme di pratiche fisiche (âsana dell’Hatha Yoga) e dagli appassionati della musica viene considerato a livello di strumento sonoro (Nada o Mantra Yoga). L’Hatha Yoga, “yoga dello sforzo”, si


basa su esercizi psicofisici antichissimi originati nelle scuole dell’India e del Tibet. Oggi è praticato in occidente, ma privato dei suoi significati spirituali. L’Hatha Yoga insegna a dominare l’energia cosmica presente nell’uomo. Fondamentale è il controllo del soffio vitale (pranayama), tecniche di respirazione. Attraverso il respiro si controlla la mente, sempre irrequieta, pronta a distrarsi e divagare. In questo modo si influisce sulla vita psichica e fisica dell’individuo. Chi segue le regole Hatha Yoga da uomo comune diventa Siddha, un uomo perfetto. Per avviarsi verso la perfezione si deve cominciare dagli âsana, posture del corpo (complessi esercizi ginnici) che fanno confluire maggiore prana (energia vitale) verso specifiche parti del corpo: nadi e chakra. Iniziare con le âsana è importante per sciogliere le tensioni muscolari, per conoscere meglio il corpo, per aiutarlo a riequilibrare le energie vitali degli organi e dei visceri. Il prânâyâma è, invece, un insieme di tecniche di respirazione che consente l’accumulo e l’utilizzo del prana, capace di purificare il corpo e la mente. Si può iniziare il prânâyâma solo quando il corpo, il sistema nervoso e i polmoni sono stati rafforzati dalla pratica degli âsana. Un alro importante momento degli esercizi, nella pratica Yoga, è la meditazione. La meditazione viene considerato il settimo degli otto passi descritti dal saggio Patañjali per raggiungere l'unione con Dio.

Medicina alternativa

L’Ayurveda è la medicina indiana che si occupa di ripristinare l’equilibrio psicofisico e prevenire l’insorgere delle malattie utilizzando i principi naturali

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yurveda è una parola che deriva dal sanscrito, antica lingua indiana, e si compone di Ayu e Veda. Il termine Veda indica la conoscenza mentre Ayu significa “vita”. Ayurveda, quindi, viene intesa come Scienza e conoscenza della vita: “ConoScienza della Vita o longevità”. Le sue radici affondano in India e la sua pratica è stata tramandata dai testi Vedici. Per gli indiani dell’Asia non è solo una terapia medica, è una filosofia di vita che punta sulla conoscenza della mente e del corpo come un insieme. Sono oltre 2000 le erbe e i preparati naturali, che i medici ayurvedici usano come unici medicamenti o rimedi, assieme alle tecniche di rilassamento e massaggi particolari. Negli ultimi anni, nel mondo della medicina si è diffusa una nuova parola "psiconeuroimmunologia", che definisce la relazione esistente tra il corpo e la mente e i loro effetti

La dottrina orientale che ha diffuso la conoscenza nel mondo occidentale considera i Chakra come aperture, porte di accesso all’essenza del corpo umano. I chakra sono correlati ai livelli della coscienza, agli elementi archetipici, alle fasi inerenti lo sviluppo della vita, ai colori, ai suoni, alle funzioni del corpo

sul sistema immunitario. Ma la relazione tra corpo e mente, era già stata descritta migliaia di anni fa nei trattati classici e testi di Ayurveda, nei quali sono contenuti conoscenze mediche che nel campo della medicina occidentale risalgono solo agli ultimi decenni. L'Ayurveda si prefigge quattro scopi fondamentali: prevenire le malattie, curare la salute, mantenere la salute, promuovere la longevità. Le tecniche di cura adottate dalla Medicina Ayurvedica sono svariate e comprendono azioni volte al riequilibrio sia del corpo che della mente e delle loro relazioni con l'ambiente. In breve possiamo individuare una serie di azioni attraverso il corpo: nutrizione, utilizzo di piante medicinali, trattamenti fisici esterni quali massaggi (abyangam) effettuati con oli e tecniche particolari, terapie disintossicanti note genericamente con il termine panchakarma, tecniche di purificazione e âsana yoga. Le sostanze utilizzate nei trattamenti sono varie ma essenzialmente a base di oli erbalizzati e polveri medicate che variano secondo lo squilibrio e la costituzione doshica della persona. Gli stessi trattamenti, ma applicati con oli a specifiche proprietà, hanno quindi effetti diversi. L’esperienza e la conoscenza hanno permesso nel tempo la messa a punto di particolari prodotti di sicura efficacia tenendo sempre presente comunque che la loro forza viene ad essere modificata dai metabolismi di ognuno.

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Là dove c’era solo il verde ora c’è una “Città Bella” D

Chandigarh-la Città Bella merita una visita per scoprire la sua modernità e le sue regole. Capitale del Punjab e dell’Haryana è stata costruita su progetto del famoso architetto Le Corbusier. Una città per una vita armoniosa a misura d’uomo

Il famoso architetto Le Courbusier, in realtà si chiama Charles-Edouard Jeanneret-Gris e nasce il 6 ottobre 1887 a La Chauxde-Fonds, in Svizzera. Naturalizzato francese, nel 1923 assume lo pseudonimo di Le Corbusier. Muore a Roccabruna in Francia il 27 agosto 1965. Scriveva: “…l'architettura è il gioco sapiente, corretto e magnifico dei volumi sotto la luce”. Sotto: Le Courbusier sviluppò il Modulor all'interno della lunga tradizione di Vitruvio, che comprende l'uomo vitruviano di Leonardo da Vinci

opo che Lahore, ex capitale della provincia indiana del Punjab divenne pakistana a seguito della spartizione post conflittuale del 1947, il governo indiano e il governo del Punjab, nel marzo 1948, si consultano e approvano l’edificazione di una nuova città che sarebbe divenuta la capitale di due stati: Punjab e Haryana, lo stato separato nella parte sud-est, per lo più indù. L’area individuata si trova situata alle pendici dello Shivalik Hills, la catena montuosa subhimalayana che si estende per 1600 chilometri attraversando Nepal, India e Pakistan. Nel 1951 il primo ministro indiano Pandit Nehru decide di affidare a Le Corbusier, il ‘più grande architetto del mondo’, il progetto e l’edificazione della città ideale delle utopie rinascimentali e illuministe. La prima pietra viene posta nel 1952. Dal 1º novembre del 1966, la città di Chandigarh costruita ex novo diviene così la nuova capitale del Punjab e dell’Haryana. Ottenuto l’incarico, Le Corbusier e suo cugino Pierre mettono mano all’opera e si può ben dire che l’architetto svizzero-francese scateni la propria creativitài. La città segue la pianta di un corpo umano: gli edifici governativi e amministrativi nella testa (metafora della parte ‘pensante’); le strutture produttive e industriali nelle viscere e alla periferia del tronco, gli edifici residenziali vere e proprie isole autonome immerse nel verde. Anche le strade costituiscono ‘novità: vi sono le strade dedicate ai pedoni e quelle al solo traffico motorizzato, con diramazioni che circondano i vari isolati e portano a parcheggi dedicati. Una strada specifica risale il ‘corpo’ di Chandigarh e conduce al Campidoglio nelle cui vicinanze c’è un’arteria pedonale dedicata ai negozi della tradizione indiana; altre due strade nelle vicinanze sono a scorrimento lento del traffico e una terza arteria giunge fino a Delhi. Chandigarh, la Citta Bella, fonde tutti gli studi architettonici compiuti da Le Corbusier nei suoi viaggi giovanili per l'Europa e le sue innovazioni del cemento e della città a misura d'uomo. Simbolo di tali esperienze è il monumento centrale della città: una grande mano tesa verso il cielo, la mano dell'uomo “aperta per ricevere e donare”. Le Corbusier è considerato uno dei padri dell’urbanistica contemporanea. Membro fondatore segue

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Tre capolavori architettonici sono: il "Segretariato", la "High Court" e la "Assemblea legislativa", separati da grandi piazze. Nel cuore del complesso si trova la gigantesca scultura metallica di The Open Hand, l'emblema ufficiale di Chandigarh, una grande mano tesa verso il cielo, la mano dell’uomo a significare il credo della città "aperta per donare, aperta per ricevere"

Chandigarh è suddivisa in settori, ognuno tiene conto delle necessità quotidiane dei suoi abitanti. Luoghi ed edifici sono studiati per consentire ai cittadini di vivere una vita armoniosa con la natura

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dei Congrès Internationaux d'Architecture moderne, riuscì a fondere l'architettura con i bisogni sociali dell'uomo medio, intuizione per la quale è giustamente famoso. Le Corbusier è stato architetto, urbanista, pittore e designer. Ed è riuscito a realizzare il sogno della sua vita: creare Chandigarh, capitale universale. La città conta 91 settori separati da ampi viali, ognuno dei quali diviso in quattro aree contrassegnate dalle lettere A, B, C, D. Ogni edificio all’interno dei settori ha un numero e questo sistema di lettere e numeri è l’unico modo per orientarsi. Distante da Delhi 245 chilometri, percorribili in comodi treni intercity in 3 ore di viaggio. Chandigarth, la città più occidentale e più moderna dell’India, conta 750mila abitanti e la lingua principale è il punjabi. Serenità e città, due cose opposte che si conciliano nella Città Bella. I numerosi e pittoreschi giardini si fondono con la natura e consentono ai cittadini di allontanarsi dalla routine quotidiana. Ben 2000 ettari sono stati destinati a parchi. Tra i più famosi: Leisure Valley, Rajendra parco, Bougainvillea Parco, Zakir Rose Garden, Shanti Kunj, Hibiscus Garden, Giardino dei Profumi, Orto Botanico, Smriti Upavan, giardino Topiary e giardino a terrazze. Tra le principali attrazioni turistiche ilLago Sukhna, Rock Garden, Museo del governo e Galleria d'Arte. Grande curiosità suscita certamente il Giardino roccioso, un parco con grotte comunicanti, cascate, giardini pensili, torri, sculture d’arte moderna in pietra e ferro. Sviluppato su diversi ettari, questo fantastico mondo disegnato da Padam Shri Nek Chand è un grande museo a cielo aperto che mette in mostra una vasta gamma di forme naturali di roccia e pietre. Bella da ammirare è la straordinaria collezione di pietre della catena dello Shiwaliks. Da non trascurare il Giardino delle rose, 25 ettari con oltre 1500 varietà di rose, e ancora il Museo e la Galleria d’Arte che offrono un’interessante collezione di sculture, oggetti d’arte moderna, miniature dipinte, e una sezione di sculture buddiste e statue del periodo di Gandhara del II secolo a.C. Il paesaggio di Chandigarh si basa su un'attenta osservazione della vegetazione dell'India. Alberi ornamentali selezionati, arbusti e rampicanti sono stati piantati sulla base di combinazioni di colori per abbellire il tutto. Principi che devono essere tenuti in considerazione anche in futuro quando si devono fare delle sostituzioni. Non ci dovrebbe essere alcuna sostituzione casuale in modo che le strade mantengono la loro armonia e bellezza. Su Chandigarh è stato emesso un editto dettato dallo stesso Le Courbusier che ha come oggetto l’idea di far conoscere ai cittadini attuali e futuri i concetti di base della pianificazione della città in modo che diventino i suoi guardiani e possano salvarla dai capricci dei singoli.

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& I parchi si sviluppano su una superficie di duemila ettari. Il giardino delle rose si sviluppa su una superficie di venticinque ettari dove si coltivano oltre 1500 varietà di rose

Nel 1923 Charles-Edouard Jeanneret-Gris, svizzero di La Chaux-de-Fonds e poi naturalizzato francese, nato il 6 ottobre 1887 e morto nel 1965, in seguito diventato famoso con lo pseudonimo di Le Corbusier, scriveva: “…l'architettura è il gioco sapiente, corretto e magnifico dei volumi sotto la luce”. Si può ben dire che avesse le idee chiare in proposito, tant’è che nel suo testo teorico intitolato “Vers une architecture”, indicava quali fossero i cinque punti salienti di questa disciplina: i ‘pilotis’ (pilastri), il ‘toit terrasse’ (tetto a terrazza), il ‘plan libre’ (pianta libera), la ‘façade libre’ (facciata libera) e la ‘fenêtre en longueur’ (finestra a nastro). Dette così, tali enunciazioni possono dir poco ai non addetti ai lavori, ma per i primi anni del secolo scorso hanno rappresentato una specie di rivoluzione nell’interpretazione dell’architettura, tanto da affiancare il nome di Le Corbusier a quello dei più famosi architetti e progettisti del tempo: l’americano Frank Lloyd Wright, i tedeschi Walter Gropius e Ludwig Mies van der Rohe e il finlandese Alvar Aalto.


Il Giardino Roccioso si basa sulla fantasia del regno perduto. Un parco con grotte comunicanti, cascate, giardini pensili, torri, sculture d’arte moderna in pietra e ferro. A grandezza reale sono costruite figure e animali, realizzati con materiali recuperati come braccialetti rotti, vetri, piastrelle smaltate, cavi elettrici, un simbolo alla creatività umana

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Il pranzo indiano classico viene servito in un grande piatto rotondo dove si trovano il ciapati, una ciotola di riso e altre piccole ciotoline piene di salse a base di ogni tipo diverdura. È un piatto unico, tendezialmente vegetariano e tradizionalmente si mangerebbe con le mani, quasi sempre è presente un cucciaio. L’impresa di mischiare il riso con i vari condimenti, senza posate non è cosa facile, ma osservando attentamente i commensali indiani si impara presto

Il chapati, l’equivalente del nostro pane, viene cotto su una piastra e consumato rigrosamente caldo. Impastato semplicemente con sola farina e acqua o arricchito da profumi e erbe aromatiche si accompagna perfettamente ad ogni pietanza

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Nutrire corpo e spirito al ristorante India Anche il mangiare in India è mistico. L’80 per cento della popolazione non mangia carne. La cucina basa i suoi principi e i suoi sapori sull’ayurveda, elemento salutistico e regolatore per il benessere fisico

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arlare di “cucina indiana” significa parlare delle abitudini alimentare di un popolo di oltre un miliardo di persone sparse su una superficie grande undici volte l’Italia e non è certamente facile trovare un elemento unificatore. Ammesso che ce ne sia uno questo elemento potrebbe essere non tanto il modo di preparazione del cibo e nemmeno un ingrediente particolare, quanto l’aspetto religioso-filosofico. Con tutto quello che ne consegue. Il concetto base è che il cibo deve nutrire il corpo e lo spirito, perché quello che mangiamo diventa parte di noi e noi, a nostra volta, diventiamo quello che mangiamo. Fin qui niente di nuovo, questo concetto è espresso anche nel Vangelo cristiano. Questo concetto si esprime così nella scelta, prima ancora che nella

trasformazione degli ingredienti. La filosofia della cucina indiana si basa sull’Ayurveda secondo la quale il corpo è dominato da tre “umori” i dosha, ognuno dei quali domina un elemento (aria, fuoco, acqua) e regola le funzioni umane. L’alimentazione è uno degli elementi che contribuiscono a regolare questi dosha che sono presenti in quantità variabili in tutti gli esseri umani, ne consegue che ognuno sceglierà i cibi più adatti a seconda della popria costituzione. L’equilibrio si rivela anche nella giusta combinazione dei sei sapori dell’alimentazione indiana: dolce, acidulo, salato, piccante, amaro e astringente, ognuno di questi sapori ha un effetto sul corpo e sullo spirito e ne abbiamo bisogno di tutti in misura equilibrata. Fortunatamente in India il cibo non manca, almeno da un po’ di tempo, da quando è stata ra-


zionalizzata l’agricoltura con opere idrauliche che permettono l’irrigazione di vaste aree. Questo permette di avere una grande disparità di materie prime fresche adoperate da ogni religione secondo diete particolari. I musulmani non mangiano carne di maiale; i giainisti aborrono tutto ciò che potrebbe causare la morte di un essere vivente e si nutrono solo di ciò che cresce spontaneamente; gli hindu come principio generale sono vegetariani, non mangiano carne bovina perché la mucca è sacra ma ne utilizzano il latte per la preparazione di formaggi, burro o yogurt. Inoltre ci sono differenti sfaccettature anche all’interno dell’induismo stesso. Il modello di eccellenza è il brahmano che incarna la massima purezza. Quello che cucina lui è accettato da tutti proprio perché è in cima alla piramide del sistema di caste indiano. Il percorso inverso sarebbe semplicemente impensabile. La cucina “più pura” di alcune caste fa a meno di ingredienti che accenderebbero la passione, come il peperoncino, l’aglio o la cipolla. Ingrediente fondamentale e considerato sacro è il Ghee, il burro chiarificato che si offre agli dei o ai sacerdoti. Altrettanto importanti sono i legumi, soprattutto le lenticchie, in hindi “Dal” di diverso colore, gialle, rosse, nere; grandi o piccole oppure i ceci. La cucina indiana è fondamentalmente ve-

getariana, si calcola che circa l’80% della popolazione non mangia carne. Se della carne si può tranquillamente fare a meno, indispensabili sono le spezie. La cucina indiana è sensuale, i colori e gli odori sono altrettanto importanti dei sapori e le spezie adempiono perfettamente a tutti e tre i ruoli. Il perfetto dosaggio delle spezie e il tempismo e l’ordine di utilizzo delle stesse sono la chiave per la riuscita delle ricette. Ma non solo. Ognuna di esse deve essere trattata in maniera speciale. Alcune devono essere soffritte all’inizio della preparazione per dare gusto ai piatti, altre vanno aggiunte all’ultimo momento per dare il loro aroma a quello della ricetta. In ogni caso svolgono un’importante funzione di aiuto alla digestione e al mantenimento della pulizia dell’intestino. Ancora una volta un impiego salutistico. Un’altra cucina indiana è quella di importazione. Le influenze di contatti più o meno pacifici con altre popolazioni si sono fatte sentire. Così, i portoghesi hanno portato nel Sud del Paese il pomodoro e il peperoncino, gli imperatori moghul, di origine persiana, hanno portato nel Nord le tradizioni di una cucina raffinata ricca di salse cremose dolci e molto speziate. Queste influenze si sono amalgamate, è il caso di dirlo con i metodi di cottura tradizionale, come il famoso tandoori che designa sia il me-

Masala (quello che noi chiamiamo curry), peperoncino rosso tritato, coriandolo, noce moscata, zenzero, cumino, pepe di ogni colore e mille altre spezie danno vita ai piatti indiani. Le lenticchie di molte qualità sono ingredienti fondamentali del dahl, una costante presenza culinaria

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todo di preparazione che dona al cibo un colore rosso-arancio, sia un forno. Inizialmente era semplicemente un buco scavato in terra dove si bruciava la legna per cuocere carni o riscaldare la tawa, una piastra rovente per preparare il chapati, una specie di piadina fatta con un impasto non lievitato di farina di grano e poco burro, tipico del nord del Paese. Oggi il tandoori è un forno d’argilla a forma di campana rovesciata o cilindrico, il carbone o la legna bruciano alla base dello stesso e il cibo posto all'interno del forno è esposto al calore della fiamma viva, al calore irradiato dell'aria (che può raggiungere quasi 500°) o al fumo per eventuali affumicature. Nei ristoranti i tandoori sono elettrici. Uno dei piatti più famosi cucinati con questo metodo è il Chicken Tandoori, a base di carne di pollo arrostita, originario del nord-est dell'India. Il pollo è marinato in una mistura di yogurt, garam masala, aglio, zenzero, cumino, pepe e altre spezie a seconda della ricetta. A volte viene aggiunta della curcuma per virare il colore sull'arancione. Il masala è quello che noi occidentali chiamiamo Curry, la pronuncia all’inglese della parola indiana “kari” che significa sia un metodo di cottura, sia una

pianta aromatica. Il curry non è altro che una miscela di spezie macinate al momento e mescolate in quantità e proporzioni variabili, secondo l’ispirazione o la disponibilità del momento. Normalmente, in un curry sono mescolate dalle sei alle venti spezie diverse e non esiste “LA” formula, esistono “LE” differenti varianti, ognuna legittima. Un’altra eredità dell’influenza persiana nel Nord del Paese è il riso Basmati, dai chicchi lunghi, di un colore quasi giallo e dal profumo forte e dolce. Le ricette lo vogliono accompagnato ai piatti di carne ma anche protagonista di dolci. Cosa si beve in India? Certamente non il vino anche se, recentemente, hanno cominciato a piantare delle vigne con vitigni internazionali di influenza francese. Ci sono molte marche di birra ma, la fa da padrone il chai, il tè che è prodotto soprattutto nell’alta Valle dell’Assam, nel NordEst, la più vasta superficie coltivarta a tè del mondo. Il tè dell’Assam è il più comune. Il più pregiato è quello del Darjeeling, il più prezioso dei tè neri a foglia corta che cresce a oltre 1.500 metri di quota.

La cucina indiana ha una tradizione millenaria nell’uso sapiente delle spezie e assaggiare le mille salse colorate e profumate può farci scoprire sapori incredibilmente nuovi e sorprendenti. Ma attenzione, spesso innocenti intingoli si rivelano micidiali misture infuocate per il nostro palato occidentale. Per questo e meglio procedere agli assaggi con una certa circospezione


Letture prima e dopo il viaggio

Il sub-continente indiano fra le tante meraviglie di popoli, culture, religioni e dèi ha sviuluppato un’ampia letteratura. In molti hanno scritto e continuano a farlo. Per cercare di capire un po’ di più questo vasto mondo presentiamo una piccola rassegna

Nel 1947, al momento della sua creazione la Repubblica dell’India ha riconosciuto ufficialmente 22 lingue ma l’inglese rimane quella maggiormente impiegata nella letteratura ed esiste un forte dibattito tra gli scrittori in lingue locali e quelli che scrivono in Inglese, è sempre stato aspro, anche perché chi scrive in inglese ha avuto un’educazione particolare e appartiene a una classe medio-alta della società e si rivolge più all’Occidente che non all’India. Una ulteriore suddivisione in un Paese già di per sé variegato in sommo grado.

Letteratura

Edward Morgan Forster Passaggio in India Oscar Mondadori - pagg. 364; € 9,50 Il capolavoro indiscusso di Forster. Scritto nel 1924 è ambientato in una città immaginaria dell’India Settentrionale. Il libro racconta del periodo coloniale e delle forti tensioni, contraddizioni e dei pregiudizi tra le diverse componenti etniche della società. Nel 1984 ne è stato tratto un film. Hermann Hesse Siddartha Adelphi, Piccola Biblioteca - pagg. 169; € 18,00 La storia della formazione dell’eroe, della sua ricerca interiore, i suoi sbagli e le sue debolezze, raccontata dal grande scrittore tedesco premio Nobel per la letteratura nel 1946. Un romanzo di enorme successo, un“cult” per chi è interessato all’India e alla sua cultura Rabindranath Tagore Massime per una vita armoniosa A cura di Brunilde Neroni Guanda - pagg. 108; € 11,00 Vincitore nel 1913 del Premio Nobel per la letteratura, Tagore è stato poeta, saggista, autore teatrale e narratore, probabilmente lo scrittore indiano più famoso in Occidente. Il libro è un’antologia di massime, riflessioni di vita e rapide

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Oggi l’India ci appare come un museo di storia nel quale tutte le età dell’umanità coesistono in eterno presente

Premio nobel per la letteratura nel 1913, Rabindrath Tagore poeta, scrittore, musicista e filosofo è stato un sostenitore dell’indipendenza dagli inglesi. Rifacendosi alla tradizionale istituzione hindu dell’ashram fondò la Vishava Bharati University di Shantiniketan, a nord di Calcutta

Rabindrath Tagore

intuizioni per una felicità possibile nella ricerca segreta di un equilibrio interiore, di un’armonia individuale e quotidiana e di tutto ciò che può aiutare a raggiungerla e nella scoperta dell’altro da sé fino all’arrivo a una meta possibile di tutta l’esistenza. Amitav Ghosh Mare di papaveri Neri Pozza - pag. 510; € 18,50 Il viaggio nel 1834 di una goletta che trasporta oppio e delinquenti. In questo romanzo la lingua è la vera protagonista, nell’originale ogni personaggio parla il “suo” inglese contaminato dalle proprie origini e l’autore presta un’attenzione meticolosa a questo che è il paradigma delle molteplicità di origini che si fondono nell’India. Gosh ha studiato a Oxford.


Guide Pierpaolo di Nardo India del Nord – Trecentotrenta milioni di dèi e un popolo solo Polaris - pagg. 463; € 30,00 L’autore Pierpaolo Di Nardo ha vissuto a lungo in India, a Nuova Dehli e Chennai. Ha percorso migliaia di chilometri per le strade del Subcontinente mischiandosi tra i contadini e i mercanti di bestiame, ha approfondito la cultura e il misticismo induista e buddista si è inerpicato per l’Himalaya. Soffre di Mal d’India, vive di India e per l’India. La sua guida offre itinerari di viaggio dettagliati con in più racconti di episodi, avventure e incontri. Parla dell’arte e della cultura indiana e della vita quotidiana nelle grandi città come Calcutta, Nuova Dehli o Benares ma anche nei monasteri, nelle valli sperdute, sulle rive del Gange e nei luoghi remoti. Un libro che si utilizza come una guida e una guida che si legge come un libro.

Vikram Chandra Giochi sacri Oscar Mondadori - pagg. 1184; € 22,00 Consigliato a chi non si lascia spaventare dai libri “mattone. Un libro denso e controverso. Per alcuni insopportabilmente noioso, per altri ricchissimo di contenuti. Un poliziesco che si traduce in un ricco affresco della complessità di Bombay/Mumbai Vikas Swarup Le dodici domande Guanda - pagg. 280; € 15,00 La storia di un giovane indiano senza istruzione che vince un miliardo di rupie a un telequiz. Accusato di truffa è difeso da una giovane avvocatessa alla quale racconta la sua vita. Un continuo susseguirsi di imprevisti e colpi di scena tragicomici. Dal film è stato tratto il film “The Millionaire”. Anita Nair Cuccette per signore Guanda - pagg. 332, € 10,00 Sei donne diverse per età casta fede religiosa situazione famigliare e livello di istruzione, sei sconosciute che casualmente si ritrovano nello stesso scompartimento di un treno che nell'arco di una notte le porta da un capo all'altro dell’India. Sei storie di vita al femminile. Una sorta di repertorio delle felicità-infelicità femminili nel subcontinente.

Kali la shakti (energia, potenza) negativa di Shiva. Kaili e Durga, rappresentate come compagne del dio, sono le due facce della suo modo di operare, creativamente o in modo distruttivo

In basso: Anita Nair è indiana, vive a Bangalore, autrice di numerosi libri. “Cuccette per signore”, il suo secondo romanzo, è stato uno dei maggiori bestseller internazionali

India del Nord Lonely Planet - pagg. 953; € 32,00 La “classica” guida Lonely Planet, molto accurata nella redazione ed estremamente pratica con poche concessioni alla grafica e alle fotografie ma ricchissima di indirizzi e di consigli utili. Particolarmente adatta per coloro che sono già decisi sulla destinazione e che hanno studiato prima un possibile itinerario. India del Nord Guide Verdi Touring - pagg. 288 (+72 di informazioni pratiche); € 24,50 Alla scoperta della nuova e vecchia India in 19 itinerari di visita, oltre 180 fotografie a colori, 24 cartine e piante e una sezione con più di 1.000 indirizzi, i suggerimenti e le indicazioni utili per il dormire, il mangiare e il tempo libero, gli acquisti e gli eventi e manifestazioni da non perdere.

Vario

Giuliano Boccali, Cinzia Pieruccini Dizionari delle Religioni: Induismo Electa - pagg. 335; € 20,00 La religione in India permea la vita quotidiana delle persone in tutti gli aspetti, dal comportamento all’alimentazione dallo stile di vita alla cultura. È una spiritualità complicatissima per il numero di dei, per le loro forme e incarnazioni, per i rapporti con le altre religioni. Un dedalo nel segue

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quale è facilissimo, sia perdersi totalmente, sia confondersi misconoscendo la realtà fatta di correnti, teologie e maestri che sembrano essere in contrasto tra loro. Proprio per questa complessità questo libro permette di crearsi un’immagine generale della (ma sarebbe meglio adoperare il plurale) religione in India. Saverio Sani (a cura di) Rgveda le strofe della sapienza Letteratura Universale Marsilio - pagg. 335; € 20,00 In un luogo dove religione e arte sono indissolubilmente legati, è ovvio che i primi scritti indiani fosse una raccolta in lingua sanscrita di inni sacri composti tra il II millennio e il IV Secolo a.C. Questo libro permette di farsi un’idea della sapienza che si cela nei Veda grazie alla scelta effettuata dal curatore e all’introduzione che spiega la mitologia e le origini della religione hindu, Paola Pedrini La mia India Polaris - pagg. 158; €13,00 Pensieri in viaggio è il sottotitolo del libro. Pensieri che l’autrice lascia scorrere liberamente regalando un ritratto dell’India personale e umano. Una serie di appunti rapidi ed efficaci come un quadro impressionista

Semplicità e bellezza. L’eleganza delle donne indiane si manifesta con la capacità di sapere indossare con estrema eleganza, vestiti apparentemente semplici

Siddartha Deb Belli e dannati – Ritratto della nuova india Neri Pozza Bloom - pagg. 351; € 18,00 Il ritratto di un Paese in rapido sviluppo che acuisce ancor di più gli enormi contrasti già esistenti. L’autore racconta le storie di cinque personaggi veri che rappresentano una galleria di ritratti dell’India che vuole arricchirsi.

Il grande pozzo di Patan, sette piani interrati, conta trecento colonne con circa 400 immagini scolpite. Molti motivi dell’architettura hindu cercano di evocare felicità e prosperità. Come sui muri di un tempio, nicchie con le figure scolpite di Vishnu e altre divinità. La gente trova obra e frescura sotto la benevolenza degli dei

Sadhir & Catharina Kakar Gli indiani, ritratto di un popolo Neri Pozza I colibrì - pagg. 253; € 16,00 Oltre un miliardo di persone suddivisi in caste, lingue, religioni, identità regionali eppure con dei tratti comuni. Un’identità quella indiana che è sempre stata riconosciuta anche nei tempi più antichi, figlia della civiltà indù che ha creato gli elementi chiave della concezione dei rapporti personali e familiari. Un’esplorazione dell’anima di un popolo a cura due importanti saggisti e ricercatori indiani. Anjali Mendès Di madre in figlia - La cucina indiana - 230 ricette Le Lettere - pagg. 301; € 24,50 La cultura di un Paese passa anche dalla cucina. Non parliamo poi di quella indiana ricca di mille colori, sfumature e profumi, dove le spezie la fanno da padrone. Anjali Mendès è stata una delle più celebri indossatrici di alta moda, vive a Parigi ma non ha dimenticato i sapori della sua terra che ci presenta in 230 ricette “di famiglia”. Stephen Alter Acque Sacre TEA - pagg. 325; € 8,00 Il pellegrinaggio a piedi alle sorgenti del Gange, il fiume sacro per eccellenza è un viaggio intrapreso ogni anno da milioni di fedeli indù. A piedi, arrampicandosi tra i monti in una natura aspra e selvaggia nella regione del Garhwal, tra difficoltà e scomodità di ogni genere. Questo libro, scritto da un occidentale, è il racconto del legame tra la spiritualità e la bellezza naturale dell’India del Nord.

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IIn copertina: danzatrice indiana. La danza è un linguaggio che si manifesta attraverso i movimenti del corpo eseguiti con grazia e bellezza. Ognuno dei 67 movimenti delle mani, delle dita, delle palpebre, degli occhi, del tronco o dei piedi sono segni con un preciso significato. 89


La cartina mostra il nostro viaggio di conoscenza e scoperta del Subcontinente indiano. Si parte dai confini più settentrionali, le vette himalayane più alte del mondo per scendere più a sud nella città disegnata da Le courbousier, Chandigarh, capitale di due stati: Punjab e Haryana.

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Seguendo il corso del Gange, lasciate le valli himalayane, si arriva a Haridward, “Le porte di Dio”, venerata dagli induisti. Siamo stati anche nella città sacra di Varanasi con i suoi riti e nella caotica Delhi. Abbiamo visitato le coltivazioni dove si produce il migliore Tè del mondo, in Assam, per scendere poi nello stato dello’Orissa dove ancora oggi esistono sessantadue tribù con i loro riti e dialetti: è il mondo degli aborigeni indiani. L’India è un popolo e tanti popoli. Non facile da decodificare.

Speciale India MIT - QUADERNI DI VIAGGIO

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