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nuovo contesto

ad appiattirsi e le pressioni sui prezzi al consumo dovrebbero ridursi, in conseguenza di una minore spinta della domanda e della normalizzazione dei mercati delle materie prime.

E quali sono i rischi per le aziende che si muovono nel contesto globale?

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Sicuramente registriamo un quadro di rischio medio globale simile rispetto all’anno scorso, che era stato caratterizzato dalla mancata inversione di tendenza dopo gli incrementi post-pandemia del 2021 e che già lasciava intravedere i primi effetti del conflitto russo-ucraino. Questa stabilità è una buona notizia, da un lato, perché le principali economie sono riuscite a mantenere livelli relativamente immutati, nonostante le circostanze avverse. Dall’altro, però, l’assenza di un miglioramento rappresenta un’occasione persa per quelle geografie che - nonostante gli ampi supporti finanziari – non sono riuscite a rafforzare i propri fondamentali macroeconomici. Il principale fattore discriminante dei cambiamenti nei profili di rischio è l’aumento del prezzo delle commodity energetiche e alimentari, esacerbato dal conflitto tra Russia e Ucraina. Le geografie importatrici, come Tunisia, Bangladesh, Sri Lanka, Kenya ed Etiopia, risentono di un peggioramento del rischio di credito, mentre i Paesi esportatori, che hanno beneficiato del caro-materie prime, dai Paesi del Golfo, alla Malesia, dall’Indonesia al Brasile, registrano un miglioramento. Restano stabili, invece, tutte quelle geografie con una situazione economico-finanziaria consolidata e risorse adeguate per gestire eventuali peggioramenti dello scenario globale, come l’India e il Vietnam in Asia Pacifico, il Messico e il Brasile in America Latina e i Paesi avanzati.

Sul fronte dei rischi politici cosa cambia?

Peggiorano rispetto all’anno scorso, in particolare nella componente di violenza politica. A pesare non è solo il conflitto russo-ucraino sui Paesi direttamente coinvolti e sulle aree limitrofe dell’Est Europa e CSI. C’è anche un inasprimento delle tensioni sociali dovute all’aumento del costo della vita in un contesto di misure economiche restrittive, fattore evidente in Nord Africa, in Tunisia ed Egitto in primis, in Asia, in Sri Lanka o Bangladesh. Senza tralasciare l’Africa Subsahariana, come la Nigeria o altri Paesi, dove il peggioramento dei rischi politici ha radici più profonde legate a conflitti già presenti sul territorio.

Alcune geografie, poi - nonostante la lontananza fisica e l’ampia dotazione di materie prime hanno in parte schermato gli effetti diretti del conflittosono caratterizzate da disuguaglianze sociali e territoriali molto elevate, che i governi non hanno saputo o potuto ridurre e che non sembrano destinate ad attenuarsi. Penso, ad esempio, alla Colombia, al Brasile e soprattutto al Perù in America Latina, con i recenti fatti accaduti, così come al Pakistan in Asia.

Anche quest’anno avete dedicato un’analisi approfondita al rischio climatico, sempre più integrato nelle valutazioni del rischio d’impresa. Che evidenze emergono in questo senso?

L’area asiatica è quella più esposta e con il peggioramento più marcato, con temperature che aumentano al doppio della velocità rispetto alla media globale. Notiamo un forte peggioramento anche in Africa, con dinamiche differenti nei vari quadranti regionali: penso, ad esempio, alle alluvioni in Sudafrica e Nigeria, alla desertificazione del Sahel, o ai cicloni in Madagascar, Malawi e Mozambico.

Altra zona critica è quella dei Caraibi con fenomeni estremi e il cosiddetto «corridoio secco» in Centroamerica, dove periodi di siccità molto ricorrenti e prolungati sono interrotti da fenomeni piovosi estremi. E proprio la siccità, con la conseguente scarsità idrica, è l’origine anche del peggioramento degli indicatori del Medio Oriente e del Nord Africa.

Qual è, quindi, la strada da seguire, secondo Sace, per rimanere competitivi in Italia e nel mondo?

L’invasione russa dell’Ucraina ha portato alla rottura delle relazioni energetiche tra Unione europea e Mosca e dato ulteriore impulso al processo di transizione energetica. Questo non ha fatto altro che accelerare un processo

Media rischio politico

che si era già affermato negli anni scorsi: sostenibilità e transizione ecologica sono, ormai, priorità imprescindibili su cui investire per sviluppare resilienza e costruire vie di crescita futura. Vorrei dare giusto qualche informazione di contesto che lo conferma: il miglioramento degli indici di transizione energetica contenuti nella nostra Mappa, sviluppati in collaborazione con Fondazione Enel, è trainato in particolare dall’indicatore delle rinnovabili, che l’Agenzia Internazionale dell’Energia ha stimato in crescita dell’8% nel 2022. Tale accelerazione è frutto soprattutto della generazione fotovoltaica ed eolica. Europa, America Latina e Asia - spinta dalla Cina - si confermano le aree di maggiore crescita tendenziale nelle fonti energetiche green. Avanza anche l’America Settentrionale grazie ai progressi registrati da Stati Uniti e Canada, mentre il Brasile si conferma tra i Paesi più virtuosi su scala globale, grazie anche al sostanziale contributo dell’idroelettrico e alla rapida espansione del solare. Di contro, e non inaspettatamente, i Paesi esportatori di fossili mostrano i maggiori ritardi. Quindi, in conclusione, il messaggio che vorrei arrivasse alle aziende è di continuare a puntare sulla crescita all’estero, cogliendo le opportunità commerciali e di investimento nei mercati di sbocco più dinamici, in particolare nei settori collegati alla transizione energetica.

88 Paesi (26,8% export 2021)

35 Paesi (51,3% export 2021)

71 Paesi (21,9% export 2021)

65 Paesi (34,5% export 2021)

57 Paesi (12,0% export 2021)

72 Paesi (53,5% export 2021)

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