Azione 27 del 2 luglio 2018

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio L’amicizia tra donne: una relazione affettiva dal valore inestimabile

Ambiente e Benessere Dal Dipartimento del territorio, dall’Azienda cantonale dei rifiuti e da Ticino Energia, un gioco da tavolo all’insegna dell’ecologia

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXI 2 luglio 2018

Azione 27 Politica e Economia Il turco Erdoğan rieletto presidente almeno fino al 2023

Cultura e Spettacoli Un’originale iniziativa artistica a Carona lungo la Via Crucis della Madonna D’Ongero

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Guerra commerciale, conseguenze inattese

Le armature dei Samurai Al MUSEC di Lugano

di Peter Schiesser

di Daniele Bernardi

Nel febbraio del 2017, poco dopo essere entrato in carica, Donald Trump aveva invitato alla Casa Bianca i dirigenti della Harley-Davidson per sottolineare quanto apprezzasse gli sforzi di questa fabbrica e vera icona americana nel creare impieghi negli Stati Uniti. Il 25 giugno la Harley-Davidson ha annunciato di voler spostare parte della produzione in Europa, perché l’aumento dei dazi deciso dall’Unione Europea in risposta all’aumento dei dazi che l’Amministrazione Trump ha imposto su alluminio e acciaio importati dall’Ue a partire dal 1. giugno, comporterebbe un aumento medio del costo della motocicletta in Europa di 2200 dollari, ciò che certamente ridurrebbe il volume delle vendite. Un esempio emblematico di quel che può provocare la guerra commerciale di Trump contro il resto del mondo – senza distinzione fra avversari e alleati, visto che le sanzioni colpiscono Cina, Ue, Messico e Canada (mentre Corea del Sud, Australia, Brasile e Argentina l’hanno scampata fornendo le concessioni che gli Stati Uniti chiedevano). Tuttavia, resta difficile prevedere quali svolte prenderà questa guerra commerciale. La tattica di Trump è di usare la minaccia di un aumento dei dazi per ottenere concessioni. I più deboli si sono piegati, ma gli altri no e hanno annunciato a loro volta delle sanzioni contro gli Stati Uniti. Il tempo dirà fino a quale punto arriverà il livello di scontro fra i colossi economici mondiali (USA, Ue, Cina), tra sanzioni e controsanzioni. Tantomeno si può prevedere quali conseguenze potrà avere questa contesa sull’economia mondiale, su quella dei singoli Stati e in termini geopolitici. Ci saranno senz’altro aziende che ne approfitteranno, altre che ci perderanno, ma, data la complessità dell’intreccio che governa oggi la produzione manifatturiera mondiale, vincenti e perdenti si distribuiranno in tanti paesi del mondo. Alcuni vincenti potrebbero trovarsi all’estero e alcuni perdenti negli Stati Uniti. Due esempi, citati dal «New York Times» (25.6.2018): gli Stati Uniti importano componenti LED dalla Cina per 637 milioni di dollari (2017), un aumento dei dazi sull’importazione dei prodotti cinesi spingerebbe i clienti americani a rivolgersi ad altri mercati ma sempre asiatici, quello malaysiano e giapponese (da cui hanno importato prodotti per 593 milioni di dollari nel 2017); e come scrive nello stesso articolo il NYT, i dazi maggiorati sulle teste motrici per barche a motore importate dalla Cina mettono in difficoltà i produttori di motoscafi statunitensi, poiché i loro motori sono compatibili solo con quella componente di fabbricazione cinese. Ad ogni modo, per l’economia mondiale questa guerra commerciale è veleno: impone alle grandi aziende che vogliono sfuggire ai dazi maggiorati di ridisegnare la mappa delle loro produzioni mondiali, ciò che richiede tempo e denaro, chiusure di stabilimenti in certi luoghi, aperture in altri. Complessivamente, come mostra la storia, sul lungo termine una guerra commerciale ha solo perdenti. Risulterà «vincitore» il paese che riuscirà a digerire meglio i danni. Il presidente americano Trump è convinto di essere nella posizione migliore, poiché gli Stati Uniti esportano meno di quanto importano. E di certo avrà un tornaconto politico-elettorale a breve termine (le elezioni di Mid-Term al Congresso sono alle porte). Ma i danni che potrebbe provocare al sistema del commercio mondiale, alle alleanze geostrategiche (con l’Europa, il Canada, il Messico) su cui gli Stati Uniti hanno basato la loro supremazia nei decenni scorsi, alla stessa economia americana, sono ben superiori. Intanto, questa situazione sembra favorire un avvicinamento tra Unione Europea e Cina. Il 25 giugno, al termine del settimo incontro negoziale ai massimi livelli, Pechino e Bruxelles hanno annunciato di voler combattere il protezionismo (americano) ma anche di voler gettare le basi per una riforma dell’Organizzazione mondiale del commercio. L’Unione europea concorda con Washington sulle critiche rivolte alla Cina in merito alle pratiche commerciali scorrette (appropriazione della proprietà intellettuale, mancanza di reciprocità nell’accesso al mercato cinese, eccessivo sostegno pubblico alle aziende), ma ritiene che la via da seguire sia quella del dialogo e di un rafforzamento della WTO, non quella delle sanzioni unilaterali. Non possiamo sapere se l’attuale atteggiamento accondiscendete di Pechino sia pura tattica o rappresenti una reale volontà di adeguarsi per davvero a (nuove) regole mondiali. Anche perché con la nuova Via della Seta che dovrà collegare la Cina con i mercati asiatici e l’Europa (BRI), in realtà Pechino sta pianificando logisticamente la futura egemonia economica (e politica) mondiale della Cina. Considerato che sempre più Stati africani e asiatici stanno cadendo nella trappola del debito, accettando i crediti cinesi per le grandiose infrastrutture della BRI senza riuscire a ripagarli, c’è il sospetto che l’imperialismo del rinato Impero di Mezzo sia meno liberale di quanto voglia far credere Pechino.

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