Quando si parte in vacanza meglio pianificare in anticipo tutti gli aspetti legati alla salute
Tra Repubblica democratica del Congo e Ruanda è pace africana o pax americana?
ATTUALITÀ Pagina 15
Per il direttore d’orchestra Markus Poschner la bellezza si raggiunge solo abbandonando le certezze
CULTURA Pagina 20-21
La «capannara» dell’Artico
Sogno e follia alla Scarzuola: teatro dell’anima dove perdersi per (forse) ritrovare sé stessi
TEMPO LIBERO Pagina 30
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L’intelligenza emotiva degli animali
Carlo Silini
A volte gli animali leggono gli umani meglio degli umani stessi. I cani ad esempio ti guardano e, senza parole, capiscono, vedono e sentono quando non stai bene e ti si accucciano accanto. Quanti di noi sono in grado di percepire il dolore degli altri con la stessa sicurezza e, soprattutto, quanti di noi hanno poi l’istinto automatico delle bestie per la solidarietà e la consolazione di chi soffre?
Fatto sta che svolgono con commovente premura il ruolo di spugne emotive e calmano i loro «umani» attraverso il tiepido contatto del corpo. Grazie a loro impari che se qualcuno non sta bene non devi cercare le parole, ma esserci e far sentire il calore delle mani, toccare ed essere toccato. Nulla è più consolatorio del tatto. Sfiorare, stringere, abbracciare, massaggiare, accarezzare: l’alfabeto della cura è questione di pelle. Le bestie lo sanno, gli uomini mica sempre. Alcune foto apparse su «Le Monde» e «Avve-
nire» (e su molti altri media) mostrano i cittadini ucraini per le strade distrutte della città o infrattati nei sottoscala delle metropolitane che si portano appresso cani e gatti domestici durante le fughe o nei ripari sotterranei. Un servizio dell’emittente turca TRT World ha dal canto suo mostrato come alcuni abitanti di Gaza frequentino un caffè dove possono accudire i gatti randagi della martoriata regione. Uno spazio di sollievo dentro l’inferno, soprattutto per i bambini. Insomma, gli animali domestici sono una risorsa di calore paradossalmente «umano», che basterebbe, da sola, a giustificare gratitudine incondizionata nei loro confronti. Non intendo abbellire la natura selvaggia, retta da sempre dalla legge del più forte. La dolcezza dei selvatici è l’altro lato della medaglia dell’istinto predatorio alla base della sopravvivenza. Ammiro gli etologi che fraternizzano coi gorilla, i naturalisti che stringono rapporti
improbabili con grandi felini. Un po’ meno gli erpetologi che tengono in casa serpenti più o meno velenosi da sfamare con topolini vivi. Ma non li imito. Preferisco farmi consolare da un barboncino piuttosto che da un boa constrictor. Così, sono rimasto un po’ perplesso quando ho letto le reazioni degli ambientalisti americani per l’inaugurazione della famosa prigione «Alcatraz Alligator», il centro di detenzione per migranti costruito in Florida in mezzo a una palude circondata da animali, come appunto alligatori che da quelle parti possono essere lunghi più di 4 metri, pitoni e altre creature magnifiche ma pericolose, potenzialmente letali, per gli esseri umani.
Mentre mezza America esultava per la rude operazione di dissuasione psicologica all’immigrazione e una buona parte s’indignava per il trattamento dei detenuti – accatastati in stanzoni con letti a castello dentro gabbie coperte da teloni bianchi in mezzo a una natura bru-
licante di insidie – cosa inquieta gli ambientalisti americani? Il fatto che le autorità abbiano edificato la prigione dentro un ecosistema che ospita più di 2000 specie di animali e piante. Si sono radunati davanti alla prigione scandendo slogan come: «Non usate la natura come un’arma» o «Giù le mani dalla mia palude». Non sono, quindi, i prigionieri a essere messi in pericolo dalla laguna infestata da animali selvaggi (in caso volessero tentare la fuga), ma gli animali stessi, o meglio l’ecosistema all’interno del quale vivono, a essere minacciati dalla presenza umana. A rigore è vero: povere bestie, andiamo a disturbarle perfino nei luoghi più invivibili del mondo, dove gli umani apposta rifiutano di installarsi. Ma l’argomento pecca di grossolanità: quella prigione deve essere tolta da lì non per lasciare in pace pitoni e alligatori, ma per rispetto della dignità umana degli incarcerati. Anche il mio cane lo avrebbe capito.
Nadia Ticozzi Pagine
Nadia Ticozzi
M come matrimonio
Info Migros ◆ Ogni anno più di 50 coppie si sposano grazie alla Migros. Non in una filiale, bensì in meravigliose location del nostro Paese. Abbiamo incontrato Nathalie Lüdi, organizzatrice di questi eventi
Pierre Wuthrich
Nathalie Lüdi, qual è il matrimonio più stravagante che ha organizzato?
Ricordo un matrimonio straordinario in cui gli sposi hanno fatto le cose in grande. C’erano fiori e candele ovunque. Davvero magnifico. Abbiamo anche organizzato una meravigliosa festa in inverno duran-
te la quale abbiamo servito fondue all’aperto.
Gli sposi fanno mai richieste assurde?
Sì, alcuni vorrebbero arrivare in elicottero, ma non è possibile. Il Gurten è un’area ricreativa e anche le auto sono vietate.
Organizzare matrimoni è un lavoro stressante?
Organizziamo una trentina di matrimoni all’anno, a volte fino a tre nello stesso giorno! Il nostro team eventi e i nostri cuochi, quindi, sanno esattamente cosa fare. E poiché spesso siamo in contatto con gli sposi con un anno di anticipo, abbia-
mo il tempo di mettere a punto ogni dettaglio.
Le è già capitato di dover gestire cancellazioni dell’ultimo minuto perché i futuri sposi non volevano più sposarsi?
Per fortuna, no. Però è capitato di dover rimandare dei matrimoni, soprattutto durante la pandemia di Covid. O perché non erano più consentiti gli assembramenti, oppure perché le coppie non volevano mettere a rischio i loro ospiti.
Si creano dei legami speciali con gli sposi?
Sì, perché parte del nostro lavoro consiste nel rassicurarli. Dopo il matrimonio, spesso riceviamo biglietti di ringraziamento. Mi fa anche molto piacere rivedere le coppie che ven-
Le location
Vista sul lago di Zurigo
A Rüschlikon (ZH), l’Istituto Gottlieb
Duttweiler si contraddistingue per la vista sul lago e una cucina e un servizio degni di un grand hotel. Qui si sposano ogni anno fino a dieci coppie, sulla terrazza, nel parco adiacente o in una delle sale da ricevimento. Il team che si occupa degli eventi è molto preparato ed è persino capace di organizzare matrimoni con pony e lama... www.gdi.ch
Sopra il Ceresio
Il Monte Generoso offre una cornice da sogno per i matrimoni, sia in estate sia in inverno. montegeneroso.ch
Tra Losanna e Ginevra
Il Signal de Bougy, con vista sul lago di Ginevra, può ospitare banchetti fino a 400 persone. È anche possibile montare una grande tenda
gono a festeggiare il loro anniversario di matrimonio prenotando una delle camere d’albergo del Gurten. E qualche volta chiedono anche una culla per bebè...
Quali sono le tendenze attuali?
Oggi gli sposi preferiscono la semplicità alla sontuosità. Avendo a disposizione diversi spazi, dal fienile in legno alle cantine a volta fino al padiglione vetrato, possiamo soddisfare qualsiasi esigenza e immaginare ogni tipo di decorazione.
Le piacerebbe sposarsi qui?
No... ma solo e unicamente perché ci lavoro. Se così non fosse, sarei tentata. La vista su Berna è spettacolare. Inoltre la location è in mezzo alla natura, ma perfettamente accessibile.
su uno dei campi sportivi. Non manca nulla: ci sono persino dei parchi giochi per gli ospiti più piccoli. signaldebougy.ch
Alle porte di Basilea Nel roseto o in riva al lago, il Park im Grünen Grün 80 di Münchenstein (BL) è un luogo idilliaco per sposarsi. Naturalmente, è possibile celebrare la propria unione anche all’interno, in una delle sale del ristorante. In ogni caso, le coppie possono contare su un team esperto e pieno di entusiasmo. seegarten-restaurant.ch
Vista sulla capitale
Sposatevi sulla montagna «di Berna» nella pluripremiata location per eventi con vista sulla capitale, sulle Alpi e sull’intero Altopiano svizzero. La splendida vista sulla città di Berna, immersa nel verde, crea un ambiente romantico. www.gurtenpark.ch
Rossella Putino
SOCIETÀ
La tecnologia che aiuta
DEEP è un sistema innovativo che traduce la lingua dei segni per facilitare la comunicazione tra sordi e udenti
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Due anni nell’Artico
Incontro con Tessa Viglezio, giovane biologa ticinese che è stata responsabile della base artica italiana
Pagine 8-9
Mondo sommerso
La Federazione svizzera di Pesca ha scelto il lucioperca come pesce dell’anno per il 2025 e mira ad avere più habitat acquatici naturali
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Viaggiare in sicurezza pensando alla salute
Medicina ◆ Per non trovarsi in difficoltà, quando si parte è necessario pianificare per tempo gli aspetti legati al proprio stato fisico
Che si tratti di una vacanza, di un viaggio di lavoro o di un’avventura in terre lontane, affrontare un viaggio senza un’adeguata preparazione sanitaria può mettere a rischio la propria salute. La medicina di viaggio è una disciplina fondamentale per ogni viaggiatore, il cui campo spazia dalle vaccinazioni alle precauzioni consigliate per evitare malattie infettive, fino alla presa a carico di eventuali problematiche di salute che si manifestano al rientro. Quando se ne parla, si fa di fatto riferimento alla preparazione e alla gestione della salute dal periodo che precede la partenza, a durante e dopo un viaggio o una vacanza. Il dottor Pietro Antonini (Gruppo Ospedaliero Moncucco) è lo specialista in Medicina tropicale e medicina di viaggio al quale abbiamo chiesto come meglio affrontare in sicurezza una vacanza dal punto di vista della salute, come proteggersi dai rischi sanitari comuni e da quelli meno noti, e quali sono i comportamenti da adottare per prevenire i problemi che potrebbero sorgere durante la vacanza. «Prima di recarsi all’estero vale la pena consultare uno specialista, soprattutto se parliamo di determinate destinazioni più “sensibili” per le quali spesso sono in vigore regole di salute (vaccinazioni, profilassi o altro) che devono essere osservate». Così esordisce il dottor Antonini, sottolineando che, anche per mete più banali come le vacanze balneari fuori porta, è sempre utile ricevere consigli sulla prevenzione di malattie che si possono contrarre durante il viaggio: «Con il paziente parliamo di malattie abituali, soprattutto quelle trasmesse dall’acqua. Quindi, forniamo nozioni su cosa fare (o non fare) per non incappare nei tipici disturbi gastrointestinali come ad esempio la diarrea, così come orientiamo sulle malattie trasmesse da insetti e quelle da contatti sessuali, senza tralasciare i consigli sugli infortuni». Per determinate destinazioni, non bisogna dimenticare il tema dei vaccini: «Prima di un viaggio, è pure importante controllare per tempo le eventuali vaccinazioni obbligatorie per l’entrata in quella Nazione (almeno sei settimane prima della partenza) e discuterle con il medico, perché per ogni Paese ci sono specifiche regole in merito. E non bisogna trascurare di dare un’occhiata al proprio libretto delle “solite” vaccinazioni, come ad esempio tetano, difterite o morbillo».
Lo specialista ribadisce che vale sempre la pena consultarsi con il proprio medico prima di partire, e suggerisce pure di dare un’occhiata al sito https://www.healthytravel.ch/it sul quale si possono trovare indicazioni utili per una preparazione ottimale del viaggio, con raccomandazioni di vaccinazione, mappe, consigli in ca-
so di malattia e molto altro. Comunque, oltre a questa prassi che dovrebbe essere comune per tutti, una speciale attenzione va data alle persone «particolarmente a rischio»: «Ad esempio, pensiamo alle donne incinte, alle persone che viaggiano per un lungo periodo, a quelle che si spostano in condizioni magari un po’ di fortuna perché si dedicano a viaggi d’avventura e, infine, ai bambini, alle persone anziane, a coloro che presentano comorbidità (soprattutto i pazienti immunodepressi o comunque con problemi di salute cronici cardiaci, polmonari e via dicendo)».
I rischi più comuni per la salute durante un viaggio sono le fluttuazioni climatiche, la qualità dell’acqua, le malattie diffuse nelle destinazioni e i problemi di igiene
Abbiamo scoperto l’ampio ventaglio dei fattori che possono influenzare il benessere di un viaggiatore. Quindi, per quanto sia divertente, rigenerante o arricchente (che si tratti di piacere o lavoro), il viaggiare richiede una buona cura della propria salute a titolo
preventivo così come durante la trasferta ed è dunque essenziale considerare quegli aspetti che comportano i rischi più comuni: «Le fluttuazioni climatiche, la qualità dell’acqua, le malattie prevalenti nelle destinazioni visitate e le condizioni igieniche in generale». Questo elenco non vuole scoraggiare alcuna aspirazione o partenza: «Si tratta piuttosto di incoraggiare un’adeguata preparazione e un’accurata prevenzione dei comportamenti sbagliati per poi godersi la vacanza o il viaggio». Allora, adottare misure di precauzione per garantire la sicurezza sanitaria non deve essere motivo di allarme eccessivo: «È importante riconoscere quei comportamenti apparentemente spensierati che però possono potenzialmente portare a problemi di salute significativi, e averne consapevolezza per porvi il giusto rimedio».
Riassumendo alcuni dei rischi sanitari più comuni del viaggiatore: «Possiamo citare l’intossicazione alimentare, le infezioni respiratorie (per le quali si consiglia di consultare un medico anche in loco oltre che al ritorno se non ci fossero miglioramenti), la disidratazione (è essenziale bere molto per rimanere idratati), la diarrea (per fortuna è spesso ba-
nale e si risolve nel giro di qualche giorno), le sindromi simil-influenzali dovute a diversi tipi di virus, il morbillo, il tifo o la malaria. Tra i diversi virus e le infezioni prevalenti nelle diverse regioni, non dimentichiamo di considerare il virus Zika in Africa o nel sud est asiatico: è sbagliato pensare che essi siano limitati solo a questi luoghi, perché si possono trovare in altri posti differenti, anche a causa della globalizzazione che oramai produce un grande movimento di persone da un luogo all’altro».
Inoltre: «La malaria è quella che fa un po’ paura perché è potenzialmente letale, mentre per la febbre gialla il vaccino risulta protettivo (a questo proposito il regolamento internazionale lo rende obbligatorio per l’entrata nel Paesi più a rischio e ne consegue una protezione efficiente). Un altro esempio è quello inerente al tifo per il quale si deve vaccinare chi si reca nel sub-continente indiano (India, Bangladesh, Nepal)». Altri consigli banali che però vanno citati riguardano il sonno, la pelle e l’alimentazione: «Dormire bene, senza sacrificare il sonno, non significa perdere il tempo del viaggio ma sfruttarlo al meglio; la protezione della pelle deve essere una priorità:
applicare sempre una crema con una buona protezione solare non serve solo all’abbronzatura ma è utile a prevenire le scottature e i relativi danni alla pelle; oltre al “pasto giusto”, bisogna prestare attenzione anche al “posto giusto”: non significa rinunciare del tutto a gustare il cibo di strada, ma bisogna essere un po’ “schizzinosi” e attenti nella scelta del luogo in cui mangiare e della relativa igiene. Anche la pulizia delle proprie mani è essenziale insieme alla verifica, per quanto possibile, che il cibo sia appena preparato e che gli ingredienti siano lavati e conservati in modo igienico. Va da sé che bisogna evitare di mangiare qualcosa cucinato da tempo». Si è pronti per la partenza quando è pronto pure il kit medico personale: «Dovrebbe contenere alcuni farmaci che si usano abitualmente e che renderanno sicuri e tranquilli nel momento del bisogno. In aereo meglio tenerlo con sé, casomai la valigia dovesse andare smarrita o arrivare qualche giorno più tardi». Infine, due parole sul rientro a casa: «Quando ci fossero problemi legati alla pelle, diarrea che non passa in qualche giorno, febbre o malessere diffuso, il consiglio è quello di recarsi dal medico o dallo specialista».
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Prima di recarsi all’estero vale la pena consultare un medico specialista per ricevere consigli sulla prevenzione di malattie che si possono contrarre durante il viaggio. (Freepik.com)
Maria Grazia Buletti
I cetrioli di casa nostra
Attualità ◆ Sono tra gli ortaggi più amati durante l’estate. Meglio ancora se di produzione locale, perché oltre ad assicurare freschezza, sapore autentico e sostenibilità, contribuiscono a supportare i produttori della nostra regione
Il cetriolo è coltivato in India da oltre 3000 anni e fu probabilmente introdotto in Europa centrale dai Bizantini agli inizi del Medioevo, per poi diffondersi rapidamente in tutto il mondo grazie alla sua versatilità e alle sue proprietà. Tra le varietà più conosciute possiamo citare il cetriolo da insalata, dalla forma allungata e con la buccia liscia; il cetriolo da campo o nostrano, di medie dimensioni, particolarmente diffuso alle nostre latitudini, che si distingue per la buccia rugosa e il sapore pronunciato e i cetriolini croccanti e ideali per la conservazione sottaceto.
Curioso ma vero i cetrioli appartengono alla famiglia botanica delle Cucurbitacee, la stessa delle angurie, meloni , zucchine e zucche.
I cetrioli sono considerati dei veri e propri alleati della linea, grazie al loro bassissimo contenuto di calorie, che è solo di ca. 15 calorie per 100 grammi. Con un tenore d’acqua del 95 %, sono inoltre particolarmente rinfrescanti e perfetti per corroborarsi durante la stagione estiva. Gli ortaggi sono inoltre una buona fonte di vitamine e sali minerali essenziali per supportare e mantenere in salute il nostro organismo.
Le settimane dei Nostrani del Ticino fino al 21 luglio
La coltivazione del cetriolo nostrano occupa un ruolo di rilievo nel panorama orticolo ticinese, dove viene prodotto da esperti orticoltori con particolare riguardo per le qualità organolettiche, la sostenibilità e la valorizzazione delle risorse locali. Grazie ad un clima mite, come pure a terreni tendenzialmente franco-sabbiosi o franco-limosi, con un buon tenore di sostanza organica, il Ticino offre le condizioni pedoclimatiche ideali per la coltura tradizionale del cetriolo. La coltivazione in tunnel permette di rispondere all’esigenza di proteggere le piante dalle piogge e di prolungarne la stagione produttiva, come anche di garantire una produzione più stabile con riduzione delle fitopatie, una pezzatura regolare e una qualità costante. Inoltre, alcune aziende associate alla Tior SA, fanno capo ad un sistema di coltivazione horssol all’avanguardia, che prevede l’u-
tilizzo di substrati inerti, come la fibra di cocco, e un’irrigazione fertirrigua controllata. Questa tecnica permette anche un’elevata efficienza nell’uso dell’acqua e dei nutrienti, come pure il contenimento di infestanti e malattie radicali. Le piantine da vivaio vengono trapiantate in tunnel tra metà marzo e metà aprile e vengono allevate su fili verticali, con una gestione delle potature regolari al fine di controllare lo sviluppo laterale e favorire la qualità dei frutti. Per garantire un apporto nutrizionale costante e preciso, l’irrigazione avviene generalmente a goccia, integrando sistemi di fertirrigazione. La raccolta manuale avviene in modo scalare tra fine aprile e settembre.
di cetrioli piccante
Ingredienti per 4 persone
• 1 scalogno
• 2 peperoncini
• 2 cucchiaini di semi di sesamo
• sale
• 0,5 dl d’olio, ad es. olio di vinaccioli
• 2 cucchiai d’olio di sesamo
• 1 kg di cetrioli sodi e piccoli
• 4 cucchiai d’aceto di riso
• 1 cucchiaio di miele di fiori liquido
• 100 g di feta
• fiori di borragine, a piacimento
Preparazione
Per l’olio aromatizzato, taglia lo scalogno a fettine sottili, i peperoncini ad anelli ed elimina i semi a piacimento. Metti i semi di sesamo e 2 prese di sale in una scodella. Scalda le due varietà d’olio, poi fai rosolare lo scalogno e i peperoncini, finché lo scalogno si dora bene. Versa subito tutti gli ingredienti bollenti sui semi di sesamo e lascia riposare l’olio aromatizzato per almeno 15 minuti.
Dimezza i cetrioli per il lungo. Con un coltello grande o un mattarello appiattisci leggermente ogni metà, poi tagliali di traverso a pezzetti grossolani. Mescola l’aceto con il miele e 4 cucchiai d’olio aromatizzato. Aggiungi i pezzetti di cetriolo e mescola bene. Condisci l’insalata con sale. Taglia la feta a fettine sottili e distribuiscile sull’insalata. Guarnisci a piacimento con fiori.
La ricetta Insalata
Attualità ◆ I peperoncini sott’olio ticinesi sono perfetti per dare una nota pungente caratteristica alla tua estate
Sei un amante dei sapori pungenti?
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Capire la lingua dei segni con l’aiuto di un avatar
Tecnologia ◆ Daniele Raffa, CEO di Handy System, spiega come è nato DEEP: Segna che ti sento! un innovativo sistema di comunicazione fra persone sorde e udenti
Stefania Hubmann
Come nasce e si concretizza un’invenzione? Cosa la precede? Difficile immaginare che si accenda all’improvviso la classica lampadina come nella testa di Archimede nel fumetto Topolino. In effetti Daniele Raffa, autore dell’innovativo sistema di comunicazione fra persone sorde e udenti DEEP: Segna che ti sento! , spiega che è giunto a realizzare questo progetto, in collaborazione con il Servizio informatica forense della SUPSI, nel contesto di un percorso che da anni lo vede impegnato con la sua società nel settore della tecnica assistiva. È inoltre attivo a livello privato in diverse associazioni e in politica a favore in particolare delle persone disabili e anziane. Per capire il suo modo di operare e come funziona il prototipo di DEEP, la cui fase di sperimentazione è appena stata avviata nel Comune di Mendrisio, siamo andati a trovarlo nel suo ufficio situato proprio nel nucleo di Mendrisio.
Non è un caso che il prototipo di DEEP sia stato installato allo sportello dell’Ufficio controllo abitanti del Magnifico Borgo. È qui, infatti, che Daniele Raffa è nato nel 1977, è cresciuto, vive e lavora. La Città è inoltre impegnata da anni in molteplici progetti a favore dell’inclusione, per cui ha accolto con entusiasmo questa nuova sfida. La fase pilota servirà a valutare il funzionamento del totem, il dispositivo che fisicamente permette di tradurre in tempo reale una comunicazione in Lingua dei Segni Italiana (LIS) in un’espressione scritta o verbale in italiano e viceversa. L’ideatore del sistema ci mostra l’avatar che dallo schermo comunica con la persona non udente attraverso la LIS.
Per la fase pilota un prototipo di DEEP è installato allo sportello dell’Ufficio controllo abitanti di Mendrisio
«L’applicazione – precisa Daniele Raffa – permette di tradurre i segni della LIS in italiano, così che l’impiegato o l’impiegata del Comune possa capire la richiesta dell’utente. Sulla base dei feedback che si raccoglieranno durante il periodo di prova, la cui durata non è ancora stata determinata, il sistema verrà affinato e quindi migliorato. Ancora più interessante, oltre a questa prima funzione nel campo amministrativo, è la possibilità di estendere la sua applicazione a qualsiasi altro ambito. Per questo motivo è già stata promossa una collaborazione con una farmacia perlomeno a livello di raccolta dati, ossia ad esempio le domande più frequenti dei clienti e i termini ricorrenti del settore». Grazie a queste informazioni in collaborazione con gli ingegneri della SUPSI sarà possibile sviluppare un modello ad hoc, riproducibile sulla base dei rispettivi
azione
Settimanale edito da Migros Ticino
Fondato nel 1938
Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31
dati anche per altri servizi pubblici importanti quali la polizia o il pronto soccorso.
La spinta data dalla pandemia e l’esperienza personale
Prima di approfondire gli aspetti tecnici di questa innovazione, torniamo all’idea iniziale, scoprendo che Daniele Raffa si interessa alla Lingua dei Segni italiana già da molto tempo. Abbinare questo coinvolgimento alla sua attività professionale costituisce il secondo passaggio che porta nel giro di alcuni anni alla realizzazione di DEEP: Segna che ti Sento! « Già prima della pandemia desideravo sviluppare questa idea legata alla comunicazione fra persone sorde e udenti», racconta il nostro interlocutore. «L’utilizzo della mascherina ha accentuato la problematica, per cui ho deciso di riprenderla per portarla a buon fine. Attraverso questo progetto è stato inoltre possibile dar seguito al desiderio maturato negli anni con Alessandro Trivilini, responsabile del Servizio informatica forense della SUPSI e conosciuto ai tempi della mia formazione, di dar vita a un’iniziativa comune».
L’attività in proprio del mendrisiense nel settore della tecnica assistiva – sistema che utilizza le risorse tecnologiche al fine di favorire le persone con disabilità nel superamento delle loro difficoltà rendendole più autonome – è stata preceduta da un altro tipo di esperienza professionale. Daniele Raffa, paraplegico dalla nascita, ha infatti dapprima seguito una formazione commerciale. «A causa della mia situazione fisica mi era stata suggerita questa via, perché
Redazione Carlo Silini (redattore responsabile)
Simona Sala
Barbara Manzoni
Manuela Mazzi Romina Borla Ivan Leoni
secondo l’orientatore professionale il settore tecnico, che era già la mia passione, costringe a lavorare in piedi e non era pertanto adatto. L’attività in un ufficio non faceva però per me e già durante l’apprendistato davo sempre una mano a sistemare stampanti e altri supporti tecnici. Il diploma l’ho ottenuto, ma in seguito, quando mi sono iscritto alla SUPSI dove ho conseguito il Master in Advanced Computer Science. Anche lo svolgere un’attività in proprio è sempre stato un mio desiderio e perciò sedici anni fa mi sono lanciato con la società Handy System. Se fosse andata male, avrei sempre avuto il mio diploma di commercio…».
Facilitare la vita quotidiana di chi ha bisogni speciali
La Handy System, che ha finanziato il progetto DEEP con il supporto di Innosuisse, l’agenzia svizzera per la promozione dell’innovazione, è invece cresciuta contribuendo a facilitare la vita quotidiana di persone con bisogni speciali attraverso numerose soluzioni adattate alle necessità dei singoli. «Non lavoro con clienti ma con persone – spiega Daniele Raffa – cercando di combinare al meglio le risorse a disposizione e le loro esigenze pratiche grazie all’esperienza maturata sul campo». Lo specialista si muove da un capo all’altro del Ticino per confrontarsi con le situazioni da risolvere o migliorare. Fra gli esempi che caratterizzano il suo percorso professionale, sceglie di mostrarci il campanello wireless concepito per le persone tetraplegiche che non sono in grado di esercitare la pressione
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI)
tel + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89
necessaria per far funzionare un pulsante normale. In questo caso basta un tocco minimo per attivarlo. Precisa l’intervistato: «Ogni progetto ha la sua storia che parte dal bisogno della persona e in genere da un prodotto standard. Adattare quest’ultimo al caso specifico richiede tanta fantasia applicata alle conoscenze tecniche. L’obiettivo è di giungere a una soluzione che abbia un costo ragionevole, pertanto seguiamo pure la parte amministrativa per la ricerca dei finanziamenti in modo che la spesa non vada a gravare troppo sulla persona già in difficoltà se questa non beneficia di una copertura assicurativa». Un altro progetto che la Handy System sta sviluppando rappresenta una rivisitazione del telesoccorso volta a eliminare l’azione da parte delle persone, la cui incolumità è controllata tramite sensori installati nel loro ambiente di vita. Una prova di un anno del sistema Home Care è già stata effettuata in una casa per anziani.
La collaborazione attiva della comunità non udente
Per quanto riguarda la realizzazione di DEEP, è stata molto preziosa la collaborazione della comunità dei non udenti. Daniele Raffa: «Il progetto è stato concepito con le persone alle quali l’uso del dispositivo è destinato. Oltre sessanta ore di registrazione video sono alla base del lavoro svolto dai collaboratori scientifici della SUPSI che hanno allenato il dispositivo. Abbiamo infatti chiamato il progetto DEEP perché si basa sul Deep Learning (apprendimento profondo), ossia un metodo che analiz-
za dati e impara da essi un po’ come fa la mente umana. Una caratteristica essenziale della lingua dei segni è la sua ricchezza espressiva. Non è infatti sufficiente riprodurre i segni, ma vanno tenuti in considerazione anche altri aspetti come il movimento del volto, delle mani e del busto. Ad esempio, se quest’ultimo si sposta in avanti, significa che desidera enfatizzare quello che si sta comunicando». Daniele Raffa nel frattempo ha intrapreso anche i passi necessari per brevettare l’invenzione avviando l’iter presso l’Istituto Federale della Proprietà Intellettuale. «La procedura dura circa due anni e finché è in corso il nuovo sistema di traduzione è protetto. Sottolineo l’importanza del contributo di Innosuisse, agenzia della Confederazione che finanzia a fondo perso le aziende impegnate nell’innovazione. Il progetto deve soddisfare precisi criteri e si ha tempo 18 mesi per realizzarlo. Il ritorno d’immagine per la Svizzera a livello internazionale e il possibile successo finanziario dell’azienda sono i benefici indiretti di cui gode il Paese in caso di successo».
Per Daniele Raffa questo progetto di comunicazione in LIS e italiano rappresenta una grande soddisfazione, sentimento che prova però anche per successi minori. Più che l’aspetto commerciale ad appagarlo è il fatto di aver messo a punto una soluzione innovativa e più ancora di vederla utilizzata da una persona con difficoltà. Anche un grazie ricevuto oltre dieci anni fa è un ricordo ancora vivo. Il fattore umano è quindi il motore delle sue ideazioni che con DEEP: Segna che ti sento! ha sicuramente raggiunto un livello superiore.
La giovane biologa ticinese che si
Incontri ◆ Tessa Viglezio ci racconta i suoi due anni trascorsi nell’arcipelago delle Svalbard come responsabile della base di ricerca Dirigibile
Spiegando il suo lavoro a Ny-Ålesund, la biologa Tessa Viglezio si lascia sfuggire il termine «casa» per descrivere la base artica italiana. La sua casa del Nord si trova a 78°55’N, nell’arcipelago delle Svalbard, territorio d’oltremare della Norvegia. Non ha un indirizzo, ma un nome sì: Dirigibile Italia. La base di ricerca deve il suo nome alle spedizioni organizzate dall’esploratore italiano Umberto Nobile, che insieme al norvegese Roald Amundsen nel 1928 sorvolò per la prima volta il Polo Nord. Ny-Ålesund nasce come villaggio di minatori, in un territorio dove la vita, nella sua testardaggine, d’inverno si lascia difficilmente distinguere nel bianco manto della neve. Penne bianche per quelli che vengono scherzosamente chiamati polli delle nevi – e che stupisce non vedere surgelati per natura – pelliccia bianca per le volpi artiche, che d’estate mutano il pelo per confondersi nella tundra che si spoglia della neve. Bianco anche l’orso polare, naturalmente. Occorre avere un occhio allenato per distinguere il suo profilo nel candore dei ghiacci. Colorate, invece, sono le costruzioni che costituiscono il villaggio e che ospitano ricercatori provenienti da ogni parte del mondo. Le attività di estrazione del carbone, iniziate a Ny-Ålesund nel 1920, cessarono nel 1963 poiché il costo in vite umane era troppo alto. Fu nell’inverno dal ’64 al ’65 che un gruppo di quattro ricercatori superò l’inverno in una delle baracche abbandonate dai minatori. Iniziò così la nuova storia, all’insegna della ricerca scien-
tifica, di questo piccolo insediamento nell’estremo Nord. Qui l’Istituto di Scienze Polari del Consiglio Nazionale delle Ricerche italiano gestisce la base artica, in cui la biologa ha passato le sue giornate più lunghe, quando il sole non cala mai sotto l’orizzonte. Questa storia va declinata al passato, poiché Tessa Viglezio ha terminato il suo lavoro nel circolo polare artico ed è tornata in Ticino, lasciando nel territorio delle aurore boreali e delle distese incontaminate di neve un pezzo del suo cuore.
L’occasione dello Swiss Artic Project
Ticinese di origine, artica d’adozione, Tessa Viglezio si è innamorata dell’estremo Nord in occasione dello Swiss Arctic Project. «Sono sempre stata una persona a cui piacciono di più il freddo e la montagna, rispetto al caldo e al mare. Nel 2018 mi sono iscritta a questo progetto di comunicazione, in cui si andava tre settimane nell’Artico. Ma non mi sono iscritta perché era l’Artico, mi sono iscritta perché era un’avventura. Dal momento in cui ci ho messo piede, ho sentito qualcosa. Non posso dire come mi sono innamorata di questi luoghi, so solo dire che è successo. L’Artico è il mio posto, mi sento a casa». Nel 2018 stava studiando biologia all’Università di Neuchâtel, «l’obiettivo era studiare il comportamento animale seguendo un master a Zurigo, ma poi ho preso parte allo Swiss Arctic Project». Un viaggio che
ha sconvolto i suoi piani. «Per tornare alle Svalbard ho fatto un master in Olanda, all’Università di Groninga –racconta – così a Ny-Ålesund ho studiato la muta delle penne delle oche faccia bianca, in relazione all’aumento delle temperature».
Oggi Tessa Viglezio ha 28 anni e ancora sete d’avventura, dopo l’esperienza nel circolo polare artico. «Essere responsabile della stazione di ricerca non è evidente», sottolinea dopo aver svolto questo lavoro per due anni. «Siamo isolati, abbiamo risorse limitate. Se si rompe qualcosa bisogna ripararlo con quello che c’è. Il clima è estremo, non solo rispetto alla luce e al buio durante l’anno, ma anche per le temperature rigide».
Il suo lavoro nel circolo polare artico consisteva anche nella gestione del laboratorio atmosferico «Gruvebadet», dove ci sono diverse strumentazioni che aveva il compito di monitorare. Ad esempio, cambiava i filtri che misurano la presenza di particolato nell’atmosfera, spedendoli poi ai ricercatori che ne ricavano i dati. Un lavoro svolto in condizioni estreme. Anche d’inverno, quando con il buio usciva sul tetto della stazione meteorologica per recuperare i filtri. Senza perdere tempo a indossare la sua calda giacca a prova di venti artici. Essere efficienti è fondamentale per Tessa Viglezio.
Il sole ha fatto capolino alle Svalbard per la prima volta il 7 marzo, quest’anno. Durante questo mese di profondi cambiamenti, le giornate si allungano a ogni alba e tramonto, e il vento primaverile sferza la neve sof-
Nadia Ticozzi, testo e foto
La stazione di ricerca francese e tedesca a NyÅlesund; sotto, la biologa Tessa Viglezio sul tetto della stazione meteorologica «Gruvebadet» e l’entrata della base artica Dirigibile Italia gestita dall’Istituto di Scienze Polari; nella pagina accanto, a sin. cartello che allerta del pericolo di incontro con l’orso polare, a des. la base artica italiana.
sente a casa nell’Artico
Italia a Ny-Ålesund, un ex villaggio di minatori che ora ospita ricercatori provenienti da ogni parte del mondo
fiandola con veemenza sulle facciate delle poche case di Ny-Ålesund. Case/basi scientifiche, s’intende. Le temperature vanno dai – 10°C ai – 20°C, ma la temperatura percepita è più bassa a causa del vento, che sembra portarsi via le guance e il naso. Qui è incredibile constatare la perfetta progettazione del corpo umano: nessun senso di congelamento agli occhi, ben protetti dalle palpebre, dalla circolazione sanguigna e dalle lacrime. Sì, l’Artico fa piangere, non solo il giorno in cui lo si lascia. È particolare il rumore che si diffonde per le strade di Ny-Ålesund. Il suono dei ramponi che calpestano i ghiacci si diffonde nel silenzio artico fra le mura delle case, per poi disperdersi in lontananza nel biancore. Le auto che passano risuonano come degli aerei, con i loro pneumatici chiodati che mordono la coltre di ghiaccio. Ghiaccio che dovrebbe essere neve, spiega la ex responsabile della base artica italiana. L’inverno boreale appena trascorso è stato il secondo più caldo mai registrato, scrive MeteoSvizzera citando i dati del servizio europeo Copernicus. Tessa era nell’Artico e racconta: «Per metà dei 28 giorni di febbraio le temperature sono state al di sopra dello zero. Febbraio e marzo sono normalmente i mesi più freddi dell’anno, con temperature intorno ai – 20°C. Avere 2°C per due settimane su quattro è anomalo. Ho visto cadere la pioggia in un momento dell’anno in cui non cade mai. Abbiamo misurato altezze nevose che troviamo solitamente nei mesi di maggio e giugno». 13 centimetri di ghiaccio nascosti sotto 16 centimetri di neve, come sono stati misurati, rappresentano un problema per la fauna. «La pioggia è più pesante della neve e si infiltra al di sotto. Le temperature non rimangono a lungo sopra lo zero, quindi questa pioggia diventa una lastra ghiacciata, che rende impossibile alle renne nutrirsi. D’inverno questi animali scavano la neve con lo zoccolo per raggiungere i licheni. Ma non riescono a spaccare il ghiaccio e rischiano di morire di fame», spiega Tessa. «Quello che mi porto a casa da Ny-Ålesund, è che i miei gesti e le mie scelte non hanno solo conseguenze per me. Il fatto che l’uomo produca delle emissioni in quantità insostenibile ha effetto sull’Artico, che ha a sua volta effetto su un ecosistema vicino». «Qui bisogna essere molto flessibili», continua Tessa nel suo racconto. «Si dipende molto dal tempo meteorologico. Il vento primaverile non permette di fare determinati lavori sul campo, e non bisogna dimenticare che ci sono gli orsi polari. C’è sempre la possibilità di incontrarne uno. Il lavoro che viene svolto al di fuori di un edificio dipende da tantissimi fattori».
Garantire l’incolumità dei ricercatori
A partire da febbraio cominciano ad arrivare i ricercatori sull’isola. Coloro che vengono ospitati a Dirigibile Italia venivano accolti da Tessa. Il suo lavoro consisteva nell’accompagnarli durante le ricerche, assicurando la loro incolumità. Le prime istruzioni che Tessa ha sempre fornito all’arrivo degli scienziati, riguardano la sicurezza. Il perimetro di Ny-Ålesund è delimitato da cartelli che segnalano
la presenza dell’orso polare e impongono il divieto di allontanarsi senza adeguate protezioni. Ossia un fucile o l’essere accompagnati da qualcuno con un fucile e sia in grado di utilizzarlo. Ogni porta di casa è aperta, e la porta si apre tirandola verso di sé, gesto che un orso polare non è in grado di fare. Ogni automobile è accessibile e le chiavi di avviamento sono già inserite. Non basta rifugiarsi nell’auto, nel caso di incontro ravvicinato: meglio accendere il motore e allontanarsi. I ricercatori sono consapevoli di essere degli ospiti nella casa dell’orso polare.
Ogni giorno vi sono due responsabili designati alle emergenze, raggiungibili attraverso un numero di telefono componibile da ogni casa, oppure dalla radiotrasmittente che ogni responsabile di base artica ha con sé. Se viene localizzato un orso polare, la notizia viene diffusa e vige il divieto di avvicinarsi a quella zona. Gli avvistamenti sono piuttosto rari e difficilmente un orso entra a Ny-Ålesund.
«Accogliere i ricercatori significava occuparmi delle loro necessità», spiega la biologa. «Procurare loro le motoslitte di cui potevano avere bisogno, fare la guardia all’orso se durante le loro ricerche erano troppo impegnati per prestare la dovuta attenzione all’ambiente circostante. E poi, naturalmente, ospitarli. Quando i ricercatori si trovano in base hanno accesso anche alle stanze dedicate al tempo libero, ossia il salotto con la piccola cucina. Mi sentivo un po’ una capannara dell’Artico», dice sorridendo. Il suo lavoro variava dall’accoglienza, alla logistica, alla gestione tecnica, alla manutenzione. «Quando sono arrivata a Ny-Ålesund non sapevo cambiare una lampadina. Ora sono in grado di aggiustare un campionatore, so cosa sono i rotori di una pompa. Con l’arte di arrangiarsi svalbardiana, ho imparato tantissimo».
Una comunità di trenta persone
Ciò che più mancherà a Tessa, di queste terre candide d’inverno e brulle d’estate, è la compagnia. Parliamo di un luogo dove in inverno stazionano permanentemente solo una trentina di persone, che raggiungono il centinaio durante l’estate. Una compagnia, quindi, composta da un nucleo di persone molto ristretto, ma proprio per questo significativo. Ny-Ålesund potrebbe ricordare quei paesaggi na-
talizi all’interno di una boccia di neve. I contatti verso l’esterno sono effimeri, mentre quelli con chi si incontra quotidianamente, sono decisamente molto importanti. «Ci sono tantissime nazionalità che convivono – spiega Tessa – si è insieme almeno tre volte al giorno per i pasti, si ha occasione di conoscere culture che sono molto diverse tra loro, la mente si apre, e c’è una microsocietà che ti fa cambiare la tua percezione della vita. Sull’isola ci sono molti meno bisogni rispetto al con-
tinente». In questo territorio gestito dalla King’s Bay AS, società norvegese che a suo tempo gestiva l’estrazione mineraria e oggi accoglie gli scienziati, troviamo infatti un solo negozietto, aperto un’ora il lunedì e un’ora il giovedì. Un bar esiste ed è attivo solo durante i mesi estivi. «Il fatto che qui manchino molte cose, ti fa capire come in realtà neanche nel continente hai bisogno di tutta questa scelta. Qui è importante sopravvivere, mangiare e dormire», sottolinea la biologa. L’at-
tenzione e la cura per l’essenziale, sono aspetti che la biologa cerca di portare con sé lasciando le isole Svalbard ma, riconosce, «presto si torna ad abituarsi alle necessità, ai bisogni e ai servizi che ci sono nel continente». Tessa Viglezio, che non desidera fare la ricercatrice in senso accademico, resta una ricercatrice nel suo animo avventuriero, capace di addentrarsi in territori meravigliosamente inospitali, praticamente inabitati, eppure ricchi di umanità.
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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA
Il termine microbiota intestinale si riferisce alla moltitudine di batteri che popolano l’intestino. Essi appartengono a numerosi ceppi diversi e operano in un equilibrio molto delicato per sostenere funzioni corporee fondamentali. Ogni ceppo batterico svolge compiti specifici.
Il problema: con l’avanzare dell’età, la composizione del microbiota si altera progressivamente. Lo ha dimostrato in modo impressionante un ampio studio condotto dal Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles (USA), che ha confrontato il microbiota intestinale di persone appartenenti a diverse fasce d’età.1
Il risultato: le persone del gruppo più anziano (66–80 anni) mostravano una significativa riduzione della diversità batterica nel microbiota. Inoltre, anche il rapporto tra i vari gruppi batterici
risultava alterato. I ricercatori sono riusciti a collegare questi cambiamenti negativi del microbiota a diversi fenomeni legati all’invecchiamento. La ridotta varietà batterica nell’intestino viene favorita sia dal naturale processo di invecchiamento, sia da malattie legate all’età e da una maggiore assunzione di farmaci.
Cosa sono i preparati contenenti ceppi batterici e a cosa prestare attenzione prima dell’acquisto?
Molte persone ricorrono quindi agli integratori a base di ceppi batterici (noti anche come probiotici), che contengono batteri vivi. Tuttavia, i vari prodotti sul mercato presentano differenze significative. È particolarmente importante assicurarsi che un
Fitness in terza età: quale ruolo riveste il microbiota intestinale?
Chi riflette sui cambiamenti fisici legati all’età pensa soprattutto a cambiamenti della muscolatura e delle ossa. Ma ciò a cui la maggior parte delle persone non pensa: i cambiamenti che subisce il nostro microbiota intestinale, e, come questi siano collegati ad altre funzioni corporee.
preparato offra un’elevata varietà di ceppi batterici e un dosaggio sufficientemente alto.
Poiché studi recenti hanno dimostrato che un’alterazione della flora intestinale è spesso legata anche a danni alla mucosa intestinale, un preparato dovrebbe idealmente contenere ingredienti
che ne favoriscano il benessere, come ad esempio la niacina.
Purtroppo, solo pochi prodotti sul mercato soddisfano questi elevati standard.
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Un predatore che difende ferocemente il suo nido
Mondo sommerso ◆ Scegliendo il lucioperca come pesce dell’anno per il 2025, la Federazione Svizzera di Pesca mira a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di creare un maggior numero di habitat acquatici naturali
Franco Banfi
Il lucioperca è stato designato «pesce dell’anno 2025» dalla Federazione svizzera di pesca (FSP). Questo pesce d’acqua dolce è apprezzato sia dai pescatori che dagli chef, e la sua designazione mira a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di creare più habitat acquatici naturali.
Arrivato nelle acque svizzere circa sessant’anni fa il lucioperca affascina per il suo aspetto che ricorda un animale favoloso con pinne spinose, denti affilati e grandi occhi
Il Sander lucioperca, conosciuto comunemente come lucioperca, luccioperca o sandra, è un pesce d’acqua dolce della famiglia Percidae. Contrariamente a quello che può far pensare il suo nome, non è un incrocio tra un luccio e un persico. È un pesce autoctono nativo dell’Europa centro-settentrionale e di quella orientale (Svezia, Finlandia, Germania, Polonia ed ex URSS) nonché dell’Asia occidentale, è stato introdotto in molti Paesi europei agli inizi del XIX secolo, tra i quali la Svizzera (circa 60 anni fa) dove si è diffuso, naturalizzandosi, specialmente in bacini lacustri minori. Appartiene alla stessa famiglia del persico di cui ricorda vagamente la forma e la colorazione. Predilige acque ferme o a debole corrente, con poca vegetazione, abbastanza pulite con fondo ghiaioso o sabbioso. Ha corpo simile a quello del persico ma assai più slanciato, la pinna dorsale ricca di macchie nere è divisa in due parti con dimensioni simili, quella anteriore ha 13-15 raggi spinosi. La testa appuntita è leggermente appiattita e ricorda quella del luccio, grossa bocca provvista di nu-
merosi dentelli fra i quali spiccano due caniniformi più lunghi. Il maschio presenta una concavità nel dorso, fra la testa e la pinna dorsale anteriore; nella femmina questo punto è invece convesso. La livrea presenta una colorazione verde più o meno accentuata sul dorso mentre i fianchi possono essere argentei o lievemente dorati e sono percorsi in senso verticale da 6-9 striature più scure, il ventre è bianco argenteo.
I soggetti più longevi raggiungono l’età di 20 anni, 130 cm di lunghezza per un peso di 15 kg.
A Porlezza, nelle acque del Ceresio, Marco Giudici, un pescatore di 29 anni, nell’agosto del 2009 ha catturato un Lucioperca da record. Il pesce superava il metro di lunghezza per un peso superiore ai 15 chilogrammi. Della sensazionale cattura ha parlato anche l’«Angler’s Mail» il maggior giornale inglese in materia di pesca, ed è stata definito dai più grandi esperti il nuovo record del mondo e senza dubbio il più grande perca pescato con la canna da pesca di cui si è a conoscenza. Da notare che il grande predatore è stato rilasciato il-
Le fastidiose allergie ai pollini
leso subito dopo le foto di rito. Il Lucioperca è considerato come uno dei migliori pesci d’acqua dolce e viene intensamente allevato e commercializzato, le sue carni sono ottime, di colore bianco dal sapore delicato. Il lucioperca ha abitudini prevalentemente notturne. Gli esemplari di piccole dimensioni vivono in piccoli branchi, mentre da adulti diventano solitari. Già al termine del primo anno di vita la sua dieta è composta prevalentemente da pesci come alborelle, scardole, persici sole e co-
biti mentre solo nella fase iniziale di sviluppo si ciba anche di invertebrati. L’alimentazione è ridotta durante l’inverno.
La riproduzione si svolge nella tarda primavera, da aprile a giugno, quando la temperatura dell’acqua è compresa tra i 12 ed i 15 °C. La frega è assai lunga ed è divisa in due distinte fasi. Nella prima (in aprile) il maschio prepara un’area adibita a nido per la femmina e lo difende sviluppando una fortissima aggressività verso tutto ciò che passa nei suoi paraggi. Non è un’aggressività alimentare, il lucioperca in quel periodo non mangia, ma è frequente vedere pesci morti intorno ai nidi occupati dal maschio, li attacca per cacciarli e non li mangia.
Nella seconda (in maggio) vi accoglie la femmina quando è pronta a depositare le uova, (fino a 200.000 per kg di peso); dopo la fecondazione i maschi si occupano di ventilare e proteggere le uova.
Il lucioperca è diffuso in molte acque svizzere perché è in grado di adattarsi meglio alle mutevoli condizioni ambientali naturali o causati dall’uomo. Non è territoriale, prospera anche in canali e bacini, è un ottimo cacciatore e non deve intraprendere lunghe migrazioni per procreare.
La pesca professionale svizzera cattura un massimo di circa dieci tonnellate di lucioperca all’anno.
Per soddisfare la richiesta che è molto superiore, attualmente vengono importate diverse migliaia di tonnellate di filetti dall’Europa orientale e dalla Scandinavia. La crescente domanda di pesce fresco regionale di alta qualità porterà all’aumento di numerose acquicolture in Svizzera, e probabilmente il lucioperca sarà una parte essenziale di questo sviluppo.
Fitoterapia ◆ Sono molte le piante con proprietà antiallergiche, tra le più conosciute il Sambuco e l’Agrimonia
Eliana Bernasconi
Sintomi di reazione allergica sono presenti nel 30-40% della popolazione mondiale. Chi soffre di allergia ai pollini sa molto bene quanto possano risultare fastidiose certe giornate di grande sole, o, peggio, di vento. Il miracolo della primavera che si ripete purtroppo porta con sé un aumento della concentrazione di pollini nell’aria causato dalla fioritura degli alberi. La presenza di pollini, anche se in misura minore, continua sino al tardo autunno, gli sbalzi climatici fanno la loro parte. Ed è proprio quando nell’ambiente la concentrazione dei pollini è al massimo che il sistema immunitario dei soggetti ipersensibili manifesta i ben noti sintomi come il «raffreddore da fieno» con il suo contorno di occhi gonfi, infiammati, arrossati, starnuti frequenti, tosse, stanchezza, mentre i disturbi peggiorano per chi soffre di asma.
Se si sceglie di non ricorrere ai farmaci di sintesi la Fitoterapia ha molti rimedi da proporre. Come sempre, non si forniscono qui consigli di terapia ma solo informazioni, insistendo sulla necessità di rivolgersi a un medico o a un terapeuta specializzato che
dopo un’attenta anamnesi, possono individuare la pianta indicata per ogni singolo caso.
Le maggiori proprietà antiallergiche sono racchiuse in piante come il Sambuco, l’Agrimonia, il Ribes nero, il Faggio, la Piantaggine, la Liquerizia, l’Eufrasia e l’Elicriso.
Chi non conosce il Sambuco? nome scientifico Sambucus nigra L, dal greco sambyke, lo strumento musicale che si otteneva con i rami svuotati dal midollo; lo troviamo nei boschi umi-
di, nelle siepi, tra i ruderi con i suoi candidi fiorellini a grappolo, le foglie verdi e le bacche nere, fiorisce da aprile a maggio in tutta Europa. I Celti lo piantavano attorno alle case e alle stalle per preservarle dai malefici e dai serpenti, in particolare nell’Europa centro settentrionale i contadini si inchinavano sette volte per ringraziarlo dei sette benefici che si ottenevano con le sue parti. Corteccia, foglie e fiori si raccolgono da maggio a giugno, i fiori si fanno essiccare all’ombra e si conservano in scatole di cartone, hanno azione pettorale sudorifera, diuretica ed emolliente; i frutti, o bacche, raccolti da agosto a settembre, essiccati al sole o al forno, si conservano in barattoli di vetro, contengono numerose vitamine e minerali, hanno proprietà antinausea, lassative e antinevralgiche. Nella medicina popolare antica quando ogni cura medica era fondata sulla sperimentata conoscenza degli effetti di ogni erba, l’infuso delle giovani foglie era somministrato contro la tosse e per abbassare la pressione sanguigna, il decotto di fiori di sambuco, foglie d’ortica, foglie e fiori di malva era usato per suffumigi, la-
vaggi nasali e raffreddore di testa. Nel vino bianco o rosso, si lasciavano macerare per 3 mesi fiori di sambuco e miele, il tutto, detto «enolito» era filtrato e assunto a piccoli bicchieri contro la tosse; il succo delle bacche era lasciato fermentare per produrre un altro vino medicinale, il «vino di sambuco», mentre con un terzo di bacche fresche e 2 terzi di prugne secche si ottenevano ottime marmellate lassative e diuretiche.
Un’altra pianta dalle spiccate proprietà antiallergiche è l’Agrimonia: Agrimonia eupatoria L, nome volgare erba di San Guglielmo. Questa modesta pianta dal fusto eretto e dai delicati fiorellini gialli può passare inosservata fra le erbe, la scorgiamo nei prati aridi, preferibilmente calcarei delle zone collinari e montane, negli spazi incolti, lungo i fossi e le strade fino a 1500 metri di altitudine. Come quasi sempre in Fitoterapia la stessa pianta per le sue molteplici proprietà, può essere indicata per disturbi di tipo assai diverso: la medicina tradizionale cinese le attribuisce proprietà astringenti, disintossicanti, antiparassitarie ed emostatiche, romani e greci la usava-
no per le malattie epatiche, come vulnerario e antiveleno, nel Medioevo per fratture, tracce di colpi, gonfiori, dolori e morsi di serpenti si applicava un impiastro di Eupatoria sminuzzata nel grasso. Il decotto della pianta, mescolato con brodo, era bevuto dai malati di asma e di patologie polmonari croniche, le foglie essiccate erano impiegate come succedaneo del tè, o per infusi e decotti, l’infuso di fiori cura la diarrea e ha un buon sapore di albicocca. Gabriele Peroni, nel suo Trattato di Fitoterapia, scrive di avere ottenuto risultati molto incoraggianti nel trattamento delle allergie respiratorie, alimentari e da contatto, particolarmente in casi refrattari ad altri trattamenti con remissione completa e senza ricadute anche dopo molti anni, impiegando, secondo i casi e la reattività delle persone, la Tintura madre di Agrimonia in associazione con una o più delle seguenti preparazioni: Ribes Nero, Viburno, Elicriso.
Bibliografia
G. Peroni, Trattato di Fitoterapia, Driope ovvero il patto tra l’uomo e la natura, Nuova IPSA ed.
Il lucioperca può vivere fino a 20 anni e raggiungere un peso di 15 Kg (Franco Banfi)
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La pace? Tante parole e zero fatti
Medio Oriente ◆ Trump ottimista sull’accordo ma il Governo israeliano sta facendo di tutto per sabotare una possibile intesa
Sarah Parenzo
Dopo aver sbandierato la riuscita della missione contro il nucleare, Trump sfoggia ottimismo e impazienza sulla pace in Medioriente, ma, mentre scriviamo queste righe e viene stampato il giornale, a israeliani e palestinesi il traguardo sembra ancora molto lontano. A Doha la delegazione israeliana non dispone di un mandato decisionale e i mediatori fanno capire che se le trattative continueranno ad essere arenate si rischia di perdere la motivazione. Negli ultimi giorni maggiori consensi sono stati raggiunti sulla questione delle modalità di distribuzione degli aiuti umanitari e dell’ingresso di finanziamenti per la ricostruzione di Gaza, tuttavia fonti israeliane e palestinesi mettono le mani avanti.
Nonostante le pressioni di Trump, infatti, Netanyahu continua a sabotare l’accordo con Hamas e sembra intenzionato a protrarre la guerra sacrificando giovani soldati di leva e riservisti solo per salvarsi la poltrona, facendo lo slalom tra il processo a suo carico e lo scandalo del Qatargate. Quella che potrebbe sembrare un’opportunità storica si sta nuova-
mente trasformando in una tortura, e non solo per i civili di Gaza che pagano il prezzo più alto in termini di vite umane e condizioni esistenziali. La scelta di un rilascio parziale e graduale degli ostaggi (si parla di circa 10 ostaggi vivi e 18 morti, in cambio di prigionieri palestinesi, nell’arco di 60 giorni), benchè il report sulle presunte condizioni psicofisiche degli ostaggi sia agghiacciante, si traduce nell’ennesima selezione che esaspera le famiglie degli ostaggi le quali, esauste, supplicano di procedere ad un accordo che preveda un unico scambio.
Il calcolo di Netanyahu
Anche l’insistenza sul controllo israeliano del corridoio Morag è indice della volontà di Israele di mantenere il controllo di Gaza invece di lasciarne la reggenza a terzi. Netanyahu non prende il rischio di inimicarsi la destra sionista che sogna di ricolonizzare la Striscia e cerca di procrastinare fino alla chiusura estiva della Knesset e dei tribunali che gli garantirà tre mesi di «tregua personale» nei
quali è previsto che non possa cadere il Governo.
Anche la cronaca delle visite di Netanyahu alla Casa Bianca la scorsa settimana assume i contorni di una satira di cattivo gusto, a cominciare dalla lettera «omaggio» con la quale il premier israeliano, accusato di crimini di guerra, propone la designazione del Presidente Usa quale candidato al Nobel per la pace. Una pace singolare dal momento che dalle conversazioni tra i due capi di Stato emergono temi quali i campi di concentramento «umanitari» e le espulsioni o i trasferimenti obbligati di parte della popolazione palestinese della Striscia. Gli israeliani tuttavia continuano a rimandare il confronto con gli orrori di Gaza, occupati come sono a gestire la crisi interna che peggiora di mese in mese. All’euforia che aveva accompagnato i primi giorni dell’attacco a sorpresa all’Iran è subentrata l’amarezza per le menzogne di Netanyahu che ammette di non aver sradicato la minaccia nucleare. Intanto, i malcapitati che hanno perduto le abitazioni distrutte dai missili iraniani vanno ad ingrossare le fila degli sfollati del
Sud e del Nord e dormono provvisoriamente negli alberghi, costretti a recarsi al lavoro senza che lo Stato riesca a farsi carico di loro. La salute mentale è sempre la prima a fare le spese dell’incompetenza delle istituzioni, le tempistiche per ricevere cure psichiatriche sono infinite e i suicidi tra soldati e superstiti sono sempre più frequenti. Inoltre, il peso che grava sui riservisti è tale che alcuni si procurano volontariamente delle fratture per ottenere la dispensa. Anche la famigerata riforma giudiziaria galoppa, continuando a prendere di mira il potere giudiziario, dal presidente della Corte Suprema Yitzhak Amit, alla procuratrice Gali Baharav-Miara. Nuove proposte di legge chiedono l’eliminazione della commissione per la nomina dei vertici dei servizi e dell’esercito, o l’annullamento dei gradi dei dissidenti, mentre è previsto un budget di 140 milioni di Shekel per tener buoni gli ultraortodossi ai quali Netanyahu non riesce ancora a garantire l’auspicata esenzione dal servizio di leva obbligatorio. Sullo sfondo di una guerra politica e priva di scopo proseguono le scorri-
bande dei giovani coloni delle colline che portano alla cancellazione di intere comunità palestinesi. E restando in Cisgiordania nelle politiche israeliane di frammentazione e del divide et impera rispetto alle diverse autorità palestinesi si inserisce anche la proposta formulata dagli sceicchi di Hebron di istituire un emirato indipendente da un possibile Stato Palestinese.
L’allontanamento di Odeh
Non ultimo una nuova ombra grava sulla fragilissima democrazia israeliana, ovvero l’allontanamento di Ayman Odeh, leader della lista unita arabo-israeliana Hadash. Accusato di incitazione al terrorismo per un post sui social, Odeh è stato preso di mira persino dal capo dell’opposizione Yair Lapid che non mostra alcuna vergogna nel sostenere le deplorevoli politiche di esclusione dei partiti arabi dal Governo perseguite dall’estrema destra. Se l’espulsione di Ayman Odeh verrà confermata dal voto della Knesset la strada verso l’etnocrazia con derive autoritarie si fa sempre più breve.
Washington: Benjamin Nentayahu consegna a Donald Trump la lettera - già inviata al Comitato per il Nobel - con cui candida il presidente degli Stati Uniti al Nobel per la pace. (Keystone)
In Medio Oriente diaspora contro diaspora
Storia ◆ Dal popolo errante degli ebrei cacciati dalla loro terra nel 70 d.C. origina la comunità dei palestinesi installatisi negli stessi luoghi dal 1948: un passaggio di consegne iniziato ben prima del Terzo Reich
Marco Alloni
Per ironia della storia, la diaspora palestinese (cominciata nel 1948) origina da un’altra diaspora (cominciata nel 70 d.C.): quella ebraica. In entrambi i casi non esiste, a rigore, alcuna colpa fondativa. Gli ebrei furono perseguitati dapprima in quanto monoteisti in un mondo prevalentemente politeista, poi in quanto popolo cosiddetto «deicida» («assassino di Gesù») per la discutibile connivenza tra il drappello di sacerdoti guidati da Caifa e le autorità romane e infine, nella modernità, perché gli ebrei – abilitati dal proprio credo all’usura verso i non ebrei, contrariamente a cristiani e musulmani – accumularono ricchezze straordinarie guadagnandosi così l’ostilità di un numero via via crescente di Gentili.
Tale incolpevole condizione socio-economica – unita a quel «minoritarismo elettivo» che li espose, in quanto popolo «prescelto» e non proselitista, a un isolamento sia culturale che fisico (il primo ghetto ebraico sorse in una fonderia di Venezia nel 1516) – scatenò quindi l’abominio delle Leggi razziali del 1938 dapprima e la strage (Shoah, letteralmente, da non confondere con Olocausto, che presuppone un «sacrificio» deliberato) dei campi di concentramento nazisti, con i 6 milioni di morti di cui sappiamo.
Ma le avvisaglie di un «passaggio di consegne», se è opportuno chiamarlo così, dalla diaspora ebraica a quella palestinese, cominciarono ad appalesarsi assai prima del genocidio perpetrato dal Terzo Reich. E trovarono nella nascita del movimento sionista di fine Ottocento (avviato al Congresso di Basilea del 1897 sotto la guida di Theodor Herzl) e nella Dichiarazione Balfour del 1917 (che esprimeva di fatto il favore della Gran Bretagna alla creazione di uno Stato d’Israele in Terra Santa) le condizioni politiche per una soluzione «nazionale» alla diaspora ebraica.
Nel periodo fondativo del movimento sionista venne siglato uno slogan che di fatto sancì un «diritto coloniale» sulla Palestina: una terra senza popolo per un popolo senza terra
Senonché proprio nel periodo fondativo del movimento sionista venne delineandosi uno dei più tragici equivoci della modernità, che sancì un «diritto coloniale» sulla Palestina avulso da qualsiasi attenzione morale, culturale, etnica e religiosa nei confronti dei popoli che l’abitavano. Per voce non solo di sionisti ebrei, ma persino di sionisti cristiani quali Thomas Brightman, venne infatti siglato uno slogan (oggi ancora tragicamente attuale) attraverso il quale si denegava alla radice l’esistenza (o persino il diritto all’esistenza) di una popolazione palestinese: «Una terra senza popolo per un popolo senza terra». Con questo appello sottintendendo –in una spregiudicata rimozione della realtà – che la diaspora ebraica avrebbe potuto trovare il proprio sollievo senza ingenerare una conseguente diaspora palestinese.
In questo drammatico «equivoco», demografico e geografico, si è consumato il passaggio cruciale tra le due diaspore. Quando, nel 1948 – dopo aver scartato i sionisti, a seguito di
infiniti dibattiti, l’ipotesi di fondare uno Stato ebraico in terra africana o asiatica – venne sancita la nascita di Israele nel cuore della Palestina araba, si inaugurò di fatto uno slittamento mai più ricompostosi: quello che avrebbe portato le «vittime» storiche della persecuzione a consegnare la palma ai palestinesi, i quali, secondo le parole di Roger Garaudy, si sarebbero così presentati da allora come «vittime delle vittime».
Eppure quella «terra senza popolo» non era affatto una terra senza popolo. Protettorato britannico dal 1920 al 1948 – dopo essere stata provincia ottomana fino al crollo della Sublime Porta nell’ottobre del 1918 – il territorio che dalle alture del Golan, lungo il Mediterraneo, scen-
de fino a Gaza e ai confini con la penisola del Sinai, era uno sterminato consesso umano, il quale, se non godeva dello statuto di «nazione» o di «paese» come l’Egitto, il Libano o la Siria circostanti, certamente tutto era tranne una terra di nessuno. E nel 1948 (ancora oggi designato dagli arabi come Nakba o «Catastrofe») contava una popolazione di 1 milione di arabi musulmani e di 150mila arabi cristiani (contro 700mila ebrei). Popolazione che da quella data in poi, con il progressivo allargamento degli insediamenti coloniali ebraici in Palestina (v. mappa) ha conosciuto una delle più impressionanti serie di diaspore della storia contemporanea.
È quindi proprio a partire dal 1948, dalla Nakba, che l’estensione
del «colonialismo» ebraico in Palestina – ideale fine della diaspora del Popolo Eletto – ha sancito la progressiva decurtazione della popolazione locale – concreto inizio della diaspora del Popolo Negletto. Una diaspora (in arabo Naksa) che si dispiega in altrettante fasi quante sono state le «guerre» asimmetriche tra Israele e Palestina, ognuna delle quali ha determinato esodi, sovraffollamenti nei campi profughi, esilio e fuga.
Dopo la guerra civile del ’47-’48, che siglò la fine del mandato britannico, e a seguire nel conflitto arabo-israeliano del ’49, oltre 700mila arabi palestinesi vennero direttamente o indirettamente espulsi dai propri villaggi – in ottemperanza al principio sionista del «trasferimento ineluttabile», promosso e realizzato dalle milizie della Haganah e dell’Irgun – dando corpo alla prima ondata migratoria della loro storia e inaugurando un mai applicato «diritto al ritorno» (Risoluzione 194 delle Nazioni Unite). Molti trovarono rifugio nella neonata Cisgiordania, ottenendo la cittadinanza, molti altri si dispersero nei Paesi arabi e in diverse altre nazioni del pianeta.
Dopo la guerra civile del ’47-’48 e a seguire nel conflitto araboisraeliano del ’49, oltre 700mila arabi palestinesi vennero direttamente o indirettamente espulsi dai propri villaggi
Con la Guerra dei Sei Giorni del 1967, circa 650mila palestinesi trovarono poi rifugio in Giordania, dove i guerriglieri di Al Fatah muovevano le loro azioni di rappresaglia ai confini con Israele. Ma l’instabilità prodotta all’interno del Paese da questo «Stato nello Stato» che era diventato il cor-
po di miliziani di Al Fatah indusse re Hussein a scatenare nel Settembre («Nero») del 1970 una guerra civile contro i palestinesi, determinando una nuova ondata di esodi: non da ultimo in Libano, dove tale ennesima migrazione forzata diede avvio, nel 1975, alla prima guerra civile. Da quel periodo in avanti i profughi palestinesi non hanno fatto che aumentare. Oggi se ne contano in totale 7 milioni in tutto il mondo, ovvero, secondo le stime dell’UNRWA, circa il 70% dell’intero popolo palestinese e circa un terzo di tutti i rifugiati del pianeta.
Una cifra che fa il paio con dati ancora più impressionanti: circa 700mila rifugiati «registrati» nei campi dei cosiddetti «Paesi ospitanti» (Libano in primo luogo), circa 500mila negli 8 campi della Striscia di Gaza, circa 200mila nei 19 campi distribuiti tra Cisgiordania e Gerusalemme Est. Una diaspora che nasce, come detto, da un’altra diaspora. Ma alla quale il Diritto Internazionale non sembra offrire, da quasi ottant’anni, se non speranze di procotollo. Le risoluzioni dell’Onu (a partire dalla famigerata Risoluzione 194) venendo sistematicamente disattese, l’Articolo 13 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo («Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese») restando lettera morta, e il Comitato delle Nazioni Unite per l’Eliminazione della Discriminazione Razziale (Articoli 5 e 18) non sapendo agire sulle politiche coloniali di Israele in nessuna forma realmente risolutiva.
Con il tragico risultato, dilatatosi a dismisura a partire dal 7 ottobre 2023, di costringere il mondo a chiedersi se l’impotenza (o quella che Gramsci stigmatizzava come «indifferenza») non sia un atteggiamento colpevolmente deliberato.
Un campo profughi palestinese vicino a Damasco nel 1967, dopo la Guerra dei Sei Giorni. (Wikimedia Commons)
Una veduta di Gerusalemme, con al centro la Cupola della Roccia, dalla caratteristica cupola dorata, importante monumento situato sul Monte del Tempio e sito sacro sia all'Islam che all'Ebraismo. (Freepik)
Pace africana o pax americana?
Washington ◆ Il 27 giugno Repubblica democratica del Congo e Ruanda hanno firmato un accordo sotto l’egida Usa
Pietro Veronese
Scartata e messa in ombra da guerre e catastrofiche che si susseguono nel mondo, quella che sembra una buona notizia è giunta nei giorni scorsi dall’Africa. O meglio, da Washington, dove due Paesi africani da anni in conflitto hanno firmato un accordo di pace. Il 27 giugno i ministri degli Esteri della Repubblica democratica del Congo (RdC) e del Ruanda, seduti ai lati del segretario di Stato Marco Rubio, hanno sottoscritto un protocollo per far tacere le armi nelle province orientali del Congo, in particolare nel Kivu. I due Paesi hanno preso impegni reciproci: il Ruanda di rispettare la sovranità territoriale del suo vicino; la RdC di neutralizzare le formazioni armate attive all’interno dei suoi confini, dalle quali il Ruanda si sente minacciato.
L’America potrebbe impadronirsi di parte delle ricchezze minerarie congolesi indebolendo l’attuale principale fruitore di quelle risorse: la Cina
Propagandato dall’Amministrazione Trump come un trionfo diplomatico, l’accordo è stato accolto dagli osservatori come un sicuro fatto positivo, ma anche con molta cautela. Non è certo il primo sottoscritto tra i due Paesi negli ultimi anni, e tutti quelli che lo hanno preceduto sono rimasti lettera morta. È poi carico di silenzi e assenze che non liberano la parola scritta dalle ambiguità e dal peso delle cose non dette. Il Ruanda, ad esempio, non ha mai ammesso di essere intervenuto militarmente all’interno dei confini congolesi, il che fa suonare piuttosto vuote le sue rassicurazioni. Inoltre, il protagonista vincente dell’ultimo conflitto nell’est del Congo, il movimento M23, che si è rivelato la più forte e organizzata tra le numerosissime formazioni armate attive in quella terra sofferente, non sembra
avere avuto alcuna voce in capitolo nella formulazione degli accordi. Animato da Tutsi congolesi, etnicamente e ideologicamente affine al governo del Ruanda – che secondo ogni evidenza lo aiuta militarmente – l’M23 gode però di un’autonomia politica e operativa tale da farlo eventualmente sentire svincolato dagli accordi, e pronto a riprendere le armi, se dovesse giudicarne svantaggiosi gli effetti.
Ma il non detto più vistoso di ogni altro è la brama delle straordinarie risorse naturali, in particolare minerarie, della Repubblica democratica del Congo. Nei mesi scorsi Trump vi ha fatto un fuggevole accenno; e il presidente congolese Félix Tshisekedi ne ha pubblicamente offerto l’accesso agli Stati Uniti, in cambio di un loro aiuto a risolvere i suoi problemi di sicurezza interna. L’interesse americano è duplice. Il primo è la possibilità di impadronirsi di parte delle ricchezze minerarie congolesi. Il secondo è geopolitico, perché il principale fruitore di quel sottosuolo è la Cina, attraverso le sue compagnie, e una rinnovata presenza a stelle e strisce potrebbe ridimensionarne il ruolo. Questo spiega il timbro esclusivo che l’Amministrazione Trump ha voluto apporre sotto gli accordi di pace, esigendo che i loro protagonisti si recassero a Washington. Nessuno può dubitare che questa sia un’altra pax americana. Per anni gli Usa si erano disinteressati al conflitto del Congo orientale; oggi tutti coloro che se ne erano invece occupati, per la verità con scarso esito – Nazioni Unite, Unione Africana, Unione Europea, organismi di cooperazione regionale – sono stati lasciati fuori dalla porta. In questo modo, tuttavia, gli accordi di Washington assumono un’innegabile sapore neocoloniale, come dimostra il fatto che a Kinshasa, la capitale della RdC, sono stati accolti da sollievo ma anche da manifestazioni di veemente protesta. Gli oppositori accusano il presidente Tshisekedi di avere ancora
volta svenduto la sovranità nazionale e il controllo sulle risorse naturali che fanno del Congo – potenzialmente – uno dei più ricchi Paesi al mondo. E così, è come se un nuovo capitolo si fosse aggiunto a una storia plurisecolare che sempre ricorre. Una storia che ha segnato tragicamente il Novecento e l’Ottocento, ma risale ancora più lontano nel tempo. L’assassinio di Lumumba complottato da belgi e americani all’indomani dell’indipendenza nel 1960-61; gli orrori del colonialismo belga per volontà di re Leopoldo II, negli ultimi due decenni dell’800; e prima, prima ancora, nei secoli remoti delle scoperte geografiche ad opera dei navigatori portoghesi…
Nei giorni scorsi a Roma è aperta ancora per pochi giorni una bella mostra alle Scuderie del Quirinale. S’intitola Barocco globale e chiuderà il
13 luglio. Racconta di quando la città dei papi, agli inizi del Seicento, irradiò la sua influenza fino agli angoli più remoti della Terra, allora ancora semisconosciuta, e divenne crocevia di genti, culture, tradizioni tra loro distanti e diversissime. Ebbene, la mostra si apre con la straordinaria figura di Antonio Manuel ne Vunda, ambasciatore del re del Congo, venuto a morire a Roma il giorno dell’Epifania del 1608, prima di essere riuscito a riferire a papa Paolo V la sua ambasciata.
Il regno del Congo di allora non corrisponde all’odierna Repubblica democratica; piuttosto, alla parte settentrionale dell’Angola. In comune con lo Stato odierno ha però il basso corso del fiume che i portoghesi avevano chiamato Rio Poderoso e che oggi dà il nome a ben due Paesi africani. Portogallo e regno del Congo sta-
bilirono subito rapporti amichevoli, tanto che presto i sovrani di quest’ultimo si convertirono al cristianesimo con tutti i loro sudditi. Poi, nel corso del Cinquecento, le cose presero ad andare di male in peggio. I portoghesi chiedevano sempre più schiavi e avorio, insistevano perché i sovrani congolesi rivelassero l’ubicazione delle miniere d’oro che erano convinti nascondessero. Alla fine del secolo re Alvaro II decise di appellarsi direttamente al Papa, come fosse un re dei re della cristianità. Dopo un primo tentativo fallito, affidò la sua ambasceria a don Manuel. Questi, attraverso infinite traversie, impiegò quattro anni per giungere a Roma, ormai morente. La città gli organizzò un grande funerale, il Papa lo fece seppellire in Santa Maria Maggiore. Ma il messaggio non era arrivato. Ancora oggi, si fa fatica a sentirlo.
Qualche consiglio se desideri donare denaro ai tuoi figli mentre sei ancora in vita
La consulenza della Banca Migros ◆ I metodi per trasferire il proprio patrimonio in tempo utile sono due: la donazione e l’anticipo ereditario che però è soggetto all’obbligo di compensazione
Vi sono due modi di trasferire il patrimonio quando si è ancora in vita: la donazione e l’anticipo ereditario. Le donazioni possono essere anche a favore di terzi, mentre gli anticipi sull’eredità sono possibili solo se i beneficiari sono gli eredi legittimi, ossia i propri figli. Qui ci concentriamo sull’anticipo ereditario, poiché per i discendenti diretti non vi è praticamente alcuna differenza rispetto alla donazione.
In linea di principio, gli anticipi sull’eredità sono soggetti all’obbligo di compensazione: la/il figlia/o beneficiaria/o deve compensare il valore della donazione nella successiva divisione ereditaria tra fratelli. Non sono considerati anticipi i regali occasionali in occasioni particolari come matrimoni o esami superati. A seconda del cantone, sono esenti da imposta fino a 5000 franchi per
evento. Se l’importo è superiore, i genitori possono esonerare mediante testamento la/il figlia/o beneficiaria/o dall’obbligo di compensazio-
ne fermo restando, però, che gli altri fratelli ricevano la quota legittima.
Prima di versare un anticipo sull’eredità, i genitori dovrebbero valutare attentamente la propria situazione finanziaria: il patrimonio è sufficiente per garantire il consueto tenore di vita nella terza età anche senza l’importo donato?
Spesso si sottovaluta il fabbisogno di capitale dopo il pensionamento: l’aumento delle spese sanitarie, le costose attività del tempo libero e la riduzione del reddito svolgono un ruolo decisivo. Il problema è che chi concede un anticipo sull’eredità può chiedere la restituzione del denaro solo in rari casi eccezionali. In alternativa, i genitori possono sostenere i figli con un prestito che, in caso di difficoltà finanziarie, può essere disdetto per recuperare il denaro.
Di cos’altro bisogna tenere conto: gli anticipi sull’eredità possono ridurre le prestazioni complementari statali (PC), che si applicano quando le rendite e il reddito restante non bastano a coprire le spese minime di sostentamento. Chi dona una parte del proprio patrimonio «rinuncia volontariamente alla sostanza» quindi, in tal caso, l’ufficio delle prestazioni complementari ricomputa il denaro donato al patrimonio e la persona interessata percepisce conseguentemente una minore prestazione complementare o nessuna. Ogni anno è consentita una rinuncia alla sostanza pari a 10’000 franchi.
In generale, in caso di anticipi sull’eredità è sempre consigliabile giungere a un accordo scritto. Questo facilita la successiva divisione ereditaria, perché fa chiarezza su quando e su quale figlia/o ha
ricevuto una determinata somma di denaro.
Dal punto di vista fiscale, l’anticipo sull’eredità è considerato una donazione ed è soggetto alla relativa imposta, la cui entità varia da cantone a cantone. Nella maggior parte dei cantoni, tuttavia, che si tratti di donazioni o di eredità, i discendenti diretti pagano solo imposte minime o nessuna imposta.
Richiedete la Pianificazione finanziaria Qui sono disponibili informazioni sulla consulenza personalizzata:
Gerhard Buri, consulente alla clientela presso la Banca Migros ed esperto di previdenza.
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Ex membri delle Forze armate della Repubblica Democratica del Congo (FARDC) e agenti di polizia si arrendono ai ribelli dell’M23 a Goma, in Congo, domenica 23 febbraio 2025. (Keystone)
L’inevitabile effetto degli attacchi Usa in Iran sulla politica nucleare nordcoreana
Prospettive ◆ Sette anni fa Trump puntava a un accordo con Pyongyang per la denuclearizzazione. Oggi sarebbe impossibile
Giulia Pompili
Se è vero che l’alleanza strategica fra Iran e Corea del Nord va avanti da diversi decenni, dopo l’attacco americano ai siti nucleari iraniani la leadership nordcoreana ha reagito con freddezza, condannando le azioni di America e Israele, definendole una grave violazione del diritto internazionale e dei principi della Carta delle Nazioni Unite in materia di sovranità e non ingerenza, senza però offrire un chiaro ed esplicito sostegno al regime iraniano.
Si è discusso molto, tra osservatori e analisti, della reazione tiepida da parte della leadership di Pyongyang, ma quasi tutti concordano nel constatare che la politica estera nordcoreana si è ormai definitivamente allineata a quella della Russia di Vladimir Putin. Come Mosca, Pyongyang non voleva mostrarsi troppo coinvolta nel conflitto, nonostante con Teheran condivida gli stessi nemici ideologici. A Seul, capitale sudcoreana dove si osservano più da vicino e con maggiore attenzione i cambiamenti e le decisioni del regime nordcoreano, l’aspetto più interessante della vicenda è piuttosto capire quali lezioni Kim Jong Un abbia tratto dall’attacco americano contro i tre siti nucleari iraniani. Secondo molti analisti di questioni nordcoreane, se l’obiettivo della seconda am-
ministrazione Trump era quello di riaprire un dialogo diretto (fallito durante il precedente mandato) con il leader Kim Jong Un, il messaggio dei bombardamenti contro l’Iran ha
Disponente –Resp. Team Autisti (f/m/d)
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pianificazione dei turni e risoluzione imprevisti del piano trasporti; utilizzo dei sistemi informatici specifici del settore; gestione di un gruppo di circa 25 autisti; coordinamento dell’attività con i colleghi della logistica; collaborazione con i colleghi delle altre cooperative; guida di mezzi pesanti (compreso carico/scarico); trasmissione delle informazioni efficiente e puntuale; impiego dei veicoli in maniera ottimale; mantenimento dei contatti con clienti, filiali e partner commerciali; elaborazione statistiche e report con relativa presentazione dei risultati; collaborazione nella valutazione di nuovi veicoli.
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avuto un effetto respingente, portando a una chiusura ancora più netta da parte della leadership nordcoreana. Perché c’è un dato che spesso, in Occidente, si dimentica: la Corea del Nord possiede già le armi nucleari. Il percorso intrapreso da Pyongyang è stato diverso da quello di Teheran soprattutto su un punto: mentre l’Iran, in una certa misura, ha aperto le porte agli ispettori dell’Aiea, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica dell’Onu – anche senza l’estrema trasparenza richiesta – la Corea del Nord si è ritirata dall’organizzazione nel 1994 e, sin dal 2009, non consente più all’agenzia di monitorare i propri impianti nucleari. Finora il regime ha effettuato sei test atomici: nel 2006 e nel 2009 sotto la guida di Kim Jong Il, e poi nel 2013, due volte nel 2016 e nel 2017 sotto l’attuale leader Kim Jong Un – lo stesso che, il 12 giugno 2018, ha incontrato per la prima vol-
ta un presidente americano in carica, Donald Trump, in uno storico vertice a Singapore. Da mesi si attende un settimo test nucleare, la cui preparazione, secondo immagini satellitari, è in corso da tempo.
Se oggi qualcuno volesse replicare in Corea del Nord gli attacchi avvenuti in Iran, dovrebbe vedersela con l’alleato di ferro Putin
Sette anni fa, il capo della Casa Bianca era convinto di poter arrivare a un accordo con Pyongyang per la «completa, immediata e verificabile denuclearizzazione», un principio cardine su cui si basano le relazioni diplomatiche nella regione dell’Indo-Pacifico. Ma quell’accordo non è mai arrivato, e da quando è tornato alla Casa Bianca, Trump ha parlato molto poco del-
la Corea del Nord, quasi fosse consapevole del fallimento precedente. Nel frattempo, l’attualità ha insegnato a Pyongyang che, per preservare la leadership della dinastia dei Kim – e ottenere l’effetto deterrente necessario contro eventuali attacchi o tentativi di regime change – l’unica strada è possedere l’arma nucleare.
«L’attacco del presidente Trump agli impianti nucleari iraniani senza dubbio rafforzerà ulteriormente la legittimità della politica di lunga data della Corea del Nord, che lega la sopravvivenza del regime allo sviluppo di armi nucleari», ha dichiarato alla CNN Lim Eul-chul, professore di Studi nordcoreani alla Kyungnam University, in Corea del Sud. Pyongyang inoltre «percepisce il recente attacco aereo statunitense come una minaccia militare preventiva e probabilmente accelererà gli sforzi per rafforzare la propria capacità di attacchi missilistici nucleari preventivi». Il regime nordcoreano possiede già missili balistici a lungo raggio in grado di colpire qualsiasi punto del globo, compreso il territorio statunitense.
L’alleanza tra Corea del Nord e Iran ha origini lontane. Negli anni Ottanta, durante la guerra con l’Afghanistan, Teheran chiese aiuto al regime nordcoreano (e a quello siriano) per armarsi. Nel corso dei decenni, si è spesso parlato di una condivisione di tecnologie e know-how tra i due Paesi, soprattutto in ambito nucleare, ma la relazione è sempre stata di convenienza, quasi commerciale. Oltre a uno sviluppo decisamente più avanzato di missili balistici e armamenti nucleari, la Corea del Nord ha anche un altro vantaggio rispetto all’Iran: la protezione garantita –soprattutto nell’ultimo anno – dalla Russia di Vladimir Putin. Il 18 giugno dello scorso anno, infatti, il presidente della Federazione Russa e il leader nordcoreano hanno firmato un trattato di «cooperazione strategica», che è in sostanza un trattato di mutua difesa: significa che, se qualcuno dovesse attaccare la Corea del Nord, Mosca sarebbe teoricamente obbligata a intervenire in sua difesa. L’arma nucleare e la crescente collaborazione con la Russia – che include esercitazioni militari congiunte e sostegno tecnologico – rendono l’idea di un attacco americano alla Corea del Nord un incubo potenzialmente capace di scatenare «una guerra atomica su larga scala», secondo una fonte militare. Kim Jong Un sta aiutando Putin nella sua guerra in Ucraina con un coinvolgimento personale, esponendosi anche all’opinione pubblica interna: nelle scorse settimane la TV di Stato nordcoreana ha trasmesso le sue lacrime davanti alle bare dei soldati nordcoreani caduti in Russia, per una guerra che, tecnicamente, non è nemmeno la loro. Ma Kim aveva già deciso: il territorio russo è da considerare territorio nordcoreano.
«Ordino che il territorio della Russia sia considerato nostro territorio e che le azioni degli Stati Uniti e dell’Occidente, che violano la sovranità della Federazione Russa, siano considerate un’invasione della sovranità della nostra patria». L’alleanza tra Russia e Corea del Nord potrebbe
persino più vitale dell’arsenale nucleare per Kim Jong Un.
essere
Una veduta della capitale nordcoreana Pyongyang, con la sagoma piramidale del Ryugyong Hotel, alto 330 metri. (Wikimedia Commons)
C’è un dato che spesso, in Occidente, si dimentica: la Corea del Nord possiede già le armi nucleari. Il suo leader ha reagito tiepidamente agli attacchi Usa contro gli impianti atomici iraniani. (Wikimedia Commons)
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Il Mercato e la Piazza
E la cooperativa resiste
La scorsa settimana è stata celebrata, per iniziativa dell’ONU, la giornata mondiale delle cooperative. È una ricorrenza che non si può lasciar trascorrere senza citarla, nell’anno del centenario della Migros. Gli storici ci dicono che la società cooperativa, è nata nel XIX secolo come cooperativa di consumo per facilitare l’approvvigionamento della popolazione operaia, in rapida crescita, nelle città inglesi toccate dalla rivoluzione industriale. Tra le prime cooperative viene sempre citata la «Rochdale Pioneers», sorta negli anni Quaranta del XIX secolo per l’appunto in questa cittadina nella periferia della Grande Manchester. A Rochdale ci sono passato una volta sola, per caso. Era una sera primaverile e, con uno dei miei nipoti, stavo andando a vedere il derby tra Manchester United e Manchester City nel, per me, rinnovato stadio dell’Old Trafford (che
In&Outlet
ora, a quanto pare, si vuol di già sostituire). Avevamo preso il bus perché un tremendo temporale, sopravvenuto in inizio di serata, aveva interrotto la comunicazione ferroviaria con il centro della metropoli. Forte delle mie conoscenze profittai della lunga pausa che il bus fece alla stazione di Rochdale per istruire mio nipote sull’importanza del luogo e, più in generale, della cooperativa come forma di società commerciale. Gli ricordai dapprima perché le cooperative di consumo nacquero nel nord dell’Inghilterra nel pieno dello sviluppo della rivoluzione industriale. Gli dissi poi che, sin dall’inizio, Rochdale Pioneers ebbe un gran successo. Il numero dei suoi soci e la sua cifra d’affari aumentarono rapidamente. Presto il suo esempio fu seguito da centinaia, migliaia di altre cooperative di consumo. In seguito lo informai che, appena una ventina di anni dopo l’av-
vio dell’esperimento di Rochdale, anche a Bellinzona venne creata una cooperativa di consumo. Purtroppo, come tante altre di quel periodo, non ebbe lunga vita. Flavio Poli, nella sua storia delle cooperative, precisa che il periodo d’oro per la creazione delle stesse, in Ticino, furono i primi due decenni del secolo ventesimo e, in particolare, il periodo della Prima guerra mondiale. È in quell’epoca – e, in particolare, in seguito all’enorme aumento dei prezzi durante la Prima guerra mondiale – che per molte famiglie ticinesi, il problema di far quadrare il bilancio divenne quasi insolubile. Le cooperative aiutarono allora ad assicurare l’approvvigionamento in beni di prima necessità, a prezzi convenienti, delle famiglie a reddito basso. Ma le prime cooperative non erano solamente un’istituzione per contenere il rincaro dei beni di prima necessità. Un’altra loro
Il vantaggio di Musk su Trump? L’età
Non era impossibile prevedere che l’alleanza tra Donald Trump e Elon Musk sarebbe stata provvisoria. Troppo forti le loro personalità, troppo divergenti i loro interessi. Trump nega il cambio climatico ed elogia il carbone e la benzina; Musk produce auto elettriche. E poi il presidente degli Stati Uniti lo può fare solo uno per volta. I due ufficialmente hanno rotto sulla gestione del bilancio: Musk voleva tagli più drastici alla spesa sociale; Trump l’ha bloccato, per non perdere i voti delle classi popolari ed evitare una rivolta. Trump ha conquistato gli Stati ex operai grazie appunto al voto delle classi popolari, in particolare dei bianchi poveri, con i quali sente una particolare sintonia. (Un giorno, in viaggio sull’aereo privato con un miliardario e una modella, Trump propose di scendere ad Atlantic City per visitare uno dei suoi casinò. L’amico rispose che ad Atlantic City non c’era niente da vedere: solo «white trash», spazzatura bian-
ca. «Cosa vuol dire white trash?» chiese la modella. «Sono quelli come me – rispose Trump –. Solo che loro sono poveri»).
Ora Musk annuncia di voler fondare un partito che ha l’unico obiettivo di portare via voti ai repubblicani di Trump e fargli perdere il controllo del Congresso. Vedremo come andrà a finire.
Nulla dopo Trump sarà più come prima. Tuttavia, è un uomo anziano. Tra poco più di un anno dovrà affrontare le elezioni di mid term, in cui – Musk o non Musk – rischia davvero di perdere la maggioranza al Congresso, senza la quale il presidente è un’anatra zoppa. E Trump non potrà ricandidarsi. Musk non può diventare presidente, perché non è nato negli Stati Uniti. Ma è molto più giovane e ricco di Trump. Sotto certi aspetti, è più potente e pericoloso. Perché è dentro la grande rivoluzione del nostro tempo: quella digitale. Che incrocia la corsa allo spazio
e l’intelligenza artificiale. Questa rivoluzione ha creato immense ricchezze che però finiscono in poche mani, e spesso sono messe al sicuro nei paradisi fiscali. Per la gran parte della società, il progresso implica maggiore fatica, ansia, un peggioramento di qualità della vita. Come ai tempi della rivoluzione industriale. Se allora gli operai distruggevano le macchine, in cui vedevano la loro condanna, stavolta sarà il ceto medio a vedere distrutti i propri lavori: banche, assicurazioni, studi professionali. Impiegati, medici, avvocati, architetti, giornalisti saranno sempre più sostituiti dall’IA. Resteranno i lavori di cura, i servizi alle persone, che i nostri figli e nipoti rifiutano di fare, lasciandoli ai migranti; il cui arrivo, tanto più quando è gestito dai moderni mercanti di esseri umani, procura gravi disagi sociali, una guerra tra poveri per la casa, il posto all’asilo nido, il letto in ospedale, i salari, i diritti.
La missione di un pacifismo attivo
Il pacifismo sembra un azzardo, una provocazione, in questa fase di bellicismo diffuso. I pacifisti sono compatiti, accusati di vivere fuori dal mondo; nel caso migliore sono degli ingenui, in quello peggiore degli utili idioti, colpevoli di fare il gioco del nemico. Viviamo nell’era di un bismarckiano realismo, in una sorta di ritorno allo stato di natura in cui vige la legge del più forte, una condizione primitiva in cui l’uomo è lupo per l’altro uomo. Dobbiamo rassegnarci e dunque armarci fino ai denti? Governi, diplomazie e stati maggiori hanno deciso di andare in questa direzione, e di conseguenza prepararsi alla guerra. Le spese militari stanno assumendo proporzioni spaventose, sottraendo risorse preziose a molti settori vitali della società, agli aiuti umanitari, ai programmi di cooperazione allo sviluppo. Ma qual è il nemico? È la Russia, le cui mire, dopo l’Ucraina, sembrano indirizzarsi
verso i piccoli stati baltici? Sono forse le teocrazie del Medio Oriente, oppure la Corea del Nord, oppure ancora le cellule terroristiche per ora dormienti? Riavvolgiamo il nastro. Dopo la Grande Guerra del ‘14-’18, il presidente degli Stati Uniti, Woodrow Wilson, propose di creare un’associazione sovranazionale, la Società delle Nazioni, «allo scopo di promuovere a tutti gli stati, grandi e piccoli indistintamente, mutue garanzie d’indipendenza e di integrità territoriale». Alla SdN aderì anche la neutrale Svizzera, una decisione avallata dal popolo, che si espresse con la scheda nel 1920. Il passo fu tuttavia sofferto, convinto nei cantoni latini (Romandia e Ticino), molto meno nella Svizzera tedesca: un’avversione radicata nell’opinione pubblica e che riaffiorò nel 1992 con il clamoroso no allo Spazio economico europeo. Gli inizi della SdN furono incoraggianti, sulla base di una serie di trattati
di Angelo Rossi
caratteristica importante è che vendevano a credito. Gli acquisti della famiglia operaia venivano notati sul famoso «libretto della cooperativa» che veniva saldato a fine mese o a fine quindicina quando il capo-famiglia riceveva la paga. Cose inimmaginabili in tempi di TWINT come quelli in cui viviamo! La cooperativa era quindi anche un’istituzione che permetteva alla famiglia di non dover dipendere da negozianti troppo esosi, o di dover chiedere anticipi a qualche strozzino per saldare i suoi debiti. Feci osservare ancora a mio nipote che le cooperative non esistono solamente nel settore della distribuzione dei beni di consumo. Da noi infatti è largamente diffusa, specie nei grandi agglomerati urbani, la cooperativa di costruzione che cerca di calmierare l’evoluzione dei prezzi degli alloggi. Lo informai, infine, che le cooperative raccolgono il loro capitale in modo dif-
fuso e non perseguono unicamente l’obiettivo del maggior profitto. II capitale della cooperativa è assicurato dalle quote versate dai soci. Poiché si tratta di piccole somme la cooperativa è formata, in generale, da un largo numero di soci. Per i critici dell’istituzione questa è probabilmente una delle sue maggiori debolezze perché ne ostacola la capacità di decidere rapidamente. Non credo che la mia lezione sulla cooperativa alla stazione del treno di Rochdale abbia avuto un grande esito. Mio nipote infatti era concentrato sulla partita e temeva che il temporale e il percorso a zig-zag del bus che si spostava da una località suburbana alla prossima ci avrebbe fatto perdere la prima parte della partita. Per finire, riuscimmo ad approdare, ancora abbastanza asciutti, ad Old Trafford, qualche minuto prima dell’inizio dello scontro.
L’intelligenza artificiale non si limita a sostituire l’uomo. Rischia di cancellarlo. Il combinato disposto tra l’intelligenza artificiale, le biotecnologie, le clonazioni renderà in teoria possibile l’avvento di creature post-umane, cyborg dal corpo meccanico che avranno come cervello il computer e come memoria la rete: sapranno molte più cose di noi, saranno molto più intelligenti di noi; e non si vede perché dovrebbero obbedirci, anziché darci ordini.
A quel punto il potere politico starà dalla parte degli umani, anziché da quella dei post-umani, che costano di meno, non pretendono salari o diritti, non si ammalano, e rendono molto di più? La spaventosa concentrazione in poche mani di potere economico, potere politico, potere di controllo dei dati crea immensi pericoli e immense velleità. Elon Musk non fa mistero di puntare all’immortalità: se i nostri corpi umani deperiscono e muoiono, la nostra coscienza, la nostra memoria, la
nostra identità, inserita come un chip su nuovi apparati biotecnologici, in teoria potrebbero farci vivere per sempre. Non noi, certo; i tecnocrati e i loro cari. Magari su Marte. Fantascienza? Cosa avrebbero pensato i nostri bisnonni, se qualcuno avesse detto che i loro pronipoti si sarebbero parlati a distanza, avrebbero volato nello spazio, avrebbero costruito bombe in grado di distruggere il pianeta, e un giorno avrebbero minacciato seriamente di usarle?
Di fronte a queste sfide epocali, la democrazia vacilla. L’elettorato reagisce spesso rifiutando i partiti tradizionali e appoggiando i populisti antisistema, di sinistra e più spesso di destra. Uno di loro è diventato presidente degli Stati Uniti. Ma un altro nordamericano è diventato Papa. Il primo della storia. Sarà Leone XIV, con la sua salvezza, a indicarci la retta via? Non resta che sperarlo. Dall’America in fondo sono sempre arrivate molte cose buone.
che si ripromettevano di riguadagnare al novero delle nazioni civili la Germania, nel frattempo diventata repubblica. Ma poi il suo potere negoziale venne meno, svuotato dall’uscita dei Paesi che si erano dati regimi dittatoriali: l’Italia, la Germania e il Giappone. In tale contesto anche la Svizzera si ritenne legittimata ad abbandonare l’istituzione nel 1938. Nel 1945, al termine di una seconda, ancor più devastante, guerra mondiale, riemerse la medesima questione: come evitare una terza deflagrazione, che sarebbe stata, inevitabilmente, atomica? Ecco dunque rispuntare sulle ceneri della SdN una nuova istituzione, l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), con sede a New York, nel Palazzo di Vetro. Nobili gli intenti: salvaguardare la pace, promuovere la cooperazione internazionale, vigilare sul rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. La Svizzera, guar-
data con sospetto, rimase alla finestra, confinata nel suo perimetro neutrale. Questa volta, per decidere quale strada imboccare, non fu necessario fare appello alle urne. Il leader della destra nazionalista James Schwarzenbach considerava l’ONU un club di negri, perlopiù corrotto («ein korrupter Negerclub»). La Svizzera rimase in questo stato limbale per decenni, con un plateale no ancora nel 1986, voto poi finalmente ribaltato nel 2002. Oggi l’ONU conta 193 Stati-membri; vi partecipano anche nazioni in guerra tra loro, come la Federazione russa, l’’Ucraina, Israele, l’Iran, gli Stati Uniti, o Paesi che in vario modo affiancano i belligeranti sostenendoli con forniture d’armi, servizi d’informazione e reti satellitari. È un bel paradosso: un’istituzione nata per impedire sul nascere conflitti attraverso l’incontro, il dialogo, la conciliazione si ritrova impotente e agli occhi di molti inuti-
le. Il tavolo c’è, ma è come se alcuni commensali non avessero nessuna intenzione di scambiare due parole con i dirimpettai a loro invisi… Noi non sappiamo se il movimento pacifista riuscirà a ricondurre alla ragione i governanti che non vedono altra soluzione al di fuori dell’azione militare. Probabilmente no, visti i precedenti storici (il Congresso per la pace di Basilea del 1912 non riuscì a fermare la corsa verso l’abisso). Ma un pacifismo attivo, analitico, in grado di far emergere i costi, umani ed economici, politici ed ambientali, di ogni intervento armato, è più che mai necessario, e non ha nulla di ascetico. A suo tempo gli economisti Joseph Stiglitz e Linda Bilmes stimarono in tremila miliardi di dollari i costi autentici del (secondo) conflitto iracheno del 2003. Un libro rivelatore, disponibile anche in italiano (edito da Einaudi), ma che nessuno ricorda e cita. Purtroppo.
di Orazio Martinetti
di Aldo Cazzullo
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CULTURA
La verità nel suono
Markus Poschner si congeda dall’Orchestra della Svizzera italiana e rilancia la sua idea di musica: «Non c’è nulla da capire, basta ascoltare»
Pagina 20-21
Dal garage a Hollywood
La parabola elettrica di Trent Reznot va dagli esperimenti su un moog regalato dal nonno alle colonne sonore di Fincher e Guadagnino
Pagina 23
Schermo, rito, città e memoria
La polemica sullo schermo di Piazza Grande al Film Festival di Locarno: parlano
Mario Botta e Raphaël Brunschwig
Pagina 25
Félix Vallotton, l’artista che ha raccontato la bellezza
Mostre ◆ Al Museo Castello San Materno di Ascona si ripercorre la carriera di un maestro innovatore e libero dagli schemi
Alessia Brughera
Il 2025 è l’anno in cui ricorre il centenario della morte di Félix Vallotton, pittore e artista grafico dall’indole eclettica e anticonformista. Per omaggiare il maestro svizzero-francese, proponendo al pubblico la sua originale e variegata produzione, è stato organizzato un ricco programma di esposizioni sul territorio elvetico che ha coinvolto il Musée Jenisch di Vevey, il Kunst Museum Winterthur, il Musée cantonal des Beaux-Arts di Losanna (dove si conserva la più grande collezione al mondo di opere dell’artista) e il Museo Castello San Materno di Ascona.
In questo contesto celebrativo, la rassegna ticinese documenta il percorso di Vallotton attraverso una cinquantina di lavori provenienti per la maggior parte da una raccolta privata svizzera esposta di rado, diventando così un’occasione unica per poter ammirare dipinti e cicli grafici dell’artista altrimenti difficilmente godibili.
Puntuale e accurato nell’osservare la realtà circostante e scrupoloso nel restituirla nelle sue opere, Vallotton è sempre riuscito a coniugare il suo piglio analitico e la sua nitidezza formale con una ricerca quasi maniacale della bellezza: «La castità volitiva del suo tratto, l’ardore malinconico del suo colore e il rigore della sua composizione hanno un fascino che penetra lentamente negli occhi e nella mente, ma che sicuramente arriva al cuore», così scriveva nel 1905 il critico d’arte Joachim Gasquet a proposito dei lavori dell’artista.
La posizione di spettatore impassibile che scruta l’esistenza per riuscire a scandagliarla nelle sue miriadi di prospettive è resa nota da Vallotton stesso in un’annotazione del 1918 in cui si definisce «colui che da dietro una finestra osserva come si svolge la vita, senza farne parte». Un’ammissione, questa, che lo vede consapevole di un modo di fare arte i cui presupposti sono la distaccata obiettività con cui guardare il mondo e l’autenticità con cui riconsegnarlo agli occhi altrui. Sebbene non abbia mai disdegnato il confronto con i modelli della storia dell’arte e con le correnti avanguardistiche a lui coeve, Vallotton ha percorso con fermezza un cammino autonomo, identitario, preferendo di gran lunga assecondare le proprie attitudini piuttosto che uniformarsi a tendenze in cui non si riconosceva pienamente. Emerge così una cifra stilistica personale, capace di semplificare la pittura caricandola allo stesso tempo di molteplici connessioni emotive e stratificazioni di senso.
L’itinerario espositivo di Ascona testimonia le tappe artistiche principali di Vallotton incominciando dagli esordi negli anni Ottanta dell’Ottocento, periodo in cui, trasferitosi a Parigi per studiare all’Académie Julian,
il pittore si dedica principalmente alla ritrattistica per assicurarsi una fonte di sostentamento. Oltre a effigiare la borghesia francese, Vallotton si dà da fare scrivendo recensioni di mostre, lavorando come restauratore e realizzando, con grande versatilità, libri illustrati e programmi teatrali.
Del 1892 è la sua adesione ai Nabis («profeti», in lingua ebraica), gruppo interessato a una pittura dalle forme essenziali e dai colori piatti nonché evocatrice di un’atmosfera simbolista e mistica. Pur lasciandosi ispirare da questi artisti, Vallotton interpreta a proprio modo le loro teorie mantenendo sempre, come da sua natura, una certa distanza. Non a caso viene soprannominato dai colleghi «Le Nabi étranger», un po’ per le sue origini elvetiche e per il suo carattere introverso, un po’ per la sua risolutezza nel non condividere del tutto i dettami del movimento.
Dopo una fase di transizione, durata dal 1901 al 1908, in cui predilige i soggetti paesaggistici declinati anche in rappresentazioni della scena urbana parigina, Vallotton approda alla stagione della maturità, periodo in cui, fino alla morte avvenuta nel 1925, sviluppa ulteriormente l’iconografia del paesaggio grazie ai suoi numerosi viaggi in tutta Europa.
È così che, toccando i momenti salienti della carriera dell’artista, la mostra asconese si concentra su alcuni dei
temi pittorici prediletti da Vallotton. I nudi femminili, ad esempio, raffigurazioni di donne che non incarnano il classico ideale di bellezza ma che, nel loro apparire austero, sospeso tra seduzione e indifferenza, si fanno portatrici di conflitti e discrepanze. Ecco poi i già citati paesaggi, come Bords du Léman del 1892 e Le phare, soir del 1915, nonché le vedute urbane, come il dipinto che immortala uno scorcio di Perugia in cui l’artista si serve di una prospettiva insolita per rappresentare gli edifici e i vicoli della città. Nell’ultimo periodo Vallotton si dedica anche alla natura morta, accostandosi a essa con un approccio attento a indagare gli oggetti nella loro varietà di forme e di materiali e nel loro equilibrio compositivo.
Se Vallotton è stato molto apprezzato in veste di pittore, lo è stato ancor di più in quella di grafico, tanto da essere elogiato da critici e colleghi come grande innovatore in questo ambito espressivo. Bastino su tutte le parole dello storico dell’arte tedesco Julius Meier-Graefe, che nella monografia del 1898 dell’artista scrive: «Vallotton ha tratto così tanto dalla xilografia che poteva tranquillamente rinunciare all’ambizione di farsi un nome anche come pittore».
Dopo un iniziale interesse per l’acquaforte, a partire dal 1891 Vallotton si applica infatti alla xilografia, che apprende all’Académie Julian dall’a-
mico e maestro Charles Maurin. In poco tempo l’artista dà vita a un linguaggio peculiare e inconsueto, contraddistinto dall’utilizzo della tecnica à plat (grazie a cui emergono campiture uniformi con contorni di linee nette) e da forti contrasti di bianco e nero. A influenzare Vallotton sono in primis le stampe giapponesi, sulla scia della passione per l’arte orientale che coinvolge l’Europa a metà Ottocento e che conquista la Francia a seguito della partecipazione del Giappone all’Esposizione Universale di Parigi. Complice la visita nel 1890 alla grande Exposition de la gravure japonaise presso l’École Nationale des Beaux-Arts, Vallotton, insieme ai suoi compagni Nabis, si lascia suggestionare dalla bidimensionalità decorativa, dalla riduzione delle forme e dai tratti stilizzati tipici dello stile nipponico, rielaborandoli poi secondo una modalità espressiva personale. In mostra ad Ascona, emblematica dell’influenza delle stampe giapponesi è la serie grafica dedicata alle montagne, in cui l’artista, nel raffigurare il Breithorn, il Cervino, la Jungfrau, il ghiacciaio del Rodano e il Monte Bianco, rivela anche la sua attrazione per le opere del pittore Katsushika Hokusai.
Realizzato con la tecnica della zincografia è invece il ciclo dal titolo Paris intense, in cui Vallotton si concentra sulla vita metropolitana parigina ritra-
endo, non senza umorismo, i cambiamenti che la modernità ha portato in città durante la Belle Époque. Ritenute l’apice della maestria di Vallotton nell’uso della xilografia sono le Intimités, lavori che vedono l’artista riflettere sulla complicata relazione tra uomo e donna. Qui le superfici scure non solo evidenziano la preziosità degli interni raffigurati ma si fanno portatrici di forti emozioni, come la paura, il sospetto e l’imbarazzo, ovvero tutto ciò che si nasconde dietro la facciata puritana di tante esistenze. Il profondo nero di Vallotton non è dunque solo ombra, buio e silenzio, ma anche tensione, inquietudine, grido. Nella pittura così come nella grafica Vallotton ha creato un’opera di grande originalità che con precisione, schiettezza e una certa dose di ironia ha saputo restituire la realtà e la vita con le loro insanabili contraddizioni ma anche con il loro ineluttabile fascino.
Dove e quando
Félix Vallotton. Un monumento alla bellezza. Museo Castello
Ascona.
Fino al 7
Kurt e
Orari: da gio a sa 10.00-12.00/14.00-17.00; do e festivi 14.00-16.00. www.museoascona.ch
San Materno,
Fondazione per la cultura
Barbara Alten.
settembre 2025.
Félix Vallotton, Da Paris intense, Frontespizio, 1894 Zincografia su carta, 22 x 31,5 cm. (Collezione privata, Svizzera Foto: Peter Schälchli)
Markus Poschner, alla ricerca di bellezza
Incontri ◆ A colloquio con il direttore d’orchestra tedesco, pronto ad affrontare nuove sfide dopo l’esperienza decennale con l’OSI
Per dieci anni consecutivi, fino a metà giugno del 2025, Markus Poschner ha diretto l’Orchestra della Svizzera italiana, in un’avventura che le ha dato lustro e l’ha spesso portata a contatto diretto con il pubblico. La vita d’ora in poi porterà il Maestro tedesco (classe 1971) in luoghi nuovi. All’orizzonte, infatti, oltre al podio dell’Orchestra sinfonica di Basilea (di cui sarà dirigente stabile), ci sono anche Vienna e gli Stati Uniti, in quella che è un’esistenza che si gioca su più fronti, seppure nella continuità e nel solco della musica classica e della sua diffusione nel mondo.
Markus Poschner, i numerosi impegni che l’attendono prevedono molti spostamenti. Da una parte lei si muove da solo da un luogo all’altro, dall’altra si confronta con le prove e i concerti, dove è circondato dai suoi musicisti e dal pubblico. In tutto ciò esiste la solitudine del maestro?
Credo che nella musica e nell’arte più in generale, ci si ritrovi spesso soli, poiché si tratta di un’eterna ricerca e di un confronto con sé stessi. Noi musicisti ci alleniamo sulle partiture e studiamo per una continua ricerca di bellezza e verità. Il tema della verità è molto misterioso, e a volte non sappiamo nemmeno cosa stiamo cercando, anche se forse, da qualche parte, intuiamo che in fondo cerchiamo unicamente noi stessi. La verità si trova alla fine del nostro cammino esistenziale, ma sappiamo sin d’ora come sia impossibile arrivare a destinazione. È forse questa la solitudine con cui ognuno deve scendere a patti. Nel mio caso esiste anche una «solitudine tecnica», ad esempio quando sono in viaggio e soggiorno in albergo, e le mie giornate sono impegnate dalle prove. In quei momenti, però, sono talmente immerso nel mio lavoro e nelle mie partiture da finire in una specie di tunnel e non farmi più alcun pensiero sulla solitudine.
Non le risulta difficile vivere un’esistenza così fittamente programmata? È una cosa cui ci si abitua. Non è facile vivere spesso lontani dalla propria famiglia, ma per quanto riguarda i miei frequenti spostamenti, devo molto alla mia agenzia, che si occupa di progettare i viaggi nei minimi dettagli, permettendomi così di non perdere la concentrazione necessaria al mio lavoro.
Lei vive anche una doppia cesura, fisica, per quel che riguarda la sua famiglia, e psicologica per la concentrazione richiesta dallo studio. Ogni tanto i miei tre figli mi fanno notare come io non sia davvero presente, sebbene fisicamente sia con loro, ma in fondo questo è il destino di chi lavora in campo artistico: gli orari non sono regolamentati, e soprattutto la creatività non ne conosce. A volte le idee migliori mi vengono alle 23 o mentre gioco a scacchi o a calcio con i miei figli. Ciò che è
complicato e richiede molta disciplina, ma è necessario: occorre separarsi in determinati momenti dai dispositivi elettronici, eliminando la propria raggiungibilità.
Lei questa disciplina ce l’ha sempre?
Vorrei poter dire di sì, ma a volte ce l’ho e altre meno, anche perché ci sono momenti in cui i progetti si accavallano e occorre riuscire a coordinarli, o ci sono questioni urgenti da risolvere, che possono riguardare un solista o un programma. Purtroppo, a volte succede che sono al campo di calcio con i miei figli e passo il tempo al telefono.
A livello artistico la multidisciplinarietà è un concetto di cui si sente parlare sempre più spesso: le contaminazioni sono benvenute e possono portare a nuovi approcci. Come vive la multidisciplinarietà nel mondo della musica? Noi viviamo in un mondo aperto. Se
ci muoviamo con gli occhi e le orecchie aperti e, soprattutto, entriamo in contatto con altri esseri umani e altri punti di vista, possiamo trovare una grande fonte di ispirazione. L’ispirazione, infatti, è strettamente collegata a una risonanza (un’eco), e si manifesta nel momento in cui entriamo in contatto con qualcosa che ci è estraneo. Personalmente credo molto in questa cosa e cerco sempre di dimostrarla, specialmente ai bambini, grazie ai programmi educazionali. Amo ripetere come non si debba avere paura di ciò che non si conosce, perché è proprio lì che si trovano le migliori possibilità e fonti di ispirazione per sé stessi. La paura o l’attaccamento alla comfort zone spingono molte persone a mangiare sempre nello stesso posto o ad ascoltare la stessa musica, ma è importante cercare ciò che è diverso, sconosciuto.
Oggi purtroppo ognuno vive nella propria bolla, che diventa una specie di cassa di risonanza. Ma così si finisce per sentire solo la propria opi-
Simona Sala
bellezza e verità
nione in loop, perdendo il contatto con chi la pensa diversamente, fino al punto in cui si finisce per limitarsi a farsi la guerra a vicenda. Tutto ciò è molto pericoloso.
Per Poschner, la cultura non è solo intrattenimento ma anche responsabilità civile: la musica come educazione, la sala da concerto come spazio democratico e spirituale
Quali sono gli ambiti che ama, oltre alla musica?
Amo i musei perché adoro i quadri, ma anche l’architettura, gli edifici antichi. E poi sono sempre appassionato di jazz. Credo che i diversi generi musicali siano come i dialetti di una stessa lingua.
In questo particolare e delicato momento storico la musica ha dunque un valore ancora più grande?
nione di fede, passatemi il termine spirituale, di colpo si diventa davvero sorelle e fratelli. Questo aspetto a mio avviso lambisce la religiosità. In fondo, come la religione, anche il concerto segue determinati rituali… Certo, ed è un rituale che è rimasto lo stesso per migliaia di anni. Un tempo ci si radunava intorno a un fuoco, si narrava e danzava, e in quel momento si diventava una comunità. È proprio quel senso di comunità che ha agevolato il progresso dell’umanità. A mio avviso è questo il ruolo della cultura, ma per «cultura» intendo anche le sottoculture, come lo sono ad esempio lo sport, ristoranti, bar e club, che sono tutti collanti della società e riflettono il nostro essere umani. L’arte, dal canto suo, simboleggia il mondo non visibile, interiore, che si contrappone, o approfondisce quello che comunichiamo quotidianamente attraverso la lingua o i simboli codificati, come un semaforo o un emoji. Attraverso l’arte, e forse la musica in particolare – poiché non richiede una decodificazione – si può raggiungere il cuore per via diretta, penetrando nel proprio mondo interiore. La musica può aiutarci a capire noi stessi.
E in qualche modo la musica è anche democratica, poiché non è «contenuta» da nessuna parte, né un libro né un museo.
È vero, quando si legge un libro si deve capirne il significato, ma questo porta anche al grande malinteso intorno alla musica: molti sono ancora convinti che per capire ad esempio Beethoven sia necessario studiarlo. Ma non c’è niente da capire, non c’è un giusto o uno sbagliato, basta sedersi e ascoltare. Ciò che è necessario è il tempo, superiore a quello che serve per guardare un reel o leggere un messaggino. Inoltre, queste opere non sono fatte per essere capite al primo tentativo, dunque sono necessari più ascolti. La complessità di queste opere è grande, su questo sono d’accordo, ma in realtà essa ha a che fare con la nostra complessità interiore.
de grande pianificazione, ma il nostro compito deve evolversi, perché dobbiamo riuscire a penetrare molto di più nella società. Non basta dare concerti in una sala che è una sorta di tempio, ma è necessario uscire, poiché in gioco ci sono anche una questione identitaria e di identificazione. Pensiamo al recente concerto dei Carmina Burana al LAC, con 300 coristi amatoriali provenienti da diciassette cori da tutta la Svizzera italiana: è stato un evento forte per tutta la regione, un’operazione che ha creato coesione e gettato le basi della fiducia reciproca. Credo si sia trattato di un’esperienza arcaica, oggi più importante che mai.
vorato per molti anni a due passi dall’Italia: quanto è importante lavorare in un luogo con una tradizione umanistica?
Ne sono convinto. Le istituzioni culturali diventeranno sempre più importanti. Dal periodo del Covid noi (e per noi intendo l’orchestra, il management eccetera) concepiamo il nostro lavoro in modo diverso: abbiamo compreso la nostra importanza per la comunità, poiché rappresentiamo un luogo di incontro. Quello che offriamo è un luogo aperto, dove si possono conoscere cose nuove, ma dove, soprattutto, si riesca a sentire la comunità. Il pubblico è sempre casuale e mai ripetibile. L’ambiente cambia sempre, di concerto in concerto, e io sento perfettamente quando il pubblico è toccato dalla musica, quando ne viene catturato. Il concerto è un momento in cui si incontrano persone che non hanno mai avuto nulla a che fare le une con le altre, e nell’istante in cui si siedono in sala, passaporto, religione e nazionalità non hanno più alcuna importanza. Nel momento in cui inizia la musica, il pubblico si trasforma in una comu-
In quest’epoca di rottura (disruption), di crisi, tendiamo sempre a cercare delle risposte facili. Pensiamo per un attimo al mondo della politica: in molti desiderano una specie di «Führer», un solo uomo-guida in grado di risolvere tutto, una sorta di padre, in quello che è ancora un modello patriarcale. La storia ci ha insegnato come la delega di responsabilità a un numero esiguo di persone, a una specie di élite, sia sempre molto pericolosa. Per questo credo che noi attori culturali non abbiamo solo un ruolo di intrattenitori o di dispensatori di momenti di leggerezza, ma dobbiamo occuparci anche di educazione. E, in fondo, ogni concerto è anche una forma di educazione. È importante catturare l’attenzione delle persone e investire in questo processo.
Nella ricerca di bellezza «la verità si trova alla fine del nostro cammino esistenziale, ma sappiamo sin d’ora come sia impossibile arrivare a destinazione»
Maestro Poschner, lei studia a tavolino ogni istante di cui è composta la partitura. Resta ancora spazio per l’istinto in un processo così minuzioso?
Istinto e spontaneità devono essere sempre presenti, poiché occorre saper reagire all’atmosfera e all’ambiente pur restando concentrati. È vero che il nostro portfolio richie-
Durante le prove il direttore suda molto. La musica non è dunque solo questione di intelletto ma anche di lavoro fisico…
Occorre fare un po’ di sport, sicuramente, e io mi muovo molto. Devo dire però che dirigere Tristano e Isotta a Bayreuth con una temperatura di 30 gradi, più che un lavoro intellettuale è assomigliato a una maratona!
Ed emotivamente? Vi sono partiture che ancora oggi smuovono qualcosa dentro di lei?
Sempre di più, direi, poiché meglio conosco le partiture e più per me crescono in intensità. Quando si affronta un’opera per la prima volta si è spesso risucchiati dagli aspetti organizzativi, ma più la si conosce, più si vedono cose nuove, comprese quelle più scomode, che si impara a gestire. È un po’ come quando si visita Parigi per la prima volta: non si riesce a vedere tutto, ma se ne percepisce la grandezza, e con il tempo cambia la qualità della percezione: funziona così anche con la musica.
Markus Poschner, cosa si porterà appresso dalla sua esperienza con l’OSI?
È difficile fare un bilancio, ma questi dieci anni mi hanno del tutto cambiato la vita, e in senso positivo. Ho potuto crescere, ma credo che anche l’Orchestra della Svizzera italiana sia cresciuta con me. Abbiamo percorso un tragitto importante insieme, è questo è il vero successo.
La sua famiglia abita a Vienna, lei ha appena parlato di Parigi, ha la-
Io sono un europeo e non posso farci nulla, anzi ne vado fiero. Credo che il nostro sia un entusiasmo che ci portiamo appresso dagli anni Novanta, da dopo la fine della guerra fredda. Le persone della mia generazione avevano l’impressione che in qualche modo il ghiaccio che aveva permeato molte relazioni politiche si stesse infine sciogliendo, che fossimo nel mezzo di un inarrestabile crescendo dove le cose sarebbero solo potute andare meglio. Questa visione si è rivelata uno sbaglio, poiché il mondo non è mai stato tanto pericoloso. Per questo si finisce per cercare delle connessioni più ampie. Quando penso alle accese discussioni politiche di un tempo, mi rendo conto di quanto si siano ridotte le posizioni, poiché abbiamo polarizzato molti aspetti della società, e questo mi dà molto da pensare. Per me è incredibile come le cose siano cambiate in poco tempo: di colpo sono stati messi in discussione i valori democratici di rispetto, eguaglianza e umanità. Ora in gioco ci sono i fondamentali, ma ciò che temo maggiormente è la frustrazione o l’abbandono del campo da parte di chi ancora crede nei valori democratici. Recentemente mi è stato chiesto perché avessi accettato di dirigere un’orchestra nello Utah, negli USA, mandato rifiutato da numerosi colleghi. Io credo che boicottare gli USA non sia la soluzione, perché oggi più che mai è necessario andarci e aiutare ad esempio attraverso la musica. Se non lo facciamo noi, chi può farlo? Personalmente non posso eseguire Beethoven, autore di brani su giustizia, verità, rivoluzione e umanità, contro il dispotismo, e poi dire che gli aspetti politici non mi interessano. Significherebbe vivere in una gabbia dorata avulsa dalla realtà. Il nostro compito è quello di uscire dalla gabbia, andare dalla gente e mostrare loro che tutte queste battaglie sono già state combattute, che ne conosciamo i risultati potenziali, e che il nostro compito è anche quello di stimolare una qualche forma di risveglio. Wake up! Anche per me si tratta di un’esperienza nuova, di una specie di avventura che affronto con entusiasmo.
Musica ◆ Dagli esordi negli anni Novanta al tour mondiale che, di recente, li ha visti passare da Zurigo, scopriamo la storia dei Nine Inch Nails e del suo leader indiscusso Trent Reznor
Sebastiano Caroni
Per spiegare il processo attraverso cui nascono le sue canzoni, Trent Reznor, compositore polistrumentista, cantante e leader dei Nine Inch Nails – band nata a Cleveland (Ohio) sul finire degli anni Ottanta e protagonista, attualmente, di un tour mondiale passato da Zurigo lo scorso 26 giugno –, dice una cosa molto semplice. Trent parte da una melodia, da qualcosa di chiaro, orecchiabile, e poi inizia a sporcare la melodia. Un po’ come un pittore alle prese con una tela, la ricopre di molteplici strati, producendo l’inconfondibile suono robusto e composito che gli appassionati di musica hanno imparato a riconoscere nel corso degli anni. Questa formula, che riunisce il punto di partenza e l’esito di un processo creativo, spiega non solo l’unicità e la riconoscibilità di un sound che non ha eguali nel panorama musicale contemporaneo, ma ci svela anche un segreto: quello del successo commerciale di un musicista i cui brani, pur mantenendo una traccia melodica, sono decisamente più ruvidi e sofisticati delle canzonette pop che dominano le classifiche di mezzo mondo. Per semplificare le cose, potremmo incasellare i Nine Inch Nails in un genere, quello dell’industrial rock, a cui vengono comunemente associati sin dal loro esordio nell’ormai lontano 1988. L’industrial rock è il risultato di una serie di sperimentazioni sonore, maturate nell’Inghilterra e negli Stati Uniti della fine degli anni Settanta in cui convergono, inizialmente, esperienze eterogenee come la musica concreta, il punk, e la musica elettronica. Negli anni Ottanta alcuni musicisti danno a queste sperimentazioni un’impostazione decisamente più rock, contribuendo di fatto alla nascita dell’industrial rock, un sottogenere particolarmente popolare e relativamente autonomo dell’industrial music.
Reznor inventa melodie riconoscibili, poi le impasta in strati di rumore per costruire un suono inedito che sfida ogni etichetta
Per raccontare la nascita dei Nine Inch Nails, bisogna però fare una premessa. Quando l’arrivo sulla scena musicale della band alla fine degli anni Ottanta è accompagnato dalle prime foto, tutto lascia intendere che si tratta di un complesso convenzionale. Sin dall’inizio, però, il nome Nine Inch Nails significa principalmente una cosa, ovvero Trent Reznor, che ne è il fondatore, l’anima, e la travolgente forza creativa. Non è certo un caso se l’album d’esordio, Pretty Hate Machine, sia composto e registrato interamente da Reznor che, in un secondo tempo, ingaggia dei musicisti per valorizzare la sua musica sul palco, davanti a un pubblico. Nato il 17 maggio 1965 a Mercer, nella Pennsylvania rurale, fin da piccolo Reznor coltiva la passione per la musica, imparando molto presto a suonare il piano. Alle medie, dove fa parte della banda della scuola, inizia a suonare anche la tuba e il sassofono. Un giorno il nonno gli compra un moog, e Trent sviluppa una vera e propria ossessione per la musica elettronica, avvicinandosi anche al rock e all’heavy metal. In tarda adolescenza si trasferisce a Cleveland, dove inizia
a collaborare a diversi progetti musicali e, grazie alle sue doti, viene ingaggiato come arrangiatore in uno studio di registrazione. Musicalmente, sono gli anni della New wave, genere a cui Trent si appassiona e che sarà di grande ispirazione quando, stanco di arrangiare la musica degli altri, decide di mettersi in proprio e di fondare i Nine Inch Nails.
Nell’intento di rielaborare le sonorità elettroniche che dominano la scena pop degli anni Ottanta , Trent esplora il lato oscuro della New wave mescolandola a suoni più metal e industrial. Ecco perché, nel primo album, a tratti si ha la sensazione di ascoltare i Depeche Mode nel contesto di un sound ruvido e metallico. La volontà di Reznor di integrare influenze eterogenee si manifesta anche ad altri livelli: in Head like a Hole, il brano che apre il primo album, Reznor per esempio inserisce sonorità tribali ripetendole sull’arco del pezzo, facendo dell’iterazione –l’inserimento di un elemento che poi viene ripreso sull’arco di una composizione – uno degli ingredienti delle sue sperimentazioni sonore. I procedimenti iterativi si manifestano anche in ottica più diacronica, tanto che alcuni motivi elettronici presenti nei primi album vengono ripresi, e parzialmente reinterpretati, in alcune colonne sonore di film che Trent compone molti anni dopo.
Da Cleveland a Hollywood: Reznor ha dato forma ai Nine Inch Nails, reinventandosi tra cinema, metal e sperimentazione
Ciò che più conta è che la critica accoglie positivamente le sonorità ruvide dei Nine Inch Nails, consacrando la band come una delle realtà più interessanti della scena alternativa degli anni Novanta. Nel 1994 esce anche il secondo album, The Downward Spiral, da molti considerato il disco più riuscito della band. Il meritato successo coincide però anche con l’inizio di una lunga crisi per Trent, che si sente alienato e fatica a gestire la dipendenza da alcool e droga. Purtuttavia, la
di Lost Highway come interprete ma anche come produttore dell’album, segna l’inizio di un nuovo percorso che vede Reznor sempre più impegnato – assieme ad Atticus Ross, dal 2016 anche suo collaboratore ufficiale nei Nine Inch Nails – nella realizzazione di colonne sonore. Negli anni, Reznor collabora con registi del calibro di David Fincher (The Social Network, Girl with the Dragon Tatoo), Pete Docter (Soul ) e Luca Guadagnino (Bones and all, Challengers, Queer) dimostrando ancora una volta tutto il suo talento, la sua sensibilità, e la sua impareggiabile versatilità.
Lou Reed, The Sma-
produzione musicale di Reznor non si arresta ma raggiunge nuovi traguardi. Nel 1997 contribuisce, assieme a David
shing Pumpkins e ai Rammstein, alla colonna sonora di Lost Highway di David Lynch con il brano The Perfect Drug. La partecipazione al soundtrack
Se dunque, come abbiamo detto, le sperimentazioni sonore dei Nine Inch Nails vanno ricondotte essenzialmente alla persona di Trent Reznor – e, a partire dal 2016, di Atticus Ross–, la spinta creativa di Reznor non si esaurisce certo nella parabola di una band che, dopo gli inizi travolgenti degli anni Novanta, ha continuato a realizzare album con una regolarità disarmante e, non dimentichiamocelo, nel 2025 si è imbarcata in un tour mondiale che la vedrà impegnata fino alla seconda metà di settembre. Il percorso di Reznor e quello dei Nine Inch Nails procedono, in fondo, come strade parallele, ma mai distinte: a volte si incrociano, si intrecciano e, inevitabilmente, si contaminano.
Bowie,
Trent Reznor a Caracas, sullo sfondo i Nine Inch Nails. (Ed Vill, CC BY 2.0)
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«Ecco il senso dello schermo in Piazza Grande»
La polemica – 1 ◆ L’architetto Mario Botta contesta la decisione di rimpiazzare lo storico schermo del Film Festival di Locarno
Vorrei contribuire a un dibattito sereno sulla questione dello schermo di Piazza Grande del Festival del film di Locarno, progettato dall’architetto Vacchini nel 1971 e che ora, stando alle comunicazioni della Direzione dell’evento, verrà rimpiazzato con nuovi non meglio precisati sistemi. Mi sono già espresso pubblicamente sulla vicenda e ribadisco la mia posizione: allontanare un simbolo equivale a colpire il cuore stesso di Locarno. Auspico un ripensamento poiché ritengo che la scelta di rinunciare al grande schermo di Vacchini possa essere infelice per l’identità culturale della città. È anche una questione di memoria collettiva che in questo modo viene sfregiata, così come l’immagine internazionale di Locarno.
Per questa ragione ho voluto scrivere una lettera al Municipio di Locarno, al Cda del Festival, allo Studio Vacchini architetti e al quotidiano «La Regione» con un messaggio chiarissimo: quel grande schermo non è solo un elemento tecnico, è un simbolo, un segno urbano che, «anche muto», parla della propria vocazione e riesce a coinvolgere l’intera città. Vorrei ora proporre dalle colonne di «Azione» una riflessione aggiuntiva, che risale in realtà a un mio scritto del 1988 per l’allora «Quotidiano» di Silvano Toppi in cui ragionavo sulla dimensione sacra e profana del Festival locarnese. Osservavo, infatti, che proprio nel momento in cui si stava consolidando un complesso sistema di relazioni, di rapporti e di comunicazioni di tipo «elettronico» che avrebbe dovuto attenuare o addirittura rendere superflui i rapporti materiali e personali, la città fisica, la città costruita si riproponeva come luogo privilegiato, forse esclusivo, capace di risponde-
re al bisogno elementare dell’uomo di comunicare con altri uomini.
Quando discutiamo dello schermo di Vacchini è anche di questo che stiamo parlando: della città storica che con le sue strutture collettive (piazze e sagrati, parchi e viali, chiese e mercati) resta testimone di forme di associazioni che ci parlano dei bisogni e delle aspirazioni collettive. Il ricupero di questi spazi – scrivevo allora – sembra oggi naturale di fronte alle nuove forme di spiritualità (musica-concerti-spettacoli…) di fronte al nuovo «sacro» (perfino in tempi di guerra) che il meglio delle comunità di volta in volta tentano di costituire e di esplorare.
Osservavo, inoltre, che nel tempo della festa la città vive in stretta osmosi con il proprio Festival che, a sua volta si identifica nella città. A distanza di anni oso riproporre una selezione di quegli stessi concetti perché mi sembra possano ancora inquadrare il senso profondo del Festival costruito attorno alla piazza, e quindi allo storico schermo di Livio Vacchini. Il momento massimo della «sagra» è celebrato la sera sulla piazza, all’imbrunire; nell’alternarsi dell’animazione che precede e segue ogni proiezione e dei momenti di coinvolgimento nei film, è lo spettatore che diviene il vero protagonista che nel ripetersi di un rito assapora e confronta l’infinito immaginario del messaggio con i limiti della realtà, di cui si sente parte. È la città tutta che vive con lo spettatore avvolto dagli oscuri silenzi vicini e confortato dai segnali di una vita che continua discreta dietro le quinte.
I vicoli che salgono verso la città vecchia, perpendicolari al grande vuoto della piazza, sono canali di storie e memorie che alimentano il
«L’idea di Vacchini non viene scalfita»
La polemica – 2 ◆ Per Brunschwig l’essenza del progetto non va confusa con l’impalcatura
Raphaël Brunschwig*
Sollecitato da «Azione», accolgo con piacere l’invito a intervenire ancora una volta sulla questione dello schermo di Piazza Grande. Innanzitutto, vorrei sgomberare il campo da un possibile fraintendimento che la petizione Locarno: don’t touch the screen! potrebbe avere causato rivolgendo alle autorità comunali, cantonali e federali la richiesta di tutelare la proiezione cinematografica in Piazza Grande durante il Locarno Film Festival: l’intuizione di Vacchini – portare il cinema in Piazza Grande e renderlo popolare e accessibile, preservando così lo spirito iniziale del Festival nato nel 1946 a cielo aperto – non viene in nessun modo né messa in discussione, né modificata.
la figlia di Livio Vacchini, Eloisa, anch’essa architetta.
grande catino appena socchiuso magistralmente dallo schermo, capace di offrire una chiave di lettura per l’intera città. L’andamento sinuoso del fronte costruito, (lì era il margine della riva) ci rimanda all’intera città storica retrostante, contrappunto a quella più recente dal tracciato geometrico verso valle. Ai piedi della collina, il rincorrersi dei portici aperti verso i giardini e il lago si offrono come propilei di ingresso, cordone ombelicale per la sosta, il ristoro, la preparazione alla cerimonia.
Il rapporto di dare-avere reciproco fra Festival e città è fruibile anche fisicamente. Non è possibile immergersi nel Festival, senza percorrere e abbracciare la città che a sua volta si dispone, si orienta, si proietta verso la rassegna. E poi, quel sentirsi, almeno per qualche istante, assieme a una più vasta comunità, per attendere e vivere i segnali, decifrare i messaggi e le contraddizioni di un immaginario annunciato. Tutto questo, rende la piazza un giudice impietoso.
Questo spazio è esigente, chiede «celebrazioni» autentiche, assume la forza e il rigore di un giudizio collettivo. Ognuno, per un attimo, è confrontato con sé stesso, circondato da altri uomini, protetto da mura che sono storia, uomo che si riscopre bambino, pronto a misurarsi fra i limiti di questa terra e l’immensità del cielo. È difficile trovare luogo più opportuno per poter cogliere e far proprio il messaggio proposto.
E mi pare rischioso per la città togliere la memoria di un passato recente già acquisito, privandola del suo schermo per sé stesso «fuori misura», genialmente ricercato, anche allora –nel 1971 – tra molti contrasti, da Livio Vacchini.
Il nuovo impianto utilizza i materiali già presenti in Piazza, impiegati dalla manifestazione che ci precede, ma mantiene dimensioni e qualità visiva originarie. Abbiamo già avuto modo di illustrare le ragioni di questa scelta: facilità e riduzione dei tempi di montaggio e smontaggio, meno disagi causati dal cantiere in Piazza Grande, maggiore sostenibilità, e la possibilità di appunto sfruttare sinergie logistiche tra eventi – che non significa in alcun modo collaborare artisticamente con loro.
Maggiore efficienza significa anche risparmi importanti, che vanno a beneficio dell’offerta culturale. Peraltro, rendere più efficiente la macchina organizzativa e liberare risorse per le attività culturali è uno degli obiettivi voluti dal nostro Consiglio di amministrazione. È vero, come ha osservato il nostro vicepresidente Luigi Pedrazzini, che un confronto più ampio con il mondo dell’architettura ticinese sarebbe stato forse auspicabile. Tuttavia, la volontà di dialogo è reale ed è già stata avviata anche con
Rimanendo nell’ambito dell’architettura, osserviamo che l’allievo di Vacchini, Francesco Buzzi, difende sì – e con affetto – il progetto del maestro, ma invita a non cadere nella nostalgia. La struttura era pensata come temporanea e trasformabile, e già in passato è stata modificata senza tradirne lo spirito. Secondo Buzzi, Vacchini avrebbe accolto con apertura l’idea di un nuovo schermo, purché progettato con intelligenza e rispetto per l’identità del Festival. Ciò che davvero conta è che Locarno continui a essere un punto di riferimento culturale, sostenuto dalla cittadinanza e capace di evolversi. Mi permetto infine di citare un’altra voce della cultura locarnese, quella di Saverio Snider, che ridimensiona il valore simbolico della struttura tubolare, definendola tecnicamente interessante ma non un’icona intoccabile. Nessuno mette in dubbio la genialità dell’idea originaria di Vacchini, ma non bisogna confondere l’essenza del progetto con i dettagli tecnici di un’impalcatura. Tornando al nocciolo della questione, concludo osservando che la nostra decisione non sminuisce l’intuizione originaria di Livio Vacchini, né la città di Locarno. Non comporterà differenze visive rilevanti per gli spettatori.
Il futuro del Festival – uno dei dieci festival più rilevanti al mondo – dipende dalla qualità dell’offerta e le scelte logistiche di cui stiamo parlando, proprio perché liberano risorse in favore dell’offerta artistica, sono volte a rafforzare la nostra identità e non a comprometterla come alcuni, faziosamente, vogliono fare credere.
alleAccanto
Leukerbaddi
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Mario Botta
Piazza Grande, e lo schermo di Vacchini su cui dal 1971 sono sempre stati proiettati i film più significativi del Locarno Film Festival. (Manuela Mazzi, foto d’archivio)
*CEO del Locarno Film Festival
Ma.Ma.
ATTUALITÀ
Bevanda di tendenza
Che cos’è il mate?
Le bevande al mate sono presenti quasi ovunque. Cosa rende il mate così speciale?
Testo: Barbara Scherer
Che cos’è il mate?
Lo yerba mate è un infuso tradizionale dell’America del Sud. Si ricava dalle foglie essiccate dell’agrifoglio e ha un sapore amaro e leggermente affumicato. Il mate è particolarmente popolare in Paesi come Argentina, Uruguay, Paraguay e Brasile, dove vanta una lunga tradizione culturale. In questi Paesi il mate non è visto solo come una bevanda, ma anche come un simbolo di comunità e condivisione. È profondamente radicato nella cultura quotidiana e viene spesso condiviso negli incontri sociali.
Come si beve?
Il mate viene tradizionalmente preparato in un cosiddetto «calabash». Si tratta di una zucca bottiglia scavata.
Le foglie vengono ricoperte con acqua calda, ma non bollente e l’infuso si beve con una cannuccia di metallo, la «bombilla». Questa contiene un filtro all’estremità inferiore che impedisce alle foglie di entrare al suo interno. In America del Sud è consuetudine bere il mate in gruppo passandosi a turno il «calabash».
Come agisce il mate?
Il tè mate contiene naturalmente caffeina. Ha un effetto stimolante e può aumentare la concentrazione. Oltre alla caffeina, la bevanda contiene anche teobromina, una sostanza che ha un effetto rilassante. Molte persone riferiscono di sentirsi più vigili ed equilibrate dopo aver bevuto il mate.
È più forte del caffè?
No, il mate contiene meno caffeina del caffè. Ad esempio, una tazza di caffè può contenere circa 120-150 milligrammi di caffeina, mentre una tazza di tè mate ne contiene in media 50-80 milligrammi. A differenza del caffè, il mate dà energia in modo più delicato. Molte persone trovano quindi più piacevole l’effetto del mate. Inoltre, questo spesso dura più a lungo, poiché le sostanze in esso contenute vengono assorbite più lentamente dall’organismo.
Qual è la differenza tra le bevande energetiche e il mate?
Gli energy drink contengono caffeina sintetica. È chimicamente identica alla caffeina naturale, ma viene prodotta in laboratorio e il suo effetto si avverte più rapidamente. Gli energy drink contengono spesso grandi quantità di zucchero e additivi artificiali. Il mate, invece, è un prodotto a base vegetale: «La bevanda ha origini tradizionali, contiene caffeina ed è quindi percepita come un’alternativa naturale agli energy drink convenzionali», afferma Christine Schäfer, ricercatrice di tendenze del Gottlieb Duttweiler Institute (GDI).
Perché il mate è così popolare?
Le bevande a base di mate sono arrivate in quasi tutto il mondo. Come fonte naturale di energia senza additivi artificiali, questo infuso risponde alla crescente consapevolezza della società nei confronti di un’alimentazione sana e di ingredienti naturali: «Il mate è un’alternativa alle bevande ad alto contenuto di zucchero», spiega Schäfer, ricercatrice di tendenze. Anche il sapore amaro e leggermente affumicato piace a molte persone, infatti ora il mate è disponibile in una varietà di gusti e forme, come il tè freddo o le bibite gassate. Come fonte di energia e bevanda «lifestyle», il mate è diventato parte integrante della nostra vita quotidiana.
Con caffeina naturale del mate, senza additivi: intenso, fresco e leggermente frizzante
Immagini: Adobe Stock
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Il mate viene gustato nella calebassa con una cannuccia di metallo.
nuovo!
La base: foglie essiccate e grossolanamente macinate della pianta di mate.
GUSTO
Limoni sotto sale
L’ingrediente segreto dall’Oriente
I limoni sotto sale danno un tocco in più ai piatti dolci e salati. Come si preparano e come utilizzarli in cucina
Limoni sotto sale
Per 1 vaso per conserve
3 limoni 3 cucchiai colmi di sale
1. Lavate i limoni con acqua caldissima. Incidete la scorza per il lungo più volte e dimezzate i limoni. Metteteli in un barattolo a chiusura ermetica e aggiungete 1 cucchiaio colmo di sale per ogni limone. Chiudete il barattolo e scuotete bene.
2. Fate macerare i limoni ben sigillati nel barattolo in frigorifero per almeno 3 settimane. Di tanto in tanto scuotete il barattolo. I limoni in salamoia si conservano in frigorifero per 4 mesi.
Consigli utili I limoni sotto sale o in salamoia sono tipici della cucina nordafricana. Sono cotti insieme con altri ingredienti, spesso in piatti unici, ed eliminati a fine cottura. Oppure viene tritata finemente un poco di scorza e aggiunta agli altri ingredienti.
Pasta ai limoni sotto sale
In questa ricetta veloce e davvero speciale la pasta è condita con limoni sotto sale, ricotta e basilico fresco.
Ricetta
Testo: Dinah Leuenberger
GUSTO
Limoni sotto sale
Buono a sapersi
Cosa sono i limoni sotto sale?
Si tratta di limoni lasciati a fermentare per settimane nel loro succo con del sale (e a volte anche con un pochino di zucchero). Sono una specialità della cucina nordafricana e mediorientale, soprattutto del Marocco, dove i limoni interi (spesso si predilige la varietà a buccia sottile) vengono semplicemente incisi, salati abbondantemente e disposti a strati in capienti vasi di vetro. Attraverso la fermentazione diventano morbidi e saporitissimi, e in più si conservano a lungo.
Di cosa sanno?
Il sapore dei limoni in salamoia è semplicemente unico: il gusto è quel lo intenso del limone, ma senza l’acidità aggressiva dell’agrume fresco. Al suo posto si sviluppa una profondità salata e leggermente piccante con una lieve nota di umami. La fermentazione rende la buccia particolarmente delicata, ed è questo il vero punto di forza dei limoni in salamoia: la buccia si scioglie letteralmente sulla lingua.
Come utilizzare i limoni sotto sale?
I limoni sotto sale si prestano ad arricchire le ricette più svariate. A stufati, curry e tajine regalano una nota di gusto tutta speciale, ma sono ideali anche per dare una marcia in più a condimenti per insalate, marinate e dip. E non si tirano indietro nemmeno davanti al forno: la buccia tritata finemente può essere aggiunta all’impasto del pane o delle torte. Prima dell’uso è opportuno sciacquare rapidamente i limoni sotto l’acqua per eliminare il sale in eccesso. Chi ama sperimentare può utilizzarli per i cocktail o come topping su pasta e pizza.
sotto sale
Il cake ai mirtilli con limoni sotto sale seduce con lo squisito aroma delle bacche e la freschezza del limone. Una ricetta speciale.
Ricetta di Zoe Torinesi
Tajine
Stufato marocchino d’agnello con verdure Piatto principale per 4 persone
1½ cucchiaini di cannella
2 cucchiaini di ras el hanout (miscela di spezie marocchina)
1½ cucchiaini di cumino pepe di Cayenna a piacimento
2 carote
2 cipolle
800 g di spalla d’agnello olio di colza o di semi di girasole
2 spicchi d’aglio
4 dl di brodo di carne
½ limone sotto sale (vedi suggerimento)
50 g di mandorle spellate
150 g di prugne secche snocciolate ½ mazzetto di prezzemolo sale
1. Mischia tra di loro tutte le spezie e tieni da parte la miscela. Aggiungi un po’ di pepe di Cayenna se desideri un aroma più piccante. Taglia grossolanamente le carote, poi trita grossolanamente le cipolle.
2. Taglia la carne a dadi di ca. 4 cm e mettili in una scodella. Aggiungi un terzo della miscela di spezie e mescola bene.
3. Scalda il forno statico a 160 °C (calore superiore e inferiore). Scalda un po’ d’olio sul fondo della casseruola per tajine o in una padella. Rosola brevemente la carne a fuoco intenso da tutti i lati. Estraila e tienila da parte (vedi suggerimento).
4. Scalda ancora un po’ d’olio sul fondo della casseruola. Soffriggici le cipolle a fuoco medio finché diventano traslucide. Unisci l’aglio schiacciandolo e continua a soffriggere per ca. 1 minuto. Aggiungi la carne e il brodo. Unisci il resto della miscela di spezie e le carote, poi mescola. Copri con il coperchio della casseruola per tajine. Stufa per ca. 2 ore nel terzo inferiore del forno.
5. Nel frattempo, elimina i semi del limone sotto sale e tritalo finemente compresa la scorza. Taglia grossolanamente le mandorle e le prugne. Aggiungi tutto alla tajine e mescola. Stufa per altri 30 minuti finché la carne è tenera.
6. Trita finemente il prezzemolo. A piacimento, aggiungi sale allo stufato. Cospargi con il prezzemolo e servi subito. Accompagna con cuscus.
Suggerimento La preparazione nella rostiera è pressoché uguale. Ci vuole un po’ di brodo di carne in più (6,5 dl invece di 4 dl) e, sempre con il forno statico a 160 °C (calore superiore e inferiore), si inforna la solo per 2 ore (30 minuti in meno).
Ricetta
Un lavoretto che fa brillare l’immaginazione
Per costruire lucciole luminose e inventare avventure estive in miniatura, basta un’attività creativa che unisca manualità, narrazione e un pizzico di magia
La villeggiatura nello specchio dell’armadio
Dalla stecca di balena al bastone da passeggio fino ai post su Instagram: la lunga traiettoria della moda da viaggio che detta codici sociali e strategie pratiche
Alla Scarzuola si decostruisce l’idea di sé
Itinerario ◆ Nel cuore dell’Umbria, l’utopia esoterica dell’architetto Tomaso Buzzi continua a parlare attraverso la voce ruvida del nipote: un teatro dell’anima tra misteri, simboli e provocazioni
Posto magico, luogo esoterico, città incompiuta. Sono solo alcuni dei nomi che vengono dati alla Scarzuola, quella che per il suo realizzatore, l’architetto Tomaso Buzzi (sì, con una m sola) era invece la sua città ideale, il luogo dell’anima. E come tutti i luoghi che sono avvolti dal mistero, dalla fantasia ma anche dall’estro e dal genio del suo artefice, anche la Scarzuola – che si trova a Montegabbione in Umbria – ha una storia affascinate dietro la sua nascita e creazione. Una di quelle lunghe secoli, dove si incontrano santi, miracoli, nobili e artisti.
ll miracolo
La narrazione vuole che nel 1218, San Francesco, il Santo di Assisi, costruì proprio qui una capanna fatta con la scarza , un’erba (da alcuni esperti identificata nella Schoenoplectus lacustris) che cresce nell’acqua e da cui deriva appunto il nome, la Scarzuola. Secondo la leggenda, mentre piantava una rosa avvenne un miracolo: dalla terra iniziò a zampillare una sorgente d’acqua, elemento fondamentale in un posto così isolato. Il Santo, dopo aver ricevuto il pezzo di terra dal signorotto di Montegabbione, usò la capanna per ritirarsi in preghiera. Nel corso degli anni e dei secoli a venire, la capanna si trasformò prima in una chiesa e poi in un convento per frati che sorse tutto intorno, pur rimanendo sempre di proprietà dei nobili di Montegabbione. Rimase attiva fino al periodo tra le due guerre quando venne completamente abbandonata.
La visione di Buzzi
Ed ecco che, nel 1956, entra in scena Tomaso Buzzi. Architetto già famoso, designer e artista, uno dei progettisti più importanti dell’art déco, professionista a cui si rivolgeva la borghesia milanese per ideare o arredare le loro case, insomma, un uomo di grande cultura che quell’anno si trovava in Umbria, proprio nel momento in cui era maturata dentro di lui l’idea di trovare un posto isolato dove poter progettare e realizzare il suo «luogo dell’anima». Inutile dire che quando vide la Scarzuola non ci pensò due volte sebbene fosse oramai in parte ridotta in rovina e assediata da rovi ed erbacce. L’acquistò con il chiaro intento di ridarle nuova vita, di rianimare quei mattoni e quelle pietre, di estrarre lo spirito dalla materia. Un progetto, una visione, un’idea portata avanti dal 1956 al 1978.
La Scarzuola, l’Anfiteatro
Una gimcana campagnola
La Scarzuola non è un posto comodo da raggiungere e una volta lasciata la strada asfaltata, dopo il paese di Fabro, in provincia di Terni, bisogna guidare lungo una via sterrata, in mezzo alle dolci e morbide colline umbre accarezzate dai raggi del sole. La strada sembra non arrivare mai a
destinazione e a volte si ha la sensazione di essersi persi. «Scusi, la direzione per la Scarzuola?» chiedo a un anziano seduto su una sedia di legno, davanti alla porta di uno dei casali che si incontrano lungo il percorso in mezzo alla campagna. Alza il viso, si aggiusta il cappello di paglia in testa, mi guarda quasi con compassione e poi, senza dire una sola parola e spostando solamente la mano, mi indica la dire-
zione: andare avanti, proseguire sulla stessa strada. Dopo altri sali e scendi, curve, rettilinei e polvere che si alza al passaggio dell’auto, ecco, alla fine della discesa, il campanile della chiesa in lontananza, che si frappone a una strana costruzione di colore marrone.
Il bizzarro nipote, Marco Solari
Altra gente nel giardino interno circondato dalle cappelle con le tappe della Via Crucis aspetta per iniziare la visita guidata, perché La Scarzuola è una proprietà privata. Dopo la morte dell’architetto Buzzi (1981) i figli non se ne presero molta cura e alla fine andò in eredità a un suo nipote, Marco Solari, che da più di quarant’anni porta avanti e cerca di completare il sogno e il progetto dello zio. E così, mentre una parte del vecchio convento è stata trasformata in abitazione e non è possibile visitarla, tutto il resto, dall’anfiteatro al giardino alle colonne d’Ercole, è aperto alle visite del pubblico. Ed è proprio Solari, 75 anni, che accoglie i visitatori nel prato davanti alla chiesa. Alto, magro, spettinato, occhiali che
poggiano su un grande naso, muove le braccia di continuo e ogni tanto si sfrega le mani. La voce, forte e squillante si alterna a risate lunghe che a volte rasentano il ghigno. Lo sguardo saetta da una parte all’altra. «Benvenuti, anzi malvenuti, voi siete dei cretini che siete venuti fino a qui per vedere la Scarzuola, il cagatoio di Buzzi». Guarda fisso le persone davanti a lui e poi scoppia in una risata, e i visitatori, anche se stupiti, rimangono ad ascoltare la sua spiegazione, sull’origine del luogo, da San Francesco ai giorni nostri. È un tipo loquace, Marco Solari, e non si capisce se gli piaccia recitare la parte del personaggio oppure è così veramente. Ma di certo si vede che è appassionato, anzi, ama profondamente quel posto. Anche se durante tutta la visita continua, tra una spiegazione e l’altra, a insultare i turisti. Sembra una messinscena compresa nel costo del biglietto.
«Alla ricerca di noi stessi»
«Venite, iniziamo il viaggio alla ricerca di noi stessi, un viaggio dal buio verso la luce, un viaggio che è la metafora della vita». E così, passando attraver-
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Luigi Baldelli, testo e foto
Marco Solari, proprietario e cicerone durante le visite guidate alla Scarzuola.
so un vecchio cancello di ferro e percorrendo un centinaio di metri lungo un viottolo si arriva a quella che è la più imponente delle opere, la grande arena all’aperto, il Theatrum Mundi con il suo Teatro delle Api da un lato e l’Acropoli dall’altro. È un vero e proprio anfiteatro, con le gradinate in pietra a formare un semicerchio. Lo sguardo corre giù, in fondo, al grande occhio che guarda gli spettatori ed è sovrastato da quello che Solari definisce un grande vascello dove a poppa c’è per l’appunto il Teatro delle Api, l’unico coperto, mentre a prua si trova l’Acropoli, accessibile dalla Porta del Cielo, dove si trovano affastellate diverse miniature architettoniche come il Partenone, il Colosseo, le Piramidi d’Egitto, la Torre di Mantova che rappresenta il Rinascimento.
Burattini, attori o spettatori?
La calda luce del sole illumina le pareti degli edifici dipinti di arancione. «Alla Scarzuola, Buzzi diceva di sentirsi nudo, per questo cercò e trovò un luogo così isolato, dove poteva spogliarsi e diventare sé stesso, per mezzo dell’architettura»; seduto sugli scaloni dell’anfiteatro, circondato dal pubblico dei visitatori, il cicerone Solari si addentra nelle spiegazioni: «Questo è il Teatro Mundi dove ognuno di noi ha il suo ruolo, che può essere partecipe o solo di presenza. Perché, tutti voi, iniziate questo viaggio alla Scarzuola come burattini e, durante il percorso, vi dovete sburattinizzare per prendere coscienza di chi siete davvero. Siete spettatori o attori? Ricordate, che se siete attori potete incidere sulla materia». Molti di quelli che lo stanno ascoltando rimangono in silenzio, alcuni si guardano tra di loro con facce perplesse, altri si stanno presumibilmente domandando: «Ma cosa sta dicendo?».
Il grande occhio
riore spiegazione. «Ok, quando avete gli occhi aperti e vedete le lancette dell’orologio, il vostro cervello è programmato, vedete quello che vi vogliono far vedere. Siete imprigionati. Mentre nel notturno non siete imprigionati, perché non ci sono le lancette, fate quello che volete» dice ciondolando sui propri passi la nostra guida, oramai sicura di non essere contraddetta e di avere in pugno chi lo ascolta. Intanto una coppia di anziani, che forse immaginava una visita più vicina alla storia del Santo poverello che alla visione della vita dell’architetto Buzzi, cerca ristoro all’ombra di un pergolato di vigne. «Si torna a essere se stessi, come diceva l’architetto Buzzi» suggerisce dietro di me il marito alla moglie arrivata fino a qui con un paio di scarpe con i tacchi, non certo comode per questa visita.
Il gioco e la creazione
Il
viaggio di trasformazione
Il sogno nel sogno
Inizia così il viaggio nel viaggio, anzi «il sogno nel sogno» come diceva Buzzi. Un viaggio onirico alla scoperta di noi stessi per sviluppare la propria anima, dove – come ha fatto lo
Ed ecco di nuovo la risata di Solari, mentre guarda compiaciuto le facce attonite dei suoi ascoltatori, si aggiusta di nuovo gli occhiali sul naso, batte le mani, e poi riprende: «Questa è la città ideale, un luogo architettonico esoterico e mistico dove gli umani non sono previsti. E sapete perché?». Silenzio, qualcuno prova ad accennare una risposta a mezza bocca. «Perché l’essere umano non riesce a stare nell’ideale», dice Solari. «E qui alla Scarzuola potete finalmente fare il viaggio dentro di voi, riscoprire la vostra parte creativa». «Ah, bene, ho bisogno di riscoprire me stessa» dice una signora di mezz’età, bionda e ben truccata. «E lo vedete quell’occhio lì in mezzo al grande vascello? È il grande occhio che vi guarda e spia i vostri affanni; Buzzi diceva che a noi ne basta solo uno per guardare oltre, per vedere quello che due occhi non riescono a vedere. Il nascondimento dell’arte: gli occhi vedono, ma se si va oltre, si interpreta la visione in modo diverso». Tutti rimangono abbastanza muti, si accennano domande che a volte hanno risposte taglienti e ti fanno sentire un po’ scemo. Una situazione sospesa, interrotta all’improvviso da una madre che strilla a tutta voce per richiamare il figlio piccolo che corre lungo il pendio dell’anfiteatro: «Andrea, fai attenzione!».
stesso Buzzi durante la progettazione e realizzazione della Scarzuola – bisogna lasciare per strada ambizioni e desideri materiali. Andando avanti si arriva alla Torre del Tempo e dell’Angelo Custode. Una torre di tufo dove su una parete si trova un orologio mentre sull’altra solo un quadrante senza lancette. «Vedete?» dice ancora Marco, mentre tutti gli si fanno intorno come a una guida spirituale: «Qui l’orologio classico e qui quello senza tempo». «E che differenza c’è?» si sente chiedere da qualcuno in fondo al gruppo. «Il tempo – continua il nipote di Buzzi – in sé e per sé, quando siete nel sonno/sogno non c’è. Se non siete scemi lo capite». Dalle varie espressioni è chiaro che serve un’ulte-
Accanto alla Torre del Tempo si trova una delle opere più conosciute della Scarzuola, la grande statua detta della Dea Madre o del Donnone. Questa grande statua in cemento, alta circa dieci metri, rappresenta un busto femminile senza testa ed è stata terminata dallo stesso Solari seguendo i progetti dell’architetto Buzzi: «La madre terra, per far sopravvivere tutti quelli che sono in superficie, usa il magma, il fuoco, qui rappresentato da quei cilindri di ferro che sono al posto della testa, le fiamme». Poi, dopo un’ennesima risata, parte una lunga spiegazione dal periodo neolitico sul ruolo della donna e dell’uomo, secondo cui la donna è stata la prima vera dea, perché ha capito che poteva procreare: «Per andare avanti dobbiamo inserire il femminile dentro la nostra vita. E come si fa?». Silenzio, chiaramente, da tutti gli astanti. «Con il gioco che ci permette di vedere oltre, di divertirci. Buzzi, quando costruiva le case, oltre a essere architetto e ingegnere, ci metteva anche il gioco, e venivano fuori delle opere stupende».
La Bocca della Balena
I discorsi si fanno sempre più complicati, una buona parte di pubblico inizia a spargersi sui prati, i bambini corrono da tutte le parti. Ma con lo spirito giusto, il viaggio interiore nella città ideale di Buzzi ha qualcosa di affascinante, circondati da simboli e invenzioni architettoniche sorprendenti, tutte da guardare con gli occhi di un bambino. Come la Bocca della Balena, opera iniziata da Buzzi e anche questa completata da Solari, che rimanda alla balena del profeta Giona o a quella della storia di Pinocchio. E che, attraversandola, rappresenta la metafora della morte e della rinascita. Anche la collocazione di quest’opera è emblematica, perché si trova alla fine della percorso in discesa, laddove poi riprende la salita, dando via al viaggio di trasformazione.
Siamo nella parte più bassa del percorso e il viale di ghiaia porta fino alla Torre della Meditazione e della Solitudine. «Da qui poi ci sono le 12 rampe, come le 12 fatiche di Ercole, che portano alla liberazione delle nostre parti pesanti, per arrivare alla nostra essenza». I più attenti annuiscono convinti, rapiti dai racconti e da questo mondo esoterico. «Se non siete totalmente scemi qui dovete sopprimere il vostro io, il vostro ego per iniziare il percorso di ascesa» dice ancora Solari, appoggiandosi a un muro di mattoni di tufo, con le mani sui fianchi lasciandosi andare a un’altra risata. Il simbolo della saggezza che Buzzi rincorreva si trova dopo la fine della salita. È il fusto di un cipresso, completamente spoglio, colpito da un fulmine nel 1970. «Questo è il tramite tra la terra e il cielo e si trova all’interno di un tempio solare, però, se guardiamo questo tempio dall’alto vediamo che è un pozzo, il pozzo della memoria». Il nostro Cicerone non smette un attimo di parlare, lo zoccolo duro dei visitatori lo segue con estrema attenzione. Annuiscono con la testa, per molti di loro è un privilegio poter fare questo viaggio metafisico alla ricerca della comprensione dell’essere umano e della realtà. «Perché è la memoria che ci permette di andare nel futuro».
La Torre di Babele
Il viaggio è quasi finito, resta solo da vedere la Torre di Babele, che è accanto al Tempio. E di ascoltare l’ultima frase di Marco Solari che riguarda l’architetto. «Buzzi diceva che quando era in mezzo agli altri si metteva il vestito, mentre quando veniva qui alla Scarzuola si denudava per essere ed esprimersi per quello che era. E la gente pensava che fosse un folle. Quindi almeno nel privato siate folli, così vi salvate, perché i folli sono i creativi».
Per un po’ di secondi aleggia il silenzio, poi Marco Solari regala un grande sorriso, apre le braccia per salutare tutti e si allontana. Qualcuno lo insegue per un’ultima spiegazione, e parla con lui in disparte, come in una confessione. La maggior parte si dirige verso l’uscita, c’è chi commenta ad alta voce dicendo che non ha capito molto ma che è stata comunque una bella gita. Altri invece vanno avanti in silenzio, come se, dopo tutto quello che hanno ascoltato, si stessero facendo delle domande da soli e cerchino le risposte. Altri ancora sono entusiasti e sembra quasi che questo cammino interiore li abbia portati verso nuove direzioni. Io esco un po’ frastornato ma capisco che è stato comunque un bel viaggio in questa città ideale, un sogno nel sogno.
Informazioni:
Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica
Innovazioni da Schwarzkopf &
La magia delle lucciole
Crea con noi ◆ Un gioco estivo per portare i bambini nel cuore dell’estate… anche senza
Giovanna Grimaldi Leoni
Giugno e luglio sono i mesi perfetti per avvistare le lucciole in Canton Ticino, quando le notti si accendono di piccoli bagliori danzanti. Se vuoi portare un po’ di questa magia a casa o ricrearla con i bambini, queste lucciole artigianali fosforescenti sono l’attività perfetta! Con pochi materiali e una luce UV, sembreranno davvero prendere vita.
Preparazione
Stampate e ritagliate le varie parti del cartamodello e riportatele
sui materiali indicati.
Colorate la parte finale del corpo della lucciola, con il pennarello fosforescente giallo.
Assemblate il corpo della lucciola. Sovrapponete alla parte fosforescente il tondo più grande, fissate su di esso le ali e quindi incollate la testa. Aggiungete delle piccole antenne create con il cordoncino nero fissandole dietro la testa.
Barattolo delle lucciole:
Inserite nel barattolo un cartoncino argentato, blu scuro o il disegno di
Giochi e passatempi
Cruciverba
Il parco più grande del mondo misura
974.000 chilometri
quadrati e si trova in Groenlandia, è stato designato… Scoprilo leggendo a cruciverba risolto le lettere evidenziate.
(Frase: 7, 14, 5, 8)
ORIZZONTALI
1. Scoppiano... in bocca
4. Ci va la nave senza controllo
9. Cinta senza fianchi
10. Si fa a tombola
11. Le iniziali dell’attrice Autieri
12. Si dice ... e mosca!
13. Simbolo chimico del sodio
14. Ingrandisce a vista d’occhio
15. Il «lo» tedesco
16. Protagonisti di drammi passionali
18. Nome femminile
19. Primo elemento di composti riferiti alla navigazione aerea
21. Sommos sa inglese
22. Soltanto all’inizio
23. Per... a Londra
24. Una famosa imperatrice
VERTICALI
1. Cinquec ento fogli
2. Desinenza di diminutivo femminile
3. Iniziali dell’attrice… Riccioli d’oro
4. Soprannominati
uscire
una notte stellata così da creare uno sfondo alle lucciole.
Fissate un’estremità del filo di nylon sul retro della lucciola e l’altra all’interno del tappo del barattolo, in modo che rimanga sospesa. Per questa operazione potete usare del semplice nastro adesivo.
Aggiungete qualche stellina fosforescente sul vetro del barattolo e sul cartoncino interno: per realizzarle, ritagliate delle stelline da un foglio di carta bianca, coloratele con un pennarello giallo fosforescente e incollatele con il bastoncino di colla.
Anello lucciola
Se lo desiderate, potete aggiungere un piccolo anello elastico o di carta dietro al corpo per poter indossare la lucciola sulla mano come fosse un anello.
Puntate la luce UV sulle vostre creature… le vedrete brillare al buio come vere lucciole notturne!
Idea in più
Per un effetto ancora più suggestivo, create un piccolo racconto o un gioco
Materiale
• C artoncino nero
(meglio se rigido)
• C arta bianca
• C arta velina o carta da forno
• Pennarello fosforescente giallo
• Colla stick o vinilica
• Forbici
• Filo di nylon
• Barattolo in vetro
• Cordoncino nero
• Luce/lampadina UV
• Stampante per il cartamodello
(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)
legato alle lucciole: il bambino potrà inventare il nome della sua lucciola e raccontare dove vola di notte.
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
5. Ripide, scoscese
6. Si alternano nel branco
7. Finisce in allegria
8. Lo è la delusione
10. Il Brass regista
12. Il suo antipode è il nadir
13. Preposizione articolata
14. Ferve nel cantiere
15. «Ut» per Guido d’Arezzo
17. Avverbio di tempo
20. Vento freddo e impetuoso
21. Un libro della Bibbia
22. Il «signore» del Belli
23. Nucleo del tifone
Soluzione della settimana precedente Il primo telefono cellulare venne soprannominato: IL MATTONE il suo costo in dollari era: QUASI
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku cliccando sull’icona «Concorsi», homepage in alto a destra Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano . Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
Viaggiatori d’Occidente
Look da turista in partenza
«Perché ci vestiamo come un’altra persona quando siamo in vacanza?» si chiede Eva Sandoval, una giornalista della gloriosa BBC. La domanda non è affatto banale. Per provare a rispondere dobbiamo tornare alla seconda metà dell’Ottocento, quando il turismo si diffonde in tutta Europa. In quegli anni l’abbigliamento delle classi elevate – le prime a mettersi in viaggio – era regolato da rigidi codici sociali. Soprattutto le donne erano limitate nei movimenti, a causa di abiti formali ed elaborati (ricordate i famosi corpetti di stecche di balena?). Alcuni dei primi turisti tentarono di portare in vacanza tutto questo armamentario, anche perché viaggiavano per mesi, alternando villeggiature marine e terme, feste eleganti e momenti più rilassati. I pionieri dell’alta società fecero così la fortuna di Louis Vuitton, un giovane fabbricante di bauli da viaggio su misura. Ma la
media borghesia presto comprese che con questi abiti era impensabile salire e scendere da treni e battelli, passeggiare in montagna o nei boschi, adattarsi a temperature diverse. Di conseguenza adottò vestiti più semplici, pratici e leggeri.
I manifesti dei nostri laghi di fine Ottocento mostrano un abbigliamento ancora formale ma comodo: la «moda da viaggio», come si diceva allora. E quindi abiti traspiranti in lino o seta per le donne; vestiti di flanella per gli uomini, con pantaloni ampi e comodi, un cappello di paglia e magari un bastone da passeggio. Questo desiderio di comodità rimase anche dopo il ritorno e lentamente, insieme allo sport, cambiò il modo di vestire di ogni giorno. Il nostro abbigliamento discende proprio da quelle lontane esperienze.
Nel secondo dopoguerra milioni di lavoratori andarono in vacanza per la
Cammino per Milano
prima volta. L’eleganza era l’ultimo dei problemi e in viaggio cercavano solo la comodità. E dunque, nel caso degli uomini, si indossavano arditamente calzoncini corti, canottiere e capellini da pescatore; un campionario del cattivo gusto. In quegli anni, quando spesso i locali vestono ancora poveri ma dignitosissimi abiti tradizionali, il turista di massa diventa immediatamente riconoscibile per il suo abbigliamento. È un viaggiatore ingenuo, inesperto, goffo; di conseguenza i turisti borghesi, che ora preferiscono essere chiamati «viaggiatori», cercano di prendere le distanze e vestono con maggiore cura, spesso prendendo ispirazione proprio dai costumi dei Paesi visitati. Acquistare abiti del luogo è uno dei piaceri del viaggio e ha contribuito alla circolazione di tessuti, fogge e temi, specie quando grandi marchi hanno cavalcato questa spontanea in-
Il tempietto del lago dei cigni a Monza
Nessun cigno, a prima vista, nel laghetto. Dove tre cigni, con tanto di mini pagoda-isola per le loro notti, si notano in una incisione del 1827 del duo Federico e Caroline Lose. Oltre a una barchetta con baldacchino e soprattutto, nel punto focale, su un dosso, tra gli alberi, il tempietto-belvedere. Follia architettonica tipica da giardino all’inglese che qui, per posizione, distanza, grazia, un non so che ancora da studiare meglio, un pomeriggio ai primi di luglio è da subito il fulcro magico del paesaggio. Opera di Giuseppe Piermarini (1734-1808): l’architetto della Scala innanzitutto ma anche allievo di Vanvitelli con cui collabora alla Reggia di Caserta, nonché autore della scaffalatura teatrale ammirata al volo quest’inverno alla Braidense, della Villa Reale qui a pochi passi e del resto di questo giardino all’inglese databile intorno al 1780. Desidera-
to dall’arciduca Ferdinando d’Asburgo, con lo zampino del conte Ercole Silva come vedremo, risulta essere il primo giardino all’inglese in Italia. E il tempietto dorico laggiù che rapisce lo sguardo dunque, la sua prima folly in assoluto. Distratto da uno scroscio invisibile d’acqua e il suo scorrere tra le rocailles, abbandono le notizie storiche per vivere il momento di questo angolo di mondo all’interno del parco di Monza. Il più grande parco cintato d’Europa con tanto di autodromo e diverse curiosità, tra le quali il portale neogotico del serraglio dei cervi che un giorno magari tornerò a cercare per raccontarvelo. Tra le roccaglie di rilievo, intanto, trovo un percorso che scende indocile e degno di nota per finzione scenica tipo montagna. Come d’incanto, sono ai piedi della cascata in miniatura: l’illusione di un altrove alpestre dal gusto an-
Sport in Azione
glo-cinese è reale. La cascatella-gioco d’acqua oltre a stupire sul serio il passeggiatore, rinfresca un minimo. Rintontiti dai trentasei gradi, due tennisti seniores sono seduti lì davanti. Non lontano, scorgo l’antro di Polifemo. Capriccio d’ispirazione omerica che mi ricorda la piega corrucciata delle rocce nelle gole della Breggia, però qui è un’altra finzione fatta tutta con ceppo lombardo. L’erba alta e l’incuria generale non mi disturbano, anzi, donano alla veduta un tocco di scapigliatura. Sopra il buco nella roccia contorta, dove Polifemo si addormenta stordito per via del vino dell’isola di Ismaro servitogli da Ulisse che così si salva la pelle, qualche quercia e dei pini. Uno scoiattolo spelacchiato, impigrito dal caldo, osserva il mio ritorno al laghetto noto come lago dei cigni. Boccheggiano pesci enormi, pesci rossi giganti girano incuranti. Tar-
di Claudio Visentin
clinazione dei turisti. In questo gioco, peraltro, è facile cadere nell’anacronismo. I foulard svolazzanti e i grandi occhiali da sole richiameranno pure la Roma de La dolce vita, ma il film è del lontano 1960 e nell’Urbe più nessuno veste così; né in Sicilia le donne indossano più gli abiti neri tradizionali riscoperti da Dolce & Gabbana. La moda è per definizione in perpetuo movimento, anche soltanto per rispondere all’introduzione di nuove regole. Per esempio dopo il 2000 la diffusione dei voli low cost ha ridotto drasticamente le dimensioni del bagaglio (quanto meno se si vuole evitare un cospicuo sovraprezzo). E così in rete si sono moltiplicate le guide per acquistare zaini della misura esattissima, per piegare gli abiti con precisione chirurgica o indossarli in più strati. In questa fase il viaggiatore esperto si distingue per la capacità di viaggiare con un bagaglio mini-
male. Nel 2010, ad esempio, un noto scrittore americano, Rolf Potts, per scommessa ha fatto il giro del mondo senza valigia (cinque continenti, sei settimane, cinquantamila chilometri). Ma poi, sempre a partire dal 2010, Instagram ha progressivamente ribaltato questa logica. Gli influencer posano in luoghi da sogno con impeccabili completi sponsorizzati e i loro follower cercano di imitarli, facendo nuovamente lievitare il bagaglio. I luoghi diventano scenografie dove sperimentiamo nuove sfumature della nostra identità. In vacanza possiamo sfoggiare capi che nella vita di tutti i giorni sembrerebbero eccessivi, inappropriati o poco pratici. Soprattutto chi al lavoro deve indossare una divisa, trova un’occasione per esplorare un altro lato della propria personalità, più spensierato, gioioso e rilassato. Anche per questo viaggiamo.
tarughe intorpidite, prendono il sole sulla riva. Facendo il giro, nascostissima, avvisto la grotta di Nettuno. In realtà, la scultura a pelo d’acqua, pensata per la visione da una barchetta come quella incisa dai Lose, raffigura, come divinità, il Lambro. Scavalco lo steccato e mi avventuro vicino alla grotta: accanto al Lambro – fiume dal quale attraverso una roggia arriva qui tutta l’acqua – ci sono due cavalli imbizzarriti-semisommersi. Mamma e figlia in vestiti a fiori parlano calme su una panchina. Tra un’insenatura e l’altra arrivo al tempietto del Piermarini, pensato per le ninfe lacustri e posizionato un po’ come quello di Apollo e quello di Flora a Stourhead. Giardino all’inglese seminale del 1765 nel Wiltshire, visitato di sicuro nel viaggio dell’arciduca assieme a Ercole Silva, autore di un celebre trattato sull’arte dei giardini all’inglese incontrato
Quando la pallacanestro ci lascia a bocca aperta
Che il basketball svizzero sia finanziariamente piuttosto povero, è un dato di fatto. Chiedete ai presidenti della Spinelli Massagno e dei Lugano Tigers quanto sia difficile far quadrare il bilancio. Oppure a quello del Riva Basket, costretto prudenzialmente ad auto retrocedersi dalla A alla B. Tuttavia, secondo un’antica teoria di Poirot di Agatha Christie, tre indizi equivalgono a una prova. Ebbene, a cavallo tra giugno e luglio, la pallacanestro svizzera, di indizi ne ha prodotti quattro. A testimonianza di uno stato di salute tutt’altro che disprezzabile. Il primo, in ordine cronologico, riguarda Yanic Konan Niederhäuser. Con quel nome da guerriero non poteva che essere una montagna di muscoli di 211 centimetri per 110 chili. Dalla prossima stagione, vestirà la maglia dei Los Angeles Clippers. È il quarto rossocrociato che raggiun-
ge l’Olimpo della pallacanestro mondiale. Dopo Thabo Sefolosha (2006), Clint Capela (2014) e Kyshawn George (2024). Un poker che, se messo in relazione alle cifre scarse del nostro movimento, suona come un’enormità. Fatte le debite proporzioni, è come se dal nostro campionato di hockey su ghiaccio, ogni anno, una decina di giovani talenti facesse le valigie per varcare l’oceano, direzione National Hockey League. Il secondo indizio, a mio modo di vedere, è ancora più colossale. A Ulan Bator, in Mongolia, ai Mondiali di basket 3 x 3, nonostante qualche assenza di spicco, la Nazionale svizzera ha conquistato la medaglia d’argento. I fratelli Natan e Thomas Jurkovitz, con Jonathan Dubas e Jonathan Kazadi, hanno vinto il girone, hanno superato la Lettonia ai quarti, strapazzato la favoritissima Serbia in semifinale, prima di soccombere
per 21 a 17 contro la Spagna nell’atto conclusivo. Qualcuno obietterà che si tratta di basket a 3, quindi di una sorta di surrogato. Da un lato è vero che la nostra federazione, forse in ossequio alla legge dei numeri, ha preferito investire in questa nuova disciplina in cui è forse più facile ritagliarsi una fetta di gloria. Tuttavia, a conferma della crescita globale, ecco il terzo indizio : il luminoso percorso della selezione rossocrociata U19 ai Mondiali di categoria svoltisi alla Vaudoise Arena di Losanna-Prilly. Superata la fase a gironi, nei quarti di finale, i giovani elvetici hanno estromesso la Francia, una delle potenze del pianeta basket, prima di essere eliminati ai quarti dalla fortissima Nuova Zelanda. Contro i transalpini è stato fondamentale il contributo del ticinese Oliver Sassella, figlio d’arte, autore di 25 punti. Il cecchino elvetico, cresciuto
nell’Arbedo, passato prima a Friburgo, poi a Gordola, ha completato la sua maturazione nel Centro Nazionale Svizzero di Basket (CNSB), prima di tornare in Ticino, sponda Tigers. Un motivo di fierezza in più, sia per la struttura nazionale, sia per il club che lo ha ingaggiato. Se tutto ciò non bastasse, per dipingere a colori questa disciplina sportiva che in passato ha fatto vibrare migliaia di cuori ticinesi, ecco il quarto indizio : la 17a edizione del Campionato Mondiale Maxibasketball, che si è tenuta a Bellinzona e dintorni, dal 27 giugno al 6 luglio. Le cifre dicono che, numericamente, si è trattato del più grande evento cestistico della storia : 350 squadre, oltre 6mila giocatori e giocatrici in rappresentanza di più di 40 Paesi. Uomini e donne over 35, star della pallacanestro del passato, ma anche protagonisti la cui immagine è transitata in filigrana nella
già nei reportages scorsi. Tre scalini e sono tra le quattro colonne di granito del pronao, il resto è circolare e il tetto-cupola in coppi rincuoranti. Restaurato a modo qualche anno fa, l’intonaco con pigmenti puri color panna è maculato dai riflessi del sole tra le foglie. Le lesene sono tra il color tortora e il gelato alla nocciola. Butto un occhio dentro, il pavimento è di malto coccio pesto. Alle sue spalle c’è un cunicolo pseudosegreto che conduce al tempietto ipogeo conosciuto anche come tempio della luna. Una roggia-ruscelletto cintato da roccaglie porta l’acqua nel laghetto, cadendo con tre salti prima, così da provocare uno scroscio romantico. «Romeo si chiamava l’ultimo cigno del lago» mi dice una signora con barboncino. Un’oca dorme su un isolotto. Torno al punto di partenza. In lontananza, il tempietto, esprime un rapimento maggiore dello sguardo.
storia di questo sport. Senza lasciare una traccia su scala mondiale, ma senza dubbio capace di accendere luci e passioni sui vari parquet sui quali hanno avuto il privilegio di giocare. E a proposito di parquet, quello che ha ospitato la manifestazione bellinzonese è lo stesso calcato la scorsa estate a Parigi da tutte le «étoiles» che hanno dato vita al Torneo Olimpico, Dream Team USA compreso. È un indizio che volge lo sguardo prevalentemente al passato. Non lo nego. Ma è intriso di amore e di energia. Di risorse emotive importanti di cui la pallacanestro elvetica ha bisogno per portare in futuro, un quinto, un sesto… suo giocatore in NBA. Un dato con il quale, sia chiaro, non si cambierebbero le sorti del pianeta, ne sono convinto. Tuttavia, un movimento sportivo in crescita, ne sono altrettanto convinto, è uno dei molteplici segnali di benessere di una nazione.
di Giancarlo Dionisio
di Oliver Scharpf
Hit della settimana
Tutto l'assortimento Handymatic Supreme (sale rigeneratore escluso), per es. All in 1 in polvere, 800 g, 4.98 invece di 9.95, (100 g = –.62)
di 12.–
Validi gio. – dom.
inferiori di pollo Optigal al naturale o speziate, Svizzera, al kg, in self-service
Settimana Migros Approfittane e gusta
Nettarine e pesche, Extra a polpa bianca e a polpa gialla, per es. nettarine a polpa bianca, Spagna/Italia/Francia, al kg, 3.99 invece di 5.95
8.40 invece di 12.–
Cosce inferiori di pollo Optigal al naturale o speziate, Svizzera, al kg, in self-service
Tutto l'assortimento Handymatic Supreme (sale rigeneratore escluso), per es. All in 1 in polvere, 800 g, 4.98 invece di 9.95, (100 g = 0.62)
Frutta e verdura
Il gusto dell’estate
PREZZO BASSO
Prezzo basso
3.80 Peperoni rossi Svizzera / Paesi Bassi, al kg
Prezzo basso
4.50 Broccoli Svizzera, al kg
Prezzo basso
3.90 Melanzane Svizzera, al kg
Prezzo basso
1.75
Carote Svizzera, sacchetto da 1 kg
Prezzo basso
1.80
Patate dolci
Stati Uniti / Egitto / Sud Africa, rete da 1 kg
Prezzo basso
2.20
Cipolle Svizzera, rete da 1 kg
2.95 invece di 3.95
Cetrioli da campo Ticino, al kg, (100 g = 0.30)
4.95 Ciliegie Svizzera, 500 g, confezionate, (100 g = 0.99)
4.60
di 5.95
2.40 invece di 3.50
cherry misti Ticino, 500 g, confezionati, (100 g = 0.92)
Migros Ticino
Kiwi Gold Extra Nuova Zelanda, il pezzo
Suggerimento: prima di grigliare, condire con sale, pepe e rosmarino fresco
Migros Ticino
L’estate in tavola Grigliate
Prelibatezze firmate
26%
12.50
invece di 16.90
Filetti di salmone senza pelle M-Classic, ASC d'allevamento, Norvegia, 380 g, in self-service, (100 g = 3.29)
8.95
invece di 13.05
Gamberetti tail-on M-Classic, cotti, ASC d'allevamento, Vietnam, 450 g, in self-service, (100 g = 1.99) 31%
20x
3.95
Bastoncini di surimi con dip Sriracha Mayo, MSC 200 g, in self-service, in vendita nelle maggiori filiali, (100 g = 1.98)
6.95
invece di 8.70
Filetti di platessa M-Classic, MSC pesca, Atlantico nordorientale, 300 g, in self-service, (100 g = 2.32) 20%
LO SAPEVI?
La platessa è particolarmente saporita nei mesi estivi!
7.95 invece di 15.90
Cozze fresche M-Classic, MSC pesca, Paesi Bassi, 2 kg, in self-service, (1 kg = 3.98) 50%
Dopo la deposizione delle uova, per la platessa inizia una fase di alimentazione intensiva. In questo periodo – da giugno ad agosto – il pesce si rafforza, accumula riserve e immagazzina una quantità particolarmente elevata di sostanze nutritive.
Di conseguenza, la sua carne non solo raggiunge una consistenza ottimale, ma sviluppa anche un sapore squisito che la rende una vera prelibatezza nei mesi estivi.
Mangiare bene senza troppi sforzi
conf. da 3 20%
Pasta refrigerata Migros Bio fiori limone e timo, fettuccine o girasoli alle verdure grigliate, in confezioni multiple, per es. fiori, 3 x 250 g, 13.90 invece di 17.40, (100 g = 1.85)
Con ingredienti di alta qualità provenienti da fornitori svizzeri
a partire da 2 pezzi 30%
Tutte le Mini Salatsossä per es. French, 500 ml, 4.13 invece di 5.90, (100 ml = 0.83)
conf. da 2 20%
Fettine alle verdure e patate o nuggets, Migros Bio per es. sofficini, 2 x 180 g, 6.30 invece di 7.90, (100 g = 1.75)
a partire da 2 pezzi 20%
Tutte le pizze Anna's Best refrigerati per es. prosciutto, lardo & cipolle, 430 g, 5.56 invece di 6.95, (100 g = 1.29)
Con ripieno di ribes rosso
30%
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Berliner con ripieno di lamponi e ribes rosso Petit Bonheur in conf. speciale, 6 pezzi, 420 g, (100 g = 1.05)
conf. da 4 25%
Mini tortine disponibili in diverse varietà, per es. tortina di Linz Petit Bonheur, 4 x 75 g, 4.20 invece di 5.60, (100 g = 1.40)
Millefoglie in conf. speciale, 6 pezzi, 471 g, (100 g = 1.17) 29%
5.50 invece di 7.80
Prelibatezze fresche o
Migros Ticino
7.35 invece di 9.20
Rosette di formaggio Tête de Moine, AOP
basso
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Cremosa Svizzera, per 100 g, prodotto confezionato 16%
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20%
5.85
4.80 Burro da cucina Migros Bio 220 g, (100 g = 2.18) Prezzo basso
5.30
Migros Ticino
Dolci e cioccolato
Tentazioni a volontà
4 popolari gusti di gelato svizzero in un'unica confezione
40%
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Gelati su stecco Party Mix prodotto surgelato, in conf. speciale, 12 pezzi, 1086 ml, (100 ml = 0.89)
a partire da 2 pezzi 20%
Tutto l'assortimento Crème d'Or (articoli spacchettati esclusi), prodotti surgelati, per es. Vaniglia Bourbon, vaschetta, 1 litro, 8.76 invece di 10.95, (100 ml = 0.88)
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Tutti i biscotti Créa d'Or per es. pizzelle, 100 g, 2.50 invece di 3.10
Disponibile solo per poco tempo
conf. da 10 40% 11.95 invece di 19.95
Tavolette di cioccolato Frey nocciole o latte finissimo, 10 x 100 g, per es. nocciole, 11.70 invece di 19.50, (100 g = 1.17)
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Biscotti Lotus caramello, biscotto doppio vaniglia o cioccolato, per es. caramello, 2 x 250 g, 4.70 invece di 5.90, (100 g = 0.94)
Pralinés du Confiseur Frey Summer Edition, 452 g, (100 g = 2.64) 40%
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Schoko-Bons Kinder in conf. speciale, 500 g, (100 g = 1.79)
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Dissetanti ed energizzanti
In estate è particolarmente importante bere molto per compensare la maggiore perdita di liquidi dovuta alla sudorazione e per prevenire la disidratazione
ogni confezione Joujoux una sorpresa per giocare
rinfrescante con caffeina ed estratti di mate
Viva le scorte Scorta
6.05 invece di 7.60
Farina bianca
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Tutto l'assortimento Ponti e Giacobazzi per es. aceto balsamico di Modena Ponti, 500 ml, 3.36 invece di 4.80, (100 ml = 0.67)
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Tutte le capsule Café Royal incl. CoffeeB per es. Lungo, 10 capsule, 3.38 invece di 4.50, (100 g = 6.38)
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Latte di cocco Thai Kitchen bio, light o normale, in confezioni multiple, per es. normale, 2 x 500 ml, 6.85 invece di 8.60, (100 ml = 0.69)
Suggerimento: servire con frutta come spuntino
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