Azione 31 del 28 luglio 2025

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edizione

MONDO MIGROS

Pagine 2 / 4 – 5

SOCIETÀ Pagina 3

I sogni possono rivelare preoccupazioni condivise e una dimensione inconscia collettiva

Gli obiettivi di Vladimir Putin e il ruolo sempre più decisivo della Cina nella guerra in Ucraina

ATTUALITÀ Pagina 15

Elisabetta Bursch svela l’armonia degli opposti in una mostra unica a «Il Deposito» di Cugnasco

CULTURA Pagina 19

Le Alpi, Eden ma anche insidia

Reportage tra fichi strangolatori e tiki, dove il tempo racconta l’immobilità delle Cook Islands

TEMPO LIBERO Pagine 30-31

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Il vizio della democrazia

«La sera prima del suo settantesimo compleanno il poeta Gottfried Keller si trovava sulla terrazza di un albergo sopra il Lago dei Quattro Cantoni e sorseggiava una bottiglia di Gumpoldskirchner, lo sguardo rivolto all’imbrunire. (…) Il Seelisberg, adagiato nel cuore della Svizzera sul fianco di una roccia scoscesa, era una signorile stazione climatica, frequentata da una distinta clientela proveniente da tutta Europa, perfino da Oltreoceano; solo gli Svizzeri non la prendevano molto in considerazione». Dovessimo seguire lo sguardo di Gottfried Keller (considerato fra i grandi autori del Paese, grazie anche a Enrico il Verde e Romeo e Giulietta al villaggio) in questo racconto del 2000 firmato dall’autore svizzero Thomas Hürlimann e intitolato Il bicchiere del tramonto, probabilmente troveremmo ancora, a distanza di 136 anni, proprio quel medesimo paesaggio che spesso e volentieri si usa rispolverare il Primo Agosto.

Gli stessi scorci spettacolari e imponenti che videro la nascita dell’embrione di quella che sarebbe diventata la nostra Confederazione, cuore dell’immaginario collettivo generale, nonché location di sempre più film bollywoodiani e profili Instagram (con rischio, ormai anche dalle nostre parti, di indiscriminato overtourism). Al di là di qualsiasi prospettiva bucolica, però, e di estemporanee adunate agostane intorno a una griglia con l’attesa emozionata dei discorsi dei politici e dei fuochi d’artificio, la Festa nazionale può diventare anche occasione di riflessione condivisa. In un’epoca tutt’intorno a noi sempre più belligerante, infatti, non è stato rispolverato solamente un certo linguaggio, con termini come «difesa» e «riarmo», ma anche concetti complessi come «democrazia» e «neutralità», sulle cui accezioni si è lungamente dibattuto. Senza volere prendere in considerazione incer-

tezze e scandali, che a intervalli più o meno regolari contrappuntano il tutto sommato placido incedere politico elvetico, alle nostre latitudini la democrazia parrebbe godere di una salute perlomeno buona. Non ci spingeremmo comunque a definirla solida, poiché, come ci stanno dimostrando diversi scenari dello scacchiere internazionale, non è nella sua natura quella di essere solida, né tantomeno inattaccabile o inestinguibile. La democrazia, infatti, può venire in qualsiasi momento ribaltata o erosa dall’ego di un (imprevedibile) despota, così come da una classe politica – democraticamente eletta – determinata a calpestare anche il più basico dei diritti umani, come casa, cibo e sanità.

Conviene dunque difenderla in toto, accettando perfino il compromesso, purché la sua struttura contempli la capacità di rispettare costituzione, stato di diritto, libertà individuale e

di stampa, eguaglianza politica, e via dicendo, poiché, alla resa dei conti, rappresenta la miglior forma di coesione possibile per il maggior numero di persone e, soprattutto, non è passibile unicamente di peggioramenti, ma anche di miglioramenti, essendo per sua natura composta da chi la pratica. O per dirla con le parole di Winston Churchill, mutuandole da un suo discorso del 1947 passato alla storia, «Se è vero che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre forme che si sono sperimentate sinora, è bene che diventi un vizio, nella speranza che sia difficilissimo poi smettere». Una speranza che ci farebbe comodo, a pochi giorni dal prossimo Primo Agosto, per rinnovare un augurio al Paese, quello, se necessario, di diventare sempre più «vizioso», poiché nessun tipo di progresso può considerarsi tale al netto del processo democratico.

Orazio Martinetti Pagina
Simona Sala
Photoglob
Zürich

«Gli agricoltori devono poter vivere del loro lavoro»

Info Migros ◆ Il direttore generale di Migros Mario Irminger incontra il presidente di IP-SUISSE Andreas Stalder Jörg Marquardt

Dai campi alla Migros: questo è il percorso della maggior parte dei prodotti agricoli svizzeri. Il direttore generale della Migros, Mario Irminger, recentemente è andato nella direzione opposta: accompagnato da un tempo estivo splendido, ha fatto visita ad Andreas Stalder, presidente di IP-SUISSE, nella sua fattoria a Höchstetten-Hellsau, vicino a Berna. Il giornale «Schweizer Bauer» ha organizzato la riunione di vertice tra campi di mais e strisce fiorite.

Da circa 30 anni Migros collabora con l’associazione delle contadine e dei contadini che producono in modo ecologico e rispettoso degli animali. È anche il maggior acquirente dei suoi prodotti, riconoscibili dal logo con la coccinella. Per Irminger, IP-SUISSE è un marchio eccellente: «Si rivolge a un’ampia clientela in Svizzera».

Che cos’è IP-SUISSE?

Inoltre, mette da parte i timori che la Migros possa aumentare la pressione sui prezzi applicati dai produttori.

Migros, che è il maggior acquirente dei prodotti di IP- Suisse, riconoscibili dal logo con la coccinella, assicura che non metterà pressioni sui prezzi

Questi timori sono sorti dalla campagna nazionale dei prezzi bassi lanciata a ottobre 2024. La Migros offre ora oltre 1000 prodotti di uso quotidiano a prezzi da discount, tra cui frutta e verdura. «Queste riduzioni dei prezzi non vanno a discapito degli agricoltori», assicura Irminger, ma devono essere finanziate migliorando l’efficienza interna e concentrandosi sul core business.

È l’associazione delle contadine e dei contadini impegnati nella produzione integrata in Svizzera, ovvero un’agricoltura rispettosa degli animali e dell’ambiente. Attualmente circa 10’500 aziende agricole producono secondo le direttive IP-SUISSE. Il risultato sono prodotti accessibili e di alta qualità. La Migros collabora con le aziende agricole di IP-SUISSE da quasi 3 0 anni e ha in assortimento quasi 1900 articoli che recano il logo con la coccinella.

I 150 soci dell’ATTE del Mendrisiotto che si sono dati appuntamento giovedì 17 luglio sul Monte Generoso. (Mara Venco)

25 anni di Migros

Anniversari ◆ L’azienda si congratula e ringrazia

Andrea Skory

Fra le collaboratrici e i collaboratori che quest’anno festeggiano un importante anniversario, vi è anche Andrea Skory, responsabile della logistica di Migros Ticino. Da un quarto di secolo Skory si occupa del dipartimento operativo dell’azienda. Anche a lui, da parte di Migros Ticino e della redazione di «Azione», giungano le congratulazioni più genuine per l’importante traguardo raggiunto.

I 150 soci dell’ATTE del Mendrisiotto, guidati da Sergio Bernardi e Giorgio Comi, hanno scelto il Monte Generoso come meta per una giornata speciale, trascorsa tra natura, buon cibo e panorami mozzafiato. Ad accompagnare la giornata c’erano anche i Corni dal Generus con la loro musica tradizionale.

L’Associazione Ticinese Terza Età (ATTE) è stata fondata il 25 ottobre 1980 da un gruppo di anziani con l’obiettivo di offrire alle persone non più giovani occasioni di aggregazione per ampliare i rapporti sociali, rafforzare le amicizie, favorire forme di solidarietà e stimolare lo sviluppo di interessi culturali e manuali.

Dopo 45 anni di attività, ATTE può contare su 14 centri diurni (12 socio-ricreativi e 2 socioassistenziali) gestiti in collaborazione con l’Ufficio

degli anziani e delle cure a domicilio del DSS e su una rete di 11’000 iscritti e 600 volontari.

Sergio Bernardi, Presidente della sezione di Chiasso, ha condiviso il suo pensiero sull’importanza di questa realtà: «ATTE è un’associazione con oltre 11’000 soci nel Canton Ticino che, attraverso l’impegno dei volontari, sostiene l’aggregazione e l’integrazione intergenerazionale, promuovendo la dignità e i diritti, nonché il benessere fisico e psicologico delle persone, in tutte le stagioni della vita. Siamo felici di vedere tanta partecipazione, in un momento dell’anno, dove gran parte delle nostre attività sono in pausa estiva. In quest’occasione, abbiamo preso “due piccioni con una fava”… Infatti, non capita spesso che due importanti realtà del territorio festeggino insieme due prestigiosi traguardi come i

100 anni della Migros e i 45 anni di ATTE. Abbiamo così avuto l’idea di trascorrere insieme questa bella giornata, favorita anche dal tempo e soprattutto grazie all’ottima collaborazione di tutto lo staff delle Ferrovie del Monte Generoso.»

Racconta entusiasta Giada Padovan, Vice Manager del Fiore di pietra. «L’energia dei partecipanti ci ha ricordato quanto sia importante condividere momenti come questi. Vi aspettiamo ancora, con il fresco della montagna, il nostro cibo genuino e il panorama mozzafiato!»

Il Monte Generoso, con la sua atmosfera unica, si conferma ancora una volta come un luogo ideale per creare ricordi indimenticabili, per tutte le età.

Info www.montegeneroso.ch

Andrea Skory, quale è il suo ruolo all’interno di Migros Ticino? Dopo vent’anni che mi hanno visto impegnato in veste di responsabile del servizio Tecnico e Manutenzione, da cinque anni a questa parte sono responsabile dei servizi Logistici.

25 anni sono un quarto di secolo: cosa le piace maggiormente del suo lavoro dopo tutti questi anni?

Del mio lavoro apprezzo soprattutto la possibilità di poter portare la mia esperienza e le mie conoscenze nei progetti aziendali, come altresì riuscire a far evolvere professionalmente i miei collaboratori.

E quali sono le sfide che l’aspettano per i prossimi 25 anni?

Visto l’avvicinarsi della pensione mi auguro di restare in salute e in forma vivendo ogni giorno al meglio.

E a Migros, cosa augura nell’anno dell’anniversario?

Auguro a Migros di mantenere i principi del nostro fondatore Gottlieb Duttweiler e di avere sempre un occhio di riguardo per il nostro territorio.

Per lei personalmente cosa rappresenta Migros? Migros mi ha favorito nello sviluppo professionale, permettendomi di portare innovazione e miglioramenti continui i quali hanno fatto sì che andassi al lavoro ogni giorno motivato e contento.

Andreas Stalder, presidente di IP-Suisse, con il direttore generale di Migros Mario Irminger a Höchstetten-Hellsau. (Jorma Mueller)
Andrea Skory Lavora per Migros Ticino dal 1. luglio del 2000

SOCIETÀ

La noia fa bene

Spesso consideriamo negativamente i momenti «vuoti», eppure la noia stimola la creatività

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Prendersi cura di chi cura

La campagna della SUVA a favore della movimentazione intelligente dei pazienti

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Gli anziani e lo smartphone

Digital Seniors 2025, lo studio di Pro Senectute sull’uso delle tecnologie digitali tra gli over 65

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Istantanee dei trasporti

Cosa ci dicono i dati statistici svizzeri su incidenti e vittime della circolazione

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Sognare per migliorare il mondo

Intervista ◆ I sogni non sono solo un’esperienza individuale, ma rivelano preoccupazioni condivise. Conoscendoli possiamo agire sulla realtà, attraverso il social dreaming

Stefania Prandi

Da dove vengono i sogni? E in che luoghi ci portano? Da sempre i sogni sono stati usati per aiutare gli esseri umani a immaginare il futuro e a comprendere il passato. Non sono, però, soltanto un’esperienza individuale, che viviamo nel privato, ma possono diventare rivelatori di preoccupazioni condivise all’interno di una comunità. E permettono di accedere a una dimensione inconscia collettiva. Tiziana Liccardo, psicologa e psicoterapeuta all’Università degli Studi di Napoli Federico II, ha scritto un manuale tra teoria e pratica sul tema, intitolato Social Dreaming Matrix (FrancoAngeli).

Il social dreaming è una tecnica di lavoro in cui i partecipanti condividono sogni in uno spazio chiamato «matrice»

Tiziana Liccardo, perché i sogni sono importanti?

Il padre della psicoanalisi, Sigmund Freud, ha definito i sogni «la via regia» per accedere all’inconscio. I sogni sono importanti perché ci aiutano a entrare in contatto con parti profonde di noi stessi, spesso fuori dalla coscienza. Freud li definiva una sorta di «ponte» perché possono fare riemergere pensieri, emozioni o ricordi che durante il giorno tendiamo a mettere da parte o a ri-

muovere. Oggi, grazie al contributo delle neuroscienze, abbiamo anche conferme biologiche di questo processo. Quando cerchiamo volontariamente di non pensare a qualcosa, il cervello «attiva» certe aree e ne mette in «stand-by» altre. Nei sogni si accendono le zone legate alla memoria e si «disattivano» quelle del controllo razionale. Sembra, quindi, che il sogno favorisca il ritorno di ciò che normalmente cerchiamo di tenere lontano. In più, studi recenti suggeriscono che esiste una continuità tra le fantasie che facciamo da svegli e quelle che viviamo quando dormiamo. In altre parole, sognare è un modo naturale e creativo che la mente ha per elaborare ciò che viviamo, anche quando non ce ne rendiamo conto.

Che cos’è il social dreaming e come funziona?

È un metodo innovativo sviluppato da Gordon Lawrence negli anni Ottanta del secolo scorso. Il social dreaming prevede di utilizzare i sogni per esplorare l’inconscio collettivo e comprendere meglio il contesto sociale, culturale o organizzativo in cui viviamo. È una tecnica di lavoro in cui i partecipanti condividono sogni (recenti o passati) in uno spazio chiamato «matrice», il luogo simbolico e fisico dove si svolge la sessione. L’obiettivo di una matrice di social dreaming non è interpretare

i sogni in chiave personale, ma scoprire connessioni, simboli e significati che emergono a livello collettivo. I partecipanti sono invitati a raccontare liberamente e ad associare immagini e pensieri ai sogni, creando una rete di connessioni che può rivelare temi sociali, emozioni e intuizioni comuni. Conclusa la «matrice» si raccolgono i temi emersi in modo da offrire spunti di riflessione e ipotesi di lavoro dalle quali partire per immaginare nuove possibilità di relazione e di intervento.

Che interventi si possono fare a livello sociale «leggendo» i sogni?

I sogni offrono uno stimolo per la riflessione e il cambiamento e vengono utilizzati come punto di partenza per pensare insieme. Il social dreaming consente di lavorare in contesti istituzionali, organizzativi ed educativi, per favorire la consapevolezza e la creatività. La lettura collettiva dei sogni permette di ricavare spunti preziosi per interventi sociali in diversi ambiti. I sogni sono in grado di rivelare ansie diffuse, desideri collettivi o tensioni nascoste in una comunità, nei contesti di crisi sociale e di cambiamento culturale, per cogliere ciò che le persone sentono ma non sempre riescono a esprimere. In ambito formativo, il lavoro con il social dreaming è utile nelle scuole e nei corsi di alta formazione. Nelle aziende o negli enti pubblici, il

social dreaming può essere impiegato per esplorare dinamiche organizzative, conflitti latenti o intuizioni creative. E favorisce il pensiero laterale e la trasformazione culturale interna. I sogni possono essere utilizzati anche nella ricerca sociale e nella progettazione partecipata. Nel mio libro ho riportato un’esperienza interessante a cui hanno partecipato studenti neurodiversi per discutere del complesso e delicato tema della sessualità nelle persone con disturbo dello spettro autistico.

Che cosa ci rivelano i sogni?

I sogni son desideri, diceva una canzone di qualche anno fa, ma sono anche rivelatori di paure, conflitti e angosce. E nel caso del social dreaming, rivelano dinamiche presenti nei contesti in cui siamo costantemente immersi e nella società più ampia. I sogni non sono una cartina tornasole soltanto del sognatore, ma riflettono anche il suo mondo di appartenenza. Condividere in gruppo le proprie visioni notturne individuali, permette agli psicologi di cogliere temi ricorrenti che possono indicare preoccupazioni collettive per crisi ambientali, cambiamenti culturali, conflitti sociali ed eventi bellici. Attraverso i sogni utilizzati in chiave sociale abbiamo accesso all’inconscio collettivo che può contenere intuizioni, simboli e significati che riguardano l’intera comuni-

tà, l’organizzazione o l’istituzione a cui si appartiene.

Che benefici porta il social dreaming? Aiuta a sostenere l’incertezza, favorisce il dialogo libero senza pregiudizio, promuove la conoscenza condivisa e facilita il cambiamento organizzativo e sociale. Ad esempio, può migliorare la comprensione delle dinamiche di una organizzazione lavorativa, aiutare ad affrontare i conflitti latenti e stimolare innovazione nei contesti lavorativi o istituzionali. Nel mio libro ho riportato un’esperienza in un contesto di formazione per medici odontoiatri. Durante quella sessione, i partecipanti hanno condiviso sogni che riflettevano le loro preoccupazioni e ansie professionali soprattutto per la comunicazione della diagnosi di alcuni tipi di malattie. Attraverso la lettura collettiva dei loro sogni, siamo stati in grado di fare emergere prospettive che hanno permesso di superare le differenze individuali e di sviluppare nuove strategie per affrontare le sfide lavorative. Questa è solo una delle applicazioni che ho avuto modo di sperimentare. In un’azienda in crisi, ad esempio, i sogni hanno mostrato le angosce più diffuse dandoci modo di progettare interventi di supporto. E in un team creativo, hanno portato alla nascita di idee nuove e connessioni inaspettate.

Un 1º agosto tutto da assaporare

Attualità ◆ Alla Migros non mancano i prodotti tipici per celebrare con gusto e passione la Festa nazionale svizzera

Tra pochi giorni si celebra la nostra Festa nazionale, tra discorsi ufficiali, feste popolari e momenti conviviali con amici e parenti. Un grande classico di questa ricorrenza è per molti costituito dal brunch del 1° agosto, dove ci si riunisce in tarda mattinata in tutto relax per gustare sia piatti dolci sia salati. Una delle specialità che non può mai mancare in questa occasione, è per esempio la brioche del 1° agosto, un’autentica prelibatezza di pasta lievitata al burro dal caratteristico intaglio a forma di croce svizzera. Si ritiene che essa sia stata prodotta per la prima volta verso la fine degli anni Cinquanta del secolo scorso. La sua tipica forma non è solo bella da vedere, ma anche una funzione pratica: infatti, può essere facilmente divisa spezzandola con le mani lungo le incisioni, senza dover per forza usare il coltello. Inoltre, viene decorata con una bandierina svizzera. Grazie al suo sapore né troppo dolce né troppo salato, la brioche può essere gustata abbinata a un’ampia gamma di ingredienti, sia salati sia dolci, come affettati, salmone, formaggi, marmellata, miele o creme da spalmare al cioccolato. Accanto alla brioche, alla Migros sono disponibili anche altri irresistibili dolcetti realizzati ad hoc per il 1° agosto, nella fattispecie millefoglie, moretti, tortine alle mandorle, discoletti e dolci al cucchiaio.

Piccole bontà dalla Svizzera

Stagionalità ◆ Le bacche di provenienza indigena sono ora di stagione. Tra queste, questa settimana alla Migros vi proponiamo i lamponi in offerta speciale

Tra le bacche di provenienza svizzera, come mirtilli, more e ribes, i lamponi occupano un posto di rilievo per le loro proprietà.

Le bacche svizzere sono di stagione!

Grazie al loro caratteristico sapore dolce e leggermente acidulo conquistano il palato di bambini e adulti, sia consumati al naturale sia utilizzati per preparare un ampio ventaglio di ricette, dalle confetture ai sorbetti, dagli sciroppi ai frullati fino ai dessert più golosi. I lamponi svizzeri sono coltivati con metodi particolarmente rispettosi dell’ambiente e offrono un’eccellente qualità. Quest’anno l’Associazione Svizze-

ra Frutta si aspetta un buon raccolto di lamponi indigeni, con una stima di produzione che supera le duemila tonnellate. Per garantire una qualità costante e una migliore pianificazione delle colture, i lamponi come le altre bacche vengono oggi coltivati nei tunnel o nelle serre. In questo modo le piante sono anche meglio protette da malattie e parassiti, riducendo sensibilmente l’utilizzo di prodotti fitosanitari. Le bacche svizzere vengono raccolte al giusto grado di maturazione e i tempi di trasporto verso i negozi sono brevi. Per questo è possibile apprezzarli nel pieno del loro aroma e dei loro benefici nutrizionali.

Brioche del 1° agosto 100 g Fr. 1.55, 400 g Fr. 3.65
Millefoglie del 1° agosto 2 pezzi/200 g Fr. 3.50
Tortine alle mandorle del 1° agosto 212 g Fr. 5.60
Coppa svedese del 1° agosto 100 g Fr. 2.95
Moretti del 1° agosto 2 pezzi/160g Fr. 5.60
Discoletti del 1° agosto
g Fr. 7.10
L’assortimento
completo
è in vendita
nelle
maggiori
filiali
Migros

Delizia per la griglia

Attualità ◆ Il tomino del boscaiolo con speck è un grande classico dell’estate, capace di mettere d’accordo sia gli amanti della carne sia del formaggio

Voglia di un piatto in grado di combinare alla perfezione la dolcezza del formaggio a pasta molle con la tipica sapidità di un salume stagionato?

Allora il tomino del boscaiolo avvolto con dello speck è la soluzione azzeccata, capace di accontentare anche i palati più difficili. Passato per qualche minuto sulla griglia ben calda, oppure in alternativa anche in padella, avendo cura di girarlo più volte con l’ausilio di una pinza per evitare che si bruci o si sciolga troppo, regala un’esperienza culinaria indimenticabile.

Il tomino del boscaiolo si prepara alla griglia in pochissimi minuti

Originario del Piemonte, il tomino è un formaggio a pasta morbida e compatta, con crosta fiorita, dal sapore dolce e delicato. Lo speck, dal canto suo, è un salume tipico dell’Alto Adige, realizzato a partire da cosce di maiale, dal gusto pronunciato e speziato, con note affumicate. Insomma, un tale abbinamento gastronomico non poteva essere più che azzeccato. A proposito, il tomino del boscaiolo con speck questa settimana è in offerta speciale alla tua Migros. Sarebbe peccato non approfittarne.

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La noia è sana e stimola la creatività

Psicologia ◆ Troppo spesso interpretata negativamente, la noia ha anche tanti lati positivi, basta saperli cogliere

Alessandra Ostini Sutto

Ha dato il nome alla canzone vincitrice del penultimo Festival di Sanremo, un sentimento che generalmente tendiamo a rifuggire, ma che la sua interprete – Angelina Mango – accoglie invece come un trampolino di lancio verso qualcosa di nuovo, come un’occasione di rinascita. Stiamo parlando della noia, la cui usuale concezione viene quindi ribaltata dal testo, riguardo al quale la cantante ha affermato in un’intervista a Radio Deejay: «Non si deve aver paura della noia: va accolta, è importante, così come tutti i sentimenti che ci portano giù, in fondo. C’è una risalita, sempre. La noia non va combattuta: è tempo prezioso da dedicare a noi stessi».

Di un’idea simile sembrano essere pure alcuni ricercatori, i quali con i loro lavori hanno messo in luce come la noia sia una condizione necessaria alla salute mentale nonché – seppur in apparenza possa sembrare un paradosso – un ingrediente irrinunciabile per il corretto funzionamento dei processi creativi.

Michelle Kennedy e Daniel Hermens, ricercatori nel campo della salute mentale alla University of the Sunshine Coast, in Australia, hanno a tal proposito spiegato su «The Conversation» come la sovrastimolazione tipica della nostra epoca possa essere molto costosa a livello cerebrale: «Quando siamo stressati a causa dell’acquisizione continua di informazioni o del fatto di dover passare da un’attività all’altra, il sistema nervoso simpatico può esserne sopraffatto e farci provare uno stato di sovreccitazione che può aumentare il rischio di ansia. In questo senso, lo stato di noia può considerarsi una sorta di “reset” per tale sistema nervoso». E non è tutto: concedere alla nostra mente una «sana dose» di noia sembra avere come effetto un aumento della creatività, dell’indipendenza di pensiero, della ricerca di interessi altri rispetto agli stimoli esterni più immediati.

A poco a poco abbiamo iniziato a considerare i momenti vuoti come non efficaci, e quindi da riempire a tutti i costi

A tal riguardo, la dottoressa Sandi Mann della britannica University of Central Lancashire ha condotto una serie di esperimenti volti proprio a studiare l’effetto di noia e distrazioni sul lavoro creativo. In uno di questi esperimenti, Mann chiedeva a un gruppo di studenti di svolgere un compito ripetitivo e poco stimolante come copiare numeri di telefono da una rubrica. In una seconda fase, a questo gruppo e a un secondo, che aveva passato il tempo svagandosi e facendo quello che voleva, veniva chiesto di trovare il maggior numero di utilizzi possibili per due tazze

di plastica. Il risultato? Il gruppo che aveva riscritto i numeri della rubrica si rivelava sempre il più inventivo. Ricerche come queste ci fanno capire come sia importante concederci delle soste che ci aiutino poi a valorizzare ed eseguire al meglio i compiti che necessitiamo di svolgere. La noia, quindi, è un buon carburante per generare creatività, seppur comunemente la viviamo come uno spiacevole mix di senso di vuoto, demotivazione e malinconia, di cui facciamo esperienza quando ci sembra che attorno a noi non ci sia niente di interessante da fare, oppure – come visto – quando siamo costretti a svolgere un compito monotono, il che ci porta a sentirci anche inutili. Oltre a ciò, la noia altera il nostro senso del tempo, facendo percepire come ore quelle che in realtà sono minuti. Per tutti questi motivi cerchiamo di evitarla e in questo, oggi, sono due gli elementi che ci vengono in aiuto, e cioè lo stile di vita e la tecnologia. Nel tempo siamo, infatti, passati a considerare i momenti vuoti come non efficaci, e quindi da riempire a tutti i costi, così che le nostre vite, e quelle dei nostri figli, si trovano a essere strutturate in modo da non prevedere più spazi per la noia; dobbiamo sempre avere qualcosa da fare o da pensare. A ciò si aggiunge il fatto di avere costantemente a portata di mano i dispositivi connessi, ai quali siamo abituati a rivolgerci se abbiamo anche solo pochi minuti di «vuoto», per appagare il bisogno di essere sempre aggiornati o assaporare la

gratificazione istantanea che i social sono in grado di darci.

Anche i ragazzi, oggi, sembrano non avere il diritto di annoiarsi: «Scuola, impegni, sport, tutto è organizzato, tutto è definito – afferma Jessica Gennari Weber, psicologa, psicoterapeuta e psiconcologa – credo che dietro alla volontà dei genitori di “tenere i figli occupati” ci sia un’intenzione benevola, ma che forse la vera ragione sia che essi non sono in grado di gestirli, non ne hanno voglia o semplicemente non ci pensano, con il risultato che, volendo evitare che i ragazzi si annoino, si corre il rischio di non rispettarne i reali desideri». Paradossalmente però, i giovani di oggi non si annoiano necessariamente meno di quelli delle generazioni precedenti. Un po’ perché – come detto in precedenza – l’eccesso di stimoli può in realtà rivelarsi controproducente; essere continuamente esposti a informazioni di vario tipo, può infatti rappresentare un sovraccarico che a sua volta può portare ad un blocco, un po’ – di nuovo – a causa di cellulari e pc, che bambini e ragazzi – e non solo –tendono a usare proprio, e anche, in quei pochi momenti in cui non hanno da fare.

Ma siamo davvero sicuri che la tecnologia riesca a non farci sentire la noia? «Il web e i social riempiono gran parte del nostro tempo, togliendo tempo al tempo, limitando e a volte alterando la nostra visione e percezione del mondo, della vita, delle relazioni interpersonali. Che si tratti di bambini, ragazzi o adulti,

giochiamo, socializziamo e ci identifichiamo attraverso lo schermo, dove tutto è preconfezionato e sempre a disposizione, senza fare alcuno sforzo, creando inconsapevolmente noia nella noia e subendola passivamente. Tale condizione rende difficile l’iniziativa, coltivare interessi e talvolta mettersi nella semplice condizione di immaginare o sognare», continua la psicoterapeuta. Una situazione ben diversa – se restiamo focalizzati sui ragazzi – rispetto al passato: «Se pensiamo anche solo alla mia generazione, a una quarantina di anni fa, quando i genitori davano poche regole – “torna per quell’ora”, “non andare troppo lontano”, “stai attento”,… – che venivano però rispettate incondizionatamente, i giochi si creavano, si inventavano situazioni, ruoli, avventure e il tempo scorreva veloce tanto che non c’era spazio per annoiarsi, tranne forse per i pranzi o le cene dove si era costretti a stare in mezzo agli adulti, ma allora bastava vedere qualcuno della propria età per stravolgere la serata e creare dal nulla una nuova avventura», racconta Jessica Gennari. Per fare in modo che i nostri ragazzi – e non solo loro – ritrovino un po’ di questa iniziativa, bisognerebbe forse metterli – e mettersi – nella condizione di potersi annoiare, banalmente tenendo in tasca il proprio smartphone o accettando la possibilità di passare del tempo senza nulla da fare. Questo consentirebbe infatti di rivolgere l’attenzione verso di sé e di potersi così connettere meglio con

i propri pensieri, le proprie idee ed emozioni, oltre che di avere la possibilità di riordinare e rielaborare quanto vissuto.

Di fronte a momenti di questo tipo, è importante però lasciare a bambini e ragazzi la possibilità di gestirli in autonomia, per consentire loro di imparare ad affrontare e trasformare una condizione che si può percepire come spiacevole in un fattore positivo, di consapevolezza e creatività. La noia va infatti vista come una spinta a cambiare una situazione non soddisfacente che si sta vivendo, tirando fuori la propria curiosità e inventiva. «Il web e i social riempiono gran parte del nostro tempo, togliendo tempo al tempo, limitando e a volte alterando la nostra visione e percezione del mondo, della vita, delle relazioni interpersonali».

«La noia la posso immaginare come una medaglia a due facce, una positiva e l’altra meno: sta a noi avere la “voglia” di girarla più o meno a nostro favore», commenta Jessica Gennari. Del lato positivo abbiamo appena detto; esso coincide cioè con l’opportunità di esplorazione e crescita, stimolando una condizione di auto-riflessione. Per quel che riguarda invece il lato negativo, la noia può influenzare il nostro modo di comportarci; per esempio facendoci banalmente mangiare più del necessario oppure guidare a una velocità superiore a quella consentita. Inoltre, essa può influire negativamente sulle prestazioni scolastiche e lavorative ed essere collegata a una maggiore propensione a comportamenti a rischio, tra cui il gioco d’azzardo e l’abuso di sostanze. «La noia può portare a una serie di effetti negativi anche a livello psicologico, causando talvolta ansia, insoddisfazione e frustrazione. Oltre a ciò, può rendere le persone inerti o irritabili e accrescerne il senso di costrizione, specie nelle situazioni che non si possono modificare e in cui ci si sente intrappolati – spiega la psicoterapeuta – questo si è visto bene con il Covid, che ha spinto le persone a fare i conti con ciò che non potevano più fare, limitandole in tutto, in un senso, appunto, di costrizione. Tornando all’idea delle due facce della noia, in quei mesi di isolamento personale e sociale le persone hanno però pure sperimentato questa condizione come un’occasione per trovare delle alternative, delle idee per occupare il tempo in modo creativo essenzialmente “facendo cose”. Cose che, peraltro, per i nostri nonni erano attività normali e quotidiane, come preparare il pane in casa, inventare dei giochi, condividere momenti riempiendoli di gioia e divertimento».

Prendersi cura degli altri prendendosi cura di sé

Salute ◆ Durante la «movimentazione» dei pazienti è importante prevenire il sovraccarico biomeccanico e garantire la sicurezza degli operatori dei servizi di cura e assistenza

«Mi sono chinata per aiutare un paziente ad alzarsi dal letto. Un movimento come tanti, ma quella volta ho sentito una fitta alla schiena. Non ho più lavorato per settimane». È una testimonianza come molte altre, ma ogni volta lascia il segno.

Di fatto, quante volte un infermiere (o un qualsiasi altro operatore sanitario) si piega male per aiutare un paziente a mettersi a sedere? Quante volte un movimento sbagliato può compromettere anni di carriera? Dietro a un gesto quotidiano può nascondersi un rischio spesso sottovalutato.

La movimentazione dei pazienti è un’attività quotidiana fondamentale per chi lavora in ambito sanitario, ma spesso anche una delle più rischiose per gli operatori.

Secondo la SUVA i disturbi a schiena e spalle rappresentano una reale insidia per il personale di cura

Con l’obiettivo di ridurre al minimo i rischi per chi lavora in prima linea nella cura delle persone, la SUVA (Istituto svizzero per l’assicurazione contro gli infortuni) ha la peculiarità esclusiva di coniugare prevenzione e riabilitazione con l’assicurazione, e in quest’ottica ha elaborato programmi formativi mirati. Per comprendere cosa prevedono queste linee guida, e l’impatto concreto del cambiamento che possono esercitare sulla sicurezza e la salute su lavoro, abbiamo intervistato Elisabetta Cogotzi (direttrice Forum GSA Ticino: «Gestione salute in azienda») e la specialista del team Ergonomia Suva Fabia Dell’Era. A quest’ultima abbiamo chiesto di contestualizzare dapprima l’ambito in cui affonda le radici la campagna SUVA di sensibilizzazione sulla movimentazione dei pazienti: «Partiamo dal presupposto che i disturbi a schiena e spalle rappresentano

una reale insidia per il personale dei servizi di cura e assistenza, proprio a causa del sovraccarico biomeccanico dovuto a una movimentazione non adeguata delle persone a mobilità ridotta. Quindi, ad esempio, i disturbi a schiena e spalle sono molto diffusi nei lavori di cura e assistenza infermieristica e possono generare come conseguenza giorni di assenza o, talvolta, l’abbandono del lavoro stesso». Questa campagna nasce dunque: «Con l’obiettivo di preservare collaboratori e collaboratrici del settore da questo rischio, aumentando la qualità dei servizi di cura e assistenza».

Dal canto suo, la direttrice del Forum Gestione Salute in Azienda Ticino (Forum GSA) Elisabetta Cogotzi pone l’accento sul tema che, pur «relativamente nuovo nell’ambito del FGSA», va affrontato con cognizione e deve essere approfondito sotto l’egida della prevenzione e della sensibilizzazione: «Per questi aspetti, il Forum GSA funge da punto di congiunzione per attirare l’attenzione sull’importanza di un’educazione alla movimentazione intelligente nella propria azienda, coadiuvata dall’invito all’impiego sistematico di ausili alla movimentazione stessa, sempre a tutela della salute dei propri collaboratori». Secondo Cogotzi: «Sensibilizzare sull’evitare il sovraccarico biomeccanico è un essenziale strumento di prevenzione, anche perché sovente le possibili conseguenze (disturbi fisici) si manifestano sul lungo periodo: bisogna quindi pensarci oggi per prevenire le problematiche di domani, preservando in tal modo la salute degli operatori». È questo il messaggio di SUVA supportato dalle parole della direttrice del Forum GSA. L’obiettivo è prevenire le malattie professionali come, ad esempio, mal di schiena, mal di spalle, gomito del tennista, sindrome del tunnel carpale e via dicendo. Quindi, la sensibilizzazione alla movimentazione intelligente, pure

con l’uso costante di «ausili minori», vuole porre l’accento sul preservare il meglio possibile la salute dei collaboratori, ribadisce Fabia Dell’Era alla quale chiediamo di spiegare meglio cosa siano questi «ausili alla movimentazione»: «Quando parliamo di ausili, la maggior parte delle persone pensa subito al sollevatore o al verticalizzatore, mentre è a disposizione tutta una serie di ausili minori (come, ad esempio, il telino ad alto scorrimento, la tavola di transfer, il tappetino antiscivolo e l’ausilio con scaletta) che aiutano concretamente sia il collaboratore sia il paziente: al collaboratore permetteranno di preservare la salute, mentre al paziente favoriranno l’uso delle proprie risorse residue». Dunque: «Sensibilizzare sulla movimentazione intelligente significa invitare a un impiego sistematico di ausili, combinato con una modalità di lavoro orientata alla prevenzione e alle risorse: tre elementi che reggono un unico principio».

Si tratta di tre punti salienti che, mette in guardia la nostra interlocutrice, «possono variare e vanno considerati individualmente, secondo la situazione, a cominciare dalla prevenzione»: «È molto importante valutare attentamente la situazione di volta in volta, perché l’ambiente e le circostanze possono variare tanto quanto lo stato del paziente che, ad esempio, al mattino potrebbe avere più forza e risorse per alzarsi dal letto, mentre nel pomeriggio potrebbe avere meno forza nelle gambe, e in serata ancora di meno». Allora, il primo punto consiste nell’analizzare, sentire e vedere com’è la situazione: «Un esempio sulla modalità di lavoro che tiene conto della prevenzione esige che ci si renda conto dapprima dello spazio disponibile, e che sia possibile alzare il letto all’altezza adeguata». A questo proposito, Dell’Era puntualizza: «Purtroppo, il letto rialzabile a domicilio è ancora un tabu e spesso sono i pazienti (o i famigliari) a opporsi a

Ora in azione

questa soluzione, mentre gli operatori accettano la situazione anche se il limite del sovraccarico biomeccanico è superato da un bel po’. Sarebbe invece auspicabile che si riesca ad avere il letto rialzabile già dall’inizio, poiché favorisce entrambi (paziente, famigliari e collaboratore)». In seguito, si devono valutare le risorse stesse di cui il paziente può ancora disporre: «Qui parliamo dell’ottimizzazione delle proprie risorse insieme a quelle dell’assistito perché unire le reciproche potenzialità permette proprio di andare verso una mobilizzazione intelligente che tiene peraltro conto del paziente stesso, sia a livello fisico sia cognitivo. Questo, ricordandosi di verificare la sua collaborazione cognitiva: è importante assicurarsi anche soltanto del fatto che il paziente sia in grado di schiacciare un bottone in autonomia per alzare o abbassare il letto affinché l’operatore non debba adoperarsi fisicamente e manualmente».

E veniamo al terzo elemento che

prevede l’uso adeguato degli ausili già citati: «Il loro uso facilita il lavoro e riduce il sovraccarico biomeccanico del personale di cura e assistenza, a condizione che siano utilizzati in modo sistematico e corretto». Dunque, la sicurezza nella movimentazione dei pazienti è una responsabilità condivisa fra operatori, strutture sanitarie e istituzioni e non solo una questione di tecnica. Le linee guida della SUVA offrono strumenti concreti per prevenire e sensibilizzare sulla movimentazione intelligente, promuovendo in questo modo una cultura del lavoro più attenta e sostenibile. Ne sono certe le nostre interlocutrici che, per voce di Fabia Dell’Era, giungono a un’univoca conclusione: «Investire nella formazione, usare correttamente gli ausili e prendersi il tempo per fare ogni gesto in modo sicuro non è una perdita di efficienza, ma un guadagno in salute, sia per chi riceve cure sia per chi le offre». Perché prendersi cura degli altri comincia anche dal prendersi cura di sé.

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La movimentazione dei pazienti è un’attività quotidiana per chi lavora in ambito sanitario, ma spesso anche una delle più rischiose per gli operatori. (Freepik.com)

Lo smartphone ha conquistato anche gli anziani

Pro Senectute ◆ Lo studio nazionale Digital Seniors 2025 indaga l’utilizzo delle tecnologie digitali degli over 65

Persone anziane sempre più online con grande uso dello smartphone soprattutto per informarsi e mantenere i contatti sociali. È quanto emerge dallo studio nazionale Digital Seniors 2025 che Pro Senectute Svizzera ha commissionato per la quarta volta. Dal 2010 ogni cinque anni infatti la maggiore organizzazione attiva a favore degli anziani nel nostro Paese analizza il comportamento delle persone con oltre 65 anni nell’utilizzo delle tecnologie digitali. Queste ultime rappresentano una delle maggiori sfide per le generazioni più avanzate con il rischio di esclusione da tenere sotto controllo. Il recente studio dimostra però progressi sorprendenti negli ultimi quindici anni. La testimonianza che abbiamo raccolto nel nostro cantone, nel Centro diurno Ai Gelsi a Riva San Vitale, conferma come anche a 84 anni si possa essere fan dello smartphone fino al punto da non poterne più fare a meno.

Per la prima volta risulta che le persone anziane si informano più attraverso i dispositivi digitali che tramite i canali tradizionali come la televisione

Nel 2025 ad affermare di utilizzare Internet è l’89% degli intervistati, contro il 38% del 2010. L’incremento è vistoso e ormai per gli anziani essere online fa parte della routine, in particolare nella fascia d’età più giovane, fra i 65 e i 74 anni. Per chi ha più di 85 anni l’utilizzo diminuisce attestandosi al 60%. Lo studio, basato su un sondaggio rappresentativo che ha coinvolto 1455 persone in tutta la Svizzera, mostra come una parte della popolazione anziana, stimabile nel 5-10%, non ne faccia uso.

Fra queste persone non c’è sicuramente Piergiorgio Crivelli di Capolago che a 84 anni è super informato anche sulle versioni di smartphone a venire. Possiede un modello a doppio schermo che definisce in prima battuta il sostituto del televisore e un’enciclopedia. «Non posso più farne a meno – afferma – e togliermelo sarebbe come tagliarmi un braccio». Piergiorgio Crivelli ha lavorato per 42 anni nella medesima azienda di viaggi occupandosi di amministrazione e contabilità. Ha quindi utilizzato anche il computer fino al momento del pensionamen-

to, avvenuto nel 2001. Dopo diversi anni acquista il primo telefono cellulare che all’inizio come tutti utilizza solo per effettuare e ricevere chiamate. Progressivamente si adegua all’evoluzione tecnologica e oggi è presente anche su Facebook dove pubblica i suoi aforismi. «La televisione l’ho regalata, perché guardo tutto sullo schermo del cellulare per un totale di circa tre ore al giorno», prosegue Piergiorgio nel raccontare la sua quotidianità. «Però lo so usare solo per ciò che mi serve. Faccio anche molte ricerche su avvenimenti storici, in particolare misteri non risolti come l’assassinio del presidente Kennedy. In primavera ho partecipato al corso organizzato qui al centro diurno per imparare a inviare le foto. Non riesco a fare cose complicate perché fatico a tenere a mente i vari passaggi. Ho anche l’e-banking, ma lo utilizzo solo per controllare la mia situazione finanziaria e non per compiere operazioni».

E di fronte alle difficoltà come si comporta? «Quando ho un problema – risponde – per prima cosa annullo tutto e provo a rifare. Se poi proprio lo smartphone si blocca, vado nel negozio dove l’ho comprato e mi faccio aiutare». Appassionato, oltre che di aforismi, della costruzione di navicelle spaziali, il vivace signore vive solo al domicilio, guida un’auto automatica senza più utilizzare l’autostrada e sfrutta le nuove tecnologie anche per la sicurezza personale. Spiega ad «Azione»: «Porto un bracciale al polso e quando esco di casa ho con me un secondo dispositivo in modo che il telesoccorso possa sempre vedere dove mi trovo». Quanto allo smartphone, Piergiorgio già guarda con interesse al prossimo modello, ancora più performante.

Di sicuro non è il solo over 65 con questa attenzione, proprio perché lo smartphone è diventato il secondo dispositivo più utilizzato dopo il televisore (87% il primo, 75% il secondo), superando di un punto percentuale la radio. Ciò che più ha sorpreso i ricercatori dell’Alta scuola specializzata del nord-ovest della Svizzera (FHNW) e Pro Senectute Svizzera è la rapidità della svolta nel settore dell’informazione. Spiega Peter Burri Follath, responsabile della comunicazione dell’organizzazione: «Per la prima volta risulta che le persone anziane si informano più attraverso i dispositivi digitali, come smartphone, tablet

e computer (33%) che tramite i canali tradizionali come la televisione (30%), la stampa (22%) o la radio (15%)». Sul ruolo dello smartphone, il nostro interlocutore evidenzia che «la tendenza a prevalere sugli altri dispositivi si era già notata nello studio del 2020. Per molte persone lo smartphone è diventato l’accesso alla digitalizzazione». Molto utilizzati risultano anche i servizi digitali quali il bancomat (89%), il pagamento senza contatto (83%) o ancora l’acquisto di biglietti dei mezzi pubblici (62%) benché, soprattutto in questi ambiti, le competenze possono essere molto diverse in quanto le persone più giovani e con un livello di istruzione maggiore si dimostrano più ferrate. Le conoscenze permettono inoltre di aumentare la fiducia nei confronti delle applicazioni il cui utilizzo è a volte limitato dai timori legati

alla sicurezza. In crescita, infine, anche il ricorso allo streaming.

Per il portavoce di Pro Senectute Svizzera il nuovo studio mette in evidenza tre aspetti principali: «La popolazione della terza e quarta età è molto più connessa rispetto al passato, tanto che nove persone su dieci sono online. Da parte nostra salutiamo questo risultato in modo positivo, perché rappresenta un indicatore di integrazione nella società. Il problema si pone però con il grado di competenza. Quest’ultima varia molto, da chi non riesce a fare nulla a chi si destreggia in tutto. Dobbiamo prestare attenzione a questo divario, offrendo la possibilità di accrescere le competenze digitali con proposte mirate. Anche il dato relativo al mezzo digitale quale fonte d’informazione deve far riflettere, da un lato il servizio pubblico e dall’altro gli

enti che operano a favore della popolazione anziana. Bisogna infatti evitare i rischi connessi a questa scelta tipo la presenza di fake news. In generale, migliorare le competenze è importante perché favorisce un utilizzo del dispositivo sicuro, critico e a proprio vantaggio. Un altro aspetto rilevante è costituito dalla percentuale di persone in età avanzata che non utilizza le tecnologie digitali. Le limitazioni cognitive o fisiche influiscono su questa percentuale che deve mantenere il diritto di non essere connessa e poter disporre di sufficienti alternative tradizionali».

Lo studio indica che le motivazioni di coloro che non utilizzano Internet sono in via principale la mancanza di un valore aggiunto, la complessità del mondo digitale e l’offerta sufficiente dei media tradizionali. Per chi invece desidera imparare, il supporto di familiari e amici è sempre basilare. Altrettanto importanti, come indica anche Piergiorgio Crivelli, sono i corsi di formazione che a livello regionale Pro Senectute Ticino e Moesano offre da diversi anni. Corsi che sono diventati con il tempo sempre più mirati con lo smartphone a farla da padrone. Oggi hanno grande successo le proposte con esercizi pratici nell’uso delle app.

In Ticino l’anno scorso l’ente ha organizzato 33 corsi per un totale di 160 partecipanti, mentre nel primo semestre del 2025 si è già raggiunta quota 25 formazioni coinvolgendo 75 anziani. Il corso proposto al Centro diurno Ai Gelsi, ad esempio, era concepito in sei incontri, di cui una prima lezione di prova gratuita per valutare le competenze e le aspettative dei presenti. Nei successivi appuntamenti, guidati dalla formatrice Federica Bianchi, è stato approfondito di volta in volta un numero limitato di argomenti riuniti per ambiti come ad esempio comunicazione, connettività e fotocamera. Le offerte di supporto per permettere alle persone anziane di integrare le tecnologie digitali nella vita quotidiana, rimanendo così in sintonia con l’evoluzione della società, sono molteplici e mirano sempre più a rispondere a esigenze individuali. Ognuno tende infatti a utilizzare ciò che gli serve attraverso il dispositivo preferito che anche per la grande maggioranza degli anziani si chiama smartphone.

Informazioni www.prosenectute.ch

Piergiorgio Crivelli, 84 anni di Capolago, usa quotidianamente lo smartphone. (S. Hubmann)
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Il treno rimane il mezzo più sicuro

Istantanee sui trasporti ◆ Incidenti e vittime della circolazione diminuiscono ma per migliorare ancora occorrono rinnovati sforzi

Puntualmente a fine marzo l’Ufficio federale di statistica ha reso noto i risultati dei rilievi annuali sugli incidenti nel settore dei trasporti. Ciò ci offre lo spunto per dare uno sguardo generale su un tema che, purtroppo quasi ogni giorno, compare sulla stampa e nei media radiotelevisivi con commenti su eventi talvolta tragici e sempre comunque dolorosi. I dati raccolti permettono di andare un po’ oltre le impressioni e le emozioni per osservare alcune caratteristiche e linee di tendenza.

Consideriamo dapprima l’evoluzione del numero di incidenti con vittime (morti e feriti). La tendenza nel periodo 1992-2024 mostra una loro netta riduzione. Come si desume dal grafico sul piano nazionale entrambi sono diminuiti nell’ordine del 30%. Il risultato è notevole se pensiamo che nello stesso periodo la popolazione è cresciuta di una percentuale pressoché identica mentre il parco delle automobili ha registrato un balzo in avanti del 55%. In Ticino il quadro è ancora più favorevole. La contrazione ha raggiunto il 70% a fronte di un incremento demografico dell’ordine del 20% e del parco automobilistico del 40%.

Se osserviamo gli ultimi dieci anni emerge tuttavia un cambiamento di passo. Lo è evidente sul piano nazionale, dove il grande miglioramento si contrae per poi arrestarsi. Dopo il 2013 gli incidenti si sono stabiliz-

zati attorno ai 17-18’000 e le vittime (morti e feriti) attorno alle 21-22’000. In Ticino il miglioramento, pur rallentando, è stato invece continuo. Gli incidenti oscillano tra i 600 e 700 e le vittime variano tra le 700 e 800 ogni anno. A monte di questa positiva evoluzione vi sono fondamentalmente una serie di provvedimenti di natura legislativa che hanno toccato in particolare le norme di condotta (in particolare esami di guida, limiti di velocità, riduzione del tasso alcolico) così come gli sviluppi nella tecnologia applicata ai mezzi, che ne hanno incrementato la sicurezza.

Un altro aspetto interessante concerne le vittime degli incidenti secondo il mezzo di trasporto coinvolto negli eventi. Nel 2024 in Svizzera il 37% delle vittime sono stati automobilisti (40% in Ticino). Seguono chi si sposta in bicicletta con il 23% (9% Ticino), i motociclisti con il 19% (33% in Ticino) e i pedoni con il 9% (11% in Ticino). Nel rimanente 12% (7% in Ticino) troviamo ciclomotori e altri veicoli. Per quanto riguarda gli incidenti che coinvolgono le biciclette e i motociclisti nella graduatoria risalta dunque una netta differenza tra i dati a livello nazionale e quelli che si riferiscono al Ticino. La ragione è molto verosimilmente legata al maggiore uso della bicicletta oltralpe. Una tendenza che desta preoccupazione è l’incremento delle vittime che si spostano

Evoluzione degli incidenti stradali in Svizzera

in bicicletta, in particolare quelle elettriche, più veloci e quindi più impegnative da governare e l’utente meno protetto. Se consideriamo ad esempio le biciclette elettriche, rilevate a partire dal 2011, il numero delle persone coinvolte in incidenti in tutta la Svizzera, è quasi decuplicato.

Un altro aspetto tocca il luogo degli incidenti. I due terzi avvengono nelle località mentre il 26% si registra fuori dalle località; solo l’8% si verifica sull’autostrada. I dati non sorprendono e indicano dove indirizzare gli sforzi per una migliore prevenzione.

Approfittane subito!

Il rilievo statistico considera pure le cause degli incidenti della circolazione stradale (con o senza vittime). La causa principale, quasi un quarto, è imputabile alla disattenzione o alla distrazione. La seconda causa è data dall’inosservanza delle regole di precedenza (17.7%). Seguono poi la cattiva condotta (13.8%), l’eccesso di velocità (10.8%), lo stato del conducente (11.7%), il comportamento di ciclisti o ciclomotori (3.8%) e i sorpassi (3.4%). Meno del 10% degli eventi si distribuiscono su una serie di cause minori: dallo stato e manutenzione del veico-

lo a quello dell’infrastruttura, passando dalla segnaletica e dalle influenze esterne o di terzi.

L’Ufficio federale di statistica ha pure aggiornato la valutazione del livello di rischio in funzione del mezzo di trasporto utilizzato. Ha considerato un’analisi decennale: dal 2014 al 2023. Chi sale in treno viaggia più sicuro. Il rischio di decesso in base alla distanza percorsa è per l’automobile 166 volte maggiore, per chi utilizza la bicicletta (senza considerare l’e-bike) lo è 2’088 volte e per il motociclista 4’806.

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ATTUALITÀ

Come favorire la parità salariale?

Le donne guadagnano meno degli uomini ed è arduo far valere i propri diritti. Ne parliamo con Rachele Santoro e Nora Jardini Croci Torti

Pagina 14

Sull’alleanza tra Mosca e Pechino

La Cina è sempre più cruciale, non solo per le casse del Cremlino e i consumi dei russi, ma anche per il potenziale bellico

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Il velo della discordia

Dal caso di Eschenbach, dove una maestra non è stata assunta perché porta l’hijab, alla situazione ticinese

Pagina 16

Le Alpi, potente minaccia e puro idillio

Svizzera ◆ A pochi giorni dalla festa nazionale una riflessione sulla montagna, le sue logiche a volte feroci e la gente che vi abita

La montagna attira e respinge. Per molti è rifugio per sottrarsi all’afa della pianura, una sorta di Eden della frescura. Ma le vette nascondono anche insidie, e spesso franano a valle provocando disastri, sommergendo case, persone e animali. Ricordiamo i casi più recenti: Bregaglia 2017, Mesolcina e Vallemaggia 2024, Blatten quest’anno. Ma sono numerose le calamità che lungo i secoli hanno funestato l’arco alpino, dall’Est all’Ovest, dalle Alpi Marittime alle Alpi Giulie.

Dopo ogni evento si affaccia il dilemma: ricostruire per tornare oppure rassegnarsi all’esodo? Hanno sollevato polemiche alcune sortite che prospettavano l’abbandono delle vallate e dei villaggi non più considerati abitabili. Tuttavia c’è da chiedersi se alla fine l’addio alle terre alte non generi più insicurezza che tranquillità per chi sta in basso, nei fondivalle e negli agglomerati. Nel corso dei secoli, tutte le comunità alpine hanno dovuto fare i conti con la furia degli elementi costruendo ripari, canali, terrapieni e vasche di contenimento. L’esistenza di un folto e sano bosco di conifere a monte degli abitati garantiva un certo grado di protezione, come già il filosofo tedesco Hegel aveva osservato visitando nel 1796 alcune località nella valle di Orsera: «La nostra attenzione fu anche richiamata su un boschetto di abeti, situato sulle pendici di un versante del Gottardo, di cui è vietato tagliare anche un solo ramo, pena la perdita della libertà, in quanto gli abitanti lo considerano come una sorta di parete contro le slavine ch’esso arresta e di cui spezza la forza».

Lo spirito romantico

Con Hegel siamo alle porte del nuovo secolo, l’Ottocento: fase che avrebbe ispirato una notevole pattuglia di pittori e illustratori dallo spirito romantico, incantati dal grandioso spettacolo della natura. Di fatto il filosofo tedesco ricalcava le orme dei dotti, dei «savants» che da tempo si erano avventurati nel labirinto alpino con l’habitus del ricercatore. Fino al Settecento la montagna incuteva timore: era considerata ostile, impenetrabile, minacciosa, luogo inospitale e popolato da genti infide. Con il Secolo dei lumi la paura svanisce a beneficio della conoscenza, cosicché le Alpi diventano meta di escursioni e terreno di scoperte scientifiche nel campo della fisiologia, della botanica, della climatologia. Tra questi assurge a notorietà europea il bernese Albrecht von Haller (1708-1777), autore, ancora giovanissimo, di un poema destinato a larga fortuna editoriale: Die Alpen, pubblicato nel 1729

e quasi subito tradotto in francese. Haller, che fin dall’infanzia sbalordisce i contemporanei per la sua vasta e acuta intelligenza, da autentico «Gelehrte» sprofondato nei libri, eleva alla montagna che lui non cessa di perlustrare un vero e proprio inno in cui confluiscono miti, suggestioni, l’amore per la patria (di cui festeggiamo tra qualche giorno i natali). Le Alpi e la Confederazione dei tredici Cantoni formano un tutt’uno, non è possibile disgiungerle, talmente intimo e organico è il loro rapporto, nato nel tardo Medioevo e poi rinsaldato nel tempo. C’è innanzitutto il dato naturalistico che caratterizza il Pae-

se: i monti, le rupi, i laghi, i ghiacciai, le spumeggianti cascate; c’è il mondo animale che lo presidia (cervi, caprioli, stambecchi, marmotte) e c’è infine il popolo che lo abita, gli alpigiani, i pastori che non temono la fatica e che anzi svolgono le loro attività agresti in letizia, tra feste e giochi, e lontano dalle vacue ambizioni affaristiche e dal fumo delle città.

Sulle orme di Guglielmo Tell

La montagna come grembo della virtù, la città come sentina di vizi. Haller ritorna più volte nel poema su questa contrapposizione, che da quel momento diventerà uno dei temi ricorrenti nella copiosa pubblicistica di stampo patriottico, e questo fino ai giorni nostri, passando per i fortunatissimi racconti di Johanna Spyri (Heidi). Da un lato i guasti dell’industrializzazione che trasformava i quartieri operai ai piedi delle ciminiere in luoghi mefitici e malsani; dall’altra la salubrità della vita alpina, fonte di pace e di serenità. Ma nei versi di Haller è presente anche un abbozzo di una cultura politica nazionale. Ossia un elogio dell’autogoverno in continuità con le gesta di Tell, che secoli prima aveva «spezzato il giogo» dando prova di «fedeltà, coraggio e concordia». Anche qui Haller anticipa una riflessione che sarà centrale nei decenni successivi nel pensiero degli illuministi, e in particolare nell’opera di Rousse-

au. Il tema è quello della partecipazione diretta alla gestione della cosa pubblica, esercitata attraverso il «raduno all’ombra di ampie querce». Rousseau, che conosceva il poema dell’erudito bernese, inserisce questo argomento nella sua opera più celebre, Il contratto sociale (1762). Scrive il filosofo ginevrino: «Quando si vedono nel popolo più felice del mondo schiere di contadini sbrigare gli affari di Stato sotto una quercia, e regolarsi sempre saggiamente, come ci si può trattenere dal disprezzare le raffinatezze delle altre Nazioni, che si rendono illustri e miserabili con tanta arte e tanti misteri?». Rousseau conosceva la vita delle Corti francesi, lo sfarzo e le dissolutezze dei monarchi e dei loro accoliti. Nell’altra sua opera famosa, Giulia o la nuova Eloisa, pubblicata nello stesso anno, riferisce dei suoi soggiorni in Vallese, dei dialoghi con i montanari che disdegnano il denaro e si accontentano di quanto la natura offre. Se dovessero avere più soldi, nota Rousseau, sarebbero inevitabilmente più poveri. Nessun lusso ma una condotta frugale sul piano dell’uguaglianza tra domestici e padroni, che siedono allo stesso desco. «La stessa libertà regna nelle case e nella repubblica, e la famiglia è l’immagine dello Stato».

Una critica al capitalismo

Haller affronta anche la questione della disuguaglianza, della dispari-

tà («Unterschied»). Che lui biasima, definendola un’invenzione dell’orgoglio. Nel mondo alpino la disuguaglianza finisce per rendere schiava la virtù e nobilitare il vizio. L’autore, mosso dalla sua fede protestante, considera l’avidità disdicevole, un fattore corruttivo per la salute mentale delle popolazioni alpine, dove i favori non vengono scambiati «in attesa di compensi». Ancora una volta torna l’antitesi tra la campagna e la città, la prima sede di relazioni dolcemente armoniose, la seconda guidata dalla logica del guadagno. Sia pure per grandi linee, anche qui Haller anticipa contrapposizioni che saranno poi indagate analiticamente nella seconda metà dell’Ottocento dalla sociologia tedesca: città/campagna, società urbana/comunità rurale, con la prevalenza dello scambio monetario nel primo caso, del baratto in natura nel secondo. Haller come critico del capitalismo nascente? È solo un’ipotesi, che tuttavia trova molti riscontri nei versi giovanili di un genio universale quale fu Albrecht von Haller.

Bibliografia

Georg W. F. Hegel, Diario di viaggio sulle Alpi bernesi, Prefazione di Remo Bodei, Ibis, Como, 1990. Albrecht von Haller, Le Alpi A cura di Enrico Rizzi, Prefazione di Teresio Valsesia, Dadò editore, Locarno, 2024. Jean-Jacques Rousseau, Il contratto sociale Feltrinelli, Milano, 2010.

Orazio Martinetti

«Necessari controlli a tappeto e sanzioni»

Disparità salariale ◆ Le strategie da attuare secondo la delegata per le pari opportunità Santoro e l’avvocata Jardini Croci Torti

Il tempo delle donne vale meno di quello degli uomini. Lo stesso si può dire per le competenze, l’esperienza e la determinazione, a quanto pare… Questo concetto fastidioso ci ronza in testa mentre sfogliamo Le cifre della parità: un quadro statistico delle pari opportunità tra donne e uomini in Ticino dell’Ufficio cantonale di statistica (lo trovate online). Sull’edizione 2025, pubblicata lo scorso giugno, si parla di 577 franchi in meno al mese nel settore pubblico e di 720 in quello privato, dati 2022 (vedi scheda in basso). Lo stesso documento distingue la parte di divario «spiegabile» – legata cioè al livello di formazione, all’anzianità di servizio, al settore lavorativo – dalla parte «non spiegata», ovvero non riconducibile a fattori oggettivi e misurabili, quindi potenzialmente dovuta a discriminazione. «In Ticino, nel 2022, la differenza salariale tra donne e uomini non spiegata è pari all’11,1% del salario mediano maschile».

«Al momento di fissare gli stipendi è fondamentale considerare e valorizzare eventuali pause di carriera dedicate al lavoro di cura»

Andiamo oltre i dati. Esiste un articolo costituzionale preciso che recita: «Uomo e donna hanno diritto a un salario uguale per un lavoro di uguale valore» (art. 8, cpv. 3). Articolo che evidentemente non viene rispettato, ribadisce Nora Jardini Croci Torti, co-direttrice di Equi-Lab, un servizio di consulenza in materia di conciliabilità e pari opportunità con sede a Lugano (www.equi-lab.ch). «Cambiare lo stato delle cose è difficile», continua l’avvocata. «Partiamo dal fatto che non si parla volentieri di soldi e lo stipendio resta un tema tabù: non c’è nessuna trasparenza in materia e i datori di lavoro hanno ampissimi margini di manovra. Capire di essere discriminate a livello di salario è complicato: bisogna farsi avanti, raccogliere dati veritieri e prendere in mano la situazione. Molte donne non si pongono nemmeno il problema: sono contente di avere un lavoro pagato, punto, anche se meno». Con conseguenze di non poco conto: minore disponibilità economi-

ca per spese, risparmi e investimenti; maggiore dipendenza da altre fonti di reddito (partner e Stato), specie in situazioni di emergenza o in tarda età...

Per chi si rende conto di essere sottopagata, e vuole far valere i propri diritti, la strada è in salita. «La lavoratrice può infatti intraprendere un’azione giudiziaria sulla base della Legge federale sulla parità dei sessi (LPar) – che compie 30 anni – ma costa fatica. Si tratta di un grosso impegno emotivo che richiede perizie e pazienza (tempi lunghi), senza contare il dispendio di soldi, la possibilità di essere messe all’angolo, licenziate. La possibilità di perdere». Jardini Croci Torti ha seguito, al Tribunale federale, il caso di una dipendente cantonale che è stata nominata capaufficio e denunciava il fatto che due suoi sottoposti guadagnavano più di lei. Ma il tribunale non le ha dato ragione, sottolineando che i suoi colleghi lavoravano nell’ufficio da più tempo. «La maggior parte delle dipendenti accetta quindi la situazione o si cerca un impiego con un salario migliore», afferma l’intervistata. Al consultorio di Equi-Lab arrivano comunque poche segnalazioni di discriminazione salariale, forse una su circa 400 consulenze l’anno. «Di solito la lavoratrice si rivolge a noi per un licenziamento e poi si capisce che era anche sottopagata».

Ma cosa fa il Cantone su questo fronte? Ce lo spiega la delegata per le pari opportunità Rachele Santoro: «Nel 2022 ha avviato un progetto pi-

lota per promuovere la parità salariale, introducendo controlli per le aziende che operano nel quadro delle commesse pubbliche e hanno oltre 100 dipendenti (verifiche a campione, 5-6 aziende interpellate l’anno). I controlli verranno estesi alle ditte con più di 50 dipendenti, le quali spesso non dispongono di politiche salariali strutturate, una situazione potenzialmente insidiosa in ambito di parità salariale». Dal canto suo Nora Jardini Croci Torti fa notare i limiti di tali verifiche: la stragrande maggioranza delle aziende ticinesi non arriva a 100 dipendenti; è sufficiente che un’azien-

Un divario che non ha spiegazioni

In Ticino – si scopre su Le cifre della parità – «nel 2022 il salario mediano nel pubblico è di 7529 franchi per gli uomini e di 6952 per le donne, con una differenza del 7,7%». Nel settore privato si trovano stipendi generalmente inferiori e una disparità più marcata: «la mediana salariale maschile è di 5532 franchi mentre quella femminile di 4812, con un divario del 13%». Si tratta quindi rispettivamente di 577 e 720 franchi in meno al mese.

La pubblicazione rivela anche una tendenza virtuosa: «Nel 2010, in Ticino,

la mediana salariale degli uomini è di 5710 franchi, mentre quella delle donne di 4736 franchi, registrando una disparità del 17,1%. Nel 2022 invece il salario mediano degli uomini è di 5755 franchi, mentre quello delle donne raggiunge i 5272 franchi, con una differenza dell’8,4%. Il divario retributivo si è dunque ridotto grazie all’evoluzione dei salari femminili cresciuti dell’11,3%, a fronte della parallela stagnazione di quelli maschili (+0,8%).

A livello nazionale la dinamica appare simile…».

da dimostri una volta di rispettare la parità salariale per essere esentata da ulteriori controlli; chi non rispetta le regole non viene sanzionato, deve semplicemente sottoporsi a un nuovo test. «Qualcosa di più concreto andrebbe fatto: verifiche a tappeto su tutte le aziende, ad esempio, e multe oppure divieti di partecipare a gare d’appalti per chi non rispetta le regole».

Ma torniamo a Santoro: «Il Cantone è stato inoltre uno dei primi firmatari della Carta della parità salariale promossa dall’Ufficio federale per l’uguaglianza fra donna e uomo, la qua-

«Le cifre attestano che si è verificata una diminuzione complessiva della disparità salariale», commenta Rachele Santoro. «Un fatto certamente positivo, ma c’è un aspetto preoccupante da considerare: la parte del divario “non spiegata” da fattori oggettivi quali formazione, anni di servizio ecc. – potenzialmente frutto di una discriminazione – è rimasta stabile. Gli stipendi sono dunque in generale più equi, ma fattori che non si possono descrivere oggettivamente incidono in misura maggiore sul divario».

le spinge sulla sensibilizzazione (LPar e dintorni) di chi si occupa di fissare gli stipendi e di valutare le funzioni, così come dei professionisti del reclutamento, della formazione e dell’avanzamento del personale. E prevede verifiche regolari della parità salariale per mezzo di uno standard riconosciuto. Il Cantone punta molto sulla promozione dell’equità soprattutto negli ambiti parastatale, comunale, degli enti sussidiati e sta funzionando: in diversi stanno aderendo alla Carta». Guardiamo ora oltre confine: entro giugno 2026 i Paesi europei dovranno recepire la Direttiva sulla trasparenza salariale la quale implica, tra le altre cose, che le aziende sul territorio dovranno essere pronte a fornire, a chi li richiede, dati dettagliati sulla propria retribuzione rispetto a colleghi con mansioni simili. «Un interessante passo avanti», commenta la delegata per le pari opportunità, ma resta un problema: «Non si avrà accesso alle informazioni dirette sulla busta paga del proprio collega, bensì si conoscerà la media degli stipendi delle persone che svolgono mansioni simili alle nostre in posizioni equivalenti». Qualche idea per il Ticino. Santoro suggerisce l’opportunità per le aziende di procedere a una valutazione della propria struttura salariale: bisogna verificare che i sistemi retributivi utilizzati siano basati su criteri non discriminatori, oggettivi e neutri sotto il profilo del genere, e se necessario modificarli. In questo processo può essere di aiuto «Logib», un’applicazione messa a disposizione dalla Confederazione (online). «Inoltre – dice la nostra interlocutrice – al momento di fissare degli stipendi è fondamentale considerare e valorizzare eventuali pause di carriera dedicate al lavoro di cura, percorsi che sperimentano soprattutto le donne. Un esempio: una dipendente per tre anni ha scelto il part-time per accudire i figli? Quando rientra in ditta le dovrebbero essere riconosciuti tre anni di lavoro full-time (fuori ufficio ha tra l’altro acquisito competenze utili anche a livello professionale, le cosiddette soft skills). È un principio considerato da pochi datori di lavoro ma fondamentale per riuscire a ridurre la disparità». Perché il tempo delle donne vale come quello degli uomini.

La consulenza della Banca Migros ◆ La disoccupazione non compromette necessariamente la sostenibilità di un’ipoteca

Chi ha un’ipoteca deve però prendere i dovuti provvedimenti per poter far fronte ai costi mensili per gli interessi e gli ammortamenti nonché a tutte le spese di sostentamento e di gestione domestica, anche in caso di perdita di reddito. Questo vale anche, ad esempio, per le coppie che dopo la nascita di un figlio riducono il grado di occupazione per dedicarsi alla sua cura.

Se si perde il posto di lavoro, inizialmente interviene l’assicurazione contro la disoccupazione, coprendo il 70-80% dell’ultimo salario per un periodo di tempo limitato. In Svizzera l’assicurazione contro la disoccupazione garantisce solo i redditi fino a 148’200 franchi all’anno, il che significa che la perdita di lavoro con un salario più elevato comporta una riduzione proporzionalmente mag-

giore del reddito. In questo modo, spesso il reddito disponibile diminuisce e causa una lacuna non indifferente nel budget familiare.

Senza riserve sufficienti, con il tempo diventa difficile pagare le rate mensili dell’ipoteca. Per proteggere la sicurezza finanziaria della propria casa in tali situazioni esistono due opzioni.

Creare un gruzzolo d’emergenza: chi stipula un’ipoteca dovrebbe costituire un fondo di riserva pari ad almeno tre-sei spese mensili. Questo aiuta a superare le difficoltà finanziarie a breve termine e a garantire il regolare pagamento delle rate al creditore.

Assicurare l’ipoteca: i proprietari di immobili possono assicurare la lo-

ro ipoteca con speciali assicurazioni sulla vita. In caso di disoccupazione o incapacità lavorativa temporanea, queste ultime continuano a pagare gli interessi e le rate di ammortamento, a seconda del contratto e dell’assicuratore, con durate e prestazioni diverse. In questo modo il budget familiare rimane in equilibrio e il rischio di perdere l’immobile è ridotto al minimo. A proposito: l’assicurazione ipotecaria della Banca Migros copre anche in caso di decesso e di invalidità permanente. In ogni caso è importante verificare regolarmente la propria situazione finanziaria. Chi provvede per tempo può mantenere la proprietà della propria casa anche in periodi difficili, senza dover stringere la cinghia. In caso di emergenza è comunque importante contattare tempestivamente la propria banca

per trovare insieme una soluzione, ad esempio la riduzione temporanea dell’ammortamento o l’adeguamento dell’ipoteca. Nel peggiore dei casi, è anche possibile rivendere la casa ed è improbabile che ciò comporti una perdita. Infatti i prezzi degli immobili residenziali attualmente vanno in una sola direzione: verso l’alto.

Assicurare la proprietà abitativa Ulteriori informazioni su come mantenere sostenibile l’ipoteca anche in caso di eventi imprevisti:

Pubblicità di un servizio
Marcel Müller, consulente
clientela della Banca Migros ed esperto in ipoteche.
Nel 2022 in Ticino le donne guadagnavano 577 franchi in meno al mese nel settore pubblico, 720 in meno in quello privato. (Keystone)

Mosca bombarda anche case, mercati, scuole, ospedali e centri commerciali: bersagli civili, in una campagna che mira a spaventare e indebolire gli ucraini. (Keystone)

Oriente contro Occidente

Guerra in Ucraina ◆ La Cina si considera parte in causa e condivide la visione di Vladimir Putin che non intende indietreggiare di un passo

I cinquanta giorni che Donald Trump ha concesso, il 14 luglio scorso, a Vladimir Putin per accettare la tregua in Ucraina, scadono il 2 settembre. Quel giorno, il presidente russo sarà in Cina, in visita da quello che si configura sempre di più come il suo principale alleato, Xi Jinping. Le voci su un possibile vertice a tre per ora vengono smentite da Pechino, ma la scadenza dell’ultimatum – sempre che di ultimatum si tratti, e non soltanto di una uscita mediatica del presidente americano – è comunque una coincidenza simbolica. L’invasione russa dell’Ucraina ha smesso da tempo di venire percepita nel mondo come soltanto un conflitto locale di due Paesi periferici, ma ora la partita diplomatica per cercare di fermarlo si sta espandendo a livello globale.

L’escalation militare è stata la risposta di Mosca alle aperture della Casa Bianca. L’auspicata svolta di Trump sull’Ucraina è in corso

La scadenza dei 50 giorni infatti prevede l’attivazione, da parte degli Stati Uniti, di nuovi dazi contro la Russia e i suoi partner commerciali. Nel progetto della risoluzione del Congresso lanciata dal senatore repubblicano Lindsay Graham, i cosiddetti «dazi secondari» dovevano arrivare al livello astronomico del 500%, ma Trump per ora minaccia «soltanto» un 100%, anche perché in quel caso non deve chiedere l’autorizzazione ai parlamentari. Per Mosca non si tratta di una minaccia pesante: il suo interscambio con gli americani è di appena 3,5 miliardi di dollari, e riguarda essenzialmente materie prime critiche per gli Usa, come il titanio. Le sanzioni contro chi acquista petrolio e gas dalla Russia potrebbero invece rappresentare un colpo fatale: negli ultimi tre anni, le bombe cadute sulle città ucraine (e i chip importati per i droni da lanciare contro le case degli ucraini) sono state finanziate essenzialmente dal commercio con l’Asia. L’India, per esempio, ha aumentato la quota del suo approvvigionamento dalla Russia dallo 0,2% al 40%. Ma il ministro del Petrolio indiano Hardeep Singh Puri ha dichiarato che il suo Paese è «pronto a diversificare» in caso di necessità: un segnale sia a

Mosca sia a Washington sul fatto che Delhi non ha intenzione di andare allo scontro.

Puri ha comunque dismesso le minacce di Trump come strumento diplomatico: «Alcune dichiarazioni vengono fatte solo per spingere i contendenti a mettersi d’accordo». Il problema è che una soluzione negoziale appare oggi totalmente fuori dal novero delle possibilità. Il terzo incontro tra le delegazioni della Russia e dell’Ucraina, tenutosi a Istanbul il 23 luglio scorso, è durato poco più di mezz’ora, il tempo minimo per constatare «posizioni estremamente distanti», come le ha definite il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov. Mosca non ha fatto nessun passo indietro rispetto alle sue condizioni che di fatto implicano la resa dell’Ucraina, con il passaggio alla Russia di quattro regioni (oltre alla Crimea) e la sottomissione politica e militare. Volodymyr Zelensky, dal canto suo, ha insistito per riprendere il negoziato soltanto allo scopo di mostrare a Donald Trump che non è l’Ucraina quella che evita la diplomazia (e per lo stesso motivo gli ucraini a Istanbul hanno insistito per un vertice tra Zelensky e Putin, ben sapendo che i russi avrebbero rifiutato).

Difficile parlare di un accordo, del resto, se Mosca rifiuta perfino una tregua provvisoria. Giugno ha segnato una escalation di attacchi e vittime, con il numero più alto dei morti civili dalla primavera del 2022, e luglio rischia di superare il record, con quasi il 10% dei droni utilizzati dalla Russia nel corso di tutta la guerra sparati in un mese. Il generale tedesco Christian Freuding avverte che l’industria militare russa sta funzionando a pieno ritmo, nonostante gli attacchi dei droni ucraini mirati a distruggere fabbriche e magazzini. Secondo il responsabile degli aiuti all’Ucraina del Bundeswehr, presto anche raid di 2000 droni per notte potrebbero diventare realtà. Rispetto ai 300-500 lanciati oggi, si tratterebbe di uno sciame quasi impossibile da bloccare con le difese anti-aeree esistenti in Ucraina, e mentre lo «Spiegel» annuncia che i tanto agognati Patriot americani non arriveranno prima dell’anno prossimo, Freuding avverte che sono troppo costosi per «sprecarli» contro i droni. Che intanto puntano anche a case, mercati, scuole,

La voce del silenzio

Il punto ◆ La condizione delle donne beluci, iraniane, afghane e gli abusi in nome degli affari

Francesca Marino

ospedali e centri commerciali: bersagli civili, in una campagna che mira a spaventare e indebolire gli ucraini. Sul terreno intanto prosegue l’offensiva nel Donbass: di recente i primi infiltrati russi sono stati avvistati nella città di Pokrovsk, snodo logistico importantissimo per le difese ucraine. L’assedio a Pokrovsk, iniziato già un anno fa, si sta stringendo, e anche se le perdite russe, secondo le stime degli ucraini e degli occidentali, sono vertiginose, l’esercito del Cremlino avanza lentamente tutti i giorni, anche solo di 50 metri.

L’escalation militare è stata la risposta di Putin alle aperture della Casa Bianca, con il risultato che la tanto auspicata svolta di Trump rispetto all’Ucraina appare già in corso. Il presidente americano si è dichiarato «deluso» da Putin e dal suo rifiuto ad accettare una tregua anche provvisoria, dopo di che il blocco alle forniture di armi Usa a Kiev è stato tolto (anche se ora sono gli europei a pagarle), si è informato con Zelensky sulla capacità degli ucraini di colpire Mosca, e ha promesso le nuove sanzioni in 50 giorni. Un tempo che Putin ovviamente utilizzerà per cercare di avanzare il più possibile nel Donbass, prima di venire forse fermato dalla crisi economica russa, della cui imminenza ormai parlano anche fedelissimi come Valentina Matvienko, la presidente del Senato russo, che ha promesso drastici tagli alla spesa pubblica nei prossimi mesi per far fronte alle spese militari, aumentate ormai al 40% del bilancio. E questo riporta l’attenzione al ruolo di Pechino. I Paesi che commerciano – o si prestano al commercio sommerso di altri Stati – con la Russia sono numerosi, ma uno solo è davvero cruciale non solo per le casse del Cremlino e i consumi dei russi, ma anche per il potenziale bellico. La dichiarazione fatta un mese fa dal ministro degli Esteri cinese Wang Yi ai diplomatici dell’Ue – «La Cina non può accettare una sconfitta della Russia nella guerra contro l’Ucraina» – mostra che i cinesi non si limitano più a osservare, ma si considerano parte in causa, e condividono alla fine la visione di Putin della guerra come un conflitto dell’Occidente contro l’Oriente/Sud del mondo. Per far tacere le armi non bisogna più soltanto costringere Putin, ma anche convincere Xi Jinping.

Prima sono stati gli uomini a scomparire. Attivisti, studenti, professori, intellettuali, politici. Giovani, vecchi, a volte bambini. E le donne hanno aspettato. Sedute per giorni davanti alle stazioni di polizia. Oppure hanno camminato. Camminato come le madri di Plaza de Mayo, decenni fa, sotto il regime dei colonnelli argentini. Hanno camminato per chiedere notizie. Da Quetta a Islamabad, portando le foto dei padri, dei fratelli, dei mariti. Stringendo tra le mani le loro foto. Uomini che a volte tornavano ma da morti: corpi torturati, irriconoscibili, gettati in fosse comuni sigillate in fretta o abbandonati a marcire sui tetti degli ospedali, sotto il sole. All’inizio erano attivisti, scrittori, studenti. Il loro crimine: chiedere che le risorse del Belucistan restassero al Belucistan. Poi la protesta è cresciuta, si è allargata. Il Comitato Baloch Yakjehti, nato per protestare l’uccisione della madre di un attivista nel 2020, è diventato un vero e proprio movimento. Pacifico, ostinato, guidato da donne che hanno rifiutato il silenzio. Il Pakistan ha risposto da par suo: arresti, lacrimogeni, manganelli. Ma loro hanno continuato a parlare. E quelle voci si sono rivelate, per l’esercito di Islamabad, più pericolose delle armi. Ma ora sono le donne, a sparire.

Prigione e torture

Il rapimento di donne e bambini in Belucistan – provincia appunto pakistana – non è una novità. Per anni le donne sono state sequestrate, torturate, usate come schiave sessuali dai militari, poi gettate via. Ma di dati ce ne sono pochi: perché le donne hanno paura di parlare o perché sono morte. La novità è che adesso è diventata una pratica sistematica. Solo negli ultimi tre mesi, almeno una decina di donne beluci sono state arrestate, rapite o sono svanite. Il 29 maggio Mahjabeen Baloch, 24 anni, sopravvissuta alla poliomielite, è stata prelevata dalla sua stanza in un ostello a Quetta, prima dell’alba. Nessuna notizia, da allora. Prima di lei, a marzo, avevano arrestato Mahrang Baloch, candidata al Nobel per la pace, leader della lunga marcia verso Islamabad. Poi Sammi Deen Baloch, Gulzadi Baloch, Beebow Baloch. Sammi è stata liberata dopo pochi giorni. Le altre sono ancora in prigione. In carcere hanno subito maltrattamenti, vessazioni, la negazione di ogni diritto. Persino nei bagni e nelle celle sono state piazzate telecamere che violano la loro dignità. Le visite dei familiari e degli avvocati sono state proibite. A inizio luglio, a Karachi, hanno arrestato una mino-

renne, colpevole di aver marciato contro l’ennesima esecuzione extragiudiziale. Non si hanno più sue notizie. E nel vuoto lasciato dallo Stato si è infilato anche lo Stato Islamico, che parla la stessa lingua dell’esercito pakistano, dei talebani, degli ayatollah. Le attiviste beluci ora vivono sotto una doppia minaccia: lo Stato che le perseguita per aver chiesto diritti, i jihadisti che le braccano per aver rifiutato la teocrazia patriarcale. La stessa che poco oltre il confine, in Afghanistan, ha murato le donne nei burqa e nelle case. La stessa per cui la Corte dell’Aia ha emesso un mandato di arresto contro i talebani per la «persecuzione di donne e ragazze», mandato che resterà lettera morta, come gli altri per terrorismo emessi dall’Onu. La stessa teocrazia, la stessa cultura che proietta la sua ombra nera anche sull’Iran, dove la «pace» siglata per interesse commerciale da Donald Trump ha calpestato le speranze delle donne. Accecate, torturate, imprigionate, stuprate e uccise soltanto per essersi ribellate al «cencio medievale» imposto dalla religione al potere. La stessa che, più a est, in Bangladesh, comincia a vietare sport e libertà alle ragazze, pena botte e isolamento. La stessa che ha giustificato lo stupro e la schiavizzazione delle yazide in Siria e Iraq. Quella che tenta di cancellare la memoria degli stupri, delle torture, delle uccisioni delle israeliane del 7 ottobre 2023. Ma sarebbe un errore raccontare tutto questo come una questione di diritti umani, di scontri di religione o di culture. Questa è politica. Geopolitica, giocata sul corpo delle donne.

La «Nuova via della seta» cinese avanza e con lei avanzano gli abusi. In Medio Oriente le alleanze si rimescolano in nome degli affari e la religione diventa il sudario soffocante di ogni impeto di libertà, la coperta per giustificare ogni genere di abuso. Il mondo guarda soltanto per assicurarsi che il petrolio scorra, il gas venga estratto, i contratti firmati, i minerali rari finiscano nelle «mani giuste». Non vuole vedere chi viene trascinato in un furgone, o quale ragazza non rientra più in ostello. Ma dovrebbe. Perché quando le donne cominciano a scomparire qualcosa di essenziale si è già rotto. Il tessuto sociale si lacera in modo irreparabile. E non si ricuce né con accordi né pranzando con dittatori, né mandando altre armi agli assassini di Stato. Tantomeno col silenzio. Prima sono spariti gli uomini. E le donne hanno aspettato. Poi hanno parlato. E le hanno fatte tacere. Presto il mondo si accorgerà di quanto possa essere potente la voce del silenzio.

Protesta in favore di Mahrang Baloch. (Keystone)

Un velo che continua a dividere

Confederazione ◆ Dal caso di Eschenbach, dove una maestra non è stata assunta perché porta l’hijab, alla situazione

Pietro Bernaschina

Goldingen è un piccolo villaggio sangallese a 700 metri d’altezza sopra il lago di Zurigo. Circondato da prati e pascoli, un nucleo di vecchie e affascinanti case. Poco più in là un paio di strade con edifici più moderni. Segno di un certo sviluppo del paese, che da una decina di anni si è unito al più grande Eschenbach. Il suo motto: «Aria di campagna vicino alla città». Rapperswil-Jona è infatti a un quarto d’ora d’auto, Zurigo a meno di un’ora. Nelle ultime settimane però più che l’aria fine di campagna, a Goldingen si respira un’aria pesante. Il villaggio è infatti balzato agli onori della cronaca nazionale per un tema di quelli che spaccano l’opinione pubblica.

Nel 1990 il Tribunale federale aveva vietato al Comune di Cadro di appendere il Crocifisso in un’aula scolastica

La scuola è in cerca di un nuovo insegnante, una sfida che può avverarsi complessa, considerata la mancanza cronica di docenti. Al concorso partecipa una giovane che ha concluso la formazione triennale. La donna è di religione musulmana e porta lo hijab (il velo islamico che nasconde capelli e collo), che vuole indossare anche durante le lezioni. Una richiesta che viene approfondita nel colloquio di assunzione. L’insegnante si dimostra professionale, conferma che seguirà i principi della legge scolastica e del programma d’insegnamento indipendentemente dalla sua religione e convince la commissione di essere la persona giusta. A non essere convinti sono però alcuni genitori, che scrivono alla direzione dell’istituto e minacciano di intraprendere un’azione legale contro la nomina della giovane insegnante. «Non siamo intolleranti –dirà una delle madri al «Blick» – ma ci sono differenze culturali e quando affidi il tuo bambino piccolo alle cure di qualcuno devi poterti fidare di quella persona al cento per cento». Per

evitare una lunga e costosa disputa legale, il Comune rinuncia alla nomina della docente.

Una mancata assunzione che riaccende un dibattito e solleva questioni che, a trent’anni dal primo caso in Svizzera, non abbiamo ancora risolto. Nel rifiutare la docente velata i genitori dei bimbi si sono appellati alla neutralità religiosa della scuola e a una sentenza del 1997 del Tribunale federale. Allora l’Alta Corte riconosceva come legittima l’imposizione a un’insegnante ginevrina convertita all’Islam di togliere il velo durante le lezioni. La sentenza era poi stata confermata anche dalla Corte europea dei diritti umani. Come hanno sottolineato di recente diversi docenti di diritto, da quella sentenza non si può però dedurre una regola generale.

La questione del velo si trova infatti in una zona di frizione fra diversi principi e diritti. Le libertà di coscienza e di credo sancite dalla Costituzione impongono allo Stato di agire in maniera neutrale dal punto di vista confessionale e religioso, in modo da rispettare i diritti dei/delle cittadini/e. Un principio sancito anche da una sentenza del Tribunale federale (TF) che nel 1990 aveva vietato al Comune di Cadro di apporre il Crocifisso in un’aula scolastica. La libertà di religione è appunto un diritto fondamentale della persona e può essere limitato, dice sempre la Costituzione, solo in presenza di un interesse preponderante e di una disposizione di legge.

Ecco la pietra di inciampo legata alla sentenza del 1997 sul caso ginevrino: già allora il Cantone romando aveva infatti delle norme molto chiare che vietavano ai dipendenti pubblici di indossare simboli religiosi evidenti. Questo non è invece il caso di San Gallo, come dimostra il fatto che, al rientro in classe dopo le vacanze estive, nella capitale cantonale insegnerà una docente col velo, come ha rivelato il capo dicastero in un’intervista al «St. Galler Tagblatt». La mancata assunzione della giovane insegnante a

Goldingen sarebbe dunque critica dal punto di vista legale; lei però ha deciso di non fare causa e di passare oltre continuando a inseguire quello che ha definito il suo sogno sin da bambina: insegnare. Non sarà dunque un tribunale a fare chiarezza.

Ma al di là degli aspetti meramente legali, di questi tempi non sono pochi a chiedersi se il velo sia conciliabile con i valori della scuola elvetica. Il problema si pone soprattutto nei gradi obbligatori – scuola dell’infanzia, elementare e media – dove gli allievi potrebbero essere più influenzabili. Un certo modo di interpretare l’Islam, poi, impone il velo alla donna anche per nascondere la propria femminilità agli occhi di chi non appartiene alla famiglia (l’ hijab può rappresentare umiltà, modestia ecc.). Certi promotori di un Islam progressista parlano non di un simbolo religioso, bensì di un simbolo della sottomissione femminile. E per chi si ribella le conseguenze possono essere gravissime, pensiamo ad esempio al destino di Mahsa Amini e al coraggio delle tante iraniane che sfidano le autorità liberando le loro chiome... Il velo simbolo dunque di una società patriarcale che cozza con il principio di parità fra i sessi (veniva riconosciuto già nel

1997 dai giudici di Mon Repos). Un altro principio costituzionale con il quale dobbiamo confrontarci in questa complessa discussione. In Svizzera nessuna ragazza o donna dovrebbe essere obbligata a portare il velo, l’articolo costituzionale sulla libertà di credo afferma esplicitamente: «Nessuno può essere costretto ad aderire a una comunità religiosa o a farne parte, nonché a compiere un atto religioso o a seguire un insegnamento religioso». Questo presuppone però la conoscenza dei propri diritti e, soprattutto, la possibilità di farli valere. Per tutelare bambine e ragazze delle scuole dell’obbligo, il Consiglio nazionale un anno fa ha chiesto al Governo di valutare la stesura di una base legale per vietare alle allieve il velo in classe. Dal canto suo il Consiglio federale ha fatto notare che i Cantoni avessero già gli strumenti per intervenire e soprattutto sosteneva – basandosi su una sentenza del TF – che un tale divieto violerebbe i diritti fondamentali delle allieve musulmane. Va ricordato infatti che le allieve, a differenza delle docenti, non rappresentano l’autorità statale e quindi i loro obblighi verso la scuola sono ben diversi. Davanti a tanta complessità non resta che at-

tendere il rapporto del Governo sulla necessità (o meno) di creare la base legale citata e il conseguente dibattito politico, nella speranza che porti un po’ di chiarezza su una questione che, se negli anni Novanta poteva essere marginale, oggi lo è sempre meno. L’Ufficio federale di statistica ci ricorda infatti che nel 1990 i musulmani in Svizzera rappresentavano l’1,6% della popolazione, nel 2023 erano diventati il 6%.

Né foulard, né kippah

Le autorità cantonali ci dicono che da noi non si sono mai registrati casi simili a quello di Eschenbach. Scorrendo poi la regolamentazione scolastica non si trovano norme specifiche riguardanti l’uso di simboli religiosi forti. Si trova invece questa frase: «l’insegnamento è impartito (…) nel rispetto della libertà di coscienza». Mentre il Codice di comportamento per i docenti del 2021 impone «un abbigliamento consono alla funzione e al contesto di svolgimento della stessa» ed esige «prudenza e discrezione nell’esercizio della libertà d’espressione». Per trovare una risposta da parte del Consiglio di Stato alla questione del velo islamico a scuola bisogna leggere la risposta all’interrogazione di Matteo Quadranti del 14 luglio 2011 dal titolo «Laicità dello Stato: crocifissi nelle aule scolastiche no mentre nei corridoi sì?». Allora il Governo scriveva, rifacendosi alla sentenza ginevrina del 1997: «Il Tribunale federale ha già avuto modo di rilevare che il porto di simboli religiosi forti e l’uso di vestiti particolari per motivi religiosi nelle aule scolastiche e nel cortile contrastano con la neutralità e la pace confessionale nella scuola: il relativo divieto di portare ad esempio non solo il foulard islamico ma anche la sottana (la socca) o la kippah è pertanto sorretto da un interesse pubblico preponderante ed è conforme al principio di proporzionalità».

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L’hijab è un velo che copre capelli, collo e petto lasciando il viso scoperto. (Freepik)

Il Mercato e la Piazza

Airbnb, croce e delizia del turismo nostrano

Nel bel mezzo di una stagione turistica che sembra promettere molto, ecco apparire la notizia che può preoccupare. In Ticino nel 2024 i pernottamenti nelle strutture Airbnb hanno superato il milione. Siccome il Cantone offre 16’196 letti in questo tipo di struttura, questo significa che l’anno scorso il tasso medio di occupazione di quei letti è stato pari al 18,6%. Si tratta di un valore ancora molto lontano da quello che riesce a ottenere l’offerta di letti in albergo (vicino al 40% se calcolato su una stagione di 12 mesi). In termini di cifra d’affari realizzata, la differenza deve essere ancora più pronunciata: i proprietari degli appartamenti Airbnb devono aver incassato circa 65 milioni mentre gli albergatori possono aver realizzato una cifra d’affari superiore ai 400 milioni di franchi.

Viste queste percentuali e l’evoluzione in corso, le domande che si possono

Affari Esteri

porre sono tre. La prima concerne l’evoluzione nel lungo termine di Airbnb: l’effettivo dei letti e quello dei pernottamenti in queste strutture continuerà a crescere? La seconda questione riguarda i mutamenti che la crescita di Airbnb potrebbe indurre nel complesso della struttura ricettiva del turismo ticinese. I pernottamenti Airbnb «cannibalizzeranno» i pernottamenti nelle strutture alberghiere e para-alberghiere? Infine, la terza domanda concerne le possibili ripercussioni del continuo aumento dell’effettivo dei letti Airbnb sull’offerta di appartamenti come residenza primaria nelle maggiori destinazioni turistiche del Cantone. Airbnb nasce a San Francisco alla fine del 2007 per merito di Brian Chesky, Joe Gebbia e Nathan Blecharczyk. In Ticino il portale in questione deve essere arrivato qualche anno dopo, quasi sicuramente non prima del 2010.

Ma nel decennio 2010-2020 Airbnb ha fatto anche da noi passi da gigante. Nel 2022, finalmente, viene introdotta anche nel nostro Cantone una regolamentazione che consente oggi di quantificare l’importanza di questo tipo di strutture ricettive. Se aggiungiamo il milione di pernottamenti evocato qui sopra ai 4,4 milioni di pernottamenti del 2023 (settore alberghiero più settore para-alberghiero) costatiamo, da un lato, che in quell’anno il turismo in Ticino ha superato i 5 milioni di pernottamenti e, dall’altro, che i pernottamenti Airbnb si stanno avvicinando al 20% del totale. Siccome il grande vantaggio di Airbnb è dato dal prezzo modesto del pernottamento, e siccome i letti disponibili sono ancora sottoutilizzati, è da attendersi che in futuro il numero dei pernottamenti Airbnb continuerà ad aumentare, anche se a un tasso più contenuto di quel-

Trump: un mondo di complotti e bugie

Nel 2005 la polizia di Palm Beach, in Florida, bussò alla porta di Jeffrey Epstein, cinquantenne molto noto nel mondo della finanza e della mondanità americana: la madre di un’adolescente di 14 anni lo aveva denunciato per abuso sessuale. Seguì un’indagine durata undici mesi – le ragazze che, in cambio di denaro, dovevano fornire prestazioni sessuali divennero cinque, con 17 persone che testimoniarono contro Epstein rivelando una rete di sfruttamento sessuale che coinvolgeva decine di minorenni – e finita con un patteggiamento del finanziere, condannato a 18 mesi di carcere, poi ridotti a 13. Nel luglio del 2019 Epstein è stato arrestato all’aeroporto di Teterboro, in New Jersey, di ritorno da un viaggio in Francia con l’accusa di traffico sessuale e associazione a delinquere con finalità di traffico sessuale. I fatti risalivano sempre ai primi anni Duemila ma riguardavano altre ragazze, dai 14 anni in su, reclutate sia a Palm Beach sia a Manhattan. Epstein si è dichiarato non colpevole

Zig-Zag

e poco dopo, il 10 agosto, è stato ritrovato morto nella sua cella: il medico ha stabilito che si fosse impiccato. Da allora attorno a Epstein è stata costruita una delle teorie del complotto più appiccicose e durature di sempre, basata sulle frequentazioni mondane del finanziere: politici, imprenditori, principi che erano saliti sul suo aereo privato e che erano stati ospiti nella sua villa sulle Isole Vergini. Poiché Epstein era un pedofilo parte di una rete di adescatori e adescatrici enorme e fitta, chiunque si fosse imbattuto in lui – ed era impossibile essere famoso e non incontrarlo – è diventato in qualche modo parte di quella rete. E così è nata la teoria, finora non confermata, che esista una «lista dei clienti» di Epstein, in possesso delle autorità che non vogliono pubblicarla, perché il sistema si protegge e si assolve sempre.

Donald Trump, che di Epstein era amico – anche se nel 2019, l’anno della disfatta e del suicidio (i complottisti non credono al suicidio, dicono che è stato ammazzato), ha dichiarato che

Un venti centesimi speciale

Tempo fa Luca Sofri ha inserito in una newsletter («Canzoni») del suo sempre più pregevole «Il Post», giornale online, una nota personale. Ha ricordato che suo nonno, umanista con una mai repressa brama per scienza e cose moderne, in tasca teneva sempre una bussola e che questa ora è sulla scrivania del nipote. Anch’io parlerò di mio nonno, quello materno. Mederico il suo nome, oggi desueto e un po’ anche buffo. E aggiungo che anch’io conservo – oltre a vivissimi ricordi di bambino e adolescente, legati ad animali e caccia – un suo minuscolo lascito che ora è più di un tenero ricordo. Non lo tengo sulla mia scrivania, bensì in un mobiletto, arte povera che pretende di essere uno scrittoio, con una miriade di cassetti e ripostigli in cui non smetto di radunare disordine: passaporti scaduti;

ritagli con annunci funebri di parenti assieme a loro foto da vivi; la carta gommata sui due lati quasi a contatto con un francobollo di Federer; una busta con monetine non spese in lontani Paesi appoggiata a un registratore (un tempo «mangiacassette»); due tazze colme di 5 e 10 centesimi posate sugli appositi fogli per portarli arrotolati alla Posta. E tanto altro ancora, al punto che per mia moglie il mobiletto è un porta-caos, mentre per me è un porta-gioie. In uno dei mini-cassetti posti sui lati c’è addirittura un tesoro: alcune pietre (il «preziose» non lo scrivo, valeva solo per millantare infondati valori con figli e nipoti; in realtà le avevo acquistate per pochi dollari da una specie di fachiro in India), un po’ di 5 franchi in argento (praticamente servivano solo a far risuonare il chiaro tin-

lo conosciuto fin qui. Dovesse crescere, per fare un esempio, solo a un tasso pari al 5% annuo per ancora 20 anni, nel 2045 il numero dei pernottamenti Airbnb oscillerebbe attorno ai 2,5 milioni raggiungendo quindi il numero dei pernottamenti in albergo – se dovessero restare stabili – e portando il totale dei pernottamenti turistici in Ticino a superare i 7 milioni di unità. Queste previsioni, le quali rappresentano un’estrapolazione delle tendenze in atto da una decina di anni, non possono però essere formulate che al condizionale. Questo perché nessuno può oggi prevedere quali saranno gli effetti della rapida crescita di Airbnb sull’evoluzione a lungo termine delle strutture alberghiere e para-alberghiere del nostro Cantone. Fino a oggi non si è manifestato nessun effetto di «cannibalizzazione» per quel che riguarda i pernottamenti. Ma non è detto che

questo non succeda nel prossimo futuro se l’offerta di letti Airbnb e i loro tassi di occupazione dovessero continuare ad aumentare. Concretamente le strutture ricettive Airbnb potrebbero minacciare i pernottamenti negli alberghi, specialmente quelli meno cari, a due o tre stelle, come pure nelle strutture para-alberghiere. Ancora più importante potrebbe essere l’impatto negativo di queste strutture sull’offerta di appartamenti e sugli affitti delle destinazioni turistiche più attrattive. Lo provano le manifestazioni anti-turistiche, a tratti violente che anche quest’anno si sono riscontrate in più di un porto del Mediterraneo. Anche se, per il momento, in Svizzera, il caro affitti da Airbnb si è fatto sentire solo in destinazioni turistiche alpine, non è detto che non si manifesti domani anche nelle destinazioni del turismo lacuale.

erano 15 anni almeno che non lo vedeva più dopo un litigio – ha alimentato l’idea che fosse l’establishment di sinistra a voler insabbiare la lista e la morte in carcere. La retorica anti-élite che ha fatto la fortuna politica dell’attuale presidente degli Stati Uniti si è saldata in modo inestricabile ai presunti segreti sul caso Epstein, cosicché il cosiddetto mondo «Maga» – da «Make America Great Again» – è diventato il più chiassoso nel volere trasparenza su questa vicenda. Trump, tornato alla Casa Bianca per la seconda volta, ha assecondato la richiesta: l’Fbi e il Dipartimento di giustizia hanno rivisto tutta la documentazione ma non hanno trovato nulla di quello che pensavano di trovare. Così hanno dovuto ammettere che i presunti video i quali immortalano i politici di sinistra fare sesso con le minorenni non ci sono e che non esiste nemmeno la «lista dei clienti». Che per i trumpiani è come dire: non c’è nessun complotto su Epstein, è tutto falso. I «Maga» non ci hanno visto più: per

loro questa vicenda è simile all’assalto del 6 gennaio al Campidoglio, è intrinseca alla fiducia che ripongono nella capacità di Trump di ribaltare il sistema, di fare giustizia per loro. «Se è falsa questa allora cos’è vero?». Trump, che ha contribuito a fare diventare popolari teorie che prima vivevano soltanto in ambiti ristretti e allucinati, si è ritrovato incastrato dal suo stesso complottismo e da quel momento in poi ha tentato di uscire dall’assedio o fornendo nuovi complotti in cui credere – «è tutta una bufala inventata dalla sinistra, questa di Epstein», ha detto – o elargendo contentini –«saranno pubblicate le testimonianze pertinenti del processo» – oppure ancora creando altre grandi distrazioni, come quella che sostiene che Barack Obama si sia inventato il «Russiagate» e le interferenze russe nelle presidenziali del 2016. Nel frattempo «The Wall Street Journal», un giornale conservatore, ha pubblicato uno scoop che descrive il biglietto d’auguri che Trump avrebbe mandato a Epstein per il

suo 50esimo compleanno, con il disegnino di una donna nuda e allusioni a segreti stupendi tra i due. Il presidente ha querelato il giornale conservatore di proprietà di Rupert Murdoch, negando di aver scritto quel biglietto e negando anche il fatto di aver mai disegnato qualcosa. Poco dopo sono stati trovati e pubblicati dei suoi disegni di New York... Poiché la menzogna è lo strumento di Governo di Trump e del trumpismo, è difficile capire se esista una teoria del complotto che possa ora saziare il mondo «Maga» privato della teoria madre su Epstein. Ma più passa il tempo più sembra che la rivolta si stia quietando, che il credito concesso a Trump dai suoi sostenitori non sia esaurito, che il complotto nel complotto – «i liberal stanno cercando di incastrarmi su Epstein» – batterà anche la più semplice delle spiegazioni, quella sostenuta anche dall’ex amico Elon Musk: Trump non vuole rendere pubblica la «lista dei clienti» perché là dentro c’è anche lui.

tinnio quando cadevano al suolo) e alcuni scudi commemorativi del Canton Ticino, del Vaticano, della Swissair e di banche ticinesi ormai sparite. Tentando una valutazione credo che il contenuto delle due tazzine di monete da portare alla Posta valga più di tutti gli altri «tesori». Però un valore incommensurabile, per me almeno, lo raggiunge un venti centesimi ancora in circolazione, dono ricevuto dal nonno materno Mederico che lavorava in ferrovia a Chiasso. Semplice operaio, nei miei ricordi occupa ancora oggi un posto molto elevato per una ragione semplice e al tempo stesso strepitosa, soprattutto agli occhi di un giovane: per lavorare di notte o di giorno tra vagoni e binari mio nonno ha compiuto per oltre 30 anni il tragitto da Sagno a Chiasso e ritorno quasi sempre a piedi.

Oggi gli strumenti digitali dicono che sono 16 km; ai suoi tempi erano meno, forse 12 visto che percorreva la vecchia mulattiera che scende più ripida su Vacallo. Non cambierebbe però il dislivello: quasi 500 metri, spesso affrontati sotto le intemperie stagionali e in orari estremi. Conoscendolo, sono sicuro che nonno Mederico non sarebbe contento di veder spifferate cose che lo riguardano così intimamente. Di sicuro avrebbe paura che io possa tornare a raccontare di quando, sopra il tetto della cappella della Madonnina che ancora saluta chi arriva a Sagno, di notte cacciavamo ghiri. O che mi spinga sino a rivelare cosa aveva risposto beffardo alla moglie, nonna Eva, che gli rimproverava la sorsata di vino praticamente in tempi di colazione: «S’öt ch’el sàpia ul sctomic, se

l’è matìna o se l’è sira!». Al limite accetterebbe di veder rievocate le feste che noi nipoti gli facevamo quando tornava dai campi con tanti mazzetti di fragoline di bosco infilati – golosissimo ornamento – nella banda di stoffa attorno all’ala del cappello. E allo stesso modo sarebbe contento di sapere che sto ricordando quel «vint ghéi» che mi regalò con un «tégnal da cünt » e facendomi notare che era stato coniato nel 1888, l’anno della sua nascita. Settant’anni dopo, quando compie 137 anni e anche se vale ancora solo 20 centesimi, il suo «vint ghéi» mi dona ancora due valori: è segno concreto della stabilità che la nostra moneta da 150 anni riesce a preservare e, allo stesso tempo, è testimonianza e ricordo di tanti valori trasmessi ai suoi nipoti da nonno Mederico.

di Paola Peduzzi
di Ovidio Biffi

Pronti per la perfetta pulizia di Tempo

CULTURA

Lo scandalo di Fatty Arbuckle

Il racconto della caduta di una stella del cinema muto tra accuse infamanti e moralismo dilagante

Pagina 21

Riscoprire il cinema d’autore

Locarno Heritage e il Film Festival ridanno vita a due classici con restauri all’avanguardia

Pagina 22-23

Rinasce il folk di casa

Con i Panighiröl, Peo Mazza riporta in scena le leggende ticinesi e la magia di La sü in scima

Pagina 24

Restituire l’umanità all’orrore Il reporter Gianluca Grossi riflette sulla guerra e sulla responsabilità dello sguardo che la racconta

Pagina 25

Gli ossimori pittorici di Elisabetta Bursch

Mostre ◆ «Il Deposito» di Riazzino, grazie a Mario Matasci, ospita una mostra che mette in luce la produzione dell’artista svizzera

Alessia Brughera

Con la stessa dedizione con cui da decenni produce il suo vino di qualità, Mario Matasci colleziona opere d’arte. Dedizione, ma anche intuito e passione, nonché una risoluta coerenza (difficilmente riscontrabile in altre figure dello stesso ambito) che rispecchia appieno la sua indole determinata e fedele al proprio sentire. L’avvicinamento al collezionismo di Matasci è stato dettato dal caso, grazie al fortuito incontro, nell’estate dell’ormai lontano 1968, con un omone dall’aspetto poco rassicurante che rispondeva al nome di Erwin Sauter, pittore basilese trasferitosi in Vallemaggia. Di questo artista Matasci conserva ancora oggi una foto su una mensola della grande libreria ne «Il Deposito» di Riazzino, non lontano dal primo dipinto che aveva acquistato dallo stesso Sauter e che aveva segnato l’inizio della sua raccolta d’arte. Sebbene sia stato questo episodio a costituire l’incipit della sua avventura collezionistica, Matasci ha custodito dentro di sé fin da ragazzo un forte amore per l’arte, tanto è vero che dopo aver frequentato il liceo sognava di diventare un insegnante di disegno. La sorte, e forse ancor più la devozione per la famiglia, lo hanno fatto diventare un enologo ma quell’interesse, momentaneamente sopito, è riemerso in tutto il suo vigore proprio con la scelta di dar vita a una raccolta d’arte, adoperandosi per la salvaguardia e la promozione della storia artistica del nostro territorio.

Il lavoro della Bursch mostra una ricerca di equilibrio nell’asimmetria, tra forme regolari e tensioni spezzate

A far parte della sua collezione sono oggi più di duemila opere: un cospicuo e prezioso patrimonio culturale, ininterrottamente incrementato, che si è sviluppato nel corso di più di mezzo secolo seguendo l’evoluzione del gusto e dell’esperienza personale del suo creatore. La raccolta, del resto, testimonia l’autonomia e l’estrema libertà con cui Matasci si è sempre mosso, alieno da obblighi imposti dalle mode o dalle tendenze del mercato e attratto invece da quegli esiti artistici affini al proprio modo di avvertire il mondo. Non è un caso che tra i suoi artisti prediletti vi siano molte figure schive e riservate, inquiete e profonde. Figure spesso distanti da correnti o gruppi ben definiti, che hanno rimarcato con decisione il loro peculiare linguaggio espressivo e che hanno fatto dei loro lavori un punto di contatto tra lo spazio fisico e lo spazio interiore, imbevendoli di nostalgia, amarezza, tormento e ricerca della verità. E difatti è come se ci fosse un sot-

tile filo rosso ad accomunare la maggior parte delle opere della collezione. Un elemento condiviso che si manifesta nella propensione degli artisti all’uso di una materia pittorica densa e irrequieta, capace di restituire da diverse prospettive, ma con la medesima intensità, le contraddittorie vicende dell’esistenza personale e collettiva dell’uomo.

Matasci ha individuato e radunato il meglio di questi artisti, e lo ha fatto con quella fermezza che appartiene solo a chi non ha dubbi in merito a ciò che ritiene essere di valore, andando sovente controcorrente rispetto alle inclinazioni del settore. Indagando prevalentemente l’ambito informale-espressionista, con le sue scelte d’acquisto Matasci ha legato la propria raccolta alla particolare identità del Ticino, da sempre luogo dalla duplice vocazione, proiettato verso la cultura italiana da una parte e intriso delle suggestioni nordiche dall’altra.

Nel novero di questa collezione strutturata con pazienza e oculatezza è entrato a far parte un nucleo di lavori dell’artista svizzera Elisabetta Bursch, donato dal figlio George alla Fondazione Matasci per l’Arte. Si tratta di un insieme di opere che ben documenta la produzione di questa pittrice sensibile e riservata, anticonformista e genuina nel proporre un lessico che ha saputo coniugare tecnica ed emozione. Lavori, questi, che sarebbero andati perduti se non fosse stato per la curiosità di Matasci e per il suo interesse a tutelare e promuovere l’arte legata al territorio, impedendone la dispersione e l’oblio.

La mostra di Elisabetta Bursch, che arriva a quasi trent’anni dall’ultima a lei dedicata, è allestita presso «Il Deposito», accogliente spazio espositivo tra le vigne di Riazzino che Matasci apre personalmente al pubblico tutte le domeniche pomeriggio e che per molti appassionati è diventato un punto di riferimento imprescindibile per poter godere liberamente di tanti dipinti e della lettura di preziosi volumi d’arte.

Zurighese di nascita, Bursch, classe 1923, dopo aver trascorso alcuni anni in Venezuela, dove conosce numerosi artisti europei che dal Vecchio Continente avevano raggiunto questa terra in pieno sviluppo economico, negli anni Sessanta si trasferisce a Marsiglia e poi a Parigi, città in cui apprende anche le tecniche dell’incisione grazie alla frequentazione del poliedrico artista Henri Goetz. Al 1972 risale il suo ritorno in Svizzera, dapprima a Locarno e in seguito a Minusio, un rientro definitivo al paese natio che la vede aprire un proprio atelier ed entrare in contatto, pur in una dimensione che tutela la sua natura discreta, con molti colleghi locali e galleristi elvetici.

In questo percorso, in cui frequenta città diverse cogliendo stimoli sempre nuovi, la pittrice parte da un linguaggio che si avvicina alla corrente dell’informale per poi giungere all’astrazione e approdare infine all’Arte Concreta. È con quest’ultimo orientamento artistico che Bursch si scopre in sintonia, facendo proprio il presupposto che la pittura debba rifiutare qualsivoglia legame con il dato naturale per ambire a esprimere «concretamente» le forme universali che sottendono al reale. Ecco allora che le componenti per perseguire questo scopo sono la geometria e i colori puri e nettamente definiti: l’opera d’arte non ha più alcun nesso con gli elementi del mondo esterno, essendo concepita nella sua evidenza oggettiva e non imitativa. Nel solco del costruttivismo russo e del neoplasticismo olandese, di cui adotta idee e pratiche, l’Arte Concreta punta dunque a suscitare emozioni senza avvalersi di riferimenti figurativi, diventando «pura espressione di

misura e di norma», come puntualizzava il pittore e grafico svizzero Max Bill, uno dei più noti esponenti del movimento.

In mostra a Riazzino, gli oli su tela, i collage e le acquetinte rivelano da una parte la precisione e la disciplina compositiva tipiche della Bursch, dall’altra la sua capacità di far emergere da questo stesso rigore molteplici implicazioni emotive. È «un equilibrio nella asimmetria» ciò che insegue l’artista, un’intesa tra l’accurata disposizione sulla superficie di forme regolari, come il cerchio, il quadrato, il triangolo o la losanga, e l’introduzione di linee e di figure spezzate che scompaginano questa armonia, animando la composizione in una continua tensione tra forze ed energie contrastanti. Con un segno curvo che infrange la continuità di una retta o con un tratto diagonale che interrompe spavaldo l’ortogonalità dell’insieme, Bursch genera raffinate instabilità, alla ricerca di un fecondo compromesso

tra ordine e vitalità. Anche sul piano cromatico avviene lo stesso, con vividi lampi di colore rosso o nero ad accendere i bianchi, gli azzurri, i verdi e i grigi smorzati che dominano la scena. L’artista ha descritto le sue opere come «il risultato di un processo mentale assiduo», testimoniando quanto l’immediatezza che le caratterizza sia in realtà frutto di una riflessione costante sul significato e sul valore della pittura. Una pittura che per Bursch, proprio nell’intrigante convivenza di elementi opposti, desidera trovare una possibile consonanza tra il caos dell’esistenza terrena e una più quieta dimensione spirituale.

Dove e quando

Elisabetta Bursch e l’armonia dei contrari. Fondazione Matasci per l’Arte –«Il Deposito», Cugnasco-Gerra. Fino al 21 settembre 2025. Orari: tutte le domeniche dalle 14.00 alle 18.00 e su appuntamento.

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Il comico più famoso che nessuno conosce

Vite da ridere (o quasi) ◆ Roscoe «Fatty» Arbuckle, da gigante del cinema comico muto, al pari di Chaplin, si trasformò in pochi giorni nel simbolo della gogna mediatica

Nel 1921 Roscoe «Fatty» Arbuckle era all’apice della sua carriera: contratto da tre milioni con la Paramount, oltre 150 film all’attivo, una villa da mille e una notte, auto di lusso e una popolarità pari solo a quella di Chaplin. Ma quando quell’anno fu accusato di aver causato la morte di una giovane donna, la sua carriera si dissolse in pochi mesi, vittima di stampa scandalistica, moralismo e ambizioni politiche. Una parabola che resta un monito potente su quanto sottile possa essere il confine tra celebrità e dannazione.

Negli anni Dieci del Novecento, se aveste chiesto a un americano chi fosse la più grande star del cinema, molti avrebbero risposto Fatty Arbuckle. Con Chaplin condivideva la fama, con Buster Keaton l’intesa artistica. La sua comicità giocava con la fisicità corpulenta, ma si distingueva per l’agilità sorprendente e la raffinata costruzione dei personaggi.

Arbuckle era un innovatore. Conosceva la macchina da presa, sperimentava, aveva cominciato a portare sullo schermo una comicità più umana e meno farsesca. Fu inoltre lui a far debuttare Buster Keaton, riconoscendone il talento e costituendo con lui la più divertente coppia comica del muto, sciogliendosi simbolicamente proprio nell’anno del formarsi di quella per antonomasia, Stanlio e Ollio, come a passargli il testimone. Ma la gloria ha spesso un prezzo. E nel caso di Arbuckle fu altissimo.

Nel settembre del 1921, Fatty organizza una festa in un albergo di San Francisco per celebrare il rinnovo del suo contratto milionario. È il weekend del Labor Day, e nonostante il proibizionismo, l’alcol scorre a fiumi. Tra gli invitati c’è Virginia Rappe, ex modella e aspirante attrice, accompagnata da Maude Delmont, donna ambigua che aveva appena conosciuto. Durante la festa, Rappe si sente male, finendo in preda a dolori lancinanti all’addome. Morirà pochi giorni dopo in ospedale.

Tra le maglie strette del proibizionismo e di un’America iper-moralista, il caso Arbuckle non è solo la caduta di una stella, ma il riflesso di un’epoca

Delmont accusa Arbuckle di averla aggredita sessualmente. Nessuno ha visto nulla, ma la stampa si scatena. William Randolph Hearst, deus ex machina del giornalismo scandalistico dell’epoca, trasforma l’evento in una saga nazionale. In un solo giorno, il suo «Examiner» pubblica diciassette articoli sull’affaire Arbuckle.

La verità diventa del tutto secondaria in questa faccenda: non ci sono testimoni, ma ben presto si diffonde il racconto di dettagli raccapriccianti, dalla morte per schiacciamento (come abbiamo detto Fatty era… tale), a sevizie sessuali praticate con bottiglie, e chi più ne ha più ne metta.

Il procuratore distrettuale Matthew Brady vede nel caso l’occasione perfetta per lanciare la sua carriera politica. Porta Arbuckle in tribunale con l’accusa di omicidio colposo. Seguiranno tre processi. Il primo si conclude con un nulla di fatto. Il secondo sfiora la condanna. Il terzo, finalmente, lo assolve pienamente, anzi la giuria dichiara Arbuckle vittima di una «grande ingiustizia». Ma è

troppo tardi: la Paramount lo ha scaricato, i suoi film sono spariti dalle sale, gli «amici» si sono dileguati. Solo Chaplin e Keaton gli sono restati accanto.

Ma non basta. Proprio l’affaire Arbuckle cambierà Hollywood per molti decenni a venire. I grandi studios, terrorizzati, introducono le famigerate «clausole di moralità» nei contratti. E per tutelare l’immagine dell’industria, assoldano un «moralizzatore» nella persona di Will Hays, un politicante in realtà tutt’altro che integerrimo, che come sua prima decisione bandisce proprio Arbuckle da ogni produzione.

Quello che travolge il povero Fatty, è il primo grande scandalo mediatico dell’era del cinema. E sarà anche il primo a insegnare a Hollywood come gestirli, manipolando la verità e sacrificando carriere e persone.

Roscoe attraversa anni di ostracismo, lavorando sporadicamente con lo pseudonimo «William Goodrich» – il nome del padre, che lo aveva maltrattato da bambino – come regista di film comici, spesso grazie a Keaton. Ma è l’ombra di sé stesso. Vuole tornare a recitare, l’alcol lo consuma. Nel 1933, finalmente la svolta: viene richiamato dalla Warner Bros per tornare sul grande schermo come attore nel remake di Brewster’s Millions, un suo successo del 1921 (oggi andato perduto). È finalmente felice. La sera prima delle riprese esce a festeggiare con la moglie. Poi torna a casa e si mette a dormire. Non si risveglierà mai più. Ha solo 46 anni. Oggi il suo nome è per lo più dimenticato. E quando viene ricordato, è spesso legato al processo, non alla sua incredibile arte. La sua è la storia di un’epoca che cambiava: tra jazz e proibizionismo, tra libertà e repressione. È anche la storia, molto attuale, di un artista che fece ridere milioni di persone, ma che non riuscì a difendersi dal bisogno collettivo di trovare un colpevole. E il suo volto, paffuto e dolce, divenne il bersaglio perfetto.

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Il restauro come atto di resistenza

Locarno Film Festival – 1 ◆ Cavani e Rossellini tornano sullo schermo: con lo sguardo rivolto al presente, il direttore artistico Giona A. Nazzaro alla visione film marginalizzati o fraintesi, e perché l’atto di rivedere sia importante di Manuela Mazzi

In vista della 78esima edizione del Locarno Film Festival, due restauri importanti trovano spazio nel programma: I cannibali di Liliana Cavani e Anno uno di Roberto Rossellini. Film diversi, ma entrambi legati a una riflessione sul rapporto tra individuo e Stato, tra visione politica e tensione morale. Il primo, selezionato dalla giuria di Locarno Heritage (vedi di fianco), il secondo scelto dal direttore artistico del Film Festival, Giona A. Nazzaro, con il quale abbiamo parlato del senso contemporaneo del restauro, dell’autorialità, della funzione civile del cinema. Ne è emersa una visione che è insieme dichiarazione d’amore per la settima arte e difesa accorata del suo ruolo nel mondo.

Giona A. Nazzaro, lei supervisiona anche il progetto Heritage: in che modo il festival bilancia il valore artistico e storico dei film restaurati con la necessità di restituirli al contesto culturale di oggi? Il mio approccio al patrimonio cinematografico è curatoriale, non filologico. Il cinema per me è sempre al presente. Se vedo per la prima volta un film di Murnau del 1920 nel 2025, quel film entra oggi nel mio orizzonte e dialoga con l’audiovisivo contemporaneo. In questo senso, anche un film «vecchio» si attualizza. Quindi, quando devo decidere cosa recuperare o riproporre, mi concentro soprattutto su come mettere in relazione al presente le opere che mi interessano personalmente.

Spesso si dice tuttavia che alcuni film «invecchino» meglio di altri?

Non sono d’accordo. L’idea che un’opera «regga» è una categoria merceologica. Un film può portare i segni del tempo nel quale è stato concepito, ma non è vecchio: è solo il riflesso di un contesto. Quindi, voglio dire, se oggi guardo un film degli anni Trenta in cui compaiono certi equilibri di genere – atteggiamenti di galanteria verso le donne, rappresentazioni che oggi potremmo giudicare superate o retrive – non significa che quel film sia in sé portatore di quei valori. Il film è, anche solo in superficie, lo specchio del mondo in cui è stato realizzato. Ma anche questo vale solo fino a un certo punto, perché il fatto filmico, l’opera in sé, è qualcosa di più complesso e sfuggente rispetto a una semplice lettura sociologica.

In questo senso, i film diventano una sorta di macchina del tempo?

Se si guardano le commedie di Lubitsch, ci si accorge che i rapporti tra i sessi sono tutt’altro che lineari o convenzionali. Oppure, se si pensa al cinema dei «telefoni bianchi» (ndr. filone degli anni 30 e i primi del 40 durante il fascismo) – così spesso liquidato con sufficienza – e ai film di un regista geniale come Mario Camerini, è evidente che, pur essendo opere pienamente calate nel loro tempo, le menti che le hanno concepite erano già rivolte al futuro. Quindi sì, magari raccontano il presente di allora, ma lo fanno con uno slancio che guarda oltre.

Si intuisce una forma di affetto per le opere meno «perfette»…

Da sinistra, Giona A. Nazzaro, Direttore artistico di Locarno Film Festival, e Markus Duffner, Direttore di Locarno Pro e responsabile dei progetti di restauro. (© Locarno Film Festival / TIPress)

Sì, provo grande tenerezza, interesse, gratitudine, soprattutto nei confronti delle cose che sono invecchiate male, perché considero questi lavori sempre un po’ come un’infanzia dell’espressione artistica. Per cui mi permettono di capire meglio alcuni dettagli dell’epoca, rispetto a quello che possono fare dei capolavori assoluti. Un capolavoro assoluto è l’espressione di una individualità particolare, a suo modo unica, che produce qualcosa

Che al Locarno Film Festival stiano per tornare insieme sullo schermo –qui, nel cuore di un’Europa affaticata – è certo che non sia per celebrare il passato, ma per interrogarci sull’attualità. I cannibali e Anno uno, i due film restaurati nell’ambito del progetto Locarno Heritage, arrivano da stagioni diverse ma sembrano essere intrisi della stessa materia: l’utopia politica. O meglio, la sua agonia. Nel giro di quattro anni, il cinema italiano ha prodotto due opere che in un qualche modo si rispecchiano su superfici deformanti. I cannibali di Liliana Cavani (1970) e Anno uno di Roberto Rossellini (1974; nella foto) non appartengono allo stesso registro stilistico, né condividono la stessa fiducia nella storia. Eppure, visti oggi, sembrano due risposte divergenti a una stessa urgenza: che cosa resta del desiderio di cambiare il mondo?

Cavani, per I cannibali prende spunto da Antigone di Sofocle, e costruisce una tragedia postmoderna e laica, ambientata in una città crepuscolare (che pare Milano, in contrapposizione alla Roma di Rossellini), dove i giovani cadono come martiri e restano insepolti, a terra, lungo le strade, in quella che diventa una sorta di necropoli metropolitana. È una città bloccata, astratta, dove il potere uccide per dare l’esempio, e la resistenza prende la forma di un rito, di una processione muta. Laddove Antigone incarna la ribellione, il protagonista maschile somiglia a un Cristo dolente, e ogni loro

che scavalca il suo tempo, e quindi è sempre attuale. Invece gli oggetti che rimangono in qualche modo fermi nel loro tempo mi danno anche il senso di un lavoro, di un’industria culturale. È estremamente interessante, ma non da un punto di vista sociologico, proprio da un punto di vista poetico, narrativo.

Vale solo per i classici, oppure per tutti i film?

gesto si carica di simboli: il pane condiviso, la colomba tra topi bianchi che viene liberata, la pietà capovolta. In questa parabola visionaria, l’utopia è un gesto estremo, una testimonianza fisica, reale, non fatta di parole: i due, solo con gli sguardi, si danno forza a vicenda per disobbedire all’ordine dello Stato di non toccare i cadaveri, caricandoseli in spalla per portarli a degna sepoltura.

Rossellini, al contrario, torna alla cronaca e la asciuga adottando una forma biografica. Racconta la vita politica di Alcide De Gasperi con un rigore quasi impassibile, eliminando retorica e suspense. Tant’è che in Anno uno De Gasperi più che eroe pare un servitore. Quasi un martire: testimone di un’idea, isolato, frainteso, quasi sempre in minoranza. «È ovvio che, dopo la fase eroica della Resistenza – come spiega Giona

A . Nazzaro – Anno uno di Rossellini possa apparire come un film politicamente ancorato a un’idea di resa. Ma per me è, al contrario, un’opera profondamente commovente: se

ti» del loro tempo, a rendere tutto questo più evidente. A volte basta uno scorcio di città, un dettaglio qualsiasi, per sentire che quei film raccontano qualcosa di essenziale. È per questo che mi sento molto legato anche a queste opere: perché mi parlano del presente. Per me, tutto è sempre nel presente.

Quando guardo i film cosiddetti commerciali degli anni Cinquanta, Sessanta, vedo l’immagine di un’Italia che faceva i conti con una modernità vissuta in maniera conflittuale, con una società tradizionale alle spalle che veniva quasi in maniera forzata un po’ dimenticata, una modernità che però non si capiva bene cosa fosse. E sono proprio i film che più portano i segni, chiamiamoli pure crudelmente «i limi-

la Resistenza rappresenta il momento dell’eroismo, Anno uno è un film sull’umiltà del costruire. E, tutto, si costruisce insieme». Entrambi sembrano invocare l’azione politica quasi come fosse una forma di fede – non religiosa, ma etica, totalizzante. E di fatto anche in Anno uno emerge la pietas sin dalle prime battute, con due voci fuori campo in apertura del film – dopo alcune scene che riproducono lo scempio che si consuma al fronte, durante la guerra – e dicono intercalandosi: «Oh, Dio!» «Dio mio…» «Dio». Esclamazioni che fanno da chiave di lettura: la battaglia non ha ripercussioni solo ideologiche ma anche spirituali. Dove Cavani inscena il proprio sacrificio, la morte, come gesto assoluto, Rossellini mostra la fatica di un dialogo costruttivo. È un film sulla responsabilità, sul tempo lungo della democrazia, sulla necessità di collaborazione «globale». La prima ci ricorda che esistono momenti in cui l’azione sembra impotente ma resta necessaria. Il secondo, che esiste anche una forza nella pazienza, nell’architettura dei compromessi. Non è un caso che questi due film riemergano oggi: forse serve ancora, come allora, una certa dose di sacrificio e tanta voglia di costruzione.

Dove e quando Locarno, al Palacinema 2: I Cannibali, venerdì 8 agosto, alle 16.00; Anno uno, sabato 9 agosto, alle 11.00.

L’autorialità è ancora un’idea valida oggi? O è sempre il risultato di un sistema più ampio di relazioni? L’autorialità è un concetto da prendere con un po’ di prudenza: personalmente credo alle individualità che sono portatori, portatrici di una visione, questo è inevitabile, però è anche vero che lo stesso Fellini, ragazzo di genio riminese, senza Roma e senza Cinecittà e senza il Marco Aurelio e senza Flaiano e senza un ciociaro come Marcello Mastroianni, sarebbe un po’ meno Fellini. E questo non significa voler privare Fellini di meriti indiscutibili, significa che anche l’autorialità è un concorso di fattori. L’autore si afferma quando riesce a trasformare tutti questi elementi in componenti che diventano solidali con il suo progetto. L’autorialità è una strategia che si afferma anche nei confronti delle difficoltà industriali, penso alla testardaggine di Sergio Leone che dal primissimo film all’ultimissimo ci ha messo progressivamente sempre più tempo a farli perché voleva che fossero solo fatti in un certo modo, però poi mi commuove anche moltissimo la genialità e l’umiltà di Mario Bava che faceva film in continuazione, sebbene venissero considerati film di consumo, o a stento registrati come film interessanti, mentre oggi invece sono considerati tra i film più importanti del cinema mondiale.

E in questo contesto, che ruolo ha il restauro? Può essere considerato parte di questa «costruzione collettiva» dell’opera?

Il restauro, per me, è profondamente legato al concetto di «rivedere». E il rivedere ha a che fare con il revisionismo – ma non nel senso negativo, politico e retrivo a cui siamo abituati, quello che riabilita personaggi impresentabili. No: revisionismo nel senso letterale del termine, cioè, tornare a vedere. Restaurare significa rendere possibile questa nuova visione, riportare le opere in vita.

Quindi il restauro è anche un atto etico?

Sì, profondamente. Viviamo in un mondo che distrugge le vite e l’ambiente: restaurare un film è un atto di resistenza culturale. Ho una gratitudine immensa per i «Frankenstein senza nome» che, nelle cineteche, lontano dai riflettori, recuperano copie, negativi, frammenti, per ricostruire interpositivi e internegativi. Salvano la memoria del lavoro umano.

I due film restaurati che proporrete quest’anno rimettono entrambi al centro il rapporto tra individuo e Stato. I cannibali evoca la disobbedienza, Anno uno la costruzione. Pensa dunque che si senta ancora il bisogno di questi due modelli di resistenza? C’è bisogno di molti più modelli di

La disobbedienza de I Cannibali e la fondazione di Anno uno

Nazzaro racconta cosa significhi restituire

Nuova vita al cinema

Film Festival – 2 ◆ Il direttore di Locarno Pro, Markus Duffner, spiega come Locarno Heritage fa dell’evento un laboratorio d’avanguardia per la memoria audiovisiva

resistenza, perché purtroppo oggi le tirannie sono numerose e frammentate. Non siamo più nel buon vecchio XIX o XX secolo, in cui i modelli di tirannia erano uno o due. Oggi ne esistono moltissimi, spesso di tipo asimmetrico.

Ci parli di Anno uno

Il motivo per cui ho scelto di restaurare Anno uno è che, da rosselliniano, non passa giorno senza che pensi a come Rossellini potrebbe rimproverarmi. Cerco quindi di capire cosa potrei fare per, almeno, meritarmi il suo perdono. Faccio una parentesi: Rossellini ha inventato l’Italia, tanto quanto Mazzini o Garibaldi. Con Roma città aperta e Paisà ha costruito un’idea di Paese libero, giovane, democratico. Con Anno uno ha mostrato la fatica di questa costruzione. È un film sull’umiltà del fare, e sul senso del limite...

…del costruire una democrazia. Rossellini realizza Anno uno in un’Italia attraversata da fortissime convulsioni politiche, che producono una radicale contrapposizione nelle strade, nelle scuole, nei luoghi della cultura. Anno uno è un film che non viene compreso nel suo tempo, perché Rossellini sceglie di mettere al centro la figura umana, esistenziale e politica di Alcide De Gasperi, padre spirituale – e non solo – della Democrazia Cristiana.

Il film è prefinanziato dall’editore Rusconi, considerato all’epoca un uomo di destra, e persino Renzo Rossellini, che abbiamo premiato qui a Locarno qualche anno fa, si esprime con parole durissime contro il padre. All’epoca, infatti, Renzo era impegnato a sinistra, nelle radio libere e nei movimenti.

E così il lavoro su quel film passa inosservato. Eppure, Anno uno è un’opera di modernità assoluta. A mio giudizio, la sua influenza si estende anche al cinema portoghese di Manuel de Oliveira: nel modo in cui usa la città e gli interni, nelle ellissi, nel montaggio, nella recitazione distaccata, nell’esibizione consapevole dell’artificio cinematografico. Tutti elementi che allora vennero fraintesi come goffaggini, e che oggi invece possiamo riconoscere per ciò che sono: scelte stilistiche radicali.

…anche nel rappresentare De Gasperi?

Quello che mi interessa molto, nel modo in cui Rossellini rappresenta De Gasperi, è che mette in scena un uomo profondamente cattolico, che dialoga con sua figlia – ma che, allo stesso tempo, è profondamente laico. La sua moralità religiosa si traduce in un rispetto altrettanto profondo per l’altro, nel confronto politico e dialettico. Non c’è mai il tentativo di imporre le proprie convinzioni. Per me, questa è una lezione di morale.

E, in fondo, I cannibali, contengono gli stessi elementi. Contengono gli stessi elementi perché I cannibali, rivisto oggi, è uno di quei film altamente profetici. Per anni ci siamo detti: «è un film un po’ datato». Poi arrivano le deportazioni forzate di Trump, e

all’improvviso le scene ambientate a Downtown Los Angeles sembrano uscite da I cannibali. Quello che ci pareva superato, improvvisamente non lo è più. E il sentire di Liliana Cavani – un sentire religioso, nel senso più profondo del termine: empatico, etico, morale – torna con una forza ancora maggiore. Anche grazie alle musiche di Morricone che sono straordinarie – tra le cose più belle mai composte da lui. È un film che non ha perso nulla della sua urgenza.

A suo giudizio – anche nel cinema – c’è bisogno di tornare a credere in qualcosa?

Mettiamola così: da persona non credente, ho un enorme rispetto per la religione, intesa come forma di compassione, empatia, riguardo per ogni forma di vita – vegetale, animale, umana. Quel tipo di pensiero – religioso o spirituale – porta con sé una ricchezza. L’Islam è una religione profondamente spirituale, anche se a volte è presa in ostaggio da fazioni violente, che ne svuotano il senso.

E aggiungo: vedo una forma di spiritualità anche nel materialismo storico. Ancorarsi all’essere umano e al suo lavoro significa avere un rispetto profondo per la vita.

Quindi non è tanto importante in cosa si crede o se si crede, ma come si mette in circolo quel patrimonio di idee. Al servizio di un futuro condiviso. Di una comunità.

Questi due film risuonano, amplificano oppure vanno in controtendenza con i temi che attraversano la 78esima edizione del Film Festival?

Sono naturalmente allergico ai «fili rossi» e ai temi imposti, però lo spirito del tempo ci attraversa inevitabilmente. Guardando indietro, si nota come molte cose dialoghino tra loro senza forzature.

Verranno presentati come documenti del loro tempo o come specchi (forse deformanti) del nostro? Guardi, da cinefilo, per me i film vengono prima di tutto: il cinema è il punto di partenza. Ma è chiaro che non esistono film neutri – il cinema non lo è mai stato. Anche le opere più apparentemente innocue riflettono il tempo in cui sono nate. A volte provo a rifugiarmi nell’idea che il cinema sia solo intrattenimento, perché è così che l’ho scoperto: per me era un modo per sfuggire all’ambiente familiare, alla scuola. Ma poi mi accorgo che non era solo svago: era disobbedienza, discontinuità. Credevo di andare a vedere un western di serie B, e invece stavo già facendo politica.

Quindi non tanto resistenze ai tempi che viviamo, quanto una forma di resistenze individuali? Non la metterei in termini così personali. Per me il cinema è un paese. Non una nazione, che è un concetto più rigido e complicato, ma proprio un paese: con le sue dimensioni umane, con tante lingue, comunità diverse, senza frontiere. Un luogo orizzontale, dove ci si può ritrovare. E forse [sorride] anche con un certo clima mediterraneo.

Il Film Festival di Locarno – ormai alle porte – è da sempre un osservatorio privilegiato sul cinema d’autore, ma negli ultimi anni si è fatto conoscere anche come centro propulsore per il recupero del patrimonio cinematografico. A guidare questo slancio c’è Markus Duffner, Direttore di Locarno Pro e ideatore della piattaforma Locarno Heritage, dedicata proprio alla valorizzazione del cinema di patrimonio. Un universo in rapida crescita che – fra database, laboratori e restauri di film selezionati – sta ridisegnando il ruolo dei festival nel recupero dell’immaginario cinematografico. Festival che quest’anno proporrà la Prima mondiale delle copie restaurate di due film d’eccezione: I cannibali (1970) di Liliana Cavani e Anno uno (1974) di Roberto Rossellini. Abbiamo parlato con lui di restauri, memoria, politica e nuovi modelli di collaborazione tra archivi, festival e industria.

Markus Duffner, com’è nata l’idea? Tutto è iniziato nel 2020, durante il lockdown. Avevo già fatto esperienze personali con una piattaforma di streaming indipendente, quando, ragionando su progetti in corso per il Festival, ci siamo resi conto che c’erano pochi film classici disponibili legalmente. I diritti erano spesso oscuri, le copie in cattivo stato, i sottotitoli mancanti. Così è nato Heritage Online, un database B2B gratuito, oggi usato da più di duemila professionisti per reperire diritti e materiali (per Festival, sale, musei), con oltre 10mila titoli presenti.

Un discorso dunque anche economico produttivo, oltre che culturale…

Sì, il pitch di Heritage Online è proprio quello di dare una nuova vita commerciale a film dimenticati e rimetterli in circolazione per chi non li ha mai visti, originando un riciclo generazionale del pubblico. Da questa esperienza è poi nato nel 2022 Locarno Heritage, il contest: chi detiene i diritti di un film può candidarlo a questa sezione del Festival,

che offre in cambio, al film premiato, il restauro gratuito. E, per fortuna, entrambe le pellicole hanno già dei venditori che potranno, internazionalmente, farli girare. Sono sicuro che questi due film andranno ovunque.

Ed è un unicum?

Non ci sono molti altri Festival che hanno una categoria dedicata alla restauro. Tant’è che ci invitano anche in molti altri eventi proprio per parlare di questa iniziativa che copre una lacuna dell’attuale panorama festivaliero.

Ma chi propone questi film? La casa di produzione che li pubblicò o chi detiene i diritti?

Questa è la parte più ingarbugliata del progetto: per noi conta chi detiene i diritti. Solo che, in genere, i diritti dei classici passano di mano in mano. Viene chiamata in gergo la catena dei diritti, diritti che devono essere comprovati. Questione non di poco conto.

E dunque come sono stati selezionati I cannibali e Anno uno?

I cannibali è il vincitore del contest dell’anno scorso, per cui è stato scelto da una giuria esterna e internazionale. Mentre il secondo titolo – in questo caso Anno uno – viene normalmente selezionato in accordo con il direttore artistico del Film Festival, Giona A. Nazzaro, e questi secondi film sono sempre in qualche modo coerenti con il programma. I due di quest’anno sono certamente opere di rilievo per la Storia, e possono favorire un parallelo con l’attuale situazione politica internazionale.

Che cosa significa «restaurare un film»?

È una ricerca dell’archetipo. Ma l’archetipo in questo caso qual è? Il film così com’era nella prima proiezione? O quello che più rispecchia la sceneggiatura? Oppure quello che il regista aveva davvero in mente? Ogni restauro è un compromesso, ma è

anche una dichiarazione di poetica.

E per voi, nel concreto? Il nostro obiettivo non è rendere i film «più belli», ma riportarli il più vicino possibile all’intento originario. Per questo si lavora sempre e solo con materiali originali, in 4K, ma con standard adatti allo streaming e alla proiezione in sala. Si fanno ricerche, si coinvolgono operatori e professionisti che hanno partecipato alla prima versione: viene poi fatto un lavoro minuzioso su suono e colore – che di solito si deteriorano particolarmente nelle pellicole – ma solo dopo aver definito il montaggio su cui lavorare, una ricerca quasi mitologica per stabilire quale sia quello che più si avvicina alla perfezione dell’originale. A volte servono mesi per trovare l’interpositivo (ndr: copia non definitiva) giusto. Chi lavora poi nel concreto, spesso lavora fotogramma per fotogramma per togliere i peli e le bruciature. Ho grandissimo rispetto per chi riesce a mantenere una così alta concentrazione per settimane.

Avete mai scoperto materiali inediti nel corso dei restauri?

A volte emergono interpositivi o versioni con scene diverse. È successo con I Cannibali: ci sono state differenze di montaggio, ma nulla di completamente inedito. Il lavoro più lungo è stato ricostruire l’ordine corretto e sincronizzare audio e immagini.

Sembra tutto molto costoso: chi finanzia questo immenso lavoro? Sì, da 30 a 80mila franchi, a seconda dello stato del materiale, della lunghezza del film e delle lavorazioni necessarie. E il festival non avrebbe sufficienti risorse se non fosse per un’importante partnership con Cinegrell – un laboratorio di Zurigo di alto livello che sponsorizza il progetto – e ci offre il lavoro in cambio di visibilità. In Europa ci sono anche fondi pubblici per il restauro del patrimonio nazionale. Ma è uno scenario molto disomogeneo: alcuni paesi investono molto, altri nulla.

Riportare alla luce certi film è anche una scelta politica, oltre che culturale?

Io credo che ogni scelta culturale rifletta il tempo in cui viviamo. Il nostro compito non è essere ideologici, ma aprire un dialogo. Anche il restauro di un classico è un atto contemporaneo, perché ridà voce a un immaginario e lo rende accessibile oggi. A volte scopriamo che certe simbologie – come il pesce cristiano nei Cannibali – sono ormai indecifrabili per i giovani. Ma proprio per questa ragione restaurare è anche un gesto educativo.

Quale film vorrebbe venisse restaurato, se potesse scegliere? Sono appassionato dei Monty Python e probabilmente sceglierei Life of Brian di Terry Jones. È un film straordinario, intelligente, una critica alla disinformazione e ai meccanismi religiosi e mediatici. All’epoca fu censurato duramente, ma oggi è più attuale che mai. E fa ancora ridere tantissimo. / Ma.Ma

Bobine di pellicole all’interno del laboratorio Cinegrell di Zurigo. (Justine Stella Knuchel © Locarno Film Festival | Lisa Lurati)

Canti dialettali e nuove sonorità per i Panighiröl

Musica ◆ Incontro con Peo Mazza, il batterista ticinese che calca le scene da oltre quarant’anni e che di recente ha riportato in vita un originale progetto folk

Discutendo qualche tempo fa con un amico jazzista, si parlava dell’attitudine autopromozionale che caratterizza i giovani musicisti di oggi. «In America lo fanno da tempo» diceva. «A chi si iscrive alle scuole di musica insegnano non soltanto a suonare, ma spiegano anche come si gestisce e promuove una carriera. Senza competenze economiche, di comunicazione e di marketing difficilmente si ci afferma». Le scuole di musica professionale in Svizzera si sono adeguate al modello: chi esce dalla scuola di jazz di Lucerna, di Berna o Zurigo sa benissimo di essere, in un certo senso, un «prodotto» sul mercato, che deve trovare spazio e un proprio pubblico.

Quando si chiacchiera amabilmente e amichevolmente con Matteo «Peo» Mazza, batterista ticinese di grande esperienza e capacità, ci si trova all’estremo opposto di questa concezione moderna della professione musicale. Difficile trovare un artista altrettanto mite e understated, innamorato della musica e del suono nei loro aspetti più semplici, umani, immediati. Basta dare un’occhiata al suo studio di registrazione di Certara, lassù in cima alla Valcolla (e lo studio si chiama proprio così, La sü in scima studio), un luogo singolare in cui la tecnologia più moderna si è

inglobata in una costruzione antica, una cascina nel nucleo, diventando un vero gioiello di magia musicale. «Ho cominciato a suonare da ra-

gazzo, come tutti. Già da piccolo avevo questa predisposizione per la musica. Mi piaceva molto. Ricordo che andavo a letto la sera e mi costruivo

nella testa delle composizioni musicali complesse, quasi sinfoniche, fatte di collage di vari stili. Dopo tanti anni ho scoperto che era qualcosa di simile a quello che stava realizzando Frank Zappa, uno dei più elaborati e geniali compositori nel mondo del rock». Mazza inizia suonando la batteria in un gruppo messo in piedi con alcuni amici coetanei, nei primi anni Ottanta. «Ci chiamavamo Acquario, facevamo una musica vicina al prog, quella che andava di moda allora. Si suonava da dilettanti, da autodidatti, ma poi io ho sentito che dovevo andare a imparare davvero la tecnica. Sono andato a Milano, sono stato allievo di Tullio De Piscopo, il quale, dopo un paio di lezioni mi ha detto «Ma tu cosa ci fai qui? Tu sei già capace di suonare… vai, comincia la carriera!».

E così è stato: Peo Mazza può vantare un curriculum musicale come pochi altri musicisti ticinesi. «Ho capito subito che per fare questo mestiere devi essere pronto ad andare via. Ho girato il mondo, potrei dire. Ho avuto contatti musicali davvero importanti. Uno tra tutti quello con Giorgio Conte, con cui siamo stati ovunque e con cui si è creato un forte legame di amicizia. Ho suonato di tutto, dall’heavy metal al folk. E mi piace tutta la musica». Al punto che, quando è stato il momento, ha deciso di creato un suo studio di registrazione, proprio per concretizzare il piacere di mettere i suoni su disco. Peo Mazza è un musicista che ha saputo costruirsi un percorso personale lontano dai riflettori ma ricco di incontri

A chi lo va a trovare racconta di come quello studio è cresciuto un pezzettino alla volta, traendo spunto anche da vicende casuali. «Lo vedi questo microfono? L’ho trovato in uno studio di Roma dove ero andato a registrare. Era lì in un angolo, tutto ammaccato. L’aveva usato Renato Zero, ma poi era caduto e si era rotto. Io ho chiesto se me lo vendevano: me l’hanno dato per poco. Io poi l’ho riparato, e adesso è uno dei migliori che ho».

Ma torniamo alla musica suonata, e in particolare a un progetto molto originale e anche molto ticinese. Di recente Peo è tornato a calcare i palchi del nostro cantone suonando la musica di un gruppo che in realtà risale

a oltre trent’anni fa, i Panighiröl. «Il progetto originale di una formazione che proponesse musica folk, suonata con strumenti acustici, e che mettesse in piedi un repertorio di canzoni in dialetto basate su leggende ticinesi, era nato originariamente all’inizio degli anni Ottanta. Allora non c’erano molti gruppi che avessero questa ambizione di recuperare soprattutto il dialetto. Il nome stesso della band è stato creato attorno a una parola rara, evocativa, l’immagine di questa piccola lucciola che a modo suo rischiara la tradizione».

I Panighiröl in quella formazione iniziale con Beniamino Gubitosa, Giorgio Valli, Mario Canova e Tita Leoni, avevano tenuto molti concerti, si erano trovati un certo spazio nella scena musicale del cantone. «Erano tempi diversi, c’era un certo interesse per la musica folk, il nostro primo concerto ricordo l’avevamo tenuto all’interno del Centro giovanile di Lugano, che era situato nel vecchio Ospedale Civico». Poi, come succede spesso, il gruppo si era sciolto. E si era però riformato diversi anni dopo, nel 1999, per registrare (naturalmente a Certara, per conto della casa discografica ticinese Altrisuoni) un album in cui erano confluite quelle canzoni. «Il disco Leggende Ticinesi era stato prodotto dalla RSI e ha avuto il merito di fissare un repertorio che era stato completamente scritto da noi. Canzoni originali e che volevano mostrare che si poteva comporre canzoni in dialetto e preservare una tradizione, qualcosa di diverso dal folk più popolare, commerciale, che tutti conosciamo».

Il disco, che è ancora sul mercato, ha ottenuto un discreto successo e proprio di questi tempi le canzoni che lo caratterizzavano, come La veduva da Biasca, Ul laghet Giazaa, L’ültim urs, tornano a risuonare grazie a una nuova reincarnazione dei Panighiröl: «Nel nuovo gruppo sono l’unico membro storico. Insieme a me due giovani musiciste, Valentina Londino e Sara Magon, e Christian Gilardi al flauto. Ci sembrava che fosse un buon momento per tornare a riproporre quelle musiche che hanno una loro vitalità e una loro forza».

Chi volesse avere informazioni sulle prossime esibizioni dei Panighiröl tenga d’occhio la loro pagina sulla piattaforma Mx3 (https://mx3. ch/panighirol). Per il resto, l’avventura di Peo Mazza continua, e noi la seguiremo molto volentieri.

La nuova formazione dei Panighiröl, da sinistra, con Peo Mazza, Sara Magon, Valentina Londino e Christian Gilardi.
Peo Mazza sulla copertina dell’album registrato nel 2020, un’antologia della sua carriera.

Raccontare l’umanità sotto tiro

Primi piani ◆ Il mestiere, il pensiero e le immagini di Gianluca Grossi, reporter di guerra e testimone della complessità umana nei conflitti

Parlare con Gianluca Grossi significa inevitabilmente riflettere sul ruolo che un reporter di guerra assume nell’esercizio della sua professione, sugli aspetti etici, politici e umani che questa attività, tanto dura quanto complessa, comporta. Significa interrogarsi sul perché e sul come si racconta un conflitto, e riflettere, con profondità, sul mondo e su sé stessi.

Incontriamo Gianluca nel suo spazio di lavoro a Lugano: una stanza ampia e accogliente, luminosa, tappezzata di libri di ogni genere – segno della curiosità intellettuale con cui affronta la vita e del suo istintivo bisogno di raccontare la realtà.

Gianluca Grossi ha fatto della testimonianza il centro della sua vita e oggi ne interroga il senso Un bisogno, questo, che avverte fin dalla più giovane età: «Volevo raccontare la realtà nell’istante in cui prendeva forma davanti ai miei occhi per condividerla con chi stava a casa». Visti i presupposti, era quasi inevitabile che la vita lo conducesse a diventare reporter di guerra. «Questo mestiere ha dato un significato alla mia vita, l’ha colmata: facevo non soltanto ciò che avevo sempre sognato, ma anche la cosa giusta». Dopo il dottorato in letteratura comparata a Zurigo, lavora tre anni alla RSI, per la quale realizza i suoi primi servizi all’estero. È in questa fase che avverte la necessità di diventare l’autore delle immagini contenute nei suoi reportage. Studiando i lavori dei maestri del settore e grazie all’insegnamento di alcuni colleghi, impara a utilizzare la videocamera e in seguito la macchina fotografica.

Decide di mettersi in proprio, scegliendo come base Gerusalemme e fondando la società di produzione Weast Productions. Collabora da indipendente con i canali della Televisione svizzera e con altre emittenti internazionali. Filma e fotografa i numerosi conflitti che affollano la scena mediorientale, ma non solo, con l’intento di testimoniare le atrocità che ogni guerra porta con sé, narrare la realtà e dare una voce e un’immagine a chi non sarebbe altrimenti visibile. La responsabilità di un reporter, racconta Gianluca, scaturisce dall’urgenza di restituire alle persone coinvolte in una guerra, civili e combattenti e indipendentemente dai fronti, la loro umanità. Questo è un caposaldo del suo pensiero. «Le guerre si nutrono, fra le altre cose, della convinzione dei belligeranti di trovarsi di fronte non più a degli esseri umani, bensì a delle bestie, a insetti da schiacciare. Il compito di un fotografo è contraddire questa narrazione, che ha quale scopo farci credere che il campo di battaglia sia diviso in due: da una parte i mostri senza umanità, i pazzi criminali, dall’altra le vittime che meritano la nostra solidarietà. È indispensabile recarsi con gli occhi bene aperti da en-

trambe le parti di un fronte di guerra: si imparano molte cose».

Tra gli esempi: «La guerra ci permette di prendere la misura del possibile, di compiere l’esperienza di ciò di cui noi esseri umani siamo capaci, tutti e senza eccezioni. Si schiude allora una terra dentro la quale le categorie del bene e del male, di ciò che è giusto e ciò che non lo è, si rivelano fragili pietre di demarcazione di un confine che non esiste più. Sono insufficienti a descrivere ciò che accade e, soprattutto, a capirlo. Anzi, riducono la nostra abilità a vedere. Tuttavia,

per non perdere la testa, di fronte agli orrori della guerra ci ostiniamo a suddividere la realtà in modo manicheo. Spesso veniamo esortati a farlo. È un sotterfugio», mentre «la guerra è abitata da esseri umani che sono, lo ripeto, capaci di tutto. La guerra non è buona o malvagia: è assurda. Le immagini devono restituire questa terrificante assurdità».

A maggior ragione quando si parla di vittime civili: «Le madri, i padri non combattenti, i bambini sono vittime della guerra e della sua assurdità, ma molto spesso, e quasi sempre

inconsapevolmente, ce ne serviamo per dimostrare la disumanità di una (di una soltanto) delle parti in conflitto. È una visione viziata. Non ci permette di capire alcunché della guerra. Anzi, ci rende complici della sua continuazione».

In guerra, l’umanità si rivela dunque per quello che è: contraddittoria, spiazzante, impossibile da incasellare: «È esattamente l’umanità che abita noi, ma calata in una circostanza diversa. In guerra ho visto persone per bene compiere azioni che dimostravano il contrario e ho visto mascalzoni, o anche peggio, mettere a repentaglio la loro vita per salvarla a una madre e alla sua bambina. Ho incontrato ladri, assassini. Anch’essi erano civili, vittime della guerra».

Si finisce a parlare di immagini. Non tanto di quelle scattate, quanto di quelle guardate: «Ho riflettuto a lungo sullo sguardo che il pubblico posa sui civili, sulle vittime non belligeranti (considero vittime anche i belligeranti, ma è un altro discorso). È uno sguardo che ci concede un’esperienza impossibile da compiere frequentando i nostri simili in una situazione pacifica: l’esperienza della purezza e dell’innocenza. Quella che abbiamo dei civili in guerra, curiosamente, è una visione purificata dell’essere umano. Ci avvinghiamo alla speranza che lo scatenamento non abbia spazzato via tutto: per coltivarla siamo costretti a privare quelle persone della loro umanità, cioè delle loro contraddizioni, di tutto ciò che hanno fatto nella loro vita e, ancora di più, che sono o sarebbero capaci di pensare e di fare per sopravvivere, salvarsi. A un’immagine di guerra chiediamo conforto: abbiamo bisogno di credere in un’umanità integra, pura

e innocente. Così, però, ci teniamo alla larga dalla complessità, e dalla verità». Gianluca ha coltivato a lungo la speranza che, documentando insieme ai suoi colleghi gli orrori della guerra, sarebbe riuscito a fermarne almeno una: «Un giorno mi sono chiesto: quale senso ha alzare la macchina fotografica, accendere la telecamera se non mettere fine almeno alla guerra che stai raccontando? Era il solo significato che questo gesto potesse avere: indurre chi aveva il potere di farlo a fermare tutto. Zero. Non è andata così». Dopo averla raccontata per molti anni, Gianluca oggi riflette sulla guerra. «Sappiamo tutto delle sue conseguenze: libri di storia, archivi fotografici in rete, le opere degli artisti, i social, dove spesso la guerra ci appare senza i filtri che i media impongono a loro stessi, producendo un racconto omogeneizzato, digeribile all’ora di cena, di colazione».

Così è nata l’esigenza di interrogarsi sul proprio lavoro e in particolare sul racconto della guerra: «Perché non riusciamo a non farla? Sapere quanto essa sia orribile non ci trattiene. Siamo degli imbecilli. Ho deciso di scriverlo, andando a scovare, denunciando e smontando le trappole che ci vengono tese per indurci a credere che la guerra risponda a una necessità e che sia inevitabile. Quante volte, e ancora in tempi recentissimi, ce lo siamo sentiti dire?». Gianluca riflette sulla scorta della vasta esperienza accumulata sul terreno e vuole spiegare perché «oggi ancora ci viene chiesto di credere che una guerra, di offesa o di difesa, di liberazione o di occupazione, non importa, possa essere considerata un’idea pensabile e una circostanza ineluttabile».

Il reporter bellinzonese riflette sulla responsabilità di chi documenta la guerra: mostrare l’orrore senza semplificare, restituire umanità senza cedere al conforto dell’innocenza

Un ragionare che ha trovato espressione in saggi, romanzi e in due pièce teatrali, come pure sul suo portale facciadareporter.ch. Leggere i suoi libri e frequentare il suo sito – che propone articoli, interviste, fotografie, riflessioni, così come pure l’attualità dai numerosi scenari attraversati da Gianluca e le riflessioni di persone che in quegli scenari vivono – aiuta di certo ad arricchire sguardo e pensiero di chi vi si sofferma.

Questo non è che il possibile riassunto di una parte della lunga e densa intervista avuta con Gianluca. Il breve spazio disponibile non ci permette di proporre nel suo insieme – e quanto invece sarebbe necessario – il pensiero dotto, onesto, chiaro seppur estremamente articolato del nostro interlocutore. Un pensiero dal quale si dipanano tante, tante immagini e storie. E tanta umanità.

Ucraina, 2014. (Gianluca Grossi / Weast Productions)
Siria, 2015. (Gianluca Grossi / Weast Productions)

ATTUALITÀ

1º agosto

Perché una croce?

Sulla bandiera, sul coltellino o sul cioccolato: la croce svizzera è sinonimo di casa, qualità e un pizzico di orgoglio. Cosa si cela dietro questo simbolo

Testo: Heidi Bacchilega

1 Chi l’ha inventato?

La croce svizzera ha origine nel XIV secolo. Inizialmente era utilizzata dalle truppe federali svizzere come segno comune di identificazione nelle battaglie. Fu usata per la prima volta nella battaglia di Laupen nel 1339 e la forma della croce deriva da San Giorgio, che all’epoca era il patrono di molte regioni svizzere.

2 Perché rossa e bianca?

I colori rosso e bianco hanno un significato più profondo: il bianco è sinonimo di purezza, pace e neutralità. Il rosso simboleggia la forza, il coraggio e il sangue versato nelle battaglie dei Confederati. Questi colori sono stati utilizzati frequentemente dai cantoni svizzeri nel Medioevo e successivamente sono stati adottati come colori nazionali.

Ricetta

Cervelas e formaggio in insalata

Piatto principale

Ingredienti per 4 persone

300 g di rafano sale

4 cervelas di 100 g ciascuno 200 g di gruyère Surchoix

1 cipollotto ¼ di mazzetto di prezzemolo

Salsa

5 cucchiai d’aceto alle erbe

6 cucchiai d’olio di girasole

2 cucchiaini di senape sale pepe dal macinapepe

1. Per la salsa, mescola bene l’aceto con l’olio e la senape e condisci con sale e pepe.

2. Pela il rafano e taglialo in lingue sottili con un pelapatate. Salalo e lascialo riposare per ca. 10 minuti.

3. Spella i cervelas e tagliali a fettine.

4. Taglia il formaggio a listarelle e il cipollotto a fettine sottili oblique.

5. Mescola il rafano e gli altri ingredienti con la salsa. Unisci le foglioline di prezzemolo, mescola bene e servi.

Cervelas M-Classic 5 x 200 g Fr. 4.50 invece di 9.–Azione: 50% sui cervelas M-Classic, 5 x 2 pezzi, dal 29.7 al 4.8.2025
Tanti cliché, ma la Svizzera è famosa anche per questo: montagne innevate e la nota bandiera.

3 Quanto deve essere grande?

I bracci della croce sono di uguale lunghezza e non toccano il bordo della bandiera. l rapporto tra lunghezza e larghezza è di 7:6, mentre il rapporto tra croce e campo è stato fissato a 5:8 nel 2017.

4 Perché la bandiera è quadrata?

La bandiera svizzera è unica al mondo perché è quadrata anziché rettangolare. Questa forma deriva dall’esercito del XIX secolo: le bandiere militari erano spesso quadrate perché più facili da maneggiare. Questa forma è stata poi adottata ufficialmente per distinguerla chiaramente dalle altre bandiere. Nel 1848, la croce bianca su sfondo rosso fu dichiarata bandiera nazionale ufficiale della Svizzera.

5 In alcuni casi la bandiera è rettangolare

Essendo un Paese senza sbocchi sul mare, per molto tempo la Svizzera non ha avuto una bandiera marittima ufficiale. Solo nel 1941 fu introdotta una bandiera nelle proporzioni 2:3 per le imbarcazioni svizzere in navigazione sulle rotte internazionali. Le navi della navigazione interna sventolano in genere ancora la bandiera in forma quadrata.

Da non perdere

1 Teste di cioccolato 1° agosto Villars confezione da 4 pezzi Fr. 3.95

2 Ghirlanda solare per esterni bandiera svizzera Fr. 19.95

3 Lanterne 3 pezzi Fr. 6.95

4

Tovaglia in rotolo 120 x 800 cm Fr. 14.95

5 Piatti di carta croce svizzera 12 pezzi Fr. 4.95

6 Mix Touristik Toblerone 4 x 100 g Fr. 13.95

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Trasforma il 1° agosto in una festa memorabile

Con questi prodotti il divertimento è garantito

Steak alla griglia con formaggio e verdure

È arrivata la stagione delle grigliate: steak di maiale alla griglia con formaggio da raclette e variopinte verdure grigliate tra cui zucchine, mais e pomodori cherry.

Cervelas con salsa BBQ alla senape

Piatto principale Ingredienti per 4 persone

4 cervelas

Salsa BBQ alla senape

50 g di senape dolce

1½ cucchiai di sciroppo d’acero

2 cucchiaini di paprica affumicata

1 presa d’aglio in polvere sale pepe

1. Per la salsa BBQ alla senape, mescola la senape con lo sciroppo d’acero, la paprica e l’aglio in polvere. Condisci con sale e pepe.

2. Incidi a croce le due estremità dei cervelas. Grigliali sul fuoco o rosolali nel forno a 200 °C per ca. 20 minuti. Servili con la salsa BBQ alla senape. Accompagna con del pane o dei pomodori cherry.

Ricetta

ATTUALITÀ

1º agosto

Medaglioni di maiale in manto di pancetta

Piatto principale

Ingredienti per 4 persone

2 rametti di rosmarino

600 g di filetto di maiale

2 cucchiai di senape dolce

140 g di pancetta da arrostire

Burro alle erbe

150 g di burro, morbido

1 mazzetto di erbe miste, ad es. prezzemolo, cerfoglio

3 filetti d’acciuga sott’olio

2 cucchiaini di senape

2 spicchi d’aglio piccoli sale pepe

1. Per il burro alle erbe, con uno sbattitore elettrico lavora il burro per ca. 2 minuti. Trita finemente le erbe e le acciughe e incorporale al burro con la senape. Unisci l’aglio schiacciato e mescola bene il tutto. Condisci con sale e pepe. Trasferisci su un foglio di carta da forno. Avvolgi formando un rotolo di ca. 3 cm di spessore e metti in congelatore fino al momento di servire.

6 Chi l’ha inventato?

La temperatura giusta

Le alte temperature (da 220280 °C) sono indicate per rosolare, rispettivamente grigliare a fuoco diretto; l’alimento viene posizionato direttamente sopra la brace sulla griglia. Le temperature medie (180-220 °C) permettono di grigliare o arrostire in modo indiretto; l’alimento non si trova direttamente sulla brace e la griglia viene coperta.

Spiedini di verdure e formaggio con marinata speziata

Piatto principale

Ingredienti per 4 persone

2 cucchiai di semi di finocchio 1 cucchiaio di tris di pepe 2 spicchi d’aglio

6 cucchiai d’olio d’oliva ½ mazzetto di menta

½ cucchiaino di sale

1 zucchina piccola

24 champignon

150 g di formaggio di capra, ad es. Tendre Bûche

300 g di pomodorini datterini

2. Stacca gli aghi di rosmarino dai rametti e tritali finemente. Taglia il filetto di maiale a medaglioni spessi ca. 1,5 cm, poi condiscili con la senape e il rosmarino. Avvolgi il bordo dei medaglioni con le fette di pancetta e infilzali con degli spiedini di legno.

3. Scalda il grill a 230 °C. Griglia gli spiedini a fuoco medio-alto per 2-3 minuti per lato. Servili con il burro alle erbe tagliato a fette.

Chi è autorizzato a utilizzare la croce svizzera? L’uso della croce svizzera è regolato dalla legge. Può essere utilizzato solo dalle autorità svizzere per scopi ufficiali. Alle aziende e ai privati si applicano norme speciali: l’uso è consentito se non è associato a una denominazione d’origine ingannevole e non dà l’impressione di un’autorità statale.

7 Quando è possibile esporre la croce svizzera sui prodotti? Dal 2017, la cosiddetta legge Swissness regolamenta i casi in cui la croce svizzera può essere utilizzata sui prodotti. Gli alimenti possono recare il simbolo solo se almeno l’80% delle materie prime proviene dalla Svizzera. Per i prodotti industriali, almeno il 60% dei costi di produzione deve essere sostenuto in Svizzera. Questo garantisce che i prodotti con la croce svizzera siano effettivamente «Swiss Made».

8 Croce svizzera e Croce Rossa: qual è il legame?

Il simbolo della Croce Rossa riconosciuto a livello internazionale (croce rossa su sfondo bianco) si ispira alla bandiera svizzera. Fu creato nel 1863 su iniziativa del ginevrino Henry Dunant. Il fondatore della Croce Rossa Internazionale volle utilizzare i colori invertiti per ricordare la neutralità della Svizzera e i suoi valori umanitari.

Bratwurst di vitello e verdure alla griglia

Una ricetta raffinata per la grigliata: pomodori e cipolle dimezzati e marinati con il rosmarino e l’aglio vengono grigliati con i bratwurst di vitello.

1. Tosta brevemente i semi di finocchio in un tegame antiaderente senza aggiungere grassi. Pestali in un mortaio, aggiungi il pepe e unisci l’aglio schiacciato. Versa l’olio d’oliva nel mortaio e pesta il tutto. Unisci le foglie di menta e sala la marinata.

2. Taglia la zucchina a fette lunghe e sottili usando un pelapatate e falle marinare con gli champignon nella salsa per ca. 30 minuti.

3. Scalda il grill a 180 °C. Taglia il formaggio a pezzetti della stessa grandezza. Avvolgi ogni pezzo di formaggio in una fetta di zucchina e infilza sugli spiedini gli champignon, i pezzetti di formaggio avvolti nelle zucchine e i pomodorini. Inizia e termina con uno champignon. Metti da parte la marinata.

4. Griglia gli spiedini a fuoco medio per ca. 6 minuti. Di tanto in tanto spennellali con la marinata.

Ricetta
Ricetta

TEMPO LIBERO

Pipistrelli fai da te a caccia di zanzare Istruzioni per costruire un gioco – con tutto il suo valore simbolico – che sviluppa coordinazione e fantasia e permette di trascorrere qualche serata estiva un po’ diversa

Neuschwanstein nel riflesso della modernità Il castello bavarese sospeso tra solitudine regale e iconografia globale, amato da Disney e Warhol, entra nell’UNESCO con il suo carico di miti e inquietudine pop

Il respiro fiorito di Rarotonga

Reportage ◆ Dispersa nel cuore dell’oceano, assieme ai diversi arcipelaghi lontani racconta un mondo sospeso tra foreste pluviali e culture ancestrali

Marco Moretti, testo e foto

«Prima di avvistare la terra, è il profumo dei fiori portato dal vento ad annunciare Rarotonga» raccontano gli skipper nel porto di Avarua, la sonnacchiosa capitale delle Isole Cook. Ibisco, gardenia, girasole, frangipane, flamboyant, orchidea, zenzero e altre duecento piante da fiore che –frullate dal caldo umido dei Mari del Sud – concorrono al cocktail olfattivo dell’isola giardino del Pacifico. Lo si scopre ad Ara Metua, la strada nell’interno tra piantagioni di papaie, banane e cotone, tra manghi e un’orgia multicolore di infiorescenze. È parallela ad Are Tapu, l’arteria costiera che in 32 chilometri disegna il periplo della maggiore isola di un arcipelago Stato frantumato in 15 tra atolli e piattaforme vulcaniche – con appena 15mila abitanti – disseminati in due milioni di chilometri quadrati di oceano, a sud del Tropico del Capricorno, a metà strada tra Tahiti e Samoa. Un’isola dominata da picchi e foderata di foresta pluviale: si attraversa il suo interno camminando su

un sentiero tra fichi strangolatori, liane e felci arboree. Un mondo trasognato con i giorni scanditi dal tonfo sordo del frutto del pane che si schianta a terra, con fertili terreni vulcanici che danno piante

come il taro (un tubero ricco di carboidrati che può superare i dieci chili): dove la generosa natura tropicale induce più alla pigrizia che al lavoro. Lo standard di vita sembra occidentale, ma c’è un distratto rappor-

to con il denaro: non esiste proprietà immobiliare, terra e case appartengono al clan che le assegna a seconda dei bisogni. Non c’è speculazione edilizia, ma nemmeno sviluppo e tanti isola-

da donne il impegnati stesse no Cook in la e tori lani missionari siani. ––Tangaroa zione) Gli di gno una tre 4 dipendenza cui tica luglio na minazioni ri, gare dell’offerta con te se servono crudo (polipo glie mu un Un e zenzero, i profumi l’isola

ni migrano in Nuova Zelanda: le loro rimesse sono la prima voce dell’economia, in un Paese che è stato più volte sull’orlo della bancarotta, senza che i suoi abitanti abbiano mai perso la flemma.

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Cook Islands, Rarotonga, Traders Jack; sotto da sinistra a destra: Aitutaki, donna con bambino; Cook Islands Christian Church.

Il traffico è formato soprattutto da moto, guidate spesso da formose donne polinesiane che indossano solo il pareo e offrono passaggi ai visitatori impegnati a girare l’isola a piedi. Le stesse donne che la domenica cantano le lodi al Signore nelle chiese della Cook Islands Christian Church con in testa leziosi cappelli di pizzo. Qui la religione si mescola a scaramanzia e culto dei morti. Eredi dei navigatori maori giunti da Samoa, gli isolani coniugano la fede importata dai missionari inglesi con i miti polinesiani. Poco o nulla resta delle marae – i luoghi d’incontro spirituale maori – ma ovunque s’incappa in statue di Tangaroa (dio del mare e della creazione) munito di un gigantesco fallo. Gli antenati sono seppelliti nel cortile di casa. E il fervore mistico ha bisogno di molteplici risposte: fornite da una decina di diverse confessioni, oltre che da una pletora di sette. Un microcosmo polinesiano che il 4 agosto festeggia sessant’anni di indipendenza dalla Nuova Zelanda, da cui ancora dipende per difesa e politica estera. Evento celebrato – dal 25 luglio al 5 agosto – mettendo in scena elementi di cultura maori e contaminazioni occidentali. Sfilate di carri, suoni di percussioni, danze, regate, gare sportive. E la O’ora, la cerimonia dell’offerta testimone della simbiosi con il mare e le sue divinità, riprodotte nei tiki, le sculture in legno sparse nell’arcipelago. Mentre banchetti servono piatti locali: ika mata (pesce crudo marinato in latte di cocco), eke (polipo speziato), rukau (stufato di foglie di taro), carni e pesci cotti nell’umu, la buca scavata nella sabbia sotto un fuoco di legna.

Un vento denso di ibisco e gardenia, frangipane e zenzero, sono questi i profumi che avvolgono l’isola giardino del Pacifico

Rarotonga racchiude anche il mito del brigantino Yankee. «A vederlo sugli scogli ho provato lo stesso dolore di tutti gli avventurieri dei Mari del Sud» confessò Hugo Pratt dopo la sua visita nell’isola sulle tracce del famoso bialbero. Per Pratt lo Yankee incarnava tutti i miti dell’esplorazione nel Pacifico. In Avevo un appuntamento tracciò il parallelo tra il suo nugolo di vele bianche e il Bounty di Bligh, il Boudeuse di Boungainville, l’Endeavour di Cook, L’Astrolabe di La Pérouse e il Bonito narrato da Conrad.

Costruito in Germania nel 1912 come nave-scuola, il brigantino passò all’Inghilterra come bottino di guerra. Trasferito nel Pacifico, servì nel 1957 a Luis Marden per ritrovare i resti del Bounty, la nave del più leggendario ammutinamento. E il «National Geographic» lo usò per realizzare reportage tra le isole di Polinesia, Melanesia, Nuova Zelanda e Australia. Finché nel 1967 s’incagliò nella barriera corallina che circonda Rarotonga. E lì lentamente colò a picco. A Pratt, morto 30 anni fa a Puy sul lago Lemano nel canton Vaud, il veliero ispirò Una ballata del mare salato, una delle sue più famose strisce, nella quale ubicò a Raroraro la casa di Corto e Rasputin. Aitutaki, 141 chilometri a nord di Rarotonga, è il miraggio balneare delle Cook. È formata dai resti di un vulcano sommerso, circondati da una scogliera di madrepore che imprigiona una laguna blu. Ci s’immerge e si fa snorkeling in fondali popolati di coralli, tartarughe e pesci tropica-

li. Per poi indugiare su uno dei ventun motu tempestati di palme che delimitano la laguna: isolotti formati da coralli emersi, fertilizzati dal guano e fecondati dalle noci di cocco portate dal mare. Come motu Maina con lingue di sabbia immacolata che si tuffano in acque turchesi.

Se Aitutaki è la meta più visitata di un arcipelago trascurato dal turismo di massa, nonostante prezzi molto più bassi della vicina Polinesia Francese, Atiu – nel Southern Group – è la sua

perla segreta: vi approdano poche centinaia di turisti l’anno. Ha selvagge spiagge di sabbia bianca. A Orovaru Beach nel 1777 sbarcò James Cook, il navigatore inglese che diede il nome all’arcipelago. L’interno è coperto di vegetazione. I suoi 500 abitanti vivono sparsi nei villaggi sulle colline: qui più che altrove, una decina di chiese di altrettante fedi testimonia l’unicità religiosa dell’arcipelago. Un vulcano emerso dal mare formò Atiu undici milioni di anni or so-

no, il suo crollo creò i rilievi centrali, circondati 100mila anni fa dai coralli. Tra barriera e alture interne si estese una pianura con laghi e grotte calcaree (con stalattiti e stalagmiti) coperta da macchia tropicale, mentre un nuovo reef circondava l’isola. Le caverne, usate per secoli come tombe, conservano resti funerari. Chi cerca l’avventura s’imbarca invece sul promiscuo cargo passeggeri di Taio Shipping che raggiunge il remoto Northern Group. Sei atolli – Manihiki, Penrhyn, Pukapuka, Rakahanga, Nassau e Suwarrow –formati da lingue di sabbia bianca foderate di palme che circondano lagune blu. Cartolina convincente ma difficile da raggiungere. Air Rarotonga in teoria vola a Manihiki, Penrhyn e Pukapuka: oggi i voli non sono disponibili, domani chissà. Manihiki è l’atollo più noto con quaranta motu attorno a una laguna larga quattro chilometri, dove si coltivano le perle nere: ospita l’unico resort, nelle altre isole si alloggia in case private. La laguna di Penrhyn è chiusa tra centinaia di minuscoli motu. A Pukapuka tre isole galleggiano in una barriera a forma di fionda. Suwarrow ha una laguna larga quindici chilometri in cui si perdono rari frammenti di terra: nelle acque che la circondano so-

no affondati otto galeoni spagnoli. Taio Shipping raggiunge ogni due mesi Manihiki, Penrhyn e Rakahanga. Ferma in ogni scalo almeno 24 ore per carico e scarico merci: il tempo utile per visitare l’atollo. L’arrivo del cargo è il maggiore evento sociale e richiama al porto tutta la popolazione, che ha influenze samoane. Le altre isole non sono più servite perché troppe navi si sono incagliate tra i coralli, è stato impossibile recuperarle e il servizio è stato sospeso più volte. Per decenni l’unico collegamento tra il Northern Group e il resto del mondo è stato l’Avatapu. Un mercantile, lungo 35 metri, su cui si dormiva in cuccette ricavate nelle sponde dello scafo: zero privacy tra legno marcio e ferro arrugginito. Quando viaggiai sull’Avatapu, il capitano era una donna hawaiana sui sessant’anni, l’equipaggio era formato da un gruista sui 200 chili, un eccentrico cuoco gay, un marinaio rasta e un paio di macchinisti più ordinari: sembravano usciti da un racconto di Jack London. Hugo Pratt avrebbe trovato l’ispirazione per una nuova avventura di Corto Maltese.

Informazioni

Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.

Cook Islands, Rarotonga, paesaggio; sotto da sinistra a destra: Rarotonga, brigantino Yankee incagliato nel reef; Corto Maltese in Una ballata del mare salato (dalla mostra Geografie Immaginarie, Siena); in basso: Aitutaki, Motu Tapuaetai.

Cara Svizzera,

sei tante cose allo stesso tempo. Quattro lingue nazionali, innumerevoli tradizioni, dialetti e storie. Diversa, eppure unita. La tua storia è la prova che l’integrazione della diversità è una risorsa. Dal 1936 abbiamo il privilegio di produrre Coca-Cola in Svizzera – localmente, con ingredienti svizzeri e con dipendenti provenienti da tutti i cantoni. Cara Svizzera, grazie per averci accolti nella tua vita: durante le piccole pause, sulle coperte da picnic lungo le rive dei tuoi laghi e su tutte le tue tavole. Ci chiami persino con un piccolo soprannome, come quando sei al bar: «Una Coca, per favore!». Un piccolo soprannome che ha un grande significato: ci hai adottati!

Una «Coca» è più di una semplice bevanda. È un modo di assaporare l’attimo. Deliziosa e rinfrescante, servita ben fredda, è un’esplosione di gusto in un bicchiere. Un momento inconfondibile che ci unisce.

Oggi, nel giorno del tuo compleanno, ti celebriamo, cara Svizzera. Non con grandi gesti, ma con un semplice «grazie». Per la fiducia che ci dimostri da quasi 90 anni. E per i tanti momenti trascorsi insieme – con gli amici in piscina, intorno a una grigliata con la famiglia in giardino, su una terrazza soleggiata di un ristorante in montagna. Alziamo i nostri bicchieri e brindiamo alla tua salute. Alla diversità e alla condivisione. A ciò che abbiamo vissuto insieme e a tutto quello che ci aspetta.

Buon 1° agosto. Coca-Cola Svizzera

Prezzi bassi e asticella alta per la carne, tutta

Gastronomia ◆ Una nuova geografia del gusto si delinea nei ristoranti europei, dove le T-bone dominano le carte, gli allevamenti puntano sulla qualità, e il pesce, troppo caro, resta importante ma ai margini

Allan Bay

A livello europeo, una delle specializzazioni dei top ristoranti in grande crescita è quella della carne bovina. Ma bisogna fare alcune premesse. Di carne se n’è sempre mangiata nei ristoranti – sempre nel senso dell’ultimo secolo quando la ricchezza di tutti i paesi europei è cresciuta. Ma era prevalentemente carne «povera» –che sia chiaro, spesso, a parità di animale, è anche più buona di quella dei tagli ricchi, ma questo è un altro discorso. Quindi polpette, fettine, tante frattaglie, che allora costavano poco, trippa su tutte, e simili. Mentre i filetti e i controfiletti, da sempre l’epitome dei grandi piatti di carne, latitavano: ed erano peraltro sempre costosi, con un cattivo food cost

Ovviamente eccezioni c’erano anche se, pur non avendo statistiche precise, si concentravano in Inghilterra, pardon a Londra, allora il centro del mondo. L’altra eccezione erano i ristoranti di albergo e il progetto di cucina era basato sostanzialmente sulla cucina francese, quella che loro giustamente chiamavano internazionale, perché valorizzata con spunti di tutti, ricca di piatti di carni. Ovviamente li frequentavano tanti cittadini locali che cercavano un ambiente di gran tono, mentre nei ristoranti non d’albergo latitava (erano più o meno curati ma sempre trattorie; oggi per fortuna abbiamo tanti ristoranti non d’albergo di gran tono).

Poi, pochi anni fa, scoppia un evento epocale: finisce il boom del consumo di carne, la cui crescita era stata esponenziale dal dopo guerra ’39-’45 alla fine del secolo scorso. Finisce per tan-

ti motivi, in seguito all’emergere dei vegani e vegetariani, fino alle ristrettezze dei criteri di allevamento negli allevamenti intensivi, e per tanti altri motivi. Inevitabilmente, in un mercato statico, dove la crescita non c’è, i prezzi si stabilizzano e si contraggono.

Per gli allevatori, e per i consorzi pubblici che tutelano e a volte certificano le carni, loro dotati di più o meno buoni uffici studi, non c’è scelta: puntare su vendere di meno ma più buono, a prezzi forse non ottimali ma accettabili.

Ci si mettono anche mamma UE e mamma Ocse, che liberalizzano il mercato delle carni – anche se l’importazione da quello che una volta si chiamava terzo mondo, ma anche dagli Usa, è ancora piena di paletti. Lentamente, e prevalentemente per l’alta gamma, incomincia ad arrivare carne da tutto il mondo. Soprattutto l’Angus, di origine scozzese, ma oramai allevata in tutto il mondo anglofono e anche altrove. E il wagyu, considerata giustamente la più buona carne al mondo, dalla perfetta marezzatura. È prodotto in tutto il Giappone ma anche altrove; wagyu è infatti il nome di una tecnica di lavorazione per cui chiunque può farne uso. Il super top è quello di Kobe, comunque, che si chiama Kobe beef – ed essendo un nome geografico, è tutelato. Tutto questo per testimoniare come in tutti i paesi la qualità della carne cresce.

Ci si mette anche il mercato del pesce, in pieno boom, che continua anche ora: ma a prezzi sempre crescenti, soprattutto per quelli di valore, relativamente facili da lavorare essendo

di qualità – e infatti c’è un grande boom del crudo. Mentre lavorare quelli medi, beh non è un’attività alla portata di tutti.

Il risultato è che i patron dei ristoranti oggi si sono ritrovati con il pesce a prezzi quasi da fuori mercato, mentre le carni – anche quelle ottime – sono sempre più abbordabili: relativamente, sia chiaro, diciamo che erano care ma la loro immagine era alta, molto alta, quindi un grande rapporto qualità prezzo. La scelta di puntare sempre di più sulla carne non poteva che risultare la più logica.

Se il «tutta carne» vuol dire proporre solo piatti di carne, al centro del cuore restano i filetti e controfiletti, quindi le T-bone (nella foto). Definire la T-bone non è facile. Negli Stati Uniti esistono le T-bone e le Porterhouse.

Entrambe includono un osso a forma di T con la carne su entrambi i lati. In linea di massima, le Porterhouse vengono tagliate dalla parte posteriore del lombo e includono più filetto, mentre le T-bone sono tagliate dalla parte più anteriore del lombo e contengono una porzione di filetto più piccola. Poi le Porterhouse sono più spesse, almeno 32 mm imporrebbe il Ministero dell’agricoltura statunitense, che invece accetta anche 13 mm per le T-bone. La realtà ha spazzato via tutto questo: il nome T-bone si è imposto e oramai le bistecche alte con filetto e controfiletto si chiamano tutte T-bone. È un taglio che, nell’immaginario collettivo, è la sintesi perfetta della buona carne. È un taglio amato anche perché il prodotto è tenero e cuoce rapidamente. E qualunque ristorante che

Le straordinarie foglie dei Coleus

Mondoverde ◆ I variopinti disegni multicolori a volte ricordano le famose macchie di Rorschach

Sono in molti ad avere una passione per le piante di Coleus (Coleus scutellarioides), alcune persone le collezionano, come la signora Sandra che lo fa da oltre una decina di anni. È sempre alla ricerca di varietà e specie dai colori nuovi, proprio in rispetto della principale caratteristica dei Coleus: le tinte e le sfumature delle loro foglie sono strepitose.

Amanti del pieno sole, si bagnano abbondantemente in primavera ed estate con una concimazione preferibilmente liquida ogni due settimane

Bianco, crema, giallo, rosa, rosso, fuxia, verde e marrone, con texture bicolori, chiazzate, puntinate o marginate; vantano una tale varietà che in alcuni casi i variopinti disegni sulle foglie ricordano le famose macchie di Rorschach. Queste variegature sono dovute alla presenza di pigmenti biosintetici, gli antociani, che si trovano in maniera naturale nella clorofilla.

La ricchezza degli antociani sommata alla luce solare, intensifica i colori e regala sfumature di ogni sorta a queste piante, molto usate anche nelle aiuole cittadine per la loro scarsa manutenzione e il prezzo contenuto.

Originarie di Asia e Australia, appartengono alla famiglia delle Labiate e si presentano come delle piante sempreverdi, con un fine fusto legnoso, alte fino a un metro.

Molti le trattano come piante annuali, ma basta ricoverarle in casa, come fa la signora Sandra, da fine settembre ad aprile (mal sopportano le temperature inferiori ai 12 °C), per garantire loro una sopravvivenza di molti anni.

Al momento dell’acquisto – di solito si trovano più facilmente esemplari in vendita tra aprile e maggio – sono alte una quindicina di centi-

metri, ma trapiantate in ampi vasi o a terra, si sviluppano molto in fretta, producendo un ampio cespo di foglie sui rametti a struttura quadrangolare. La bellezza delle loro foglie è tale persino da mettere in ombra i fiori, bianchi o blu, già di loro poco appariscenti essendo piccoli e riuniti in corte spighe. Tant’è che spesso le spighe di fiori vengono recise per stimolare la crescita di altre foglie.

Queste ultime, oltre ai già citati colori, hanno margini seghettati, dalla forma ovale o leggermente cuoriforme, ma non solo. Basta una carezza per accorgersi che sono an-

offra prevalentemente carne sa che il successo deriva dal proporre sontuose T-bone: poi magari i clienti non le ordinano, ma la loro presenza in carta alza il livello generale dell’offerta. Grandi interpreti del «tutta carne» sono stati i latino americani, dove questa tradizione esiste da sempre. E i primi ad aprire in Europa sono stati loro. Molti argentini, molti brasiliani: e il rodizio, quello che noi chiamiamo churrasco (churrasco è la preparazione a base di carne cotta in spiedi che ruotano, però il servizio che taglia la carne direttamente sui piatti individuali si chiama rodizio, che è quindi uno stile di servizio e assolutamente non un piatto) è un grande simbolo del «tutta carne».

Quindi il boom c’è. E durerà, credo: alternative non se ne vedono.

che soffici grazie alla fine peluria che li ricopre. Amanti del pieno sole, si bagnano abbondantemente in primavera ed estate con una concimazione preferibilmente liquida ogni quindicina di giorni. Se anche voi, come la signora Sandra, vi innamorerete di queste spumeggianti piantine, vi farà piacere sapere che potrete moltiplicarle con estrema facilità. A tal proposito vi consiglio la talea in acqua. Si tratta di un metodo pensato per ovviare il problema delle marcescenze che spesso si verifica usando la terra; inoltre, così

facendo, la radicazione è più breve. Il periodo ideale per eseguire questa tecnica va da maggio a ottobre; basterà tagliare un rametto lungo circa quindici centimetri, lasciando solo due o tre foglie terminali, quelle sulla punta. A questo punto si dovrà mettere la talea in un bicchiere a mezz’ombra. Il contenitore andrà riempito per circa la metà con acqua, da rabboccare in caso di evaporazione. Dopo circa due o tre settimane compariranno le prime radichette, e dopo un mese la si potrà trapiantare in piena terra o coltivarla in vasi per l’idrocoltura.

Anita Negretti
Mokkie
pexels.com

Il Pipistrello mangia zanzare

Crea con noi ◆ Più che un gioco inanimato, un vero animale da nutrire a colpi di dadi

Oggi proponiamo un’attività creativa e divertente ispirata ai pipistrelli, animali preziosi per l’ambiente, che in questa stagione si possono osservare più facilmente in natura durante le ore serali. I bambini si divertiranno a costruire il pipistrello con materiali di recupero, per poi giocare a nutrirlo lanciando un dado e facendogli «mangiare» le zanzare. Un gioco simbolico che allena la motricità fine, la coordinazione mano-occhio e aiuta a imparare numeri e quantità.

Procedimento

Stampate e ritagliate il cartamodello, quindi riportate i vari

pezzi sul cartone o i cartoncini.

Dipingete il vasetto e le sagome ritagliate di nero. Una volta che tutto è asciutto, fissate le ali sui lati del bicchiere utilizzando la colla. Se necessario, potete creare un piccolo rinforzo piegando un cartoncino a forma di «L» da incollare sul retro delle ali. Per le orecchie, praticate due tagli sul bordo del bicchiere, infilatele e fissatele con un po’ di colla.

Stampate e ritagliate le strisce con le zanzare. Sovrapponete leggermente l’inizio e la fine di ciascuna striscia e incollatele tra loro, in modo da ottenere un’unica striscia lunga (saranno sufficienti 2 o 3 strisce per iniziare).

Giochi e passatempi

Cruciverba

Le piante di cachi hanno resistito ai bombardamenti di Nagasaki nel 1945, per questo si sono guadagnate… Termina la frase risolvendo il cruciverba e leggendo nelle caselle evidenziate. (Frase: 2, 4, 2, 6, 5, 4)

Praticate due fori opposti nel bicchiere, all’altezza della bocca del personaggio, e infilate uno stecchino da parte a parte. Fissate la striscia al centro dello stecchino (all’interno del pipistrello) con un po’ di colla, poi arrotolatela girando lo stecchino. Praticate un taglio nella parte frontale del bicchiere, in corrispondenza della bocca, e fate fuoriuscire l’estremità della striscia con le zanzare.

Per evitare che la striscia si riavvolga da sola, è importante aggiungere un peso. Incollate un cartoncino all’estremità della striscia e fissatevi sopra una calamita abbastanza grande: in questo modo, durante il gioco, la striscia resterà distesa e non si arrotolerà spontaneamente.

Come si gioca: Si lascia fuoriuscire tutta la striscia dalla bocca del pipistrello. Il bambino lancia un dado.

Il numero uscito indica quante zanzare il pipistrello deve mangiare.

Il bambino gira il bastoncino in modo che il foglio con le zanzare si arrotoli all’interno, simulando che il pipistrello le stia «mangiando».

Variante per più giocatori: Si tira a turno il dado. Vince chi fa mangiare l’ultima zanzara!

Idea in più: Divertitevi a creare altri personaggi, magari ispirandovi al vostro ca-

Materiale

• Vasetto per il giardinaggio / barattolo grande dello yogurt

• Vernice nera (acrilica o tempera)

• Cartoncino nero, rosa, marrone, beige (o altri colori decorativi)

• Occhietti mobili (opzionali)

• Colla a caldo o Bastoncino di colla

• Forbici

• Stecchino in legno da spiedino

• Stampante per il cartamodello

• Dado da gioco

(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

ne, al vostro gatto o ad altri animali di fantasia.

Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

ORIZZONTALI

1. Niente per Cicerone

4. Plurale maiestatico

7. Una consonante

9. Nome d’arte dell’attore Diesel (Iniz.)

10. Due nullità

11. Tante sul cruscotto

13. I francesi lo chiamano boulevard

14. Raggi radioattivi

17. Radici commestibili

18. Poesie classiche

19. Nome femminile

21. Un articolo

22. Carne per bresaola

23. Le iniziali del regista Avati

24. Si curano a bocca aperta

25. Codice bancario

26. Sorregge ceppi ardenti

27. Ha dei palchi in testa

VERTICALI

1. Gas nobile

2. Tutt’altro che sommo

3. Le iniziali dell’attrice Morante

5. Lo chiude il pastore

6. Nascono in un attimo

8. Egregio, illustre

12. Vescovo di Roma

13. Diedero fama a Strauss

14. Ricevuta di consegna merce

15. Così si chiamava Tokyo

16. Una consonante

17. Compagni gemelli

19. Un verbo generoso

20. Grezza è in bioccoli

22. Anche il Morto è agitato

23. Un codice

elettronico personale

24. Le iniziali dell’attore Amendola

25. Cane senza pari

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

Soluzione della settimana precedente «Pronto sono Mara, un’agente di telefonia. Le piacerebbe cambiare compagnia?» «Sì, mi piacerebbe» «Con

Risposta risultante: «CON

I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku cliccando sull’icona «Concorsi», homepage in alto a destra Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano . Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.

Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con

Viaggiatori d’Occidente

Il castello di Neuschwanstein e il richiamo del perturbante

Das Unheimliche (Il perturbante). Così

Sigmund Freud, il fondatore della psicoanalisi, definisce un’immagine familiare ma al tempo stesso fuori contesto. E così mi appare Neuschwanstein, il castello costruito da Ludovico II al confine sud-occidentale della Baviera, sopra il villaggio di Hohenschwangau.

La rocca si staglia su uno sperone roccioso a circa mille metri di altitudine e domina la valle del fiume Pöllat. Le montagne boscose alle spalle gli fanno da sfondo, mentre si specchia nei laghi glaciali. In un effetto scenografico fortemente voluto e ricercato, il castello appare come sospeso tra cielo e terra.

Anche quando vedi Neuschwanstein per la prima volta, da lontano, l’impressione di un riconoscimento è fortissimo. Per cominciare è riprodotto infinite volte in tutte le forme su cartoline, calamite da frigo, tazze,

portachiavi, puzzle, poster… Inoltre Walt Disney prese ispirazione proprio da Neuschwanstein per progettare il Castello della Bella addormentata a Disneyland, il primo parco a tema aperto nel 1955 ad Anaheim, in California. Da allora è diventato un simbolo visivo del mondo Disney e ha ispirato altre versioni simili nei parchi di Tokyo, Hong Kong, Parigi e Shanghai. Ma torniamo all’originale. Quando costruì Neuschwanstein, Ludovico II attraversava un momento particolare della sua vita. Nel 1864 era diventato re della cattolicissima Baviera, il più importante Stato germanico dopo la Prussia di Bismarck. Ma proprio in quegli anni il «cancelliere di ferro» prese in mano le redini del mondo tedesco e, attraverso due guerre – con l’Austria nel 1866 e con la Francia nel 1870 – unificò la Germania. Ludovico II fu tagliato fuo-

Cammino per Milano

Il giardino all’inglese di Desio

La capanna del Tasso, nascosta in un angolo del giardino all’inglese voluto dal marchese Ferdinando Cusani (1737-1816) per la sua villa di delizia a Desio, forse era la curiosità maggiore. Sotto un tetto di paglia, il passeggiatore, varcando la soglia, non poteva non stupirsi per le scene bucoliche di quattro quadri tratti da La Gerusalemme liberata (1581) di Torquato Tasso. Il giardino incantato di Armida, dischiuso in tutto il suo erotismo con Rinaldo stregato dalla maga di Damasco nel canto sedicesimo, tra le pagine della Dissertazione sui giardini inglesi (1792) di Ippolito Pindemonte, del resto, dei giardini all’inglese, risulta esserne inconsapevole preludio. Follia architettonica d’ispirazione letteraria che mi rimanda al sarcofago del Petrarca e la torre dantesca, catturate a fine primavera nel parco Belgiojoso (1790) di Milano, come pure all’antro omerico osservato due

settimane fa nel giardino all’inglese di Monza (1780). Però, purtroppo, la capanna del Tasso a Desio – quarantunmila anime e rotti a venti chilometri nord dal Duomo, noto per aver dato i natali a un papa e all’utilitaria bianchina nonché per i suicidi ferroviari – è perduta. Idem il laghetto, l’isoletta rousseauiana con pioppi e cippo funerario, il tempietto di Imene, il coffee-house stile egittomania, il labirinto.

Eppure, dentro fino al collo nello studio dei giardini all’inglese tardosettecenteschi nell’hinterland milanese e seriale per natura, la decisione è di vagare lo stesso per il parco di villa Cusani Antona Traversi Tittoni. A caccia di quel che resta del «superbo quadro di paesaggio», come lo definisce Ercole Silva: ormai mio compagno di viaggio invisibile, databile al 1792. Con il rischio che sia solo aura o l’epigrafe di un cenotafio.

Sport in Azione

Un’eredità da capitalizzare

Quando furono assegnati alla Svizzera, i Campionati europei femminili di calcio si erano profilati all’orizzonte a tinte pallide. Molto entusiasmo da parte dell’Associazione Svizzera di Football, ma anche scarsa attenzione da parte della politica, che aveva paventato un’importante riduzione del finanziamento promesso e, soprattutto, una preoccupante sensazione di tepore e di torpore da parte dei media e dell’opinione pubblica. Con l’avvicinarsi della manifestazione, abbiamo assistito a un inimmaginabile crescendo di passione e di entusiasmo. Oggi, a palla ferma, possiamo semplicemente affermare che l’Europeo è stato un successo colossale.

La Svizzera del calcio si è lasciata catturare. È stato sancito dai media nazionali e regionali, che hanno riservato all’evento una copertura degna di un Europeo declinato al maschile. Lo ha confermato il pubblico, che ha ri-

ri dalla grande politica internazionale e il re, già eccentrico di suo, si rifugiò in una solitudine affollata di miti wagneriani, in una visione idealizzata del passato. E così, a partire dal 1869, imitò lo stile dei castelli medievali nel costruire Neuschwanstein e altre residenze reali. In quel periodo, del resto, tutta Europa era affascinata dallo stile neogotico, incarnato dagli edifici progettati dal celebre architetto francese Eugène Viollet-le-Duc. Ludovico II morì in circostanze misteriose nel 1886, a soli quarant’anni, dopo essere stato sollevato dall’esercizio del potere con una diagnosi di pazzia. Neuschwanstein, da poco completato, era stato immaginato da Ludovico come un luogo sacro e inaccessibile, riservato al sovrano e a una ristretta cerchia di seguaci. Al contrario fu subito aperto al pubblico, quasi che il turismo fosse la sua

naturale vocazione. Da allora ha accolto sessanta milioni di visitatori, un milione e mezzo solo nell’ultimo anno, con punte di seimila al giorno d’estate.

Ora Neuschwanstein, insieme agli altri palazzi di Ludovico II (Linderhof, Herrenchiemsee e la Casa Reale di Schachen), è stato incluso nella Lista del Patrimonio mondiale dell’UNESCO (World Heritage List, istituita nel 1972), un elenco che oggi conta oltre milleduecento siti culturali e naturali di valore universale. La motivazione ufficiale è che «i palazzi mostrano stili storicistici e tecniche avanzate del XIX secolo. Integrati con cura in paesaggi naturali spettacolari, incarnano la visione artistica di Ludovico di Baviera». Questo riconoscimento mi ha colto di sorpresa. Fa una certa impressione trovare un’icona pop in un elenco tanto autorevole, insieme ai più im-

portanti e austeri monumenti di ogni tempo e civiltà. Ma forse l’UNESCO ha colto invece il senso profondo di questo luogo, il suo significato modernissimo sotto apparenze antiche. Non a caso Andy Wharol, il principale esponente della pop art, era ossessionato da Ludovico II e realizzò una serie di ritratti serigrafici del re bavarese con colori brillanti e ripetizione seriale, come aveva fatto per esempio con Marilyn Monroe. Inoltre Neuschwanstein è il castello più kitsch dell’Occidente, un parco a tema prima che lo stesso concetto fosse creato, un perfetto sfondo per i selfie quando ancora la fotografia muoveva solo i primi passi. Con tutti i suoi eccessi, questo meraviglioso castello parla di noi, della nostra superficiale modernità riflessa infinite volte nello specchio distorto della comunicazione. Neuschwanstein ci inquieta perché ci somiglia.

E allora, pianta del grandioso giardino Traversi di Desio incisa nel 1844 dal tenente ingegnere geografo pensionato Giovanni Brenna alla mano, un torrido pomeriggio di luglio, cerco di localizzare follies svanite. A occhio e croce, laghetto, isola, capanna, sono fuori dal parco odierno, massacrato da una lottizzazione. La capanna, «il bellissimo gabinetto del Tasso» come viene chiamato nel testo anonimo di un almanacco del 1828 dal titolo Un’ora nel giardino di Desio, era, credo, dove oggi c’è il posteggio di una scuola media. Di tassesco rimane, su un muro di via Piermarini, il nome Erminia. Via dedicata all’architetto incontrato a Monza e autore anche della villa qui oltre che del giardino, dalla quale entro nel parco.

Cicale come in Toscana, corridori a torso nudo, roggia in secca da un secolo, ombra sopraffina, panche di pietra antichissima sparse. Potrebbe-

ro essere pezzi del tempietto, tipo la trabeazione. Il cannocchiale prospettico tipico, con la villa nel punto di fuga, si sdraia davanti intatto: pratone classico, le nuvole-chiome ai suoi lati. «Grandi macchie arboree felicemente disseminate a formare scenari suggestivi» le descrive Giacomo Bascapè in Arte e storia dei giardini in Lombardia (1962). Dove parla di una lapide che ricorda che qui Bellini ideò La Straniera (1829). Finora non l’ho incontrata ma potrebbe essere una delle panche che costellano i sentieri serpeggianti originari tra i boschetti misti di castagni, querce, tassi. In una di queste, il bordo è ondulato come contorno di nuvole: dettaglio da nulla, tesoro sfuggente. Risalito al cospetto del villa-palazzo, trovo un Nettuno ambimonco intristito dalle transenne intorno, la fontana vuota, erbacce. Una grotta è stata riciclata per un altarino ma-

riano di fortuna. Solo conifere in un certo punto, dove spunta, ormai fuori dal perimetro del parco, innestata sui resti di un convento francescano, la torre neogotica di Pelagio Palagi: pittore ideatore anche di un castello natante sul Po. Niente a che vedere con i padiglioni miniaturistici dei giardini all’inglese tradizionali, ma una torre vera che in cima ricorda Chiaravalle. Spunta il cenotafio Antona Traversi, opera di Luca Beltrami, architetto tra l’altro della sede del «Corriere della Sera» (1904), con un curioso ponte alla base, per far passare una roggia che non c’è più e che scorreva comunque altrove. Cenotafio ex-acqueo dunque. Per i conoscitori del piacere del ruinismo, ancora pezzi di chissà cosa, forse la coffee house egittomane, utilizzati come panche per nessuno. Altra traccia del Tasso, Clorinda è il nome di un lagotto in cerca di tartufi estivi.

empito gli stadi di colori, canti, «ole» festanti, lacrime e sorrisi. Per giunta, senza la radicalizzazione e l’acredine del tifo che contamina le manifestazioni maschili.

Anche il Ticino, pur non disponendo di uno stadio adeguato per ospitare una partita, si è messo in gioco con una ricca serie di manifestazioni collaterali, sin dalla fase di avvicinamento. Scopo dell’esercizio: far salire la febbre, scatenare l’entusiasmo. Missione compiuta. Faccio un lungo salto a ritroso, agli anni Settanta, quando un gruppo di pioniere, con la maglia del Rapid Lugano, cominciava a tirare calci a un pallone sul campo sconnesso di Villa Negroni a Vezia. Quelle ragazze palesavano una tecnica approssimativa, avevano un atteggiamento tattico poco superiore a quello delle partite da oratorio, ma si mettevano in gioco con una grinta insospettabile. Un

giorno, casualmente, dopo una partitella con degli amici, ci fermammo a vedere quella delle «rapidine». Ci avevano detto che fra le avversarie, se ricordo bene dello Zurigo, giocava anche l’olimpionica dello sci Marie Theres Nadig. Confesso che i nostri commenti, oggi sarebbero da querela. Il calcio femminile, da allora, ne ha percorsa di strada. Lo dobbiamo riconoscere, quello visto gli scorsi giorni, è tutt’altro sport.

Durante l’esecuzione del salmo svizzero prima della sfida dei quarti di finale con la Spagna, mi sono emozionato come non mi era mai capitato. Il pubblico dello Stade de Suisse ha cantato con le nostre ragazze. Pia Sundhage, allenatrice svedese della nostra nazionale, le accompagnava muovendo le labbra, probabilmente per scongiurare il pianto. Sulle tribune, il muro rossocrociato non ha smesso un solo istante di incoraggiare la squadra.

Anche quando era sotto di due reti. Anche alla fine dell’incontro, quando le nostre calciatrici sono rimaste a lungo sul campo, reggendo uno striscione di ringraziamento ai fans. L’abbraccio tra tribune e campo ha distillato emozioni da pelle d’oca. Ora però, si tratta di capitalizzare ciò che l’Europeo ha saputo proporre. Cosa accadrà il 23 agosto, quando si aprirà la nuova stagione della Super League femminile? Lucerna-Servette, oppure San Gallo-Young Boys, faranno registrare un insolito «sold out»? Dubito. Tuttavia, la strada è abbozzata. Si tratta di percorrerla, credendo che sia quella giusta. Serviranno più mezzi, più strutture, professionalizzazione dei ruoli, migliore copertura mediatica. In sostanza, più investimenti. Immagino e spero che le migliaia di persone che si sono divertite assistendo alle partite dell’Europeo, vogliano continuare a godere

dello spettacolo, dando un’ulteriore spallata al muro dei pregiudizi. Nelle scorse settimane, abbiamo capito che la portiera non è solo quella dell’automobile, che le difenditrici, quanto a «garra», non hanno nulla da invidiare ai difensori, che non dobbiamo più meravigliarci per certi gesti tecnici delle centrocampiste e delle attaccanti. Li sanno fare. Punto. E le trame di gioco, penso in particolare modo al calcio proposto dalla Spagna, sono a volte dei trattati di geometria. Maria Macrì e Gaëlle Thalmann, le ottime opinioniste della RSI, sostengono che il nostro movimento è vivo, che in Svizzera ci sono delle giovanissime di talento, in grado di essere presto delle star planetarie. Magari, fra di esse, ci sarà anche qualche ticinese. Perché no? Se l’AS Gambarogno, quest’anno, ha portato a casa la Coppa Svizzera U19, significa che anche da noi l’humus è fertile.

di Giancarlo Dionisio
di Oliver Scharpf
di Claudio Visentin

Hit della settimana

Nettarine e pesche, Extra a polpa bianca e a polpa gialla, per es. nettarine a polpa bianca, Italia/Spagna/Francia, al kg, 3.99 invece di 5.95

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di manzo Black Angus M-Classic, al pezzo Uruguay, per 100 g, in self-service,

Settimana Migros Approfittane e festeggia

Raclette al naturale Raccard, IP-SUISSE in blocco extra o a fette, in confezione speciale, per es. in blocco extra, per 100 g, 1.35 invece di 2.25

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Cornetti alla vaniglia e alla fragola Fun prodotto surgelato, in conf. speciale, 16 pezzi, 16 x 145 ml, (100 ml = 0.47)

Freschezza estiva Frutta e verdura

3.50

Pomodori Peretti Ticino, al kg, (100 g = 0.35)

4.40

3.70

2.95

Consiglio: congelali interi e utilizzali come cubetti di ghiaccio decorativi nelle bevande

3.95

invece di 5.50 Lamponi Svizzera, vaschetta da 250 g, (100 g = 1.58) 28%

1.70 invece di 2.–Mais dolce Svizzera, vaschetta da 440 g, (100 g = 0.39) 15%

5.50

invece di 7.50

Patate resistenti alla cottura Migros Bio Svizzera, busta da 2 kg, (1 kg = 2.75) 26%

Melone retato Italia, al pezzo 22%

1.95 invece di 2.50

Angurie mini, Migros Bio Spagna, al pezzo 20%

4.75

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Riempi la borsa vitaminica a prezzo fisso con zucchine, peperoni, pomodori a grappolo e melanzane

8.90 invece di 11.20

Borsa vitaminica da riempire con verdura per ratatouille peperoni rossi e gialli, zucchine, melanzane, pomodori a grappolo (Migros Bio e Demeter esclusi), Svizzera / Paesi Bassi / Spagna, almeno 2,9 kg, (1 kg = 3.07) 20%

Migros Ticino

3.95 invece di 4.95

Prosciutto cotto di coscia Gourmet, IP-SUISSE

Suggerimento: mantiene succosi gli spiedini di carne fatti in casa 7.95

5.70 invece di 7.60

Arrosto all'inglese di manzo Black Angus Svizzera, per 100 g, al banco 25%

6.60

invece di 8.25

Piatto misto di affettati ticinesi prodotto in Ticino, in confezione da 150 g, (100 g = 4.40)

Migros Ticino

Hai voglia di grigliare?

2.10

invece di 3.55

Spiedini di manzo degli ussari Grill mi Germania, per 100 g, in self-service 20%

2.95 invece di 3.70

Bistecche di lonza di maiale marinate Grill mi, IP-SUISSE per 100 g, in self-service 40% Lombatina d'agnello M-Classic al naturale e marinata, per es. al naturale, per 100 g, 3.25 invece di 3.95, in self-service 17%

analcolicoL'aperitivoitaliano Noci e miscele di noci, Party in conf. speciale, per es. Arachidi, 750 g, 2.70 invece di 3.60, (100 g = 0.36) 25%

Voglia di salmone & Co?

4.95 Cozze Royal Vin Blanc e Provençale, d'allevamento, Spagna, 500 g, in self-service, (100 g = 0.99)

12.95 invece di 20.50 Orata reale M-Classic, ASC d'allevamento, Turchia, in conf. speciale, 3 pezzi, 1 kg, (100 g = 1.30) 36%

6.95 invece di 11.90 Filetti Bordelaise Pelican, MSC prodotto surgelato, 2 x 400 g, (100 g = 0.87)

12.50 invece di 16.90

Filetti di salmone senza pelle M-Classic, ASC d'allevamento, Norvegia, 380 g, in self-service, (100 g = 3.29)

1.45

invece di 1.85

Le Gruyère dolce AOP (Emmi Fromagerie escluso), circa 250 g, per 100 g, prodotto confezionato 21%

Tomino boscaiolo con speck Italia, 195 g, (100 g = 1.87) 20%

3.65 invece di 4.60

San Gottardo Prealpi per 100 g, prodotto confezionato 20%

2.60 invece di 3.25

Fol Epi a fette Original o Légère, in conf. speciale, per es. Original, 462 g, 8.60 invece di 10.78, (100 g = 1.86) 20%

5.20 invece di 6.55

Caprice des Dieux in conf. speciale, 330 g, (100 g = 1.58) 20%

Tutti i Caprice des Dieux (formato maxi escluso), per es. Caprice des Dieux, 300 g, 4.76 invece di 5.95, (100 g = 1.59) a partire da 2 pezzi 20%

3.60

5.95

Migros

Veloce preparazione, lunga conservazione

a partire da 2 pezzi 20%

Tutti i müesli Farmer per es. Classic mela e cannella, 500 g, 3.60 invece di 4.50, (100 g = 0.72)

Oltre 1000 prodotti di uso quotidiano a prezzo basso

1.40

a partire da 2 pezzi 20%

Tutte le noci e tutta la frutta secca, Migros Bio (prodotti Alnatura e Demeter esclusi), per es. noci di anacardi, Fairtrade, 150 g, 2.84 invece di 3.55, (100 g = 1.89)

a partire da 2 pezzi 30%

Boncampo in chicchi Classico e Oro, 1 kg, 9.07 invece di 12.95

3.95

3.– Aromat Knorr 90 g, (100 g = 3.33)

conf. da 3 20%

Pasta Anna's Best, refrigerata fiori al limone e formaggio fresco o gnocchi al basilico, in confezioni multiple, per es. fiori, 3 x 250 g, 11.75 invece di 14.85, (100 g = 1.57)

conf. da 6 35%

Tonno M-Classic, MSC in olio o in salamoia, 6 x 155 g, per es. in olio, 7.60 invece di 11.70, (100 g = 0.81)

8.80

Brodo di manzo magro Knorr

240 g, (100 g = 3.67)

a partire da 2 pezzi 20%

conf. da 2 20%

Cornatur

scaloppina al limone e pepe o bistecca al pepe, per es. scaloppina al limone e pepe, 2 x 220 g, 7.90 invece di 9.90, (100 g = 1.80)

Tutti gli antipasti Polli, Conserve della Nonna, Da Emilio e Dittmann per es. pomodori secchi alla siciliana Polli, 285 g, 3.44 invece di 4.30, (100 g = 1.21)

2.90

Senape dolce Thomy 300 g, (100 g = 0.97)

9 x 30 g, (100 g = 1.83) Oli d'oliva Don Pablo

Pizze Prosciutto Formaggio Piccolini Buitoni

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