Azione 32 del 4 agosto 2025

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MONDO MIGROS

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SOCIETÀ Pagina 3

La fisica Federica Mantegazzini spiega il potenziale rivoluzionario dei computer quantistici

Due Ong israeliane denunciano: a Gaza è genocidio, intanto un appello all’azione arriva a Berna

ATTUALITÀ Pagina 13

A Biasca Casa Cavalier Pellanda ospita una retrospettiva dell’artista ticinese Flavio Paolucci

CULTURA Pagina 17

L’ecosistema del Film Festival

Con il Cimgo, la montagna torna accessibile anche a chi credeva di non potersela più godere

TEMPO LIBERO Pagina 27

Il ritorno del sottosuolo

L’idea mi frullava nella testa da un po’, ma ho aspettato l’estate per realizzarla. Volevo rileggere con calma Memorie del sottosuolo di Dostoevskij convinto di trovare in quel libro, pubblicato nel 1864, una descrizione profetica dei nostri tempi. E l’ho trovata, forse persino più profonda e accurata di quanto ricordassi.

L’intuizione di partenza non aveva nulla a che fare con la trama del romanzo. Nasceva dal fatto che stiamo vivendo stagioni in cui, per ciò che il sottosuolo contiene, nascono guerre e si sterminano popoli. Veniamo da decenni di conflitti per il petrolio e per l’acqua, e siamo entrati in un’era di contese sulle terre rare che scatenano rapaci appetiti di possesso perfino sulle immense distese ghiacciate della Groenlandia.

Ma c’è un altro sottosuolo che Dostoevskij magistralmente racconta, e ci consente di stabilire non tanto delle analogie dirette, ma delle risonanze tematiche che rivelano quanto l’autore russo sia ancora attuale. È il mondo della me-

schinità fuori controllo e fuori logica. Il protagonista di questo capolavoro oscuro, l’uomo del sottosuolo appunto, è un ex funzionario di Pietroburgo, isolato, rancoroso, iper-razionale, che vive nel risentimento, nel disprezzo di sé e degli altri, e nella paralisi esistenziale. «Là, nel suo lurido, puzzolente sottosuolo – scrive – il nostro topo offeso, maltrattato e deriso si sprofonda immediatamente in una fredda, velenosa e soprattutto eterna malignità». Parla di giustizia, ma vuole solo vendetta, una vendetta sproporzionata al torto subito. Come non pensare alla ritorsione israeliana non contro Hamas (che è legittima e necessaria), ma contro i palestinesi tutti, ora che perfino due Ong israeliane hanno definito le politiche di Netanyahu, genocidarie (vedi l’articolo di Sarah Parenzo a pag. 13)?

Un altro tema attualissimo è la scelta politica di non perseguire veramente il vantaggio dell’umanità, anzi: «Che fare dei milioni di fatti che testimoniano come gli uomini scientemente, cioè

comprendendo appieno i loro veri vantaggi, li lasciassero in secondo piano e si buttassero su un’altra strada (...) difficile, assurda, cercandola poco meno che nelle tenebre?» Basti pensare, in questo caso, al modo in cui stiamo abbruttendo il pianeta con scelte che sfregiano l’equilibrio ambientale, rivalutano le energie fossili, surriscaldano l’aria provocando poi catastrofi naturali, come le micidiali alluvioni nelle nostre valli, a cui ci stiamo vigliaccamente abituando? O alle guerre che non finiscono mai, distruggendo vite innocenti senza soluzione di continuità, mettendo in ginocchio le economie di molti Paesi e adombrando un ritorno non più improbabile della minaccia atomica in scenari come quello ucraino?

Tristemente vera anche la constatazione di Dostoevskij che non è affatto scontato che «per effetto della civiltà l’uomo si raddolcisce, per conseguenza diventa meno sanguinario e meno atto alla guerra». Secondo lui vale il contrario: grazie alla civiltà l’uomo vive quella che definisce la

multilateralità delle sensazioni (cioè la coesistenza di sentimenti opposti: odio e amore, pietà e crudeltà...) e «attraverso lo svilupparsi di questa multilateralità l’uomo c’è caso che giunga magari a trovare godimento nel sangue». Esiste epoca più sadica della nostra, in effetti?

La grande domanda è il perché. Perché, malgrado secoli di evoluzione dei costumi e del pensiero, restiamo topi rancorosi del sottosuolo? Perché al vantaggio della specie preferiamo il «vantaggiosissimo vantaggio» dell’arbitrio, del capriccio, dell’ostinazione, dell’autogol sistematico e perfino desiderato? Perché, citando sempre le Memorie del sottosuolo «l’uomo non rinuncerà mai alla distruzione o al caos»? Può darsi che la risposta si trovi nelle opere più mature di Dostoevskij, nella sua dolorosa ricerca di un orizzonte di senso nella spiritualità, per esempio. Vabbè, l’estate è a metà del guado, potremo rileggere con calma anche I fratelli Karamazov e Delitto e castigo

Manuela Mazzi e Nicola Mazzi Pagine 18 e 19
Locarno Film Festival

«Già da piccolo avevo un trenino elettrico»

Incontri ◆ Come saranno i treni del futuro? Durante il viaggio da Berna a Zurigo, abbiamo parlato con il CEO delle FFS Vincent Ducrot Christian Dorer

Come saranno i treni del futuro?

Durante il viaggio da Berna a Zurigo, il CEO delle FFS Vincent Ducrot ci racconta dei nuovi treni ad alta velocità, dei posti di movimento intelligenti e della maggiore capacità nelle ore di punta.

Signor Ducrot, si sposta più in treno o in auto?

Viaggio molto in treno. Oggi a Zurigo, domani in Ticino, giovedì a Ginevra. Per me il treno è più di un semplice mezzo di trasporto. Fa semplicemente parte della vita quotidiana di un CEO delle FFS.

Quando viaggia in treno, la gente la riconosce?

Ogni tanto qualcuno mi rivolge la parola, di solito le persone sono molto cordiali. Capita che mi pongano una domanda o che mi ringrazino, cosa che mi fa sempre piacere.

Qual è il suo treno preferito?

In realtà mi piacciono tutti i treni, sia quelli moderni sia i vecchi tesori. Conosco bene la nostra flotta e la tengo sotto controllo. Se in viaggio vedo una lampada difettosa, ad esempio, lo segnalo. I treni sono per me una vera passione.

Da dove nasce questo entusiasmo?

Già da bambino avevo un trenino elettrico. Un momento indimenticabile è stato il viaggio con mio zio sul Trans Europ Express, un treno di lusso veloce e confortevole in uso tra gli anni 60 e 80. La sensazione di velocità e la tecnologia mi hanno catturato allora e non mi hanno abbandonato fino ad oggi.

Quindi bisogna essere una specie di nerd delle ferrovie per fare il capo delle FFS ?

Penso di sì. È di grande aiuto, soprattutto quando si costruisce così tanto. Una persona che non comprende le complesse interrelazioni fra tecnologia, orari e infrastrutture non può dirigere un’azienda ferroviaria.

Lei proviene dall’informatica. Quest’esperienza la aiuta nella gestione delle ferrovie?

Sì, molto. Che si tratti di dati sugli orari, di posti di movimento o di servizi alla clientela, tutto si basa su sistemi informatici. Il mio background mi aiuta a comprendere il contesto tecnico e a creare ponti tra ingegneri, esperti e il pubblico.

Ha affermato che sui treni c’è bisogno del 20% di posti in più ogni 15 anni. Perché?

La popolazione è in crescita e dopo la pandemia le persone viaggiano molto di più, soprattutto nel tempo libero. Un tempo andare a un concerto a Zurigo era qualcosa di speciale, ma oggi fa parte della vita quotidiana. I pendolari si spostano meno, ma fanno tragitti più lunghi. Ciò comporta un aumento della domanda di posti a sedere.

Quali sono i progetti più importanti delle FFS?

Attualmente sono in corso oltre 30 grandi progetti di costruzione. Ad esempio, stiamo ampliando le grandi stazioni ferroviarie di Berna e Losanna. Si tratta di lavori di costruzione molto complessi, perché non abbiamo interrotto il servizio per portarli avanti. Oltre ai nuovi edifici, anche la manutenzione del-

le infrastrutture esistenti è molto importante.

Perché la manutenzione sta diventando sempre più importante?

Molti impianti sono vecchi, alcune gallerie hanno 80 o 100 anni. Investiamo circa due miliardi di franchi all’anno per garantire che tutto funzioni in modo sicuro e affidabile.

Così tanti soldi! Possiamo permettercelo?

Al momento, sì. Grazie al fondo per l’infrastruttura ferroviaria, disponia-

mo di una solida base finanziaria. La legge stabilisce che la manutenzione viene prima delle nuove costruzioni. Questo è molto importante. Perché lo dico apertamente: se risparmiamo sulla manutenzione, rischiamo di trovarci in uno scenario simile a quello della Germania, con treni moderni ma una rete fatiscente, che provoca ritardi. Ciò non deve accadere da noi.

A volte i treni sono sostituiti da autobus, come nel caso della tratta Berna-Friburgo. Come mai?

Abbiamo chiuso completamente la linea per due mesi, invece di effettuare i lavori a tappe nell’arco di tre anni. Si tratta di una soluzione più intensa a breve termine, ma migliore e più sicura a lungo termine. La chiusura relativamente lunga di una linea principale è un test. Vedremo se avrà successo. Finora il servizio di autobus sostitutivi funziona in modo impeccabile.

In Svizzera francese la cancellazione dei collegamenti diretti con Ginevra ha suscitato delle critiche. Qual è la sua posizione al riguardo? Capisco molto bene le critiche, ma purtroppo abbiamo dovuto stabilizzare l’orario perché c’erano troppi ritardi. Oggi, circa il 94% dei treni è puntuale, una percentuale molto superiore rispetto al passato. Il nuovo tunnel di Ligerz sul lago di Bienne dovrebbe rendere possibili nuovi col-

legamenti diretti a partire dalla fine del 2029.

Si dice che le ferrovie stiano diventando sempre più digitali. Che cosa significa, concretamente? Oggi, ogni linea è divisa da segnali in sezioni su cui può circolare un solo treno. In futuro, i treni comunicheranno tra loro in modo da poter viaggiare a intervalli di tempo più ravvicinati. Ciò significa che è possibile aggiungere sui binari dal 20 al 30% di treni in più.

Sembra un grande cambiamento. Sì, a Zurigo abbiamo ancora un posto di movimento degli anni 50. Funziona, ma è obsoleto. La sostituzione richiede diversi anni, ma ne vale la pena.

Quali sono i vantaggi concreti della digitalizzazione per i viaggiatori?

Possiamo reagire in modo più flessibile agli spostamenti nel tempo libero. In caso di bel tempo nei fine settimana o di una bella nevicata in inverno, in futuro faremo circolare spontaneamente treni aggiuntivi.

Grazie alle moderne tecnologie informatiche e all’intelligenza artificiale, possiamo pianificare in modo più veloce e più mirato.

In quali ambiti le Ferrovie Federali Svizzere utilizzano già l’intelligenza artificiale?

Ad esempio, nel servizio clienti, in caso di malfunzionamenti o nella disposizione dei treni. Mentre un essere umano può esaminare 20 scenari, l’IA può analizzare migliaia di varianti e suggerire la soluzione migliore. Questo alleggerisce enormemente il nostro personale.

Quando sostituiremo i macchinisti con treni a guida autonoma?

Mai. Un giorno sarà di sicuro possibile a livello tecnico. Ma sul treno dovrebbe esserci comunque qualcuno in grado di reagire immediatamente in caso di malfunzionamento. Ecco perché l’emozionante lavoro del macchinista non diventerà mai noioso.

Cosa ne pensa dei nuovi treni notturni?

Rimangono un mercato di nicchia, ma sono utili su alcune tratte. Stiamo investendo in un nuovo collegamento con Malmö, ad esempio. I treni notturni hanno circa 250 posti, quelli diurni più di 1000, il che fa la differenza anche in termini di emissioni di CO₂. Mi aspetto che in futuro un numero maggiore di treni normali attraversi l’Europa durante la notte.

Non è una soluzione molto comoda.

Sicuramente ci vorrebbero dei sedili più comodi di quelli utilizzati finora. Siamo abituati a viaggiare di notte in aereo, quindi perché non in treno?

Quali sono le nuove destinazioni a cui punta?

Stiamo valutando Barcellona, Roma e Londra. A tal fine, abbiamo bisogno di treni ad alta velocità che possano viaggiare fino a 300 km/h. Collaboriamo con ferrovie partner, ma siamo più flessibili con i nostri treni. Il nostro obiettivo è quello di indire una gara d’appalto per i nuovi treni nel 2026.

Quali sono le tendenze per i nuovi treni?

Finestrini più grandi, più spazio per biciclette e bagagli, buona connessione a internet grazie ai vetri permeabili ai telefoni cellulari e prese di corrente anche in seconda classe. Il comfort sta diventando sempre più importante, soprattutto nel trasporto per il tempo libero.

Le FFS compiranno 125 anni nel 2027. Quali risultati vorrebbe aver raggiunto per allora?

Fino ad allora, vorrei poter dire: abbiamo fatto molte cose nel modo giusto. Vorrei che i treni siano più puntuali, che i collegamenti siano migliori e che le ferrovie crescano in modo sostenibile. E vorrei aver dimostrato alla Svizzera che le ferrovie hanno un ruolo importante non solo oggi, ma anche in futuro.

Prossima fermata: Stazione Centrale di Zurigo. Grazie mille per l’intervista! Grazie, è stato divertente!

La Stazione Centrale (HB) di Zurigo; al centro, il caratteristico orologio di HB. (Daniel Winkler)
Il CEO delle FFS
Daniel Winkler

SOCIETÀ

Un nuovo studio sui superbatteri I familiari di pazienti dimessi dall’ospedale potrebbero avere un rischio maggiore di contrarre un'infezione resistente agli antibiotici

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Tutto il fascino del cavallo

Da cinquant’anni la Federazione Ticinese Sport Equestri promuove il rispetto e la conoscenza del cavallo e il 31 agosto invita tutti a una festa

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Il bit nell’universo dei quanti

Antichi acquedotti rurali È tornata a scorrere l’acqua nei «canalitt» in pietra del Cortaccio e Curerone grazie all’intervento del Patriziato di Brissago

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Tecnologie ◆ I computer quantistici hanno un potenziale rivoluzionario, come ci spiega la fisica italiana Federica Mantegazzini

«Nessuno capisce la meccanica quantistica», diceva con un certo gusto per il paradosso Richard Feynman, che per non capirla ci aveva vinto un premio Nobel nel 1965. Con la sua ironia il fisico americano sintetizzava la contraddizione che ancora oggi vivono i suoi colleghi nei laboratori di tutto il mondo: la fisica quantistica funziona, perché riesce a descrivere il comportamento della materia a livello dell’infinitamente piccolo. Ma ci restituisce una visione della Natura assurda, che sfida la nostra intuizione. In essa una particella subatomica può essere in più stati contemporaneamente finché non viene misurata; elettroni o fotoni possono comportarsi sia come particelle che come onda e due o più particelle possono essere intrecciate in modo tale che, misurando lo stato di una, si conosca istantaneamente lo stato dell’altra, indipendentemente dalla distanza che le separa.

I computer quantistici possono eseguire calcoli in un modo radicalmente diverso e potenzialmente molto più efficiente rispetto a quelli attuali

Ma questo non ha fermato gli scienziati, che – con ingegnosità – sfruttano il comportamento paradossale della materia per sviluppare una nuova e promettente tecnologia: il computer quantistico. A differenza di quelli classici che utilizziamo ogni giorno, i quali si basano su bit che possono rappresentare solo 0 o 1, i computer quantistici utilizzano i qubit (bit quantistici), che possono esistere in una sovrapposizione degli stati quantistici 0 e 1, con una certa probabilità associata, per poi collassare in uno dei due stati nel momento della misura. Sfruttando le bizzarre leggi della meccanica quantistica, questi computer possono eseguire calcoli in un modo radicalmente diverso e potenzialmente molto più efficiente rispetto ai computer attuali, aprendo la strada alla risoluzione di problemi finora considerati impossibili. I qubit superconduttori sono uno dei tipi di qubit più promettenti e avanzati, utilizzati nella costruzione dei computer quantistici. Sono la tecnologia di base impiegata da giganti come IBM e Google e nell’agosto 2024 un giovanissimo team della Fondazione Bruno Kessler (FBK), a Trento, è riuscito a produrre il primo qubit di questo tipo in Italia. Un risultato importante ottenuto anche grazie al lavoro della sua coordinatrice, la fisica Federica Mantegazzini, tornata in Italia dopo un passato di ricerca in Germania.

Federica Mantegazzini, a che cosa state lavorando ora? E quali so-

no i prossimi passi del suo lavoro di ricerca?

I circuiti quantistici superconduttivi possono essere utilizzati per tanti scopi diversi. Al momento ci stiamo concentrando su due aspetti: da un lato migliorare la qualità, la riproducibilità e le performance degli elementi del circuito e dall’altro lavorare a dispositivi innovativi sia nell’ambito dei computer quantistici che dei sensori quantistici e della fisica fondamentale. Abbiamo recentemente depositato due brevetti per dei dispositivi superconduttivi che abbiamo inventato per il controllo di processori quantistici.

Lei sostiene che i computer quantistici abbiano un potenziale rivoluzionario. Ci può fare qualche esempio concreto di applicazioni future più promettenti che vedremo emergere in questo campo?

Gli ambiti che potenzialmente saranno toccati da questa rivoluzione spaziano dalla medicina alla finanza, dalla farmacologia all’esplorazio-

ne spaziale, dai modelli meteorologici alla ricerca di nuovi materiali. Nel concreto potremmo per esempio essere in grado di fare previsioni meteorologiche più precise oppure scoprire nuovi farmaci in modo più veloce ed efficiente. Alcuni sensori quantistici vengono già utilizzati in ambito medico per monitorare i segnali cerebrali o anche nel campo della geologia per applicazioni di geo-esplorazione, oltre che possibili future applicazioni in ambito spaziale. I computer quantistici possono risolvere in modo efficace e veloce certi compiti e già oggi sono utilizzati per esempio nell’ambito della scienza dei materiali, della chimica computazionale e della farmacologia. In questi campi vogliamo analizzare e simulare un numero vastissimo di combinazioni, un’operazione che viene eseguita in modo molto più veloce ed efficace da un computer quantistico rispetto ad un computer classico. Un altro esempio di applicazione sono i problemi di ottimizzazione in ambito finanziario, dove siamo di fronte

a una dinamica caotica e di difficile predizione, in cui un calcolo quantistico può fare la differenza.

Il funzionamento di un computer quantistico è lo stesso di quello della natura, perché si basa sulle stesse leggi. Quali sono le implicazioni per la scienza e la ricerca di questo aspetto di questa nuova tecnologia?

Un calcolatore quantistico è naturalmente più adatto per mappare un sistema fisico che si vuole studiare, se anch’esso è regolato dalle leggi della meccanica quantistica. I computer quantistici possono essere quindi sfruttati come simulatori, ovvero per «mimare» sistemi fisici complessi che ci interessa studiare. Per esempio possiamo replicare il comportamento di sistemi atomici o subatomici, o interazioni nucleari o molecolari, prevedendone così l’evoluzione temporale.

Questa interazione così intima con la controintuitiva realtà del-

la meccanica quantistica cambia in qualche modo la sua stessa visione del mondo?

Personalmente sono molto interessata alla filosofia e dunque trovo estremamente stimolanti le riflessioni sull’oggettività della realtà che nascono dalla meccanica quantistica, come per esempio quelle sul ruolo dell’essere umano, che nel tentativo di conoscere la natura nei suoi meandri più intimi inevitabilmente ne altera le proprietà. Mi trovo ad osservare una netta divisione tra le domande e implicazioni filosofiche che la meccanica quantistica fa emergere e l’utilizzo concreto di questa teoria nel nostro lavoro da fisici. Quando ci concentriamo su un problema specifico utilizziamo la meccanica quantistica come strumento, senza essere influenzati dalla sua contro-intuitività, mentre solo facendo un passo indietro e riflettendo sulla teoria nel suo complesso le domande di ampio respiro trovano spazio per emergere.

Federica Mantegazzini coordina un giovane team della Fondazione Bruno Kessel di Trento che studia i circuiti quantistici superconduttivi (sd.fbk.eu)
Mattia Pelli

Che si tratti di un panino imbottito per la pausa pranzo, di un tagliere di affettati misti locali da servire come antipasto, oppure di una ricetta dove poter dare libero sfogo alla propria creatività, con il prosciutto cotto non c’è praticamente limite alle possibilità culinarie.

Chi ricerca un prodotto di alta qualità, troverà soddisfazione nel prosciutto cotto della linea dei Nostrani del Ticino, una specialità dall’aroma intenso e dal sapore delicato realizzato dal salumificio I Salumi di Pin di Mendrisio utilizzando carne di maiali allevati in Ticino nel rispetto di elevati standard in materia di benessere animale.

Un prodotto di eccellenza realizzato nel nostro Cantone

Dopo essere state accuratamente selezionate e disossate dai mastri salumieri, le cosce vengono mondate per eliminare il grasso superfluo. Si procede quindi all’aromatizzazione della carne, che viene eseguita per mezzo di una soluzione salina a base di aromi naturali, sale e vino. La successiva fase prevede che le cosce vengano massaggiate (in gergo zangolate), affinché gli aromi si distribuiscano in modo omogeneo all’interno della carne.

Infine, si arriva alla lenta cottura, che avviene in speciali forni a vapore fino al raggiungimento della temperatura ideale, che corrisponde a 69 gradi al cuore. Il prosciutto cotto nostrano è un prodotto privo di polifosfati.

Sapori del territorio

Attualità ◆ Il prosciutto cotto dei Nostrani del Ticino è una bontà a cui è difficile resistere

Prosciutto cotto nostrano

Ticino, per 100 g, al banco Fr. 3.80 invece di 5.50 dal 5.8 all’11.8.2025

La ricetta Panino con prosciutto cotto e zucchine

Ingredienti per 4 persone

• 300 g di prosciutto cotto

• 2 zucchine di ca. 200 g ciascuna

• 4 cucchiai d’olio d’oliva

• sale • pepe dal macinapepe

• 4 fette di pane di ca. 80 g ciascuna

• 100 g di formaggio fresco vaccino, ad es. zincarlin

• 100 g di rucola

Preparazione

Tagliate le zucchine a fette per il lungo. Scaldate l’olio in una bistecchiera e rosolate le fette da entrambi i lati a fuoco medio per ca. 3 minuti. Condite con sale e pepe. Farcite le fette di pane con il prosciutto e le fette di zucchina. Sbriciolate il formaggio sul pane, distribuite la rucola e condite con il pepe.

Fai il pieno di vitamine risparmiando

Attualità ◆ Questa settimana le pesche piatte di produzione biologica sono in offerta speciale alla tua Migros

Le pesche piatte sono una varietà di pesca dalla caratteristica forma appiattita, con buccia rosso-arancione vellutata, con polpa gialla o bianca. Si distinguono per il loro intenso profumo e il sapore molto dolce che ricorda il miele. Sono conosciute anche come pesche «tabacchiere» o «saturnine». Rispetto alle altre varietà, nella fattispecie pesche gialle, bianche e pesche-noci, sono più sode e meno acquose.

Come le altre qualità di pesca, anche le pesche piatte sono ricche di importanti sostanze benefiche per il nostro organismo, come le principali vitamine, sali minerali, betacarotene, nonché fibre alimentari. Inoltre, avendo un contenuto calorico relativamente basso, sono un buon alleato della linea e rappresentano uno spuntino sano e leggero.

Le pesche in generale sono molto apprezzate per la loro capacità di arricchire molte preparazioni culinarie. Sono una delizia da sole, ma si prestano anche bene per macedonie, confetture, chutney, succhi, gelati, dessert, come anche per regalare un tocco di freschezza a piatti salati. Le pesche sono frutti che continuano a maturare anche dopo la raccolta. Sono pronte al consumo quando cedono a una leggera pressione delle dita.

Oltre ai prodotti bio di provenienza svizzera, Migros offre anche numerosi prodotti esteri certificati, come la frutta e la verdura. Questi prodotti di importazione devono rispecchiare elevati standard di qualità, sostenibilità e rispetto per l’ambiente, in linea con le normative svizzere e internazionali.

La rassegna dell’artigianato «di Nos» al centro S. Antonino

Attualità ◆ Come consuetudine ormai da diversi anni, l’associazione Artigiani del Ticino, in collaborazione con Migros Ticino, organizza una rassegna che vede impegnati gli artigiani del nostro territorio

La rassegna, come da tradizione, è ospitata dal Centro Migros S. Antonino da lunedì 4 a sabato 16 agosto 2025. Per 2 settimane gli artigiani si presentano nella mall principale del centro commerciale con un pittoresco mercatino animato da coinvolgenti dimostrazioni dal vivo: un’ottima occasione per scoprire le perle d’artigianato del Ticino e per scambiare due chiacchiere con chi produce queste meraviglie.

Durante l’evento è possibile, oltre ad ammirare decine di oggetti d’artigianato, anche partecipare a un concorso dove il pubblico è chiamato a «giudicare» delle opere artistiche sul tema «ritrovare le radici: tradizione & innovazione »; tra tutte le schede verranno estratti dei buoni d’acquisto. Quest’anno, alla rassegna DI NOS, si potranno per esempio scoprire le opere in legno di Roberto Barboni, Guido Zucchetti e Robert Russi, il tombolo di Luisa Gysel, gli oggetti di Marina De Luigi, le stampe di Nadia Gentilini e Alina Bulla, le creature di Martina Van Bist, il vetro di Rosalba Salvini e Nelda Bulloni e gli oggetti di Renata Ruggeri.

Per maggiori informazioni sull’evento o per aderire all’associazione come artigiano ticinese, si può consultare il sito internet: www.ar-ti.ch

Nuova carta, nuova fortuna.

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Dopo un ricovero, attenzione ai superbatteri

Salute ◆ Uno studio ha dimostrato che le persone che hanno contatti con un familiare affetto da MRSA ricoverato di recente hanno una probabilità 71 volte maggiore di contrarre l’infezione

Antonio Caperna

I familiari di pazienti recentemente dimessi dall’ospedale potrebbero avere un rischio maggiore di contrarre un’infezione resistente agli antibiotici, legata a un «superbatterio», anche se al paziente non è stata diagnosticata la stessa infezione. Ciò suggerisce che gli ospedali svolgano un ruolo nella diffusione nella comunità di batteri resistenti. È quanto emerso da uno studio pubblicato su Infection Control & Hospital Epidemiology, la rivista della Society for Healthcare Epidemiology of America.

Quando ai pazienti ricoverati di recente è stata diagnosticata l’infezione da Staphylococcus aureus resistente alla meticillina (MRSA), ossia a quasi tutti i derivati della penicillina, il rischio di infezione per i parenti che vivono con loro diventa molto significativo. Più lunga è la degenza ospedaliera del parente, anche senza una diagnosi di MRSA, maggiore risulta essere questa possibilità. «I pazienti possono essere colonizzati da MRSA durante il ricovero e trasmettere MRSA ai membri della famiglia – afferma Aaron Miller, ricercatore principale dello studio e professore associato di medicina interna-malattie infettive presso l’Università dell’Iowa – Ciò suggerisce che gli ospedali contribuiscono alla diffusione di MRSA nella comunità attraverso pazienti dimessi come portatori asintomatici». Il prof. Miller raccomanda agli ospedali di migliorare le pratiche di controllo delle infezioni, tra cui i test per la colonizzazione da MRSA, soprattutto alla dimissione, anche in assenza di sintomi di infezione. Inoltre ritiene che la colonizzazione e le infezioni da MRSA potrebbero essere monitorate tra i pazienti ospedalieri e i loro contatti a casa per identificare e mitigare la trasmissione in modo più efficace. «Questo importante studio illustra il rischio di diffusione di patogeni resistenti correlati all’assistenza sanitaria e sottolinea l’importanza essenziale delle principali pratiche di controllo delle infezioni – aggiun-

Viale dei ciliegi

Silvia Vecchini-Sualzo

Gaetano e Zolletta. Una giornata al mare Collana «Balloon», Edizioni Gallucci (Da 5 anni)

Gaetano e Zolletta sono una di quelle adorabili coppie «di fatto» basate sulla dicotomia grande/piccolo di cui è ricca la letteratura per l’infanzia. Dicotomia che può essere intesa come papà/ figlio, adulto/cucciolo, ma anche semplicemente come il più esperto/il più ingenuo, il protettivo/il protetto, il saggio/il monello. Gaetano e Zolletta sono due asini, uno grande e uno piccolo, forse qui davvero padre e figlio. Le loro avventure sono raccontate a fumetti da Silvia Vecchini per i testi e da Sualzo per le immagini, in una serie che ha al suo attivo già altri volumi, tutti di grande formato, e che anche con quest’ultimo arrivato si conferma come uno dei più bei graphic novel per primi lettori, sia per la costruzione delle storie, semplici ma sempre in grado di tenere alto l’interesse e di risuonare con le esperienze e le emozioni dei bambini; sia per l’accessibilità che per la chiarezza testuale

ge il presidente della SHEA Thomas Talbot, Capo epidemiologo ospedaliero presso il Vanderbilt University Medical Cente e Presidente SHEA (Society for Healthcare Epidemiology of America). – L’igiene delle mani, la pulizia ambientale e gli interventi standard per ridurre la colonizzazione da stafilococco sono fondamentali per prevenire la diffusione di batteri resistenti negli ambienti sanitari». Le infezioni da MRSA sono note come da «superbatteri», perché non rispondono ai comuni antibiotici, il che le rende difficili da curare. L’MRSA si verifica generalmente in persone che sono state in ospedale o in un altro ambiente sanitario, come una casa di cura, ma si diffonde anche in comunità esterne all’ospedale, solitamente tramite contatto pelle a pelle. La maggior parte delle persone con MRSA non presenta sintomi ma i batteri possono causare gonfiore doloroso, se penetrano sotto la pelle e possono essere mortali, se si diffondono in altre parti del corpo, come il sangue o i polmoni. Secondo recenti

stime si presume che in tutto il mondo ogni anno muoiono quasi 1,3 milioni di persone a causa di infezioni dovute a batteri resistenti.

Lo studio pubblicato su Infection Control & Hospital Epidemiology ha esaminato 424’512 casi di MRSA, scoprendo 4724 casi di MRSA potenzialmente trasmessi a un familiare da un parente che era stato recentemente in ospedale e aveva avuto una diagnosi di MRSA. Hanno anche scoperto 8064 potenziali trasmissioni di MRSA dopo l’ospedalizzazione di un familiare che non aveva un’infezione da MRSA. I risultati sono chiari: le persone esposte a un familiare affetto da MRSA ricoverato di recente avevano una probabilità 71 volte maggiore, ovvero il 7000%, di contrarre un’infezione da MRSA rispetto agli individui arruolati, che non avevano un familiare ricoverato in ospedale o esposto a MRSA nei 30 giorni precedenti.

Avere in casa un familiare dimesso ma non affetto da MRSA aumentava del 44% le probabilità che un paren-

e grafica. Qui l’ambientazione è marittima ed estiva: Zolletta va al centro estivo, mentre Gaetano lavora al chiosco dei gelati. La bella notizia è che per l’indomani Gaetano avrà un giorno di ferie, al chiosco lo sostituirà Aldo l’elefante. E allora la giornata che i due vivranno sarà una mirabolante «giornata al mare», in cui Zolletta (con i suoi amici) le inventerà tutte per non lasciare Gaetano tranquillo neanche un minuto. Ma Gaetano in fondo è ben felice di condividere ogni momento, ogni sorpresa, ogni meraviglia, con Zolletta e con gli altri cuccioli. E altrettanto felici di farlo, scorrendo le pagine di questo bel libro, saranno i piccoli lettori e le piccole lettrici.

Ross Montgomery

Rebel Piemme Il Battello a Vapore (Da 9 anni)

Rebel è un cane, ed è lui che racconta la storia. Si inserisce brillantemente nel filone di romanzi la cui prospettiva è quella di un animale non umano, questo romanzo dell’autore britannico Ross Montgomery: qui la prospettiva è appunto quella tenera, leale, ingenua ma anche forte e coraggiosa di un cane, Rebel di nome e poi anche di fatto, il quale non esita a sfidare pericoli di ogni sorta pur di trarre in salvo il suo padroncino Tom, di cui non riesce a comprendere lo slancio idealistico nel partire a combattere l’ingiustizia, quando stava così bene con lui, nella tranquilla routine domestica del rassicurante perimetro della casa e della fattoria. Ma Tom ha sentito l’urgenza di andarsene a combattere, unendosi al movimento dei Rossi, i ribelli che lottano per sconfiggere il tirannico re, e ha lasciato a casa lui, il suo più caro e fedele amico, il suo «bravo cane» Rebel. Rebel per un po’ continua

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te contraesse l’MRSA entro un mese. Più lunga era la degenza e più alta era la probabilità che qualche parente stretto contraesse l’MRSA. Se il paziente era stato in ospedale da uno a tre giorni nel mese precedente, la probabilità che un parente contraesse l’MRSA aumentava del 34% rispetto alle persone senza ricoveri ospedalieri recenti nella loro famiglia. Se un familiare era stato ricoverato in ospedale per quattro o dieci giorni, le probabilità di infezione in un parente erano più alte del 49% e con ricoveri ospedalieri più lunghi di 10 giorni si arrivava al 70-80%.

Altri fattori associati alle infezioni da MRSA tra i membri della famiglia comprendevano il numero di altre malattie, l’uso precedente di antibiotici e la presenza di bambini piccoli in famiglia. «Come tutti gli stafilococchi, anche MRSA si trasmette facilmente. Per fortuna i dati ci dicono che in Svizzera questi batteri resistenti stanno diminuendo negli anni anche in aree dove erano più presenti come nel Cantone di Gine-

vra e in Ticino – sottolinea il prof. Enos Bernasconi, Specialista in medicina interna generale e infettivologia all’Ente Ospedaliero Cantonale. Solo pochi anni fa qui nel Cantone c’era una prevalenza superiore al 10% ora scesa al 7% ma non tutti i germi resistenti agli antibiotici sono diminuiti. La prevalenza di E. coli resistente ai fluorochinoloni è sempre molto alta, è al 15% ma si partiva dal 21% del 2018. Ci preoccupano i batteri intestinali resistenti a quasi tutte le beta lattamine e alla fine l’obiettivo è chiaro: puntare a un uso parsimonioso degli antibiotici, in particolare dei chinoloni nella comunità e un uso più mirato per le infezioni severe negli ospedali. Gli antibiotici vanno usati solo per le infezioni batteriche e non per ogni problema infettivo, spesso virale, altrimenti si aumenta la resistenza». Ogni anno, in Svizzera, si registrano circa 100.000 casi di infezioni ospedaliere, di cui 2000 con esito letale. La maggior parte di esse è causata da batteri multiresistenti del tipo Stafilococcus aureus. Oltre la metà potrebbe essere evitata applicando in modo sistematico misure d'igiene. Che un aumento delle infezioni da MRSA non sia irreversibile è dimostrato dall'esempio dei Paesi Bassi e dei Paesi scandinavi, dove i casi restano inferiori al 5%. Per quanto concerne i dati emersi dallo studio dell’Università dell’Iowa, va considerato che se i familiari infettati sono sani, la colonizzazione del batterio dura qualche mese ma non provoca problemi, mentre se il familiare infettato è anziano, fragile o con problemi di salute allora ci possono essere delle complicazioni da tener presenti. Ecco perché le misure igieniche di base, semplici ma efficaci, vanno seguite. Gli stafilococchi sono tra i patogeni più comuni delle infezioni batteriche nell’uomo, causando principalmente infezioni della pelle e dei tessuti molli, ma anche setticemie, infezioni alle articolazioni, delle ossa e delle valvole cardiache.

a fare il bravo cane ubbidiente e sta lì ad aspettare, ma Tom non torna, e allora Rebel onorerà il suo nome disobbedendo all’ordine e lo andrà a cercare: «Smetterò di obbedirgli e non me ne starò più qui seduto da bravo. Andrò a riprendermelo». Sarà un viaggio di ricerca lungo e avventuroso, pieno di incontri e di pericoli, Rebel dovrà attingere a tutto il suo coraggio, e questa avventura, esteriore ma anche interiore, farà di lui un piccolo eroe. La storia è appassionante e a tratti commovente, in particolare per quello che è il personaggio forse più riuscito del libro, il cane Jaxon, un rude randagio «senza padrone» che diventerà il compagno di viaggio di Rebel. Più esperto, apparentemente più cinico, indurito dalla vita randagia, ma pronto ad ammorbidire il suo cuore – senza darlo troppo a vedere – per quello che diventerà il suo grande amico, Jaxon è uno di quei personaggi che non si dimenticano, che ti restano dentro anche dopo aver chiuso il libro. Oltre alla dimensione avventurosa, etica, e per certi aspetti epica di questa storia, c’è anche una dimensione che potremmo definire più spirituale, e che riguarda l’invisibile confine con l’Altrove, dove campeggia la delicata figura del «Compagno», trascendente e angelico custode di chi è ancora di qua o già di là. Del resto, questo è un tema caro all’autore, come si era visto già nel breve racconto La promessa della nonna, uscito anni fa da Gribaudo. Ma qui, in Rebel, Ross Montgomery – di cui speriamo vengano tradotti altri romanzi – si cimenta con una narrazione più lunga e articolata, che conduce con maestria fino al (posso dirlo? consolante) finale.

di Letizia
Bolzani

Il cavallo: protagonista del nostro territorio

Mondoanimale ◆ Da mezzo secolo la Federazione Ticinese Sport Equestri (FTSE) ne promuove il rispetto e avvicina le giovani generazioni al mondo equestre

Nel Cantone Ticino, il cavallo è molto più di un animale sportivo: è atleta, compagno, educatore e spesso anche terapeuta. Grazie al lavoro capillare della Federazione Ticinese Sport Equestri (FTSE), oggi il cavallo è protagonista non solo delle discipline classiche come salto ostacoli, dressage e endurance, ma anche di progetti educativi e terapeutici che ne valorizzano l’intelligenza emotiva e la naturale capacità di comunicazione non verbale. Questo animale esercita da sempre un fascino indescrivibile sull’essere umano: suo grande amico, esso lo ha affiancato nella vita quotidiana, nel lavoro agricolo, nella caccia, negli eserciti, come mezzo di trasporto e, in tempi più recenti, come compagno del tempo libero.

Nel nostro Cantone il cavallo non è apprezzato solo a livello sportivo ma anche come compagno, educatore e spesso terapeuta

«Negli ultimi cinquemila anni questo maestoso animale ha avuto un ruolo di vitale importanza nell’evoluzione della società umana. Sebbene oggi sia apprezzato a livello planetario soprattutto per il suo impiego nello sport e nel tempo libero, il suo fascino misterioso continua a sedurre l’uomo che però è andato via via perdendo quella conoscenza della specie equina che era del tutto comune sino agli inizi del Novecento. Un sapere che è andato scemando negli anni, complici lo sviluppo della tecnica e il progresso nella meccanizzazione. Possiamo dire che si tratta di un vero e proprio patrimonio dell’umanità che rischia di andare disperso e che merita di essere tutelato al pari di ogni altro bene culturale». Queste le parole dell’avvocata Ester Camponovo, presidente in carica della FTSE che domenica 31 agosto proporrà a tutta la popolazione una vera e propria «Festa cantonale del cavallo» per sottolineare i 50 anni dalla sua fondazione.

Un sodalizio che promuove lo sport equestre in tutte le sue declinazioni, ma sempre con un occhio attento all’animale cavallo, tutto da scoprire, spiega Camponovo: «Può essere definito a pieno titolo come “una cultura da tutelare”: stiamo parlando di un animale che nel sangue, nel cuore e nella mente ha sconfinate praterie, che necessita di muoversi in continuazione e che, nonostante ciò, ha sempre dimostrato grande spirito di adattamento accanto all’uomo che lo ha traghettato nelle sue evoluzioni socioculturali». Oggi la pratica dell’equitazione non si arresta alle porte della scuderia, ma si estende al territorio circostante e in particolare alla campagna cui questo animale appartiene per natura: «Il suo suolo naturale è il terreno che più si addice all’anatomia e alle andature dell’animale

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stesso. Un terreno che è attraversato da ostacoli artificiali sempre maggiori. Pensiamo all’asfalto, alle barriere architettoniche, al traffico stradale e ai divieti di circolazione che si aggiungono agli ostacoli naturali come frane e piante sradicate che si possono incontrare cavalcando sui sentieri. E il territorio, relativamente ristretto nel nostro Cantone, pare essere il centro del problema da considerare in merito alla sua sopravvivenza: le aree riservate allo svago e al tempo libero sono frequentate e condivise da diverse utenze, delle quali quella equestre è una categoria di relativa minoranza».

Malgrado questa realtà, la FTSE auspica e mantiene vivo un dialogo con tutti i suoi fruitori: «Promuo-

L’appuntamento

viamo un inserimento armonioso e costruttivo del cavallo nel contesto e pensiamo ai cacciatori, pescatori, ciclisti, escursionisti, persone che passeggiano sole o con i propri cani: tutti sono parte a buon diritto delle preziose risorse territoriali e naturalistiche che la nostra regione offre e con ciascuno è possibile la reciproca convivenza».

Anche nel nostro Cantone il cavallo è molto più di un animale sportivo: «È atleta, compagno, educatore e spesso anche terapeuta. Grazie al lavoro capillare della FTSE, oggi esso è protagonista non solo delle discipline classiche come salto a ostacoli, dressage e endurance, ma anche di progetti educativi e terapeutici che

Festa cantonale del cavallo

Si terrà domenica 31 agosto alla Tenuta Bally la Festa Cantonale del cavallo organizzata dalla Federazione Ticinese Sport Equestri. In collaborazione con i Circoli ippici e le Associazioni Equestri sparse sul territorio della Svizzera Italiana.

PROGRAMMA & ATTRAZIONI

Domenica 31 agosto 2025 L’occasione giusta per immergersi nella storia equestre ticinese con:

• Spettacoli non-stop di cavalli e cavalieri.

• Dimostrazioni equestri tradizionali e moderne.

Redazione Carlo Silini (redattore responsabile) Simona Sala

Barbara Manzoni

Manuela Mazzi

Romina Borla

Ivan Leoni

• Stand storici e tematici dedicati al mondo del cavallo.

• Giro coi pony per bambini.

• Attività didattiche e interattive per tutte le età.

• Punti ristoro con specialità locali.

INFORMAZIONI UTILI

QUANDO: domenica 31 agosto, dalle 9.30 alle 18.00

DOVE: Tenuta Bally, Bioggio (TI) Piana del Vedeggio – Zona Malombra. Parcheggio gratuito: pochi posti, si consiglia di usare il trasporto pubblico. La Festa è raggiungibile anche con mezzi pubblici dalle

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Telefono tel + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89

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Redazione Azione CP 1055 CH-6901 Lugano

ne valorizzano l’intelligenza emotiva e la naturale capacità di comunicazione non verbale».

Nella storia di appartenenza al territorio, nella pratica dello sport e nelle sue declinazioni in terapia, si inserisce questo bellissimo e affascinante animale con la sua forza, sensibilità e capacità di entrare in relazione empatica con l’essere umano. Quindi, da noi il cavallo è molto più di un animale sportivo, ribadisce Camponovo, invitando le famiglie ad avvicinare i propri ragazzi e le proprie ragazze alla scoperta di questo mondo che non a caso definisce «una scuola di vita»: «I maneggi affiliati alla FTSE offrono percorsi formativi per adulti e bambini, incentra-

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ti su una relazione consapevole con il cavallo. Le competizioni sportive, sempre più accessibili e inclusive, rappresentano un’occasione di crescita personale, dove si impara la disciplina, il rispetto dell’altro (cavaliere e animale) e il valore dell’impegno. Il Ticino ospita regolarmente eventi agonistici regionali e nazionali, valorizzando i giovani talenti e mantenendo viva una tradizione sportiva in armonia con il paesaggio e le comunità locali».

Senza dimenticare che, per le sue doti empatiche e di cura, il cavallo è impiegato in molte strutture ticinesi anche nella terapia assistita per bambini e adulti con disabilità fisiche, cognitive o emotive: «L’ippoterapia e l’equitazione adattata sono pratiche in crescita, supportate da équipe di terapisti e istruttori specializzati, che utilizzano il cavallo come mediatore relazionale e strumento di stimolazione sensoriale. L’andatura del cavallo, simile al passo umano, favorisce lo sviluppo motorio, mentre la connessione emotiva che si crea con l’animale aiuta a migliorare autostima, fiducia e capacità comunicative».

Un futuro da coltivare, per la FTSE, incentivando realtà ticinesi che stanno sempre più investendo in progetti integrati tra sport, educazione e benessere, dove il cavallo è al centro: «Iniziative come i “pony club” per bambini, i campi estivi con finalità sociali e le collaborazioni con scuole e centri diurni dimostrano che il cavallo può essere ponte tra mondi diversi, unendo persone, generazioni e territori».

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Riscoprire gli antichi acquedotti rurali

Territorio ◆ Costruita presumibilmente attorno al 1200, una parte dei «canalitt» in pietra del Cortaccio e Curerone è tornata in funzione grazie agli interventi di recupero svolti dal Patriziato di Brissago

Elia Stampanoni

Vengono chiamati i «canalitt» e sono dei tratti dell’antico acquedotto di Cortaccio e Curerone, località sull’erta montagna sovrastante Brissago e il Lago Verbano. Tra i 300 metri di altitudine della frazione di Piodina e gli oltre 1000 metri di Cortaccio, in passato si sviluppava infatti un ingegnoso sistema di captazione e distribuzione dell’acqua che si presume proseguisse per molti chilometri. Si tratta di canali scavati nella roccia, di condotte scolpite nella pietra (granito) e poi posati sul territorio, ma anche di tratti sotterranei o intagliati nel legno.

Un’infrastruttura necessaria per far fronte all’altrimenti esigua disponibilità di acqua (per persone e bestiame), che veniva quindi captata più a monte per poi essere distribuita alle varie frazioni, dove un tempo si praticava l’agricoltura e la pastorizia. I monti erano, infatti, luogo ideale per il pascolo e la fienagione, dove i contadini si spostavano in alcuni periodi dell’anno. In seguito al graduale abbandono di questo tipo di civiltà rurale, anche l’acquedotto è stato abbandonato e con il passare degli anni e dei secoli, lentamente inghiottito dalla vegetazione, tanto da scomparire.

Questo fino al 1991, quando Marco Pagani e il figlio Andy iniziarono i primi interventi di pulizia, grazie anche al contributo di volontari e degli apprendisti muratori della scuola SPAI di Locarno, come leggiamo nel dettagliato compendio redatto dal Patriziato di Brissago, che si è poi reso promotore dell’iniziativa di recupero e valorizzazione delle opere: «Dopo un primo taglio di arbusti sterpaglie, con sorpresa e grande meraviglia apparvero alcuni tratti dell’acquedotto inalterati, dove le parti mancanti risultarono inferiori al previsto». Oggi, dopo un grande lavoro svolto (e in parte ancora in corso), dei tratti di quest’opera sono tornati alla luce e sono visibili quale testimonianza del passato ma anche quale attrazione didattica, turistica e culturale. I ripristinati canalitt di Cortaccio hanno oggi un’estensione di circa

200 metri, dove la prima parte risulta a cielo aperto, permettendo all’acqua (prelavata dal torrente che scende dalla Valle della Pioda) di scorrere nel canale, formato da pietre accuratamente lavorate e levigate (ognuna con la sua funzione) e poi posate con precisione sul terreno. Il resto del percorso, la parte terminale, è invece sotterrata a una profondità variabile tra uno a due metri circa e non è pertanto stato possibile rilevarne con precisione le condizioni. Grazie a delle apparecchiature televisive e a delle telecamere per l’ispezione delle tubazioni, si è però potuto controllarle e stabilire le necessarie misure d’intervento. Si è poi proceduto con il lavaggio dei canali con acqua ad alta pressione, con la rimozione di radici e materiale accumulato, così come al taglio degli alberi e all’esbosco o pulizia dell’area circostante.

In prossimità dei canalitt, proprio per facilitare e invogliare le visite, è stato allestito un sentiero con punto panoramico, cartellonistica, staccionata e panchina in legno di castagno. Il percorso, da dove è possibile ammirare nella sua totalità il tracciato a cielo aperto dell’antico acquedotto in pietra, è segnalato sin dall’ingresso del nucleo di Cortaccio e lo si raggiunge a piedi oltre le case del

monte, dove ad accogliere i visitatori è pure stata posata una ruota da mulino in legno. Più in basso, in località Curerone a circa 700 metri di altitudine, è invece stato ricostruito un ponte ad arco in sasso, dove sono poi stati posati dei canali a vista, su un tratto di 12 metri. Anche qui, come a Cortaccio, è poi stato collocato un pannello informativo che invita a visitare il manufatto seguendo il rinnovato sentiero d’accesso. «I lavori a Curerone, come a Cortaccio, sono ancora in fase di svolgimento e le fasi di ristrutturazione dovrebbero finire entro la fine dell’anno», precisa il Patriziato di Brissago, aggiungendo che sono previsti ulteriori sondaggi per eventualmente recuperare in futuro altri canali, sia a monte che a valle.

L’acquedotto partiva anche in origine dal torrente della valle della Pioda, da dove l’acqua scorreva in canali scavati nella roccia, interrati o nei «canalitt» in pietra. Considerata la superficie impervia si ritiene che ci fossero pure passaggi in legno che durante l’inverno venivano tolti, sia per evitare danneggiamenti dovuti alla caduta di valanghe, sia perché l’acqua gelava durante il periodo invernale. L’acqua, una volta giunta nell’adiacente valle di Vantarone, veniva convogliata verso il nucleo di Cortaccio e, di seguito, verso le altre frazioni, con canali nel terreno costituiti principalmente da piode posate a forma di V, in condotti sotterrati oppure con ulteriori strutture in granito.

Una gita tra Brissago, Piodina e Cortaccio può quindi essere l’occasione per riscoprire questi manufatti che, seppure in parte ancora nascosti, sono tornati visibili sul territorio. Un aiuto a orientarsi lo forniscono i cartelli dei toponimi locali, i quali segnalano le numerose frazioni o località della civiltà contadina, un’iniziativa completata nel 2021 dalla «squadra di Piodina».

Canalitt di Cortaccio
(E. Stampanoni)

L’altropologo

Il corvo e la corona

Domani, 5 agosto 2025, cade l’anniversario della morte di Re Osvaldo di Northumbria, uno dei più misteriosi santi martiri venerati dalla Chiesa di Roma.

Il suo culto è diffuso in tutto l’arco alpino: a Zugo, dove Sant’Osvaldo è venerato come patrono, gli è dedicata una chiesa in stile gotico che vide le fondamenta inaugurate il 18 maggio del 1478, un anno dopo la fine di quella guerra di Burgundia che dal 1474 al 1477 oppose i cantoni dell’Antica Confederazione ai Duchi di Burgundia nella lotta per l’egemonia territoriale regionale. Altrove nell’arco alpino il culto ha dato il nome ad almeno dodici insediamenti che portano il toponimo Sankt Oswald. È diffuso ad Est fino a Sauris/Zahre, nelle Alpi Carniche, dove gli è stato dedicato un intero museo. Almeno sei insediamenti sul versante italofono delle Alpi venerano Sant’Osvaldo come patrono. Fra questi anche la frazione Borsoi del comune di Tambre, nel-

le Dolomiti Orientali, oggi peraltro più conosciuta urbi et orbi per essere il luogo di residenza del vostro A ltropologo preferito, noto localmente come el profesor mat Nato nel 604, Osvaldo fu re del Northumberland, una regione dell’Inghilterra settentrionale, all’epoca in cui la Gran Bretagna veniva evangelizzata. Convertitosi al Cristianesimo durante un periodo di esilio nella Scozia, già cristianizzata da monaci irlandesi celto-gaelici, ed in seguito alle vicissitudini che avevano portato in quei decenni turbolenti alla perdita del trono del padre, Osvaldo guidò la riscossa cavalcando la Nuova Religione per radunare un piccolo ma agguerrito esercito le truppe scelte costituite da cristiani. Nel 634 ebbe luogo la battaglia finale contro Cadwalla, re pagano della metà meridionale del Regno di Northumbria, noto per la sua ferocia. La sera prima della battaglia Osvaldo fece erigere una croce di legno attorno alla quale i suoi solda-

La stanza del dialogo

ti – fossero o meno cristiani – furono invitati a pregare. Dopo la battaglia, che vide Cadwalla finire ingloriosamente, divenuto Re di un Northumbria riunificato, Osvaldo era determinato a convertire l’intera popolazione del regno – ancora largamente pagana – alla religione che gli aveva fatto vincere un Regno. Come narra Beda il Venerabile nella sua Historia Ecclesiastica Gentis Anglorum (731), Osvaldo chiese dunque ai suoi contatti scozzesi di mandargli un vescovo predicatore per convertire i suoi sudditi. Questi – giudicato posteriormente come molto severo e intollerante – avendo certificato i residenti del Northumbria come particolarmente cocciuti e ostinati, dette le dimissioni. Arrivò dunque Sant’Aidano (morto nel 651): pacifico, soave e tollerante, Aidano ebbe grande successo di pubblico e critica. Al punto che i re degli staterelli vicini riconobbero la leadership di Osvaldo: il Re del Wessex gli fece sposare la figlia

Cineburga. Era questa giovanissima poiché sappiamo che Osvaldo era stato il suo padrino di battesimo – pratica strategica di politica matrimoniale presto bandita dalla Chiesa perché considerata incestuosa. Osvaldo morì in battaglia nel 642, a soli 38 anni, per mano del Re pagano Penda di Mercia. Vista la mala parata, giunto all’epilogo della battaglia di Maserfield, nello Shropshire, si inginocchiò a pregare coi suoi soldati per poi subire una morte da martire. Il suo corpo fu smembrato, le varie parti appese agli alberi del regno di Mercia in monito perpetuo ai nemici di Penda. Il braccio destro – quello che portava la spada – fu invece cristianamente salvato per farne una reliquia: l’albero disseccato sul quale era stato appeso rinverdì rigoglioso, inaugurando così la serie leggendaria dei miracoli del Re Guerriero. Nel corso del Medioevo il resoconto di Beda si arricchì di nuovi elementi. In un manoscritto del XII secolo la figura di

di Silvia Vegetti Finzi
«Ho 27 anni e non so cosa voglio fare da grande»

Buongiorno, mi chiamo Mariangela, ho 27 anni ed è dalla seconda liceo che mi rompo la testa nel cercare di capire «cosa voglio fare da grande» (nel frattempo però sono diventata grande). Ho creduto, a volte per mesi a volte per poche ore, di voler svolgere praticamente qualunque professione, le ho considerate tutte. Quando mi convincevo di qualcosa, non passavano un paio d’ore che lo dovevo mettere nuovamente in discussione. Nel mio percorso accademico ho dapprima iniziato a studiare medicina, ma per mancanza di motivazione e «visione», ho cambiato varando verso biologia, visto che era una delle materie che più mi interessavano al liceo. Certo è che non ho mai considerato l’aspetto lavorativo che ora, invece, a distanza di un anno dopo aver finito i miei studi in Svizzera interna, ha un certo peso. Ho avuto la fortuna di trovare subito un

luogo di lavoro che mi ha accolta, tuttavia non mi motiva, mi sento spenta. Da un lato il disagio attuale spinge al cambiamento, dall’altro le paure bloccano ogni movimento. Mi sento confusa, non so chi sono e cosa voglio dalla vita anche perché «guardando al mondo là fuori» la fiducia verso il mondo, le altre persone e il futuro svanisce all’istante. Che fare? Come uscire dall’impasse? Grazie mille dal cuore, cari saluti, Mariangela

Cara Mariangela, ti mostri capace d’introspezione e di pensiero critico ma la prima cosa che comunichi è una grande solitudine. Il fatto che ora chiedi ascolto e consiglio mi sembra molto importante perché rivela una consapevolezza nuova. Sinora la tua vita si è svolta sotto il segno del privilegio: hai potuto studiare dove e come vole-

La nutrizionista

Frutta estiva e diabete

Gentile Laura, mi hanno da poco diagnosticato il diabete di tipo 2, stiamo sistemando le glicemie e valutando l’uso di medicinali. Io capisco che devo cambiare leggermente la mia alimentazione, a grandi linee so cosa fare, ma sono un po’ in crisi riguardo alla frutta, perché mi piace, soprattutto quella estiva come le angurie, le ciliegie, le nespole, le pesche, le albicocche… Fino adesso non mi sono mai fatto mancare nulla, le ho mangiate al naturale o in macedonia o frullate, che col caldo trovo ideale e piacevole, ma adesso non so proprio cosa fare. Posso consumarli comunque? Magari c’è una quantità o frequenza consigliata o un frutto proibito? Cordialmente, Daniele

Gentile Daniele, mi dispiace per la recente diagnosi, vedrà che coi medicinali e la giusta alimentazione le glicemie si stabilizzeranno. La frutta è un alimento molto

Osvaldo acquistò i lineamenti ideali di un cavaliere medievale: bellezza d’aspetto, vigore fisico, eroismo, saldezza nella fede. La sua vicenda assunse altri risvolti leggendari nei racconti sviluppatisi nei Paesi germanici. In un poema del XV secolo Osvaldo è l’eroe che riesce a conquistare e sposare la figlia di un re pagano con l’aiuto di un corvo parlante, che porta alla principessa i messaggi di Osvaldo e l’anello di fidanzamento. È qui, come si dice, che casca l’asino. Il corpo smembrato e poi misticamente resuscitato, il palo ovvero croce, il culto che si afferma attorno a fonti sacre meta di pellegrinaggi ed altri dettagli – e soprattutto il corvo parlante messaggero d’amore che accompagnano l’agiografia di Osvaldo – tradiscono il debito della sua leggenda alla mitologia di Odino/Woda/Wotan, divinità suprema dei popoli nordici che ne fa da modello. Come? Quando? Perché successe? Questa è un’altra storia…

vi, cambiare Facoltà secondo l’estro del momento senza valutare le conseguenze. Il risultato è sempre stato un forte disagio. Il fatto che tu non abbia un assoluto bisogno di lavorare rende più difficile uscire dal guscio dell’adolescenza, quando sembra possibile tutto. Alla fine volere tutto e non volere niente finiscono col coincidere e l’onnipotenza si trasforma in impotenza. Se rileggi la tua lettera vedrai che il soggetto di ogni frase è uno solo: «io». L’egocentrismo rivela una personalità narcisistica ma, come spesso avviene, non vorrei demonizzare tutto il narcisismo. Ne esiste uno buono e uno cattivo. Il primo, l’amor proprio, fornisce autostima, fiducia nelle proprie risorse anche quando non vengono immediatamente riconosciute. Il secondo, che blocca le relazioni con gli altri, isola e inibisce

la costruzione della propria identità. La domanda che rivolgi a te stessa «cosa voglio fare da grande?» ne cela un’altra fondamentale «chi sono io?». Una domanda cui cerchi invano di rispondere. La tua identità, fluida e mutevole, non sembra in grado di darti continuità e solidità per cui ogni situazione, anche la più favorevole, diventa ben presto insopportabile. Che fare? Innanzitutto riconoscere che non ti sei messa al mondo da sola, probabilmente hai avuto genitori, fratelli, parenti e amici. Presenze che di solito animano la nostra mente, vivificano il nostro cuore, ma in te non ve n’è traccia.

Cerca di ripensare la tua storia utilizzando tutte le declinazioni del verbo essere. Meglio ancora se la scriverai veramente immaginando, mentre batti i tasti, di dialogare con un interlocutore e, alla fine, di

condividere la tua autobiografia con lui o con lei. Chiunque scriva desidera essere letto. Il riconoscimento sempre reciproco e ammetterlo è già un’apertura verso gli altri, un mettersi in gioco che infrange la chiusura di una presunta autosufficienza. Il risultato, che ti auguro, potrebbe essere incontrare l’amore, vivere le emozioni dell’innamoramento, progettare un futuro insieme. So che ce la farai e questa lettera costituisce il primo passo lungo il cammino di «diventare grande».

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni

a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a info@azione.ch (oggetto «La stanza del dialogo»)

importante nell’alimentazione di un diabetico ed è vero che molti frutti, soprattutto quelli estivi, sono ricchi di zuccheri, ma non bisogna dimenticare il fatto che sono anche un’importante fonte di vitamine, minerali e antiossidanti, che possono aiutare a promuovere la salute, e di fibra, che supporta la gestione dello zucchero nel sangue e il transito intestinale. Quindi questo contenuto nutrizionale rende tutta la frutta una valida opzione alimentare e non la si può paragonare per esempio alle caramelle o agli snack o ai prodotti da forno ad alto contenuto di zucchero. Non esiste perciò un frutto proibito, è bene comunque conoscere ed «educarsi» a consumarla.

Esistono dei frutti estivi più ricchi di zuccheri come l’anguria, il melone, l’uva e i fichi; è possibile mangiarli controllando la porzione, la frequenza di consumo e il momento della giornata

in cui si consumano. Conosce il calcolo dei carboidrati? È una tecnica che permette di calcolare la quantità di carboidrati presenti in un pasto per determinare poi la dose di insulina necessaria da iniettare dopo, per gestire al meglio la glicemia.

Una porzione di frutta dovrebbe apportare al massimo 15g di zucchero, ma i dati non risultano sempre precisi perché la quantità di zuccheri della frutta dipende da vari fattori come il suo grado di maturazione e si deve tenere conto pure della sua ricchezza in fibre, infatti più sono elevate e minore sarà il picco glicemico raggiunto dopo la digestione. In generale è bene sapere che una porzione è all’incirca 150g o ciò che si inserisce nel palmo di una mano adulta. Per la frutta piccola quindi una porzione è, ad esempio due prugne, due kiwi, tre albicocche. Per quella di medie dimensioni è un pezzo

di frutta, come per la banana, o un’arancia. Mentre per la frutta più grande una porzione è mezzo pompelmo, una fetta di papaia, una fetta di melone (5cm fetta), una fetta di ananas o due fette di mango (5 cm circa). Per quel che concerne il come mangiarla, se come tale o sottoforma di macedonia posso dirle che se in quest’ultima non si aggiunge zucchero o spremute di altri frutti, la porzione è la stessa che per la frutta in generale o se si mangiasse un singolo frutto. Quindi 150g di mela o 150g di macedonia possono essere considerati equivalenti. Se invece nella macedonia viene aggiunta un’arancia spremuta, la porzione deve calare. Meglio evitare un centrifugato o un estratto di frutta in modo tale da assumere anche la fibra alimentare perché in questi modi essa si perde, e l’indice glicemico è più alto; esiste, inoltre, il rischio che per prepararsi un

solo bicchiere di centrifugato si debba usare più frutta rispetto a una singola porzione. Infine è importante conoscere anche quando mangiarla, ed è meglio come spuntino o merenda lontana dai pasti principali.

Può essere utile anche variare molto la qualità della frutta e mangiare una singola porzione alla volta abbinandola magari a una fonte di proteine o grassi, esempio nello yogurt naturale o con noci. Se la deve mangiare dopo un pasto allora sarebbe opportuno ridurre la quantità dei carboidrati presenti in esso.

Informazioni

Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a info@azione.ch (oggetto «La nutrizionista»)

di Cesare Poppi
di Laura Botticelli

Un pomeriggio piovoso nella campagna inglese. All‘interno, il fuoco scoppietta, mentre fuori, la nebbia aleggia sui campi. Sul tavolo: una tazza di tè e un pacchetto di patatine Tyrrells®. Se state pensando alle solite patatine, siete ben lontani. Perché le Tyrrells® sono diverse. Eccentriche, affascinanti, un po‘ fuori dagli schemi ... ed è proprio questo che le rende così speciali.

Ciò che è iniziato in una piccola fattoria è ora un marchio di carattere. Patatine preparate con cura con i migliori ingredienti, condite solo con spezie naturali e arricchite da una generosa dose di umorismo britannico. Ogni confezione è un invito a riunirsi, assaporare, ridere e, naturalmente, a fare uno spuntino.

slow -cook ed cris ps

Ma qual è il seg reto dietro queste

così

croccanti e deliziose?

Ecco come vengono realizzate le nostre chips

Da Tyrrells®, tutto inizia con la patata. Ma non una patata qualsiasi; no, solo le varietà migliori, come Lady Rosetta o Lady Claire entrano nelle nostre confezioni. Con la buccia, ovviamente. Perché qualsiasi altra cosa sarebbe, per usare un eufemismo, un‘aberrazione culinaria.

Cucinato lentamente, con stile

Le nostre patatine vengono preparate senza fretta. Si immergono nell‘olio bollente finché non salgono in superficie, dorate e deliziosamente appetitose. E poi? La magia: entra in gioco il leggendario Big Spinny Thing™ Questo ingegnoso dispositivo, a metà strada tra uno spremiagrumi e un classico essiccatore, rimuove l‘olio in eccesso. Il risultato: patatine croccanti, senza impronte. Una vera innovazione nel mondo degli snack.

patatine

Con un sapore inizialmente delicato, poi indimenticabile

Che si tratti di sale marino e aceto di mele o di peperoncino dolce e peperone rosso, ogni variante è una vera esplosione di sapore. Naturalmente, è priva di additivi artificiali, coloranti o qualsiasi altra cosa che dovreste cercare su internet. Proprio come ci si aspetterebbe dalla cucina autentica ... ma ancora più croccante.

ATTUALITÀ

Reazioni sparse ai dazi Le interpretazioni opposte di Parigi e Berlino, l’andamento positivo dell’economia americana

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«Il nostro genocidio» Due Ong israeliane presentano report nei quali denunciano le atrocità del loro Governo

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Dentro la crisi britannica

Aumentano i disturbi mentali e 2,8 milioni di persone non lavorano per problemi di salute

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Una ferita nella grande diga Corsa contro il tempo per riaprire le vie che conducono all’attrazione turistica della Grande Dixence

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Un nuovo scontro per procura fra Cina e Usa?

Asia ◆ Il conflitto fra Thailandia e Cambogia è l’ultimo capitolo di una disputa diplomatica e politica che va avanti da un secolo

In un’epoca in cui i conflitti accelerano, le crisi si inaspriscono e la diplomazia internazionale fa i conti con un nuovo ordine del mondo, in molti avevano previsto un peggioramento dei rapporti fra Thailandia e Cambogia dovuto al populismo e al nazionalismo crescenti. Eppure, fino a qualche mese fa, nessuno avrebbe potuto immaginare un’escalation così repentina e pericolosa per l’intero quadrante asiatico. Finora ci sono stati una trentina di morti fra le due parti e oltre 130 feriti. Le aree interessate dalla crisi si sono allargate a tutto il confine che divide la Thailandia e la Cambogia, in una disputa iniziata come un incidente e sviluppatasi, a partire dal 24 luglio scorso, come un vero e proprio conflitto militare.

La parte thailandese ha già evacuato più di 130’000 persone e dichiarato la legge marziale in otto distretti. La Cambogia ha aperto campi per sfollati per almeno 23’000 persone, ma secondo i giornali locali le famiglie che scappano dal conflitto sarebbero molto più numerose (dati di giovedì scorso, quando «Azione» andava in stampa).

La Cambogia è un’alleata di ferro della Cina di Xi Jinping grazie al lavoro compiuto da Hun Sen, al potere dal 1998

Non è chiaro se e quanto durerà il cessate il fuoco deciso settimana scorsa fra Bangkok e Phnom Penh e mediato ufficialmente dalla Malesia. Il primo ministro thailandese ad interim, Phumtham Wechayachai, e il primo ministro cambogiano, Hun Manet, si sono incontrati per dei colloqui nella residenza ufficiale del capo del Governo malese, Anwar Ibrahim, nella capitale amministrativa malese di Putrajaya. Ma la presenza degli ambasciatori americano e cinese ai colloqui ha reso evidente il coinvolgimento delle due grandi potenze globali in una crisi che secondo diversi osservatori thailandesi rischia di essere una «proxy war», uno scontro per procura fra Washington e Pechino nel cuore del Sud-est asiatico. La Cambogia è un’alleata di ferro della Cina di Xi Jinping grazie al lavoro compiuto da Hun Sen, il leader autoritario che governa il Paese ininterrottamente sin dal 1998 e che solo due anni fa ha lasciato il ruolo di primo ministro a suo figlio Hun Manet, pur mantenendo ancora un’enorme influenza. Sui giornali thailandesi per giorni si è parlato di un sospetto viaggio di Hun Sen a Pechino nel pieno della crisi, e soprattutto nei giorni successivi al 24 luglio, quando un soldato thailandese che stava pattugliando il confine a

Nam Yuen è saltato su una mina antiuomo PMN-2 (di recente fabbricazione russa e non un residuato bellico come inizialmente si era pensato). Il giorno dopo la Cambogia ha accusato la Thailandia di aver attaccato il Paese attorno al noto tempio khmer Prasat Ta Muen Thom, e poco dopo dalla Cambogia sono stati lanciati droni e missili sui villaggi thailandesi.

La Thailandia ha sempre contestato la validità della mappa dei confini disegnata nel 1907 dalla Francia

Lo sviluppo più recente del conflitto fra Bangkok e Phnom Penh è solo la parte più complicata e pericolosa di una disputa diplomatica e politica che va avanti da un secolo lungo diversi tratti della loro frontiera terrestre, lunga circa 817 chilometri. La Thailandia ha sistematicamente contestato la validità della mappa dei confini

disegnata nel 1907 dalla Francia – la potenza coloniale in Cambogia. Negli ultimi vent’anni ci sono stati picchi di tensione frequenti, alternati a tentativi di riaprire il tavolo dei negoziati, ma la questione della territorialità di alcuni luoghi simbolo della cultura thailandese e cambogiana e del rispettivo nazionalismo – come i due templi Prasat Preah Vihear e Prasat Ta Muen Thom, entrambi luoghi di culto indù dell’era khmer distanti circa quattro ore di automobile l’uno dall’altro – si è trasformata spesso in una leva politica per rafforzare il consenso interno, aggravando ulteriormente la tensione anziché risolverla. La tensione fra Thailandia e Cambogia è aumentata progressivamente dallo scorso 28 maggio, quando dopo un incidente alcuni soldati thailandesi e cambogiani hanno iniziato a spararsi dalle rispettive postazioni di confine e un soldato cambogiano è stato ucciso. Pochi giorni dopo è stata fatta trapelare la registrazione di una conversazione sull’incidente avvenuta fra la prima

ministra thailandese poi sospesa, Paetongtarn Shinawatra, e l’autoritario leader cambogiano Hun Sen: nell’audio si sente Paetongtarn chiamare affettuosamente «zio» Hun, e assicurargli che avrebbe fatto tutto il necessario per punire i soldati thailandesi incapaci, a suo dire, di tenere sotto controllo la situazione. L’opinione pubblica – e soprattutto l’opposizione thailandese – si è scagliata contro la prima ministra, accusata di avere troppa deferenza nei confronti del dittatore cambogiano. Il primo luglio scorso la Corte costituzionale thailandese ha sospeso Paetongtarn, dopo enormi manifestazioni di piazza. Per le settimane successive, la situazione sembrava quasi essere tornata alla normalità, ma nel frattempo, soprattutto online e nelle dichiarazioni politiche, continuava a montare il sentimento nazionalista. Secondo molti analisti thailandesi a Bangkok la questione si è trasformata in una guerra, molto probabilmente guidata dai militari, alla famiglia di Paeton-

gtarn Shinawatra, figlia di Thaksin Shinawatra, potente tycoon e veterano della politica thailandese che, dal 2001, guida una vera e propria dinastia. L’ombra di un colpo di stato militare non è più così lontana. Dal punto di vista politico della Cambogia, il conflitto con la Thailandia serve a rafforzare il consenso interno nei confronti degli uomini forti della dinastia Hun: da settimane funzionari di Phnom Penh minacciano di poter ingaggiare una guerra su larga scala pur di difendere il proprio territorio, ma la Cambogia non potrebbe in realtà permettersela da sola, avendo un terzo delle Forze armate a disposizione della Thailandia. È proprio per questo che in questa fase delicata di cessate il fuoco, il coinvolgimento di Cina e America è considerato fondamentale per mantenere basso il livello della crisi, ma il rischio è appunto che il Sud-est asiatico si trasformi

in un altro territorio di scontro fra Washington e Pechino e delle rispettive sfere d’influenza.
Giulia Pompili
Sfollati nella provincia di Surin, Thailandia. (Keystone)

Dazi, reazioni opposte dopo l’accordo tra Usa e Ue

L’analisi ◆ Parigi condanna quella che definisce una resa dell’Europa, per Berlino invece è il miglior risultato possibile

Il Pil americano è cresciuto del 3% nell’ultimo trimestre. Molti lettori sobbalzeranno, perché speravano in un disastro dell’economia Usa per castigare Donald Trump e indurlo a ripensare le sue politiche economiche. Ma in economia bisogna lasciar da parte l’emotività e le preferenze politico-ideologiche. Le esportazioni delle imprese europee sul mercato Usa sopravviveranno ai dazi con qualche perdita e qualche danno. Chi ha contatti con il mondo delle imprese sa che più dei dazi nei mesi scorsi temevano l’incertezza e una recessione americana che farebbe stringere i cordoni della borsa al più spendaccione dei consumatori. Una crescita del 3% forse «premia Trump» (in realtà non è proprio così), ma rappresenta uno scampato pericolo per gli esportatori dal Vecchio continente. Per loro è fondamentale che la domanda Usa continui a trainare, perché quel mercato rimane il secondo sbocco più importante dopo quello dell’Ue.

Al momento di andare in stampa, giovedì scorso, non sapevamo se l’intesa sui dazi tra Berna e la Casa Bianca sarebbe andata in porto (la tregua concessa da Trump, con i dazi al 10% e un’esenzione completa per la farmaceutica, scadeva il primo agosto). Mancava l’ok del presidente Usa. Ragioniamo quindi sull’Ue. A leggere certi media, sembra che l’Unione abbia scritto una pagina ignobile della sua storia, con una resa incondizionata ai diktat del bullo della Ca-

sa Bianca. Mancano però spiegazioni convincenti sul perché di questo comportamento codardo. Qualcuno insinua che Ursula von der Leyen è

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formazione con «diploma federale di scuola alberghiera superiore (SSS)» o abilitazione alla conduzione di un esercizio pubblico (certificato esercenti); esperienza nella conduzione di un team; spiccate capacità organizzative, dinamismo, creatività e spirito d’iniziativa; buone doti comunicative e relazionali, attitudine al lavoro in team; orientamento alla soddisfazione e alla fidelizzazione della nostra clientela; conoscenza del tedesco e/o del francese (almeno B1).

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un’agente americana, che ha incassato delle tangenti, si è venduta. Altre dietrologie puntano il dito sull’industria automobilistica tedesca come uno dei vincitori. Perché? Un punto qualificante dell’accordo è questo: le auto europee importate sul mercato Usa pagheranno dazi del 15% in media, quelle americane vendute in Europa zero. Ma chiunque conosca un po’ il settore sa che le grandi marche Usa non producono modelli studiati per la clientela europea da anni e non hanno granché di appetibile da esportare. Chi incasserà i benefici? Le fabbriche Mercedes e Bmw sul territorio Usa che potranno esportare in Europa a zero dazi. Ci sono settori che hanno un trattamento migliore di altri. Però non bisogna perdere di vista lo scenario generale.

Troppi politici e media locali alimentavano illusioni sulla possibilità che l’Europa mettesse in ginocchio Trump minacciando rappresaglie, o alleandosi con il resto del mondo. La delusione post-accordo è proporzionale a quelle illusioni. Un argomento «a favore di Ursula» comincia a farsi strada tra gli addetti ai lavori che analizzano i dettagli – ancora incerti – della partita dazi. La presidente della Commissione forse ha portato a casa un livello medio dei dazi inferiore a quello applicato da Washington ad altre aree del mondo. La «posizione relativa» dell’Europa risulterebbe migliorata; e poiché nel commercio estero contano questi confronti di competitività, sotto questo profilo si può trovare qualche ragione di ottimismo. Il ventaglio di reazioni è variegato. Più negativo in Europa e più positivo in America, con dei distinguo. Come accadde con il Giappone (l’accordo bilaterale che aveva anticipato molti aspetti dell’intesa fra Trump e von der Leyen), anche nel caso UsaUe siamo di fronte a una traccia generale, che andrà completata con i dettagli specifici. Come le esenzioni dai dazi americani per i settori farmaceutico, agroalimentare, e alcuni altri prodotti. Finché mancano questi dettagli ogni bilancio è provvisorio. Colpisce il divario sempre più lar-

go tra Germania e Francia, che in passato erano il motore dell’integrazione europea. Il premier francese Bayrou ha condannato con indignazione quella che definisce una resa dell’Europa, adottando gli stessi toni che altrove sono quelli dei partiti di opposizione. Il cancelliere tedesco Merz, pur riconoscendo che la Germania subirà un danno, ha dato atto ai negoziatori di Bruxelles di aver ottenuto il miglior risultato possibile. In questo è apparso in sintonia con le reazioni dei mercati e di diversi settori industriali: «scampato pericolo».

Col suo piano di spesa da mille miliardi, Merz punta a rendere la Germania meno dipendente dai mercati esteri

Come spiegare reazioni così distanti fra Berlino e Parigi? In teoria dovrebbero essere i tedeschi a lamentarsi di più. È la Germania ad avere il più grosso attivo commerciale con gli Stati Uniti, quindi è l’economia tedesca quella che subirà l’applicazione più estesa dei dazi trumpiani. Le differenze hanno a che fare con la politica interna, ma non solo. Bayrou è un premier di minoranza, sostenuto da un presidente Macron sempre più impopolare: ambedue sono assediati dall’opposizione, cavalcare il nazionalismo e l’antiamericanismo dei francesi è quasi obbligatorio. Merz è in una situazione politica più solida. Inoltre è un uomo d’affari, capisce di economia. Nel suo pragmatismo aveva misurato i rapporti di forze Usa-Ue, che oggi sembrano sfuggire ai francesi. Il punto di partenza è l’immensa asimmetria dell’economia globale, con un’America che per molti decenni ha svolto il ruolo di compratore di ultima istanza, e molte altre Nazioni che si facevano trainare dal mercato Usa per crescere (salvo poi rimproverare agli americani di essere «spendaccioni, che vivono al di sopra dei propri mezzi, indebitandosi»). Un macro-squilibrio di queste dimensioni fa sì che l’America, se minaccia di

chiudere il proprio mercato anche solo in parte, può infliggere agli altri dei danni molto superiori a quelli che gli altri possono restituirle.

Se Merz assolve Ursula dalle accuse di resa, non è solo per difendere una connazionale, compagna di partito e alleata. Ma perché Merz nel suo realismo non ha mai preso sul serio gli scenari di un «bazooka» europeo, o di una grande coalizione Europa-Cina per mettere in ginocchio Trump. Merz è anche l’unico leader che formula una risposta costruttiva alla sfida trumpiana: col suo maxi-piano di spesa da mille miliardi punta a rendere la Germania meno dipendente dai mercati esteri, più capace di crescere facendo leva sulla propria domanda interna, e meno parassitaria sul fronte della difesa.

Un argomento finale e decisivo che rende Merz più indulgente verso Ursula è quello sul bilancio relativo nella partita dei dazi. Ferme restando le incertezze sulle esenzioni settoriali, la maggior parte degli esperti giudica che il dazio medio applicato alle merci europee quando arrivano in America finirà per assestarsi tra il 10,5% e il 14%. È tanto, ma in molti settori sarà assorbibile. Per due ragioni. Primo: il processo di “import-substitution” per cui una merce europea divenuta troppo cara viene rimpiazzata da una merce prodotta localmente sul territorio Usa, richiederà tempi lunghi e in certi casi è impossibile. Poi c’è la questione dei dazi relativi. Il prodotto europeo post-dazi diventerà più caro; però è possibile o forse probabile che l’export da altre parti del mondo verrà colpito con dazi Usa un po’ più alti di quelli concordati con Ursula. In tal caso la competitività relativa dell’Ue rispetto ad altre economie esportatrici risulterà migliorata. Tutto questo, ribadiamo, è soggetto a revisione quando conosceremo i dettagli sulle esenzioni settoriali. Rimane anche la spada di Damocle della magistratura Usa: i tribunali potrebbero bocciare l’uso che Trump ha fatto di una legge speciale per negoziare sui dazi: secondo numerose opposizioni interne avrebbe abusato del suo potere.

Donald Trump e Ursula von der Leyen a Turnberry, Scozia il 27 luglio scorso. (Keystone)
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«A Gaza è genocidio»

Medio Oriente ◆ Ong israeliane presentano due report nei quali denunciano le atrocità del loro Governo mentre riemerge lo spettro dell’antisemitismo

In una conferenza stampa tenutasi a Gerusalemme est lo scorso lunedì le organizzazioni israeliane «B’Tselem» e «Physicians for human rights» (PHRI) hanno presentato due report nei quali denunciano le atrocità in corso a Gaza per giungere alla conclusione che si tratterebbe effettivamente di genocidio. Dall’ottobre 2023 le ong hanno raccolto innumerevoli prove tra cui testimonianze oculari e documentato centinaia di incidenti che hanno comportato una violenza estrema e senza precedenti contro i civili palestinesi in tutto il territorio controllato da Israele. L’esame della politica israeliana nella Striscia di Gaza, insieme a quello delle dichiarazioni di importanti politici e comandanti militari sugli obiettivi dell’offensiva, testimonierebbero che Israele sta intraprendendo un’azione coordinata e deliberata per distruggere la società palestinese nella Striscia di Gaza.

Le azioni e la mentalità di fondo che guidano il genocidio si possono estendere anche ad altre aree

Elementi come la separazione delle due etnie, privilegi, discriminazioni, l’immunità concessa a chi viola sistematicamente i diritti umani, il militarismo e altri ancora hanno posto le basi per quello che sta avvenendo, ma solo le conseguenze del 7 ottobre avrebbero fornito le condizioni per perpetuare tanta distruzione. Secondo il report di B’tselem la portata delle atrocità commesse da Hamas e da altri gruppi armati palestinesi avrebbero infatti generato ansia e un senso di minaccia esistenziale tali da innescare anche «un cambiamento nella politica israeliana nei confronti dei palestinesi nella Striscia di Gaza: dalla repressione e dal controllo alla distruzione e all’annientamento». B’Tselem mette inoltre in guardia dalla «normalizzazione» dei crimini e dal

pericolo concreto che il genocidio non rimanga confinato alla Striscia di Gaza e che le azioni e la mentalità di fondo che lo guidano possano estendersi anche ad altre aree: «L’attacco a Gaza non può essere separato dall’escalation di violenza inflitta, a vari livelli e in diverse forme, ai palestinesi in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, e all’interno di Israele».

Dal canto loro, i membri di Physicians for Human Rights Israel denunciano la catastrofe umanitaria come risultato della distruzione del sistema sanitario di Gaza condotta nel corso di questi 22 mesi. Le prove raccolte e presentate dall’associazione dimostrerebbero uno smantellamento deliberato e sistematico attraverso «attacchi mirati agli ospedali, ostruzione degli aiuti medici e delle evacuazioni, nonché uccisione e detenzione del personale sanitario».

«Come abitanti di questa terra e come attivisti per i diritti umani, è nostro dovere testimoniare la situazione che noi e molti altri abbiamo documentato e indagato» hanno affermato gli operatori, chiedendo sia alla società israeliana che alla comunità internazionale di intervenire immediatamente e con tutti i mezzi disponibili secondo il diritto internazionale. Purtroppo, sino ad ora molti leader statali, in particolare in Europa e negli Stati Uniti, non solo si sono astenuti da azioni efficaci per fermare l’annientamento e la violenza, ma hanno anche permesso che continuassero, sia attraverso dichiarazioni che affermavano il «diritto all’autodifesa» di Israele, sia attraverso un sostegno attivo, incluso l’invio di armi e munizioni.

Soprattutto per gli ebrei israeliani si tratta di conclusioni estremamente dolorose da digerire, anche perché, come ha affermato Yuli Novak direttore esecutivo di B’Tselem, «niente ti prepara a realizzare di essere parte di una società che commette un genocidio». Novak ha parlato anche dell’importanza di «chiamare le cose con il loro nome», tuttavia la ricezione «en-

Contro l’ingiustizia

Il medico Pietro Majno-Hurst ◆ «È peggio della guerra, Berna non può rimanere inerte»

Romina Borla

Un bimbo che guarda nel vuoto mentre suo padre agita le sue braccine scheletriche e afferma: «Se le cose continueranno così mio figlio presto morirà, e noi non possiamo fare niente per lui». Il piccolo abbassa appena lo sguardo alle parole «presto morirà». È una delle tante immagini atroci che arrivano da Gaza. Una prigione a cielo aperto zeppa di macerie e di fame (un quarto dei bambini tra i 6 mesi e i 5 anni è malnutrito, afferma l’organizzazione Medici senza frontiere, come del resto il 25% delle donne incinte o che allattano).

«Un luogo di sterminio», l’ha definito anche il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. «Anche in caso di conflitto – mi appello al diritto internazionale umanitario – bisogna assicurare il rispetto della dignità umana e delle persone più vulnerabili. Ma qui siamo oltre: non si tratta di una guerra, è molto peggio».

ha permesso cose straordinarie ma che ha un rovescio della medaglia estremamente pericoloso, e chiudere gli occhi quando non vogliamo vedere la realtà. Credevamo di aver imparato la lezione del Ghetto di Varsavia e dei campi di concentramento, dei dati emersi dal rapporto Bergier. “Non sapevamo cosa stava succedendo”, “eravamo circondati da Hitler”, la giustificazione della Svizzera. In Israele sta accadendo di nuovo e il nostro Governo non sta facendo niente per evitarlo. Se si verificasse un terremoto a Tel Aviv partirebbero giustamente navi da tutta Europa per portare aiuti. E il terremoto sarebbe meno grave, non disintegra il sistema sanitario, non provoca una carestia di proporzioni inaudite. Come possiamo non agire con tutti i mezzi a nostra disposizione? E di mezzi ne abbiamo».

tusiasta» dei report delle ong israeliane all’estero fa riemergere tristemente anche lo spettro dell’antisemitismo. Soprattutto sui social, purtroppo, le dichiarazioni israeliane si sono viralmente trasformate in un trofeo per chi non aspettava altro che applicare agli ebrei l’etichetta di autori di un genocidio, meglio ancora se ad affermarlo sono gli ebrei stessi.

In organizzazioni come B’Tselem, ebrei-israeliani e palestinesi lavorano fianco a fianco da decenni contro la violenza e l’odio

Inutile dire che si tratta di un approccio deleterio che rischia di condannare la società israeliana a soccombere al trauma portandosi nel baratro i palestinesi. Una visione corretta è invece quella che vede nelle accuse formulate il prezioso risultato della stretta collaborazione tra i due popoli per un futuro di pace e libertà. In organizzazioni come B’Tselem, ebrei-israeliani e palestinesi lavorano fianco a fianco da decenni, guidati dalla visione condivisa che la difesa dei diritti umani e la denuncia di discriminazioni, oppressione, violenza e annientamento costituiscano un obbligo umano e morale fondamentale anche a costo di mettere a repentaglio la propria incolumità psico-fisica. Il report di B’Tselem è intitolato «Il nostro genocidio» proprio perché nasce da un’esperienze di solidarietà, umanità ed empatia reciproca, un’isola di speranza in un momento estremamente buio. Ad oggi la maggioranza degli israeliani si oppone fermamente all’accusa di genocidio, tuttavia nelle ultime settimane si percepisce un cambiamento di percezione e consapevolezza da parte dei civili e il numero dei manifestanti contro la guerra a Gaza cresce di giorno in giorno. Per stabilire le corrette definizioni ci sarà ancora tempo, ma chi tace adesso di fronte ai crimini e alle ingiustizie in corso è complice.

A parlare Pietro Majno-Hurst – medico illustre nel campo della chirurgia del fegato, tra i firmatari di un nuovo appello al Consiglio federale contro lo scempio che si consuma in Medio Oriente, «e questo nella sostanziale inerzia del nostro Governo, sulla base di argomenti inaccettabili e fallaci». Il documento, sottoscritto da una quarantina di personalità di spicco nel campo sanitario, accademico, politico ecc., chiede alla Svizzera di intervenire affinché Israele apra subito le frontiere di Gaza per permettere l’accesso agli aiuti e «di accogliere vittime civili nei nostri ospedali». Il nostro interlocutore aggiunge: «È necessario anche l’ingresso dei giornalisti che raccontino davvero cosa sta capitando». «Vengo da una famiglia italiana di origine ebraica», continua. «Mio padre e mio zio sono stati accolti come rifugiati in Svizzera nel 1943 (potete leggere la loro storia sul sito https://majno.ch); ho ancora dei parenti in Israele. Sono insomma cresciuto all’ombra dei racconti della Shoah che è stato un crimine contro l’umanità – non solo contro gli ebrei – e che non conferisce nessun credito a Israele: sterminiamo noi così siamo pari; ma chi si stermina poi? È assurdo». Abbiamo superato la legge del taglione. «Quello che sta succedendo è inconcepibile: Israele si proclama l’unica democrazia del Medio Oriente e nel contempo mette in pratica azioni genocidarie, perché così vanno chiamate: disintegrare il sistema sanitario e il sistema di istruzione, affamare dei bambini nei primi anni di vita… Il loro potenziale cognitivo non sarà quindi mai raggiunto, con tutte le conseguenze del caso».

Intanto molti israeliani restano paralizzati dalla propaganda. «Noi umani abbiamo due superpoteri», commenta Majno-Hurst, «credere in quello in cui abbiamo voglia di credere, cosa che ci

Riconoscere la Palestina

Il nostro interlocutore si riferisce alle sanzioni, al blocco dei conti dei cittadini e delle società legati al regime, all’esercito (perché alla Russia sì e a Israele no?). «Non abbiamo nemmeno riconosciuto lo Stato di Palestina. La Svizzera ha partecipato al vertice di New York con l’idea dei due Stati, ma che Berna cominci a riconoscere lo Stato di Palestina, come fa la Francia di Macron, finalmente! Un gesto simbolico importante». Come importante è sostenere con donazioni le ong attive sul campo e far sentire il proprio sdegno in ogni occasione. Nel mondo si osservano però reazioni non sempre costruttive, vedi attacchi antisemiti. La spirale di odio e violenza continua insomma. Uscirne si può? «L’antisemitismo è un odio razziale e come tale va condannato, punto», osserva Majno-Hurst. «Purtroppo la popolazione può manifestare dei sentimenti brutali che i loro leader hanno il compito di arginare, elevando il sentimento della Nazione. Sembra però che non si riesca più a portare in posizioni di potere personalità in grado di farlo. Bisogna dunque riflettere sul meccanismo di selezione dei nostri leader perché oggi questi sono spesso inadeguati ai veri compiti urgenti, ovvero la pace e il riscaldamento climatico, per i quali bisogna agire al più presto». Majno-Hurst infine torna su Gaza: «Ci teniamo ad essere neutrali, ma neutralità non significa passività davanti all’ingiustizia. Un arbitro deve essere neutrale, ma se non fischia un fallo, fa male il suo compito. Adesso in campo ci sono un bullo e un criminale e non fischiamo i rigori: siamo pazzi o incompetenti! Questa non è solo la partita di Gaza, è la partita di tutti i valori dell’Occidente. Non possiamo voltarci dall’altra parte».

Un punto di distribuzione degli aiuti nei pressi del valico di Kirkim. (Keystone)

Gaza city. (Keystone)

Sempre più morti «per disperazione»

Gran Bretagna ◆ Aumentano i disturbi mentali tra la popolazione e 2,8 milioni di persone non lavorano per problemi di salute Il Governo di Keir Starmer cerca di correre ai ripari nonostante le poche risorse a disposizione: vi spieghiamo come

Rimettere un Paese al lavoro per risanare non solo i conti pubblici, ma il senso di sé di una popolazione che rischia di ritirarsi dal mondo, nascosta dietro certificati medici su cui ricorre uno stesso, allarmante termine: salute mentale. Nel Regno Unito sono 1,3 milioni le persone tra i 16 e i 64 anni che chiedono dei sussidi statali per motivi psicologici (il 44% del totale delle richieste di sussidio), ma anche tra chi ha altre malattie i problemi mentali sono spesso presenti. E sono tutt’altro che immaginari, come dimostra l’aumento delle cosiddette «morti per disperazione» in età lavorativa, ossia suicidi, decessi legati all’alcolismo o alle droghe. Un fenomeno in aumento rispetto a prima della pandemia, al quale il Governo di Keir Starmer sta cercando di dare una risposta con tutta la serietà del caso, pur nelle ristrettezze economiche in cui si trova ad operare: il debito è enorme – 2,87 trilioni di sterline – e servono 110 miliardi solo per pagare gli interessi. Non ci sono tante strade percorribili. Si alzano le tasse; si praticano nuovi tagli al welfare, considerando quanto impopolari siano stati quelli passati; oppure si cerca di immettere un po’ di energia e di speranza nel mercato del lavoro, soprattutto nel nord del Paese. Con l’aiuto di coach, fisioterapisti, giardinieri e maestri di ginnastica.

«Siamo un Paese di persone riser-

vate, il nord è economicamente depresso, facciamo affidamento sul welfare, forse è per questo che da noi queste cose succedono più che altrove», spiega G.B., medico alle prese con il forte aumento di un fenomeno che a questi livelli, dopo la pandemia, si vede in poche altre Nazioni e suscita una preoccupazione a tutto tondo. Rispetto al 2019 il ricorso ai presidi di salute mentale del Servizio sanitario è aumentato del 36%, mentre le persone che assumono antidepressivi sono il 12% in più, secondo uno studio dell’Institute for Fiscal Studies. Nel 2023-24 i sussidi per persone in età lavorativa sono costati 48 miliardi al Governo e, se la tendenza prosegue, si arriverà a 67 miliardi nel 2029-30, con un costante peggioramento. E quindi il primo passo è cercare di evitare che la gente lasci il lavoro per motivi legati alla salute mentale e a un’idea di benessere personale che forse nel Regno Unito ha subito un’evoluzione più forte che altrove, con una medicalizzazione rampante di tutto. Liz Kendall, ministra del lavoro e delle pensioni, ha incaricato il manager Charlie Mayfield di mettere a punto una sorta di libro bianco con delle proposte, da pubblicare in autunno. Lui ha iniziato facendo presente che «la sindrome di odio del capo» non è una ragione sufficiente per

lasciare il posto, anzi: con i capi bisogna parlare, dialogare anche quando si è in permesso per malattia, proprio per evitare che questa diventi la prima tappa per un allontanamento irreversibile dal mondo del lavoro. La flessibilità, l’andare incontro alle esigenze dei dipendenti è fondamentale, soprattutto per i lavoratori più in là con l’età, quelli che hanno più responsabilità in famiglia e che magari hanno bisogno di assentarsi per una visita medica o un controllo. Al momento ci sono 2,8 milioni di persone inattive a causa di problemi di salute. Prima della pandemia erano 2,1 milioni. Secondo gli esperti comunque la situa-

zione stava peggiorando già prima del Coronavirus.

Come correre ai ripari? La prima cosa da fare, come ben sa il ministro della Salute Wes Streeting, è un migliore coinvolgimento dei medici. Nel 2024 sono stati emessi 11 milioni di certificati di malattia, con il 93% che dice semplicemente che la persona non può lavorare. E se invece fosse l’approccio a essere sbagliato? A metà luglio è stato lanciato un progetto pilota per permettere ai medici di famiglia di mandare le persone in palestra o a fare giardinaggio, se hanno problemi di ansia o di mal di schiena invalidante, oppure metterli in contatto

con dei counselor che offrono supporto emotivo – ne sono stati assunti altri 6700 – o con delle organizzazioni in grado di offrire sostegno e consigli su questioni finanziarie, immobiliari, lavorative.

«Ci sono 2,8 milioni di persone senza lavoro per ragioni di salute, e questo è un male per i pazienti, male per il servizio sanitario e male per l’economia. La società della malattia che abbiamo ereditato costa ai contribuenti delle somme astronomiche, non possiamo permetterci di continuare a escludere persone», ha spiegato Streeting, secondo cui questa non è «sanità, è un vicolo cieco burocratico». Occorre un passaggio da un sistema che «gestisce la malattia a uno che promuove la salute, il lavoro e la prosperità». I soldi per ora sono pochi, 100mila sterline per ognuna delle 15 regioni coinvolte, ma il programma più ampio, WorkWell, ha 64 milioni di sterline, con l’obiettivo di aiutare almeno 56 mila persone disabili o con problemi di salute a rientrare nel mercato del lavoro entro la primavera del 2026. I tagli al welfare non servono a niente, soprattutto se si allarga il problema: l’unica via percorribile è cercare di contenerlo, e di rimettere in moto l’economia insieme alle persone, perché star male non può essere un progetto di vita.

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Una piccola frana inquieta la grande diga

Vallese ◆ Corsa contro il tempo per riaprire le strade che conducono all’attrazione turistica della Grande Dixence

«Route barrée». Le vie d’accesso che portano alla diga della Grande Dixence, in Vallese, sono chiuse, e lo resteranno almeno fino a metà agosto. Questo perché lo scorso 12 luglio si è staccata una frana dal versante orientale che sovrasta la parete di questo bacino di contenimento, che è la più imponente al mondo con i suoi 285 metri di altezza e che rappresenta una delle pagine più significative nella storia dello sfruttamento dell’«oro blu» in Svizzera. In tutto sono precipitati a valle circa seimila metri cubi di rocce, proprio a lato del muro della diga, alcuni massi hanno colpito la struttura, altri sono caduti nelle acque del lago, che porta il nome di «Lac des Dix». Da allora quei pendii sono instabili, con altri massi che potrebbero pure loro cadere e che in alcuni casi raggiungono persino la grandezza di un torpedone, come ci è stato detto dal sindaco di Hérémence, Gregory Logean. Situato a 1200 metri di altitudine, questo comune si trova ad una ventina di chilometri da Sion ed è posizionato proprio all’imbocco della valle che porta alla grande diga che sfrutta l’acqua del fiume Dixence e quella di ben 35 ghiacciaci.

La struttura non ha subito danni, ma i pendii sulle vie d’accesso sono instabili e altri massi di enormi dimensioni potrebbero ancora cadere

Un dato va subito sottolineato: la frana dello scorso luglio non ha provocato danni a questa struttura, che continua a svolgere il suo compito in perfetta sicurezza, lassù a quasi 2400 metri di altitudine. In questi giorni i responsabili della Grande Dixence hanno più volte ribadito che «la sicurezza dell’impianto non è mai stata messa in pericolo». Leggermente diversa la versione del comune di Hérémence, che in un suo comunicato del 23 luglio definisce «non significativo» il rischio legato alla diga. In ogni caso, in questa vallata del canton Vallese vi sono al momento diversi problemi da affrontare. Il primo è ovviamente di natura geologica, vista l’instabilità della parete, che ora è costantemente monitorata, anche con una serie di sensori elettronici. E questo potrebbe permettere di riaprire perlomeno la strada d’accesso, grazie anche alla posa di speciali semafori, con il rosso pronto a scattare in caso di smottamento. Più complessa sembra invece essere la riapertura dei sentieri, visto che appare oggettivamente più difficile raggiungere con un allarme eventuali escursionisti, in gita verso la Grande Dixence. Per le autorità locali l’obiettivo è comunque quello di un ritorno alla normalità a partire dalla metà di agosto. E questo anche per salvare la stagione turistica. Durante i mesi estivi questa diga val-

lesana attrae all’incirca 100’000 visitatori, attratti dall’imponenza di questo impianto idroelettrico e anche da una serie proposte pensate proprio per i turisti, a cominciare dalla teleferica che permette di raggiungere il «coronamento», la parte più alta della diga. Ai piedi della parete c’è anche un albergo, l’Hotel du Barrage, un edificio degli anni 50 del secolo scorso, che originariamente serviva da alloggio per gli operai chiamati a costruire questo grande muro. Diga che oggi, per i più audaci, può essere osservata lanciandosi anche con una corda sospesa, una «tirolese» che percorre questo colosso di cemento da un ver-

sante all’altro, grazie ad un cavo d’acciaio lungo oltre 700 metri. Ma si è pensato anche agli appassionati di arrampicata, grazie ad alcune vie aperte proprio lungo questa immensa parete. Senza dimenticare che per chi vuole, e si tratta di circa 15’000 persone ogni anno, c’è anche la possibilità di visitare i cunicoli interni al muro di contenimento. Attrazioni turistiche, anche mozzafiato, che al momento sono tutte impraticabili, una chiusura forzata che a detta del sindaco di Hérémence Gregory Logean «rappresenta un grosso guaio per tutta la nostra regione». Chiusa è anche la mostra fotografica che era stata installata

sulla diga, proprio all’inizio dell’estate. Un’esposizione voluta per ricordare i 75 anni dalla creazione della società anonima che ha poi realizzato la diga. E qui val la pena di aprire una breve pagina storica, vista la valenza di questo impianto per tutto ciò che ruota attorno all’energia idroelettrica del nostro Paese. Quella della Grande Dixence è una lunga storia che inizia già alla fine degli anni 20 del secolo scorso, quando viene costruita una prima diga, oggi sommersa dalle acque del bacino di contenimento. Il grande cantiere per la costruzione dell’attuale Grande Dixence scatta appunto 75 anni fa, con la nascita della società anonima che nel 1953 ha poi dato il via al cantiere. Fino al 1961, anno della messa in funzione della diga, in tutto ben tremila professionisti – tra operai, tecnici e ingegneri – si sono alternati alla costruzione di questo immenso muro, che alla sua base è largo ben 200 metri per poi restringersi a 15 lungo il «coronamento» della diga. Un’impresa titanica, basti pensare alle condizioni di lavoro in quota e in tutte le stagioni. Ma non si è solo costruito, si è anche scavato, con la realizzazione di una rete di cunicoli – per un totale di ben cento chilometri – che ancora oggi permette di raccogliere l’acqua dalle valli laterali e di condurla nel lago della Grande Dixence. Rispetto all’imponenza di questa diga, la frana dello scorso

12 luglio appare tutto sommato di dimensioni ridotte, se non fosse che il riscaldamento climatico e lo scioglimento del permafrost hanno fatto scattare diversi campanelli d’allarme, perlomeno tra gli addetti ai lavori. Durante i mesi estivi questa diga attrae all’incirca 100’000 visitatori, affascinati dall’imponenza di questo impianto idroelettrico

Non per nulla lo stesso canton Vallese e l’Ufficio federale dell’ambiente stanno conducendo uno studio proprio per capire quali rischi geologici possano pesare sul futuro dei bacini idrici vallesani. Un’analisi di cui ha parlato di recente il «Tages Anzeiger» e che non è ancora del tutto conclusa. I primi risultati ci dicono che in Vallese sono almeno sette le dighe circondate da pareti potenzialmente instabili. Rocce e massi che se dovessero cadere in acqua potrebbero creare delle onde in grado di superare i muri di contenimento. Le conclusioni di questo studio sono attese per la fine del 2026 e al momento, sottolineano i gestori di questi impianti, la sicurezza è garantita. La frana nei pressi della Grande Dixence rappresenta tuttavia un primo, piccolo, segnale di allarme. Da non sottovalutare.

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Sulla sinistra la frana che sta bloccando l’accesso all’imponente impianto idroelettrico. (Keystone)
Una spettacolare veduta d’insieme della diga vallesana della Grande Dixence. (Wikimedia Commons)

Scopri l’aperitivo italiano.

CULTURA

Il Locarno Film Festival oltre la programmazione

Stefano Knuchel spiega le attività di Factory, Academy e BaseCamp quali spazi in cui si definiscono visioni nuove e si forgiano le voci del cinema internazionale

Pagine 18-19

La commedia di Bayreuth Il grande festival tedesco si è inaugurato con Die Meistersinger von Nürnberg e ha visto per la seconda volta sul podio il Maestro italiano Daniele Gatti

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Alle radici della propria terra

Mostre ◆ I rinnovati spazi di Casa Cavalier Pellanda a Biasca ospitano una retrospettiva di Flavio Paolucci

Saranno stati battuti migliaia di volte da Flavio Paolucci i sentieri boscosi al margine settentrionale di Biasca, proprio all’imbocco della Val di Blenio. Qui l’artista ticinese vive da sessant’anni. Da quando, nel 1965, vi ha fatto costruire la propria casa-atelier con grandi vetrate che guardano verso le montagne. Durante le sue rituali passeggiate quotidiane lungo questi percorsi che si addentrano nel fitto della selva, Paolucci trae ispirazione di continuo, raccogliendo sia stimoli mentali sia elementi materiali per poter creare le sue opere. Se c’è infatti un aspetto incontrovertibile di Paolucci e della sua arte è proprio il profondo legame con la terra natia, con la Valle dell’Alto Ticino che, nel piccolo borgo di Torre, lo ha visto venire alla luce nel 1934, più di novant’anni fa. Un legame che l’artista stesso definisce «un bisogno del tutto naturale perché la mia vita è cominciata lassù».

Flavio Paolucci ha innescato un’indissolubile relazione con la natura, esplorandola e aprendosi ai suoi rumori, odori e colori

Mi tornano alla mente le splendide parole di Pablo Neruda, che nel suo libro di memorie dal titolo Confesso che ho vissuto così scriveva: «Io non posso vivere che nella mia terra; non posso vivere senza mettere in essa piedi, mani, orecchie, senza sentire la circolazione delle sue acque e delle sue ombre, senza sentire come le mie radici cercano nelle sue zolle le sostanze materne».

E pensare che, per Paolucci, la piena coscienza che il suo lavoro avrebbe potuto trarre linfa vitale e piena espressività solo dal rapporto intimo con l’ambiente in cui egli è nato non è stata il frutto di una lenta maturazione, quanto piuttosto l’inaspettata conseguenza di un viaggio che lo ha allontanato dai suoi paesaggi d’infanzia per catapultarlo in un luogo del tutto diverso: il Marocco. L’immenso deserto solitario e l’infinito orizzonte ininterrotto del Paese nordafricano lasciano Paolucci disorientato, privo di coordinate spaziali ed esistenziali. L’artista si sente «un punto sospeso» senza più alcuna direzione da seguire. Ecco allora che questo distacco riconduce Paolucci con ancor più forza laddove sono le sue origini, come se la distanza reale e spirituale dalla sua terra lo avesse ancor più avvicinato a essa, rendendolo consapevole di quanto ne avesse bisogno per raggiungere il proprio sviluppo artistico. Muovendosi abitualmente tra gli alberi, gli arbusti, i rovi e le sterpaglie dei suoi boschi, e accompagnato dal gorgoglio rilassante e ipnotico del fiu-

me Brenno, Paolucci ha così innescato un’indissolubile relazione con la natura che da sempre gli appartiene. Una natura che l’artista esplora ogni volta come fosse la prima, aprendosi ai suoi rumori, ai suoi odori e ai suoi colori per diventare partecipe della sua dimensione autentica e misteriosa.

Ciò che da questo paesaggio viene prelevato, sottoforma di suggestione così come di vero e proprio frammento reale (una foglia, un ramo, una pietra), viene pazientemente decantato e rielaborato in atelier, per poi essere restituito come un’opera d’arte dall’essenziale efficacia estetica che si fa incarnazione dell’universo più recondito dell’artista. Paolucci parla di una «trasposizione del fatto naturale in fatto personale».

Oltre che alla potenza generatrice della natura, Paolucci schiude pensiero, spirito e cuore alle tracce dell’antica civiltà rurale della sua valle che per secoli si è confrontata con una terra spesso inospitale e che ha instaurato con essa un rapporto simbiotico basato su un precario equilibrio di reciproco

adattamento. L’artista cerca di recuperare e preservare questa cultura contadina semplice e genuina. Una cultura di cui ha molti ricordi d’infanzia e di cui le sue opere hanno voluto farsi specchio nella sapienza artigianale con cui sono state create e nella poetica essenzialità che le caratterizza.

Si può dunque ben comprendere come la mostra di Flavio Paolucci allestita presso Casa Cavalier Pellanda, pregevole monumento rinascimentale nel nucleo antico di Biasca i cui spazi sono stati ristrutturati di recente, abbia un significato particolare, essendo la prima rassegna dedicata all’artista nei luoghi a cui egli ha legato gran parte della sua esistenza.

Sebbene non abbia pretese di completezza antologica, la retrospettiva biaschese, curata da Elio Schenini, presenta una selezione di sculture, dipinti e collage che ben testimonia le tappe principali del lungo e prolifico cammino di Paolucci, soffermandosi anche sul lavoro dell’ultimo decennio, un arco di tempo, questo, ancora molto fecondo per l’artista ticinese, con-

Flavio Paolucci, Il sole al tramonto illumina la nuvola, 2023; legno, carta, colore e cordicella, 206 x 160 cm. (© Flavio Paolucci Foto Massimo Pacciorini)

avanguardie, accostandosi soprattutto alle indagini della Pop Art, del Nouveau Réalisme, della Minimal Art e dell’Arte Povera e arrivando così ad accantonare la bidimensionalità della pittura a favore di una pratica oggettuale.

Con gli anni Settanta si fa sempre più pressante per Paolucci l’esigenza di radicare la sua arte nei confini della propria esperienza di mondo. Non si tratta certo di un ripiego sul locale bensì di una condizione necessaria per dare nuova vita alla sua ricerca. I temi si fanno più esistenziali e l’avvicinamento alla natura ancora più intenso. A questo periodo risalgono i primi Innesti dell’artista, lavori che non solo risultano in sintonia con alcuni degli esiti più rilevanti nell’ambito dell’Arte Povera italiana, ma che segnano anche il raggiungimento di quel lessico peculiare che determinerà da lì in poi la produzione di Paolucci.

L’artista ticinese ha sperimentato linguaggi sempre diversi per poi riuscire ad approdare a un vocabolario personale

traddistinto dall’affinamento del suo lessico espressivo.

In stretto dialogo con le sale della dimora storica che Giovan Battista Pellanda fece costruire nella seconda metà del Cinquecento, le opere di Paolucci acquistano una valenza ancor più pregnante, diventando preziose depositarie di quelle memorie di cultura e natura che hanno sempre connesso l’artista al territorio. E lo fanno senza adagiarsi su facili sentimentalismi o su rimpianti nostalgici, ma con un’energia e un lirismo capaci di creare inedite metafore del mondo.

Partendo dal presupposto assodato che Paolucci, proprio per il caparbio attaccamento alla sua terra, sia una figura atipica e appartata che sfugge a nette classificazioni, il suo percorso artistico è stato caratterizzato dall’esigenza di sperimentare linguaggi sempre diversi per poi riuscire ad approdare a un vocabolario personale. Dopo un esordio all’insegna dell’Espressionismo prima e dell’Informale poi, negli anni Sessanta l’artista assimila le soluzioni proposte dalle neo-

Le opere esposte a Biasca raccontano storie di uomini e di natura attraverso i materiali prediletti dell’artista, quali il legno, la corda, la carta e il colore, ma anche la fuliggine raccolta nei camini di case abbandonate, a cui nel corso degli anni se ne sono aggiunti altri ascrivibili a una tradizione più alta, quali il bronzo, rifinito con diverse patine, il vetro e il marmo. Elementi lavorati con cura e abilità al fine di riproporre quell’equivocità tra verità e artificio, tra effimero e perenne che è il marchio di fabbrica dell’artista. Anche i simboli e i segni che fanno parte del registro di Paolucci sono i medesimi da decenni: un repertorio esiguo ma iconico di forme della natura, come l’albero, la foglia o l’uovo, di forme astratto-geometriche, come il cerchio, il quadrato o la croce, e di forme antropiche, come la barca o la casa. Quest’ultima, in particolare, rappresentata sempre con la tipica sagoma delle tradizionali abitazioni in pietra della valle, ritorna costantemente nei lavori dell’artista con la precisa missione di evocare l’uomo. Un uomo di cui Paolucci narra con delicatezza e poesia le asperità della vita e il fragile rapporto con la natura. Un uomo che trascende le terre ticinesi per assurgere a emblema ancestrale dell’intera umanità.

Dove e quando Flavio Paolucci. I due paradisi. Casa Cavalier Pellanda, Biasca. Fino al 9 novembre 2025. Orari: da me a ve 14-18, sa e do 10-12/14-18.

Alessia Brughera

Un ecosistema che fa emergere i

Film Festival – 1 ◆ Stefano Knuchel ci guida nella Factory, laboratorio aperto dove autori emergenti dialogano con arte, scienza e innovazione, nel

Dal 2013, Stefano Knuchel, regista e autore ticinese, contribuisce a far crescere quella parte del Locarno Film Festival che non si esaurisce nelle proiezioni in programma. Stiamo parlando di Factory: piattaforma parallela che lavora per sostenere nuovi talenti, creare dialoghi fra discipline, immaginare forme di cinema ancora in divenire. Con Knuchel abbiamo parlato di questa dimensione meno evidente ma centrale, dove si mescolano formazione, ricerca, incontri, dietro le quinte del Festival.

Dall’Academy a BaseCamp fino alla Locarno Factory: cosa l’ha spinta a immaginare uno spazio così aperto e interdisciplinare?

Ho solo cercato di capire che cosa ha di speciale il nostro Festival rispetto ad altre realtà simili. Quando nel 2013 l’ex direttore artistico

Carlo Chatrian e Mario Timbal mi hanno chiesto di creare uno spazio dedicato ai giovani talenti, ho risposto: lo faccio, ma non voglio replicare workshop standardizzati. Locarno è un festival d’autore che si è sempre aperto al dialogo, per tale ragione ho cercato il modo di creare uno spazio in cui si aiutasse – chi può ambire a dire qualcosa al mondo, o semplicemente chi ha qualcosa da dire – a focalizzarsi su chi sono e cosa vogliono dire davvero, più che su quello che manca loro per entrare nel mercato. La Svizzera è un Paese di cultura e di ricerca, Locarno è grande abbastanza per attrarre talenti, e piccolo abbastanza per farli incontrare davvero. È un equilibrio unico.

Nel suo lavoro con i giovani autori c’è un tipo di talento o approccio che la colpisce?

Quello che salta fuori, che emerge dal mucchio. Ogni anno riceviamo 900-1000 candidature per dodici posti nella Filmmakers Academy. Il lavoro è visionare tutte le proposte, e c’è sempre un momento in cui uno odue film si impongono fisicamente, ti costringono a guardarli. Spesso non sono i più perfetti, ma quelli con una voce propria, con un’identità geografica, linguistica, culturale. Non ci interessa chi recita la Bibbia del cinema, nemmeno se la rifanno meglio, ma chi aggiunge un capitolo nuovo. È un’esperienza quasi fisica: dopo ore e ore di visioni, all’improvviso capisci chi è davvero interessante. E tutti sono d’accordo, senza che ci si debba spiegare troppo. C’è anche un altro aspetto: si aggiorna continuamente il linguaggio. Se guardo i candidati di tredici anni fa e quelli di oggi, è cambiato tutto. Oggi vedo linguaggi più ibridi, contaminazioni, formati nuovi.

In che modo la sua esperienza personale di regista influenza la gestione della Factory?

Ho sempre lavorato fuori formato. Sono autodidatta. Ho avuto la fortuna di incontrare qualcuno che mi aprisse una porta senza essere tenuto a farlo. Quando ho chiesto come potevo sdebitarmi, uno di loro mi ha risposto di fare la stessa cosa con altri. Ed è quello che cerco di fare, cerco di riconoscere talenti senza controllare se le loro carte siano in regola. Per me conta costruire processi decisionali collettivi, non imporre un metodo. La biodiversità culturale è la condizione stessa della cultura.

Stefano Knuckel, direttore di Locarno Factory, nella sede del BaseCamp (Locarno Film Festival / Ti-Press). Immagine nel box: Un momento durante la Spring Academy, 2024 (©Angelita Bonetti, Studio Alma).

Come riconoscere un talento?

C’è un documentario che mi porto dietro, si intitola Black Sun. Racconta di un pittore aggredito, reso cieco, costretto a ricostruire la propria vita.

A un certo punto, in un taxi a Parigi, il pittore racconta la sua storia a un vietnamita. E quello gli risponde: «Anch’io ho una ferita – ho visto uccidere la mia famiglia – la differenza è che nessuno la vede». Ecco, per me l’arte è proprio questo: far emergere ciò che normalmente resta oscurato, integrare lo strambo, il non detto, il non visibile.

Lo dico sempre: questo mestiere lo fa chi ha un trauma e non riesce a metterlo a posto.

La formazione cinematografica oggi oscilla tra innovazione e tradizione. Anche la Factory tiene conto di questo equilibrio?

Totalmente. Il cinema è sempre stato sia tradizione sia innovazione. Se si chiude nel salotto della celebrazione diventa museo, se parte solo sull’avanguardia diventa elitario. Locarno vive perché ha saputo mantenere questa tensione. Facciamo retrospettive importanti e al tempo stesso portiamo linguaggi nuovi. Con Factory abbiamo creato un dipartimento che si occupa di tutto ciò che attorno al cinema fa riflettere sull’immagine, il rapporto con la società, con la ricerca scientifica, l’intelligenza ar-

La Factory nell’incontro con il pubblico

BaseCamp PopUp – 7-15 agosto, Istituto Sant’Eugenio

BaseCamp 2025 si svolge anche quest’anno durante il Locarno Film Festival, riunendo giovani creativi da tutto il mondo in uno spazio dinamico dedicato alla sperimentazione. Di sera, il BaseCamp PopUp si trasforma in un luogo aperto e gratuito, animato da arte, performance, incontri e musica – un vivace punto di ritrovo per il pubblico e per i visitatori del Festival. L’offerta food & beverage è curata da La Soleggiata.

Eco Echoes: la biblioteca del BaseCamp Nello spazio dedicato ai libri, si invita il pubblico a scoprire nuove idee e pratiche artistiche. Inaugurata nel 2024, la biblioteca propone una selezione di titoli che riflettono temi legati al mondo del cinema, ma non solo. Eco Echoes è il filone tematico di quest’anno: uno spazio di ricerca che indaga da un punto di vista ecologico le conseguenze dell’attività antropica.

La Maestra

Installazione di Claudio La Mattina La Maestra è il titolo di una mostra si-

te-specific che riflette sui concetti di scuola e rifugio, curata da BaseCamp e Refusés – piattaforma curatoriale con sede a Londra – e realizzata in collaborazione con artigiani ticinesi.

Future of Reality – 11-13 agosto Progetto congiunto di Locarno Factory e dell’Università della Svizzera italiana (USI), Future of Reality mira a riflettere sul ruolo del cinema in relazione a tematiche politiche, ecologiche e alla trasformazione tecnologica.

Tra gli appuntamenti del progetto: 11 agosto – BaseCamp PopUp 17.00: incontro con gli artisti visivi Philippe Parreno e Verena Paravel; 19.00 – If AI Is the Answer, What Is the Question? : un provocatorio quiz su promesse (e paradossi) dell’intelligenza artificiale con il regista Radu Jude, l’artista e teorica Hito Steyerl e lo storico dei media Antonio Somaini. 12 agosto – BaseCamp PopUp

18.00 – Ask Me for Those Unborn Promises...: lettura-performance di Donatella Della Ratta e The Void sul tema dei media generati dall’IA nel contesto dei conflitti politici.

tificiale… Ma il cuore resta sempre chiaro. E poi bisogna sempre tornare a nutrire la tradizione, a farla evolvere.

A distanza di tanti anni, ci sono state collaborazioni nate in questo contesto che più l’hanno colpita?

Ce ne sono molte, sin dal primo anno, quando abbiamo invitato ricercatori di biologia molecolare da Basilea, un progetto nato per far dialogare chi lavora su temi etici e umani con il mondo esterno, grazie all’arte quale territorio di condivisione. Ancora oggi cinque giovani scienziati vengono ogni anno e il confronto continua a dare risultati.

13 agosto – PalaCinema 21.00 – Video Essays for the Future of Cinema – Proiezione di video-saggi realizzati nel contesto della cattedra del Locarno Film Festival presso l’Università della Svizzera Italiana (USI), in collaborazione con il Museo Nazionale del Cinema di Torino e la Rete Europea di Studi Cinematografici (NECS). Con il sostegno del Fondo nazionale svizzero per la ricerca.

«Demain, il y aura quelque chose de nouveau» – 7 agosto, 22.00, Palacinema 2 Prima mondiale del film omnibus realizzato da sei giovani filmmaker in occasione della Spring Academy del Locarno Film Festival, laboratorio residenziale tenutosi dal 23 febbraio al 3 marzo 2025 sotto la guida dei registi Caroline Poggi e Jonathan Vinel. Ambientati al Castello Visconteo di Locarno e alla Palestra Vacchini di Losone, i film esplorano il tema delle relazioni umane e del desiderio.

Info https://www.locarnofestival. ch/it/about/factory.html

Poi è nato un dialogo inatteso con il Botswana: una giovane curatrice culturale è venuta a BaseCamp, ha visto il modello, e ha iniziato a replicarlo su scala locale. Da quattro anni mandano a Locarno due persone del Botswana, e loro portano idee nuove. È uno scambio reale: ora ci chiedono anche di poter usare i nostri moduli didattici nei loro cinema e scuole d’arte. È un esempio concreto di come Factory diventi uno strumento utile, anche lontano da qui. Tutto questo, per me, rappresenta esattamente quello che cerchiamo di fare con BaseCamp e con la Factory. Non più la struttura culturale che decide tutto e si chiude su sé stessa. Oggi devi diventare un organismo attraversato da scambi, devi interagire. A volte porti l’80% del contenuto, altre volte solo il 20%, ma giochi comunque un ruolo in una conversazione continua. Ed è questo che ti permette di rimanere vivo.

La Factory non è solo per i talenti che vengono selezionati… Sì, sebbene anche le attività che avvengono dietro muri chiusi non siano per questo meno valide, ci sono dei momenti che condividiamo con il pubblico. Il più evidente è il Pop Up, aperto ogni sera durante il Festival dalle 18 alle 21:30 a Sant’Eugenio (ndr: vedi box). Lì si concentrano talk, performance, concerti. Quest’anno il tema centrale sarà il «Futuro della realtà» con un AI Game Show – guidato da artisti come Hito Steyerl, Radu Jude, Antonio Somaini – che combina immagini e narrazione per esplorare cosa sia vero o falso, usando il gioco come pretesto per una riflessione più ampia. Ma tutta la programmazione al Pop Up è pensata come un festival nel festival, aperto, accessibile e imprevedibile. Ogni sera succede qualcosa di diverso, da concerti a meditazioni sulle pietre. È il nostro modo di restituire al pubblico un’esperienza viva.

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talenti

nel retrobottega della macchina locarnese del cinema

Durante il Festival ci sono altri momenti in cui il pubblico può incontrare i partecipanti della Factory?

Oltre al Pop Up, abbiamo gli Academy Screenings: proiezioni gratuite dei lavori realizzati dai partecipanti della Filmmakers Academy. È un’occasione preziosa per capire davvero dove stia andando il cinema e quali siano le nuove voci. Sono momenti che teniamo molto accessibili proprio perché ci interessa che il festival non sia solo vetrina, ma anche luogo di scambio.

Come si pone la Factory di fronte all’evoluzione del linguaggio cinematografico?

Cerchiamo di essere un corpo mobile, fluido. Ad esempio, stiamo avviando un progetto internazionale dedicato all’intelligenza artificiale, proprio perché è un tema che va affrontato a livello educativo, produttivo e creativo. Ma senza fissarsi: tra cinque anni l’AI non sarà più un tema isolato, sarà integrata. Noi vogliamo essere il centro da cui queste conversazioni partono e si irradiano.

Qual è il valore di fare formazione in un contesto festivaliero rispetto a un ambiente accademico?

È tutta un’altra cosa. Locarno permette di entrare in contatto diretto con l’industria, con registi, critici, produttori. C’è una densità di scambi che nessuna scuola può offrire. Il rischio e l’errore creativo trovano qui uno spazio reale, perché non siamo legati solo alla logica del risultato immediato. Siamo uno degli ultimi baluardi della biodiversità nel cinema, in un momento storico che tende a soffocare ogni forma di deviazione dal formato dominante.

C’è qualcosa che sente urgente raccontare oggi, come artista e curatore?

Più che un tema, un modo. Dare voce a prospettive diverse, forme diverse. Resistere alla standardizzazione, alla tematizzazione forzata. La biodiversità del pensiero è quello che conta. Non vogliamo selezionare secondo quote e checklist. L’importante è mantenere l’apertura.

Guardando avanti, quali sfide e opportunità vede per la Factory? Tenete traccia dei partecipanti?

Sì, ed è fondamentale. Negli ultimi anni due cineasti ex Filmmakers Academy hanno vinto il concorso Cineasti del presente, un altro ha vinto per la migliore regia. Ogni anno vediamo ex partecipanti tornare con progetti nuovi, entrare nel programma ufficiale. Locarno ha una rete fortissima, costruita in anni di lavoro. E non si tratta solo di cinema: il dialogo si estende anche a fotografia, arti visive, università. Ognuno ha un proprio percorso, ma resta collegato.

Quanto conta per voi la cattedra For the Future of Cinema dell’USI? Conta molto, perché ci permette di consolidare il dialogo con il mondo accademico globale. Non è solo un progetto politico: è davvero un modo per dire che qui abbiamo un bene comune il quale, mettendoci assieme, dimostrerà il nostro valore sulla scena nazionale e su quella internazionale.

Cronologia di un progetto formativo

2013 – Locarno Academy

Knuchel fonda e dirige la Locarno Academy, non un semplice programma formativo, ma un laboratorio vivo, dove registi, critici e professionisti in erba si confrontano con il cinema d’autore e i suoi protagonisti. Nato per dare voce alle nuove generazioni, è oggi uno dei poli riconosciuti in Europa per chi cerca non regole, ma visione.

2019 – BaseCamp Con BaseCamp, come evoluzione di Academy, Knuchel allarga il campo: non più solo cinema, ma anche arti visive, filosofia, scienze sociali. Circa duecento under 30 si ritrovano ogni estate a Locarno, in residenza.

A suo tempo tra le mura riconvertite della ex Caserma di Losone, oggi diffusi in altre sedi. Un laboratorio fluido, fatto di workshop, incontri, concerti, occasioni aperte anche al pubblico. Non solo formazione, ma un paesaggio creativo temporaneo. Tra le scuole coinvolte: CISA (Locarno), HEAD (Ginevra), ECAL (Losanna), ZHdK (Zurigo), HSLU (Lucerna).

2022/2023 – BaseCamp si sposta a Locarno

BaseCamp cambia sede ma non la logistica, che resta a Losone – alloggi, organizzazione, accoglienza – mentre workshop, talk e performance si spostano all’Istituto Sant’Eugenio di Locarno, dove l’attività prosegue ancora oggi. Il modello diffuso del BaseCamp arriva l’anno dopo trasformando la regione stessa in spazio di scambio e confronto, senza perdere lo spirito aperto e internazionale delle prime edizioni; mentre le attività restano all’Istituto Sant’Eugenio di Locarno, gli alloggi sono offerti da: Scuole di Muralto, Collegio Papio di Ascona e Ostello Eden di Losone.

2024 – Locarno Factory

Con il lancio ufficiale della Locarno Factory, Knuchel assume il ruolo di direttore di un dipartimento che integra:

• Locarno Academy

• BaseCamp diffuso

• REAL Academy (dedicata al documentario)

• Film Foundry (focalizzata su post-produzione e industria)

• Programma fotografia

• Conferenze «Future of…»

• Cattedra Locarno-Factory presso USI

• Locarno Edu: attività educative e di mediazione culturale, tra cui Locarno Kids la Mobiliare, la Giornata del Cinema e Atelier du Futur

300 – Partecipanti

Il nuovo assetto consolida e amplia le attività formative, puntando a coinvolgere circa 300 partecipanti a ogni edizione. La prossima è prevista dal 6 al 16 agosto 2025, sempre in coincidenza con il Locarno Film Festival.

Conferme e nuove sfide

Film Festival – 2 ◆ Ospiti di rilievo, più italiano in cartellone, qualche ombra sul fronte prezzi e ambizioni internazionali

ma non

dello scorso anno, ma ancora distante dalle aspettative. La 78esima edizione del Locarno Film Festival, in programma da mercoledì 6 a sabato 16 agosto, propone un cartellone interessante e ospiti di rilievo, pur lasciando spazio a margini di miglioramento. Un plauso va agli organizzatori per aver compiuto uno sforzo concreto nel riportare la lingua italiana al centro della manifestazione, dopo che nella scorsa edizione era stata – come avevamo già segnalato su «Azione» –messa un po’ in ombra. Le rassicurazioni su un «Pardo Daily» scritto almeno per metà in italiano e l’aumento dei sottotitoli nella lingua di Dante sono segnali incoraggianti. Certo, il lavoro da fare resta ancora molto: l’ideale sarebbe avere un quotidiano interamente in italiano con traduzione inglese a fronte, così come sottotitoli nella nostra lingua per tutti i film in programma. Tuttavia, la direzione intrapresa merita di essere sottolineata. In questo senso va letto anche l’aumento dei fondi stanziati dal Gran Consiglio per la sottotitolazione nel periodo 2026-2030, che passano da 30mila a 60mila franchi: un segnale politico chiaro e importante. Prima di entrare nel merito del programma e degli ospiti, va segnalato un altro aspetto significativo: l’aumento dei prezzi di biglietti e abbonamenti. Non si tratta di un rincaro generalizzato, ma alcune categorie ne sono colpite in modo sensibile. È il caso degli over 65, per i quali l’abbonamento è salito da 230 a 250 franchi in un solo anno. Oppure della giornaliera, che ora costa 55 franchi per tutta la durata del festival – a fronte dei 55 franchi dei primi giorni e dei 51 della seconda settimana lo scorso anno, quando non c’erano in più le seconde proiezioni serali in Piazza Grande. A proposito di quest’ultima attività: si registra negli ultimi due anni una riduzione dell’offerta. La scelta, ci è stato spiegato, risponde a due logiche. Da un lato, la volontà di concentrare le doppie proiezioni nel primo fine settimana per renderle eventi più partecipati; dall’altro, l’esigenza di ottimizzare le risorse, parte delle quali sono state reinvestite proprio nel potenziamento della sottotitolazione. Entrando nel cuore della manifestazione – ovvero il programma di film e gli ospiti attesi – si possono subito segnalare presenze di rilievo. A cominciare dalle star che illumine-

ranno le sponde del Verbano: Emma Thompson, due volte premio Oscar per Casa Howard e Ragione e Sentimento; Lucy Liu, celebre per i suoi ruoli in Charlie’s Angels, Kill Bill e Ally McBeal; fino a Jackie Chan, leggendario interprete di action movie e icona mondiale delle arti marziali.

Non meno significativo è l’arrivo di Alexander Payne, regista raffinato e amato dal grande pubblico, noto per titoli come Paradiso amaro e il recente

The Holdovers. A questi si aggiungono due omaggi: quello alla straordinaria costumista Milena Canonero – quattro Oscar e collaborazioni con autori come Kubrick, Coppola, Polanski, Pollack – e il meritato Premio Cinema Ticino a Michele Dell’Ambrogio, da anni anima e motore del Circolo del cinema di Bellinzona.

Non saranno i grandi nomi a decretare il successo della 78esima edizione, né la scommessa su Kechiche: ma i sottotitoli in italiano

Si tratta indubbiamente di nomi di peso, probabilmente superiori a quelli della scorsa edizione, che puntano a richiamare l’attenzione dei media internazionali e a dare maggiore visibilità alla kermesse locarnese. Basteranno a fare il salto di qualità? Difficile dirlo oggi, ma l’impressione è che i gradini da salire per trasformare Locarno nella manifestazione che ambisce a essere siano ancora numerosi. Sul fronte dei film, il colpo più significativo è la presenza in concorso di Abdellatif Kechiche, regista controverso ma di assoluto rilievo, già vincitore della Palma d’Oro con La vita di Adele. Un nome divisivo, certo, ma importante: le sue opere successive – Mektoub, My Love: Canto Uno e Mektoub, My Love: Intermezzo – erano state presentate rispettivamente a Venezia e Cannes. Che i due blasonati festival abbiano scelto di non invitarlo nuovamente per evitare polemiche? O che Locarno sia stato semplicemente più abile? Solo i vertici di queste rassegne lo sanno. Per i cinefili, resta il fatto che vedere a Locarno l’ultima opera di Kechiche è comunque una buona notizia. Il festival resta, com’è nella sua vocazione, anche spazio di conferme e scoperte. Tra i ritorni più attesi, spiccano Radu Jude con Dracula, Ben Rivers con Mare’s Nest e lo svizzero Fabrice

Aragno con Le Lac, già stretto collaboratore di Jean-Luc Godard nelle sue ultime opere. In extremis si è aggiunta anche Naomi Kawase con L’Illusion de Yakushima. Sul fronte delle novità, suscita curiosità Solomamma, seconda regia dell’attrice e modella norvegese Janicke Askevold, e Le bambine, secondo lungometraggio delle sorelle Valentina e Nicole Brentani, unico film italiano in concorso. Fuori concorso, da segnalare l’attesa per Legend of the Happy Worker, diretto da Duwayne Dunham ma prodotto da David Lynch, in quello che è stato il suo ultimo progetto cinematografico.

Spostando l’attenzione sulla Piazza Grande, va sottolineato un dato significativo: l’alta presenza, superiore alla media degli ultimi anni, di film presentati in anteprima al Festival di Cannes. Sono ben quattro le opere selezionate dal direttore e dal suo team per le proiezioni destinate al grande pubblico, tutte di indubbio valore. Si parte dalla Palma d’Oro Un simple accident di Jafar Panahi, regista che conosce bene Locarno, dove nel 1997 vinse il Pardo d’Oro con il suo secondo lungometraggio. Sempre da Cannes arriva Sentimental Value del norvegese Joachim Trier, vincitore del Grand Prix sulla Croisette lo scorso maggio. A questi si aggiunge La petite dernière, premiato per l’interpretazione femminile, e Testa o croce, western italiano di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis, presentato nella sezione Un certain regard Da un lato, è certamente positivo che titoli così rilevanti – finora riservati agli addetti ai lavori – vengano proiettati sul nuovo megaschermo della Piazza. Dall’altro, è lecito porsi una domanda: questa forte presenza di film da Cannes non finisce per compensare la quasi totale assenza delle grandi case di produzione hollywoodiane? A onor del vero, l’ultima serata vedrà la proiezione di Kiss of the Spider Woman dell’americano Bill Condon, musical con Jennifer Lopez. Ma ci si può chiedere se un solo titolo a stelle e strisce basti a sostenere le ambizioni di un festival che punta – dichiaratamente – a rientrare tra i primi dieci al mondo.

In conclusione, il Locarno Film Festival si conferma un appuntamento imprescindibile per il cinema in Svizzera. La speranza, per il futuro, è che riesca a conquistare una visibilità internazionale ancora maggiore, senza però smarrire le proprie radici locarnesi e linguistiche.

Bene,
benissimo. Meglio
Locarno Film Festival

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Maestri cantori, la commedia è stupenda

Musica ◆ Il Festival di Bayreuth 2025 si inaugura con Die Meistersinger von Nürnberg (I Maestri cantori di Norimberga)

Non era mai accaduto negli ultimi vent’anni che il Maestro desse l’attacco mentre il pubblico ancora rumoreggiava per raggiungere il proprio posto a sedere. È successo a Bayreuth quest’anno, nel «tempio» di Wagner, probabilmente perché un certo numero di persone si è attardato per catturare con l’occhio e con l’obiettivo il cancelliere Merz e l’ex cancelliera Merkel o qualche divo della tv tedesca in passerella sul tappeto rosso, dando così un dispiacere a chi invece era già seduto compostamente e silenziosamente al proprio posto. E certo anche a Daniele Gatti che, alla guida dell’orchestra di Bayreuth, è alla sua seconda inaugurazione di festival, con la prima avvenuta nel 2008 con Parsifal

Con questa rappresentazione si è soprattutto voluto mettere in luce la commedia contenuta nei «Meistersinger »

Il Maestro milanese, direttore principale della Staatskapelle di Dresda e di recente nominato direttore musicale del Teatro del Maggio Fiorentino, è grande conoscitore della partitura, avendola diretta più volte a Zurigo, Milano e a Salisburgo. Per cause esterne si è dunque persa un po’ la magia del Preludio maestoso e coinvolgente. Poi il sipario si apre su una scena curiosa, una lunghissima scala di legno che porta alla chiesa di Santa Caterina, edificio lontano, lassù in alto, da cui usciranno non solo i bravi borghesi di Norimberga con le loro parrucche e gli abiti seriosi, ma anche la vivace e colorata Eva, tutta un fremito dopo l’incontro con il cavaliere che la corteggia, il cantore «rivoluzionario» Walther von Stolzing. Un’atmosfera fiabesca e leggera aleggia sulla scena, e non l’abbandonerà mai, tranne che nel terzo atto, quando entreremo nella casa evocativa di

Hans Sachs, il poeta calzolaio. Nel primo atto la scena girevole ci porta all’incontro dei maestri cantori in chiesa, borghesi che hanno ereditato le regole dell’antica poesia tedesca medievale ormai inaridite dall’usura e divenute appunto un cumulo di regole soffocanti, senza spazio per una vera creatività. Ecco perché i maestri cantori indossano, sopra i loro abiti cittadini, lunghi mantelli e ridicoli copricapi di un’altra epoca, che li fanno apparire più carnevaleschi che solenni. Tra di loro, Beckmesser il censore si propone come il più ligio e agguerrito conservatore della regola, nonché aspirante alla mano di Eva, che per volere del padre Veit Pogner diventa il premio per il vincitore della gara di canto. In questa vicenda d’amore e di lotta fra tradizione e innovazione, Hans Sachs è il perno intorno al quale ruota un mondo in trasformazione: depositario delle antiche regole, amatissimo dal popolo che ne riconosce l’alta poesia, è però consapevole che il suo mondo si va dissolvendo, l’età avanza in ogni senso e i giovani vogliono conquistarsi uno spazio nella vita e nella storia. In lui c’è una malinconia profonda, depressiva, che lo rende dedito all’alcol e ai ricordi, consumato da una passione irrisolta per la giovane Eva. Il regista Matthias Davids viene dal musical e dichiara apertamente di voler mettere in luce la «commedia» dei Meistersinger, lasciandosi alle spalle le macerie della Norimberga nazista e l’antisemitismo, trattati con vigore da registi come Harry Kupfer o più recentemente Barrie Kosky. E «commedia» significa anche rendere umano, e non una macchietta, il personaggio comico di Beckmesser, dare profondità al personaggio di Eva che si ribella al ruolo di «ragazza-premio» del concorso e alla fine non incoronerà nessuno, ma con Walter rifiuterà proprio quell’accademia che Sachs ritiene imprescindibile e che dovrebbe sancire il trionfo dell’arte tedesca sul mondo e sulla politica.

Scrivere di sé per parlare a molti

Pubblicazioni ◆ Annie Ernaux e Frédéric-Yves

Jeannet riflettono sulla scrittura come gesto politico e ricerca di verità in La scrittura come un coltello

Laura Marzi

La scrittura come un coltello, pubblicato da L’orma editore, è una conversazione avvenuta tra la scrittrice premio Nobel Annie Ernaux e l’autore Frédéric-Yves Jeannet di origini francesi, ma saldamente di stanza in Messico dal 1977. Il dialogo riportato nel testo risale ai primi anni 2000, infatti è seguito da una breve postfazione di Ernaux stessa datata 2011, in cui svela che nel periodo in cui avveniva lo scambio di mail con Jeannet lei stesse scrivendo la sua opera più famosa: Gli Anni (L’orma editore, 2015). Infine, a conclusione di questo libro, troviamo le parole di Lorenzo Flabbi, traduttore di Ernaux, che a partire da esempi concreti spiega il processo di avvicinamento alla lingua della scrittrice per renderle giustizia nel passaggio all’italiano.

modo più veritiero possibile ha come obbiettivo proprio quello di dissolvere quell’io, per approdare alla descrizione di «qualcosa tra la letteratura, la sociologia e la storia».

Per questo, da sempre, Ernaux insiste sulla sua coscienza di classe e di transfuga di classe, arrivando a dire che la scrittura è stato uno dei modi attraverso cui ha cercato di fronteggiare il senso di colpa per aver avuto accesso, grazie ai suoi studi, al «mondo dominante», lasciando i suoi genitori nel «mondo dei dominati». E che per questo uno degli obbiettivi, quando scrive, è quello di evitare ogni forma di accondiscendenza con il «lettore colto»: per farlo la sua strategia è quella di usare una lingua asciutta, scarna, piatta, appunto, nel senso di affilata.

Un finale nuovo dunque. La giovane generazione nega il ruolo della tradizione, lo lascia agli esegeti, al poeta Hans Sachs e al rigido Beckmesser, che se ne vanno via discutendo le regole della composizione. Il terzo atto, dopo la scarna simbolica scenografia che fa da cornice alla casa-mondo di Hans, schiaffa davanti al pubblico un’enorme mucca gonfiabile rovesciata a fungere da arco trionfale per la festa di S. Giovanni. Le scene sono di Andrew D. Edwards, che nel secondo atto ci regala una veduta colorata e fiabesca di una Norimberga che è un mix di ieri e di oggi: le case sono quelle dell’epoca di Dürer, ma in primo piano campeggiano cartelli stradali dei giorni nostri e una bibliocabina che servirà da rifugio a Beckmesser durante la rissa finale.

Del resto, quando l’opera era davvero viva, il giovane Puccini inviato da Ricordi a Bayreuth, fece disinvoltamente dei Meistersinger una riduzione per la scena italiana. Oggi, a servire in scena una «commedia» convincente e articolata c’è il grande Georg Zeppenfeld nei panni del tormentato Hans Sachs, Christina Nilsson che dà voce magnifica e interpretazione vibrante a un’Eva grintosa e determinata, Michael Nagy nel ruolo sanguigno di un Beckmesser vero, che suscita tenerezza e simpatia, mentre Michael Spyres è uno Stolzing un po’ scuretto di voce. Daniele Gatti dirige con gioiosa affettuosità e raffinatezza, e anche con calda malinconia (penso al preludio al terzo atto), senza retorica o trionfalismi, una tavolozza musicale ricchissima e splendente, fondata sul magistero armonico e contrappuntistico del Wagner maturo. Il coro di Bayreuth, eccelso come sempre, diretto da Thomas Eitler-De Lint, si difende bene alle prese con la coreografia di Simon Eichenberger. Non dimentichiamo che questa produzione dei Meistersinger (in scena fino al 22 agosto insieme ad altri titoli, www.bayreuther-festspiele.de ) è un po’ anche musical!

Il concetto di «scrittura piatta» che Ernaux stessa utilizza per definire il suo lavoro è, in effetti, uno dei primi temi che emerge nella conversazione con Jeannet. Ernaux chiarisce come sia frutto di una scelta molto precisa di ripulitura estrema, al fine di trasformare il linguaggio in una sorta di specchio della realtà. Ed è interessante leggere come fosse lo stile che utilizzava per scrivere le lettere ai suoi genitori quando era una ragazza. Flabbi fa ulteriore luce poi spiegando che è «uno stile […] piatto sì, ma come la lama di un coltello».

Anche nelle risposte che Ernaux dà a Jeannet troviamo lo stesso approccio che riscontriamo in ogni suo romanzo: una ricerca indefessa di essere precisa e sincera. E bisogna anche ammettere che forse per pochi altri scrittori e scrittrici contemporanei vale la pena di entrare nel laboratorio della creazione come per Annie Ernaux. L’autrice, infatti, precisa a un certo punto che «scrivere è, a mio avviso, un’attività politica, ossia qualcosa che può contribuire al disvelamento o al cambiamento del mondo, oppure, al contrario, rafforzare l’ordine sociale e morale vigente».

Leggere questa conversazione mette di fronte quindi alle riflessioni di una pensatrice che ha i piedi ben radicati nella realtà e ha come obbiettivo quello di raccontare «una cultura, una condizione, un dolore». In queste pagine Ernaux spiega che l’utilizzo dell’io narrante e il tentativo di descrivere i fatti della sua vita e di quella delle persone a lei care nel

Uno dei temi ricorrenti della conversazione con Jeannet è poi il rapporto della scrittura con la verità e non solo perché Ernaux, risaputamente, scrive autobiografie, anzi. In un passaggio lei stessa precisa come «sono parecchi i racconti autobiografici che danno l’impressione, insopportabile, di mancare la verità. E per contro molti testi definiti romanzi la centrano in pieno». Non è facile accordarsi su che cosa sia la verità, specie se non si ricorre alla religione per farlo. A un certo punto Ernaux la definisce come quello che si cerca sempre e che sempre sfugge, oppure spiega come per lei arrivi attraverso una sensazione che le permette di scrivere, dopo giorni magari in cui si ossessiona pensando a un ricordo, una scena, un’immagine che vuole raccontare. La cosa più importante, però, che si evince da queste riflessioni così interessanti, dettagliate anche rispetto alla sua opera intera, è che è proprio quella ricerca della verità che l’ha condotta in tutti questi anni di scrittura, l’ha guidata, l’ha spinta a continuare, nonostante le difficoltà, le critiche feroci che le sono state mosse, le modalità anche insultanti della stampa nei confronti dei suoi testi: «Questa verità è più importante della mia persona, del mio interesse per me stessa, di ciò che si penserà di me, ed essa merita, esige che io corra dei rischi».

Bibliografia

Annie Ernaux, con Frédéric-Yves Jeannet, La scrittura come un coltello, L’Orma editore, 2024

Un momento de Die Meistersinger von Nürnberg. (© Enrico Nawrath)
Annie Ernaux alla 30esima Fiera del Libro di Brive-laGaillarde. (Lucas_Destrem)

Divertimento assicurato a 9 franchi!

Anniversario Migros ◆ 8 spettacoli, 4 programmi diversi: das Zelt, la tenda del Merci Tour vi aspetta ad Agno a settembre

Per festeggiare i 100 anni dalla sua fondazione, Migros ha dato vita al «Merci Tour», tour di ringraziamento che fa tappa in molte località con attività diverse. Fra queste vi è anche la collaborazione con Das Zelt, la tenda che ospita il più grande palcoscenico mobile della Svizzera: 15 location, 168 spettacoli

e oltre 250’000 biglietti venduti al prezzo di 100 anni or sono, ossia 9 franchi!

Il Merci Tour farà tappa anche in Ticino, con un programma ad hoc per il pubblico di lingua italiana che andrà in scena dal 4 all’11 settembre 2025. Si parte il 4 e il 5 settembre con la Famiglia Dimitri; il 6 e

il 7 settembre sarà la volta dei Young Artists (artisti e comici alla riscossa, tra cui Clarissa Tami e Mike Casa); l’8 e il 9 settembre andrà in scena Comedy Club (risate con Flavio Sala, Starbugs Company, ecc), e il 10 e 11 settembre si concluderà con magia, illusioni e mentalismo.

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prezzo di 9 CHF su merci.migros.ch/it/merci-tour/

Concorso

«Azione» mette in palio 10 «pacchetti famiglia» (max 5 biglietti) per uno degli spettacoli di Das Zelt. Per partecipare al concorso inviate una mail a giochi@azione.ch entro domenica 17 agosto 2025 indicando i vostri dati e a quale spettacolo vorreste partecipare. Buona fortuna!

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In fin della fiera

Lettera a Cesare Pavese

Caro Pavese, per dirti il mio grazie non trovo di meglio che scriverti una lettera nonostante le difficoltà che incontrerò nel cercare di fartela avere. Ho 88 anni, cioè 46 in più di quei 42 che avevi tu quando hai deciso di lasciare questo mondo. Eppure ancora mi sei padre, un padre elettivo. Ci sono autori con i quali è opportuno fare i conti. Con te, Cesare, è diverso. Hai camminato al mio fianco, ombra insieme protettiva e minacciosa, per tutta la vita. In quel lontano agosto del 1950 avevo tredici anni e stavo per iniziare la terza media. Figlio e nipote di tipografi, leggevo il quotidiano «La Stampa» che il lunedì non usciva, sostituito da «Stampa Sera»: lo compravo all’edicola di piazza San Secondo, ad Asti e iniziavo a leggerlo sulla strada del ritorno. Ricordo sulla prima pagina di «Stampa Sera» di lunedì 28 agosto quell’articolo di spalla con la notizia della tua morte. Era la prima volta che incon-

Voti d’aria

travo il tuo nome. Leggevo e pensavo: com’è possibile che uno che è riuscito ad affermarsi come scrittore, decida di togliersi la vita? Così, per capire, ho cominciato a leggere i tuoi libri. Lo sappiamo: non bisognerebbe leggere le opere di un autore alla luce delle sue vicende biografiche, ma con te è stato impossibile. Non si tratta tanto di trattenersi dal fare «troppi pettegolezzi». Il tuo vissuto è altrettanto importante da «leggere» quanto le tue opere ed è a esse inestricabilmente intrecciato. La tua figura si è stagliata all’orizzonte dei nostri anni giovanili, ha orientato i nostri gusti e persino i nostri gesti. Qualcuno ha parlato dell’infatuazione per Pavese come di un rito di passaggio verso la maturità. Indossavamo sciarpe come le tue, sfondavamo le tasche riempiendole di libri, frequentavamo le osterie. Pendolare su Torino, per frequentare il Bodoni, noleggiavo con i miei compagni una barca per remare

C’era una volta l’infanzia

Si rischia di essere patetici (3) e qualche volta però ne vale la pena, specie se si pensa ai bambini. Anche se di questi tempi rischiare il patetico è un errore imperdonabile più dell’orrore dilagante (1). Ma in fondo non è più patetico (2) evitare di urlare lo schifo del mondo per timore di apparire patetici? Ripartiamo da Goffredo Fofi (5+), che non perdeva occasione per scrivere dell’infanzia ferita: diceva che tutto ciò che aveva imparato l’aveva imparato da bambino sotto la guerra, la guerra che aveva visto e sofferto. Citava, tra i capolavori che hanno affrontato l’infanzia e la guerra, alcuni film di Rossellini (6-). Sosteneva che i bambini nati negli anni Trenta, che avevano subìto la guerra, una volta cresciuti non hanno imparato nulla da quella esperienza e non sono stati migliori di altri che la guerra non l’avevano vissuta. La Storia non è «magistra» di niente, ha scrit-

to Montale (6). È anche vero, però, che ai bambini morti sotto le bombe è negata la possibilità di smentire

Fofi. Perché non potranno mai dimostrare che, se non fossero morti come distratto effetto secondario della follia degli adulti, sarebbero stati persone migliori dopo aver visto l’orrore che hanno fatto in tempo a vedere. E non potranno neanche confermare un altro pensiero, del filosofo tedesco

Günther Anders (5½), che piaceva a Fofi: «Solo chi è disperato può parlare della speranza».

Ciò non toglie che chi non è disperato possa (debba) indignarsi della disperazione dei disperati. Pateticamente?

Pazienza. Il problema dei bambini, diceva Fofi, è il mondo degli adulti. E questo è indiscutibile. Gli adulti sono così disinteressati ai bambini da stare a contare i loro cadaveri quotidiani senza muovere un dito: semmai, contriti davanti ai tg della sera

A video spento

sul Po. Come facevi tu. Terrorizzato dalla paura di cadere in acqua. Pur vedendoci benissimo avevo un paio di occhiali con la montatura identica alla tua e lenti che facessero «riposare la vista». Nei rapporti con l’altro sesso mi crogiolavo nell’acre piacere della sconfitta, fino all’abiezione di collaborare con il rivale per aiutarlo a fare breccia nel cuore della ragazza per la quale spasimavo in segreto, così da essere riconfermato nel ruolo di perdente. Poi nel 1955 – avevo 18 anni – comprai e lessi Il mestiere di vivere, il tuo diario. Compresi che avevo imboccato una strada senza uscita. Se quello era il prezzo da pagare – la solitudine, il disadattamento, la sconfitta, il dolore – per diventare uno scrittore, non ero disposto a pagarlo. E ti ho rinnegato, mi sono liberato di quel padre elettivo che mi conduceva per mano sull’orlo del precipizio. Fra la malattia che acuisce la nostra sensibilità e ci rende più vulnerabili

e la salute, l’ottusa e sorda salute che ci fa persone normali, ho scelto la salute. Paura? Viltà? No, piuttosto accettazione del principio di realtà, in una quotidianità nient’affatto eroica. È questa la famosa maturità («Ripeness is all» come dicevi citando Shakespeare) che tu non hai mai voluto (o potuto) raggiungere? Mi sono ribellato perché ho creduto di coglierti in contraddizione. Da un lato, con le tue riflessioni sul mito, sulle radici della poesia, con i libri di etnologia e antropologia fatti pubblicare nella Collana Viola, con la poesia sul dio-caprone che «spruzza e ubriaca di un sangue più rosso del fuoco»; con I dialoghi con Leucò (La belva) hai dimostrato che la natura dell’uomo è immodificabile, che l’uomo ubbidisce a pulsioni ancestrali, che, grattata via la sottile crosta della civilizzazione, esce fuori la bestia. Dall’altro lato hai preteso di imporre a te stesso (e a noi che cercavamo di imitarti) un model-

lo di vita eroico, di serietà, di fatica, in una prospettiva di lavoro, lavoro e poi ancora lavoro. Stando alle tue premesse, la costruzione dell’uomo nuovo era destinata a fallire. Ma il tuo fallimento è stata la nostra salvezza. Hai fatto da capro espiatorio. Quando l’ho capito sei tornato a essermi padre e maestro. Mi hai insegnato che i libri e la letteratura praticati come una religione, non salvano la vita. Che l’ostinata fedeltà a un progetto perseguito fino all’estremo ci rende rigidi e fragili come cristalli. In compenso ci hai lasciato un modello di serietà e di dedizione tanto più importante in una stagione annegata nel pressapochismo e che assiste in molti campi al trionfo dei dilettanti. Grazie per essere arrivato fino in fondo a leggere questa lettera. E lunga vita a te, Cesare Pavese, a te che hai voluto viverne una così breve.

Tuo Bruno Gambarotta

(2), se ne dispiacciono con l’ipocrisia concessa dalla distanza. Quando sono interessati ai bambini, li pensano come consumatori (vedi il trionfante kid marketing : voto 1). Ci sono i bambini consumatori e i bambini consumati (dal lavoro, dallo sfruttamento, dalla fame, dalle guerre): è un’altra intuizione di Fofi. I bambini consumati sono anche quelli soffocati dal narcisismo dei genitori. Se non ci credete, leggete lo psicologo Matteo Lancini (Sii te stesso a modo mio, voto: 5). Anche gli orfani sono consumati. Scrive Fulvio Scaparro, maestro della psicologia dell’età evolutiva (5+): «Ci sono vari tipi di orfani: c’è chi non ha mai conosciuto i suoi genitori, chi li ha perduti per guerre o malattie, chi li ha ma non li apprezza, chi li ha e non sono apprezzabili». Sono apprezzabili gli adulti che considerano la morte dei bambini un effetto collaterale delle bombe? No, sono odiosi criminali

Il concetto di vero o falso alla luce dell’AI

Un mese fa, una coppia di amici, prima di partire per gli Stati Uniti, ha cancellato dai suoi smartphone tutti i riferimenti al presidente Trump. Erano terrorizzati di essere rimandati a casa, una volta atterrati al JFK di New York, perché sui giornali era apparsa una notizia inquietante: un turista norvegese era stato respinto dopo i controlli all’aeroporto di Newark, New Jersey, e costretto a tornare in Norvegia. Sul suo telefonino avevano trovato un meme che ritraeva il vicepresidente JD Vance, grasso e calvo. Che qualcosa in questa storia non tornasse si poteva capire subito. Innanzitutto, la fonte che tutti i media hanno ripreso non è delle più affidabili: il «Daily Mail», tabloid che ha un rapporto altalenante con la verità e una frequentazione assidua con la bufala. Questo però non ha impedito a media anche seri, prestigiosi e solitamente affidabili di rilanciare la buffa storia

di questo ventunenne norvegese inviso agli Stati Uniti d’America per il suo senso dell’umorismo e la passione per lo shitposting. Il ragazzo è stato sottoposto a un controllo da parte delle autorità aeroportuali, come capita spesso a chiunque atterri negli Usa. Inoltre, è stato davvero respinto dalla stessa autorità portuale, solo che con il respingimento non c’entra niente il meme ma l’uso di stupefacenti. In un’epoca dominata dal mondo virtuale, distinguere il vero dal falso è sempre più difficile. Fenomeni come le fake news – notizie false presentate come vere – proliferano online, mentre strumenti di AI generativa creano immagini, video e testi talmente realistici da ingannare anche l’occhio più attento. Il risultato è un ecosistema informativo inquinato da misinformation (informazioni false diffuse in buona fede) e disinformation (informazioni false diffuse deliberatamente) dove le

fonti storiche possono essere falsificate e l’opinione pubblica manipolata. Il concetto di vero o falso alla luce dell’IA è uno dei nodi più complessi e dibattuti. L’avanzamento dell’AI ha scardinato le tradizionali concezioni di verità e falsità, ponendo nuove sfide e opportunità. Per un’AI, la «verità» è spesso definita dai dati su cui è stata addestrata. Se contengono pregiudizi o informazioni errate, l’AI tenderà a riprodurre tali errori. Non possiede una comprensione intrinseca della verità, ma elabora pattern e correlazioni. Molti modelli di AI generativa, per ridurre le «allucinazioni» (la produzione di informazioni false o inventate), vengono integrati con motori di ricerca o basi di conoscenza verificate. In questo modo, la loro «verità» diventa una funzione della veridicità e dell’affidabilità delle fonti a cui attingono. Insomma, il concetto di vero o falso nell’era dell’AI non è più un sempli-

che, come tali, sarebbero da perseguire, ma dopo qualche generico appello si continua a far finta di niente, mentre si corre ai ripari precipitosamente se i mercati vanno in crisi. Non nego la mia accresciuta passione per il filosofo eretico Günther Anders, amico e marito (per breve tempo) di Hannah Arendt. Mi pare che continui a parlarci del nostro tempo anche a distanza di molto tempo (è morto nel 1992): per esempio quando ritrae l’uomo tecnologico come un «uomo antiquato» rispetto alla stessa tecnologia che ha inventato, non essendo capace di governarla. Si crea, secondo Anders, un dislivello tra l’uomo e i suoi prodotti meccanici che, sempre più nuovi ed efficienti, lo superano. Ciò vale per le armi come per i mezzi di persuasione, che nei suoi anni erano la radio e la televisione e per noi sono soprattutto i social. I mezzi di comunicazione non sono solo «mezzi», ma «realtà

che ci plasmano»: ecco perché, dopo il trionfo dei mass media, secondo Anders non può esistere la democrazia così come era stata tradizionalmente intesa. Vedeva lontano, Anders, pur non avendo ancora conosciuto l’epoca di internet, dell’intelligenza artificiale, della politica fatta (dai politici: voto 1) attraverso messaggini inviati su WhatsApp. Tra il 1959 e il 1961, Anders ebbe uno scambio epistolare con il pilota che ordinò di sganciare la bomba atomica su Hiroshima senza immaginarne le conseguenze. Si chiamava Claude Eatherly e visse i suoi giorni con un colossale senso di colpa e un desiderio di espiazione che lo avvicinò al suicidio due volte e lo fece finire in una clinica psichiatrica. Anders lo definì un «incolpevolmente colpevole». Non dimentichiamo che vivono beatamente tra noi i «colpevolmente colpevoli» delle bombe e dei bambini morti.

ce binomio, ma una questione multidimensionale e dinamica. L’AI non «conosce» la verità nel senso umano o filosofico, ma la elabora e la genera in base ai dati e agli algoritmi. La sfida è quella di sviluppare un’AI che sia non solo potente e utile, ma anche affidabile e trasparente, e di creare un ecosistema digitale in cui la verità possa emergere in modo più solido, nonostante le nuove forme di disinformazione abilitate dall’AI. Sarà possibile o andiamo incontro a un mondo distopico, dove si realizzano tutte le catastrofi cognitive rappresentate nella serie inglese Black Mirror? Come ha scritto Stefano Bartezzaghi, «uno dei massimi studiosi del Falso è stato Umberto Eco, che ha dedicato all’argomento studi semiotici, articoli, corsi universitari, conferenze, esperimenti scientifici e persino romanzi (Baudolino, Bompiani 2000; Il cimitero di Praga, Bompiani, 2010). Quello che

Eco conclude è che difendersi dal Falso non è affatto difficile; quello che è difficile è avere un concetto del Vero. Per rendersene conto basta guardare a coloro che hanno un concetto solidissimo del Vero: per esempio i terrapiattisti o gli antivaccinisti. La loro fiducia è incrollabile e sono impermeabili a qualsiasi tentativo di dimostrazione del fatto che quanto loro credono vero sia in realtà falso».

A rafforzare questa paura di Eco, esiste l’effetto «camera dell’eco» dei social media: gli algoritmi tendono a mostrare agli utenti contenuti simili a quelli con cui già interagiscono. Ciò significa che la disinformazione, una volta entrata in una cerchia (per esempio i seguaci di una teoria cospirazionista), può rimbalzare e rafforzarsi continuamente senza contraddittorio, creando bolle informative in cui le false narrazioni diventano verità personali indiscutibili.

di Bruno Gambarotta
di Paolo Di Stefano
di Aldo Grasso
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Shake proteico alle fragole

Bevanda

Ingredienti per 1 persona

100 g di fragole

1,5 dl di drink alla vaniglia

High Protein Zero

70 g di quark al naturale

High Protein

ca. 30 g di banane, a piacimento (vedi suggerimento)

½ cucchiaino di pistacchi tritati

1. Taglia a pezzi grossolanamente le fragole. Riducile finemente in purea in un frullatore a bicchiere con gli ingredienti restanti, ad eccezione dei pistacchi.

2. Cospargi coi pistacchi e servi.

CONSIGLI UTILI Non tutte le fragole sono dolci allo stesso modo. Per uno shake più dolce, prima di frullare aggiungi un po’ di banana o 5 g di fragole liofilizzate. Puoi anche dolcificare lo shake con 0,5 cucchiaini di zucchero di betulla. Fuori stagione usa le fragole surgelate.

GUSTO

Proteine in abbondanza

Come seguire al meglio un’alimentazione ricca di proteine? Ecco qualche idea per darti una carica di energia quotidiana...

Wrap proteico con mozzarella

Ricetta per wrap o tortilla integrale con ceci, peperoni, mozzarella e quark.

Una ricetta aromatica ricca di proteine

Ecco di quante proteine abbiamo bisogno ogni giorno

Per gli adulti di età inferiore ai 65 anni, l’Ufficio federale della sicurezza alimentare raccomanda 0,8 g di proteine per chilogrammo di peso corporeo al giorno, ossia circa 52 grammi. La quantità può essere più elevata per le donne in gravidanza. A partire dai 65 anni, il fabbisogno aumenta a 1 grammo per chilogrammo di peso corporeo.

Fonti proteiche di buona qualità

La carne magra (26%), il salmone (20%), le uova (13%) e i latticini come il quark magro (13%) forniscono proteine facilmente assimilabili. Le alternative vegetali sono il tofu (15%), i legumi cotti (7-9%), la frutta a guscio come le mandorle (21%) e i semi come quelli di zucca (25%). Il parmigiano (40%) e la carne secca dei Grigioni (35-40%) hanno un contenuto proteico particolarmente elevato.

Abbinamenti ben studiati

Le proteine vegetali dei legumi, come i ceci, vengono utilizzate al meglio dall’organismo se combinate con cereali, semi e noci. Nell’hummus, ad esempio, questo avviene automaticamente poiché viene preparato con la pasta di sesamo.

Scorta di proteine

I legumi cotti si conservano in frigorifero fino a quattro giorni, quelli congelati fino a sei mesi. Così è possibile preparare pasti ricchi di proteine in modo più rapido. I legumi in scatola non hanno nulla da invidiare a quelli secchi. Anche le noci e i semi possono essere aggiunti facilmente a un piatto: in un’insalata, una zuppa o uno yogurt.

Pancake proteici

Con i pancake con yogurt e lamponi di questa ricetta fai il pieno di proteine per tutta la giornata. La colazione perfetta!

Testo: Claudia Schmidt
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TEMPO LIBERO

Una trama ordita dal vento d’Irlanda Dai telai di famiglia alle scogliere battute dall’Atlantico il tessuto del Donegal Tweed racconta l’anima ruvida della sua terra

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Sapori tra costa e campagna

Per gli amanti del pesce, le sardine sono una prelibatezza, e lo sono ancor di più se cotte in forno con pecorino e pangrattato croccante

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Divertimento a tempo di grind e skate

Il remake di Tony Hawk’s 3+4 riattiva la memoria delle dita e fa riscoprire l’essenza pura del gioco: adrenalina e leggerezza

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In discesa lungo i sentieri di montagna

Altri campioni ◆ Alain Bigey, educatore e pilota del Cimgo, spiega come un veicolo da discesa possa spalancare le porte dello sport outdoor e del turismo alpino a chi ha difficoltà motorie

Concepito per restituire l’adrenalina della discesa a chi vive con una disabilità motoria, il Cimgo rappresenta una piccola rivoluzione nel mondo dello sport outdoor. Si tratta di un mezzo a quattro ruote, pensato per affrontare le discese lungo i sentieri di montagna e mirato per garantire inclusione, accessibilità e, soprattutto, emozione. Ne parliamo con Alain Bigey, educatore specializzato, guida sportiva e tra i fondatori dell’Associazione svizzera Différences Solidaires, una delle prime realtà europee a scommettere su questo veicolo innovativo.

Un gesto a due, una fiducia che si sbilancia in avanti: c’è chi guida e chi si lascia guidare, ma entrambi lo fanno come un corpo solo

Che cosa è il Cimgo?

Immaginate una sorta di slitta da cani… con le ruote. Questo è il Cimgo: un veicolo da discesa progettato per affrontare i sentieri di montagna, anche quelli più impervi, con a bordo persone a mobilità ridotta. L’utente siede all’interno di una scocca protettiva posizionata nella parte anteriore, mentre un pilota specializzato guida il mezzo, rimanendo in piedi, dalla parte posteriore, per controllarne traiettoria e velocità durante le discese.

Il Cimgo è pensato infatti esclusivamente per le discese: per raggiungere la vetta è necessario affidarsi agli impianti di risalita o utilizzare un rimorchio. In Svizzera, Champéry è, assieme a Villars, un punto di riferimento per questa attività. Qui, i piloti possono accedere direttamente alla funivia con il Cimgo completo, passeggero incluso. In altre località, invece, è spesso necessario smontare in più parti il mezzo, un’operazione più faticosa e dispendiosa in termini di tempo. Dal punto di vista tecnico, il Cimgo è dotato di freni potenti e di sospensioni studiate per assorbire gli urti del terreno, garantendo al tempo stesso stabilità e comfort. È omologato per l’utilizzo in ambiente alpino e può affrontare sentieri sterrati, radici, rocce e pendenze sostenute, rendendo l’esperienza simile – per intensità – a una discesa in mountain bike.

Si direbbe un’idea nata da un visionario… L’invenzione del Cimgo si deve a Pierre Tessier, nome ben noto nel mondo dello sci adattato. Tessier è infatti il padre del Tandemsci, e ha contribuito allo sviluppo del Dualsci e del Monosci. Il Cimgo è la sua

proposta per l’estate: un’alternativa valida e stimolante alla lunga attesa della stagione invernale. Le prime discese sono avvenute in Francia nel 2009 e già l’anno seguente l’Associazione Différences Solidaires si è dotata di uno dei primi modelli, portando il Cimgo sui sentieri svizzeri e contribuendo in modo significativo alla sua diffusione. Pierre aveva compreso che l’emozione della velocità non doveva essere un privilegio

per pochi. Voleva offrire a chi vive su una sedia a rotelle la stessa libertà e le stesse vibrazioni che prova chi scende in bici o con gli sci. E ci è riuscito.

Chi può vivere quest’esperienza? Il Cimgo è rivolto a tutte quelle persone con disabilità motoria che non sono in grado di condurre un mezzo autonomamente. La scelta del percorso viene calibrata dal pilota sulla

base delle condizioni fisiche e sensoriali del passeggero: se quest’ultimo ha una sensibilità ridotta, ad esempio, si sceglie un tracciato meno tecnico e movimentato, e viceversa. La varietà di sentieri permette quindi di adattare l’esperienza a ogni tipo di utente in base all’età e soprattutto in base alla propria disabilità. Ogni uscita è costruita con attenzione, per offrire il massimo della sicurezza e del divertimento. Abbiamo accom-

pagnato anche persone che non avevano mai messo piede su un sentiero. Vederle attraversare un bosco, sentirle ridere in discesa è qualcosa di impagabile.

E in che modo questo può avvenire in sicurezza?

È importante sottolineare che i piloti sono formati con attenzione: ogni guida deve seguire un corso di due giorni ed è successivamente previsto un aggiornamento obbligatorio ogni due anni. La sicurezza è un valore prioritario e le escursioni si svolgono sempre su tracciati preventivamente ispezionati. Il rischio, come in ogni sport outdoor, esiste, ma gli incidenti sono rarissimi grazie alla preparazione e al lavoro di squadra tra i piloti. Le discese, infatti, si effettuano quasi sempre in gruppo: la presenza di più Cimgo permette agli accompagnatori di supportarsi a vicenda, scambiarsi indicazioni, affrontare insieme eventuali ostacoli. In questo modo, il rischio viene condiviso e diluito, e l’esperienza diventa ancora più sicura.

Tecnologia e futuro: dove si va? Se da un lato il Cimgo ha raggiunto una sua maturità tecnica – e quindi non si prevedono cambiamenti radicali – dall’altro il panorama dei dispositivi per la mobilità autonoma continua a evolversi. Sono in crescita i mezzi come il Quadrix o il Trialp, alcuni dei quali dotati di joystick che permettono agli utenti di guidare in autonomia, proprio come accade con una carrozzina elettrica. Queste soluzioni stanno ampliando enormemente il ventaglio di opzioni per le persone con disabilità, non solo nel turismo sportivo ma anche nella vita quotidiana. La tecnologia sta rendendo possibile ciò che fino a pochi anni fa sembrava impensabile: salire in autonomia su una collina o su una montagna, percorrere un sentiero sterrato, addentrarsi nei boschi.

Si potrebbe dire che lo sport si trasforma così in un ponte esperienziale?

Sì. L’esperienza del Cimgo non è solo avventura e tecnica: è prima di tutto relazione. Relazione tra pilota e passeggero, tra natura e corpo, tra limite e possibilità. In un mondo che spesso esclude chi è «diverso», esperienze come queste costruiscono ponti, smontano stereotipi e mostrano che la disabilità non è un ostacolo, ma una condizione che può (e deve) trovare spazio nella società, anche su una ruota, anche in discesa. Il vero traguardo non è arrivare in fondo al sentiero, ma fare in modo che chiunque possa partire.

Alain Bigey, educatore e pilota del Cimgo, qui in azione.
Davide Bogiani
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Là dove la lana trattiene i colori delle brughiere

Irlanda ◆ Dal cigolio dei telai di Kilkar alle vetrine per turisti di Ardara, il Donegal Tweed conserva un’identità fatta di fatica orgoglio e bellezza

La vetrata è spalancata sul profondo blu di un braccio di mare spazzolato da un vento ispido sullo sfondo di verdi colline. Parte in dolcezza questo Donegal, nascosto dietro la porta rosso fuoco di un cottage irlandese perso tra spiagge e brughiere di St John’s Point, ma a guardarlo tutti i giorni deve trasmettere un po’ della sua magia allo struggente universo di trame e colori che Cindy Graham crea facendo volare nell’aria ragnatele di fili al ritmo di un antico telaio: «Apparteneva a mio padre perché mia madre non era una tessitrice, e qui abitava mia nonna. Ci sono ragioni di famiglia per una passione che non è solo un lavoro. Un tempo da queste parti tessere era anche un modo di vivere, ma oggi siamo rimasti in pochi, anche se il Donegal Tweed è il più famoso del mondo insieme all’Harris Tweed scozzese. Le differenze dipendono soprattutto da un microclima che influenza le sfumature di colore delle brughiere, del mare, dei licheni e delle rocce». Insieme a una lavorazione rigorosamente manuale è proprio la struggente bellezza delle sfumature di more, fucsia, ginestre e muschi, piante autoctone frutto di un ambiente unico, il segreto del fascino senza tempo di questo panno di lana ruvido nato originariamente in Scozia.

Mentre i giovani scappano e i turisti scattano foto, la trama del Donegal Tweed continua a custodire memoria e malinconia

Il Donegal Tweed arrivò nel nord dell’Irlanda alla fine del Settecento quando la Royal Linen Manufactures distribuì seimila ruote per filare e altrettanti telai agli agricoltori locali che impararono rapidamente a trasformare la lana filata dalle donne in una trama di ordito di qualità altissima intrecciata in colori diversi a intervalli irregolari. Da allora il Donegal Tweed non ha più smesso di ricreare lo straniante effetto di un prato ricoperto di erica o di un mare incerto tra blu e antracite che si schianta contro le scogliere di Slieve League, le più alte d’Europa. Lame di granito aguzze come coltelli scolpite da millenni di tempeste e maree, quasi una metafora della durezza di vita di pescatori e contadini che, per sbarcare il lunario, facevano anche i tessitori.

«Noi siamo l’ultima generazione, i giovani spesso se ne vanno dopo pochi giorni perché le ragazze li trovano più appetibili se lavorano con i computer; uno dei miei due figli fa l’informatico negli Stati Uniti, l’altro almeno si occupa di cavalli» ride serafico Sean sovrastando il sottofondo cigolante di un telaio sfinito da generazioni di tessitori nel villaggio di Kilkar, uno degli ultimi baluardi del tweed tradizionale. Voci da un finis terrae gaelico dove il vento scivola sulla mezzaluna di sabbia di Silver Strand illuminata da luci sfacciatamente caraibiche, almeno quando il sole riesce a squarciare nuvole striate d’argento e blu che probabilmente hanno preso la rincorsa dal continente americano prima di raggiungere questo estremo lembo d’Europa.

Nella solitudine della vicina Glencolumbkille (Gleann Cholm Cille ), la «valle di Columba» dal nome di un santo monaco irlandese del sesto secolo famoso come una rock star, un

menhir perso tra i campi rivela croci che affiorano dalla pietra, ultime testimonianze nascoste tra i campi di un cristianesimo capace di integrarsi con il mondo celtico. In Irlanda spesso c’è un prete dietro ogni storia e fu proprio un parroco, padre McDyers, a salvare il villaggio dallo spopolamento creando alla metà del secolo scorso piccole attività artigianali e inventandosi il Folk Village, un grumo di cottage tradizionali che dal 1967 rievocano la faticosa quotidianità di una comunità lontana dal resto del mondo, per la gioia dei rari turisti americani di origine irlandese in cerca di romantiche radici perdute.

Oltre le onde d’erba di morbide

brughiere, il passo di Glengesh scivola giù verso Ardara, per oltre un secolo capitale del Donegal Tweed che veniva controllato e custodito nel Mart, costruito agli inizi del Novecento per l’ispezione, lo stoccaggio e la vendita del tweed. Oggi è la sede di Triona Design, erede di cinque generazioni di tessitori, «…siamo dentro un pezzo di storia, molti dei telai che vedi qui una volta avevano le ruote, così potevano essere trasportati da una casa all’altra e le persone potevano socializzare. Le tecniche non sono cambiate molto, ma l’umanità sì», è amaro il sorriso del proprietario Denis Mulhern. «Una volta tutti volevano un abito buono e ad Ardara lavora-

vano seicento tessitori, ma oggi sono meno di una dozzina e questo artigianato rischia di svanire anche se il mercato attuale, e le donne in particolare, preferiscono la nostra lana più corta e più morbida a quella del tweed scozzese ottenuta soprattutto dalle Black Sheeps, le pecore nere». Alle sue spalle un tessitore aspetta pazientemente l’arrivo del prossimo bus di turisti che a colpi di wow e beautiful aiutano a sopravvivere un’attività che, dopo un’effimera rinascita tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, ha una dimensione sempre più artigianale. Anche se il Donegal Tweed è considerato un tessuto perfetto per stilisti internazionali e sarti giapponesi, per Eddie Doherty di Handwoven Tweed, aria burbera e mani che non riescono a staccarsi dal telaio, contano i fatti: «Amo questo lavoro e non mi sono mai fermato, mica come certi miei concorrenti che vendono tweed prodotto altrove» sputa il rospo Eddie per chi vuole intendere, indicando la vetrina di un concorrente. Alla sera, fermati i telai, si ritrovano tutti al Beehive pub di Ardara, alla faccia dei tessuti sintetici e contraffazioni orientali, dove un gruppo di musicisti risucchia, cappellino incluso, una giapponese di passaggio. Le hanno messo in mano un violino mentre nell’altra impugna ancora uno smartphone, con quell’aria educatamente perplessa che hanno i giapponesi allibiti.

Immagini di un estremo nord-ovest irlandese che resiste imperturbabile, nutrito da visioni che si materializzano per un istante, due cavalli che sfiorano il grande dolmen di Kilclooney, paesaggi da fine del mondo che si spalancano tra un faro e una lingua di terra, un mare che ancora nasconde i relitti di molti galeoni dell’Armada Invencible disintegrati da un labirinto infernale di promontori verticali. È la fine del mondo del Bloody Foreland, il «promontorio sanguinoso», nome che è tutto un programma testimoniato dallo scheletro di un peschereccio che affiora dalla bassa marea a Bunbeg, spolpato di anno in anno da venti e tempeste.

A Inishowen, la penisola più settentrionale d’Irlanda, il grande cerchio di pietra scura di Grianan of Aileach, un forte dell’Età del Ferro, domina dall’alto di una collina i confini incerti di un dedalo di acque e colline. Oltre, c’è solo Malin Head, dove l’Irlanda finisce davanti a un mare incapace di fermarsi sotto nuvole smontate incessantemente dal vento. Come il tweed, intriso di una lunga storia di cui entra a far parte anche chi non la conosce, perché «quando compri uno yard di Donegal tweed dentro c’è anche lo spirito dell’Irlanda.»

St John’s Point. Questo tradizionale
Eddie Doherty.
Enrico Martino, testo e foto

Ricetta della settimana - Sardine e pecorino

Ingredienti

Portata principale

Ingredienti per 4 persone

600 g di sardine surgelate

(da scongelare prima dell’uso)

4 c d’olio d’oliva

2 spicchi d’aglio

2 cc di semi di finocchio

sale

pepe

1 limone

8 c di pangrattato

2 c di burro

40 g di pecorino

1 mazzetto d’erbe aromatiche miste, ad esempio prezzemolo, aneto

Preparazione

1. Scaldate il forno statico a 180 °C.

2. Pulite le sardine e sciacquatele con acqua fredda. Asciugatele con carta da cucina. Ungete i pesci con l’olio e distribuiteli su una teglia rivestita di carta da forno. Aggiungete l’aglio schiacciato.

3. Schiacciate grossolanamente i semi di finocchio e aggiungeteli. Condite con sale e pepe.

4. Grattugiate finemente la scorza del limone, spremete il succo. Mescolate metà della scorza e tutto il succo con i pesci. Cuocete in forno per 15-20 minuti.

5. Nel frattempo, tostate il pangrattato in una padella unta di burro, finché si dora. Condite con il resto della scorza di limone, un po’ di sale e pepe. Grattugiate finemente il pecorino. Tritate grossolanamente le erbe. Servite le sardine nei piatti, cospargetele con le erbe, il pangrattato e il pecorino.

Consigli utili

Le sardine si possono mangiare con la pelle ma meglio eliminare la testa, la coda e le lische. Alternativamente alle sardine potete utilizzare circa 400 g di filetti di lucioperca o di merluzzo. A seconda dello spessore dei filetti, allungate o diminuite di un po’ il tempo di cottura in forno. Ottimo con risotto o insalata verde.

Preparazione: circa 20 minuti; cottura in forno: circa 15-20 minuti

Per persona: circa 43 g di proteine, 29 g di grassi, 11 g di carboidrati, 480 kcal

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Un divertentissimo tuffo nel passato

Videogiochi ◆ Combo, memoria muscolare e nuove modalità per Tony Hawk’s Pro Skater 3+4, vent’anni dopo

Per chi, come noi, aveva ancora in testa quell’indelebile e bellissimo ricordo dello skateboard che sfrecciava come un missile su half pipe infiniti e di quel suono cigolante dei grind, accompagnati dalla barra dell’equilibrio per non cadere, finalmente, dopo un lustro dall’ultimo remake di Tony Hawk’s Pro Skater 1+2, possiamo tornare a immedesimarci nei migliori skater degli anni 2000.

Activision ci propone la stessa formula di cinque anni fa, ovvero prendere due titoli del franchise di Tony Hawk’s, adattarne il look and feel ai giorni nostri e offrire un titolo odierno con meccaniche vecchie più di vent’anni. E, per quanto ci riguarda, la cosa funziona benissimo!

Il gameplay resta quello di sempre, ma il nuovo Tony Hawk’s Pro Skater 3+4 aggiorna lo stile e moltiplica le possibilità

Facciamo un passo indietro per chi non conosce la saga di Tony Hawk Prodotto da Neversoft e pubblicato da Activision, questo titolo nasce nel 1999 prendendo il nome di uno degli skater professionisti migliori d’America. Il gioco divenne subito un successo e, sull’entusiasmo di migliaia di fan, Activision cavalcò l’onda rilasciando un titolo all’anno, fino ad arri-

vare a una fase di stallo in cui lo scarso interesse e la ripetitività hanno avuto il sopravvento, portando la saga a un declino inevitabile.

Controller alla mano, questo gioco ci ha riportato letteralmente indietro di due decenni e la cosa che ci ha stupito di più è che, nonostante sia passato così tanto tempo, sono bastati pochi minuti per riattivare una memoria muscolare utilizzata esclusivamente per questo gioco. Abbiamo infatti ripreso familiarità con il titolo quasi immediatamente, riuscendo a concatenare vari flip, grind e grab, eseguendo combo che facevamo da ragazzini e suscitando in noi un divertimento sfrenato.

Ed è forse questa la cosa che più vogliamo enfatizzare di questo titolo: è maledettamente divertente!

Tuttavia le modalità di gioco sono state rispolverate. Infatti, rispetto a vent’anni fa, il gioco non propone solamente la classica modalità carriera, che ci permetterà di immedesimarci in uno dei 31 skater professionisti, ma potremo giocare anche in multiplayer, dove sarà possibile sfidare migliaia di skaters online a suon di combo scalando la classifica mondiale. A tutto ciò si aggiungono la nuova modalità Hawk, che ci metterà testa a testa con un altro giocatore in una mappa preselezionata con l’obiettivo di trovare per primi tutte le lettere della parola H-A-W-K, e la possibilità di creare il proprio skate

Giochi e passatempi

Cruciverba

Cosa rappresentava la parola «cordace» nell’antica Grecia?

Scoprilo leggendo, a cruciverba ultimato, nelle caselle evidenziate.

(Frase: 3, 5, 8, 1, 10)

ORIZZONTALI

1. Un terzo di undici

3. Insenatura costiera

7. La Vardalos attrice canadese

9. Lo era Pietro il Grande

10. Anagramma di tuba

12. Prefisso replicativo

13. Nei martini

15. Le iniziali del maestro Laurenti

16. I cumuli delle segherie

22. Le iniziali dell’attrice Spada

24. Questo a Parigi

25. Con «terno» fanno… dentro

26. Patria di un noto mago

28. 101 romani

30. Fratello di Efialte

32. Apparentemente uguale

35. Sono ghiotti di miele

37. Giovane bovino

38. Minuscolo arnese

VERTICALI

1. Prescelto da Dio

2. L’Horan cantante irlandese

4. Poli alfabetici

5. Consegnar

6. Un figlio di Apollo

8. Capaci, esperti

11. Precedono la zeta

park dove cimentarsi con le tipologie di trick che si preferiscono. Infine, ma non per questo meno importante, si potrà semplicemente scendere in una modalità freestyle senza tempo né punteggio, liberando la mente dalle tensioni agonistiche. Il gioco propone anche una profonda personalizzazione: sarà infatti possibile creare il nostro alter ego, vestendolo a piacimento con i più famosi marchi da skater quali: Baker, Birdhouse, DC Shoes, Element, Independent, Vans, Volcom eccetera. Oltre al vestiario, avremo la possibilità di personalizzare anche tutta l’attrezzatura sportiva: dalla tavola ai caschi e alle varie protezioni. Ma non finisce

qui: ogni mappa che visiteremo nella modalità carriera conterrà degli oggetti bonus che dovremo trovare. Come ricompensa, questi oggetti ci daranno delle stat da poter applicare nell’albero delle caratteristiche del nostro skater virtuale, decidendo di conseguenza in quale tecnica vogliamo renderlo più forte in base al nostro stile di gioco. Tutti i fan della saga sanno benissimo che ogni titolo rilasciato è stato accompagnato da una colonna sonora d’eccellenza. Questo gioco non è da meno: rimanendo fedele a quanto pubblicato all’epoca, include tutte le canzoni della playlist originale. Ci sono state solamente alcune aggiunte di «nuove leve» musicali, tra cui Run The

14. Le iniziali del tenore Caruso

17. Le iniziali dello scrittore Camilleri

18. Un documento registrato

19. Pronome personale

20. Il Morricone musicista

21. Perduto a Londra

23. Le tracce più labili

27. Ha almeno un nipote

29. Bagna Strasburgo

31. È una al tocco

33. Le iniziali di Robespierre

34. Articolo spagnolo

36. La giornalista Giacobini (iniz.)

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

Jewels, Vince Staples e gli Idles. Nonostante oggigiorno si possa giocare a qualsiasi titolo utilizzando la musica che più ci piace attraverso le applicazioni di streaming, abbiamo trovato una bella chicca per poter riascoltare fedelmente tutte le musiche che avevano accompagnato questi due giochi. Per quanto riguarda l’aspetto grafico, Tony Hawk’s Pro Skater 3+4 non ambisce certamente a raggiungere chissà quali vette. Il gioco propone comunque una grafica gradevole e attuale, rendendo chiaro ed evidente il salto generazionale di console rispetto a quanto pubblicato originariamente. Le mappe, i personaggi e gli skateboard sono stati riprodotti fedelmente e adattati perfettamente alla tecnologia grafica che propongono oggigiorno le case produttrici «tripla A».

Per concludere, Tony Hawk’s Pro Skater 3+4 prende due grandi titoli, li rispolvera molto bene e li ripropone sul mercato. Certamente chi è fan di vecchia data come noi ne sarà felicissimo, ma consigliamo e speriamo che questo titolo possa raggiungere anche un pubblico nuovo, che non ha mai messo mano alla saga di Tony Hawk’s Pro Skater

Molte volte ci chiediamo cosa cerchiamo in un videogioco e, per quanto ci riguarda, il divertimento dovrebbe essere sempre alla base, e questo titolo lo fa benissimo, offrendocene per più di venti ore. Voto: 8.5/10.

Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

Soluzione della settimana precedente LO SAPEVATE CHE… – Le piante di cachi hanno resistito ai bombardamenti di Nagasaki, per questo si sono guadagnate… Resto della frase: … IL

I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku cliccando sull’icona «Concorsi», homepage in alto a destra Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano . Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.

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Migros Ticino
Migros Ticino

Pesce e frutti di mare

La magia del mare per i buongustai

6.95

Filetti di platessa M-Classic, MSC pesca, Atlantico nordorientale, 300 g, in self-service, (100 g = 2.32) 20%

invece di 8.70

25%

8.95

invece di 12.–

25%

17.95

invece di 24.–

Filetti di salmone dell'Atlantico Pelican, ASC prodotto surgelato, in conf. speciale, 750 g, (100 g = 2.39)

Tranci di salmone M-Classic, ASC d'allevamento, Norvegia, 2 pezzi, 400 g, in self-service, (100 g = 2.24)

15.95

invece di 22.43

Gamberetti crudi e sgusciati Pelican, ASC prodotto surgelato, in conf. speciale, 750 g, (100 g = 2.13) 28%

CONSIGLIO DEGLI ESPERTI

I tentacoli di polpo possono essere mangiati subito e serviti freddi.

Basta condirli con un po' di olio d'oliva, prezzemolo fresco, una spruzzata di succo di limone, sale e pepe e servirli su un letto di rucola. Buon appetito!

30%

8.95

invece di 12.90

Tentacoli di polpo Fruits de mer pesca, Atlantico centro-orientale, 200 g, in self-service, (100 g = 4.48)

Formaggi e latticini

Delizie per tutti i gusti

1.65

1.55

2.10

4.55

1.70

Migros Ticino

La vera italianità

1.30 invece di 1.65

Pomodori Extra Sweet Cherry Svizzera, per 100 g 21%

6.95 invece di 9.27

Prosciutto crudo fumé Riserva Citterio Italia, 120 g, in self-service, (100 g = 5.79) 25%

6.– Focaccia alle erbe 2 x 240 g, (100 g = 1.25)

2.80

invece di 4.20

Pasta Garofalo penne, farfalle o spaghetti, in confezione speciale, 750 g, (100 g = 0.37) 33%

Salatini per l'aperitivo Da Emilio disponibili in diverse varietà, per es. tarallini, 300 g, 3.16 invece di 3.95, (100 g = 1.05) 20%

conf. da 10 23%

6.35 invece di 8.25

conf. da 2 20%

Sanbittèr San Pellegrino 10 x 100 ml, (100 ml = 0.64)

5.90

invece di 7.40

Salame Milano Citterio Italia, 2 x 70 g, (100 g = 4.21)

20x CUMULUS Novità

–.90

conf. da 3 25%

Pizze Toscana o Margherita, M-Classic prodotto surgelato, per es. Toscana, 3 pezzi, 1080 g, 8.85 invece di 11.85, (100 g = 0.82)

6.95

Mezzelune Anna's Best ricotta e spinaci o alla carne di manzo, in conf. speciale, 800 g, (100 g = 0.87)

Hummus, antipasti e olive, Anna's Best per es. pomodori secchi al basilico, 100 g, 2.59 invece di 3.70 a partire da 2 pezzi 30%

Olive Migros

nere o verdi, snocciolate, 340 g, per es. verdi, (100 g = 0.26)

Classici dallo scaffale dei dolci

Carré Abricots o Rocher, per es. Japonais, 3 x 115 g, 4.55 invece di 5.85, (100 g = 1.32)

Pura frizzantezza!

Risparmia oggi e gusta domani

Tutti i tipi di olio e aceto, Migros Bio (articoli Alnatura esclusi), per es. olio d'oliva greco, 500 ml, 8.76 invece di 10.95, (100 ml = 1.75)

Tutto lo zucchero gelificante e tutti i gelificanti (articoli Alnatura esclusi), per es. Gelvite M-Classic, 1

8.90 Mini Springrolls Vegi Asia-Snacks 20 pezzi, 500 g, (100 g = 1.78)

in olio di girasole

5.60 invece di 7.20 Fleischkäse Malbuner disponibile in diverse varietà, 6 x 115 g, (100 g = 0.81)

Zucchero gelificante o agente gelificante? Lo zucchero gelificante è perfetto quando manca il tempo, contiene infatti già tutto ciò che serve. Tuttavia, se vuoi decidere autonomamente il tenore di zucchero (ad esempio per frutta particolarmente dolce o per una versione light), utilizza il gelificante e aggiungi la quantità di zucchero che desideri. Tutto il caffè Exquisito in chicchi e macinato, per

antipasti e olive, Anna's Best per es. hummus al naturale, 200 g, 2.66 invece di 3.80, (100 g = 1.33)

Bellezza

Ottimi prodotti per un corpo curato

Zoé ha il prodotto giusto per qualsiasi esigenza della pelle

Tutto l'assortimento Zoé per es. crema da notte nutriente Gold, 50 ml, 15.96 invece di 19.95, (10 ml = 3.19)

Salviettine cosmetiche e fazzoletti, Kleenex, FSC® in confezioni multiple, per es. scatola quadrata Collection, 3 x 48 pezzi, 5.85 invece di 7.35

Tutto l'assortimento Le Petit Marseillais (confezioni multiple e da viaggio escluse), per es. docciacrema ai fiori d'arancio, bio, 250 ml, 2.35 invece di 3.50, (100 ml = 0.94) a partire da 3 pezzi 33% Shampoo e balsamo Head & Shoulders e Pantene per es. Pantene Pro-V Classic Care 3 in 1, 250 ml, 3.30 invece di 4.40, (100 ml = 1.32) a partire da 2 pezzi 25%

a partire da 2 pezzi 20% Lozioni corpo Nivea-Q10 e crema Soft Daily UV IP 15 per es. Body Serum-Lotion, 200 ml, 15.95, (100 ml = 7.98)

siero-lozione corpo Q10 ha un effetto rassodante ed

casa

Risparmi a tappeto

Tutti i pannolini Pampers (confezioni multiple escluse), per es. Premium Protection, tg. 1, 24 pezzi, 6.53 invece di 9.75, (1 pz. = 0.27)

27.95 Pigiama per bambini disponibile in diversi colori e motivi, tg. 98/104–134/140

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