Azione 34 del 18 agosto 2025

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MONDO MIGROS

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SOCIETÀ Pagina 7

Sembra fantascienza ma non lo è: a Osaka è stata presentata e poi mangiata la prima torta-robot

L’evoluzione del rapporto tra Trump e Putin e le differenze cruciali esistenti tra loro

ATTUALITÀ Pagina 15

Castel Grande invita a un’immersione nel mondo digitale dell’artista basilese Dirk Koy

CULTURA Pagina 19

Alpeggi svizzeri da salvare

Torna La Belvedere Mendrisio, con bici d’epoca, salite da brivido e la grande passione per il pedale

TEMPO LIBERO Pagina 29

Il Dio in cui non credo

Non credo nel Dio di Vladimir Putin e del suo tirapiedi spirituale, il patriarca di Mosca Kirill, secondo i quali l’invasione dell’Ucraina è una guerra santa, una sacra battaglia contro la decadenza morale dell’Occidente che lascia sfilare masse debosciate di LGBTQ+ e abbandona i veri valori, e che presentano piamente il conflitto contro Kiev come una crociata necessaria per la salvezza spirituale del mondo. Non credo neppure nel Dio di Benjamin Netanyahu e dei suoi sodali ultraortodossi e teo-nazionalisti che ordinano lo sterminio dei palestinesi e al tempo stesso esentano dal servizio militare i loro studenti delle yeshivot (scuole religiose) perché devono occuparsi di un servizio divino superiore. Né in quello dei terroristi di Hamas che predicano il dovere morale dello sterminio degli israeliani facendosi scudo dei corpi dei civili palestinesi e abusano del suo no-

me per commettere i peggiori crimini contro le persone e contro il loro stesso Dio. Però credo nel messaggio radicale del cristianesimo e del suo fondatore, così follemente pacifico da invitare a non distruggere mai i nemici, per pessimi che siano, ma – addirittura – ad amarli e, quando scatta l’onda cieca della violenza, a riporre la spada nel fodero. Perché «chi di spada ferisce, di spada perisce» (Matteo 26:52). Credo anche alle parole illuminate del Corano, laddove recita che «chi uccide una persona innocente, è come se avesse ucciso tutta l’umanità; e chi salva una vita, è come se avesse salvato tutta l’umanità» (Surat al-Ma’ida, 5:32). Stesso messaggio: «Chi salva una vita, è come se avesse salvato il mondo intero», leggo nel Talmud (testo rabbinico), Sanhedrin 37a. Non credo nel Dio di Donald Trump, seguace della teologia della prosperità, che – anche se

non lo dice – detesta i poveri, perché se son poveri è colpa loro: non hanno abbastanza fede o non hanno «seminato» abbastanza (cioè donato denaro alla Chiesa), e quindi meritano l’indigenza, mentre la ricchezza materiale è il segno distintivo del vero credente. Non credo neppure nel Dio di J.D. Vance, vicepresidente Usa, che reinterpreta il concetto teologico di S. Agostino dell’ordo amoris, sostenendo che l’amore e l’aiuto debbano seguire una precisa scaletta: prima i più vicini – la famiglia, la comunità, la Nazione – poi, ma anche no, gli stranieri e i migranti. Però credo nel Dio del capitolo 25 del Vangelo di Matteo che non ha in uggia i poveri Cristi, al contrario. E non stabilisce alcuna gerarchia tra chi merita la salvezza e chi no, il criterio è la vulnerabilità, e dice: «Avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete accolto, nudo e

mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi». Una visione in cui sono gli ultimi i più vicini a Dio, non il contrario.

Non credo, infine, nei rosari del leader italiano Matteo Salvini, che li bacia nell’aula laica del Senato a Roma, e li brandisce come un’arma contro la decadenza identitaria dell’Europa cristiana (toh, mi ricorda il patriarca Kirill e il presidente Putin) e contro i migranti provenienti dal sud di religione islamica. Ma credo al dolore di quella madre di duemila anni fa, invocata come un mantra nei rosari, che piangeva sotto la croce di un figlio innocente, condannato, torturato e ucciso e a tutte le madri israeliane, palestinesi e di ogni parte del mondo che oggi versano silenziose lacrime per i propri cari spariti per guerra, per fame o per annegamento in un mare d’acqua o di ostilità in nome di Dio.

Pietro Bernaschina Pagina 17
Unsplash
Carlo Silini

La vita di Dutti in 90 secondi

Info Migros ◆ Un nuovo spot pubblicitario racconta come Gottlieb Duttweiler e sua moglie Adele fondarono la Migros 100 anni fa

Testo di Michael West, foto di Nik Hunger

15 maggio, mattina: l’ultima prova costumi

Monika Schmid è bravissima nel suo mestiere. Come costumista ha già lavorato per molti film per il cinema e serie TV. Nel 2019 gli abiti ideati per il dramma storico Zwingli (in cui si narra la vita e l’opera del celebre riformatore protestante, Ndr) le sono valsi il Premio del Cinema Svizzero.

Al momento è impegnata in un progetto il cui risultato sarà di soli 90 secondi. Stiamo parlando dell’ultimo spot pubblicitario della Migros, che racconta la storia del fondatore Gottlieb Duttweiler in fast motion Monika Schmid ci tiene a questo progetto come fosse un lungometraggio. Insieme al suo team ha allestito un enorme magazzino di costumi in un ex centro logistico nella Pfingstweidstrasse di Zurigo. Camicette, gonne e sottovesti, borsette, collane di perle, cravatte e abiti maschili – tutti dagli anni Venti agli anni Cinquanta – sono appesi disposti in file nel bianco abbagliante dei tubi fluorescenti. Già solo la scelta di copricapi è enorme: spazia dalla coppola all’elegante Borsalino.

Molti oggetti dello spot diretto da Jean-Eric Mack sono stati trovati nei negozi di seconda mano e nei mercatini delle pulci

Dove prende tutte queste cose Monika? «Sono oggetti che abbiamo noleggiato da costumerie in tutta Europa», spiega. «Per poterlo fare bisogna coltivare relazioni per anni e instaurare un clima di fiducia. Le costumerie vogliono ovviamente essere sicure di riavere tutto in condizioni impeccabili».

Oggi per Monika Schmid è un giorno importante: l’ultima prova costumi generale prima delle riprese. «Gli attori devono sentirsi a proprio agio nei costumi», spiega Monika. «Solo così l’effetto è davvero realistico».

Quello che intende dire diventa chiaro quando arriva Andrew Greenough, attore inglese poco conosciuto in Svizzera che nello spot interpreta l’anziano Gottlieb Duttweiler. È stato scelto per questo ruolo perché assomiglia incredibilmente al fondatore della Migros. Durante la prova costumi indossa un abito a tre pezzi del 1939. Adesso sì che la trasformazione è perfetta: sembra Dutti in carne e ossa!

15 maggio, pomeriggio: i tesori del negozio di seconda mano

Cambiamo luogo: adesso ci troviamo in un magazzino di Glattbrugg ZH. Qui, la scenografa Su Erdt e il suo team hanno raccolto per mesi una collezione fenomenale di oggetti storici, fra cui mobili d’ufficio antichi, macchine da scrivere, telefoni a disco e televisori a tubo catodico. «Abbiamo trovato quello che cercavamo nei negozi di seconda mano e nei mercatini delle pulci», racconta la scenogra-

fa. «Abbiamo anche comprato alcune cose all’asta su Ricardo»

Ma per lo spot servono anche oggetti che non si trovano più da nessuna parte, come il mitico detersivo «Ohä», lanciato da Dutti nel 1931. Il team della scenografa ha utilizzato come modello foto storiche scovate nell’archivio Migros e riprodotto diverse scatole di detersivo.

La star assoluta fra gli oggetti di scena è un Ford T, che 100 anni fa girava per Zurigo come negozio mobile. Nel 1925, anno di fondazione della Migros, era uno dei cinque furgoni di vendita che Dutti utilizzava per por-

tare i prodotti a prezzi accessibili direttamente alla clientela. Quest’auto d’epoca appartiene alla Cooperativa Migros di Zurigo. Un pittore di scena ha rivestito accuratamente la preziosa auto con un sottilissimo strato di sapone e argilla curativa. «L’auto non deve sembrare un pezzo da museo scintillante, ma un oggetto di uso quotidiano» spiega la scenografa.

Si capisce subito che Su Erdt non vede l’ora di girare le riprese, ma è anche un po’ tesa. In effetti manca poco e gli oggetti di scena dovranno dare prova della loro efficacia davanti alla telecamera.

21 maggio, mattina: azione sul ponte Münsterbrücke

Oggi è già il terzo dei quattro giorni di riprese e probabilmente la data più importante della produzione dello spot. Il regista Jan-Eric Mack è determinato a realizzare la scena d’apertura di 15 secondi e cioè: Dutti e sua moglie Adele (interpretati da Joe Flynn e Eden Vansittart) viaggiano su un furgone di vendita Ford nell’anno di fondazione della Migros. Entrambi sfoderano entusiasmo e ottimismo, perché credono fermamente nella loro grande idea: scuotere il paralizzato commercio al dettaglio svizzero con negozi mobili. È necessaria una mega organizzazione per riuscire nel viaggio indietro nel tempo fino al 1925: il ponte Münsterbrücke di Zurigo è chiuso e gli agenti di sicurezza in gilet arancione fluorescente lo delimitano. Due telecamere immortalano la scena da diverse angolazioni. L’inquadratura è stata scelta in modo che sullo sfondo sia visibile una fila di case storiche sulla riva sinistra della Limmat, perfette come contesto architettonico per l’anno di fondazione della Migros. Solo una pubblicità luminosa rossa dovrà essere eliminata digitalmente in post-produzione.

Per la realizzazione dello spot sulla vita di Duttweiler è stato chiuso il ponte Münsterbrücke nel cuore di Zurigo

L’assistente alla regia pronuncia la magica parola «Azione!» e un pezzo di passato prende vita. Dutti e Adele sono sul ponte davanti al Ford T e presentano la loro merce ai passanti. All’improvviso, due furfanti sfrecciano su una bicicletta sgangherata e scaraventano gli espositori dal banco di vendita per pura cattiveria. I sacchetti di carta scoppiano, i cornetti e il riso sono tutti sparpagliati sul marciapiede. In una manciata di secondi, la scena mostra chiaramente che per Gottlieb e Adele non sono state tutte rose e fiori prima che la Migros avesse successo. Bisogna ricominciare più volte prima che la scena sia finalmente come desiderato: succede infatti che i passanti nascondano l’azione, o che il gilet arancione di un agente di sicurezza si rifletta sul parabrezza dell’auto d’epoca. Nel frattempo, su Zurigo si addensano nuvole grigio-nere e sembra arrivare un acquazzone, ma il regista non si scompone e va avanti finché non ha ripreso tutto. «Alla fine il cielo cupo è stato un regalo», ammetterà più tardi con un sorriso. «Era perfetto per la scena che dovevamo girare». Terminate le riprese, la troupe è soddisfatta e al contempo un po’ malinconica, perché l’intenso periodo delle riprese è quasi finito. Il regista riassume lo stato d’animo generale: «A tutti noi piacerebbe continuare e fare un lungometraggio su Dutti».

Dove vedere lo spot

Lo spot è visibile da subito in televisione, al cinema, online e sui social: migmag.ch/spot Per vedere le riprese

Per la realizzazione dello spot è stato temporaneamente chiuso il ponte Münsterbrücke a Zurigo.
Il truccatore Stefan Winkler e la vestiarista Anina Steiner preparano Andrew Greenough per una scena. L’attrice che impersona Adele, Jacqueline Davis, attende sulla sinistra.
Alcuni degli oggetti d’epoca recuperati per la realizzazione dello spot sulla vita di Duttweiler.
Ricostruzione di un salotto d’epoca svizzero.
Il regista Jean-Eric Mack discute una scena con due attori.

SOCIETÀ

La sottile linea tra tecnologia e cibo

La scienza che non avresti mai immaginato: quasi quasi per dessert mi mangio questa appetitosa torta-robot con gli orsetti

Perennemente connessi

Quanto tempo passate a guardare informazioni negative sugli schermi dei dispositivi elettronici? Forse siete vittime del fenomeno del doomscrolling

Sintonizzarsi con la mente dei bambini

Psicologia ◆ Dall’«ascolto attivo», all’importanza dell’autocompassione, un nuovo libro aiuta a interagire meglio con l’universo infantile

Capire il funzionamento della mente dei bambini non è solo affascinante, ma anche utile. I più piccoli vivono le emozioni e le difficoltà in modo diverso dagli adulti. Se è vero che siamo stati tutti bambini, tendiamo a non ricordare quello che pensavamo in quegli anni che ci sembrano così lontani. Federica Rizza, psicoterapeuta e neuropsicologa, ha scritto una guida per orientare gli adulti nella comprensione dell’universo infantile. Genitori empatici è il titolo del testo pubblicato da FrancoAngeli per risolvere dubbi e rispondere a curiosità. Dall’«ascolto attivo», ai meccanismi che scatenano i «capricci», si arriva a comprendere il valore dell’«autocompassione», la capacità di perdonarsi quando si sbaglia.

Di fronte ai capricci è fondamentale rispondere con calma, evitando di cedere immediatamente alle richieste del bambino

Federica Rizza, come funzionano le emozioni?

Le emozioni sono risposte fisiologiche e psicologiche a stimoli esterni o interni. Quando percepiamo qualcosa che ci coinvolge, il nostro cervello elabora questa informazione e attiva una reazione emotiva. Le emozioni possono essere suddivise in primarie (come paura, gioia, tristezza) che sono universali e istintive, e secondarie (come la vergogna o la colpa) che sono più complesse e legate all’esperienza e alla cultura. Le emozioni non sono solo reazioni, ma influenzano anche il nostro comportamento, il nostro corpo e le nostre decisioni.

Che cosa significa ascolto attivo?

L’ascolto attivo è un processo di comunicazione che implica non solo sentire le parole dell’altro, ma anche comprendere il loro significato profondo. Significa prestare attenzione, mostrare empatia e confermare ciò che l’interlocutore sta dicendo, sia con segnali verbali che non verbali. Un buon ascolto attivo aiuta a creare una connessione emotiva, favorendo un ambiente di fiducia e apertura, particolarmente importante nelle relazioni genitori-figli. Nella società odierna siamo spesso distratti da device come gli smartphone e da stimoli esterni. Dimentichiamo così l’aspetto relazionale ed empatico e la connessione attiva che dovremmo invece avere con le persone con cui interagiamo.

Come si gestiscono i «capricci»? I capricci sono spesso il risultato di

emozioni forti o frustrazione, specialmente nei bambini piccoli che non hanno ancora gli strumenti per gestirle. È fondamentale rispondere con calma, evitando di cedere immediatamente alle richieste del bambino. Occorre anche cercare di capire la causa del capriccio, che potrebbe essere fame, stanchezza o un bisogno di attenzione. Inoltre, insegnare al bambino come esprimere le emozioni in modo sano è un passo importante per ridurre la frequenza dei capricci. Nel mio libro scrivo, in particolare, di come il cervello del bambino non sia uguale al nostro. È in sviluppo costante e ancora non dispone delle capacità di autoregolazione. In questo senso, è molto importante il ruolo dell’adulto nell’accogliere e sostenere i comportamenti del bambino al meglio, comprendendo che il bambino esprime i suoi bisogni talvolta anche con i «capricci». Essere un buon educatore significa saper porre dei limiti con dolcezza, essere autorevoli ma empatici e permettere al bambino di raggiungere l’autoregolazione.

Quali sono le grandi preoccupazioni dei bambini?

Le preoccupazioni dei bambini variano in base all’età, ma alcune delle più comuni riguardano la separazione dai genitori, il timore di non essere amati o accettati, il fallimento scolastico e le dinamiche familiari. In generale, i bambini sono sensibili a ogni cambiamento nel loro ambiente, e la percezione di insicurezza o incertezza può essere una grande fonte di ansia. Parlo spesso dell’importanza delle routine nei bambini. Le routine tranquillizzano e rendono l’esperienza del bambino prevedibile. È importante creare un ambiente sicuro e rassicurante per aiutarli a gestire queste paure.

Come si favorisce una relazione sana con il cibo?

Una relazione sana con il cibo si basa su un approccio equilibrato e senza giudizio, dove il cibo non è una punizione né una ricompensa. È importante educare i bambini a riconoscere i segnali di fame e sazietà, senza forzarli a mangiare o usare il

cibo come strumento di controllo. Inoltre, promuovere l’importanza di una dieta varia e nutriente, insegnando loro a godere dei pasti e non a vivere il cibo come qualcosa di negativo, è fondamentale. Viviamo in una società dove i fast food stanno sostituendo il valore del cibo anche come veicolo relazionale. È molto importante mangiare tutti insieme, in famiglia, essere un modello per i nostri bambini e iniziare sin da subito, con lo svezzamento. Se pensiamo al nostro passato, ricordiamo lunghe tavolate in cui tutti, adulti e bambini, mangiavano gli stessi pasti in armonia. Spesso oggi si tende a preferire i «menù bimbi» e anche ad anticipare il pasto del bambino.

Perché i bambini imparano dai genitori? Come dare il buon esempio?

I bambini sono osservatori attenti e tendono a imitare comportamenti, atteggiamenti e valori che vedono nei genitori. Il loro cervello è particolarmente ricettivo durante i primi anni di vita, quindi i genitori hanno un ruolo cruciale nel modella-

re il comportamento. Dare il buon esempio significa essere coerenti nelle azioni e nelle parole, mostrando rispetto, empatia e autocontrollo. I bambini imparano non solo da ciò che diciamo, ma soprattutto da ciò che facciamo.

Che cos’è l’auto-compassione e come si insegna?

L’auto-compassione è la capacità di trattarsi con gentilezza, comprensione e pazienza, soprattutto nei momenti di difficoltà o quando si commettono errori. Non si tratta di indulgere o giustificare i propri comportamenti negativi, ma di riconoscere le proprie imperfezioni con empatia. Per insegnarla ai bambini, è fondamentale che vedano i genitori trattarsi con auto-compassione, mostrando che è normale sbagliare e che il fallimento non deve portare a sensi di colpa eccessivi. Insegniamo loro a essere gentili con se stessi e a comprendere che, come ogni essere umano, anche loro sono degni di amore e rispetto, nonostante gli errori.

Se è vero che siamo stati tutti bambini, tendiamo a non ricordare quello che pensavamo in quegli anni che ci sembrano così lontani. (Freepik)
Stefania Prandi
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Lasciati tentare dalle prugne svizzere

Attualità ◆ I frutti di produzione indigena sono un piacere sostenibile a cui è difficile resistere. Ora in vendita alla tua Migros

La raccolta delle prime prugne svizzere è iniziata a fine luglio e si protrarrà fino ai primi di settembre.

L’Associazione Svizzera Frutta stima un raccolto di ca. 3190 tonnellate. Nel massimo della produzione, settimanalmente vengono raccolte qualcosa come 500 tonnellate di prugne. I frutti sono principalmente coltivati nella regione di Basilea, nella Svizzera centrale e orientale e nel Canton Vallese.

Tempo di farne una scorpacciata!

Il 2025 rappresenta una pietra miliare per la coltivazione delle prugne in Svizzera: per la prima volta i frutti svizzeri sono stati prodotti secondo i criteri del programma «frutta sostenibile», programma introdotto nel 2022 per la frutta a granella e ora esteso anche per le ciliegie e le prugne. Le misure toccano i tre pilastri della sostenibilità, con lo scopo di assicurare una produzione interamente sostenibile, che comporta la riduzione dell’impiego di fitosanitari, l’incremento della biodiversità nei frutteti e il miglioramento della qualità del terreno.

Le prugne in assoluto preferite dagli svizzeri sono della varietà Fellenberg, che, con un quantitativo di oltre 1000 tonnellate, rappresentano un terzo della produzione globale. Con la loro buccia dal colore blu intenso, una polpa succosa e zuccherina, sono capaci di conquistare il palato di chiunque le assaggi e si prestano bene per tantissime ricette.

Specialità dell’Alta Leventina

La ricetta Sorbetto di prugne

Ingredienti per 4 persone

• 5 00 g di prugne

• 1 dl di sciroppo di frutta, ad es. di cassis

• 5 dl di Ginger Water

• ½ bastoncino di cannella

• 25 g di pistacchi verdi, tritati

• 2 cucchiai di semi di papavero

Preparazione

Scalda il forno statico a 180 °C. Dimezza le prugne, snocciolale, mescolale con gli altri ingredienti fino alla cannella compresa e distribuisci tutto in una pirofila. Cuoci al centro del forno per 30 minuti circa. Sforna, lascia intiepidire ed elimina il bastoncino di cannella.

Distribuisci le prugne cotte su una placca da forno foderata con carta da forno e mettile in congelatore per ca. 2 ore, finché risultano belle congelate.

Riduci le prugne, poche per volta, in una purea cremosa con un frullatore a immersione. Distribuisci il sorbetto in scodelline, guarnisci con i pistacchi, i semi di papavero e servi.

Consiglio: dopo aver frullato i dadini di prugna, mettili ancora in congelatore. Il sorbetto in un recipiente salva-freschezza si conserva per ca. 2 settimane in congelatore.

Caseificio Canaria è un formaggio d’eccellenza elaborato ad Airolo a partire da latte vaccino intero di montagna

Prodotto dal Caseificio Agroval di Airolo, il Canaria è una specialità che non può mancare in tavola quando si ha voglia di gustare qualcosa della tradizione nostrana. Questo formaggio a pasta semidura, elaborato con latte vaccino intero di montagna proveniente da mucche nutrite con erba e fieno, senza insilati, si distingue per la sua consistenza compatta, la pasta di un bel colore giallo paglierino e un tipico sapore deciso, lievemente piccante.

Azione 20%

Caseificio Canaria per 100 g Fr. 2.40 invece di 3.–dal 19.8 al 25.8.2025

La trasformazione del latte di montagna presso la Agroval di Airolo avviene oggi appoggiandosi a macchinari all’avanguardia per garantire la massima qualità, ma rispettando una lavorazione tradizionale al fine di preservare il gusto autentico del prodotto finito. Al termine della preparazione, le forme di formaggio vengono trasferite nella cantina di stagionatura naturale, a volte di granito, dove rimangono per un periodo minimo di novanta giorni.

L’azienda Agroval di Airolo trasforma il latte di montagna della regione del Gottardo non solo in saporiti formaggi, ma anche in cremoso iogurt, quest’ultimo nato del 2011 grazie alla collaborazione con Migros che lo lanciò sotto la sua consolidata linea dei «Nostrani del Ticino» e oggi presente sugli scaffali in una quindicina di gusti. Per quanto concerne i formaggi a firma Agroval, Migros offre la Formaggella Leventina, il San Gottardo Prealpi, il Caseificio Leventina, il Caseificio Canaria e i formaggi d’alpe Fieudo DOP Manegorio DOP, quest’ultimi prodotti sull’omonimo alpeggio durante il periodo estivo e affinati in quota per almeno sessanta giorni.

Il panino del mese nel tuo Take Away Migros

Attualità ◆ Lasciati tentare fino al 31 agosto dalla nostra proposta speciale

Voglia di gustare una bontà in edizione limitata? In questo caso prova subito il panino del mese, disponibile in esclusiva nei Take Away Migros: il panino baguette alla mortadella e pistacchi. Questa invitante creazione gastronomica, preparata freschissima ogni giorno con ingredienti di qualità dai nostri esperti, è fatta con mortadella tipo Bologna e stracciatella di mozzarella, il tutto arricchito con golosa granella di pistacchio. Lo trovi nei Take Away di Serfontana, Lugano, Cassarate, Agno, Bellinzona e S. Antonino. Corri ad assaggiarlo!

Nei Take Away Migros ognuno trova di che soddisfare la propria voglia di bontà in qualsiasi momento della giornata. Dai classici croissant per la colazione ai panini per il pranzo e allo spuntino veloce, passando per la pizza fino ai dolci e alle bibite calde e fredde per tutti i gusti, qui ti aspetta un’ampia varietà di proposte a tuo piacimento, da consumare sul posto in un ambiente gradevole, oppure da asporto.

Panino alla mortadella con pistacchi Fr. 9.20

fino al 31.8.2025

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Pura bontà italiana

E se per dessert ci mangiassimo il robot?

Scienza ◆ All’Expo di Osaka è stata di recente servita la prima RoboCake, una torta animata da orsetti gommosi

E se un giorno per dessert ci servissero… un robot? Non è fantascienza: è la frontiera, molto concreta, a cui sta lavorando da anni un gruppo di ricercatori, guidati da Dario Floreano, professore di robotica al Politecnico federale di Losanna (EPFL), fra i maggiori esperti al mondo di soft robotics, la robotica soffice: una branca della robotica che al posto di acciaio e bulloni, usa materiali soffici capaci di adattarsi all’ambiente, ispirata a piante, animali e ora anche il cibo, l’ultima frontiera. Dopo anni di prototipi e ricerche, lo scorso 6 giugno il progetto europeo RoboFood, a cui lavora il prof. Floreano, ha avuto un importante momento pubblico all’Expo di Osaka 2025: davanti a media e ospiti illustri, tra cui l’Ambasciatore dell’Unione europea in Giappone Jean-Eric Paquet, è stata servita la prima RoboCake – una torta animata da orsetti gommosi che si muovono grazie a micro-attuatori ad aria e candele accese con batterie di cioccolato. Un evento organizzato in collaborazione con il Science & Technology Office Tokyo, l’Ambasciata Svizzera in Giappone e Presenza Svizzera.

Dietro un’idea che stuzzica non solo il palato, ma anche l’immaginazione e la curiosità, fra cucina sperimentale e intrattenimento, si cela un obiettivo ambizioso: unire robotica e scienze alimentari per dare vita a dispositivi commestibili, biodegradabili e persino nutrienti. «I robot commestibili – spiega Dario Floreano – potrebbero offrire funzionalità e servizi innovativi per la salute umana e animale, ma anche per l’ambiente. In una situazione di emergenza, con persone isolate, per esempio, potrebbero portare nutrimento salvavita, essi stessi sarebbero il nutrimento, oppure somministrare farmaci e vaccini ad animali malati che vivono in ambienti selvatici e difficilmente accessibili». Il principio è semplice quanto rivoluzionario: progettare robot con materiali commestibili, attingendo ai principi della soft robotics, creando robot fatti di gelatine, zuccheri, proteine e fi-

bre vegetali. Esistono già robot soffici che saltano come cavallette, droni con ali di riso soffiato, sensori e batterie mangiabili, ma è una sfida che richiede grande interdisciplinarità. Non a caso, RoboFood è un progetto che riunisce prestigiosi istituti, il Politecnico di Losanna (EPFL), l’Istituto Italiano di Tecnologia, l’Università di Wageningen in Olanda, e altri centri di eccellenza. In fondo, un robot non è altro che una macchina che ha la capacità di percepire l’ambiente e di muoversi, manipolare oggetti e spostarsi, dotato di circuiti e un’intelligenza che trasforma i segnali sensoriali in comandi motori.

Come costruire sensori mangiabili?

Ma come si fa a costruire sensori o batterie che siano anche mangiabili? «È possibile – spiega Floreano – creare circuiti logici che sfruttano liquidi pompati attraverso piccoli canali con delle valvole che regolano il passaggio a seconda delle variazioni di pressione. Possiamo cioè ricreare piccoli circuiti logici, di solito fatti con sistemi elettrici, con fluidi, tubicini e valvole mangiabili. E possiamo fare anche delle batterie pneumatiche che generano pressioni diverse, grazie a gas edibili generati da reazioni chimiche che usano, per esempio, acido citrico e acqua all’interno di contenitori di gelatina».

L’idea è quella di creare un “cibo animato” capace di cambiare colore, odore e forma prima di essere mangiato, robot che saltano, volano, nuotano, che si muovono interagendo con l’ambiente grazie a specifici attuatori, sensori e batterie edibili fatte di sostanze nutrienti dalle consistenze diverse. Uno dei primi progetti realizzati dal prof. Floreano è stato un drone con ali di biscotto, così leggere da volare, ma anche abbastanza nutrienti da costituire una razione di emergenza. «Se invece di usare materiali sintetici, costruissimo droni con sostanze commestibili, in caso per esempio di persone isolate

potremmo sfruttare la massa del drone come nutrimento e usare le possibilità di carico per trasportare solo acqua o medicinali», spiega Floreano. Il laboratorio di Dario Floreano è un’officina delle meraviglie, il luogo perfetto per un appassionato bricoleur ad alto contenuto tecnologico: studiando per esempio biologia e dinamica del volo di uccelli e insetti riesce a ricreare macchine robot volanti e a capire i meccanismi del movimento. Ogni progetto nasce da uno sguardo aperto e curioso verso il mondo della natura. «L’idea di creare robot edibili – racconta Floreano – è nata per caso: un giorno, un mio dottorando mi fece notare che pur creando robot ispirati ad animali e piante, nessuno dei nostri robot poteva essere mangiato. All’inizio la presi come una battuta, poi capii che c’era qualcosa di profondo. Negli ultimi anni, soprattutto fra chi si occupa di robotica soft, sta crescendo la sensibilità verso l’uso di materiali biodegradabili; cerchiamo soluzioni per creare robot che non inquinino, perché se la promessa della robotica è quella di diventare onnipresente e pervasiva, dobbiamo stare at-

tenti a non creare altri rifiuti difficili da smaltire. Perché non realizzare allora robot commestibili?». Ogni anno si producono circa 40 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici, pari a 109 grattacieli Empire State Building. Un robot biodegradabile o, meglio ancora, edibile, potrebbe chiudere idealmente il suo ciclo di vita senza lasciare traccia. Il potenziale di queste tecnologie è enorme. Uno scenario particolarmente interessante riguarda il contenimento di epidemie nel caso di fauna selvatica e allevamenti, spiega Dario Floreano: «Se potessimo lanciare da un aereo microscopici robot edibili con dosi di vaccini in zone selvatiche difficilmente raggiungibili dove si trovano focolai di malattie animali, e se questi robot potessero spostarsi, emettere odori e suoni capaci di attirare gli animali malati, facendosi mangiare potrebbero contribuire a diffondere vaccini e farmaci, riducendo la diffusione di malattie», il riferimento è alla peste suina che, anni fa, costrinse a sopprimere milioni di maiali in tutta Europa. Che dire poi del potenziale valore educativo di un cibo «animato»? Che

reazione avremmo di fronte a una crocchetta di pollo che salta nel piatto o un dessert che strizza l’occhio? È probabile che ci metterebbe a disagio, ma l’idea di fondo è antica e ben radicata in altre culture, dice Floreano: «In Giappone, si usano per esempio alimenti come i bonito flakes – scaglie di pesce essiccato che si muovono con il vapore del cibo caldo – o piatti con tentacoli di polpo ancora reattivi. Noi occidentali siamo abituati al cibo inerte, ma in molte culture la linea tra ciò che è vivente e ciò che rappresenta un alimento è molto sottile». Ridare movimento al cibo potrebbe contribuire a riscoprirne le origini, a rallentare i ritmi del pasto, a incuriosire i più piccoli e, magari, insegnarci a mangiare meglio, sperimentando nuove forme di cucina: «Si parla già da tempo di cucina multisensoriale, odori, colori, suoni… ormai fanno parte di ogni esperienza gastronomica di qualità, potremmo aggiungere anche movimento e reazione», spiega Floreano. E chissà che domani tutto questo non abbia anche un impatto sulla medicina e la cura, è solo un’altra delle tante possibilità d’uso: alimenti robotici potrebbero facilitare la deglutizione in persone con disturbi neurologici o somministrare farmaci in modo interattivo.

Dal RoboCake di Osaka al drone snack, non sono solo prototipi, sono frammenti di un futuro in cui la tecnologia si fa cibo e il cibo diventa portatore di consapevolezza. Miniaturizzare i componenti, prolungarne la conservazione, affinarne la consistenza e la gradevolezza al palato: è così che nei laboratori di Losanna si sperimentano nuovi sensori fluidici, attuatori, circuiti logici che si possono mangiare e transistor di zucchero carbonizzato. E se tutto questo ci dicesse che la frontiera più audace non è costruire robot che somigliano all’uomo, ma immaginare macchine, molto semplici, che ci nutrono, risolvono problemi e scompaiono in un boccone, e che la natura e la tecnica sono da sempre alleate, persino a tavola?

Delizioso questo fumetto che propone una coppia riuscitissima di protagonisti: la tigre Lily e il gattino (convinto di essere una tigre pure lui) Tig. Lily e Tig sono amici e non potrebbero essere più diversi, perché la loro è una di quelle coppie che funzionano molto bene nelle narrazioni umoristiche, in cui uno è l’entusiasta, sempre carico, socievole e propositivo, mentre l’altro apprezza la tranquillità e non disdegna la solitudine. Un po’come quell’altra adorabile coppia, sempre edita da Il Castoro, di Orso e Anatra, di Jory John e Benji Davies, anche Tig e Lily animano le loro avventure con i rispettivi temperamenti diversi e con un dialogo molto ben bilanciato, ritmato, pieno di humour. In questa storia Lily la tigre se ne starebbe tranquillamente a far «niente» «adoro la noia, pensavo che fare un pisolino fosse molto divertente», ma Tig vuole assolutamente fare una festa. Quindi cappellini, giochi, dolci, tanti auguri a teee… «Lily non sai cos’è una festa?

Le feste sono divertenti! Forse non sei divertente? – Io sono super divertente!… ma forse le feste non fanno per me». Alla fine Lily, ingenua, e soprattutto desiderosa di risolvere la sua ansia sociale, si fa convincere. Tig penserà all’allestimento e lei dovrà pensare agli inviti. Peccato che Lily sia una tigre (lei sì una tigre vera) e peccato quindi che gli altri animali dello zoo abbiano paura di lei. E nonostante lei pensi: «dopotutto sono adorabile». Chi potrebbe avere paura di me? tutti hanno paura. Pertanto gli invitati, come dice lei, «non

si lasciano invitare». Sarà Zig a risolvere perentorio il problema, e la festa ci sarà, e sarà una festa bellissima. Un fumetto che anche senza scomodare grandi temi, pur presenti, come l’accettazione, la diversità, il pregiudizio, è gradevolissimo per l’umorismo, la tenerezza, e per l’impeccabile chiarezza grafica delle vignette, dei balloon, dei colori, della definizione dei personaggi, una chiarezza vivace che rende questo libro perfetto per le prime letture.

Joyce Dunbar – James Mayhew serie «Topo e Talpa» Nomos Edizioni (Da 5 anni)

Anche qui una coppia di amici dialoganti, Mouse and Mole (Topo e Talpa), nell’incantevole serie che l’apprezzata autrice inglese Joyce Dunbar, ben accompagnata dalle illustrazioni di James Mayhew, iniziò a creare negli anni Novanta, e che è ora disponibile per la prima volta in italiano, nella traduzione di Mara Pace, grazie all’editore Nomos. Dobbiamo a Nomos, quindi, che da un paio d’anni ha iniziato a pubblicarne via via i vari titoli, la possibi-

lità di apprezzare tutta la bellezza di queste storie giocose e gentili, strutturate in capitoli in sé conclusi, nei quali i due amici trascorrono giornate indaffarate o tranquille, apprezzando ogni piccola cosa (soprattutto il buon cibo, come le castagne e le focaccine al calduccio del focolare o i tramezzini con formaggio e cetriolo nei picnic en plein air), senza scomporsi troppo di fronte alle avversità, e addentrandosi con coraggiosa pacatezza in questioni filosofiche profonde. Come ad esempio (in Topo e Talpa unici al mondo), le riflessioni

scaturite mentre lanciano qualche sassolino nel laghetto: «Se ci sono così tanti sassolini, come fa un sassolino a essere importante? E se ci sono così tanti topi, come fa un topo a contare qualcosa?», che danno vita a un dialogo toccante e tenero sul valore e sul senso. Altre volte ciò che brilla in queste storie è la straordinaria capacità di aderire al pensiero bambino: nello stesso volume, Topo trova un rametto, lo chiama Alfredo e se lo vuole portare a casa perché è suo amico; ma Talpa ha trovato una pozzanghera, anche la pozzanghera è sua amica, e anche lei avrà un nome, ma come fare a portarla a casa?

La dedica del volume che inaugura la serie è ai «cari, vecchi Rana e Rospo» e l’allusione è ovviamente ai personaggi di Arnold Lobel, protagonisti di storie iconiche nella storia della letteratura per l’infanzia, attualmente pubblicate in italiano da Babalibri. Ma non dimentichiamo che Topo e Talpa sono anche i protagonisti di un grande classico per l’infanzia, Il vento tra i salici di Kenneth Grahame, che con questi testi condivide una mite, luminosa, autentica gioia di vivere.

Anche il Politecnico di Losanna (EPFL) ha contribuito a creare RoboCake. (EPFL)
Viale dei ciliegi
di Letizia Bolzani
Dan Thompson Tig e Lily. Una festa bestiale Il Castoro (Da 6 anni)

Protezione efficace per i vostri denti

Perché il mio dentifricio contiene fluoruro?

In Svizzera, da quando è stato introdotto il fluoruro nell’igiene dentale, il tasso di carie è calato sensibilmente.*

La Società Svizzera Odontoiatri (SSO) raccomanda l’utilizzo di dentifrici al fluoro, per una buona ragione!

Il fluoro è indispensabile nella prevenzione della carie. La carie è causata dai batteri presenti nella placca dentale, che trasformano gli zuccheri in acidi. Questi acidi attaccano il dente sottraendogli minerali (calcio e fosfato). Questo processo è chiamato anche “demineralizzazione”. Se la demineralizzazione non viene fermata o contrastata, si forma la carie, ovvero una “cavità” nel dente. Il fluoro contrasta questo processo in tre modi diversi:

1 Favorisce la remineralizzazione: in presenza di fluoro, i minerali vengono reintegrati più facilmente nel dente in caso di attacco cariogeno.

2 Protezione dalla demineralizzazione: il fluoro forma sulla superficie dei denti uno strato protettivo di fluoruro di calcio che protegge lo smalto dagli attacchi acidi.

3 Fluoruri ostacolano il metabolismo dei batteri, riducendo la produzione di acidi e, di conseguenza, la perdita di minerali dei denti.

Innovazione nell‘igiene dentale Made in Switzerland

elmex® è stato fondato nel 1963 in Svizzera dal gruppo GABA e dal pioniere dell‘odontoiatria preventiva, il dottore Hans R. Mühlemann. Il primo dentifricio con tecnologia al fluoruro amminico è ancora oggi sinonimo di precisione svizzera e innovazione scientifica. elmex® sviluppa prodotti mirati per l‘igiene orale che promuovono la salute dei denti in ogni fase della vita e si basano su una ricerca approfondita e una stretta collaborazione con i dentisti.

La tecnologia NeoAminex™

La formula Neo-Aminex™ sviluppata da elmex® combina innovazione avanzata con una comprovata protezione dalla carie, fissando standard elevati in termini di sostenibilità. L‘ammina utilizzata per la formulazione innovativa è ottenuta da una fonte vegetale e forma un forte strato protettivo sui denti. In questo modo, il dentifricio elmex® offre una protezione moderna per i denti e l‘ambiente.

febbraio 2025

Minerali
Fluoruri
Acidi
* M. Steiner, G. Menghini, T. M. Marthaler, T. Imfeld, Schweiz Monatsschr. Zahnmed. Vol. 120, 12/2010, 1095.
per la prevenzione della carie è la gamma di prodotti elmex®. Indagine sul dentifricio completato con 155 dentisti e
igienisti dentali svizzeri,

Emissioni di CO2, l’Ue allenta le regole

Motori ◆ Le misure pensate per incentivare le auto elettriche non hanno funzionato e Bruxelles fa un po’ marcia indietro

Una spada di Damocle incombeva sull’industria automobilistica. Se ne parlava da tempo e rischiava di mandare a gambe all’aria i più grossi gruppi automobilistici. Stiamo parlando delle stringenti normative relative alle riduzione delle emissioni di CO2 imposte dal Parlamento europeo che penalizzavano con multe milionarie chi non era in grado di rispettarle. Dalla politica deriva la corsa all’elettrico, alle zero emissioni, degli ultimi anni. Corsa che non ha regalato i risultati aspettati. È sotto gli occhi di tutti: l’elettrico funziona, sempre di più, ma le vendite sono sotto le aspettative. Ecco allora che lo scorso mese di maggio il Parlamento europeo è corso ai ripari approvando a larga maggioranza una modifica legislativa che introduce maggiore flessibilità nei criteri per la riduzione delle emissioni di CO2 da parte dei costruttori di autovetture e furgoni. Il provvedimento ha raccolto 458 voti favorevoli, 101 contrari e 14 astensioni. L’obiettivo è dare sostegno a un comparto industriale e strategico in un momento caratterizzato da una transizione tecnologica importante e da una crescente concorrenza globale proveniente soprattutto dalla Cina. Il nuovo meccanismo riguarda il trien-

nio 2025-2027 e permette ai costruttori di calcolare la conformità ai limiti di immissione non più su base annuale ma come media su tre anni. Ecco allora che lo spauracchio delle multe, salatissime, viene messo da parte. Eventuali sforamenti temporanei potranno essere compensati da risultati migliori negli anni successivi. La proposta approvata dal Parlamento è parte del piano d’azione industriale per l’automotive annunciato dalla commissione europea lo scorso 5 marzo. Ne aveva parlato a gennaio Ursula von der Leyen: «Obiettivo rafforzare la competitività europea in un settore messo sotto pressione della rapidità dell’innovazione tecnologica». «Questa flessibilità temporanea non indebolisce gli obiettivi climatici», si affrettano a precisare da Bruxelles.

Margini più gestibili

Restano invariati: dal 2025 al 2029 le emissioni di CO2 delle nuove auto e dei nuovi furgoni dovranno essere ridotte del 15% rispetto ai livelli del 2021. Ma adesso i margini sono più gestibili per le imprese. Per favorire la rapida adozione della misura il Parla-

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mento ha scelto di attivare la procedura d’urgenza, strumento previsto dai regolamenti Ue per le leggi prioritarie. Siamo di fonte è una trasformazione green epocale che deve essere sostenuta anche da misure che tengano conto della realtà produttiva e degli equilibri globali. Resta tuttavia l’impegno europeo a non abbassare la guardia sugli obiettivi ambientali, che prevedono lo stop alla vendita di auto a benzina e diesel dal 2035.

È una misura ponte, destinata a facilitare un percorso. In termini calcistici si potrebbe dire «salvati in corner»: questo tenta di fare il Parlamento europeo. Il rischio concreto era che «Il bando immediato dei motori termici potrebbe portare all’effetto Havana: consumatori non pronti all’elettrico costretti a mantenere veicoli vecchi e inquinanti» ha scritto Ola Källenius, Presidente della European Automobile Manufacturers’ Association e numero uno di Mercedes Benz Group AG, nel mese di luglio su «The Economist». Una vera e propria distorsione. L’invecchiamento del Parco circolante come effetto collaterale delle politiche ambientali troppo rapide e non accompagnate da adeguate leve economiche. Se gli Stati non aiutano i loro cittadini

con adeguati incentivi economici, molti automobilisti non saranno in grado di sostituire la loro vecchia automobile. Ecco allora che si ottiene un risultato diametralmente opposto a quello che si voleva. Non una decarbonizzazione diffusa, ma un immobilismo della mobilità definito per classi sociali che porta a un congelamento del mercato.

Famiglie spaccate

E se l’acquisto dell’automobile è il secondo più importante in termini economici dopo quello della casa, ecco chiarirsi la diffidenza che sta entrando all’interno delle famiglie. Discussioni transgenerazionali tra genitori e figli ma anche tra marito e moglie. Lo sa bene il manager di Mercedes Källenius la cui moglie è una green influencer della Green Globe Organization. Ecco allora che seduti a tavola, durante la cena, la moglie spinge per l’ibrido plug-in e per elettrificare l’intera gamma Mercedes Benz. Oltre alla riduzione delle emissioni di CO2

c’è un obiettivo altrettanto importante perseguito negli ultimi anni dall’Ue e dai costruttori automobilistici: annullare la mortalità per incidenti stradali entro i 2050. «A Helsinki l’ultimo incidente stradale mortale si è verificato oltre un anno fa, era il luglio del 2024» hanno dichiarato l’amministrazione comunale e la polizia della capitale finlandese che conta 690’000 abitanti, che arrivano a un milione e mezzo nell’area metropolitana. Limiti di velocità più bassi» spiega Roni Ultrainen, ingegnere che si occupa del traffico per la capitale nordica. Secondo i dati raccolti dall’amministrazione il rischio di mortalità per i pedoni è stato ridotto del 50% abbassando i limiti di velocità da 40 a 30 km/h in gran parte dell’area residenziale della città. A questo si aggiungono oltre 70 autovelox e un rigoroso sistema di controlli e sanzioni. Un obiettivo che a Helsinki è stato già centrato con 25 anni di anticipo. Per le zero emissioni, invece, a Helsinki e nel resto d’Europa bisognerà attendere ancora un po’. Meglio tardi che mai, comunque.

*rispetto alle ciglia senza trucco.
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Mario Alberto Cucchi
È sotto gli occhi di tutti: l’elettrico funziona, sempre di più, ma le vendite sono sotto le aspettative. (Immagine generata dall’IA, Freepik)

L’aperitivo italiano

Lo sfizioso spuntino dalle mille variazioni

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Le parole dei figli

Doomscrolling

«Mamma, devi assolutamente parlare del doomscrolling ne Le Parole dei figli, perché capita anche a me di rendermi conto di aver passato un’ora su TikTok vedendo solo notizie negative, scrollando in modo compulsivo e senza riuscire a fermarmi». Così Clotilde, 17 anni, mi spinge a riflettere su un fenomeno che come genitori non possiamo ignorare. Il termine doomscrolling nasce dalla fusione di due parole inglesi: doom (sventura, destino infausto) e scrolling (far scorrere). Introdotto nel dizionario Usa Merriam-Webster nel 2020, viene definito come «passare troppo tempo online a scorrere notizie o altri contenuti che provocano tristezza, ansia, rabbia». Nel 2021 entra anche nel vocabolario italiano Zingarelli, come «abitudine compulsiva a consultare le notizie online, soprattutto quelle negative, causando ansia o stress».

Terre Rare

In ferie con l’IA

Le sue caratteristiche principali sono tre: 1) la compulsività del gesto, cioè l’incapacità di smettere di scorrere; 2) la prevalenza di contenuti negativi, come notizie tragiche, catastrofiche o allarmanti; 3) l’effetto sulla salute mentale, generando ansia, stress e malessere. Soprattutto dopo il Covid numerosi studi scientifici internazionali stanno analizzando il fenomeno per dimostrare gli effetti negativi sulla salute mentale degli adolescenti (e non solo). Qui preferiamo raccontarlo dal punto di vista dei più giovani. Negli ultimi mesi se ne stanno occupando anche i siti universitari. Il 27 marzo 2025, sul blog della Florida Atlantic University, la studentessa Ava Lopez riflette sulla difficoltà di uscire da questo circolo vizioso: «Come posso risolvere il problema se ne sono intrappolata? Sarebbe più facile continuare piuttosto che lottare in

una battaglia persa. Proprio come una reazione alla droga, è difficile smettere di colpo, ancor di più in un’epoca in cui la tecnologia è più comune di una semplice sigaretta elettronica o di una bottiglia di alcol. La tentazione di “scorrere” è più forte che mai». Il suo invito è a chiedere aiuto. Il 10 aprile 2025, sul sito dell’Università della California di San Diego, Sara Bock, responsabile della comunicazione, spiega i meccanismi mentali che intrappolano: «Ti dici che è solo per un minuto, giusto per rimanere aggiornato. Ma poi una notizia tira l’altra. Disastri naturali, conflitti, crisi economiche ti sommergono. Prima che tu te ne accorga, è passata un’ora e il tuo cuore batte più forte. Perché non riesci a fermarti? Non sei il solo: è un’abitudine che si sta diffondendo». Per capire meglio, Bock intervista Susan Tapert, esperta nello sviluppo co-

gnitivo degli adolescenti, nominata nel 2022 tra le mille migliori scienziate al mondo. La domanda chiave è: perché siamo così attratti dalle notizie negative? «Il cervello ha un bias di negatività, un tratto evolutivo che ci rende più reattivi alle minacce – spiega Tapert –. Storicamente, essere attenti a pericoli come predatori o conflitti significava maggiori possibilità di sopravvivenza. È un retaggio del passato: le cattive notizie catturano e mantengono la nostra attenzione più intensamente delle buone notizie e le elaboriamo più profondamente». Se dunque di natura siamo più attratti dalle cattive notizie, l’algoritmo dei social, che ci ripropone in un loop infinito ciò su cui siamo più propensi a soffermarci, fa il resto. Oggi perfino su TikTok – sembra un paradosso – circolano video in cui ragazzi e ragazze mettono in guardia contro

il doomscrolling, propongono strategie per disintossicarsi e invitano a scegliere alternative semplici: instead of doomscrolling, leggi, esci, chiama un amico. Sta forse nascendo una nuova consapevolezza critica proprio tra i più giovani, mentre noi boomer, pur essendo consumatori accaniti di tecnologia, spesso ignoriamo persino il termine doomscrolling?

L’Accademia della Crusca, che lo ha inserito tra le nuove parole, riporta anche l’analisi di Daniele Marchesi, psicologo che ogni giorno aiuta gli utenti su Instagram con la pagina lapsicologiaperte: «Con il doomscrolling si rischia di caricarsi di emozioni non proprie. Il pericolo è di farsi assorbire, perdendo il senso della realtà». Lo dobbiamo sapere tutti. E aiutare i nostri figli (e anche noi stessi) a riconoscere quando è il momento di dire: basta scorrere.

Potremo ricordare le vacanze estive di quest’anno come le prime in cui l’IA ha messo il naso nei nostri borsellini. Da più parti negli scorsi giorni è stato confermato che sia il prezzo dei biglietti aerei e ferroviari, sia quello delle infrastrutture turistiche non è più influenzato dalla legge della domanda e dell’offerta, ma dall’analisi dei nostri dati in possesso dei grandi aggregatori di proposte turistiche. Dati, occorre dire, che non derivano dalla nostra attività interna a quei siti specifici, ma che vengono tratti più in generale da tutti i nostri comportamenti, da tutte le interazioni con la Grande rete. È finita per sempre, quindi, l’epoca in cui si rincorrevano le migliori occasioni (voli a pochi franchi e pacchetti alberghieri a prezzi super convenienti). Sono servite in passato forse proprio per invogliarci ad usare

quegli strumenti. E oggi ci rendiamo concretamente conto che la nostra profilazione digitale, di cui è ormai assurdo lamentarsi, perché è stata fortemente voluta e provocata dai nostri comportamenti stessi, inizia a diventare operativa anche in questo settore del mondo economico. Il principio che regola il mercato è sempre di più quello legato non al valore in sé dei prodotti (in questo caso delle offerte turistiche) ma al prezzo che noi stessi siamo pronti a pagare per ottenerli. Sulla base di questo concetto, ci siamo visti quest’estate appioppare salassi considerevoli per situazioni di emergenza, cioè necessità di alloggio a breve scadenza, oppure biglietti ferroviari, nello specifico per le linee inglesi, a prezzi raddoppiati. Alla nostra reazione di stupore, l’operatore britannico allo sportello ferroviario ci ha

Approdi e derive

Sguardi feriti

Capita sempre più spesso di condividere con amici e conoscenti grande tristezza e profonda indignazione per l’immane tragedia umanitaria di Gaza. La condivisione della sofferenza e l’indignazione per l’inefficacia delle denunce politiche, lo sdegno per la mancanza di coraggio delle nostre democrazie a rischio di complicità, sono diventati un grido collettivo.

Con sfumature diverse e dentro diversi orizzonti di senso ciò che emerge è la preoccupazione per valori umani brutalmente calpestati, in primis il rispetto della vita dei bambini. Ma dolore e indignazione ci interpellano anche in altro modo: siamo in molti ormai a non più riuscire a guardare le immagini devastanti che affiorano dagli occhi di bambini feriti e affamati e dai volti consunti di mamme disperate e di anziani inermi. Siamo in molti a non poter guardare, a non riuscire a sostenere la vista di tanta sofferenza.

Questo nostro sguardo ferito, che non riesce più a guardare, è però tutt’altra cosa rispetto a quello di coloro che non guardano semplicemente perché non vogliono o non sanno vedere. In questo nostro sguardo ferito c’è un vissuto, un modo doloroso di abitare la propria vita, che non ha nulla a che fare con gli occhi distratti di coloro (e sono molti) che continuano tranquillamente a portare a spasso i propri giorni dentro un disincanto più o meno sereno e rassicurante, egoistico e autoreferenziale.

Questo nostro non riuscire a guardare custodisce infatti un potente desiderio di vedere. Ma si tratta di un desiderio, o meglio di un bisogno assai difficile anche solo da riconoscere in questo mondo che si racconta dentro sguardi resi incapaci di vedere davvero

A ragione il filosofo ed economista

Serge Latouche osserva nelle sue analisi che dobbiamo decolonizzare l’immaginario per liberarci dalle gabbie

guardato quasi con commiserazione. «Ma come, non lo sapete? Bisogna prenotare prima, molto prima!». L’involontaria citazione jannacciana ci ha proprio spiazzato (come facevamo a sapere prima una cosa che abbiamo deciso solo oggi?), ma è il frutto dei tempi e di una tendenza che in realtà si va delineando da anni. Siamo solo noi quelli rimasti alle vecchie concezioni di «servizio pubblico», come qualcosa di immanente, di fisso nel tempo. I prezzi dei biglietti del treno, queste entità apparentemente solide e sacre, sono entrati ormai da tempo nella logica di un mercato mobile e imprevedibile, quasi fossero emanazioni di una dinamica da bolla azionaria, in balia di fluttuazioni opportunistiche magari anche un po’ irrazionali. Verrebbe d’istinto la domanda, anche questa piuttosto obsoleta, fuori

moda, sul come difendersi da una situazione del genere. È possibile tornare a usufruire di servizi e prodotti sulla base della logica, ormai solo apparentemente razionale, del «giusto prezzo»? Evidentemente no. L’unico consiglio paradossale per difendersi da questa deriva e dalla profilazione digitale sarebbe quello di inventarsi un’identità fittizia, o meglio di cercare di aggirare le raccolte dati automatiche, mantenendo comportamenti discreti e controllati, in modo da lasciare il minor numero di tracce digitali sulla rete. Ma è davvero possibile? Sicuramente no. Le serate trascorse sul divano o in poltrona a spulciare gli shop online sul nostro tablet sono ormai diventate talmente un’abitudine da inchiodarci per sempre. Sanno tutto di noi, almeno Amazon, eBay, Booking e TripAdvisor, se non AliExpress e Te-

mu. L’altra sera, addirittura ci siamo scoperti a diffidare dello smartphone innocentemente appoggiato sul tavolo. «Non parlare di vacanze a voce alta» ha detto un amico. «Quello ascolta, registra, e fa aumentare i prezzi, se solo capisce dove vogliamo andare…».

A questo punto l’unica possibilità che abbiamo sembra quella di riderci sopra, di praticare un minimo di autodifesa umoristica. E poi di sperare che un giorno anche i prezzi delle Casse malati possano essere messi in balia di un meccanismo simile. In mancanza di volontà politica, magari l’IA potrebbe metterci una pezza. E poi no, non funzionerebbe neanche lì. Tornando a Jannacci, si finirebbe di nuovo sul ritornello sarcastico: «Se me lo dicevi prima, che ti ammalavi, potevi pagare di meno. Ma bisognava saperlo prima, molto prima…».

di pensieri già pensati e per riuscire ad accogliere la realtà, per lasciare che ciò che accade si manifesti a noi con la sua autentica voce. Quanto sia difficile riconoscere e coltivare la pura accoglienza di ciò che ci circonda emerge anche dalle lucide analisi con cui il filosofo Byung-Chul Han ci invita, nei suoi brevi saggi, ad una lettura critica del nostro attuale stare al mondo. «Oggi percepiamo la realtà soprattutto in termini di informazioni. Lo strato informativo (…) scherma la percezione da qualsiasi intensità», scrive nel suo bel libro Le non cose, osservando come l’informazione renda difficile sperimentare la presenza dell’altro. «Ci stiamo dirigendo verso un’epoca trans e post-umana in cui la vita non è che mero scambio di informazioni». Ma umano viene da humus, dalla terra: l’espressione della nostra umanità ha bisogno di un legame fisico, reale, con l’altro e con il mondo. In questo senso i nostri occhi, feriti

e impotenti, si chiudono, incapaci di riconoscersi in sguardi schermati che confliggono con il bisogno di sentire la presenza dell’altro; sguardi che ci allontanano dal desiderio di riconoscere quella reciproca vulnerabilità da cui nasce l’intensità di ogni legame vero. I nostri sguardi feriti è come se gridassero un implicito diniego, non solo di ciò che sta accadendo, ma anche dei racconti in cui l’immane tragedia prende la parola. Questo doloroso vissuto a me pare però solo un segno visibile di qualcosa che pesca altrove le sue ragioni, segno di un sentire potente quanto inespresso che nasce negli strati più profondi della nostra umanità. È in questo vissuto che ci raccogliamo in silenzio in ascolto di quello che, con il filosofo Blaise Pascal, mi piace chiamare il sapere del cuore. Come spesso mi capita di ricordare, nel cuore di Pascal non ci sono sentimentalismi buonisti ma solo una forma di conoscenza intuiti-

va in cui si esprime con forza la passione per la verità. Mettersi in ascolto del cuore è una forma preziosa di conoscenza perché nel vedere del cuore ciò che vediamo può trovare altrove la sua visibilità. Il sapere del cuore chiede di accogliere la realtà nel suo darsi spontaneo, di lasciarsi toccare dalla sua presenza, il che significa sperimentare un’intimità con la vita in tutte le sue manifestazioni. È apertura su un vedere diverso che diventa un’esperienza dell’anima. Quando la razionalità detta l’agenda dei nostri giorni, quando il linguaggio razionale impone le parole per pensare e per orientare il nostro cammino e i legami si riducono allo scambio di informazioni sul mondo, diventa difficile riconoscere e coltivare il sapere del cuore, il suo essere una bussola preziosa per camminare nella vita.

Si perde così un’espressione feconda della nostra umanità: le tragedie del presente sono lì per ricordarcelo.

di Alessandro Zanoli
di Simona Ravizza
di Lina Bertola

ATTUALITÀ

Un duca controverso

Il libro Entitled sostiene che il principe Andrea e Sarah Ferguson continuino a portare avanti una truffa ai danni dei contribuenti britannici

Pagina 14

Putin e Trump: il confronto

L’evoluzione del rapporto tra il presidente americano e il capo del Cremlino, nonché le differenze cruciali esistenti tra loro

Pagina 15

Alpeggi svizzeri da salvare Difficoltà a trovare personale, problemi economici e grandi predatori spingono non poche aziende a gettare la spugna

Pagina 17

Quando si dimentica la propria storia

Europa ◆ La perdita del senso della realtà in una stagione di guerre che tendono a unirsi in una nuova Guerra grande

Le faglie che dividono i popoli non sono sempre le stesse. Una però è più importante di ogni altra: il senso di sé, incentivato dal mito collettivo. Variazioni su una tradizione accettata, spesso inconscia tanto è profonda. C’è, quando c’è, anche se non ci riflettiamo. Il senso di sé non esiste senza storia. Che cosa succede quando la storia evapora, tutto si schiaccia sul presente, come se il mondo fosse piatto, non in senso spaziale, ma temporale? Vista oggi con il distacco che possiamo concederci nel nostro tempo sospeso, tempo di guerre senza fine (maschile e femminile), questa è la malattia di ciò che resta dell’Occidente. Specie di noi europei.

I campi di battaglia di oggi sono quelli della prima guerra mondiale. Più o meno attorno all’istmo di Europa, come Braudel definiva la verticale Baltico-Nero

C’erano una volta l’Europa occidentale e quella orientale, l’Ovest e l’Est. Riferimenti certi. Cartografabili. Nell’Ottantanove ci hanno spiegato che il crollo del Muro avrebbe finalmente unito gli europei – persino i tedeschi – quasi non fossimo sempre stati divisi. Giovanni Paolo II celebrava il Vecchio Continente capace di respirare con i suoi due polmoni. E Fukuyama cesellava la sua fine della storia, formula chimica: abolite insieme storia e geografia, matrice diabolica di ogni conflitto, l’umanità si ricomponeva (per umanità s’intendeva quella boreale, lo spazio dei grandi imperi antichi e moderni, il Grande Sud allora si chiamava Terzo Mondo, forse umano forse no, comunque oggetto mai soggetto, rigorosamente senza storia). Pax Americana. Età noiosa, avvertivano i suoi cantori, abitata dall’«ultimo uomo» annunciato e disprezzato da Nietzsche per il suo ebetismo. Non troppo diverso a valori rovesciati dall’uomo nuovo del dopo-storia, il comunista evocato da Marx, convinto che quell’uomo sarebbe stato il più umano, dunque il più felice di sempre. E per sempre. Trent’anni dopo scopriamo che la faglia principale che ci risepara è quella fra popoli con o senza storia. Tra chi è consapevole delle proprie radici e chi dimentica perfino di averle avute. Su scala globale, è la linea di separazione fra le grandi potenze asiatiche nascenti o rinascenti, quali Cina, Russia, India o Turchia, e gli Stati Uniti, dove molti americani non si riconoscono più in altri americani, troppo diversi e troppo distanti dal ceppo bianco anglosassone protestante, destinato a scadere da egemone a minoranza fra le altre entro il 2050.

La stagione di guerre che tendono a unirsi in una nuova Guerra grande esprime questa deriva dei Continenti. Storica, prima che geografica. In noi euroccidentali, aggruppati in incerte, senescenti collettività, eccita il sentimento di essere fuori del tempo tanto da illuderci immuni dalle mischie e dai tornei militari che ci si agitano intorno. E che, al massimo, studiamo con sguardo da entomologo perché non ci riconosciamo in coloro che le muovono. Disumani.

Come osserva lo storico Romano Ferrari Zumbini nel suo formidabile studio su Il Grande Giudice. Il Tempo e il destino dell’Occidente (Roma 2025, Paracelsus editori), «il filo del tempo è lo strumento indispensabile per la diagnostica della Storia, senza la quale l’essere umano si vota alla solitudine e all’ignoranza». In breve, perde il senso della realtà. E la realtà – con le sue collettività reali – lo ignora. Annuncio di rovina per chi si immagina

al sicuro. Senza nemmeno concepire di poter intervenire nella storia perché l’ha abolita. Dunque la subisce. I popoli storici disegnano il destino dei post-storici.

Quella che coltiviamo è una lunga storia dell’oblio della nostra stessa storia

La storia dell’oblìo della nostra storia comincia con la sconfitta degli imperi europei (1914-45) che mette i fortunati del Vecchio Continente a disposizione del Nuovo Mondo a stelle e strisce, semplice e suadente, mentre oltre il Muro l’impero sovietico replica lo stesso schema all’Est, al suo oppressivo modo.

Scaduto lo schema cartesiano della Guerra fredda – ergo pace nelle nostre case – i due pezzi d’Europa si sono frammentati a dozzine, persino all’interno dei singoli Stati. Tan-

to che ormai, nel canonico spazio tra Atlantico e Urali (partizione insensata, ma ce l’hanno insegnata a scuola, contribuendo a convincerci che la geografia determinasse la storia sempre e per sempre), nessuno sa quanti Stati esistano davvero. Chiara è solo la faglia fra Est e Ovest. Insuperata. Chi ne dubitasse prenda un atlante e osservi dove fossero e dove restino oggi i campi di battaglia. Sono quelli della prima guerra mondiale. Più o meno attorno all’istmo di Europa, come Braudel definiva la verticale Baltico-Nero. Qui si sono incrociate le armi dei grandi imperi europei, tutti morti suicidi. Qui si trova l’Ucraina, per suo stesso nome regione di confine incastonata fra Reich guglielmino, impero russo, Austria-Ungheria e impero ottomano. Terre insanguinate, teatro dell’Olocausto, orrore scatenato dai nazisti cui hanno partecipato, talvolta con zelo speciale, anche genti insediate nella faglia fra

Est e Ovest e che oggi si rappresentano Centro. Qui il senso della storia non è perduto. Anzi, è spesso rivissuto come serie infinibile di sconfitte e vendette fra entità che si presumono troppo aliene per convivere. E noi? Noi siamo stati educati a dimenticare la storia. Grazie agli americani, il cui impero europeo, ormai in decomposizione, si reggeva sulla certezza del nemico russo e sulla molto presunta affinità culturale con gli europei occidentali. Controscuola (soprattutto Umschulung dei tedeschi occidentali) forse un po’ troppa forzosa. Vedi la finta coppia franco-tedesca: due sogni nello stesso letto, fra chi non si sopporta più. Perso il senso della realtà, abbiamo deciso che tocca riarmarci. Perfettamente logico. Ma non sarà che senza gli americani torneremo a usare le armi come fino a ottant’anni fa, europei contro altri europei? Per fortuna non abbiamo il tempo di pensarci.

La distruzione come normalità a Kramatorsk in Ucraina, Donbass. (Keystone)
Lucio Caracciolo

L’ascesa e la caduta di un duca controverso

Monarchia ◆ Il libro Entitled sostiene che il principe Andrea e Sarah Ferguson continuino a portare avanti una truffa ai danni dei contribuenti britannici, sottolineando i legami della coppia con Jeffrey Epstein

«Come un topo lasciato in un acquario insieme a un serpente a sonagli», così una delle innumerevoli fonti citate in Entitled ha catturato in un’immagine il rapporto tra il principe Andrew, personaggio grottesco, pomposo e ingenuo, e il finanziere pedofilo Jeffrey Epstein, genio maligno della macchinazione, del ricatto machiavellico e della sapiente tessitura sociale grazie anche alla sua complice Ghislaine Maxwell, mente altrettanto perversa e figlia di quella stratosfera sociale britannica decadente e anaffettiva che Andrew Lownie, nel suo libro uscito di recente, racconta così bene. Il volume spiega il rapporto tra Andrew e il finanziere pedofilo Jeffrey Epstein, genio maligno della macchinazione

A Londra non si parla d’altro, anche perché le avventure del duca di York e della sua vivace ex moglie Sarah Ferguson, oltre ad avere una componente disturbante e salace, tra avventure e flirt di entrambi nel jet set mondiale, sostiene l’esistenza di una gigantesca, continua truffa portata avanti dai due ai danni del contribuente britannico, convinto nel migliore dei casi di finanziare un’istituzione in grado di dare lustro al Paese e preservare il suo sacrale senso di eccezionalità e costretto di fatto a foraggiare gli eccessi e gli infantilismi di una Royal Family che per decenni ne ha tradito la fiducia. Ci sono due coppie, in questo libro, una di potenti mefistofelici e l’altra di aristocratici stolidi e senza direzione, entrambe unite da un’alleanza fortissima che trascende quella sentimentale: Jeffrey e Ghislaine, che hanno tessuto una rete che miete vittime a distanza di decenni, e Andrea e Fergie, che vivono insieme in una grande magione ormai a pezzi da cui re Carlo e soprattutto William non vedono l’ora di cacciarli.

Lownie, scrittore e agente letterario, in un lavoro certosino durato quattro anni e lungo 400 appassionanti pagine, racconta l’ascesa e la caduta della casa di York, il titolo storicamente dato al secondogenito maschio di un monarca, dalla nascita privilegiata quando Elisabetta II era già regina da un po’ e si poteva dedicare meglio a questo bambino nato bello, senza quei tratti vagamente equini caratteristici della famiglia, dall’intelligenza considerata mediocre, sorridente in divisa al ritorno dalle Falklands, pieno di fidanzate vistose e più sveglie di lui, sposato con la ruspante aristocratica rossa Fergie, inizialmente carismatica e alla mano e poi, molto presto, presa da un entusiasmo vorace per i soldi, capace di viaggiare con 25 valigie e di perdere aerei in continuazione, così semplice e infantile da voler dei ricami

di orsacchiotti e di elicotteri sul vestito da sposa – la stilista oppose un secco «no» – e alla ricerca di attenzione, di cibo, di cose, di amore, di riconoscimento. Divorziano presto ma restano legati, lui la aiuta con i soldi – i conti sono vertiginosi, si viaggia intorno al milione all’anno, lei vuole dieci piatti di pasta per capire quale mangerà e bestie intere arrostite sul tavolo ogni sera come fosse un banchetto medievale, e guai a riproporle il giorno dopo – e inevitabilmente cadono nella rete di Lucignolo Epstein, che offre, ospita, paga, tende la tela del ricatto e non

I personaggi

Il principe Andrew, nato nel 1960, ufficialmente Andrea Alberto Cristiano Edoardo Mountbatten-Windsor, è il terzogenito e secondo figlio maschio della regina Elisabetta II e del principe Filippo. È noto come duca di York, titolo che gli è stato conferito alla vigilia del matrimonio con Sarah Ferguson nel 1986. Nonostante il titolo nobiliare, la sua figura è stata associata a controversie e scandali, che hanno portato a un suo progressivo isolamento all'interno della famiglia reale.

può credere alla sua fortuna quando si trova davanti due sprovveduti di questo calibro.

Le ragazze che condividono raccontano a Jeffrey che Andrew è «l’animale più perverso della camera da letto», l’unico addirittura più ossessionato dal sesso di lui, e la povera Virginia Giuffre rivela quelle tre volte in cui lei, minorenne, è dovuta passare tra le braccia di lui, mentre autisti e staff vario riferiscono di ragazze «intorno ai diciott’anni» portate avanti e indietro con un po’ di droga e tanti soldi. In ordine di gittata internazionale, la

Sarah Ferguson, classe 1959, è figlia del maggiore Ronald Ferguson e della sua prima moglie, Susan Mary Wright. Lavora in una società di pubbliche relazioni di Londra, in una galleria d'arte e in una compagnia pubblicitaria, prima di sposare il principe Andrea, conosciuto grazie a lady Diana. Sarah e Andrea divorziano nel 1992, pochi mesi prima dei principi di Galles. Dal loro matrimonio nascono due figlie, le principesse Beatrice (1988) ed Eugenia (1990). Nato a New York nel 1953, Jeffrey

notizia più importante è che Jeffrey avrebbe venduto i segreti di Andrew al Mossad, ai servizi sauditi e pure alla Libia di Gheddafi. Bastava agevolarlo nelle sue passioni per donne giovani e bella vita, e il principe passava informazioni che poi il finanziere trasferiva a Israele. Ma non solo, anche la Russia di Vladimir Putin è finita coinvolta nel valzer di informazioni e ricatti di Epstein, «agente di influenze» per il Cremlino. Ma l’aspetto più desolante è che il principe, tronfio e pieno di sé, non si è mai accorto di nulla.

Per dieci anni Andrew ha girato

Epstein intraprende inizialmente la carriera di insegnante, per poi dedicarsi al settore bancario e finanziario. Nel 2008 viene condannato per abusi sessuali su minori in Florida, scontando solo 13 mesi di carcere grazie a un controverso patteggiamento. Undici anni dopo, nel 2019, viene nuovamente arrestato e condannato con l’accusa federale di traffico sessuale di minori. L'imprenditore si toglie la vita il 10 agosto dello stesso anno in carcere.

il mondo per conto della Corona come rappresentante per il commercio, esposto al facile corteggiamento di malintenzionati di varia provenienza, a partire dai cinesi.

Per dieci anni il principe Andrea ha girato il mondo per conto della Corona come rappresentante per il commercio

Scriveva lettere di auguri di compleanno a Xi Jinping sotto dettatura da parte di una spia di cui era diventato amico, con la benedizione, pare, di Buckingham Palace. Sembra fosse cosa risaputa che durante un viaggio in Thailandia per il giubileo di diamante di Re Bhumibol si sia fatto portare 40 ragazze in camera, sotto gli occhi di diplomatici esterrefatti. L’altro scoop è quello, subito smentito dalla California, secondo cui Harry avrebbe preso a cazzotti lo zio –con tanto di «naso sanguinante» – nel 2013 per avergli parlato alle spalle, mentre quando anni dopo è entrata in scena Meghan l’ha definita apertamente «un’opportunista». O forse solo una dilettante, perché quello che racconta Entitled sposta l’asticella dell’avidità molto più in alto.

Il principe Andrew e l’ex moglie Sarah Ferguson. (Keystone)

Trump e Putin, così simili e così diversi

L’analisi ◆ L’evoluzione del rapporto tra due «uomini forti»: il presidente degli Stati Uniti e il capo del Cremlino

Anna Zafesova

Quando, nel novembre 2016, Donald Trump (foto a lato) era stato eletto per la prima volta alla Casa Bianca, dall’altra parte del mondo, nel tetro edificio della Duma si brindava a champagne. Quasi dieci anni dopo le sorti di una parte cospicua del mondo appaiono ancora appese al rapporto tra il presidente repubblicano e Vladimir Putin (foto in basso), un rapporto che molti commentatori occidentali si sono spinti a definire «bromance». Il termine si può tradurre in italiano come «amicizia virile» o «legame fraterno», deriva dalla fusione delle parole inglesi «brother» e «romance». Al momento di andare in stampa, settimana scorsa, non conoscevamo l’esito del vertice tra i due previsto a Ferragosto in Alaska, ma qualche considerazione possiamo avanzarla.

Sembravano a molti le due metà di una strana coppia destinata a rompere gli equilibri internazionali esistenti

Ci troviamo davanti a due leader autoritari e accentratori, due conservatori intenti a rendere i loro Paesi «great again», due rompighiaccio che non esitano a rompere accordi, mandare all’aria alleanze e ignorare le regole. Sembravano a molti le due metà di una strana coppia destinata a rompere gli equilibri internazionali esistenti. Il legame tra i due sembrava così stretto che buona parte della prima presidenza Trump è passata sotto il segno del «Russiagate», l’indagine per scoprire se davvero i servizi segreti di Mosca avessero contribuito alla elezione del repubblicano diffondendo fake news mirate sui social americani (e le voci sul fatto che il giovane Donald sarebbe finito nella rete del Kgb già al suo primo viaggio a Mosca, ancora negli anni Ottanta del Novecento, continuano a girare nei media internazionali).

Entrambe le presidenze di Trump sono iniziate con la promessa di risolvere rapidamente il problema con l’invasione russa dell’Ucraina. Nel 2016, era l’annessione della Crimea e l’attacco al Donbass, nel 2024 le bombe su Kiev e altre città ucraine. In entrambe le sue campagne elettorali Trump si è circondato di simpatizzanti filorussi, scommettendo su un’alleanza con Putin che avrebbe dovuto permettergli di affrontare altri nemici, che fossero l’Isis, i liberal americani o la Cina. In entrambi i casi, il capo della Casa Bianca aveva mostrato di comprendere le ragioni di Putin, al contrario dei suoi avversari democratici e degli alleati europei, e aveva insistito per incontrarlo offrendogli aperture insperate (come la promessa di riconoscere l’annessione della Crimea o la decisione di togliere gli aiuti militari per la difesa di Kiev).

Ma il tentativo di «bromance» del 2016 è finito, dopo un paio di summit inconcludenti, con un numero record di sanzioni americane contro la Rus-

sia inflitte dall’amministrazione di Washington e con un peggioramento delle relazioni bilaterali «al punto peggiore della storia», secondo la constatazione dello stesso Putin, arrivando a un passo dallo scontro diretto tra militari russi e americani in Siria. Al secondo tentativo, Trump non è riuscito a «concludere la guerra in 24 ore», e ha costretto il presidente russo a una trattativa solo dopo averlo minacciato con sanzioni che avrebbero colpito anche i suoi partner commerciali principali, Cina e India. Nonostante tutte le evidenti simpatie filorusse – soltanto pochi giorni prima dell’incontro in Alaska, il presidente americano ripeteva in pubblico i cliché della propaganda moscovita come quello che «la Russia vince sempre le guerre», e sosteneva che i carri armati russi avrebbero potuto «arrivare a Kiev in quattro ore» – e le affinità ideologiche, Donald e Vladimir faticano a trovare un’intesa. Anche perché in realtà non sono così simili: uno è nato ricco, l’altro poverissimo, uno ha costruito la carriera sul suo narcisismo esuberante, l’altro è salito al Cremlino grazie a intrighi nell’ombra, uno punta al risultato immediato e si stufa facilmente, l’altro persegue ossessivamente i suoi obiettivi per anni. Nel regime putiniano un ribelle anti-sistema come Trump sarebbe finito immediatamente dietro le sbarre. L’americano punta a un risultato da mostrare alle telecamere, ed è pronto rapidamente a cambiare idea per convenienza, come si è visto an-

che da come ha accettato l’invito a un vertice senza una proposta di pace o almeno di tregua chiara. Il russo viene da una cultura politica dove il compromesso viene equiparato alla debolezza, e la forza alla prepotenza: ha incrementato l’intensità dei bombardamenti nonostante il rischio di far arrabbiare Washington, pur di non venire sospettato di concessioni a quell’America che dichiara da anni il nemico principale della Russia. Dovrebbe essere proprio questa posizione a spingere il presidente americano – come era già successo nel suo primo mandato – a «incontrare finalmente la realtà», come dice il politologo ucraino Viktor Andrusiv,

convinto da mesi che la logica della politica prevarrà sulle simpatie filorusse di Trump e del suo entourage. Per l’analista russo in esilio Aleksandr Baunov invece Putin e Trump potrebbero trovare un’affinità proprio nel loro approccio «personalistico» alla soluzione dei problemi internazionali, e in quella «rivoluzione arcaica» che il capo della Casa Bianca vorrebbe imporre alla diplomazia globale, smantellando il multilateralismo e il diritto internazionale a favore di accordi tra leader e «scambi di territori» e rimaneggiamenti di confini come quello appena negoziato tra Armenia e Azerbaigian con la mediazione americana. Mosca ha già fatto pro-

prio l’approccio «business» trumpiano, cercando di dirottare l’attenzione del leader repubblicano dall’Ucraina verso una serie di progetti congiunti allettanti, dallo sfruttamento delle terre rare e delle risorse dell’Artico all’importazione di gas russo attraverso le società americane e l’acquisto dei Boeing necessari per salvare l’aviazione civile russa dal collasso per colpa delle sanzioni occidentali.

Uno punta al risultato immediato e si stufa facilmente, l’altro persegue ossessivamente i suoi obiettivi per anni

Anche perché tra Trump e Putin esiste un’altra differenza cruciale: nonostante entrambi siano scettici verso la democrazia, il presidente americano deve affrontare presto le elezioni del Mid-term, e quindi deve proporre qualcosa ai propri elettori. A differenza di Trump, il dittatore russo non ha mai promesso la pace, e non ha fretta di concluderla, quindi rischia meno una delusione. Per buona parte della sua opinione pubblica – in un autoritarismo in cui le elezioni sono comunque una formalità – già il fatto stesso del summit, per di più in Alaska, un tempo colonia degli zar, è un trionfo di immagine, l’uscita da un isolamento internazionale che rappresentava una delle maggiori punizioni che l’Occidente aveva inflitto al Cremlino.

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Le sfide che investono gli alpeggi

Svizzera ◆ Difficoltà a trovare personale, problemi economici e grandi predatori spingono non poche aziende a gettare la spugna

Si dice Svizzera, si pensa a montagne, mucche e formaggio. Sarà un cliché, ma quanto di vero c’è dietro a questa immagine da cartolina! L’economia alpestre è intimamente legata al nostro Paese, che ha contribuito a plasmare modellandone il paesaggio fin dal Medioevo. Basti pensare che in Leventina la spartizione dei diritti d’alpeggio alle varie vicinanze risale addirittura al 1227 e la stagione all’alpe è riconosciuta dall’Unesco come patrimonio immateriale dell’umanità.

L’economia alpestre non può però essere ridotta soltanto ad una tradizione, sugli alpeggi si produce formaggio di alta qualità, si curano il paesaggio e la biodiversità e, spostando il bestiame dal fondovalle, si permette alle aziende di preparare il foraggio necessario per il resto dell’anno.

Le aziende d’estivazione sono quindi un tassello essenziale del nostro settore primario, un tassello purtroppo sempre più fragile. Una delle minacce che saltano alla mente sono i grandi predatori. Una sfida soprattutto per gli alpeggi con pecore e capre. Un problema particolarmente acuto in Ticino, dove stando a un recentissimo rapporto del Cantone, la maggioranza degli alpeggi non può introdurre misure di protezione durante il giorno (sono di piccole dimensioni e magari su terreni impervi, dispongono di poche risorse economiche da investire in pastori, cani da guardia ecc.). Le cose vanno soltanto un po’ meglio per la protezione notturna, sebbene ci siano molte controindicazioni a chiudere gli animali in recinti dall’imbrunire al mattino. Aumentano le malattie e i ferimenti, aumenta l’accumulo di letame e quindi di sostanze nutritive nel terreno, diminuisce la produzione di latte.

Una via alternativa a quella dell’aumento dei contributi sarebbe quella di prezzi più alti per i prodotti ma c’è chi dice no

Il rischio, conclude il rapporto cantonale, è l’abbandono di molti alpeggi, una tendenza del resto già in atto nell’ultimo decennio. Dal 2011 al 2023 gli alpeggi ticinesi di capre e pecore sono calati da 145 a 107 e non aiutano certo ad invertire la tendenza i risparmi decisi dalla Confederazione. Da quest’anno i contributi federali per le misure di protezione sono passati dall’80% al 50% della spesa sostenuta. Una decisione alla quale ha già reagito la politica. Un atto parlamentare del senatore grigionese Stefan Engler – accettato in forma definitiva a giugno – intima alla Confederazione di fare marcia indietro. È però ancora troppo presto per capire con che rapidità saranno ripristinati gli aiuti.

E altre sfide incombono sulla nostra economia alpestre. Uno dei grossi grattacapi è la difficoltà di trovare personale. Il lavoro all’alpe è duro, le giornate sono lunghe – dall’alba fino a tarda sera – e convivere ventiquattro ore al giorno sotto lo stesso tetto spesso aumenta i problemi. E così in molti abbandonano. Al «Tages-Anzeiger» il bernese David Gafner ha raccontato che in questa stagione ha già perso sette aiutanti: «Due si sono fatti male, tre li ho licenziati io, due sono partiti da soli». La difficoltà di trovare personale qualificato non è una novità, in Svizzera romanda si è reagito con una formazione specifica, ma in pochi rimangono poi nel settore. Alcune piattaforme online sono inoltre state create proprio

per mettere in contatto alpigiani e potenziali lavoratori. Tutto appare però inutile, perché la grande difficoltà è quella di pagare i giusti stipendi. Ogni anno l’Associazione degli alpigiani grigionesi e quella degli agricoltori grigionesi negoziano salari e condizioni di lavoro, che diventano poi il riferimento per l’intero settore. Quest’anno si va da un minimo di 123,60 franchi al giorno per un aiutante senza esperienza e formazione fino ai 258,20 per un casaro con almeno 6 stagioni di alpeggio alle spalle. Stando ai dati raccolti dal «Tages-Anzeiger», dei ventuno alpeggi attualmente in cerca di personale in Svizzera, solo sette possono pagare i salari di riferimento. Anche David Gafner ammette di non riuscire a farlo. Sul suo alpeggio a 1300 metri d’altezza sopra il lago di Thun si trasformano in formaggio 600 litri di latte al giorno. Per gestire il tutto ci vogliono da sei a sette persone, dovesse pagare a tutti i salari di riferimento – dice – non basterebbero gli incassi dell’intera stagione. Anche per questo il presidente della Società svizzera di economia alpestre, il consigliere nazionale UDC Ernst Wandfluh, ha chiesto nelle scorse settimane un importante aumento dei contributi per la produzione di latte sugli alpeggi: dagli attuali 40 centesimi al giorno per animale vorrebbe si arrivasse a due franchi. Ossia da 40 a 200 franchi a stagione. In totale si parla di una spesa aggiuntiva per le casse federali di 23 milioni. Soldi che sarebbero necessari non solo per pagare i salari, ma pure per far fronte ai cambiamenti climatici, spiega Wandfluh alla «NZZ am Sonntag». Sul suo alpeggio sopra Kandersteg, le forti piogge della scorsa primavera hanno provocato colate detritiche che si sono portate via un pezzo di strada e porzioni di pascoli. Per far fronte ai periodi di siccità è stato inoltre necessario costruire una grande cisterna per un costo di due milioni di franchi. Una via alternativa a quella dell’aumento dei contributi, caldeggiata dall’Associazione dei contadini, sarebbe quella di prezzi più alti per i prodotti. Il 23 luglio l’associazione ha pubblicato i prezzi di riferimento per il formaggio d’alpe 2025: dai 19 ai 25 franchi al chilo. In Ticino da sempre ci muoviamo nella fascia alta del prezzo, anche perché i consumatori erano soliti apprezzare il prodotto. L’imperfetto è purtroppo oggi d’obbligo. Come ha dichiarato Bruno Schiavuzzi

della Società ticinese di economia alpestre a «La Regione», «alcuni alpeggi hanno in cantina anche tra le duecento e le quattrocento forme di formaggio della scorsa stagione». Un invenduto enorme, segno di come il consumatore ci pensi due volte quando deve mettere mano al borsellino. «A mio mo-

do di vedere – continua Schiavuzzi – è meglio tuttavia spendere un franco di qualità piuttosto che dieci di quantità. E questo proprio perché, come abbiamo visto, dietro a una forma di formaggio c’è tutto un universo». Sono davvero tante le sfide che attanagliano le nostre Alpi e le loro aziende d’estivazione. Per salvaguardare prodotti, paesaggi e cultura alpestri dobbiamo prendere tutti coscienza dell’urgenza della situazione e soprattutto del contributo eccezionale che gli alpigiani continuano a fornire alla Svizzera. Oggi come ieri e speriamo… anche domani.

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CULTURA

Voci, visioni e destini nell’editoria ticinese Romanzi noir, poesia civile, saghe familiari, riflessioni filosofiche e testimonianze liriche tra le nuove uscite che si offrono come indagini interiori e intrecci narrativi

Pagine 20-21

Il successo di The Chosen Lo straordinario caso di un’opera fiction (di ottima fattura) che oltre a mietere fan, spinge molti spettatori a riscoprire il proprio spirito religioso

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L’universo immersivo di Dirk Koy

Mostre ◆ Castel Grande a Bellinzona ospita le opere digitali dell’artista basilese

È sicuramente suggestivo l’incontro tra l’imponenza di un maniero che trasuda storia da ogni pietra e l’agile mutevolezza dell’arte digitale: le mura secolari di Castel Grande a Bellinzona e le opere dell’artista basilese Dirk Koy sono l’unione inaspettata di solida realtà e fluida virtualità, di materia e immagine, di concretezza e intangibilità. Un connubio, questo, che, nel legare la coriacea possanza dell’antico alla disinvoltura della contemporaneità, riesce a sollevare quesiti sul nostro rapporto con il mondo, la tecnologia, il tempo e la memoria.

La mostra dedicata a Koy, ospitata nella Sala Arsenale del castello e organizzata dal Museum of Digital Art (MUDA) di Zurigo, in collaborazione con la Città di Bellinzona, può essere a buon diritto considerata un vero e proprio viaggio che dall’esperienza del reale ci catapulta in uno spazio incorporeo carico di potenzialità. Uno spazio dove tutto ciò che ci sembra familiare si dissolve e si ridefinisce in qualcosa di inedito, tracciando traiettorie che esplorano territori dai labili confini tra fisico e immateriale.

Che la realtà sia sempre l’indiscutibile punto di partenza dei lavori di Koy lo testimonia un video, fruibile appena si accede alla sala del castello, posto proprio a rimarcare quanto la relazione con l’ambiente circostante sia una continua fonte di ispirazione per l’artista svizzero. Sono soprattutto gli elementi inusuali del paesaggio, sia esso naturale o antropico, ad attirare la sua attenzione: piccoli particolari, dettagli che Koy scopre grazie a un atteggiamento che mescola una meticolosa osservazione delle cose a una più spontanea apertura verso tutto ciò che può animare la sua creatività.

Gli spunti che accendono la mente di Koy, elementi grezzi del creato così come configurazioni del tessuto urbano, sono frammenti della quotidianità che vengono stravolti e riassemblati dall’artista attraverso le tecnologie digitali più avanzate. In questo suo decostruire e ricostruire il reale, Koy utilizza difatti un approccio multidisciplinare che mescola regia, animazione 2D e 3D, videoarte e composizione sonora con l’intento di indagare la sottile linea di separazione tra naturale e artificiale. Un’indole sperimentatrice, la sua, che aveva già fatto capolino in tenera età, quando l’artista trascorreva ore a tagliare e rimontare la banda magnetica dei nastri VHS dei genitori. È così che Koy cattura forme e strutture tangibili, ricombinandole poi in elaborazioni dinamiche e audaci che ci restituiscono un’insolita visione della realtà. L’ordinario, il conosciuto e l’abituale si trasformano e acquisiscono significati alternativi, assurgendo a rappresentazioni ibride in movimento che disorienta-

no, destabilizzano e incuriosiscono. Consapevole della flessibilità inventiva dell’arte digitale, in grado di manipolare e connettere le immagini a livelli più profondi, Koy indaga nuove opportunità metodologiche di ricerca e, di conseguenza, nuovi paesaggi percettivi. L’artista svizzero è intimamente calato nella contemporaneità: esplora, sposta i limiti e forza la realtà con i mezzi che la sua epoca gli mette a disposizione. Saggiare le potenzialità creative attraverso quello che il filosofo Walter Benjamin definirebbe il punto massimo della tecnica allo stato dell’arte, ha condotto Koy ad assecondare le esigenze di un pubblico sempre più vasto in cerca di esperienze immersive e interattive in cui le barriere e gli ostacoli fisici e spaziali sono completamente rimossi.

È proprio quello che succede nella rassegna di Castel Grande, dove i lavori di Koy interagiscono con lo spettatore in modi sempre diversi. In Fixed Series del 2019-2020, l’artista crea dissonanze visive che sfidano le nostre aspettative di movimento, di prospettiva e di gravità, mentre nell’opera intitolata Shape Study Series (2019-2024) illustra con spirito giocoso come le forme e la materia possano essere fluide e mutevoli trasformando le fotografie e i video di oggetti appartenenti alla nostra quotidianità in animazioni in cui questi stessi manufatti vengono deformati e distorti. Tali elementi abbandonano così il loro aspetto familiare per diventare qualcosa di stravagante e inaspettato.

Uno dei lavori tra i più significativi di Koy è Bös-ch («albero», in roman-

cio), del 2024, in cui un pino cembro è stato catturato tramite fotogrammetria e trasformato in un modello 3D animato: mettendo in evidenza gli intricati particolari della sua struttura, l’artista fa sì che la superficie della pianta acquisti a poco a poco i tratti topografici di paesaggi e strati geologici per poi far emergere dalla corteccia organismi digitali che in un primo momento si diffondono nello spazio circostante e, successivamente, recedono nascondendosi nelle venature del legno, in un coesistere di componenti naturali e artefatte.

L’incontro tra vero e simulato viene sviluppato in maniera originale da Koy anche nell’opera Island, del 2023, la ricostruzione di un ecosistema digitale autosufficiente in cui una pianta virtuale cresce indisturbata tra gli ele-

menti del mondo reale. Per realizzare questo luogo immaginario l’artista ha raccolto filmati girati al mare a Fiumicino, in Italia, e nella Foresta Nera, in Germania. Pietre, alberi e altri frammenti della natura sono stati così rielaborati per dar vita a un armonioso complesso digitale che riconsegna un’immagine lirica della realtà.

La mostra bellinzonese presenta anche alcune opere di Esther Hunziker, Sabine Hertig, Andreas Gysin e Sidi Vanetti, artisti elvetici il cui lavoro è affine a quello di Koy nel porre quali punti cardine della ricerca la riflessione sull’evoluzione dei linguaggi visivi nell’era digitale e il serrato dialogo tra natura e tecnologia.

Di Esther Hunziker, le cui creazioni interrogano la percezione della realtà negli spazi liminali tra verità e illusione e tra quotidiano e straordinario, la rassegna espone Streamers, del 2018. In quest’opera i corpi che si presentano su un monitor come strane formazioni rocciose 3D si animano attraverso il linguaggio umano proveniente da tracce audio di vlogger che l’artista ha estrapolato online. Hunziker raccoglie difatti dalla rete globale voci di individui che parlano dei loro sentimenti e delle loro aspettative per poi farle rivivere in questi oggetti alieni.

Il duo Gysin-Vanetti, con l’approccio ludico che lo contraddistingue, ci rivela invece nei suoi lavori il potere dei pattern e delle strutture che ci circondano. Succede così nell’opera intitolata Sassi (2019-2025), che, facendo leva sulla pareidolia, il fenomeno psicologico per cui siamo portati a percepire forme familiari in immagini casuali o ambigue, ci induce a riconoscere volti umani su alcune pietre naturali. Attraverso l’uso di sovrapposizioni digitali che evidenziano i segni, le crepe e le fessure sulla superficie delle rocce, emergono così visi bizzarri e inquietanti, in taluni casi memori delle creature ibride e mostruose delle grottesche rinascimentali.

L’opera Exhibition (2025) è un lavoro a due mani in cui le manipolazioni digitali di Dirk Koy incontrano le creazioni analogiche di Sabine Hertig, artista basilese che utilizza la tecnica del collage campionando e assemblando il flusso perpetuo di immagini prodotte dall’uomo. Il risultato è uno scenario in cui arte, architettura e ambienti virtuali interagiscono tra loro in una dimensione sospesa tra convenzionale e surreale. Una dimensione magmatica, disinvolta e affascinante che apre allo spettatore infinite possibilità di lettura.

Dove e quando

Dirk Koy Castel Grande, Bellinzona. Fino al 9 novembre 2025. Orari: tutti i giorni dalle 10.00 alle 18.00. www.fortezzabellinzona.ch

Dirk Koy ha creato una nuova opera intitolata Neoland (2025). L’opera risponde a una cascata ghiacciata della Foresta Nera attraverso il disegno in forma analogica e digitale.
Alessia Brughera
Pagina

Il romanzo di Pietro e dei suoi fantasmi

Pubblicazione ◆ Nel suo esordio romanzesco, Giovanni Fontana scava in una voce apparentemente secondaria rivelandone i sentimenti

Potere dei paratesti, verrebbe da dire. La quarta di copertina dell’esordio come romanziere di Giovanni Fontana – nato a Mendrisio e già Premio svizzero di letteratura con i racconti di Breve pazienza di ritrovarti (Interlinea, 2015) – indica che tutto si svolge attorno alla «figura umbratile di Elena», di cui viene ricostruito il tormentato percorso esistenziale che si snoda fra Lombardia e Svizzera, dagli anni Trenta a oggi. La sua personalità complessa e sfuggente è messa a fuoco – si legge ancora – «attraverso le testimonianze di chi ha condiviso il suo cammino: i figli Luca, il primogenito malato, e Pietro, mediocre incarnazione del buon senso; il marito nevrotico; il fratello; la cognata; un prete; uno psicanalista; una badante». In questa polifonia, l’unica voce sulla quale viene espresso un giudizio morale è dunque il «mediocre» figlio Pietro. Quasi a suggerire: vuoi vedere che il suo ruolo sarà diverso da quello degli altri attori di un romanzo apparentemente Elena-centrico? E soprattutto: chi lo giudica in modo così severo? Il primo interrogativo trova una risposta sin dal prologo. Riaccompagnando a casa la madre dopo un esame medico, Pietro non riesce più a reggerne la narrazione edulcorata: «Non siamo mai stati così uniti come allora», dice la donna riferendosi al trauma della manifestazione della malattia psichica del figlio maggiore. Pietro sente la necessità di «risalire i tornanti della sua vita» (della madre? di sé stesso? di entrambi? Non sarà l’unico caso di ambiguità), «seguendo una freccia che punta, forse, al cuore dell’enigma». È l’inizio della contronarrazione di Pietro, cui prendono parte figure testimoniali che si esprimono in prima persona, e che a me – azzardo allora un’ipotesi di lavoro – paiono tutte proiezioni dei suoi

Davide Staffiero

Loggia K

EdiKit Editore

Che cosa accade quando una figura all’apparenza marginale si ritrova, senza volerlo, al centro di un sistema di potere? Picchiatore professionista, alcolizzato, misantropo e senza prospettive: non esattamente la definizione di un uomo affidabile, eppure questo è Livio Soldini detto «l’avvocato» che per un fortuito malinteso si ritroverà all’interno di un’oscura società segreta, invischiato tra gli ingranaggi del potere.

Loggia K racconta lo stravolgimento della vita del nostro protagonista quando la sera del suo cinquantesimo compleanno trova misteriosamente una tessera che lo porterà dalle bettole più malfamate agli attici extra lusso, trasportandolo tra intrighi e complotti dalle conseguenze inattese.

Con la sua quarta opera narrativa, Davide Staffiero, autore classe 1984 nato e cresciuto in Svizzera, ritorna al romanzo. Dopo il suo esordio nel 2018 con un romanzo breve Il programma, il suo thriller distopico Dalle 9 alle 6 e infine una raccolta di racconti dal titolo Pruriti, con Loggia K Staffiero si conferma un autore poliedrico dai mille interessi proponendoci una miscela tra pulp surreale e satira distopica, inoltrandosi nei meccanismi del potere raccontati con una tagliente vena ironica.

fantasmi; tanto che alla fine ne risulta un racconto ancor meno affidabile di quello della madre. Noto a questo proposito un paio di elementi: la lima-

Diego Bernasconi

L’uomo che perde i pezzi

Be Strong Edizioni

Null’ultimo romanzo di Diego Bernasconi si può morire di burocrazia, rinascere in una sessione di meditazione collettiva e scoprire che l’unico vero conforto è una raclette condivisa. Il noto sceneggiatore teatrale di Mendrisio, in questa sua terza prova editoriale, spalma una brillante mistura di comicità surreale, infarcita di teorie sul Litio e umanissime fragilità. Il romanzo si apre con una sequenza da setta new age, ma presto si trasforma in un affresco tragicomico dell’uomo medio svizzero, alle prese con sussidi agricoli, aperitivi stantii e drammi familiari. Nel mentre l’autore padroneggia elenchi degni di Perec sotto acido: contributi, fiori, animali e alcolici si rincorrono come in un inventario poetico dell’assurdo. Il tono, sempre sul filo del grottesco, lascia affiorare momenti di malinconia e tenerezza.

tura operata sugli scarti linguistici tra le varie voci – pur presenti – mi sembra programmaticamente orientata a incrinare l’impianto di una narrazio-

Monica Piffaretti

Le idi di giugno

Salvioni Edizioni

Ci sono segreti così oscuri che chi pensava di esserne uscito indenne è pronto a uccidere anche dopo decenni per tenerli sepolti. Ciò che accadde quella notte sul treno è uno di quelli difficili da smascherare, compito che spetta proprio alla nostra detective ticinese Delia Fischer. Ambientato nel tormento del regime franchista, Le idi di giugno è un romanzo giallo-noir, la cui trama si svolge tra la Spagna e la Svizzera e racconta il movimentato viaggio verso Ginevra di quattro ragazzi in fuga dalla politica dittatoriale. Partiti da Barcellona, però, dei quattro studenti solo tre arriveranno a destinazione. Cosa sia accaduto al leader del gruppo su quel treno sta a Delia-la-Segugia scoprirlo. Non mancheranno gli ostacoli e i colpi di scena, ma con l’aiuto di una cliente molto speciale della Fischer investigazioni, la Catalana, Delia si farà forza affinché giustizia sia fatta.

L’ultimo libro di Monica Piffaretti, le idi di giugno, chiude il quadrittico delle stagioni di Delia Fischer, insieme all’inverno con Rossa è la neve, l’autunno con Nere foglie d’autunno e la primavera con La memoria delle ciliegie. Chissà se la Detective Fischer tornerà con altri nuovi misteri da risolvere…

una parola «che resta sempre al di sotto dello sguardo e dell’intenzione»); Pietro scivola fuori dal letto coniugale, scende nello studio e riprende tra le mani una cartelletta su cui sta scritto Storia di mia madre, quasi a mostrare un personaggio ancora impantanato in un grumo di tensioni famigliari stratificate e irrisolte (i suoi figli, ammesso che ci siano, non sono peraltro mai nominati).

ne polifonica e mimetica (la badante rumena Violeta mostra ricercatezze espressive incongrue per un personaggio condannato all’umiliazione di

Giovanni Soldati

L’impazienza della falena

Fontana Edizioni

Chi ha paura del buio non dovrebbe leggere gialli. O forse sì, se il buio è quello dove si aggira la falena di Giovanni Soldati: creatura notturna, ostinata, fragile, che cerca la luce sapendo che potrebbe bruciarla. L’impazienza della falena ci consegna una commissaria Adriana Veri vulnerabile e affilata, colpita da un agguato e circondata da una squadra smarrita che deve decifrare il mistero e reinventarsi senza la sua guida. Soldati affina il suo stile, restando fedele alla commistione tra indagine, introspezione e malinconia. A contare non è solo il colpo di pistola, ma ciò che lo precede: un malessere, un’urgenza, un volo scomposto. Il romanzo indaga il lato in ombra dell’identità, il punto cieco tra coraggio e inquietudine.

Un nuovo tassello in una saga che mette a nudo più cuori che indizi.

Pietro ripercorre la vita di Elena sempre in bilico tra slanci di affetto e gelosia, risentimento e senso di colpa, arrivando infine a considerarla come una «madre-coetanea» al cui lutto non sembra preparato («Un prendisole azzurro lascia scoperte le spalle e le braccia, con la pelle flaccida, cascante. Pietro chiude gli occhi»). Il padre Ernesto appare come un personaggio ingombrante nella sua distanza («Non c’è niente da fare» pensa Pietro, «il termine di confronto è sempre lui»), dimidiato – come il figlio – tra bisogno di piacere e paura di essere ignorato. Il fratello Luca – la cui patologia occupa quasi totalmente lo spazio e l’orizzonte famigliari – suscita sentimenti più complessi, tra rivalità e dipendenza reciproca. Con tutti e tre Pietro sembra instaurare una serie di rapporti che si giocano però soprattutto sul piano della letteratura: Elena decide di studiare Lettere per «diventare sé stessa»; Ernesto, professore come il secondogenito, aveva in progetto di scrivere un romanzo; Luca anestetizza la realtà attraverso la lettura e la scrittura. Le ossessioni di Pietro sembrano riflettersi anche sulla famiglia di origine di Elena: la madre, che – presto vedova – lascia nella casa di Bellagio la figlia tredicenne per un periodo di villeggiatura «col signor Luigi» (e che Elena abbandonerà a sua volta anzitempo al capezzale per tornare a occuparsi di Luca); il fratello, deluso dal-

Fabio Pusterla Fiumi nefrite vortici Marcos y Marcos

Un filo sottile lega il vissuto personale a una riflessione sul presente collettivo. In Fiumi nefrite vortici, ultima raccolta di Fabio Pusterla, si trovano intrecciati dati scientifici e immagini poetiche, che restituiscono una voce in bilico tra urgenza etica e scavo intimo. I temi si alternano: l’Occidente smarrito, i conflitti in Ucraina e Medio Oriente, il degrado ambientale, l’egoismo diffuso – ma anche l’età che avanza, la memoria, i nipoti. Tale tensione genera un verso limpido e denso, dove il confronto tra resistenza e stanchezza si fa forma. Lo dimostra la poesia-emblema del libro: «Sul ciglio di qualcosa, rivolo o scarpata, / tra macchie cupe di rovi e viluppi d’ortiche / non si sa come spunta un giglio / rosso. Fiore d’argine e fosso, / rosso di lingua antica, / dice di andare avanti / dice che la fatica non è mai troppa per chi non rinuncia / a vivere la vita». Il giglio, solitario e vitale, diventa figura della perseveranza: un gesto lirico che nasce nel contrasto tra debolezza fisica e disciplina formale. A dominare è uno sguardo vigile, che registra degrado e derive politiche, ma non rinuncia al conforto dell’affetto e del linguaggio come atto di fiducia. La poesia, qui, è strumento di resistenza contro l’erosione della realtà.

fantasmi

contrastanti e l’esigenza di racconto

la scarsa considerazione del padre; le cognate, entrambe divorate da sentimenti contraddittori. E poi, in una serie di cerchi concentrici vieppiù ampi, i fantasmi di Pietro si proiettano anche su attori laterali nella vita di Elena, figure curanti che appaiono tuttavia più fragili rispetto ai loro assistiti, e nelle cui parole la donna appare sempre sessualmente connotata (non proprio una questione irrilevante, per un personaggio che a un certo punto ha dovuto fare i conti con i corpi e non ha più potuto rifugiarsi solo nelle parole).

Il racconto di Pietro è insomma attraversato da giochi di specchi e da rifrazioni continue (Elena che decide di parlare allo psicanalista come se fosse Luca, «per interposta persona»); da ambiguità sulla voce narrante («Ricucire i lembi della sua vita in una trama credibile, capace di resistere agli strappi della vecchiaia che incombe, sarà più difficile di quanto prevedeva»: è Elena a essere in difficoltà nel raccontare la propria storia o Pietro nel ricostruire quella della madre?).

Né sono irrilevanti – in questa prospettiva – le sette occorrenze della parola «palcoscenico» (e annessa isotopia), che sembrano davvero indicare come il regista Pietro stia allestendo un romanzo-teatro, una cornice letteraria – manifestamente esibita nella costruzione – che permetta di dare senso alla complessità dei suoi abissi. Così credo si spieghino la rigida strutturazione del libro (due parti di eguale lunghezza, internamente segmentate e intervallate da un prologo, un intermezzo e un epilogo); le riprese per anadiplosi tra i capitoli (a suggerire i moti dell’animo e le associazioni mnemoniche di Pietro); la fitta tramatura di passi letterariamente mediati (Pietro scrive un libro citandone altri, un atto di fiducia nella letteratura e nella sua possibilità – come nel caso

dell’insorgere della malattia di Luca – di ridire le cose con parole altre); la ricorrenza di alcuni oggetti (le pagine con la grafia ondeggiante di Elena) ed elementi linguistici (i periodi, sintatticamente compiuti nella loro reticenza, «Mentre lei» e «Mentre tu», distanti quattro pagine l’uno dall’altro). Soprattutto, appaiono evidenti le simmetrie tra le zone liminari del libro. L’esergo di Luzi – che sembra alludere a un disfacimento (poi reso, nello scorrere delle pagine, dalla precisione con cui sono indicati i numeri civici delle varie case in cui ha vissuto Elena) – si riverbera sui versi di Rilke della chiusa, in cui trova una spiegazione anche il titolo.

Il romanzo si riavvolge allora su sé stesso rimandando alla dichiarazione programmatica enunciata in copertina: il tentativo cioè di dare senso alle «macchie azzurre» di cui si compone il poliedrico personaggio di Elena sistemandole entro la cornice unitaria di «una sera d’estate»; in un macrotesto in cui le spinte centrifughe possano incarnarsi senza escludersi e la scelta delle parole risponda a esigenze nobilmente conoscitive (sulla qualità, altissima, del tessuto stilistico andrebbe fatto un discorso che qui non è possibile neppure abbozzare).

Pietro sta tutto in quella virgola che separa le due parti del titolo, nel tempo necessario all’allestimento di un canzoniere in prosa che lo faccia sentire meno «mediocre». Nessuna pacificazione, dunque, ma una provvisoria tregua con i propri fantasmi. Se Giovanni Fontana scriverà un nuovo romanzo, significa che saranno tornati a farsi sentire.

Bibliografia

Giovanni Fontana, Macchie azzurre, in una sera d’estate, Castelvecchi, 2025, pp. 176

Paradiso e dintorni

Appunti sull’aldilà ◆ Una riflessione a più voci sul dopo-vita nell’ultimo libro di Giuseppe Zois

«Dopo oltre cinquant’anni di giornalismo, partito – come molti – da abbondanza di certezze, mi ritrovo avvolto dallo spaesamento, dentro una selva di dubbi, inquietudini, domande alle quali non è facile o forse anche impossibile trovare risposte». Arrivo a pagina 52 dell’ultimo libro di Giuseppe Zois, giornalista assai noto in Ticino, già direttore de «Il Giornale del popolo», per incontrare l’uomo di fede e di dubbi che, da poco travolto da un grave lutto famigliare (al quale peraltro non fa mai cenno nel testo) si interroga «su quello che si prospetta nel dopo-vita, paradiso e dintorni».   Un volumetto – Nella traversata della vita. Dal dolore alla speranza (Villadiseriane, 2025, pp. 168) – denso e impressionistico nel quale l’autore sfrutta il proprio abbondante materiale costruito in decenni di «incontri, conversazioni, interviste con educatori, precettori, sociologi, psicoterapeuti, esperti di filosofia, donne e uomini del credere», per raccontare le nebbie del dolore che colpiscono, prima o poi, ognuno di noi e gli spiragli di luce che ogni tanto le fendono.

Abitare poeticamente il mondo

Editoria ◆ Nel suo nuovo libro, Per una vita autentica, Lina Bertola invita a riscoprire l’ascolto dell’anima e il legame profondo con il sacro

Barbara Manzoni

In estate il tempo rallenta, un po’ perché il caldo intorpidisce i nostri giorni un po’ perché finalmente ci concediamo pause dal lavoro più lunghe del solito. È la stagione giusta per dedicarci all’esplorazione di quel territorio che troppo spesso trascuriamo che è il nostro mondo interiore. A prenderci per mano in un viaggio che riporta la nostra attenzione su «quell’umano che ci abita nel profondo» è Lina Bertola con il suo ultimo libro intitolato Per una vita autentica. Coltivare l’intimità con noi stessi e con il mondo (Armando Dadò editore). «Siamo anime stanche – scrive la filosofa – che vivono sulla superficie del tempo, in un’agitazione permanente che mobilita gesti e pensieri, senza pause, senza soste. Tutto deve accadere in tempo reale, in un flusso perpetuo e ripetitivo che ci chiede di funzionare bene. I tempi del lavorare si mescolano sempre più spesso con quelli del riposo e anche il tempo libero si trasforma facilmente in una forma di lavoro: dobbiamo divertirci… Il rischio di perdere il contatto con la nostra dimora interiore è davvero grande».

Ma da dove iniziare l’esplorazione del nostro mondo interiore? Lina Bertola suggerisce alcuni sentieri, tutti presuppongono una predisposizione all’ascolto o meglio all’osservazione di ciò che ci circonda. Per la filosofa, un atteggiamento pronto allo stupore, alla curiosità e all’accoglienza nei confronti della realtà è indispensabile per ricongiungerci al nostro io più intimo. E concretamente questo si avvera quando ripartiamo dal «sapere del cuore», che, avverte subito Bertola, non ha nulla a che vedere col sentimentalismo ma al contrario «è una forma di conoscenza intuitiva in cui si esprime con forza la passione per la verità», è, insomma, un sentire che nutre il pensare. Bellissimo qui l’invito che Lina Bertola rivol-

ge al lettore ad «abitare poeticamente il mondo» perché scrive «è questo il senso originario della poesia: qualcosa che ci chiama con la sua bellezza a esplorare i sentieri dell’anima».

Ed eccole allora due vie che possiamo percorrere in questo viaggio negli aspetti più intimi dell’umano: l’ascolto dell’anima e l’esperienza del sacro. Nel capitolo dedicato all’ascolto dell’anima l’autrice si fa accompagnare dalla filosofa spagnola Maria Zambrano che, scrive Lina Bertola, con i suoi scritti ci porta verso il sapere dell’anima, verso un sapere che accoglie ed esprime «l’ordine della nostra interiorità». Nelle pagine dedicate all’esperienza del sacro le possibilità sembrano poi moltiplicarsi perché il sacro «può venire ad abitare il nostro mondo interiore in tanti modi», può rivelarsi nelle piccole cose attraverso la contemplazione o la poesia. E qui si moltiplicano anche i compagni di viaggio: Simone Weil, Umberto Galimberti, Christian Bobin.

Ad arricchire il denso volumetto ci sono tre «Interludi», riflessioni personalissime e intime di Lina Bertola, il cui tono risuonerà familiare ai lettori che sono abituati a seguire le sue riflessioni sulle pagine di «Azione» nella rubrica mensile Approdi e derive. Infine l’autrice affida un «Epilogo» ad altre voci. Invita, infatti, tre amici con i quali condivide «molti luoghi dell’anima» a «provare a dare parole a questo rivelarsi del sapere del cuore». Sono il poeta Leopoldo Lonati, la pittrice Carolina Nazar, e il sacerdote don Luigi Pessina. A loro Lina Bertola affida il compito di donare parole a ciò che viene prima della parola, prima del gesto, prima della preghiera. Un compito che l’autrice sembra affidare anche a tutti i lettori.

Bibliografia

Lina Bertola, Per una vita autentica, Dadò editore, 2024, pp 104

Vuoto di sangue nelle

vene

Romanzo in versi ◆ La testimonianza lirica di Noè Albergati attraversa la colpa, il lutto e il tempo

Tra i compagni di strada raccolti attorno al suo itinerario riflessivo, appaiono con ampie citazioni anche numerosi ticinesi: dalla filosofa Lina Bertola ai vescovi emeriti Pier Giacomo Grampa ed Eugenio Corecco, dallo psichiatra Graziano Martignoni (che firma la prefazione) all’ex procuratore Antonio Perugini, al teologo Sandro Vitalini.

Ne esce una riflessione appassionata a più voci, dolente e al contempo speranzosa, tra poesie, ragionamenti laici, visioni spirituali e preghiere. Non c’è retorica cimiteriale, ma confronto franco e vertiginoso col mistero del dolore e della morte, soprattutto della morte prematura. Incontriamo di pagina in pagina i maestri del post-Concilio, ma anche compagni di viaggio che non ti aspetteresti, da de Gregori che riflette sulla vedovanza a Dacia Maraini che forse riassume in una frase il senso universale di questa ricerca: «Per me il tempo, l’universo, la sacralità della vita costituiscono un mistero che non so risolvere. Accetto il misero e mi adeguo al suo enigma». / C.S.

L’ossessione di lei, apparentemente incomprensibile, per il proprio naso arrossato (per rosacea forse, forse per cuperose cronica) è l’avvio sorprendente di Cemento e vento, doloroso primo romanzo in versi del malcantonese Noè Albergati, pubblicato da Gabriele Capelli. È la storia vera di una coppia che si perde («Faccio fatica a raggiungerti / anche standoti accanto, anche nel sollievo di un abbraccio / come su due piani paralleli sfugge l’incontro»). Perché, a partire da quel piccolo dettaglio del naso, lei non si riconosce e non si accetta più, va in depressione, affronta un ricovero in ospedale controvoglia, fugge dai farmaci («se peggioro li riprendo»), mentre lui vede sfilacciarsi il loro rapporto tra finzioni e illusioni che tutto vada bene («abbiamo anche ritrovato / quasi / la vecchia complicità / rincorrendo aurore boreali…»).

Ma la tragedia è dietro l’angolo. Un giorno di marzo lei non ce la fa più e si lancia dalla diga della Verzasca («cemento e vento / vuoto / poi roccia e acqua ghiacciata (…) sette

anni precipitati e infrantisi / in mille ricordi malinconici, / elisa la tua voce dal mio futuro / a cui ora non so che suono trovare»).

La voce narrante di lui diventa allora sgomenta testimonianza del dopo («perennemente ubriaco di dolore / sento solo caldo tremiti e muscoli contratti. / Non vivo al tempo de-

gli altri…») tra amore perduto, occhi che lo indagano («mentre cerco di non sentirmi smarrito / – tu sradicata – a disagio nei miei gesti consueti / tra la gente – Mi sento la diversità dipinta sulla pelle / nuda e vulnerabile agli sguardi»).

Col ricordo dell’ultima frase rivolta a lei, («vai dove cazzo ti pare»), in un momento di stizza, l’ultima che lei avrebbe sentito prima di farla finita («e tu senza più ritorno / sei andata davvero / e io che proprio non pensavo a quel luogo […] sento come un vuoto di sangue nelle vene / un’acqua che preme in gola alle tempie dietro gli occhi / a immaginarti seduta in macchina / intenta a radunare il coraggio o la disperazione»).

E poi la speranza e il dovere della rinascita, che lasciamo scoprire ai lettori. È un pugno nello stomaco il palpitante, vertiginoso romanzo in versi di Noé Albergati. Non se ne esce indenni. / C.S.

Bibliografia Noè Albergati, Cemento e vento Capelli Editore, 2025, pp 112

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Battibecchi

Trentasettemiladuecento copie

Suona il telefono. Rispondo.

«Il mio nome è Neil Rampazzo», dice Neil Rampazzo. «Lei è Mozzi?».

«Sono Giulio Mozzi», dico. «Buongiorno, Giulio», dice Neil. «Buongiorno, Neil», dico. «Sarò di poche parole», dice Neil. «La ascolto», dico. «Non mi interrompa», dice Neil. «Ho scritto un romanzo. Non sono né il primo né l’ultimo. Lo so. Il mio romanzo è un buon romanzo. Non eccezionale. Non straordinario. Non un capolavoro. Un buon romanzo. Glielo manderò perché lei lo legga. Le telefonerò tra due settimane». «Si dice “per piacere”», dico. «Eh?», dice Neil. «Mi sta chiedendo di lavorare per lei», dico, «e le ho detto che un “per piacere”, nella sua richiesta, ci stava tutto». «Mi risulta che leggere sia il suo mestiere», dice Neil. «Vuole una consulenza?», dico. «Mi chiede soldi?», dice Neil.

Pop Cult

«Desidera il mio parere sul valore del suo romanzo?», dico.

«No. So già che è un buon romanzo», dice Neil.

«Dunque», dico, «che cosa vuole?». «Pubblicarlo», dice Neil. «E presso quale editore?», dico. «Uno qualunque», dice Neil. «Einaudi o Adelphi». «O magari tutt’e due», dico. «Se si può fare, ben venga», dice Neil. «No», dico, «non si può fare». «E allora perché me lo propone?», dice Neil.

«Stavo scherzando», dico. «Giulio, io sono una persona seria», dice Neil. «Non mi faccia perdere tempo con i suoi giochetti». «È disposto a considerare editori che non siano Einaudi o Adelphi?», dico. «Ho scritto un buon romanzo», dice Neil. «Voglio un buon editore».

«Ma, per dire», dico, «Rizzoli, Nutrimenti, Neri Pozza, Guanda…». «Mai sentiti», dice Neil.

«Lei in casa ha solo libri Einaudi o Adelphi?», dico.

«Io non ho libri», dice Neil. «Ma ne ha letto qualcuno?», dico. «Piccole donne», dice Neil. «Da ragazzino».

«E poi?», dico.

«Niente», dice Neil. «Si sa come sono fatti i romanzi. Visto uno, visti tutti».

«Lei mi sembra una persona piuttosto sicura di sé», dico.

«So quello che voglio», dice Neil. «So che cosa so fare. So che cosa ho fatto». «E sa cosa vuole dal romanzo?», dico. «Voglio venderne trentasettemiladuecento copie», dice Neil.

«Non trentottomila?», dico.

«Non credo sia possibile», dice Neil. «Ho fatto i miei conti».

«Lei ha studiato il mondo editoriale italiano?», dico.

«No», dice Neil. «E allora, scusi», dico, «che razza di conti ha fatto?».

«Ho chiesto a ChatGPT», dice Neil.

«Ah», dico. «E ChatGPT le ha fatto questa previsione di vendita».

«Sì», dice Neil. «E ChatGPT le ha anche fornito il giudizio sul romanzo?», dico.

«Sì», dice Neil.

«E lei si fida di ChatGPT?», dico. «Giulio», dice Neil. «Mi dica», dico.

«Lei è uno intelligente», dice Neil. «Mah», dico. «In ChatGPT è concentrato l’intero scibile umano», dice Nei. «ChatGPT ha confrontato il mio romanzo con tutti i romanzi che conosce. ChatGPT conosce tutti i romanzi. Lei ha letto tutti i romanzi?».

«Non le è venuto in mente che ChatGPT volesse solo compiacerla?», dico.

«ChatGPT non vuole niente», dice Neil. «Non è umana. Quindi non può volermi compiacere».

«È programmata da umani», dico. «È programmata da centinaia, da migliaia di menti umane», dice Neil.

Quando la religione incontra la fiction d’alta qualità

Una delle immagini più intriganti recentemente offerte dalla cosiddetta cronaca mondana (per intenderci, quella che ormai si esprime quasi esclusivamente sui social network) è stata un selfie piuttosto singolare, a cui, a quanto pare, Papa Leone XIV teneva molto: una foto di gruppo in cui il Pontefice è circondato dai membri principali del cast del celeberrimo telefilm americano The Chosen, successo planetario di proporzioni epiche ormai giunto alla sesta stagione e i cui ultimi episodi sono stati da poco girati proprio in Italia, a Matera. Una serie televisiva che negli Stati Uniti (e non solo) è diventata un vero e proprio fenomeno culturale, trascendendo ampiamente il semplice profilo mediatico del prodotto; e il motivo principale sta nel fatto che il protagonista di The Chosen non è il solito personaggio di fantasia creato ad arte da

Xenia

esperti sceneggiatori – magari un investigatore, un supereroe o un agente segreto – ma colui che è da sempre il punto di riferimento di un’intera religione, la quale conta milioni di seguaci nel mondo: nientemeno che Gesù Cristo, anche noto come Gesù di Nazareth. O meglio, un’immagine totalmente inedita di colui che ha dato nome e volto al cristianesimo per come lo conosciamo ancor oggi. Sì, perché la grande intuizione di Dallas Jenkins, creatore della serie, è stata quella di re-immaginare una versione di Gesù diversa da tutte quelle che l’hanno preceduta in innumerevoli film hollywoodiani, miniserie e perfino musical hippie: una rivisitazione della figura cristica in cui il lato umano vincesse su quello divino, al punto da fare del cosiddetto Messia un nostro prossimo — qualcuno in cui tutti possano riconoscersi, e con cui risul-

ti incredibilmente facile relazionarsi. In altre parole, una figura per molti versi perfetta per quest’epoca e per le necessità del pubblico odierno, e che, come in una sorta di transfert psicanalitico mediato dal piccolo schermo, possa in un attimo assumere le vesti e sembianze di colui di cui ognuno di noi avverte maggiormente il bisogno – sia questi un mentore, un amico, un fratello o un confidente. Un meccanismo reso possibile anche e soprattutto dal carisma emanato dall’attore statunitense Jonathan Roumie, fervente cattolico, pastore laico e conferenziere, palesemente destinato fin dall’inizio della sua carriera a ruoli di stampo messianico (nel 2023 è stato protagonista anche del film biografico Jesus Revolution). Ecco quindi che la figura religiosa per eccellenza del mondo occidentale diventa la star di un fenomeno (non solo

mediatico) da milioni di follower: un vero e proprio culto, che ha addirittura causato innumerevoli conversioni tra spettatori fino a quel momento completamente disinteressati a qualsiasi forma di credo – scatenando perfino una capillare operazione di marketing in cui, forse per la prima volta nella storia, il logo di un brand televisivo è stato associato a prodotti quali quaderni di preghiera, devozionali e rosari. Ed è proprio questa curiosa e inedita commistione di sacro e profano a stupire e affascinare legioni di commentatori, giornalisti e sociologi, soprattutto considerando come, all’inizio, nessuno avrebbe scommesso un centesimo sul possibile appeal di un telefilm incentrato sui Vangeli (l’intera prima serie venne realizzata esclusivamente grazie al crowdfunding). Eppure, oggi l’incredibile caso rappresentato da The Chosen dimostra

«Lei pensa di saperla più lunga?». «Per carità», dico. «Per carità sì o no?», dice Neil. «Per carità no», dico. «Non penso di saperla più lunga di ChatGPT». «Dunque non faccia storie, Giulio», dice Neil. «Ora le mando il mio romanzo. Pensa di potermi far avere un’offerta entro due, tre settimane?». «Solo una domanda», dico. «E la dica», dice Neil. «Il romanzo lo ha scritto lei», dico, «o l’ha scritto ChatGPT?». «Le ho detto esattamente che cosa fare», dice Neil. «Non c’è una sola parola che non avrei potuto scrivere io». «Allora perché non l’ha fatto?», dico. «Giulio», dice Neil, «per andare da Milano a Torino, che fa? Va a piedi?». «Prendo il treno», dico. «Ecco: esattamente», dice Neil. «Io ho preso il treno. Allora le telefono tra due settimane. Mi raccomando. Un editore qualsiasi, basta che sia buono. O Einaudi o Adelphi».

quale immenso potere il mezzo narrativo offerto dalla fiction di buona qualità possa rappresentare: in altre parole, di come una storia ben raccontata – che offra allo spettatore la possibilità di un profondo coinvolgimento emotivo tramite l’empatia provata verso personaggi ben caratterizzati e l’esempio positivo offerto dal protagonista di turno – possa influenzare cuori e menti ben oltre i confini del semplice intrattenimento. Perché, forse, ciò che davvero ricerchiamo quando ci sediamo davanti al televisore va ben oltre il semplice desiderio di evasione: tramite il potere delle storie, aneliamo anche a un riconoscimento della nostra umanità e fragilità, a un modo di lenire il dolore causato da un mondo spesso troppo duro per le nostre sole forze – e, perché no, a un irrinunciabile senso di speranza.

[Segue dal numero 30 di «Azione»] Ma Pietro voleva che il mondo intero ricordasse per sempre la straordinaria Sitti Maani. Il 27 marzo 1627 allestì nella chiesa dell’Ara Coeli un catafalco circolare in legno dipinto: l’apparato effimero era sormontato da una corona d’oro tempestata di finte gemme, sorretto da sculture delle Virtù, fra stemmi, sigilli siriaci, teschi, il ritratto e dodici epitaffi in altrettante lingue. Il funerale, sorta di sacra rappresentazione con «pompa solenne», fu talmente stravagante che se ne parlò per decenni. L’amico Girolamo Rocchi ne pubblicò la relazione, e Della Valle stesso diede alle stampe l’appassionata orazione funebre. Il ritratto di Sitti Maani era basato su quello del fiammingo Giovanni Lucassen, ingaggiato da Pietro a Costantinopoli perché documentasse le sue esplorazioni e i ritrovamenti archeologici. Lo aveva spedito a Roma,

incompiuto, dopo la partenza del pittore, per presentare – intanto in effigie – la sua sposa. Occhi scuri, sguardo altero, indossa un caffettano, di seta, con larghe maniche; alla cintura il khanjar, pugnale arabo col manico d’oro. Un copricapo chiuso sotto il mento le copre i capelli neri. Non ha la pelle «brunetta» né gli occhi bistrati con lo stibio, che invece Pietro vantava per lettera. Orientale esotica, ma già adattata al gusto europeo. In seguito, lontana ormai la stagione epica della vita, Pietro – stimato trattatista di politica internazionale, musicologo, linguista, orientalista, padre di famiglia e costernato assassino di un garzone svizzero dei Barberini che aveva insultato il suo staffiere indiano – volle pubblicare le lettere scritte a un amico napoletano dalla Turchia, dalla Persia e dall’India. I tre volumi (ma lui morì nel 1652 e ne vide a stampa solo il primo) divenne-

ro il libro di viaggi più letto del Seicento. Sitti Maani è la protagonista delle pagine più avvincenti. Usa arco e archibugio, sa difendersi da leoni e predoni. Dotata di fine giudizio e memoria, parla arabo e armeno, capisce il curdo, il turco e il georgiano, impara il persiano, studia il portoghese, l’indiano e l’italiano. Ma conosciamo la sua voce solo attraverso di lui: lo scartafaccio con le storie, gli aneddoti e le sagge osservazioni «uscite dalla sua bocca» andò perso in mare durante il trasbordo su una goletta inglese, nel 1623. Resta la trascrizione del suo sogno profetico: un Franco entrava nella sua stanza per portarla via. Quando il giorno dopo, nella fresca ombra di un sotterraneo di Baghdad, incontrò Pietro, lo riconobbe: era lui il Franco. Gli offrì un pomo cotogno. Aveva diciotto anni. Per Pietro, già acceso dai racconti sulla ragazza, fu amore a prima vista. Forse anche per Sitti Maani.

Della Valle era un affascinante occidentale di trent’anni con barba alla turca, reduce dalla guerra di corsa alle Kerkennah, dal pellegrinaggio in Terra Santa e da vagabondaggi in Egitto; intrepido, generoso, poliglotta. Curioso del mondo, irrequieto, impaziente, viaggiava per «desiderio di vedere paesi e costumi diversi», ma anche con ambizioni diplomatiche e religiose. Si parlavano in latino. Le resistenze dei genitori di lei durarono poco. Si sposarono, esplorarono insieme i siti archeologici sul Tigri e Ctesifonte, e appena tre mesi dopo le nozze Pietro la portò con sé in Persia: Sitti Maani lasciò famiglia, patria, lingua, religione e lo seguì. Dopo un viaggio avventuroso nella Jezirah e tra le nevi del Kurdistan, Pietro si stabilì a Isfahan, presso la corte di Abbas II. Lei, sempre accanto: cavalcando all’amazzone partecipò pure alle campagne militari dello scià contro i Turchi. Incarnazione di

Clorinda, l’eroina di Tasso, Pietro la soprannominò «la Guerriera». Coraggiosa, intelligente, sua segretaria e fida consigliera: la celebrò in vita e in morte come una «meraviglia» (le dedicò pure 27 componimenti: un Canzoniere). Sitti Maani si sarebbe ambientata, a Roma, come la sua ancella georgiana, di cui vi racconterò. Ma doveva restare la sposa cadavere, la misteriosa straniera – insieme trofeo e reliquia – che il poeta-scrittore aveva condotto a casa. Attendeva la resurrezione nell’Ara Coeli, scrigno di affreschi, pitture, marmi, mosaici di inestimabile pregio, nonché del Bambinello – la statua che esaudisce ogni speranza. Ma oggi la sua tomba è dispersa. Della giovane assira, romana per sempre, restano il ritratto, e le parole che le ha consacrato Pietro: da cui ancora si sprigiona lo strazio di un sogno interrotto, l’utopia della fusione di due anime e corpi diversi eppure uguali.

di Benedicta Froelich
di Giulio Mozzi
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Playmobil nella vita reale

I nuovi set Playmobil da collezionare riproducono scene dell’universo Migros. Abbiamo scovato persone in carne e ossa che assomigliano ai personaggi come due gocce d’acqua.

Testo: Angela Obrist, Silvia Schütz, Pierre Wüthrich, Edita Dizdar Foto: Juliius Hatt

Campo di verdure

Christian Herrli, 44 anni, vicedirettore dell’azienda orticola Seeland Bio a Ried bei Kerzers (FR)

«Sono cresciuto in un’azienda orticola. Quello che mi piace del mio lavoro è che la sera vedo i risultati della giornata: quantità di ortaggi raccolti e quantità di piantine messe a dimora. Coltiviamo 32 diversi tipi di ortaggi.

Con 65 persone in organico, trattori e innumerevoli macchine curiamo una superficie pari a circa 80 campi da calcio. I proprietari Marcel e Bruno Christen hanno rilevato l’azienda di famiglia dai genitori e la gestiscono con grande dedizione. La carriola viene utilizzata solo per raccogliere a mano il formentino. Ma per me è proprio questo lavoro manuale il più bello».

Logistica

Tyra Bornhauser, 20 anni, dettagliante di Bühler (AR)

«Ho svolto il terzo anno di apprendistato alla filiale di apprendisti Migros Stadtbühlpark di Gossau, dove gli apprendisti lavorano in vari reparti, spesso anche nel magazzino. Spostare i pallet con il carrello elevatore, trasportare la merce dal camion nel negozio e ricaricare le cassette vuote rientravano fra le nostre mansioni, fisicamente impegnative perché richiedono forza e abilità. Una volta si è ribaltato un pallet di bottiglie, per fortuna erano di plastica».

Sui campi di Christian
Herrli Feldern crescono 32 varietà di verdura

Ecco come funziona

Fino al 22 settembre ricevi un bollino per ogni 20 franchi spesi, sia in modo tradizionale per la cartolina di raccolta, sia digitalmente tramite il carnet di stampini nell’app Migros. Per effettuare la raccolta digitalmente, è necessario attivare il carnet di stampini nel portafoglio dell’app e scansionare la carta Cumulus al momento dell’acquisto. Una cartolina di raccolta completa, ovvero con 20 bollini, può essere scambiata entro il 29 settembre con uno dei cinque set da gioco Playmobil, fino a esaurimento dello stock. I bollini sono disponibili in tutti i supermercati Migros, presso i partner Migros, VOI e facendo acquisti su Migros Online. Maggiori informazioni su:

Fabbrica di cioccolato

Jana Plüss, 20 anni, operatrice di linee di produzione alla Delica, Buchs (AG)

«Anche l’apprendistato l’ho svolto qui a Buchs. Sono sette anni che faccio questo lavoro nel settore del cioccolato. Mi piace, anche se in realtà sono ogni giorno sullo stesso impianto. Il fatto è che quando vengo al lavoro, non so mai di preciso cosa mi aspetta, per cui è comunque un lavoro variegato e interessante. Sapere che la nostra produzione è di qualità, che posso assumermi delle responsabilità e giostrarmi in modo

Contadino con animali

Julien Faivre, 31 anni, produttore di uova bio a Montignez (JU), sposato, tre figli

«Nella nostra famiglia siamo agricoltori da generazioni. Anch’io volevo lavorare nella fattoria. I miei genitori coltivano cereali. Nel 2014 è stata mia l’iniziativa di produrre uova bio per creare un’ulteriore fonte di reddito. Non mi pento della mia decisione: mi piace prendermi cura dei miei 4000 polli. Possono uscire al pascolo in qualsiasi momento. A differenza del lavoro nei campi, dove la siccità e la grandine possono compromettere inesorabilmente il raccolto, la pollicoltura non dipende dalle condizioni meteorologiche. È meno stressante».

Bicicletta da trasporto

Hintermann, 40 anni, con

«Viviamo in centro. Andiamo a fare la spesa come ci pare, cioè a piedi, con l’autobus o il tram oppure in bicicletta. Ogni tanto noleggiamo una bicicletta da trasporto. La prima volta guidarla non è una cosa immediata, ma una volta presa la mano, la bicicletta è davvero pratica, anche perché c’è posto per la spesa grossa! Nel negozio cerco di acquistare alimenti regionali e stagionali. Uno dei prodotti Migros che preferiamo è il gelato da passeggio alla panna e cioccolato con l’orso. Lo mangiamo anche in inverno».

Playmobil
Jeanine
il figlio Lucien (10), cliente Migros di Zurigo e madre di due bambini

CIAO TICINO

Mosaici, draghi, imperatrici e profeti

Si trova a Capalbio, in Maremma, il Giardino dei Tarocchi, progetto visionario di Niki de Saint Phalle che dà vita al museo a cielo aperto

Pagina 31

Pasta vegetariana espresso

Pappardelle condite con una salsa al gorgonzola e servite con spinaci freschi. Da assaporare molto lentamente

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Dove la leggenda non tramonta Storie e personaggi del West rivivono nelle parole di Dorothy Johnson, nelle immagini di John Ford e nelle partite a colpi di carte e dadi

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Colpi di pedale d’antan in gran compagnia

Adrenalina ◆ Il Mendrisiotto rianima le sue strade con La Belvedere, ciclostorica che sfoglia l’album del ciclismo d’epoca riunendo centinaia di appassionati

Moreno Invernizzi

Il Ticino del pedale ha scritto pagine importanti della storia del ciclismo. Presente e passato, anche remoto. E l’occasione per ridare colore a questo film, in particolare a quei fotogrammi ancora in bianco e nero che raccontano di epiche imprese sulle nostre strade, ce lo offre La Belvedere, che da diversi anni va in scena nel Mendrisiotto. Il tutto con la regia di Mandricardo Capulli, Andrea Bellati e Flavio Rusca, pronti… a scattare sui pedali per mettere in piedi la nona edizione di questa ciclostorica.

«Andrea ha alle sue spalle diversi anni di pedalate nel gruppo da professionista, mentre per Flavio e il sottoscritto la bicicletta rappresenta una passione. Che personalmente coltivo da anni, in particolare in qualità di collezionista», racconta Mandricardo Capulli. «Dal nostro comune amore per il pedale, nove anni fa è appunto nata La Belvedere, associazione senza scopo di lucro voluta per puntare i riflettori su una regione, il Mendrisiotto, che ha dato tanto al mondo del ciclismo. L’idea era quella di portare tutti gli appassionati del pedale sulle stesse strade e nella stessa regione in cui si sono illustrati i grandi campioni. E la rispondenza è stata subito enorme, al punto che il primo anno i parteci-

panti erano una sessantina o giù di lì. Cifra che anno dopo anno è cresciuta esponenzialmente, fino a sfiorare, da un paio di edizioni a questa parte, quota trecento».

Un bel po’ di partecipanti che annoverano anche chi è portatore di disabilità: «Affinché la nostra manifestazione possa essere identificata come una grande festa della bicicletta a 360 gradi, e non da ultimo inclusiva, da diversi anni collaboriamo con altre associazioni, fra cui gli InSuperAbili, con lo scopo di dare la possibilità a tutti, e dunque anche alle persone con capacità motorie ridotte, di potervi partecipare. Per questo abbiamo pure allargato il ventaglio delle due-ruote consentite alle mountain bike a pedalata assistita e alle handbike».

Chi vuole infine calarsi fino in fondo nello spirito della ciclostorica momò può farlo presentandosi al via con un tocco più «rétro»: «Per essere “in regola” con i parametri della ciclostorica, va ricordato che alla classica pedalata (non competitiva) sono ammesse le biciclette d’epoca, quelle con almeno quarant’anni di vita alle spalle, con i tubi dei freni all’esterno di manubrio e telaio e il cambio sul suo montante principale. Le biciclette “vere”, il cui ricordo viene conservato in un angolo

del nostro cuore. Anche perché la bicicletta, un tempo, non era solo un “attrezzo” degli sportivi o dei cosiddetti pedalatori della domenica, ma costituiva per gran parte della popolazione il principale mezzo di trasporto per recarsi al lavoro».

E vintage è anche il dress code che molti scelgono di sfoggiare in occasione de La Belvedere: «Il classico maglione di lana (proprio quello che appena indossato ti provoca un prurito che non ti togli di dosso finché non l’hai sfilato alla sera) non può mancare nel guardaroba dei veri affezionati della nostra manifestazione. La Belvedere non è però solo pedalare. È anche il piacere di stare assieme, di prendersi il tempo per godersi il panorama e le ricchezze che ha da offrire il Mendrisiotto, partendo dalle classiche osterie e passando ad esempio dal Colle degli ulivi, attraversando il Monte Morello, la Tenuta Montalbano e via discorrendo».

Le date da annotare con il pennarello rosso sono quelle di sabato 23 e domenica 24 agosto, il luogo è presto spiegato: «Il Medrisiotto è una regione che ha dato tanto al ciclismo. Sulle salite di questa regione hanno sudato alcuni grandi campioni del pedale. Penso ad esempio all’Acqua fresca, strappo di poco meno di 800 metri ma con una

pendenza media superiore al 10% che porta a Castel San Pietro. O alla mitica Torrazza di Novazzano, 1750 metri con una pendenza pure oscillante sul 10%, teatro della grande sfida dei Mondiali del 1971 tra gli indimenticati Felice Gimondi ed Eddy Merckx… Per quel che invece concerne i big del ciclismo che in questa regione hanno dato i primi colpi di pedale, non si può non citare Emilio Croci Torti, grande professionista dal 1946 al 1956. Posti e nomi che hanno reso grande il ciclismo, in una regione che, oltretutto, ha stretto un legame profondo con il mondo del pedale, prova ne è che il locale Velo Club vanta una storia ultrasecolare. Con la nostra ciclostorica abbiamo anche riscoperto capitoli di tradizione paesana che in molti conoscevano solo per averne sentito parlare da genitori o nonni». E qui, Capulli svela una chicca: «La famiglia Felappi ci ha fatto omaggio della bicicletta costruita nel 1948, marca Allegro, che si presume appartenesse a Fermo Redaelli, un ex campione momò del pedale. Noto ai più con il nomignolo “Nai” perché quando scattava lui, non ce n’era più per nessuno. Era appunto “nai”, come si usava dire in buon dialetto, e alla concorrenza non restava che mettersi il cuore in pa-

ce e rassegnarsi alle posizioni di rincalzo». Quella del Nai, a ogni buon conto, non è la bicicletta più “anziana” che si è presentata ai nastri di partenza della Belvedere: «Nelle edizioni passate abbiamo avuto appassionati provenienti dall’Italia che si sono presentati con modelli risalenti al 1920 o giù di lì. Ma la vera “veneranda” è quella di Augusto Schera, tra i fedelissimi de La Belvedere, che ogni anno si ripresenta puntuale con la sua Allegro costruita addirittura nel 1910».

Vince chi arriva per primo? «No, e tengo a ribadirlo: non si tratta di una pedalata competitiva, ma di uno stare in compagnia. E se non c’è una statistica di chi taglia per primo il traguardo, abbiamo però quella dell’ultimo arrivato, tanto alla partenza quanto all’arrivo: è il noto speaker radiofonico Paolo Guglielmoni, un fedelissimo de La Belvedere. In pratica ci regoliamo su di lui: quando prende il via Paolo, sappiamo che anche l’ultimo partecipante è in strada, e quando lo vediamo completare il percorso, annunciamo la chiusura della manifestazione».

Qual è il segreto che ha permesso a La Belvedere di arrivare alle porte del suo primo lustro di vita? «La passione e l’amore per la bicicletta: viva la bicicletta!».

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Un giardino esoterico nel cuore della Maremma

Itinerario ◆ Dal sogno di Niki de Saint Phalle, un luogo unico fatto di colori, simboli e visioni: 22 figure monumentali immerse nella natura che si possono toccare, esplorare e abitare

«Il mio giardino è un posto metafisico e di meditazione, un luogo lontano dalla folla e dall’incalzare del tempo, dove è possibile assaporare le sue tante bellezze e i significati esoterici delle sculture. Un posto che faccia gioire gli occhi e il cuore». Questa scritta accoglie il visitatore al Giardino dei Tarocchi ed è una frase di Niki de Saint Phalle, l’artista che ha creato questo museo a cielo aperto dove si incontrano Il Mago, La Papessa, la Ruota della Fortuna, la Luna e il Sole, il Mondo, la Stella, il Diavolo, il Profeta. Sono solo alcuni dei nomi delle statue all’interno del parco che si trova a Garavicchio, vicino a Capalbio, nelle campagne della bassa maremma Toscana. Tutte le statue, come dice il nome del Giardino, sono una rappresentazione multicolorata delle carte dei tarocchi. L’idea è nata, come detto, dall’artista francese Niki de Saint Phalle, ispiratasi (ed è evidente) soprattutto al celebre Antoni Gaudí e al suo Parco Guell di Barcellona, ma anche al Palazzo Ideale di Ferdinand Cheval e al Parco dei Mostri di Bomarzo.

La costruzione di questo Giardino inizia nel 1978, quando i principi Caracciolo regalano un pezzo di terra alla Phalle, già artista affermata a livello internazionale, per poter concretare la sua opera: 22 grandi sculture che rappresentassero gli Arcani Maggiori dei Tarocchi. Un progetto per la cui realizzazione si è andati avanti fino al 1995. Ma, come ha avuto modo di spiegare l’artista, l’idea covava in lei già da molti anni, quando da giovane venticinquenne visitò Barcellona. «Nel 1955 – scrive – andai a Barcellona e vidi per la prima volta il meraviglioso Parco Guell di Gaudì. Capii che mi ero imbattuta nel mio maestro e nel mio destino: tremavo in tutto il corpo. Sapevo che anche io, un giorno, avrei costruito il mio giardino di gioia, un piccolo angolo di paradiso. Un luogo d’incontro tra l’uomo e la natura». C’è anche la mano dell’architetto ticinese Mario Botta nella costruzione del Giardino. (Con lui Azione aveva visitato il parco, raccontando il suo rapporto con la Phalle in un articolo uscito il 28/11/2022). Botta e Roberto Aureli hanno disegnato il muro di cinta che rappresenta la divisione dalla realtà quotidiana a quella immaginifica, mentre l’ingresso – una grande apertura circolare - è la soglia da varcare per prendersi una pausa dalla vita di tutti i giorni per immergersi nella magia.

Alcune delle 22 statue all’interno del giardino superano i venti metri di altezza. Realizzate in cemento e ferro, sono rivestite di mosaici colorati in vetro e ceramica. Appena si entra, si viene colpiti dalla miriade di colori:

ceramiche arancioni, blu mare, bianco, giallo, rosso. O da piccoli pezzi di specchi che riflettono i raggi del sole, come nella Casa dell’Imperatrice, che per anni fu studio e casa dell’artista. I viali ben curati permettono di visitare con calma il museo. E panchine all’ombra dei pini accolgono le famiglie per una sosta.

Mi siedo in una di queste e scopro come per i bambini il Giardino dei Tarocchi è un magico parco dei divertimenti in cui creano storie immaginarie dove le statue sono protagoniste: «L’imperatore e l’imperatrice hanno fatto questo museo che però per me è anche un castello e hanno fatto venire qui tutti i loro amici e amiche» dice con voce squillante una bambina bionda vestita di rosa. Ma se per i più piccoli è un mondo di creature strane e colorate, l’intento di Niki de Saint Phalle era invece quello di creare soprattutto un itinerario esoterico e onirico ispirato ai tarocchi, senza in verità offrire alcun tipo di pratica divinatoria.

Il percorso inizia dalla Grande Piazza Centrale dove un’immensa vasca accoglie le figure della Papessa e del Mago. Il mago è un giocoliere e rappresenta l’intelligenza, la creazione e il gioco, mentre la Papessa, dalla cui bocca sgorga l’acqua della fontana, rappresenta la potenza femminile. E come in una piazza di paese da cui poi partono le varie vie, da qui partono i vari tragitti all’interno del Giardino, percorsi che non portano solo alle altre statue, ma sono arricchiti dai pensieri, memorie e messaggi dell’artista che accompagnano il visitatore in un viaggio fisico ma anche spirituale. Come quello che si legge su una lastra di cemento che ricopre una parte di un

viale: «Se la vita è un gioco di carte noi siamo nati senza conoscere le regole. Dobbiamo giocare la nostra mano. Attraverso gli anni poeti, filosofi, alchimisti, artisti, hanno studiato il loro significato».

La visita è estremamente facile, perché, come nelle volontà dell’artista, basta lasciarsi andare e perdersi tra la vegetazione e i simboli dei tarocchi. E così, dopo la Grande Piazza decido di salire sul sentiero alla mia sinistra e passato accanto alla scultura della Forza, dove la statua di una donna vestita di bianco domina un grande drago ricoperto da un mosaico di vetri colorati di verde, rosso e giallo, arrivo fino alla casa dell’Imperatrice, una statua che si può ammirare sia dall’esterno, sia dall’interno.

Era la casa-studio di Niki de Saint Phalle, e proprio da qui ha diretto e seguito i lavori di realizzazione del giardino. L’interno, che non ha una forma regolare, è completamente rivestito di piccoli specchi che creano un vortice di riflessi di luce candida,

creando un’atmosfera eterea che dà la sensazione di galleggiare a mezz’aria. «Ma questa è la casa delle fate» dice con un tono pieno di gioia una bambina bionda mentre ruota su se stessa. Salendo ancora un po’ lungo il viale si raggiunge la statua dell’Imperatore, forse l’opera più complessa. Una statua a forma di cerchio al cui interno si trova una piccola piazzetta mentre all’estremità la figura maschile è rappresentata da un grande razzo rosso che punta il cielo, simbolo di esuberanza e potenza, e richiamo alla virilità maschile. Ed è anche la statua che forse, per colori e stile ricorda di più il Parco Guell di Gaudì.

All’interno della piazzetta una scalinata stretta e tortuosa porta in un terrazzo che gira tutto intorno alla statua. Da qui in alto si può vedere il mare e se ne può sentire anche l’odore, portato da una dolce brezza. Tutte le sculture all’interno del parco, gli arcani maggiori dei tarocchi con i loro colori forti e brillanti, sono cariche di significati esoterici e simboli-

ci. L’aspetto delle statue rievoca corpi formosi e morbidi che sembrano ostentare le loro forme con allegria, trasmettendo una visione felice del mondo: è questo il risultato di un profondo processo artistico che ha permesso a Niki de Saint Phalle di superare periodi difficili e dolorosi della sua vita culminati con un ricovero psichiatrico nel 1953.

Il giardino, come si sarà capito, non ha un percorso prestabilito, per cui lascia al visitatore la totale autonomia di muoversi secondo il suo istinto e i suoi gusti; io riprendo dunque ad arrampicarmi lungo il sentiero, fino ad arrivare alla statua degli Innamorati che richiama Adamo ed Eva, seduti uno di fronte all’altro, come a rappresentare la scelta giusta e la scelta sbagliata. Il sole si sta abbassando verso l’orizzonte e le statue sono avvolte in una luce dorata che rafforza e fa risplendere ancora di più i mille colori che le rivestono. Il flusso di persone è continuo ma non manca lo spazio per isolarsi e ammirare le statue. Anche perché, una cosa bella del Giardino dei Tarocchi, è che le sculture le puoi vivere, toccare, girarci intorno, alzare lo sguardo verso il cielo e impressionarti per come sono grandi e imponenti. Non ci sono transenne o distanze da rispettare. La dimostrazione mi viene data da due bambini che giocano a nascondino e hanno scelto come rifugio l’interno della statua del Profeta, cava all’interno, dal volto inespressivo e totalmente ricoperta di specchi. Ed è anche l’unica che non ha nessun colore. Il parco è di fatto una sorta di labirinto emozionale, dove ognuno può vedere quello che vuole attraverso la sua fantasia. I colori delle statue che si stagliano sul verde degli alberi danno allegria mentre i volti non sono mai cupi o cattivi.

Riscendendo passo accanto alla Torre di Babele, forse l’opera più importante del Giardino. Monumentale e solenne, è totalmente ricoperta di specchi ed è sovrastata da una scultura metallica, mentre su ogni lato si aprono le finestre, una diversa dall’altra, da cui si può ammirare tutto il parco. Una deviazione sul sentiero mi porta a due statue più nascoste, il Diavolo e la Morte. Il primo è un corpo di donna con lunghe corna con un uomo e una donna ai suoi piedi e rappresenta il sesso e l’energia. Mentre la Morte è una enorme statua a cavallo, entrambi ricoperti di ceramiche colorate. Ma non incute timore e non emana un senso di negatività, perché senza la Morte non ci sarebbe la Vita e qui nel Giardino dei Tarocchi rappresenta il rinnovamento. E allora penso alla nostra artista Niki de Saint Phalle che ha dedicato tutta la sua vita per realizzare questo museo.

L’artista era affetta da una grave malattia polmonare dovuta al contatto con il poliestere, un materiale che usava moltissimo per creare le sue statue e che la portò alla morte nel 2002. In un’intervista diceva: «È molto strano avere a che fare con un materiale attraverso il quale amo esprimere la mia creatività, e che allo stesso tempo è il mio nemico, in quanto assolutamente letale per me». Un nemico ma anche un alleato che le ha permesso di realizzare questa città utopica dove regna l’armonia.

SalutiAmalfi da

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Ricetta della settimana - Pappardelle con gorgonzola e spinaci

Ingredienti

Portata principale

Ingredienti per 4 persone

1 cipolla

2 c d’olio di colza

4 dl di latte

200 g di gorgonzola

200 g di spinaci da insalata sale pepe

noce moscata

Pasta

400 g di farina per pasta

1 cc circa, di sale

2 c d’olio d’oliva

2 dl circa, d’acqua

Preparazione

1. Per la pasta, mescolate la farina con il sale in una scodella. Aggiungete l’olio d’oliva e l’acqua, quindi impastate il tutto fino a ottenere una massa liscia ed elastica. Formate una palla e avvolgetela nella pellicola trasparente.

2. Lasciate riposare in frigo per circa 30 minuti.

3. Dimezzate la pasta e appiattitela un po’, poi lavoratela a strisce larghe con la macchina per la pasta, passandola più volte tra i rulli fino allo spessore numero 5. Tagliate le sfoglie a strisce larghe (pappardelle).

4. Dimezzate la cipolla, tagliatela a striscioline e fatela appassire nell’olio di colza.

5. Aggiungete il latte e il gorgonzola e lasciate fondere il formaggio a fuoco basso per circa 5 minuti.

6. Cuocete la pasta al dente nell’acqua salata. Scolatela e mescolatela con la salsa al gorgonzola.

7. Unite gli spinaci e lasciateli appassire.

8. Regolate di sale, pepe e noce moscata.

Consigli utili

Una delizia anche con la pasta confezionata di grano duro.

Preparazione: circa 30 minuti

Per porzione: circa 28 g di proteine, 28 g di grassi, 76 g di carboidrati, 680 kcal

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Il romanzo di Pietro e dei suoi fan

Potere dei paratesti, verrebbe da di re. La quarta di copertina dell’esordio come romanziere di Giovanni Fonta na – nato a Mendrisio e già Premio svizzero di letteratura con i racconti di linea, 2015) – indica che tutto si svolge attorno alla «figura umbratile di Ele na», di cui viene ricostruito il tormen tato percorso esistenziale che si snoda fra Lombardia e Svizzera, dagli anni Trenta a oggi. La sua personalità com plessa e sfuggente è messa a fuoco – si legge ancora – «attraverso le testimo nianze di chi ha condiviso il suo cam mino: i figli Luca, il primogenito ma lato, e Pietro, mediocre incarnazione del buon senso; il marito nevrotico; il fratello; la cognata; un prete; uno psi canalista; una badante». In questa po lifonia, l’unica voce sulla quale viene espresso un giudizio morale è dun que il «mediocre» figlio Pietro. Qua si a suggerire: vuoi vedere che il suo ruolo sarà diverso da quello degli altri attori di un romanzo apparentemente Elena-centrico? E soprattutto: chi lo giudica in modo così severo? risposta sin dal prologo. Riaccom pagnando a casa la madre dopo un esame medico, Pietro non riesce più a reggerne la narrazione edulcorata: «Non siamo mai stati così uniti co me allora», dice la donna riferendosi al trauma della manifestazione della malattia psichica del figlio maggiore. Pietro sente la necessità di «risali re i tornanti della sua vita» (della ma dre? di sé stesso? di entrambi? Non sarà l’unico caso di ambiguità), «se guendo una freccia che punta, forse, al cuore dell’enigma». È l’inizio della contronarrazione di Pietro, cui pren dono parte figure testimoniali che si esprimono in prima persona, e che a me – azzardo allora un’ipotesi di la voro – paiono tutte proiezioni dei suoi

Pubblicazione Nel suo esordio romanzesco, Giovanni Fontana scava in una voce apparentemente secondaria rivelandone i sentimenti

una parola «che resta sempre al di sotto dello sguardo e dell’intenzione»); Pietro scivola fuori dal letto coniugale, scende nello studio e riprende tra le mani una cartelletta su cui sta scritto Storia di mia madre, quasi a mostrare un personaggio ancora impantanato in un grumo di tensioni famigliari stratificate e irrisolte (i suoi figli, ammesso che ci siano, non sono peraltro ai nominati).

Pietro ripercorre la vita di Elena sempre in bilico tra slanci di affetto e gelosia, risentimento e senso di colpa, arrivando infine a considerarla come una «madre-coetanea» al cui lutto non sembra preparato («Un prendisole azzurro lascia scoperte le spalle e le braccia, con la pelle flaccida, cascante. Pietro chiude gli occhi»). Il padre Ernesto appare come un personaggio ingombrante nella sua distanza («Non c’è niente da fare» pensa Pietro, «il termine di confronto è sempre lui»), dimidiato – come il figlio – tra bisogno di piacere e paura di essere ignorato. Il fratello Luca – la cui patologia occupa quasi totalmente lo spazio e l’orizzonte famigliari – suscita sentimenti più complessi, tra rivalità e dipendenza reciproca. Con tutti e tre Pietro sembra instaurare una serie di rapporti che si giocano però soprattutto sul piano della letteratura: Elena decide di studiare Lettere per «diventare sé stessa»; Ernesto, professore come il secondogenito, aveva in progetto di scrivere

Che cosa accade quando una figu ra all’apparenza marginale si ritrova, senza volerlo, al centro di un sistema di potere? Picchiatore professionista, alcolizzato, misantropo e senza pro spettive: non esattamente la defini zione di un uomo affidabile, eppure questo è Livio Soldini detto «l’avvo cato» che per un fortuito malinteso si ritroverà all’interno di un’oscura società segreta, invischiato tra gli in granaggi del potere.

Loggia K to della vita del nostro protagonista quando la sera del suo cinquantesimo compleanno trova misteriosamente una tessera che lo porterà dalle bettole più malfamate agli attici extra lusso, trasportandolo tra intrighi e complot ti dalle conseguenze inattese. Con la sua quarta opera narrativa, Davide Staffiero, autore classe 1984 nato e cresciuto in Svizzera, ritorna al romanzo. Dopo il suo esordio nel 2018 con un romanzo breve gramma 9 alle 6 conti dal titolo Staffiero si conferma un autore polie drico dai mille interessi proponendoci una miscela tra pulp surreale e satira distopica, inoltrandosi nei meccani smi del potere raccontati con una ta gliente vena ironica.

è pronto a uccidere anche dopo de cenni per tenerli sepolti. Ciò che ac cadde quella notte sul treno è uno di quelli difficili da smascherare, com pito che spetta proprio alla nostra detective ticinese Delia Fischer. Ambientato nel tormento del regi me franchista, romanzo giallo-noir, la cui trama si svolge tra la Spagna e la Svizzera e racconta il movimentato viaggio ver so Ginevra di quattro ragazzi in fuga dalla politica dittatoriale. Partiti da Barcellona, però, dei quattro studen ti solo tre arriveranno a destinazione. Cosa sia accaduto al leader del grup po su quel treno sta a Delia-la-Se gugia scoprirlo. Non mancheranno gli ostacoli e i colpi di scena, ma con l’aiuto di una cliente molto speciale della Fischer investigazioni, la Cata lana, Delia si farà forza affinché giu stizia sia fatta.

L’ultimo libro di Monica Piffaretti, le idi di giugno, chiude il quadritti co delle stagioni di Delia Fischer, in sieme all’inverno con l’autunno con la primavera con . Chissà se la Detective Fischer tornerà con altri nuovi misteri da mette a nudo più cuori che indizi.

Le ossessioni di Pietro sembrano

gine di Elena: la madre, che – presto vedova – lascia nella casa di Bellagio la figlia tredicenne per un periodo di villeggiatura «col signor Luigi» (e che

Un filo sottile lega il vissuto personale , ultima raccolta di Fabio Pusterla, si trovano intrecciati dati scientifici e immagini poetiche, che restituiscono una voce in bilico tra urgenza etica e scavo in-

Medio Oriente, il degrado ambientale, l’egoismo diffuso – ma anche l’età che avanza, la memoria, i nipoti. Tale tensione genera un verso limpido e denso, dove il confronto tra resistenza e stanchezza si fa forma. Lo dimostraglio di qualcosa, rivolo o scarpata, / tra macchie cupe di rovi e viluppi d’ortiche / non si sa come spunta un giglio / rosso. Fiore d’argine e fosso, / rosso di lingua antica, / dice di andare avanti / dice che la fatica non è mai troppa per Il giglio, solitario e vitale, diventa figura della perseveranza: un gesto liri-

dominare è uno sguardo vigile, che registra degrado e derive politiche,fetto e del linguaggio come atto di to di resistenza contro l’erosione

Chi ha sparato allo sceriffo di Carson City?

Colpo critico ◆ Racconti, cinema e giochi da tavolo continuano a nutrire il mito della frontiera, dove la leggenda prevale sulla realtà

Andrea Fazioli

«Bert Barricune morì nel 1910. Al suo funerale si presentarono non più di una decina di persone. Tra loro c’era un giovane giornalista dall’aria seria che sperava di riuscire a rimediare una storia di vita interessante: circolavano leggende secondo cui il vecchio era stato una specie di pistolero ai tempi andati».

Comincia così il racconto L’uomo che uccise Liberty Valance, scritto da Dorothy Johnson nel 1953 e pubblicato in italiano da Mattioli nel 2025, con la traduzione di Nicola Manuppelli. La storia è conosciuta soprattutto nella versione cinematografica girata da John Ford nel 1962, con John Wayne e James Stewart. È proprio nel film che un giornalista pronuncia una delle più famose sentenze sull’epopea americana: «Siamo nel West, dove se la leggenda diventa la realtà, vince la leggenda». Queste parole giustificano l’intenzione di non pubblicare un fedele resoconto dei fatti, ma di lasciare che continui a circolare la versione romantica e inesatta. In effetti il western non può fare a meno di evocare il mito: già basterebbe la solitudine dei personaggi nella natura sconfinata e la lotta per la sopravvivenza, senza arrivare alla tensione di uno scontro fra pistoleri nella main street Il capolavoro di Ford illustra un passaggio fra epoche. Gli uomini della frontiera tutti d’un pezzo de-

vono farsi da parte di fronte a esigenze sociali più complesse: il futuro non appartiene agli eroi ma ai politici e agli intellettuali, in grado di trovare dei compromessi per lo sviluppo del Paese. Tutto ciò appare anche nel breve racconto di Dorothy Johnson, ma con in più una delicatezza di tocco, una capacità di commuovere grazie a personaggi appena abbozzati eppure vasti come la prateria. Sarà vero che il vecchio Bert ai suoi tempi era un pistolero? E perché al suo funerale sono intervenuti nientemeno che il senatore Ransome Foster e sua moglie? Di certo Dorothy Johnson è una scrittrice di prima categoria. Nella stessa raccolta, fra l’altro, ci sono altre due novelle che hanno dato vita a film memorabili: Un uomo chiamato cavallo e L’albero degli impiccati

Dal mito omerico agli scontri nei saloon, archetipi eterni si ripresentano sotto il cappello da cowboy anche nei giochi da tavolo

Il western può sembrare superato, fuori moda. Eppure sopravvive (anche al cinema, come ha scritto sul numero 33 di «Azione» Nicola Mazzi, Ndr.), e leggendo Johnson si capisce il perché. Non si tratta solo di ricostruire la frontiera americana nel diciannovesimo secolo, ma di approfondire

Giochi e passatempi

Cruciverba

Un ragazzo al futuro suocero: «Sono venuto a chiedere la mano di vostra figlia» «Quale la grande o la piccola?» Cosa risponde il ragazzo pensieroso?

Scoprilo, a soluzione ultimata, leggendo nelle caselle evidenziate.

(Frase: 3, 2, 3, 7, 3, 6, 4, 7)

ORIZZONTALI

1. Ora canonica corrispondente alle quindici

4. Estrema povertà

10. Nonno in tedesco

11. Si sollevano nel brindisi

12. Fuma in salotto

13. Penisola dell’Asia orientale

14 Isola dell’arcipelago delle Bahamas

16. Il viso del burbero

18. È caro a Parigi

19. Un’attrattiva di Verona

20. Così è a volte la sorte

22 Si dice per incoraggiare ed esortare

23. Giardini d’inverno

25. Ripido, scosceso

27. Celebrità in inglese

29. Le colpisce la legge

30. Pietre di pregio

31 Articolo

32. Tutt’altro che propense

34. 504 romani

35. L’atomo ne è una fonte

36. Indicatore della Situazione Economica Equivalente VERTICALI

1. Appunto 2. La Scala dei parigini

3. Ti ...seguono in cantina

4. Roccia e fiume parigino

5. Parte dell’intestino tenue

6. Congiunzione

7. Le iniziali della Canalis

8. Il Gere attore

9. Corpo celeste

11. Vi si consumò un famoso delitto

degli archetipi narrativi che risalgono all’Iliade e all’Odissea. Per questo motivo, pur nella marea di novità, il western non manca nemmeno nelle ambientazioni dei giochi da tavolo. Revolver (White Goblin Games, 2011) è un titolo di Mark Chaplin che negli ultimi anni è passato un po’ inosservato, ma che resta solido e divertente. Il mazzo di carte non serve solo per combattere ma segna le tappe di un inseguimento: oltre a predisporre gli effetti più efficaci, bisogna quindi tenere conto del fattore temporale. Siamo nel 1892 e la banca di

Repentance Spring è stata rapinata dalla banda di Jack Colty. Per fuggire i banditi, manovrati da uno dei due partecipanti, devono prendere il treno delle 15.15 alla Rattlesnake Station. L’altro giocatore, invece, impersona il colonnello Mc Ready, con i suoi marshall e i suoi sceriffi. McReady deve eliminare tutti i membri della banda, prima della sfida finale con lo stesso Colty. Revolver è rapido, ma con una buona struttura narrativa; non a caso l’autore inserisce nelle regole una dettagliata biografia di tutti i personaggi.

Sembra meno romantico il grande classico di Xavier George: Carson City (Quined White Goblin Games, 2009), con le sue molte espansioni. Si tratta di un gestionale di media complessità, che richiede ai giocatori (da due a cinque) di edificare dal nulla una città nel deserto. All’apparenza non si tratta di ingaggiare duelli, bensì di sfruttare le miniere sulle montagne, accumulare soldi e rivendicare terreni sui quali costruire strade, case, ranch, saloon, alberghi, drugstore, banche, ma anche una chiesa e una prigione.

Ancora una volta, però, il lato leggendario del western fa capolino oltre i piani tattici. A ogni mossa infatti i partecipanti devono scegliere uno specifico personaggio che offre alcuni vantaggi. Ecco dunque entrare in scena lo sceriffo, l’agricoltore, il banchiere, l’ufficiale di cavalleria, la droghiera, il lavoratore cinese e, naturalmente, il fuorilegge. E un giocatore potrebbe chiedersi: ma perché affannarmi a risparmiare per comprare lotti di terreno, quando posso inviare un nugolo di cowboy armati fino ai denti nel ranch del mio avversario? A questo punto si fermano le elucubrazioni strategiche e cantano le pistole. Perché Carson City è pur sempre ambientato nel Far West: fra un lancio di dadi reale e uno leggendario, non c’è dubbio, alla fine vince la leggenda.

13. Può essere terso

15. Le iniziali del fisico della relatività

17. Camino del vulcano

18. Nuvolette

20. Il regno delle fiabe

21. Scrisse «Ventimila leghe sot to i mari»

23. Una venatura del 30 orizzontale

24. Isole del Tirreno

26. C’era una volta nelle fiabe

27. Divinità induista

28.

33.

Soluzione della settimana precedente

Generalmente i denti del maschio e della femmina del cavallo sono rispettivamente… Risposta risultante: QUARANTA E TRENTASEI

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku cliccando sull’icona «Concorsi», homepage in alto a destra Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano . Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.

Mossa, movimento a Londra
30. Messaggio in breve
Le iniziali del cantante Ruggeri 34. Le iniziali dell’attore Sutherland
Vinci
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