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MONDO MIGROS

Pagine 4 / 6 – 7

SOCIETÀ Pagina 5

Lo sapevate? Il deficit d’attenzione non colpisce soltanto bambini e adolescenti, ma anche gli adulti

I tagli alla NASA voluti da Trump potrebbero penalizzare il mondo: come reagisce l’Europa spaziale?

ATTUALITÀ Pagina 17

A settant’anni dalla morte, Thomas Mann resta l’interprete più lucido delle contraddizioni europee

CULTURA Pagina 21

Schmidhauser, impressioni ticinesi

Baseball e screwball comedy: dalla semantica dei malintesi alle basi sentimentali della cultura pop

TEMPO LIBERO Pagina 33

Lezioni di giornalismo e di resistenza

Non giriamoci intorno: la lacrimevole questione dei dazi alla Svizzera (di cui parla Angelo Rossi a pag. 19) e all’Europa (su cui scrive Aldo Cazzullo nella stessa pagina) ha oscurato mediaticamente la guerra in Ucraina. Gaza no, vuoi per le iniziative sempre più drastiche di Netanyahu, vuoi perché alcune personalità svizzere (dalle ex consigliere federali Ruth Dreifuss e Micheline Calmy-Rey al rabbino liberale di Zurigo Ruven Bar Ephraïm) hanno vestito i panni del grillo parlante accusando Berna di inerzia di fronte alla cinica e sproporzionata reazione israeliana allo schifoso eccidio originario di Hamas. Tutto questo mi ricorda la prima lezione di «mondo reale» ricevuta in redazione anni fa, quando i vecchi del mestiere mi spiegavano che per un lettore ticinese un incidente in motorino con un ferito in centro a Bellinzona si faceva leggere molto di più di un massacro a colpi di machete in Ruanda. Con tutto il rispetto

per i timori generati dalla stangata trumpiana, il mondo soffrigge tra crisi maiuscole, ma noi vediamo solo le nostre magagne; brutte sì, ma fino a un certo punto. Noi rischiamo un calo del PIL tra lo 0,3% e lo 0,7%, che non sono noccioline, d’accordo, ma altri corrono a zig zag tra le bombe o si spengono per fame.

Così derubrichiamo a un basso livello d’attenzione lo scandalo dell’invasione illegittima dell’Ucraina da parte di Mosca, diventata nel giro di tre anni un rumore di fondo, un rosario quotidiano di una manciata di morti e feriti tra Odessa e Kherson, il ronzio lontano di una zanzara che non riesce più a pungerci. Per sperare in un certo ritorno d’interesse per la causa mi tocca rispolverare la seconda lezione di «mondo reale» dei vecchi giornalisti: parlare dello stesso tema attraverso i suoi aspetti più bizzarri. Il cane che morde l’uomo, alla lunga non fa notizia; l’uomo che morde il cane sì. Per

esempio, nei giorni scorsi la tragedia ucraina ha ritrovato un po’ di spazio nel mainstream informativo grazie a un’invasione di cavallette. Le regioni colpite sono le stesse dove il conflitto è più feroce, e non è un caso: Zaporizhzhia, Dnipropetrovsk, Kherson, Donetsk eccetera. La causa, parrebbe, è da ricondurre alla distruzione della diga di Kakhovka. Avvenuta nel 2023, ha sommerso centinaia di chilometri quadrati di terreno, alterando l’ecosistema e creando ambienti umidi favorevoli alla proliferazione delle locuste. Fatale che moltissimi terreni agricoli venissero abbandonati favorendo la crescita incontrollata degli insetti. Nel frattempo, gli uccelli migratori stanziali, naturali predatori delle cavallette, sono fuggiti dalle zone di conflitto a causa del rumore, delle esplosioni e della distruzione degli habitat naturali. Un ecocidio a tutto tondo che ora assume i contorni della piaga biblica: l’invasione delle locuste appunto.

A di là dei bombardamenti e dei droni, si vive così da quelle parti, nella smemoratezza del resto del mondo, pieni di insetti e vuoti di attenzioni. Le locuste stanno distruggendo raccolti di girasoli e cereali, con perdite stimate fino a un terzo dei raccolti.

Ma è proprio quando tutto sembra perduto che spunta l’insopprimibile voglia di resistere. Recentemente è circolato un video su Youtube che mostrava alcuni agricoltori di Zaporizhzhia che dissodavano la terra indossando giubbotti antiproiettile per proteggersi dai possibili/probabili attacchi nemici. Perché, a differenza dei volatili predatori d’insetti, gli umani non hanno ancora le ali e non possono migrare verso cieli più tersi. C’è un altro video in cui si vedono Nastia e Antonio, una coppia di Kharkiv, che si sposa nei sotterranei della metropolitana, col sottofondo delle sirene antiaeree. Da quelle parti, l’unico modo di volare è l’amore.

Giovanni Medolago Pagina 27
Corte del Castello di Magliaso,
1900 circa
© Archivio di Stato del Cantone
Ticino,
Fondo
Eugenio Schmidhauser
Carlo Silini

Un passo dopo l’altro verso una pesca eccellente

Info Migros ◆ Andi Schmid ha un progetto: creare una varietà di pesca svizzera inconfondibile e coltivata in modo sostenibile: ci sta lavorando nei Grigioni, a 760 metri sul livello del mare

Nina Huber

Andi Schmid apre i moschettoni, scosta la recinzione che serve a tenere lontani i cervi dall’appezzamento ed entra nel suo terreno. A 760 metri sul livello del mare ci sono 300 giovani peschi. Sullo sfondo si vede il Piz Beverin.

Il frutteto è il lavoro di una vita intera da frutticoltore. Andi Schmid, 57 anni, da sette porta avanti con passione il suo progetto, che consiste nel coltivare pesche, appunto. «Si tratta di frutti che in Svizzera possono prosperare. Anche le albicocche sono riuscite ad affermarsi in Vallese», afferma Schmid.

Vent’anni fa si è trasferito dall’Unterland a Scharans, Domleschg, nei Grigioni, con la moglie Sandra e i due figli ormai grandi. Oggi insieme alla moglie produce mirtilli e rose rispettando gli standard biologici.

Le ragioni per cui ad oggi in Svizzera non siano state coltivate le pesche sono da cercarsi nella mancanza di protezione alle frontiere. Mele, ciliegie e prugne estere sono soggette a elevati dazi doganali quando sono di stagione in Svizzera. Questo però non vale per le pesche. Dal momento che non vuole competere con le pesche importate soprattutto dalla Spagna, Schmid è alla ricerca di una pesca speciale da destinarsi al mercato delle specialità regionali. Dev’essere riconoscibile, dal sapore gradevole e resistente ai parassiti. «Le varietà standard richiedono numerosi trattamenti fitosanitari», spiega Schmid, che è stato amministratore delegato di Bio Grischun per 13 anni.

I cambiamenti climatici sono positivi per questi frutti che amano il sole, spiega ancora Schmid. Gli inverni più miti permettono agli alberi da frutto di fiorire prima, cosa che può portare

a maggiori danni da gelo in primavera. Schmid privilegia quindi le varietà a fioritura tardiva.

Nel mondo esistono oltre 3000 varietà di pesche, e Schmid ne ha importate 200. Ad esempio dalla Cina, dove il frutto è coltivato da 4000 anni, ma anche dall’India, dall’Iran, dal Tagikistan, dalla Scandinavia e dagli Stati baltici. Ogni seme necessita di una licenza di importazione, cui segue un periodo di quarantena. Solo dopo che Agroscope, centro di competenza federale per l’agricoltura, ha testato ogni singola varietà per verificare la presenza di eventuali parassiti e l’ha approvata, Schmid può lavorare con essa.

Dai semi Schmid fa crescere le piantine, aspettando che si ingrandiscano e fioriscano per la prima volta. A quel punto si può iniziare a incrociare le varietà. «L’allevamento è un lavoro certosino», dice Schmid. Quando il fiore è ancora chiuso e assomiglia a un palloncino, Schmid ta-

25 anni di Migros

glia i petali esponendo il pistillo, che è l’organo femminile. Rimuove quindi a mano le antere con il polline affinché il fiore non si autofecondi. Infine, sul pistillo viene tamponato con cura il polline di un’altra varietà, la pianta madre. Se tutto va per il verso giusto, in estate nasce un frutto nel cui nocciolo si trova il seme contenente la nuova varietà. A questo proposito non vi sono però garanzie: non è chiaro se questa crescerà mai. Schmid conserva il nocciolo a forma di mandorla per due mesi a due gradi, simulando una sorta di ibernazione artificiale per permettere al seme di germogliare. Una volta germogliato, Schmid lo deposita nel terreno della serra, dove potrà crescere la piantina. «Questo lavoro richiede una grande resistenza alla frustrazione», afferma Schmid. I contrattempi non mancano mai: dai semi che marciscono alle giovani piante che muoiono. Alcuni alberi sopravvivono tre o quattro anni, poi si ammalano e deperiscono. È già suc-

Anniversari ◆ Nadia Caviglia lavora per l’azienda dal 2000, e considera Migros una specie di «famiglia»

Nadia Caviglia

Molti collaboratrici e collaboratori, una volta entrati in Migros, vi restano a lungo, spesso fino alla pensione. Nel centesimo anniversario dalla fondazione della più grande azienda svizzera, «Azione» propone una serie di mini ritratti di dipendenti che lavorano per Migros Ticino da 25 o 40 anni. A tutte/i loro giungano da Migros Ticino e dalla redazione di «Azione» i migliori auguri accompagnati da un grande GRAZIE. Questa settimana abbiamo incontrato Nadia Caviglia.

Quale è il tuo ruolo all’interno di Migros Ticino?

Attualmente il mio ruolo in azienda è quello di sostituto gerente.

25 anni sono un quarto di secolo: cosa ti piace maggiormente del tuo lavoro dopo tutti questi anni?

Dopo 25 anni apprezzo ancora il fatto che il nostro lavoro sia vario e per nulla monotono o scontato. C’è sempre da imparare e il cambiamento è continuo. Lavoro divertendomi, e questo per me è un punto focale.

Quali sono le sfide che ti aspettano per i prossimi 25 anni?

Sicuramente la sfida maggiore per i prossimi decenni sarà quella di restare al passo con i tempi. Tutto è in evoluzione e in forte crescita e la tecnologia sarà un tema fondamentale da non sottovalutare per collaboratori che, come me, non hanno più 20 anni. Vorrei arrivare alla pensione soddisfatta per il contributo dato.

Cosa auguri a Migros

nell’anno dell’anniversario?

Nell’anno del suo anniversario auguro a Migros tanta gioia nel riscontrare

cesso che il gelo primaverile distruggesse completamente i fiori, vanificando il lavoro di un anno intero.

Si tratta dunque di valutare i rischi e di fare tutto quanto umanamente possibile per ridurli al minimo. Quando vi è una minaccia di gelo, a tarda sera Schmid si reca nella piantagione e accende candele antigelo per dare un po’ di calore agli alberi, oppure stende una rete protettiva di feltro sugli alberi. Il tasso di successo rimane comunque basso: per ogni mille fiori impollinati, maturano al massimo cinquanta frutti.

Per le sue attività di selezione Schmid collabora con il recentemente costituito Centro Svizzero di Selezione delle Piante. Si tratta di un centro di competenza svizzero indipendente per la selezione delle piante di cui Migros è membro sostenitore insieme a Bio Suisse, IP-Suisse, Fenaco e all’Associazione svizzera dei contadini. Là Schmid può sottoporre le sue varietà a test genetici molecolari. Ai

ricercatori basta una foglia della varietà che Schmid vuole far analizzare: dopo due o tre settimane, Schmid riceve un’analisi del DNA che indica se la pianta è sensibile a determinate malattie o alla siccità. Ciò accelera il lavoro in modo notevole, poiché permette a Schmid di decidere immediatamente se continuare a testare la pianta nell’ambito del suo progetto, denominato Momabs. A titolo di paragone, la selezione di una nuova varietà di mele richiede solitamente 25 anni. Schmid è più ambizioso per le sue pesche e prevede di poter lanciare la sua prima varietà sul mercato dopo circa dieci anni. Potrebbe avvenire tra tre anni. La pesca del frutticoltore svizzero non dovrà essere per forza «la più bella di tutte, ma i suoi valori interni dovranno essere convincenti».

Info Swiss Plant Breeding Center spbc-plantbreeding.ch/das-spbc

In rete, insieme!

Sostegno ◆ Il Percento culturale Migros sostiene le competenze digitali

apprezzamenti sia da parte dei clienti sia da parte di tutti i collaboratori. Quotidianamente ognuno di noi nel suo piccolo contribuisce alla crescita e allo sviluppo della nostra azienda e dopo un secolo, se ci penso, mi dico, «guarda che colosso è diventato rispetto agli inizi». Auguro quindi di continuare così, sempre nel rispetto e con le linee guida che ci distinguono dalle altre aziende.

Cosa rappresenta Migros per te? Migros per me rappresenta una seconda famiglia. La risposta può sembrare scontata, ma in realtà è così. Ho cominciato a lavorare in azienda come apprendista e piano piano negli anni ho potuto crescere, non solo professionalmente, ma anche interiormente. Ho conosciuto persone splendide da cui ho potuto cogliere tanta saggezza e questo è qualcosa di speciale per me, poiché ho avuto modo di sfruttare le mie potenzialità e migliorare proprio grazie a coloro che hanno creduto in me.

Ecco perché dopo 25 anni credo ancora che il mio lavoro sia uno dei più appaganti!

La digitalizzazione avanza rapidamente e cambia la nostra vita quotidiana. Ma non tutti sono in grado di stare al passo con i profondi cambiamenti in atto; a essere lasciate indietro, in particolare, sono spesso le persone a rischio di povertà.

La mancanza di competenze digitali o l’accesso limitato ai dispositivi rendono più difficili molte cose della vita, dalla ricerca di un lavoro alla socializzazione.

Attraverso il bando di concorso «Entra in rete!», il Percento culturale Migros sostiene con un importo compreso tra 2’000 e 10’000 franchi progetti che con un approccio pratico, locale e paritario aiutano persone finanziariamente svantaggiate di tutte le età ad acquisire competenze digitali.

La ricerca è orientata a iniziative che rendono possibile la partecipazione digitale alle persone in condizioni di povertà: per esempio associazioni, caffè digitali, centri di quartiere o offerte peer-to-peer.

Bando di concorso

Il bando di concorso è aperto fino al 31 ottobre 2025. Per l’invio dei progetti sono previste due scadenze (15 agosto 2025 e 31 ottobre 2025).

Per informazioni e iscrizioni engagement.migros.ch/entrainrete

Nadia Caviglia Lavora per Migros Ticino dal primo agosto del 2000
Andi Schmid analizza le foglie per verificare lo sviluppo delle coltivazioni. (Daniel Winkler)
Andi Schmid inserisce una gemma della pianta incrociata nel ramo di un’altra pianta. (Daniel Winkler)

SOCIETÀ

Un’isola da sogno?

Sono partite dal Ticino e ora vivono sull’isola di Pantelleria, ma non hanno lo stesso approccio a questo paradiso di mare e natura

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Svizzeri di successo in Toscana Emigrati nell’Ottocento alla volta di Carrara, diverse famiglie di grigionesi si sono specializzate nelle drogherie e nelle pasticcerie

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Un nuovo modo di guadagnare Come ragionano i ragazzi della cosiddetta Generazione Z quando si pongono di fronte alle sfide del mondo del lavoro?

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Il deficit d’attenzione colpisce anche gli adulti

Salute ◆ Sapere come si manifesta l’ADHD in persone già uscite da infanzia e adolescenza può cambiare la vita di chi ne soffre

«Scoprire di avere l’ADHD da adulto è stato come dare finalmente un nome a tutto quello che mi faceva sentire “diverso”. Sul lavoro faccio fatica a restare concentrato a lungo, passo da un compito all’altro senza finirlo e rimando le scadenze fino all’ultimo secondo. Anche nella vita personale è difficile: dimentico appuntamenti, parlo sopra gli altri senza volerlo, e mi sento spesso sopraffatto. Non è mancanza di impegno, è che la mia mente non si ferma mai». Giacomo (nome noto alla redazione) ha 41 anni e racconta della sua quotidianità che gli «costa fatica» e che lo porta ad essere socialmente frainteso: «Ad esempio, aspettare in fila o gestire scartoffie burocratiche per me può essere estremamente frustrante: mi assalgono noia e impazienza, mentre chi mi vede dal di fuori pensa, a torto, che io sia impulsivo e smanioso». E su lavoro: «Se sono concentrato o immerso nel mio lavoro e mi interrompono, mi risulta difficilissimo riprendere il filo e questo mi infastidisce parecchio. Naturalmente, gli altri non ne comprendono i motivi». Non va meglio con la memoria: «Sembro distratto e svogliato, mentre in realtà senza scrivermi una lista, un promemoria o senza mettere una sveglia, non riesco a ricordare impegni, scadenze o, peggio, fatico a ricordare persino dove ho lasciato le chiavi dell’auto. E tutti questi aiuti non sempre funzionano».

L’ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività) è spesso associato ai bambini, ma molte persone adulte ne soffrono senza saperlo. Di fatto, uno studio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) del 2008 lo descrive come «un disturbo comune dello sviluppo neurologico che colpisce circa il 3,5% degli adulti». Abbiamo intervistato lo psichiatra Michele Mattia, presidente ADHDti, per comprendere meglio come questo disturbo si manifesta negli adulti, la diagnosi e le opzioni di trattamento disponibili. Egli conferma quanto condiviso da Giacomo: «L’ADHD nell’adulto si presenta principalmente con difficoltà di concentrazione, impulsività, iperattività, disorganizzazione e tendenza alla procrastinazione, e questi sintomi possono influire negativamente sulla vita quotidiana, sulle relazioni e nella professione. È importante notare che può manifestarsi diversamente rispetto all’infanzia, spesso in modo meno evidente ma altrettanto debilitante». I sintomi più visibili non sono che la punta di un iceberg, una metafora usata dallo specialista, che porta alla luce le profonde difficoltà di chi vive questa condizione: «La metafora dell’iceberg è significativa per la comprensione dell’ADHD, perché aiuta a distinguere tra ciò che è visibile all’esterno (i sintomi più evidenti) e ciò

che invece è nascosto sotto la superficie (le difficoltà più profonde e pervasive)». Della «punta dell’iceberg» visibile fanno parte: «Disattenzione, iperattività, impulsività, dimenticanze frequenti, disorganizzazione, interruzioni durante le conversazioni e incapacità di restare seduti o concentrati: caratteristiche purtroppo giudicate negativamente, come se fossero causate da mancanza di volontà o educazione, mentre bisogna stigmatizzare il pregiudizio che si è dinanzi a una persona che accampa scuse per giustificare la sua disorganizzazione o evitare responsabilità».

E se disattenzione, impulsività, dimenticanze e interruzioni nelle conversazioni non fossero causate da cattiva volontà?

Lo psichiatra scava nella parte sommersa del disturbo: «È quella più grande e importante spesso invisibile, ma che condiziona profondamente la vita di chi ha l’ADHD: parliamo di bassa autostima, ansia e stress costante, senso di colpa e vergogna, stanchezza mentale cronica, difficoltà nella gestione del tempo, problemi nelle relazioni sociali, disturbi del sonno, frustrazione per non riuscire

a raggiungere il proprio potenziale e sovraccarico sensoriale o emotivo». Da qui l’importanza di riconoscere l’ADHD nell’adulto, che però solo dal 2013 è esplicitamente normata nei criteri diagnostici aggiornati e ampliati nei manuali DSM (Diagnostic and Statical Manual of Mental Disorders), pubblicati dall’American Psychiatric Association: «Per lungo tempo l’ADHD era formalmente riconosciuta solo nell’infanzia e nell’adolescenza e questo ha reso difficile per lungo tempo la diagnosi nell’adulto; oggi dal DSM-5 in poi, la diagnosi nell’adulto è esplicitamente normata anche senza una diagnosi ricevuta da bambino, purché vi siano evidenze che i sintomi fossero presenti dai 5 ai 12 anni». Diagnosi che preferenzialmente va posta da uno psichiatra o da uno psicologo clinico esperto in ADHD, per la quale si evince l’importanza di un’anamnesi accurata e personalizzata che sta alla base dei criteri diagnostici: «Fra l’altro, parliamo ad esempio di riconoscere disattenzione e/o iperattività e impulsività che si manifestano in modo diverso rispetto all’infanzia, con minore iperattività fisica, più disattenzione, procrastinazione, irrequietezza interna». Le comorbidità riscontrate nelle persone con ADHD dimostrano l’importanza di definirla per poi

procedere con la scelta di un adeguato percorso terapeutico: «Uno studio norvegese su 49mila soggetti (Sorberg et. Al. 2018), ha evidenziato che questo disturbo incrementa dalle 4 alle 9 volte i tassi di ansia, depressione, bipolarità, disturbi della personalità, schizofrenia e disturbo da sostanze». Inoltre, un recente studio condotto dall’Università di Ginevra (pubblicato dalla rivista «Psichiatria e Neuroscienze cliniche») ha pure messo in luce una possibile sorprendente connessione tra l’ADHD e il morbo di Alzheimer, come afferma il professor Paul Unschuld, primario del Dipartimento di Psichiatria Geriatrica dell’HUG e iniziatore dello studio: «Recenti studi epidemiologici dimostrano che gli adulti con ADHD hanno un rischio più elevato di demenza in età avanzata, ma il meccanismo di correlazione del rischio con l’ADHD non è noto». Sebbene la causa diretta non sia determinata, questi risultati suggeriscono l’importanza di monitorare nel tempo la salute cognitiva delle persone con ADHD (a cominciare dalla diagnosi) il cui trattamento risulta essere efficace. Il dottor Mattia così riassume il percorso che, dalla diagnosi, conduce alla scelta terapeutica: «La diagnosi clinica comprende la conoscenza della storia clinica esaustiva, esami medici, rating

scales (ndr: scala di identificazione del dolore) e interviste diagnostiche, test neuropsicologici, diagnosi differenziale con un team specializzato multidisciplinare, ed è seguita da un trattamento multimodale che comprende farmacoterapia e monitoraggio della loro efficacia, psico-educazione, psicoterapia cognitivo-comportamentale, coaching, tutoring, interventi psicosociali, mantenimento dell’aderenza al trattamento e periodica rivalutazione. Da ultimo, grande beneficio è dato dai gruppi di sostengo o di supporto».

Il dottor Mattia sottolinea infine «la parte prioritaria» della farmacoterapia nel trattamento: «Poiché dal lato neurobiologico, nell’ADHD emerge un deficit dopaminergico che gli psicostimolanti possono colmare». In conclusione, si può affermare che l’ADHD non è solo «non stare fermi» o «dimenticare le cose», ma un disturbo neurobiologico complesso che influisce su molte aree della vita: «È fondamentale comprendere oltre la punta dell’iceberg, e giungere a una diagnosi che permette di pianificare un supporto reale, farmacologico ed empatico a chi ne è affetto. Riconoscere questo disturbo e intraprendere un trattamento adeguato sono passi fondamentali che migliorano la qualità della vita».

Sul lavoro fate fatica a restare concentrato a lungo, passate da un compito all’altro senza finirlo e rimandate le scadenze fino all’ultimo secondo?
Maria Grazia Buletti

Tradizione e gusto

Attualità ◆ Il Salame Felino IGP è un prodotto d’eccellenza nel panorama della salumeria italiana. Questa settimana la specialità del noto marchio Beretta è in promozione speciale alla tua Migros

Azione 30%

Salame Felino Beretta

per 100 g Fr. 3.75

invece di 5.50

dal 12.8 al 18.8.2025

Sapore dolce, delicato, lievemente speziato e tipico colore rosso rubino: questi sono i tratti distintivi del Salame Felino IGP (Indicazione Geografica Protetta). Come da disciplinare, questa specialità può essere prodotta unicamente nel territorio di Parma e Provincia con carni ma-

gre e grasse di suini italiani. Possiede una macinatura media, viene insaccato esclusivamente in budello naturale ed è esente da conservanti aggressivi, coloranti o aromi artificiali. La carne macinata in modo grossolano viene tradizionalmente condita con sale marino, pepe nero in grani,

vino bianco e aglio. La stagionatura deve essere di almeno 25 giorni. Come vuole l’usanza, il Salame Felino IGP si affetta obliquamente, a fette non troppo fini. È una delizia da solo accompagnato da pane rustico e formaggi stagionati, ma si presta bene anche come complemento di ricette

Pasta fresca Garofalo

più elaborate, come torte salate, frittate e paste.

Nata nel 1812 in provincia di Lecco come piccola bottega a conduzione familiare, la Fratelli Beretta è oggi uno dei

maggiori produttori di salumi italiani. Pur evolvendosi negli anni da impresa artigianale a gruppo internazionale, ha saputo preservare la sua vocazione tradizionale nella produzione di salumi italiani di qualità. Tra i suoi prodotti figurano diversi salumi DOP e IGP, in parte in vendita anche alla Migros.

Attualità ◆ Le paste fresche del celebre marchio italiano sono facili da preparare e assicurano un risultato perfetto

Azione

35%

(da 2 pezzi)

Dai tortellini al crudo ai ravioli ricotta e spinaci, dalla sfoglia fresca per lasagne ai girasoli ai funghi porcini, dagli gnocchi di patate ai saccottini ai tre formaggi, fino alle classiche orecchiette e trofie: l’ottima pasta fresca Garofalo trasforma ogni pasto in un’autentica festa per il palato. Disponibile alla Migros in una quindicina di formati per ogni gusto e occasione, si distingue per la sua tipica consistenza porosa, i ricchi ripieni e la preparazione semplice, che richiede pochi minuti di cottura. Le ricette si rifanno alla migliore tradizione

Tutto l’assortimento di pasta fresca Garofalo, refrigerata dal 12.8 al 18.8.2025

italiana, con un occhio di riguardo per la qualità degli ingredienti e il rispetto dei sapori autentici. Oltre alle paste fresche, di Garofalo nei suoi supermercati Migros propone anche diversi formati di pasta secca e sughi pronti. Il pastificio Garofalo ha sede a Gragnano, località nei pressi di Napoli considerata ancora oggi la «patria della pasta» grazie al suo particolare microclima che ne favorisce l’essicazione e dove nel 1789 il signor Garofalo ottenne il permesso di produrre e vendere pasta di buona fattura.

Alta qualità italiana

Attualità ◆ Grazie ai prodotti sott’olio e sott’aceto firmati Ponti puoi portare in tavola ogni giorno tutta la genuinità della tradizione gastronomica italiana

Difficile resistere alla tentazione quando si parla delle specialità dal gusto unico Ponti, azienda italiana leader nella produzione di sott’aceti, sott’oli, aceti e condimenti vari. Forte di una storia familiare lunga e prestigiosa, basti pensare che la sua nascita risale al 1787, Ponti è presente sugli scaffali dei supermercati Migros Ticino con una gamma ampia e variegata di prodotti perfetti per arricchire di gusto e tradizione la tua tavola quotidiana. Tutti i prodotti sono fatti con materie prime fresche e, per quanto riguarda i sott’aceti, nascono dall’unione di verdura fresca e aceti di vino Ponti prodotti esclusivamente in proprio.

I prodotti Ponti apportano gusto, qualità e autenticità alla tua tavola

Accanto ai più classici sott’aceti ideali da gustare in ogni momento, non mancano le bontà in agrodolce dal sapore equilibrato della linea Peperlizia che spiccano per la loro versatilità culinaria. Insomma, che si tratti di accompagnare uno sfizioso aperitivo o antipasto, di arricchire un piatto principale con un tocco di sapore unico, oppure di impreziosire una ricetta con un ingrediente inconfondibile… con i prodotti Ponti farai sempre centro.

Carcioghiotto Peperlizia Ponti 330 g Fr. 5.60

Cipolline Borettane Aroma Antico Ponti 180 g Fr. 3.10

Cipollette Peperlizia con Aceto Balsamico Ponti 220 g Fr. 3.40

Ortoghiotto Peperlizia Ponti 330 g Fr. 5.30 Verdure Peperlizia Ponti 210 g Fr. 2.95

Cipolline Peperlizia Ponti 220 g Fr. 3.60

Cipolline Borettane Aroma Antico Ponti 450 g Fr. 4.90* *Azione Hit fino a esaurimento dello stock

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La nostra Pantelleria

Sicilia ◆ Due ticinesi hanno scelto di vivere sull’isola e ce la raccontano: «È potente. Ti regala tante energie ma tante te ne toglie»

Qui ci atterri solo se lo permette la «muffura», una nuvoletta carica di umidità che a tratti oscura il cielo sopra l’aeroporto. Ci atterri se non sai, o non ti spaventa il mare-mare, quello che s’infrange sugli scogli scosso dal vento e che se non stai attento ti fa male. Quello che non conosce miti distese di sabbia che scendono piano nell’acqua tiepida. No. Si tratta di un mare aperto attaccato alla roccia nera. Siamo a Pantelleria, un’isola di 80 chilometri quadrati più vicina alla Tunisia della Sicilia, regione di cui fa parte, un complesso vulcanico ancora attivo (l’ultima eruzione sottomarina che ha seminato il panico tra la popolazione si è verificata nel 1891, si legge su https://www.parconazionalepantelleria.it). Un insieme potente e ruvido, con i suoi 7600 e rotti abitanti. La chiamano «isola del vento», perché ne è quasi sempre in balia. O «perla nera», appunto dal colore dei suoi sassi caldi. L’abbiamo percorsa a cavallo di uno scooter scalcagnato, imbattendoci in due ticinesi che vi si sono trasferite. Oltre 20 anni fa arriva Paola, per amore. Due anni fa Mirna, attratta dal senso di libertà che infonde il luogo.

Col mare mosso non arriva niente, le navi non possono attraccare. Così gli scaffali dei negozi si svuotano e anche i maestri si fanno aspettare…

Dopo un’esistenza in Ticino da lavoratrice, moglie e madre, Mirna decide infatti di ricominciare daccapo, da sola e lontano. «Conoscevo già l’isola», dice. «Il primo impatto – una quindicina di anni fa – è stato tutt’altro che dolce». Approdo via nave il pomeriggio, caldo torrido, cittadina scalcagnata come lo scooter. A livello architettonico non c’è niente di particolare da guardare. Il centro è stato bombardato durante la Seconda guerra mondiale e parecchi edifici sono andati distrutti, interamente o in parte. Sparsi sul territorio piccoli quartieri formati soprattutto da modesti dammusi, dimore tradizionali con muri a secco, coperti da un tetto a cupola che serve anche a raccogliere l’acqua piovana (il prezioso elemento scarseggia, ci si approvvigiona princi-

palmente tramite impianti di dissalazione e, appunto, il recupero dell’acqua piovana). C’è da dire che ci sono diversi dammusi tutt’altro che modesti. Ad esempio Armani possiede nella parte nord-orientale dell’isola, a Cala Gadir, una villa composta da diverse dimore tradizionali. La circondano centinaia di palme e una vigna che produce passito. E molti altri personaggi noti scelgono l’isola come rifugio: non è presa d’assalto dal grande turismo ed è conosciuta per la sua totale discrezione (che vale solo per i vip, a quanto pare, gli isolani – ci raccontano – amano prendersi cura di tutti, facendosi anche gli affari loro).

Ma torniamo a Mirna, 50.enne, di origini malcantonesi. Impatto dolceamaro, dicevamo. Ma lei si prende il tempo necessario e scopre meraviglie. Soprattutto la natura selvaggia di Pantelleria, il mare fresco, la Montagna Grande (836 m) con i suoi itinerari, la caldera trasformata in lago salato (Lago di Venere), le grotte con fonti di acqua termale (in quella di Sataría Omero avrebbe situato la dimora di Calipso). Ma anche il bar di Fabrizia, che è anche emporio di prodotti tipici come i capperi, il negozio che vende le scarpette gommose per tentare la discesa a mare, la gelateria di Domenica (una signora napoletana) a Scauri e diversi ristoranti tipici, appetitosi e romantici, specie all’ora del tramonto. «Venivo qui ogni anno, prima con la famiglia, poi con le amiche o da sola. Ogni volta era una rivelazione. A Pantelleria ho scoperto che si poteva vivere in modo diverso: smettere di correre,

di affannarsi per arrivare a fine mese. Il ritmo infatti è lento, la natura a portata di mano, la vita più semplice ed essenziale. Si tratta di un piccolo mondo circondato dal mare che ha logiche diverse dalle nostre e – se sai entrare nel suo spirito – ti lascia spazio per pensare e per fare». Le idee sono tendenzialmente ben accolte, afferma la nostra interlocutrice. Lei ha portato sull’isola La Lanterna Magica, progetto che invita i bambini a scoprire il cinema. «Mi hanno concesso spazi gratis e giovani aiutanti volontari. E propongo degli incontri per stimolare la lettura tra i più piccoli. La biblioteca comunale non presta libri d’estate, allora ce li metto io». Molti genitori – che lavorano – sono grati dell’opportunità e del tempo che dedica ai loro figli. Mirna continua: «Conosco ormai tutti gli abitanti dell’isola, mi sono fatta un giro di amicizie. Qui si riesce a

vivere con poco, anche se non è tutto facile. Le persone care vivono lontane, ho dei momenti di solitudine. Ma per adesso non ho nessuna voglia di tornare, Pantelleria per un po’ sarà la mia casa».

«Non mi sento più di appartenere a questo luogo, qui sopravvivo», afferma invece Paola. Nata a Mendrisio, frequenta le scuole commerciali a Chiasso, si trasferisce a Losanna, dove studia e lavora. Torna in Ticino e – durante una vacanza con i suoi genitori a Pantelleria – conosce quello che sarebbe diventato il padre dei suoi figli.

«La passione e i sentimenti hanno sempre guidato le mie scelte, a volte portandomi a fare degli errori», osserva. «Ma così è… Il nostro è stato un rapporto a distanza per qualche anno e poi ho seguito l’istinto. Sono partita, ho lasciato tutto: indipendenza economica, famiglia, amici. A volte piango

ancora per questo “salto nel buio” e sono passati oltre 20 anni… Perché l’isola è strepitosa, potente, ti regala tante energie ma tante te ne toglie. Qui la vita è organizzata molto sulla famiglia, sulla famiglia allargata che sostiene e ingloba, un microcosmo con le sue leggi a volte difficili da comprendere. Gli abitanti sono siciliani ma non si sentono siciliani, sottolineano il fatto di essere panteschi. È gente pacifica e perlopiù tradizionalista, soprattutto nel concepire il rapporto uomo-donna». Le è pesato parecchio. «Anche dopo tutto questo tempo mi si rimprovera: come fai tu a dirlo? Sei quella che viene da fuori».

Quella che viene da fuori

I figli di Paola sono ormai cresciuti: Edoardo studia Ingegneria al Politecnico di Torino ed Erasmo inizia il quinto anno di Liceo scientifico. «Si sentono panteschi ma sono legati anche alle mie origini, sono italiani ma anche svizzeri insomma, lo saranno sempre». Gli anni trascorsi sull’isola non sono stati una passeggiata, osserva. «Ho fatto tutto da sola: mi occupavo della casa, della famiglia. Non ho potuto contare su grandi aiuti». E le difficoltà del vivere laggiù non mancano: l’isola dipende dal meteo, col mare mosso non arriva niente, le navi non possono attraccare. Così gli scaffali dei negozi si svuotano e anche i maestri –molti dei quali abitano in Sicilia – si fanno aspettare… I trasporti in generale non funzionano in caso di brutto tempo, racconta l’intervistata, e l’ospedale non dispone di un reparto di rianimazione. «In urgenza, dunque, bisogna volare con l’elicottero su Trapani o Palermo. È necessario spostarsi anche se servono cure particolari». Due anni fa, ci racconta la donna, la sua relazione si è conclusa e lei ha dovuto e voluto reinventarsi: insegnando francese e lavorando in un albergo. Stringendosi agli amici, «soprattutto famiglie che vengono da fuori». «Vado sempre avanti, indietro non si può tornare», conclude. «E so che il futuro ha sempre qualcosa di speciale in serbo per tutti. Ma oggi più che mai me ne rendo conto: qui sono sempre stata la straniera, quella che viene da fuori». E forse fuori tornerà.

Una veduta di Pantelleria al tramonto e, sotto, un dammuso col suo tetto a cupola e il mare nei pressi del centro. (Wikimedia, Borla)
Romina Borla

Le drogherie engadinesi di Carrara

Incontri ◆ Caflisch, Flütsch, Riatsch: sulle tracce dell’imprenditoria alimentare svizzera nella capitale del marmo

«Ai nostri tavolini si è seduto anche un famoso attore… Premio Oscar!». Il proprietario dell’antica drogheria «Giovanni Riacci» di Carrara me lo dice subito, appena gli chiedo se posso fotografare la scenografica composizione di spezie in vetrina. Sono alla ricerca delle tracce degli svizzeri in Lunigiana e il nome Riacci nasconde un’origine grigionese: Riatsch, originario di Vnà (frazione di Valsot, nella Bassa Engadina), italianizzato per ragioni ortografiche. L’interno del bar-caffè-gastronomia è una location perfetta per un tuffo nel passato. Autentico. Lo certifica il Catalogo generale dei Beni culturali dello Stato italiano: alla prima apertura (fine XIX secolo) risale la gran parte degli arredi del negozio, che si rivelano di notevole pregio. Il lungo bancone è caratterizzato, sul lato verso la clientela, da specchiature di bel marmo «fior di pesco», incorniciate da listelli in bardiglio. Le alte scaffalature in legno che fasciano completamente il vasto ambiente sono caratterizzate nella parte sommitale da decorazioni che denunciano l’influsso dell’incipiente stile Liberty. Originali anche i lampadari e il pavimento a riquadri marmorei bianchi e grigi. In un ambiente attiguo si conserva un torrefattore «a palla» prodotto a Ludwingsburg, coevo all’apertura della drogheria.

Il famoso Premio Oscar che si è seduto a un tavolino dei Riacci è Adrian Brody, in una scena di The Brutalist, il film pluripremiato che ha portato sugli schermi di tutto il mondo la maestosità architettonica delle cave del ricercato marmo bianco di Toscana. Quel bianco che richiama magneticamente lo sguardo frettoloso di chi transita su e giù per l’autostrada litoranea del mar Tirreno: è l’illusione ottica delle Apuane innevate.

Chissà se gli emigranti grigionesi dell’800 hanno scelto di fermarsi proprio qui per il colore che ricorda la neve svizzera

Chissà, forse è proprio questa «neve eterna» che ha fermato ai piedi delle «Alpi» toscane gli emigranti grigionesi dell’800 in cammino verso il Sud, in cerca di fortuna. Come i Riacci, una delle famiglie grigionesi scese a Carrara a formare quella folta colonia elvetica di cui oggi va perdendosi la memoria. Tutti imprenditori dell’alimentazione, come testimonia il volume di Dolf Kaiser Cumpatriots in terras estras (Stampa separeda dal Fögl Ladin 1965/67): « Cla Puorger e Neisa Minar da Ramosch sun documentos intuorn il 1870 a Carrara. Ils frers Giovan e Andri Scharplatz da Strada sun documentos dal 1877. Mateo Denoth possedaiva üna drogaria dal 1888 e pü tard. In pü sun documentedas las seguaintas drogarias grischunas allò: Domenico Giuseppi (Gisep & Co.), Giovan Melcher, Christian Flütsch, Saverio Prinz (Samagnun), Adamo Spiller da la Val Müstair, Luigi Reacci (Riatsch) & Comp». Oggi di Riacci-Riatsch a Carrara non ne sono rimasti. La drogheria è passata di mano già alla fine degli anni Sessanta, quando Giovanni junior l’ha ceduta al suo commesso, padre dell’attuale proprietaria, Emanuela Santucci, che con il marito Giancarlo porta avanti l’attività iniziata dagli svizzeri nel 1888. Gli ultimi discendenti della famiglia engadinese si dividono tra i Riacci a Pisa e a Mila-

no, e i Riatsch rientrati in patria, tra Ginevra, Zurigo, Sciaffusa e Lugano. «Mia mamma era figlia dell’ultimo Riacci di Carrara», racconta Giovanna Lorenzi che con la zia Antonella di Pisa sta cercando di ricostruire l’albero genealogico della famiglia, a cavallo tra Svizzera e Italia, tra Riatsch e Riacci, con tutte le difficoltà burocratiche immaginabili.

«Io ho vissuto a Carrara solo un anno da bambina con mia mamma.

Stavamo in casa dei nonni sopra la drogheria, quando mio papà era a Boston per il post-dottorato. Poi ci siamo trasferiti a Zurigo, dove i miei genitori, che si erano conosciuti all’università di Pisa, hanno vinto un concorso al Politecnico.

Prima di loro – aggiunge la signora Lorenzi – era già rientrato in Svizzera, per studiare medicina a Ginevra, anche mio zio Giacomo, che ha ripreso il nome svizzero Riatsch».

Il richiamo dell’elvetica patria per gli studi universitari è stato condiviso negli anni da numerosi discendenti della colonia grigionese di Carrara. Anche da Trudiana Flütsch, che dal 1970 siede alla cassa di un’altra antica bottega svizzera: la storica Pasticceria Caflisch (pure catalogata fra i Beni culturali dello Stato italiano con i suoi pregiati scaffali in noce e gli specchi dell’inizio del Novecento). «Mi sono laureata in letteratura francese e italiana a Neuchâtel e, se non fosse mancato prematuramente mio padre, avrei proseguito gli studi in archeologia a Parigi» – racconta con un pizzico di rimpianto la signora Flütsch, figlioccia di Giovanni Riacci.

Invece Trudiana, Trudi per gli amici e gli affezionati clienti della pasticceria retrò, ha dovuto cambiare i suoi programmi e rientrare a casa. Il fratello studiava medicina a Pisa e a lei è toccato portare avanti l’attività di famiglia, la pasticceria che oggi è l’ultimo presidio delle botteghe svizzere tramandate di generazione in generazione nella cittadina ai piedi delle Apuane.

«Qui a Carrara, a fine Ottocento – racconta la memoria storica degli svizzeri di Lunigiana – l’industria estrattiva era fiorente e la città aveva già attratto altri stranieri, soprattutto ingegneri tedeschi e inglesi per le teleferiche e per il trenino che collegava le cave al mare. Il commercio si stava sviluppando e gli svizzeri delle valli grigionesi (quelli della grande emigrazione che si è sparsa per tutta Europa) avevano trovato terreno fertile per impiantare le loro attività alimentari. Fino all’ultima guerra avevano praticamente il monopolio delle drogherie. Poi, nel dopoguerra e soprattutto negli anni Sessanta, molti giovani sono partiti per gli studi, a

Pisa, a Milano, in Svizzera. E hanno lasciato Carrara e le attività di famiglia, che pian piano sono state chiuse o cedute. Mio papà, laureato in ingegneria elettrotecnica a Milano, aveva deciso di rientrare a Carrara per rinnovare e potenziare la società che era stata costituita dalle famiglie Flütsch e Caflisch», prosegue la signora Trudi tra un cabaret di pasticcini e un enorme uovo di cioccolato (ma garantisco che la specialità della casa sono le gelatine di frutta).

Cristiano Flütsch non aveva abbandonato Carrara neppure durante la guerra, quando gli svizzeri in Italia erano stati vivamente sollecitati a rientrare in patria. Molti erano rientrati o almeno avevano fatto rientrare donne e bambini. A chi rimaneva, il consolato di Firenze faceva affiggere una placca che ammoniva i belligeranti a rispettare la neutralità rossocrociata: «Questa casa è sotto la protezione svizzera». Trudi non era ancora nata, ma negli anni ha ricevuto numerose attestazioni di gratitudine da chi era scampato ai rastrellamenti di regime e da chi aveva trovato un tetto e

un materasso nei locali della bottega. «Carrara – spiega la signora Flütsch – è stata al fronte, sulla terribile Linea Gotica, per lunghissimi mesi. La popolazione era alla fame. Mio papà, dopo la chiusura della drogheria per i bombardamenti alleati sul vicino comando tedesco, aveva accolto gli sfollati sopravvissuti all’eccidio Bergiola, un paese qui sopra sulla montagna (strage nazi-fascista del 16 settembre 1944, che causò la morte di 72 civili, ndr.)».

Nel dopoguerra la società Caflisch & Flütsch si è sciolta e il padre di Trudi si è concentrato sulla drogheria, trasformandola nell’attuale pasticceria. Oggi Trudi volteggia tra la cassa e il bancone, mentre il fratello Jon, medico, in pensione dopo il Covid, impasta, farcisce e decora nel suo laboratorio, seguendo le ricette d’altri tempi: impagabili le deliziose sfoglie alla crema formato extra-large, che fanno bene agli occhi, al palato e al cuore (forse un po’ meno alla linea…).

Le tracce grigionesi in Lunigiana non si fermano a Carrara. Trudi mi consiglia una tappa a Pontremo-

li, dai conterranei del «Caffè, pasticceria, gelateria degli svizzeri», avviato dalle famiglie Aichta, Beeli e Steckli a metà Ottocento. La scheda del Catalogo dei beni culturali, oltre alle decorazioni pittoriche in stile Liberty e agli arredi artistici di inizio Novecento della ditta G. Galeotti e figli di Como, segnala un ricettario del 1841: conservato in laboratorio, custodisce il segreto degli amor, due sottili wafer quadrati che stringono una crema delicatamente variopinta. «L’originale Aichta dal 1842» – si legge sulla carta degli amor freschissimi, rinomata specialità della casa, che mi sono fatta impacchettare per il viaggio. Rincorro invano l’indaffaratissima titolare tra Pasticceria e Caffè per farmi raccontare anche la storia degli svizzeri di Pontremoli. Fuori c’è mercato, la piazza è affollata, i tavolini pieni. Dal laboratorio filtra il profumo festivo. La signora si scusa e si eclissa a passo di corsa: «Veniamo dall’Engadina e io rappresento la settima generazione degli Steckli! Il resto della storia lo può leggere sul nostro sito: www.aichta.com».

Matilde Fontana
Dal 1970 Trudi siede dietro la cassa di «Luzio Caflisch, drogheria pasticceria», catalogata fra i Beni culturali dello Stato italiano.
L’insegna, a Carrara, indica «Giovanni Riacci», ma quando arrivarono qui nell’Ottocento il loro cognome suonava «Riatsch».
La signora Trudiana (Trudi) Flütsch

Pizza ai carciofi e alla rucola

Piatto principale

Ingredienti per 4 persone

2 mozzarelle di 150 g ciascuna

100 g di cuori di carciofi in scatola, sgocciolati

2 pomodori

100 g di rucola

4 paste per pizza rotonde già spianate da 260 g farina per spianare la pasta

8 cucchiai di salsa di pomodoro sale pepe

1. Taglia le mozzarelle, i carciofi e i pomodori a fettine sottili. Sciacqua la rucola e falla sgocciolare bene.

2. Scalda il forno ad aria calda a 250 °C. Spiana a piacimento la pasta per pizza ancora un po’. Accomoda le basi di pasta su teglie foderate con carta da forno.

3. Distribuisci la salsa di pomodoro sulla pasta con un cucchiaio. Farcisci le pizze con i pomodori freschi, i carciofi e la mozzarella. Condisci con sale e pepe.

4. Cuoci 2 pizze alla volta per 1012 minuti. Prima di servire, cospargi con la rucola

GUSTO Pizza

Viva la pizza

Le pizze margherita e prosciutto le conoscono tutti. Perché non provare varianti anche con formaggio di capra, acciughe, carciofi e… ananas

Pizza Capricciosa

La capricciosa è la pizza dai molti sapori. Nella ricetta è farcita con carciofi, champignon, mozzarella, prosciutto e olive.

Chi ha inventato la pizza?

La pizza come la conosciamo oggi è stata servita per la prima volta a Napoli nel 18esimo secolo. Allora si trattava di semplici fette di pasta condite con pomodori, olio d’oliva, erbe aromatiche e aglio. La famosa Margherita, con pomodori, mozzarella e basilico, risale al 1889; fu creata in onore della regina Margherita. Nel IXX e XX secolo, molti italiani emigrarono in America, dove la cultura della pizza si sviluppò ulteriormente. La pasta divenne più spessa e gli ingredienti più vari. Da lì la pizza partì alla conquista del mondo.

Ricetta
Buono a sapersi

Piccola guida alla pizza

Pizza Calabrese

Preparare la pizza calabrese è facile con questa ricetta. Puoi usare la pasta pronta o farla in casa e farcire la pizza con mozzarella, acciughe e capperi.

La pizza fatta in casa sarà perfetta rispondendo correttamente alle seguenti quattro domande

Si può riscaldare il forno a 400 °C, oppure è necessaria un’apposita pietra?

Con la pietra si può preparare una pizza in stile napoletano, con un impasto soffice e arioso. Nel forno tradizionale, senza pietra refrattaria e con meno tempo, invece, riesce meglio la pizza romana, con un impasto più sottile rispetto alla variante napoletana.

Preparare l’impasto da sé oppure no?

Se si ha abbastanza tempo, l’impasto fatto in casa è molto semplice: bastano farina, lievito, acqua e sale. La regola è: meno lievito si usa, più lungo deve essere il tempo di lievitazione. La regola generale: 20 g di lievito per 500 g di farina.

Usare il mattarello oppure no?

Una pizza napoletana si forma senza

mattarello. Infatti, l’impasto è lievitato così a lungo che il mattarello potrebbe distruggere la sua struttura. Quindi, l’impasto va modellato a mano: basta prendere un po’ di farina nelle mani e girare e allungare l’impasto in senso orario fino a raggiungere il diametro desiderato, molto sottile al centro e un po’ più spesso ai bordi. Una pizza romana, il cui impasto è lievitato meno tempo, può essere stesa con il mattarello.

Quali ingredienti mettere sulla pizza?

Tutto ciò che piace. Ormai, anche nelle pizzerie italiane, ci sono oggi varianti con ananas o Nutella sul menu; quindi, la creatività non ha più limiti. Una cosa è però importante: non sovraccaricare troppo la pizza, altrimenti potrebbe contenere troppa umidità e diventare molliccia, oppure l’impasto potrebbe rompersi.

Pizza Margherita

Piatto principale

Ingredienti 4 persone

800 g di paste per pizza

2 dl di salsa per pizza o passata di pomodoro

300 g mozzarelle da 150 g l’una

4 rametti di basilico

1. Suddividi la pasta per pizza in porzioni da 200 g l’una. Forma delle pagnotte tonde. Copri e lascia lievitare per ca. 2 ore.

2. Scalda il forno statico a 250 °C (calore superiore e inferiore). Appiattisci le pagnotte di pasta su carta da forno leggermente infarinata, senza impastarle di nuovo. Spingi la pasta verso il bordo

dapprima con il pugno e poi con la mano aperta. Gira e lavora allo stesso modo l’altro lato. Allarga di un poco la pizza tirando la pasta. Al centro dovrebbe diventare sottile, mentre attorno al bordo sarà spessa e si gonfierà durante la cottura. Adagia su una teglia assieme alla carta da forno.

3. Distribuisci la salsa per pizza sulla pasta in modo uniforme con un cucchiaio, lasciando libero il bordo (se usi la passata di pomodoro condiscila leggermente con sale e pepe). Strappa le mozzarelle e distribuiscile.

4. Cuoci una pizza dopo l’altra nella metà inferiore del forno per ca. 12 minuti. Cospargi con le foglie di basilico strappate e servi.

Ricetta

Pizza con formaggio di capra e timo

Piatto principale

Ingredienti per 4 persone

2 formaggi di capra, ad es. Tendre Bûche di 150 g ciascuno

2 formaggi freschi di capra, ad es. Chavroux

150 g di pomodori cherry, ad es. arancioni

2 paste per pizza di 300 g ciascuna

4 rametti di timo

1 cucchiaino di semi di finocchio

2 cucchiai di miele liquido

1 cucchiaino di pepe rosa

1. Scalda il forno ventilato a 220 °C. Grattugia i due formaggi di capra a scaglie grosse con una grattugia per rösti e mescolale con il formaggio fresco di capra. Dimezza i pomodori. Dividi ogni pasta in due e spianale sul piano leggermente infarinato in lingue ovali di ca. 2 mm di spessore. Tira la pasta nel senso della lunghezza e accomodala su teglie foderate con carta da forno. Distribuisci la miscela di formaggio sulla pasta, lasciando libero il bordo. Guarnisci con i pomodori. Ripiega il bordo sulla pasta. Distribuisci il timo e i semi di finocchio sulle pizze. Cuoci al centro del forno per ca. 20 minuti. Sforna le pizze e irrorale con un po’ di miele. Cospargi di pepe rosa e servi.

Pizza Hawaii
La
con
Ricetta
Altre ricette per pizze su migusto.ch
Tagliapizza Migros Kitchen & Co. 1 pezzo Fr. 8.95
Pasta per pizza spianata 23 cm, 260 g Fr. 2.90

Il business della Generazione Z

Il caffè dei genitori ◆ Lavoro: un ripasso accelerato su come funziona il cervello degli adolescenti grazie a un sito svizzero

«Se vuoi che la tua azienda sia pronta per il futuro, devi capire la prossima generazione. Oggi è la Generazione Z a dover essere conquistata: entro il 2025 rappresenterà il 27% della forza lavoro e supererà i baby boomer. Se la tua azienda vuole essere a prova di futuro, deve comprenderla. Allora, cosa stai aspettando?». È quanto si legge su zeam.ch, il sito dell’agenzia di marketing e consulenza fondata nel 2020 a Zurigo dagli svizzeri Yaël Meier, nata a Lucerna l’8 maggio 2000, e dal giovane compagno di affari e di vita Jo Dietrich, con un master in International management alla Nova School of Business and Economics, vicino a Lisbona (Portogallo). Hanno due figli piccoli e, nel novembre 2020, sono entrambi entrati nella lista della rivista Forbes 30 Under 30, che premia chi si distingue per innovazione, impatto e successo nella regione

DACH: Germania (D), Austria (A) e Svizzera (CH).

Risultano molto più esigenti delle generazioni precedenti e pongono al centro il bisogno di chiarezza su ruolo, retribuzione e prospettive di crescita

A Il caffè dei genitori e ne Le parole dei figli, da anni stiamo cercando di capire la forza d’urto e di cambiamento della Generazione Z: in famiglia, nel linguaggio, sul posto di lavoro. Navigare su zeam.ch è come fare un ripasso accelerato su come funziona il cervello degli adolescenti, sentendolo direttamente dalla loro voce. E il risultato è ancora più impressionante! «Non potremmo vivere senza Internet. E ci chiediamo come si possa arrivare puntuali senza Google Maps. Lo smartphone è un’estensione del nostro braccio e tutto ciò che accade digitalmente è per noi reale tanto quanto ciò che accade nella vita “reale”. Il mondo digitale è il mondo in cui ci sentiamo a casa. Utilizziamo le

nuove tecnologie in modo intuitivo e troviamo sempre un modo per trarne vantaggio. I nostri modelli di riferimento sono le persone che vediamo sui social media. Ci mostrano cosa è possibile fare e come possiamo farlo anche noi. I social media ci permettono di connetterci con il mondo intero. Lì subiamo ingiustizie, cerchiamo informazioni e uniamo le forze con persone che la pensano come noi per fare qualcosa al riguardo». Ma la storia di Yaël Meier e Jo Dietrich è un esempio emblematico. Ci insegna anche e soprattutto un’altra cosa: spiegare chi sono i giovani di oggi, come ragionano e che tipo di vita professionale desiderano è diventato un mestiere! Lo scorso aprile, su queste pagine, Virginia Stagni, classe 1993, oggi a capo del marketing per l’Italia della multinazionale zurighese The Adecco Group, ci ha spiegato che i giovani della Gen Z cercano un lavoro che rispecchi la loro identità più che il prestigio dell’azienda. Risultano molto più esigenti delle generazioni precedenti e pongono al centro il bisogno di chiarezza su ruolo, retribuzione e prospettive di crescita. Se non trovano risposte convincenti, cambiano strada senza esitazione. Ne Le parole dei figli abbiamo compreso il loro motto: quiet quitting. Un’espressione che significa «fare lavorativamente il minimo indispensabile: non stai abbandonando il tuo lavoro, ma stai abbandonando l’idea di andare oltre. Il lavoro non è la tua vita. Il tuo valore non è definito dalla tua produttività». In questo contesto si inserisce la promessa di Yaël Meier e Jo Dietrich: «Conosciamo i giovani e mettiamo queste conoscenze a disposizione delle aziende. Vuoi capire cosa si aspettano i giovani talenti da un datore di lavoro e come puoi attrarli? Vuoi proporre il tuo prodotto a un target giovane? Il nostro team è tra i relatori più richiesti nella regione DACH. Parleremo di Generazione Z, Nuovo Lavoro e Metaverso». È il business della Gen Z sulla Gen Z: «La battaglia per accaparrarsi i lavo-

ratori migliori e più qualificati è iniziata e le richieste della Generazione Z pongono sfide importanti alle aziende. Questa generazione non è facile da conquistare neanche come gruppo di clienti. Bisogna affrontarli con nuovi prodotti e attraverso altri canali». Per le aziende conoscerli evidentemente sta diventando una doppia necessità: da un lato c’è l’esigenza di reclutarli come nuova forza, dall’altro di conquistarli come acquirenti dei loro prodotti. Assumere e vendere alla Gen Z! Non sono gli unici. Yaël Meier e Jo Dietrich sono solo alcuni dei protagonisti di questa necessità. Nel saggio Gen Z: Für Entscheider:innen (tradotto Gen Z, Per i decisori, ed. Campus Verlag, agosto 2022), a cui anche loro due hanno collaborato tra gli altri curatori, ed entrato nella classifica del-

la rivista tedesca «Der Spiegel», viene sottolineato: «In particolare le aziende si stanno chiedendo: cosa spinge la Generazione Z? E come puoi collaborare al meglio con lei? Quasi un terzo della popolazione mondiale appartiene alla Generazione Z, e sono loro che potrebbero rendere la nostra società adatta al futuro, se solo glielo permettessimo. I giovani di oggi tra i 10 e i 27 anni sono caratterizzati da preoccupazioni per l’ambiente in cui vivono e presentano il più alto tasso di malattie mentali mai registrato. Allo stesso tempo, sono più connessi e tecnologicamente più esperti di qualsiasi generazione precedente: sono i primi veri nativi digitali». Uno degli altri curatori del libro, Hauke Schwiezer, imprenditore e innovatore tedesco, cofondatore e ceo di Startup Teens, un’iniziativa no-profit che promuo-

ve l’imprenditorialità tra i giovani, assicura: «L’adozione di una mentalità più aperta e inclusiva, che valorizzi le idee dei giovani, è essenziale per il futuro delle imprese. Le aziende che desiderano rimanere innovative e competitive nei prossimi dieci anni dovrebbero considerare l’inclusione di giovani talenti nel loro consiglio di amministrazione». Sull’argomento la stessa Yaël Meier tiene lezioni e interventi in ogni dove: «Capire la Generazione Z: cosa li muove e cosa si aspettano»; «Giovani, digitali, esigenti: come le aziende dovrebbero comunicare con la Generazione Z»; «Nuovo mondo del lavoro, nuove regole del gioco: come la Generazione Z sta cambiando il mercato del lavoro»; «Marketing di nuova generazione: come i marchi possono rimanere rilevanti per la Generazione Z»; «L’autenticità non è un’opzione, è un prerequisito». La squadra di Zeam è un chiaro esempio di come le aziende devono integrare la flessibilità, l’autenticità e una comprensione profonda della cultura digitale nei loro approcci. Questi i loro profili di presentazione: Yaël Meier (co-fondatore): «Il mio capo d’abbigliamento più costoso esiste solo in formato digitale». Jo Dietrich (co-fondatore): «Puoi contattarmi solo 4 giorni a settimana». Malena Violinista (sceneggiatore): «In Zeam posso lavorare dove e quando voglio». Michele Kessler (responsabile creativo): «Ceo di Messaggi Vocali». Michele Hofmann (responsabile delle operazioni e della finanza): «Ciò che amo di più del lavoro da remoto è il mio cane». Linge Jonker (responsabile della comunità social): «Nessuno passa più tempo su TikTok al lavoro di me». Ajla Hamzcic (TikTok Face): «Se non posso farlo in pigiama, non lo farò». Jocelyne Kuhn (sceneggiatore): «Myspace Tom è stato il mio primo amico su internet». Alex Di Jesus Afonso (responsabile tecnico creativo): «Su Internet conduco una seconda vita come detective». Più chiaro di così...

Molti ragazzi della Generazione Z pensano: «Se non posso lavorare in pigiama, non lo farò». (Freepik)
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Un Museo che mette radici

Territorio ◆ Il nuovo progetto partecipativo del Museo Hermann Hesse Montagnola è stato realizzato in collaborazione con undici associazioni attive nel Comune di Collina d’Oro e parte dei giardini

Uscire dalle mura del museo per collegarsi al territorio e soprattutto alla gente che questo territorio lo vive ogni giorno. È quanto propone il Museo Hermann Hesse Montagnola a Collina d’Oro con un nuovo progetto partecipativo che quest’anno invita ad avvicinarsi al famoso scrittore tedesco attraverso uno dei temi a lui più cari: il giardino. Se nelle sale della Torre Camuzzi, oltre a visitare l’allestimento permanente, è possibile immergersi nei giardini protagonisti della vita di Hesse presentati in una mostra temporanea, all’esterno e nelle vicinanze si percepisce subito qual è oggi il significato di un giardino, dei suoi fiori, delle sue piante. Alla loro ombra, all’entrata del Museo, è stato infatti realizzato un tavolo alto la cui base è un compost, parola che si ritrova nel titolo dell’esposizione: Nei giardini di Hesse: tra compost, arte e consapevolezza. Quest’ultimo termine ha molteplici significati in relazione al progetto, dalla sensibilità nei confronti dell’ambiente fino all’attitudine dei cittadini del Comune di Collina d’Oro rispetto a un bene culturale quale è il Museo Hermann Hesse. Il suo direttore artistico e operativo Marcel Henry spiega come l’intento del nuovo progetto partecipativo – curato dall’etnologa nonché mediatrice culturale Veronica Carmine e che culminerà nel 2027 con le celebrazioni dei 150 anni dalla nascita dello scrittore – sia quello di consentire al Museo di mettere radici nel territorio in modo da crescere su basi solide.

Giardini poetici è il primo atto del progetto #HesseMontagnola27 che proseguirà per due anni, sino al 150. della nascita dello scrittore tedesco

I giardini poetici

Uno scrittore di lingua tedesca nella realtà della cultura svizzero-italiana è una fonte di ricchezza che può però incontrare qualche difficoltà a livello di legame con il territorio e di promozione. Marcel Henry, che dirige il Museo Hermann Hesse dal 2023, raccoglie la sfida di migliorare il dialogo fra queste due anime dell’istituzione puntando sulla partecipazione della popolazione. Cittadine e cittadini sono chiamati ad andare oltre il ruolo di fruitori di eventi proposti dal Museo – peraltro numerosi, differenziati e destinati a un pubblico di ogni fascia d’età – diventando protagonisti delle nuove proposte. Spiega il direttore: «Giardini poetici è il primo atto del progetto partecipativo #HesseMontagnola27 che ci accompagnerà ancora per due anni fino al 150. della nascita dello scrittore. Nello spazio pubblico di Montagnola abbiamo disposto partendo dalla centrale Piazza Brocchi delle installazioni realizzate in collaborazione con undici associazioni attive nel Comune di Collina d’Oro. Liberamente visibili, raccontano la comunità nella sua diversità attraverso le caratteristiche di ogni ente, un fiore e una parola simboli della loro identità e non da ultimo brevi testi di Hesse sulle rispettive specificità. In effetti AGISCO, ASSI, ATTE, Collina In Festa, Collina d’Oro Musica, FC Collina d’Oro, Grüpp di Griss e

di Peraa della Collina d’Oro, Stangon da Carabieta, Tennis Club Collina d’Oro, The Golden Hill Voices e Unihockey Collina d’Oro si occupano di promuovere attività diversificate quali musica, letteratura, sport e occasioni conviviali. Non mancano gruppi la cui attenzione è rivolta in particolare a determinate fasce della popolazione come i bambini e gli anziani. In questa preziosa occasione promossa dal Museo Hesse viene evidenziata la connessione fra la vita comunitaria odierna, interpretata come un giardino vivo e plurale, e la figura del famoso scrittore, premio Nobel per la Letteratura nel 1946, che per oltre quarant’anni (dal 1919 al 1962, anno della sua scomparsa) ha vissuto a Montagnola, apprezzandone la natura e la tranquillità.

«Questa visione del giardino comunitario ideata da Veronica Carmine – precisa Marcel Henry – ha

favorito il coinvolgimento di undici associazioni nell’elaborazione e nella realizzazione della mostra temporanea outdoor (fruibile fino al 12 ottobre) offrendo lo spunto a tutti i visitatori di approfondire l’opera di Hermann Hesse. Ogni postazione offre infatti citazioni dell’autore che possono essere l’occasione per andare alla scoperta dell’opera che le racchiude. Hesse è stato un appassionato giardiniere in tempi in cui questa attività da parte di un letterato godeva nel suo Paese d’origine di poca considerazione per non dire che veniva apertamente dileggiata come in una copertina della rivista Spiegel del 1958. Oggi invece esiste una nuova sensibilità, maturata anche in relazione ai cambiamenti climatici». L’iniziativa, sostenuta dal Comune di Collina d’Oro, è arricchita da un’agenda collaterale volta sempre a promuovere la cura dell’ambiente in sintonia con lo spirito di Hesse che si occupava personalmente del verde in cui erano immerse le sue abitazioni, da ultimo l’ampio giardino della Casa Rossa a Montagnola. La natura rappresentava per Hesse una fonte di equilibrio e di ispirazione per la sua scrittura. Oltre a diversi concerti e alla festa artistica per il compleanno dello scrittore lo scorso 2 luglio, il calendario prevede il prossimo fine settimana un corso di acquarello con escursioni e pittura all’aria aperta (un ulteriore richiamo a una delle passioni di Hesse) e appuntamenti autunnali che porteranno il progetto anche al di fuori dei confini comunali.

L’intento del direttore Henry è infatti quello di allargare l’interesse raggiungendo la vicina Italia. «Dal nord giungono i visitatori desiderosi

di ripercorre le tracce dello scrittore, ma possiamo ugualmente guardare a sud con progetti legati ai temi caratteristici di Hesse, in modo da favorire un approccio più soft, garante di maggiore continuità nel tempo». Prosegue l’intervistato: «Un museo letterario monografico come il nostro necessita di un flusso continuo di visitatori corrispondente a un appoggio ideologico e morale a sua volta essenziale per garantire l’impegno finanziario degli enti che lo sostengono, oggi rappresentati da Comune, Cantone, fondazioni e privati».

Con lo sguardo al futuro

Partito due anni fa con un workshop che accoglieva in primis le idee del team del Museo e di due persone esterne, il progetto partecipativo ha ora trovato una linea anche se la caratteristica di questo genere di approccio è la flessibilità. È inoltre sempre necessario un impegnativo lavoro di ascolto e motivazione da parte di chi guida il progetto, in questo caso Veronica Carmine. Unitamente a Marcel Henry promuove la visione che porterà alle celebrazioni del 2027 quando è previsto un nuovo allestimento permanente che possa integrare anche le voci della popolazione e un grande progetto partecipativo in fase di elaborazione. Già delineati invece i contorni dell’elemento centrale dell’anno prossimo. Marcel Henry: «L’idea per il 2026 è quella di dar vita a un teatro partecipativo, magari itinerante, ancora più aperto rispetto all’iniziativa di quest’anno nel senso di estendere a tutte e tutti gli interessati la possibilità di essere parte

del progetto creativo e rappresentativo anche perché il teatro fa ricorso a numerose competenze». Da segnalare inoltre che dallo scorso anno il Museo dispone di un atelier in centro paese per offrire spazio di lavoro a giovani artisti, inaugurato quest’anno con la presenza di Valerio Abate. Proveniente da diverse esperienze nel mondo dell’arte nello spazio pubblico, il direttore è sensibile a questo tipo di connessione con l’opera di Hermann Hesse, come dimostra anche la mostra pop-up proposta il 6-7 settembre al Garage Collina d’Oro a Gentilino, dove saranno presentate le opere di sei artisti il cui lavoro è strettamente legato alla natura e agli alberi, con i quali Hesse nutriva un intenso legame.

Permettere alla popolazione locale di scegliere parte del profilo del Museo è secondo Marcel Henry la strategia per rafforzare il legame fra le due entità e di conseguenza la posizione dell’istituzione museale che in generale da torre d’avorio quale era un tempo tende oggi a diventare parte integrante del tessuto comunitario. D’altronde nel 2022 la conferenza generale dell’International Council of Museums (ICOM), di cui Marcel Henry è membro a livello del comitato svizzero, ha aggiornato la definizione di museo sulla base di tre concetti: inclusione, partecipazione, sostenibilità. L’aspetto sociale ed ecologico di queste istituzioni è quindi non solo una sfida ma pure un obbligo. Il Museo di Montagnola si è incamminato su questa via con i giardini di Hesse, reali e comunitari.

Informazioni www.hessemontagnola.ch

L’ampio repertorio di frasi dell’autore tedesco è stato sfruttato per accompagnare le installazioni.
Fra le installazioni che accompagnano l’iniziativa, ecco «La Collina musicale», coi suoi fiori naturalmente.
Il «compostavolo», parola composta che l’installazione spiega in modo chiaro, visivamente.

ATTUALITÀ

Le novità dell’Europa spaziale

I tagli al budget della NASA voluti dal presidente americano Donald Trump potrebbero penalizzare il mondo intero, ecco come reagisce l’ESA

Gioventù

Israele, c’è chi dice no all’orrore

Il partito Hadash-Ta’al promuove una serrata critica non violenta all’occupazione coniugata a valori universali quali uguaglianza, libertà di opinione e laicità

e sport: tagli drastici in arrivo?

Svizzera ◆ Il Consiglio federale intende ridurre del 20 per cento le risorse messe a disposizione per corsi e campi di allenamento Diverse federazioni hanno già fatto sentire il loro dissenso, ora la parola passa al Parlamento

È un inizio di agosto decisamente tormentato per il nostro Paese. La Svizzera è finita nel vortice degli appetiti commerciali di Donald Trump, che proprio il primo di agosto ha sparato i suoi fuochi di artificio, con dazi doganali fissati molto in alto, lassù al 39%. Da allora il Consiglio federale si è lanciato in nuove trattative, aprendo una sorta di tempo supplementare per cercare di strappare al numero uno della Casa Bianca qualche concessione. Un compito arduo, affidato in particolare al ministro dell’economia Guy Parmelin e alla presidente della Confederazione Karin Keller-Sutter, che è anche ministra delle Finanze. Insieme sono partiti martedì scorso per Washington e insieme vogliono ora difendere il nostro Paese con una nuova offerta rivolta al presidente americano, di cui non si conoscono i contenuti, nel tentativo di calmare questa tempesta commerciale che rischia di costare caro al nostro Paese, in termini occupazionali e di crescita economica (leggi Rossi a pag. 19).

Governo e Parlamento devono confrontarsi con i conti della Confederazione e le misure di risparmio forgiate da Keller-Sutter

Il macigno dei dazi si inserisce in una serie di problematiche con cui il Governo, e con esso anche il Parlamento, erano comunque già chiamati a doversi confrontare da tempo. Una di queste, di certo tra le più ostiche, riguarda i conti della Confederazione e le misure di risparmio, forgiate proprio dalla ministra delle Finanze Karin Keller-Sutter. Un grande cantiere, con riduzioni di spesa che si fanno già sentire e che continueranno a farlo anche nel corso dei prossimi anni. Tra i tanti tagli previsti ce n’è uno di portata minore ma che ha fatto parecchio discutere nel corso delle ultime settimane e che riguarda i risparmi previsti nei conti di Gioventù e Sport (G+S), il principale programma di promozione dello sport nel nostro Paese. Un sistema creato nel 1972 e che in questi 53 anni è riuscito a imporsi grazie all’organizzazione di corsi, di campi di allenamento e anche con un programma di formazione continua per monitori e allenatori. Un’iniziativa che si è sviluppata sempre di più e che ora «è vittima del proprio successo», come ha fatto sapere lo scorso mese di giugno l’Ufficio federale dello sport, che gestisce questi programmi a livello nazionale.

I dati parlano chiaro: da anni le varie proposte formulate da Gioventù e Sport fanno registrare un costante aumento del numero di iscritti, culmi-

nati nelle cifre da primato del 2024, anno in cui su scala nazionale ben 680 mila giovani hanno partecipato a una delle attività organizzate da G+S, con un incremento pari al 6% rispetto all’anno precedente. E questo anche grazie all’introduzione di discipline considerate «nuove», come ad esempio l’aikido o il kickboxing. Un successo su cui pesa ora l’ombra dei risparmi pubblici.

Nel 2024 in tutto il Paese ben 680 mila giovani hanno partecipato a una delle attività organizzate da Gioventù e Sport

Ogni anno il Parlamento approva un credito-quadro, che nel 2024 era stato fissato a 115 milioni di franchi. Una somma che l’anno scorso è stata totalmente utilizzata, senza però andare nelle cifre rosse. Pericolo che è stato scongiurato anche per il 2025, ma solo grazie a misure di risparmio interne. L’anno prossimo questo credito-qua-

dro rischia però di non bastare a causa dei tagli che la Confederazione vuole imporre a G+S, pari a 2 milioni e 200 mila franchi.

Crescono gli iscritti, aumentano le discipline proposte, ma il credito-quadro rimane lo stesso, è questa la morsa in cui si trovano al momento questi programmi sportivi. Nel concreto ciò significa che i sussidi messi a disposizione per corsi e campi di allenamento verranno ridotti del 20%, anche per poter soddisfare un numero di proposte in costante aumento. Un brutto colpo per le varie associazioni sportive, scuole comprese, che fanno capo a questi contributi e un guaio con cui deve fare i conti anche il Movimento scoutistico svizzero, pure lui sostenuto dai fondi della Confederazione. I risparmi non si limitano al solo 2026, ma sono previsti pure negli anni successivi, anche se l’ultima parola spetta comunque ancora al Parlamento, che di anno in anno dovrà approvare queste misure inserite nel preventivo della Confederazione. Con un ulteriore ostacolo all’oriz-

zonte, visto che in futuro i tagli potrebbero anche essere più incisivi se confrontati con quelli previsti per l’anno prossimo. Rispetto al bilancio globale dell’Amministrazione federale si tratta comunque di cifre esigue, ma che rischiano di indebolire un ambito di grande valore. Non per nulla diverse federazioni sportive temono che questi risparmi possano anche intaccare in modo irreversibile la promozione dello sport popolare, quello che in tedesco viene chiamato il «Breitensport» e che costituisce da sempre la pietra angolare su cui poggia l’insieme della politica dello sport in Svizzera. Diverse le federazioni che hanno già fatto sentire il loro dissenso, su tutte citiamo l’Associazione Svizzera di Football, che si è detta «preoccupata» da questa misura, considerata non è soltanto «un segnale fatale ma anche un esercizio contabile con conseguenze sociali di grave portata» visto che per i giovani lo sport è anche un importante veicolo di socializzazione. Accese anche le reazioni da parte del mondo politico e qui spicca la posizio-

ne molto critica dei Cantoni romandi, che all’unisono hanno inviato al Consiglio federale una presa di posizione congiunta, in cui si legge tra l’altro che questi tagli si ripercuotono anche sul «lavoro di migliaia di volontari che costituiscono la spina dorsale dello sport popolare in Svizzera». Sul tema è stata anche lanciata una petizione online, che ha finora raccolto ben 170 mila sottoscrizioni. In attesa del dibattito in Parlamento, ci sono da registrare anche le parole di Martin Pfister, il ministro dello Sport, in carica da poco più di quattro mesi. A suo dire ci sono sempre dei margini di miglioramento, anche nel sostegno a Gioventù e Sport, al momento però i conti della Confederazione impongono dei sacrifici anche in questo settore. «Devo dare il mio sostegno alle misure di risparmio della Confederazione», ha dichiarato il neo-consigliere federale. Appuntamento dunque in autunno, quando i conti del preventivo 2026 approderanno in Parlamento. Una cosa è certa: di Gioventù e Sport sentiremo ancora parlare.

Keystone
Roberto Porta
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L’Europa spaziale a caccia di nuove opportunità

Prospettive ◆ I tagli al budget della NASA voluti da Trump potrebbero penalizzare il mondo intero, ecco come reagisce l’ESA

Il futuro dell’esplorazione spaziale come l’abbiamo vissuta finora è in serio pericolo e con esso anche quello della ricerca scientifica nella nostra galassia e nello spazio profondo. La riduzione del budget 2026 a disposizione dell’Agenzia spaziale americana, un taglio voluto fortemente dal presidente Donald Trump e pubblicato con dovizia di particolari il 30 maggio 2025 dalla stessa NASA, ha suscitato sgomento e indignazione in tutti quegli operatori del settore, scienziati e industriali, che da decenni sono impegnati in programmi nazionali e collaborazioni internazionali. Associazioni scientifiche di importanza mondiale e la stessa industria spaziale statunitense non hanno lesinato le critiche. Trump non ha mai nascosto le proprie intenzioni di ridurre significativamente la spesa pubblica e nel caso della NASA ha prospettato una diminuzione del budget di quasi il 25%: si scende dagli attuali 24,9 miliardi di dollari a 18,8 miliardi nel 2026. Se approvato in via definitiva dal Congresso (il voto è previsto non prima del prossimo ottobre) il fatto risulterebbe molto penalizzante per l’agenzia americana e per il mondo intero. Sì, perché nel documento reso noto è anche indicata esplicitamente la soppressione di programmi già concordati e addirittura già in corso con la collaborazione e l’impegno diretto di agenzie straniere, come l’Agenzia spaziale europea (ESA).

Il presidente Usa intende ridurre il budget da 24,9 miliardi di dollari a 18,8 miliardi nel 2026. La palla passa al Congresso

Un esempio per tutti: è a rischio persino il Gateway, la piccola stazione spaziale progettata per orbitare attorno alla Luna come avamposto umano in vista della discesa sul pianeta, nel quadro del programma Artemis. Tuttavia, l’America dice ancora che vuole arrivare sulla Luna entro il 2030 per battere i cinesi. La contraddizione appare evidente. Ad aggravare la situazione, nella proposta di bilancio figura anche una riduzione di quasi 4 miliardi di dollari sui fondi dedicati ai programmi scientifici: un potenziale disastro. Fortunatamente ci sono ancora alcuni mesi per analizzare quanto avventate siano state queste misure e per correre ai ripari, ma non si sa mai. Viviamo in un contesto difficile, dove gli interessi geopolitici la fanno da padrone. Nel frattempo l’ESA sembra darsi da fare per consolidare il suo ruolo in diversi programmi e va alla caccia di nuove opportunità. Il giugno scorso ha firmato un protocollo d’intesa con Thales Alenia Space (la società aerospaziale franco-italiana che è la più grande produttrice di satelliti in Europa) e l’americana Blue Origin (un’azienda aerospaziale privata fondata da Jeff Bezos, il famoso miliardario patron di Amazon), un documento che mira a promuovere e facilitare l’avan-

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sua

attorno al nostro satellite (programma Artemis), è a

zamento commerciale e industriale dell’esplorazione spaziale nelle orbite basse (zona definita con l’acronimo LEO). L’accordo non è legalmente vincolante come un contratto, ma delinea gli impegni e le intenzioni dei firmatari come passo preliminare per un futuro impegno più formale. Per l’Europa spaziale la novità della sottoscrizione di un tale accordo è che stabilisce legami più stretti e privilegiati con Blue Origin. L’azienda americana tra le molte sue attività annovera lo sviluppo di Orbital Reef, una stazione spaziale commerciale privata già in fase di sviluppo – progettata insieme a Sierra Space e altri partner americani tra i quali la Boeing – destinata a ospitare attività di ricerca e commerciali nell’orbita terrestre bassa. La stazione contempla, per Bezos, anche l’opzione turismo spaziale. Sarà un «parco commerciale a uso misto», come l’ha definita Blue Origin, e potrà

ospitare fino a 10 persone. Potrebbe essere pronta entro la fine del decennio. Tutti i partner firmatari si dicono entusiasti per la fiducia reciproca riposta nel programma appena ricordato e per la nascente nuova collaborazione. Si tratterà di preparare nuovi moduli, sistemi e sottosistemi per la nuova stazione, e di inserirsi con essa nell’agguerrita lotta per la privatizzazione dell’orbita terrestre.

La Stazione spaziale internazionale (ISS) si avvicina alla fine della sua vita operativa e probabilmente sarà deorbitata entro il 2030. L’economia spaziale è pronta per una transizione verso stazioni spaziali di proprietà e gestione privata. Le aziende commerciali stanno facendo passi avanti per colmare il vuoto e monetizzare sulla crescente domanda di ricerca, produzione e turismo nello spazio. I contendenti sono tanti. Orbital Reef sa di dover fronteggiare concorren-

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In

ti altrettanto determinati già attivi nello spazio, come Axiom Space (altra azienda privata Usa) e SpaceX (di Elon Musk), in una competizione che ridefinirà il modello dell’accesso allo spazio. Una NASA azzoppata, che comunque partecipa a quasi tutto, potrebbe perdere la sua leadership, ma sembra che Trump abbia altri pensieri. Solamente il settore dell’esplorazione umana registra un aumento del budget NASA rispetto all’anno precedente e questo perché c’è in ballo la competizione con la Cina per arrivare primi sulla Luna e su Marte. L’ESA è fuori da queste logiche e prosegue con la sua politica intesa a favorire il benessere delle popolazioni attraverso la conoscenza e diverse realizzazioni tecnico-pratiche di sicuro avvenire. Il 7 di luglio scorso ha annunciato con enfasi il successo di un esperimento di comunicazione ottica dalla Terra fin nello spazio profondo. Il progetto Deep Space Optical Communications è della NASA e ha già visto lo scorso anno un primo successo da parte dei ricercatori del Jet Propulsion Laboratory californiano. Quest’anno, con il benestare degli americani, è stato replicato con successo da un’equipe europea che ha stabilito una comunicazione laser di andata e ritorno con il satellite Psyche della NASA che si trovava a 265 milioni di Km da due stazioni in Grecia, dimostrando così di saper padroneggiare tecniche d’avanguardia. Un esempio di collaborazione scientifico-tecnica dalle prospettive interessanti. Si è dimostrata la possibilità di comunicazioni ottiche (laser) ad alta larghezza di banda per le missioni spaziali, anche fino a Marte,

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superando le capacità delle tradizionali comunicazioni radio. Trasportando dati a una velocità fino a 100 volte superiore a quella delle frequenze radio, i laser possono consentire la trasmissione di informazioni scientifiche complesse e di immagini e video ad alta definizione.

Inoltre per l’ESA avanza un programma (chiamato SpaceRISE), varato meno di un anno fa, per costruire una nuova costellazione di satelliti che possa fare concorrenza agli Starlinks di Elon Musk. Insomma, sembra evidente che l’Europa spaziale cerchi sempre più di proporsi e consolidare la sua posizione di importante partner nel contesto internazionale. Nella riunione tenutasi a Parigi l’11 e il 12 giugno scorso il Consiglio dell’agenzia ha adottato una risoluzione che sarà sottoposta al Consiglio ministeriale del prossimo novembre. Si parla di resilienza di fronte alle minacce che colpiscono il nostro pianeta, di farsi guida per la conoscenza umana nei riguardi dell’universo, di incrementare la collaborazione tra tutti gli Stati membri, di favorire crescita e competitività. Il Consiglio ha approvato diversi accordi di cooperazione con partner internazionali, in particolare un’estensione del memorandum d’intesa tra l’ESA e L’ONU sulla cooperazione nell’uso dei dati e della tecnologia per gli insediamenti urbani e gli habitat in generale, inoltre il prolungamento di 5 anni dell’accordo in vigore con l’Agenzia europea per la sicurezza marittima riguardante l’uso di sistemi basati sullo spazio in appoggio alla navigazione, alla sorveglianza e alla lotta all’inquinamento dei mari.

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La Stazione spaziale internazionale si avvicina alla fine della
vita operativa (Keystone).
basso la Luna: il Gateway, la piccola stazione spaziale progettata per orbitare
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Israele, tra chi combatte l’odio

Medio Oriente ◆ Il partito Hadash-Ta’al promuove una serrata critica non violenta all’occupazione coniugata a valori universali quali uguaglianza, libertà di opinione e laicità

Nelle ultime settimane la situazione in Israele-Palestina sembra essere fuori controllo. Allo strazio dei palestinesi vittime della fame e delle operazioni militari a Gaza, e al calvario degli ostaggi israeliani in fin di vita filmati dall’aguzzino Hamas per scatenare le piazza contro Netanyahu, di recente si è aggiunta la disgraziata decisione del Governo israeliano di procedere all’occupazione militare di Gaza.

Nonostante l’urgenza di interventi esterni Trump è ambiguo, l’Europa vacilla e tarda ad attuare misure concrete, mentre sui social prevale l’ossessione di raggiungere il massimo consenso possibile sulla definizione di genocidio rispetto ai crimini perpetrati dal popolo d’Israele, la cui potenziale trasformazione da vittima a carnefice sembra offrire un’inquietante occasione di godimento ad una nutrita fascia di utenti occidentali.

Ci si mobilita anche contro l’avanzamento della riforma giudiziaria che rimuove gradualmente ogni ostacolo alla dittatura

Fortunatamente in Israele, di fronte alla gravità della situazione a Gaza e all’avanzamento della riforma giudiziaria che rimuove gradualmente ogni ostacolo alla dittatura, si assiste ad una mobilitazione senza precedenti dal 7 ottobre 2023. A tutte le ore del giorno in luoghi diversi del Paese hanno luogo manifestazioni di ogni genere contro la guerra, contro la fame a Gaza e a sostegno delle famiglie degli ostaggi che chiedono un accordo immediato da attuarsi con un unico scambio di prigionieri. Insieme a movimenti come Standing Together, a sua volta parte della grande coalizione per la pace It’s time, tra gli attivisti più agguerriti spiccano i sostenitori

Fra i Libri

Genocidio di Rula Jebreal e Genocide in Gaza di Avi Shlaim

di Hadash, la lista progressista unita arabo-ebraica. Recentemente il partito Hadash-Ta’al ha goduto di una rinnovata risonanza intorno alla figura del suo leader Ayman Odeh, avvocato originario di Haifa e involontario protagonista di un tentativo di impeachment architettato dalla destra, e tristemente supportato anche da parte dell’opposizione, per estrometterlo dalla Knesset e colpire l’elettorato palestinese allontanandolo dalle urne delle sempre meno probabili future elezioni. Come se non bastasse, appena scampato da false accuse e minacce verbali, qualche settimana fa Odeh, insieme a Ofer Cassif, deputato ebreo del partito, è stato aggredito fisicamente da un gruppo di fanatici nel corso una manifestazione nella città di Nes Tziona.

Nel Parlamento israeliano di oggi, dove i cosiddetti leader dell’opposizione come Lapid, Gantz e persino Golan preferiscono sedere con i colleghi ebrei di destra piuttosto che con i palestinesi, Hadash è rimasto forse l’unico garante di quello straccio di democrazia non ancora corrosa. La sua agenda, che promuove una serrata critica non violenta all’occupazione coniugata a valori universali quali uguaglianza, libertà di opinione e laicità, potrebbe diventare sempre più popolare proprio per l’assenza di oneste alternative. A dimostrarlo è anche l’entusiasmo con cui Odeh viene accolto alle proteste alle quali interviene, come è accaduto nel Nord di Israele dove i manifestanti hanno applaudito lungamente al suo discorso: «Sappiamo che la vera lotta è tra fascismo e democrazia, tra discriminazione e uguaglianza assoluta, tra occupazione e libertà per tutti, tra una guerra infinita e una vera pace e, adesso, tra la prosecuzione dello sterminio e la fine della guerra con un accordo completo! E noi insieme, arabi ed ebrei mercanti di pace, sappiamo

che i nostri valori vinceranno perché non abbiamo intenzione di rinunciare, siamo più determinati che mai. Dopo l’incubo che abbiamo passato c’è una sola cosa chiara a tutti: non c’è mai stata, né mai ci sarà, una soluzione militare, perché non si può sconfiggere un popolo intero, perché tra il fiume e il mare vivono due popoli e nessuno dei due si volatilizzerà né sparirà. Dobbiamo capire che, volenti o nolenti, il nostro destino è intrecciato, che non siamo destinati a morire insieme, bensì a vivere insieme!». L’ottimismo che traspare dalle parole di Odeh è esattamente quello di cui hanno disperatamente bisogno oggi gli israeliani, ebrei e palestinesi con le debite asimmetrie, per non soccombere all’angoscia del baratro nel quale sta precipitando la Nazione e immaginare un futuro diverso. Tuttavia la strada è ancora tutta in salita, come dimostra il nuovo spiegamento di forze dell’ordine di fronte all’entrata della sede del partito al centro di Tel Aviv pochi giorni dopo il tentato linciaggio. Pur consapevo-

li di mettere a repentaglio la propria incolumità, gli attivisti non sembrano disposti a farsi chiudere la bocca e il programma è chiaro. Nel breve: mettere fine al genocidio, stipulare un accordo per tutti gli ostaggi israeliani e fermare la pulizia etnica in Cisgiordania. Nel lungo ottenere la fine dell’occupazione, chiave quest’ultima per la normalizzazione della presenza ebraica in Medioriente anche in termini di lotte di classe. Se Oslo aveva comportato una crisi ideologica per la sinistra, secondo Odeh il 7 ottobre rappresenta una sfida al paradigma della forza sostenuto dalla destra. Ma, spiega citando Gramsci, «è nel chiaroscuro tra la morte del vecchio mondo e quello nuovo che tarda a comparire che nascono i mostri». E con i mostri devi stare molto attento anche a quello che dici, se non vuoi fare la fine di Ofer Cassif che martedì è stato nuovamente espulso dalla Knesset, questa volta per aver citato l’utilizzo della parola «genocidio» in riferimento a Gaza da parte del celebre scrittore israeliano David Grossman. Se dunque all’estero le drammatiche parole di Grossman, benché intrise di dolore e umanità, sono state criticate duramente e classificate da molti come ipocrite e tardive, in Israele per parlare di genocidio alla società ebraica devi essere quasi un eroe disposto a pagare prezzi estremamente alti. Anche Hadash, come le organizzazioni per diritti umani di cui abbiamo parlato la settimana scorsa, è simbolo dell’importanza della partnership arabo-ebraica nella lotta per la giustizia e la liberazione. Non si tratta di tracciare simmetrie, ma di comprendere che la narrazione dell’Occidente che vuole le due parti solo nemiche e contrapposte deve lasciare urgentemente spazio alla collaborazione che va favorita e sostenuta ad ogni costo.

A Gaza è genocidio. Nei prossimi decenni e poi secoli l’argomento sarà largamente dibattuto con dispute tra storici. Le controversie sono già cominciate, sono infatti appena usciti i primi libri su Gaza che hanno la parola «genocidio» già nel titolo. Il primo è Genocidio di Rula Jebreal (Piemme, 2025), il secondo è Genocide in Gaza di Avi Shlaim (Irish Pages Press, 2025). I due saggi partono da premesse e spunti diversi. L’analisi della giornalista internazionale (lavora per il network americano MSNBC e ha doppia cittadinanza israeliana e italiana) Rula Jebreal è impeccabilmente documentata, pur contenendo un elemento autobiografico ed emotivo (l’autrice è palestinese e musulmana laica). Avi Shlaim – un israeliano di origine ebraica irachena – è invece un docente di Oxford, e il suo approccio è del tutto asettico, distaccato e scientifico (è infatti uno degli storici britannici più rispettati, come Fellow della British Academy e detentore della British Academy Medal e di numerosi riconoscimenti). Dunque, i due ineccepibili libri partono da esperienze umane diverse, ma giungono alla medesima conclusione: il genocidio di Gaza non comincia come risposta all’attacco dei terroristi di Hamas del 7 ottobre 2023. Esso rientra bensì in un fenomeno di lungo periodo, che secondo Jebreal comincia con la «Nakba» (catastrofe) del 1948, e che secondo il professor Shlaim è più direttamente riconducibile alle precedenti sette operazioni militari su Gaza, la prima delle quali è stata l’Operazione piombo fuso del dicembre 2008. A questo proposito, è da notare che il sottotitolo del saggio del professor Shlaim è Israel, Hamas, and the Long War on Palestine (Israele, Hamas e la lunga guerra alla Palestina).

Ma come definire il fenomeno del genocidio? Entrambi gli autori si riferiscono alla Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio del 9 dicembre 1948, che nell’articolo II definisce questo fenomeno come atti commessi con l’intento di distruggere totalmente o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. E qui si arriva ad un’altra convergenza: Jebreal e Shlaim sono d’accordo che la fornitura di armi e la copertura diplomatica alle Nazioni Unite a favore di Israele rendono l’America, la Gran Bretagna e la maggior parte dei Paesi dell’Unione europea non solo complici ma anche facilitatori del genocidio di Gaza. C’è anche, soprattutto da parte di Jebreal, un bisogno emotivo di testimoniare e di fare qualcosa: «Scrivo affinché nessuno, in futuro, possa dire di non sapere o che non poteva sapere». Lo scorso primo agosto la tesi dei due autori ha trovato appoggio in David Grossman, uno dei più notevoli rappresentanti della letteratura israeliana, che per descrivere il massacro di Gaza ha a sua volta usato la parola genocidio. Un fondamentale sostegno accademico è infine arrivato dallo storico americano-israeliano Omer Bartow. Sul «New York Times» del 15 luglio, questo professore degli Studi su Olocausto e genocidi alla Brown University, ha pubblicato un articolo dal titolo: «I am a Genocide Scholar. I Know it When I see It». Tradotto: «Sono uno studioso del genocidio. Quando lo vedo lo riconosco».

Ayman Odeh, leader del partito Hadash-Ta’al. (Wikipedia)
Protesta contro l’orrore di Gaza nei pressi dell’ambasciata statunitense a Tel Aviv. (Keystone)
di Paolo A. Dossena

Il Mercato e la Piazza

Dazi: la stangata è arrivata

Ci sono date che restano scolpite nella mente. Sono normalmente quelle delle grandi catastrofi come per esempio l’11 settembre 2001, la distruzione delle Torri gemelle del World Economic Center di New York. È probabile che, per gli svizzeri, il 7 agosto scorso diventi una data di questo tipo, da non dimenticare.

Quel giorno sono infatti entrate in vigore le nuove tariffe doganali statunitensi: dazi dell’ordine del 39% sulle importazioni dal nostro Paese. Nel tentativo di evitare la stangata, la presidente della Confederazione Karin Keller-Sutter e il consigliere federale Guy Parmelin si erano recati a Washington, presentando una nuova offerta. L’incontro con il segretario di Stato Marco Rubio non ha però portato a un cambio di rotta da parte americana.

Per molte aziende esportatrici dell’e-

In&Outlet

conomia svizzera è una vera stangata. Vediamo perché. In primo luogo perché gli Stati Uniti sono un loro cliente molto importante. Nel 2023, per esempio, le aziende elvetiche hanno esportato negli Stati Uniti prodotti per 56 miliardi di franchi. Le importazioni da quel Paese in Svizzera hanno raggiunto, sempre nel 2023, i 29,7 miliardi di franchi. Negli scambi commerciali con gli Stati Uniti la Confederazione ha quindi realizzato un’eccedenza di esportazioni pari a 26,3 miliardi. In secondo luogo occorre rilevare che, mentre la quota degli Stati Uniti nelle esportazioni del nostro Paese rappresenta, anno più anno meno, circa il 20%; l’eccedenza di esportazioni che la Svizzera realizza con gli Usa corrisponde a più della metà dell’eccedenza complessiva della nostra bilancia commerciale. Il mercato statunitense è quindi

per la Confederazione la gallina dalle uova d’oro. Questo risultato è dovuto al fatto che la Svizzera, in proporzione, importa molto poco da quel Paese. La bilancia commerciale con il gigante americano è decisamente disequilibrata. Infatti, mentre le esportazioni della Svizzera verso gli Stati Uniti rappresentano il 20% del totale, le importazioni da quel Paese non costituiscono che il 13,1% del totale delle nostre importazioni.

Questi gli argomenti che probabilmente spiegano perché il presidente Trump si sia particolarmente accanito contro gli esportatori svizzeri. Dazi vicini al 40% sono infatti tra quelli più elevati che la sua amministrazione intende imporre. Trump avrebbe infatti spiegato che i dazi per i prodotti elvetici sono stati fissati al 39% perché l’eccedenza della Svizzera nella bilancia commerciale sarebbe

L’Europa deve reagire, ecco come

È evidente che Donald Trump non sa cosa farsene della tradizionale alleanza con gli europei. È stato arrogante con la Svizzera. Lo è stato con l’Ue, che si è lasciata umiliare. Il primo ministro francese François Bayrou ha commentato, dopo l’accordo sui dazi al 15%: «È un giorno triste, quello in cui un’alleanza di popoli liberi, riuniti per affermare i loro valori e difendere i loro interessi, si rassegna alla sottomissione». Ma l’opposizione ha avuto buon gioco a rispondergli che così parla un analista, non un primo ministro, che avrebbe semmai il dovere di agire. Tutto questo dà il segno della debolezza della Francia e di quello dell’Europa. Anche perché in Francia l’alternativa all’attuale Governo non è un Governo più europeista, ma lo scontro tra due populismi contrapposti, uno di estrema sinistra e uno – molto più forte – di estrema destra, i quali segnerebbero entram-

bi la fine dell’Europa così come la conosciamo. Il problema è che l’Europa sta dando una prova di sé talmente pessima da rafforzare chi ne decreterebbe la fine. Personaggi come il premier ungherese Viktor Orbàn, che ha sentenziato: «Trump si è mangiato Ursula a colazione». Voi direte: ma l’Ungheria non fa parte degli Usa; fa parte dell’Ue. In teoria non sta con chi ha mangiato, ma con chi è stato mangiato... Anche questo misura l’assurdità della situazione. Il patto siglato da Ursula von der Leyen nei possedimenti scozzesi di Trump è un patto leonino. Da una parte l’arroganza di un presidente che comunque è stato eletto dal popolo. Dall’altra l’arrendevolezza di una politica che deve costruire ogni giorno nel Parlamento europeo una maggioranza variabile, che in teoria include socialisti e democratici ma a volte strizza l’occhio a sovranisti e populisti. In mezzo c’è l’Italia. Che

rivendica una speciale sintonia politica con Trump, ma non sa che farsene. E vede calare sul proprio export la mannaia dei dazi, senza avere nulla in cambio. Alla fine trovi sempre un sovranista più grosso di te. Il patto tra Europa e Usa non è una cosa seria. Per comprare dagli Usa energia e armi per 750 miliardi, l’Europa dovrebbe smettere di importare gas da qualsiasi Paese al mondo, compresi quelli con cui ha un accordo in essere, e disdire le commesse militari alle proprie aziende. Inoltre von der Leyen si è impegnata, a nome degli europei, a investire negli Usa altri 600 miliardi: cifre in libertà, tipo i fantastiliardi di zio Paperone. «Ad impossibilia nemo tenetur»: nessuno è tenuto a ottemperare a obblighi impossibili. Ma Trump non è tipo da latinorum. Trump è il lupo di Fedro, che accusa l’agnellino di aver intorbidito l’acqua; e se non può essere stato l’agnellino, che non era anco-

Il risveglio estivo della Lega dei ticinesi

In politica quando le cose vanno storte, o disattendono promesse e speranze, si è soliti invocare il ritorno alle origini: una dimensione ritenuta pura e primigenia, non ancora contaminata da interessi di parte. Ogni movimento nasce sulla base di questo spirito, che è tipico delle mobilitazioni nate sull’onda dell’indignazione e della protesta. L’analogia con le sette religiose e i gruppi ereticali è evidente. In questo caso il bersaglio polemico è l’istituzione, la Chiesa ufficiale, la teologia dominante. La stessa dinamica è osservabile nello spazio della politica. A destra come a sinistra, il bersaglio polemico è colui che si è allontanato dal momento mistico e profetico; è colui che ha tradito gli ideali per inseguire unicamente ambizioni personali, a scapito del «popolo». Un passaggio che negli anni Settanta del secolo scorso è stato studiato a fondo dal sociologo Francesco Alberoni, in saggi

pari a 40 miliardi di franchi. È possibile che in un anno di esportazioni eccezionali, come è stato il 2024, l’eccedenza abbia potuto raggiungere i 40 miliardi. In anni normali, però, il valore di quest’eccedenza non raggiunge i 35 miliardi. Ma queste sono quisquilie statistiche che non rimettono in discussione la realtà del disequilibrio nella bilancia degli scambi commerciali tra i due Paesi. Le autorità svizzere hanno dichiarato di essere molto deluse dalla decisione americana, perché i progressi fatti nelle trattative condotte sin qui lasciavano sperare una soluzione decisamente migliore. Gli sforzi dell’ultimo minuto per cercare di indurre il presidente americano a ribassare i dazi previsti non sono come detto serviti a nulla. Quindi molte aziende svizzere si trovano ora confrontate con una situazione di mercato a loro particolar-

mente sfavorevole. Attenzione però: solo il 60% dei prodotti esportati dalla nostra economia negli Stati Uniti saranno sottoposti ai nuovi dazi. In particolare non lo saranno, per il momento, quelli delle aziende farmaceutiche e delle fonderie dell’oro che, nel 2024, sono state largamente responsabili del disequilibrio degli scambi. E allora? Il presidente americano rischia di fare un buco nell’acqua. È infatti possibile che i dazi sulle nostre esportazioni non riescano a ridurre l’eccedenza della nostra bilancia commerciale perché gli stessi non si applicano a quelle esportazioni che sono maggiormente responsabili del disequilibrio. Le nuove tariffe doganali statunitensi avranno comunque un effetto molto negativo per molte altre aziende esportatrici svizzere. Per il nostro Paese non è la fine del mondo ma un diluvio universale sì.

ra nato, allora sarà stato un suo avo. L’unico linguaggio che uno come Trump capisce al tavolo negoziale è il linguaggio della forza. Quindi il problema riguarda, prima ancora della Francia, il Paese economicamente più forte d’Europa: la Germania. È tedesca e cristianodemocratica Ursula von der Leyen. È tedesco e cristianodemocratico il cancelliere Merz, l’unico – a parte Orbàn – ad aver commentato con gioia la vittoria negoziale di Trump. La Germania si illude forse di aver messo in sicurezza la sua traballante industria automobilistica. Ma consegnandosi a Trump ha rinunciato alla propria leadership europea e sancisce la propria debolezza politica, con metà Paese in cui la prima forza è il sovranismo anti-europeo. Che fare? Sottomettersi per davvero? No. L’unico modo che l’Europa avrebbe per reagire sarebbe un grande piano per reindustrializzare il Continen-

te. E rilanciare i consumi interni. In Europa, e in Italia in particolare, i salari salgono meno dei prezzi, e la pressione fiscale sui ceti medi è insostenibile. Ma per diminuire le tasse ai produttori, e in particolare al ceto medio impoverito, senza tagliare sanità scuola sicurezza, bisogna prendere i soldi là dove ci sono. Il vero scandalo è l’impunità fiscale garantita ai padroni della Rete, ai coniatori di criptovalute, ai re della rivoluzione digitale e dell’intelligenza artificiale. I Paesi europei oggi tassano pressoché al 50% chi porta a casa tremila euro netti al mese. Un simile sistema non è sostenibile. Lo spazio politico di qualsiasi partito europeo nei prossimi anni sarà la difesa del ceto medio: più salari, più investimenti, più consumi e meno tasse. L’alternativa è quella additata dall’impotente premier francese Bayrou: la sottomissione. Il declino definitivo dell’Europa.

come Movimento e istituzione, pubblicato dal Mulino nel 1977. Questa ricerca ci è tornata alla mente in occasione del virile risveglio estivo della Lega dei Ticinesi. Il prospettato «arrocco», ossia l’idea dello scambio dei posti in Governo tra Zali e Gobbi, è stato motivato dalla necessità di scuotere e rianimare il movimento dopo anni di bonaccia. Ci si è insomma accorti che la ormai pluriennale presenza nell’Esecutivo aveva tagliato le unghie allo spiritello leghista, rendendolo del tutto uguale agli altri rappresentanti del «Governicchio».

Di qui la reazione, scaturita per ravvivare la fiamma della Lega delle origini, quando i fondatori Bignasca e Maspoli eccitavano gli animi lanciando iniziative clamorose, come l’occupazione dell’autostrada. Il fatto è che quella fase creativa ed effervescente –che Alberoni chiama l’euforia dello «Stato nascente» – è durata assai po-

co. Fondata nel 1991, la Lega ha presto raccolto un numero crescente di consensi, approdando in Consiglio di Stato, con Marco Borradori, già nel 1995. Si è poi giunti al raddoppio nel 2011, con Norman Gobbi. Partecipando ad una compagine governativa di tipo consociativo (in compagnia di un liberale, un centrista e un socialista), era fatale che la Lega si facesse «istituzione» e che quindi dovesse riporre in soffitta l’alabarda della ribellione. In queste condizioni rievocare le barricate non ha gran senso, se non quello di comunicare all’elettorato che si è ancora vivi e battaglieri. Il 2027 non è lontano. In passato anche il PSA (Partito Socialista Autonomo) ha compiuto un percorso analogo. Formatosi nel 1969 alla sinistra del Partito Socialista Ticinese, era però rimasto all’opposizione per diciotto anni prima di accedere al Consiglio di Stato (con Pietro Martinelli nel 1987). Quell’attesa nell’anticamera era stata più lunga, sia perché così volevano gli stessi militanti che rifiutavano di partecipare ad un Governo a maggioranza borghese, sia perché vigeva, qui come altrove, un esplicito veto anticomunista (c’era la guerra fredda).

PSA e Lega sono tuttavia confrontabili fino ad un certo punto, e non soltanto perché i tempi sono mutati dopo il crollo del muro di Berlino e l’apertura delle frontiere in un contesto di economie globalizzate. Diversa era la base elettorale: impiegati pubblici, insegnanti, liberi professionisti, intellettuali per il PSA; classi popolari, ceti declassati e gruppi di arrabbiati per la Lega. Diversissimo il bagaglio ideologico: libresco e strutturato quello del PSA (marxista); ruvido, anti-casta e populista quello della Lega. Un altro aspetto da non trascurare riguarda le influenze esterne. La confinante

Italia ha sempre concimato il terreno della nostra politica locale con idee, categorie, linguaggio, slogan, posture. Numerosi i giornalisti italiani che hanno lavorato in testate ticinesi, da Gazzetta Ticinese a Libera Stampa Il leghismo è spuntato nel nord Italia, soprattutto nel Veneto e in Lombardia, e solo dopo qualche anno ha valicato la frontiera per acclimatarsi nel Luganese. Invece altri movimenti, come i Cinque Stelle di Grillo e le emiliane Sardine, non hanno trovato ascolto al di qua del Monte Olimpino. Resta il fatto che, con l’eccezione delle effimere Sardine, tutte queste iniziative hanno vissuto la transizione da movimento ad istituzione, congedandosi quindi dal fervore ideale, mistico e dionisiaco (sempre Alberoni) che aveva alimentato lo slancio iniziale. Ci sono percorsi, anche in politica, il cui destino appare già segnato fin dal momento della «discesa in campo».

di Angelo Rossi
di Aldo Cazzullo
di Orazio Martinetti

Amanti della pasta, attenzione!

4.50

2.59

Tutti

CULTURA

Una fiaba surreale vestita da cowboy Presentato in prima mondiale a Locarno, Legend of the Happy Worker rielabora l’immaginario del West con lo sguardo deformante di Lynch

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L’utopia e la sensibilità di Szeemann Al Monte Verità il grande curatore svizzero Harald Szeemann viene omaggiato attraverso un libro e una mostra

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Il Ticino turistico secondo Schmidhauser Al Masi di Lugano, alcune immagini danno forma al paesaggio, con le sue derive di senso, di un territorio all’epoca ancora privo di narrazione

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Attraverso la decadenza affrontò la modernità

Letteratura ◆ A settant’anni dalla morte di Thomas Mann, la sua opera continua a offrire una chiave critica per leggere il presente e le contraddizioni dell’Europa contemporanea

Le date si rincorrono e non c’è occasione migliore per ricordare il grande scrittore Thomas Mann morto a Zurigo settant’anni fa nell’agosto del 1955, il cui romanzo La montagna incantata, pubblicato nell’autunno del 1924, cinque anni prima di ricevere il Premio Nobel, ha ormai un secolo alle spalle. Eppure riesce ancora a farci riflettere su problemi fondamentali e sul nostro stesso drammatico presente. Il progetto era nato nel 1912 dopo aver pubblicato la novella Morte a Venezia. Lo scrittore pensava a un racconto breve che in qualche modo rispecchiasse le sensazioni e le esperienze legate al soggiorno della moglie Katia nel sanatorio del dottor Jessen a Davos in Svizzera.

Ma i tragici eventi della Prima guerra mondiale lo indussero ad ampliare l’idea iniziale. Così il racconto si trasformò nel corso degli anni nella rappresentazione di un’epoca colma di contraddizioni e follie. Era una rivisitazione della società borghese e delle sue pulsioni distruttive, con una nuova e più ampia attenzione verso l’individuo e il suo problematico rapporto con la malattia, la sessualità e la morte.

In La montagna incantata, il sanatorio si fa specchio di un’Europa in crisi, e manda in congedo il mito della cultura borghese

Le esperienze del protagonista Hans Castorp, un giovane ingegnere di Amburgo agli inizi della carriera, nel sanatorio Berghof a Davos, rappresentano ancora oggi per il lettore una prospettiva affascinante e piuttosto complessa. Imprevedibili per lo stesso protagonista che aveva programmato una visita al cugino Joachim Ziemssen, militare di carriera affetto da tubercolosi.

La sua permanenza sarebbe dovuta durare tre settimane, ma a causa di una leggera infezione bronchiale Castorp si convince a rimanere più a lungo. Poi, colpito anche lui dal mal sottile, finirà per trascorrere ben sette anni in quella lussuosa casa di cura fino allo scoppio della Grande Guerra. Lo sfondo del romanzo, attraverso una serie di originali personaggi, quasi un microcosmo della società del tempo, evoca l’immagine europea della modernità poco prima del suo tracollo in un gioco di rifrazioni che accostano parodia e tragedia, amore e morte, illuminismo e oscurantismo. Di tutto ciò il buon Castorp, borghese di cultura media, non ha alcuna idea, ma il suo soggiorno si trasforma lentamente in un appassionante processo di maturazione all’insegna dei

grandi temi della decadenza già cari al Mann dei Buddenbrook, il suo primo fortunatissimo romanzo pubblicato a ventisei anni nel 1901.

In quest’altra opera il protagonista si muove in un’atmosfera magica, talvolta quasi fiabesca, in cui si intersecano esperienze esoteriche e occultistiche, metamorfosi oniriche e malia erotica, evocando nel suo percorso la problematicità di quegli anni. Ma al tempo stesso diventa lo strumento per una riflessione sul percorso letterario e ideologico dello stesso Mann che nelle Considerazioni di un impolitico del 1918 aveva abbracciato tesi conservatrici, difendendo la cultura, romantica utopia intesa come senso profondo e totale della vita, in contrapposizione alla civilizzazione, alla modernità e all’idea stessa di ragione illuministica.

Temi che ora, nella Montagna incantata, riemergono attraverso le figure contrapposte dell’italiano Settembrini, liberale e massone, e dell’ebreo gesuita Naphta, vate dell’irrazionalismo e mistico del terrorismo religioso e politico. Il primo incarna l’ideale dell’umanesimo e della democrazia e nelle quotidiane conversazioni con Castorp lo mette in guardia dal fascino morboso che il giovane prova per la morte e la malattia e dall’interesse verso Madame Chauchat, moglie di un funzionario russo, anch’essa ospite del sanatorio, di cui l’ingegnere si innamora fin dall’inizio. Mentre Naphta è sulla sponda opposta: difende una filosofia cinica e radicale che offre spunti per infinite discussioni, ma non una visione organica del mondo che Castorp possa condividere. Sullo sfondo si delineano le contrapposizioni ideologiche della Repubblica di Weimar e l’autore stesso, nella sua progressiva maturazione politica, si accosta sempre di più alla figura di Settembrini sensibile ai temi della democrazia e della tolleranza. Alle accanite discussioni fra i due assiste e più tardi partecipa lo stesso protagonista, mentre il cugino si mantiene piuttosto in disparte. Decide anzi di lasciare il Berghof per tornarvi più tardi, in seguito all’aggravarsi della malattia, in compagnia della madre, e morire. Così come Naphta che si suicida dopo veementi discussioni con Settembrini sfidato a duello. E come lo stesso magnate olandese Pieter Peeperkorn, figura che compare negli ultimi capitoli in compagnia di madame Chauchat, suscitando profondo interesse da parte del protagonista. Destini tristemente comuni che riecheggiano le inquietudini di una società in malinconico declino.

La montagna incantata è forse nelle intenzioni del suo autore anche una

sorta di viaggio iniziatico tra figure singolari e classiche icone: quei malati che si aggirano come ombre dell’Ade per il Berghof come sul proscenio di un’apocalisse che inghiottirà anche Castorp che alla fine si allontana per andare in guerra. La geografia culturale e simbolica del romanzo costruisce un molteplice intreccio di originali richiami: perfino sull’ingenuo Castorp si proiettano le ombre di Odisseo ed Enea così come il primario del sanatorio, il consigliere Behrens, richiama Radamanto, il cui ordine è quello degli inferi, mentre la bella madame Chauchat racchiude in sé la vocazione di Venere e Persefone. Come Felix Krull, il protagonista

del suo ultimo romanzo incompiuto, anche Mann è un mago della seduzione e dell’incanto che fa del romanzo moderno un vertiginoso viaggio mitopoietico fra parodia e saggismo, senza tralasciare i gravi interrogativi del suo presente storico. L’altalena ideologica fra rivoluzione conservatrice e progressismo democratico troverà presto in lui, dopo l’incendio del Reichstag e la presa del potere da parte di Hitler, una risposta chiara e irrevocabile: l’abbandono della Germania e l’esilio negli Stati Uniti. Un congedo definitivo del più grande scrittore tedesco del Novecento, che al rientro in Europa nel 1952 si stabilì in Svizzera nei pressi di Zurigo. Non volle torna-

re nel proprio Paese, ma anzi, in virtù della sua sensibilità democratica e del suo antifascismo, non esitò a dire: «Dove sono io, lì è la Germania». Proprio La montagna incantata testimonia attraverso figure originali e affascinanti, idee e prospettive discordi, la maturazione di un grande scrittore che volta pagina, si congeda dai fantasmi decadenti e scopre il gusto e il valore della democrazia. E, pur senza illusioni, lascia trasparire nell’immagine di un’epoca al tramonto l’urgenza della lotta a ogni forma di barbarie. Anche se le sue pagine, sottratte al tempo e come proiettate in un sogno, raccontano l’incertezza del presente e l’ansia del futuro.

Thomas Mann 1922, Av Ukjent / World Digital Library / Library of Congress. (Public domain).
Luigi Forte

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Locarno guarda a Ovest

Film Festival – 1 ◆ Un western disturbante e favolistico sull’alienazione, fuori concorso, e uno italiano in Piazza Grande

«In memoria di David Lynch, il cui spirito creativo ha ispirato il mondo di Legend of the Happy Worker ». Questa, la scritta che appare alla fine del film presentato in anteprima mondiale al Locarno Film Festival e che è, in sostanza, l’ultimo lavoro – non come regista, ma produttore – del visionario autore di Twin Peaks

Certo, il film non è diretto da lui, ma da un suo stretto collaboratore: Duwayne Dunham, già montatore di numerose opere lynchiane. Tuttavia, Lynch è alla base del progetto e figura centrale nella sua ideazione e sviluppo. L’idea originale nacque infatti da un copione scritto da Lynch, ispirato all’opera teatrale The Happy Worker Play di S. E. Feinberg.

Una sceneggiatura più cupa e provocatoria rispetto alla versione definitiva, incentrata su un gruppo di lavoratori intenti a scavare buche senza sapere il perché, finché uno di loro non mette in discussione il sistema: viene premiato, ma proprio questo premio lo condanna all’isolamento e al disprezzo degli altri. Un apologo amaro sul conformismo e sulla punizione dell’individualismo.

Il progetto rimase in sospeso per oltre trent’anni, passando attraverso diverse fasi, fino a quando, dal 2018, ha iniziato a prendere forma concreta. Alla fine, la sceneggiatura originaria non è stata utilizzata, ma l’impronta lynchiana si avverte comunque.

Lo spettro creativo di David Lynch aleggia nel mondo obliquo di Legend of the Happy Worker diretto da Duwayne Dunham

Il film si inserisce all’interno di un genere classico che negli ultimi anni tenta di riacquistare una nuova stagione: il western. Dopo un lungo periodo di declino, il genere viene regolarmente riscoperto da registi giovani e meno giovani, che lo reinterpretano in chiave moderna o ne recuperano con rigore la struttura narrativa. Legend of the Happy Worker (vedi immagine) si muove all’interno di questo universo, ma lo fa in modo originale, ibridandolo con elementi fiabeschi, simbolici e grotteschi.

Un altro esempio recente è Testa o Croce, di Alessio Rigo de Righi e

Matteo Zoppis, presentato a Cannes e proiettato anch’esso a Locarno proprio ieri, cioè nella serata di domenica: una rilettura fantasiosa e ironica del western, dove butteri italiani (ndr. cavalieri della maremma) e cowboy americani si confrontano in un leggendario rodeo. E non è l’unico caso: basti citare il recente Horizon di Kevin Costner (2024) – con il suo ritorno alla frontiera classica – o La ballata di Buster Scruggs dei fratelli Coen (2018), che frammentano il genere in episodi tra il comico, il tragico e il surreale, o ancora I fratelli Sisters di Jacques Audiard (2019), che decostruisce l’epica per concentrarsi su aspetti più intimi e umani.

Legend of the Happy Worker appartiene a pieno titolo al tentativo di rianimare un genere in fin di vita, pur distinguendosi per il tono favolistico che lo rende quasi onirico, a tratti surreale, certamente meno realistico. La trama segue una linea semplice, come nelle fiabe: al centro c’è Joe (Josh Whitehouse), giovane lavoratore devoto ai valori del suo mentore Goose (Thomas Haden Church), che però viene progressivamente sedotto dalla modernità. La sua trasformazione, che tocca anche la sfera familiare – con un cambiamento evidente nei rapporti con moglie e figlio – è rappresentata con grande forza visiva. I colori caldi e saturi dell’inizio lasciano spazio a tonalità cupe e claustrofobiche, che dominano le scene in cui appare lo scavatore: una macchina quasi demoniaca, simbolo di un nuovo capitalismo senza scrupoli e di una produttività cieca e lontana dai valori umani.

Anche i paesaggi non sono semplici sfondi. Girato in location iconiche dell’Ovest americano come Echo Canyon e Monument Valley, il film utilizza questi luoghi come specchi dell’interiorità dei personaggi. La narrazione è intessuta di rimandi religiosi, filosofici e persino mitologici. Il rapporto tra Joe e Goose richiama archetipi antichi: come la relazione che da sempre ha alimentato le scritture e cioè quella tra maestro e discepolo. La pala d’oro, oggetto totemico, si carica di significati esoterici e spirituali: è strumento di lavoro, ma anche simbolo del sapere tramandato e del potere che può corrompere. Particolarmente potente è la scena in cui Joe, specchiandosi, si confronta con la

Zone di guerra sotto i riflettori

Film Festival – 2 ◆ Nel concorso di Locarno, due road-movie ricompongono realtà divise tra appartenenza, assenza e sopravvivenza

Nicola Falcinella

propria parte oscura, immediatamente seguita da un surreale dialogo con un criceto in gabbia, che corre senza sosta su una ruota: un’immagine disturbante ma eloquente del ciclo senza senso del lavoro alienato.

La colonna sonora, firmata da Jan A.P. Kaczmarek e Phil Marshall, accompagna la narrazione con sensibilità e ambivalenza, alternando registri solenni e ironici, sospesi tra l’epico e il grottesco. Rafforza così il dualismo di fondo che attraversa tutto il film: quello tra illusione e realtà, tra speranza e disincanto.

Oltre che un racconto simbolico, il film è anche una riflessione esplicita sulla manipolazione generazionale, sul compromesso come scelta sistemica, sulla perdita progressiva dei valori legati al lavoro ed espressione di dignità e non solo di produttività. L’ultima battuta del protagonista – «Dove c’è speranza c’è vita» – suona ambigua, sospesa tra sincerità e autoinganno. È una chiusura che lascia interrogativi aperti, più che offrire certezze.

Detto ciò, alcune scelte narrative risultano discutibili. La rappresentazione familiare, con un protagonista bianco, una moglie nera e un figlio latino, appare un po’ forzata, rientrando in una certa tendenza woke che rischia di scivolare nell’artefatto: invece di suggerire nuove prospettive, sembra voler soddisfare una quota di inclusività precostituita. Inoltre, la struttura della fiaba, con la netta divisione tra buoni e cattivi, rischia di appiattire la complessità etica del racconto. In un’opera che ambisce a interrogarsi sul potere, sul lavoro, sul desiderio e sulla sottomissione, questa polarizzazione simbolica può apparire riduttiva, e rendere la lezione finale meno profonda e più prevedibile. Eppure, proprio in questa tensione tra semplicità e ambizione risiede forse il fascino del film: Legend of the Happy Worker non vuole spiegare, ma evocare. E nel farlo, lascia spazio a quello sguardo obliquo, onirico, fiabesco e inquieto che, da sempre, ha abitato il mondo di David Lynch.

Un film che è anche un’eredità parziale del regista di Blue Velvet Non è sicuramente una sua opera, ma può di certo abitare nel suo quartiere ed essere un buon vicino di casa che magari, ogni tanto, viene invitato a bere un bicchiere.

Due road-movie che fanno i conti con la memoria di terre martoriate, tra passato e presente, con un’attualità anche bruciante, hanno inaugurato il 78esimo Locarno Film Festival. Ad aprire il concorso per il Pardo d’oro è stato il palestinese With Hasan in Gaza di Kamal Aljafari (nella foto), che utilizza filmati girati nel 2001 con una videocamera minidv per raccontare la Striscia in una situazione che non ha fatto che peggiorare. Un uomo torna a Gaza, facendosi accompagnare dalla guida turistica Hasan, alla ricerca di un amico conosciuto in prigione nel 1989. Era il periodo della prima Intifada, quando i giovani arabi si ribellarono all’occupazione israeliana a colpi di pietre e molti furono arrestati. Il viaggio a bordo di taxi tra Gaza, Khan Yunis, Rafah e le altre località, senza un indirizzo da cercare bensì un semplice nome, porta a incontri di vario tipo e a cogliere brandelli di vita quotidiana. Il regista – che da giovanissimo fu recluso semplicemente per aver aderito a una protesta – parte dalla propria vicenda personale trasformandola in testimonianza diretta, pur senza troppo indugiare sull’autobiografia. L’idea chiave è che Gaza fosse e sia un carcere, anche se gli eventi degli ultimi tempi hanno aggravato ancor più la situazione: guardando le immagini del 2001 si pensa a quanta distruzione e morte si siano aggiunte ora.

L’idea cinematografica è interessante e peculiare e rende With Hasan in Gaza un film valido al di là dell’argomento: non sorprenderebbe un premio importante nella serata di chiusura del Festival. Forse la struttura non è troppo equilibrata e il punto di vista del narratore si esprime con qualche scritta nella seconda parte del film e con un lungo testo sul finale, forse troppo esteso e dettagliato, per quanto utile, e forse troppo tardi per accompagnare davvero lo spettatore dentro un percorso che può apparire oscuro o troppo lungo.

Le immagini mostrano il muro che a inizio secolo era in costruzione per proteggere gli insediamenti israeliani, i tanti checkpoint, le difficoltà pratiche di una vita normale, e si sofferma più volte sulla paura che la videocamera per riprendere venga scambiata per un’arma da fuoco e inneschi reazioni indesiderate da parte delle guardie.

L’altra peregrinazione avviene attraverso l’Armenia, in Le pays d’Arto – In the Land of Arto di Tamara Stepanyan che ha inaugurato il Festival

in Piazza Grande. La parigina Céline, interpretata da Camille Cottin (vista nel recente Tre amiche e in precedenza in House of Gucci e Assassinio a Venezia), arriva in treno nella città di Gyumri nel giugno 2021, data non casuale prima dell’ultimo conflitto dello Stato caucasico con il vicino Azerbaigian per il controllo della regione del Karabakh. Dopo la morte del marito Arto Saryan, originario di quell’area del Caucaso, la donna vorrebbe donare la cittadinanza armena ai due figli, per questo si reca nella città natale di lui dove richiedere il certificato di nascita. Negli archivi non si trovano documenti e la protagonista sarà costretta a un viaggio anche rischioso per scoprire la reale identità del congiunto, immergendosi nella storia recente dell’Armenia, tra il distruttivo terremoto del 1988, il crollo dell’Urss con l’abbandono di fabbriche e luoghi di villeggiatura, e la guerra del 1993, quando presero il controllo del Karabakh, conquistato dagli azeri nel 2023.

Un buon film, basato sull’imprevisto e il confronto con una realtà diversa da quella che si conosceva, ricco di sensazioni ed emozioni contrastanti, magari un po’ lento per dare alla protagonista il tempo di rendersi conto di ciò che accade.

In apertura di concorso anche il curioso tedesco Sehnsucht in Sangerhausen – Phantoms of July di Julian Radlmaier, in quattro capitoli che si incrociano tra loro nella cittadina di Sangerhausen in Sassonia, al limitare dei monti dello Harz. A fine Settecento la servetta Lotte sogna di non servire più i ricchi dopo la Rivoluzione francese, ai giorni nostri la sua discendente Ursula svolge due lavori e non guadagna abbastanza per permettersi di comprare le ciliegie. Un film leggero un po’ alla Rohmer, girato in pellicola, sul caso e le stranezze, con piccoli oggetti che legano le persone, e un fondo politico marcato, accennando a Iran, Ucraina, nazismo, diritti dei lavoratori e altro ancora.

Tra i titoli in gara in questi giorni spiccano tre grandi autori: la giapponese Naomi Kawase con Vicky Krieps (Il filo nascosto) con il film Yakushima’s Illusion, il ritorno del francese Abdellatif Kechiche (Palma d’oro 2013 con La vita di Adèle) con Mektoub, My Love: Canto due e il romeno Radu Jude (premiato a Locarno nel 2023 per Do Not Expect Too Much from the End of the World ) con Dracula. Non è detto siano loro i favoriti, Locarno riserva da sempre scoperte e sorprese.

Kamal Aljafari Productions

POMODORI BIO –UN PIACERE CHE FA BENE

I pomodori bio provenienti dalla Svizzera portano l’estate in tavola e anche buone sensazioni.

I pomodori bio provenienti dalla Svizzera portano l’estate in tavola e anche buone sensazioni. Le aziende agricole bio non utilizzano pesticidi chimici di sintesi, proteggendo in questo modo l’ambiente. Si affidano invece a prodotti naturali e curano le piante con tanto lavoro manuale. Così i pomodori bio crescono in un terreno vivo.

Inoltre, poiché non vengono utilizzati fertilizzanti artificiali, i pomodori biologici crescono più lentamente. I fertilizzanti bio agiscono di-

versamente, quindi le piante devono procurarsi da sole più sostanze nutritive e difendersi maggiormente da malattie e parassiti. Producono dunque più micronutrienti, come gli antiossidanti o le vitamine. Queste sostanze fanno bene anche a chi le verdure le consuma.

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Il lato nascosto di Harald Szeemann

Mostre ◆ La Fondazione Monte Verità omaggia il grande curatore svizzero con un libro e una mostra di oggetti misteriosi

Personalità carismatica dallo sguardo sul mondo disinvolto, trepidante e anticipatore, Harald Szeemann ha bisogno di ben poche presentazioni. È con lui che è nata la figura del curatore che abbraccia una nuova concezione di mostra d’arte come forma autonoma di linguaggio capace di innescare energie creative. A guidare Szeemann sono sempre state una profonda sensibilità, l’apertura alla sperimentazione più radicale (si pensi alla memorabile rassegna Live in your head When attitudes become form organizzata alla Kunsthalle di Berna nella primavera del 1969) e una grande carica utopica.

Szeeman è sempre stato guidato da profonda sensibilità, apertura alla sperimentazione e grande carica utopica

Osannato e imitato da molti, ma rimasto un unicum nella storia dell’arte, Szeemann riteneva che un’esposizione d’arte dovesse visualizzare un meccanismo dello spirito, un modello di pensiero e di vita, e che gli strumenti in mano a colui che la organizza dovessero essere il sesto senso e la complicità con gli artisti, di cui era fondamentale cogliere «l’intensità delle intenzioni». Egli ha saputo far evolvere ed espandere il ruolo del curatore diventando una sorta di meta-artista il cui lavoro non si limita a scegliere le opere da esporre ma si spinge a focalizzare e rappresentare stati mentali, aspirazioni e riflessioni personali. La sua vera forza, difatti, è stata dare voce all’intima necessità, alimentata dalla propria peculiare esperienza, di mettere in scena la potenza dell’individuo e dell’utopia. Si comprende bene, dunque, il motivo per cui nel 1978 Szeemann,

che aveva fatto del Ticino la sua terra d’adozione, avesse organizzato Monte Verità. Le mammelle della verità, una mostra nata come ricostruzione storica, poetica e mistica di questo luogo magnetico («somma di ideologie innestata in un paesaggio materno», come lo definiva lo stesso curatore) che, all’inizio del XX secolo, era stato un polo di attrazione per pensatori e artisti con ideali utopistici, anarchici e teosofici inclini a un modo di vivere alternativo.

L’intento di questa rassegna, frutto delle sistematiche ricerche che Szeemann portava avanti da anni, era quello di restituire l’impulso vitale dell’esperienza unica del Monte Verità nella speranza che potesse essere d’ispirazione per nuove visioni. E se oggi la storia della collina sopra Ascona è ampiamente conosciuta e avvolta da un’aura quasi mitica lo si deve proprio alla mostra di Szeemann, meritevole di averla condotta al centro dello scenario artistico internazionale.

A vent’anni dalla morte del curatore d’arte, la Fondazione Monte Verità omaggia con due eventi questa figura che ha dedicato tanta passione alle vicende del luogo asconese rafforzandone la straordinaria valenza culturale.

Il primo è la pubblicazione del libro Pretenzione Intenzione – Objects of Beauty and Bewilderment from the Archive of Harald Szeemann, curato da Una Szeemann, Michele Robecchi e Bohdan Stehlik con Elsa Himmer, per le Edizioni Patrick Frey. Il volume si pone come un’opera inedita nel contesto degli studi sullo storico dell’arte svizzero poiché ne indaga e narra il multiforme universo con un approccio non scientifico, bensì, in pieno mood szeemanniano, intuitivo e contemplativo. Il progetto nasce da una serie di

oggetti facenti parte del Museo delle Ossessioni di Szeemann, una sorta di collezione interiore, di Wunderkammer mentale (da lui stesso chiamata «un’unità di energia»), che ha trovato la sua estrinsecazione fisica nello spazio della Fabbrica Rosa, la dimora-archivio situata a Maggia dove il curatore si ritirava per creare e meditare e dove ha collocato nel corso degli anni la sua peculiare raccolta di materiali radunata con instancabile spirito di ricerca. Proprio qui, dunque, Szeemann aveva costituito un archivio estremamente variegato composto da documenti, opere d’arte, fotografie, lettere, schizzi, libri e oggetti di ogni tipo, ciascuno testimonianza dei suoi viaggi, delle sue relazioni e delle sue esplorazioni artistiche e antropologiche. Dopo la sua morte, tutto è sta-

Uno degli oggetti esposti nella mostra Pretenzione Intenzione – Objects of Beauty and Bewilderment from the Archive of Harald Szeemann (Photo: Bohdan Stehlik)

ri del libro, accompagnate dalle belle fotografie in bianco e nero dell’artista Bohdan Stehlik, ne hanno dato letture e interpretazioni originali che, pur partendo da prospettive disciplinari diverse, hanno condiviso l’intento di raccontare il lato più enigmatico di Szeemann.

Questi stessi oggetti sono stati esposti nelle capanne Casa Selma e Casa dei Russi al Monte Verità, i due spazi della collina prediletti da Szeemann, per il secondo evento che omaggia il curatore svizzero. La mostra li rende visibili al pubblico come già era avvenuto dieci anni fa nella citata Fabbrica Rosa, dove era stata allestita una rassegna quale simbolico saluto a quel luogo così significativo che a breve sarebbe stato destinato ad altre funzioni.

to catalogato. Una parte di questa collezione è stata acquisita dal Getty Research Institute di Los Angeles mentre un’altra parte, quella relativa alla storia del Monte Verità, si trova oggi all’Archivio di Stato del Canton Ticino. La cosa interessante è che alcuni oggetti sono sfuggiti a questo censimento: misteriosi e indecifrabili, vuoi per la provenienza ignota o per lo sconosciuto motivo della loro presenza nella raccolta, vuoi per un’errata valutazione, hanno respinto ogni tentativo di inventariazione. È così che, custoditi dalla famiglia, questi materiali dallo statuto incerto sono diventati i protagonisti del libro, ponendosi come spunti inconsueti da cui far riemergere storie e memorie legate a Szeemann e al suo approccio curatoriale. Le narrazioni degli auto-

Dieci anni di confine come luogo vitale

Nell’esposizione al Monte Verità i materiali presentati, forti della loro suggestiva interpretazione all’interno del volume, sprigionano oggi una rinnovata energia, ammaliando lo spettatore per la loro condizione di elementi sospesi in una dimensione arcana e per questo aperti a infinite possibilità di decodificazione.

«Reliquie profane», come sono stati definiti nella pubblicazione, questi oggetti ermetici sono frammenti di realtà intrisi di ricordi, di sensazioni e di occasioni, capaci di evocare l’intima e seducente percezione del mondo di una figura unica del panorama storico artistico internazionale.

Dove e quando

Pretenzione Intenzione – Objects of Beauty and Bewilderment from the Archive of Harald Szeemann. Casa Selma e Casa dei Russi – Monte Verità, Ascona. Fino al 31 agosto 2025. Entrata libera. Per informazioni www.monteverita.org.

Frontiere dell’arte ◆ A Chiasso, Spazio Lampo ha fatto della permeabilità un progetto ideale creando una vetrina-laboratorio

Mara Travella

I luoghi culturali sono influenzati dai contesti in cui si sviluppano. Succede, a volte, che non siano solo capsule che vivono un mondo a sé stante, ma dispositivi che dialogano, reticolandosi, con la realtà circostante.

Spazio Lampo, uno spazio-vetrina di fronte ai magazzini della stazione ferroviaria, nasce a Chiasso e sul confine, e di esso si nutre nelle proprie attività e iniziative. Visto che quest’anno «il Lampo» compie dieci anni e inaugura una nuova sede, conviene fare un passo indietro e ripercorrerne, in parte, la genesi. Lo si fa captando un’urgenza, che riguarda la necessità di luoghi per la cultura indipendente – spazi orizzontali, esercizi di democrazia – riportata all’attenzione del mondo culturale negli ultimi mesi, e in particolare dall’Associazione IDRA (gruppo di lavoro luganese attivo in questo ambito): scrivere una pagina che riguarda la storia di Spazio Lampo significa dunque parlarne, tenere traccia di quello che c’è, di quello che si è costruito, sognato e realizzato, con fatica ed entusiasmo, alla periferia del cantone.

Lo spazio nasce dal desiderio di far vivere la città di confine e, nel concre-

to, dalle riunioni sul balcone di casa di due dei fondatori, Aline d’Auria e Francesco Giudici insieme a numerose persone attive nell’ambito culturale, dall’arte alla musica o alla grafica, come Alfio Mazzei, Gabriel Stöckli e Gianmaria Zanda. Sin dai suoi inizi, anche Stefano Palermo e Alan Alpenfelt (fondatori di Radio Gwen) partecipano agli incontri: la radio indipendente avrà infatti la sua sede «dietro» al Lampo.

Una prima idea sulla natura dello spazio proviene dagli anni della coppia d’Auria-Giudici a Losanna, dove i due artisti frequentano l’Atelier-imprimerie, un ibrido tra spazio co-working e luogo d’arte. Esso appartiene a un eterogeneo gruppo di persone, riunitosi quale associazione. Di qui una prima caratteristica del Lampo: rientrare sotto l’egida dell’Associazione Grande Velocità, dotarsi di statuti che regolamentino l’utilizzo dello spazio-vetrina, e trasformarsi, a seconda delle necessità, da luogo di lavoro a contenitore d’arte, di conferenze, incontri e musica.

Dopo la Svizzera francese, d’Auria e Giudici si trasferiscono negli Stati Uniti, a New York: nella Grande

Mela, Aline realizza un corto per la RSI dal titolo Project Projects (2013), incentrato su P!, uno spazio espositivo sperimentale in cui si incrociano le possibilità radicali di discipline (arte, architettura, design), periodi storici e modi di produzione diversi, e che saltuariamente lascia ad artiste/i la possibilità di ripensare gli interni (e gli esterni) della propria galleria. Su quest’indagine s’innesta sin da subito una delle fortunate intuizioni del Lampo, ovvero il Progetto Vetri-

na, il quale, analogamente, mette nelle mani di artiste/i la propria «capsula», lasciando che essa risenta dell’estro d’autore o d’autrice.

Spazio Lampo esercita fin da subito il suo magnetismo anche oltre il confine, raggiungendo, per esempio, la comasca Giulia Guanella, classe 1995, che lì approda dopo gli studi a Venezia. Nel locale di fronte alla stazione la curatrice d’arte trova un luogo di sperimentazione e aggregazione: la «cosa più duratura e longeva» – per dirla con

le sue parole – «della sua vita». È lei, ad oggi, con Valentina Pini, Yuri Bedulli e Sibilla Panzeri a gestire il citato Progetto Vetrina e i Simposi che si svolgono durante Chiassoletteraria Altra iniziativa promossa dall’Associazione è Chiasso means noise, festival di musica sperimentale, nato dall’esperienza di una serie di concerti all’Ex-bar Mascetti e svoltosi quest’anno nel Magazzino II di via Stand a Chiasso. Una sede, quella del festival, che ha permesso al pubblico di scoprire spazi in disuso della zona industriale, perfetti per contenere questo tipo di sonorità.

Tante sono le persone che hanno contribuito alla vita del locale di via Livio 16. Se la paura, ai suoi esordi, era che lo spazio vivesse per un solo anno, la continuità della sua esistenza non è al riparo dalle crisi anche dopo il decennio che ha consentito al Lampo di consolidarsi come uno dei più importanti centri culturali indipendenti della nostra regione: essendosi spostato (seppur di pochi metri e mantenendo stessa via e stesso numero civico) in un locale più grande, necessita sempre di nuove persone interessate a farlo vivere. Di qui, o di là del confine.

Spazio Lampo. (Foto © Aline d’Auria)

Eugenio Schmidhauser, Pensionanti dell’Albergo della Posta, Astano, 1910 circa. (© Archivio di Stato del Cantone Ticino, Fondo Eugenio Schmidhauser)

Il Ticino di Schmidhauser

Fotografia ◆ Cartoline, posture e visioni filtrate da uno sguardo che flirta con l’industria dell’immagine e immortala la permanenza dei gesti

La fine dell’Ottocento fu un’epoca di alcuni importanti stravolgimenti in Ticino. Si è soliti far risalire la nascita del nostro turismo alla data d’apertura della galleria ferroviaria del San Gottardo (1882). Città, montagne e bellezze d’Oltralpe e della Romandia erano già da tempo ambite mete di teste coronate e VIP di mezza Europa, mentre il Sud delle Alpi restava isolato per buona parte dell’anno. Sicché, quando le prime sbuffanti locomotive sbucarono ad Airolo, si aprì davvero una nuova epoca. Nel contempo, nacque una quantità tale di «Gabinetti Fotografici» che non si spiega solo con l’arrivo dei turisti: non posso permettermi l’ingaggio di un pittore per un ritratto su tela? Ecco che me lo realizza un fotografo, rapidamente, saltando lunghe sedute in posa e a un costo probabilmente minore.

La fotografia in Ticino si diffuse a macchia di un leopardo che, dai centri maggiori, si spinge sorprendentemente pure verso parecchie località discoste. In pochi anni aprirono i loro atelier Angelo Allegranza a Dangio (zona Donetta!); Roger Franzina a Cerentino; Raffaele Domenighetti a Indemini; Ines Ceresa a Colla (una donna lassù: chapeau!); Agostino Metalli a Ludiano ed Eugenio Schmidhauser ad Astano.

A quest’ultimo, Giancarlo Talamona (già curatore nel 2011 della mostra al Castelgrande di Bellinzona che ci offrì tutte le scoperte appena citate), si dedica adesso firmando l’expo al MASI di Lugano, con la collaborazione di Ludovica Introini. Oltre il Malcantone è il titolo che anticipa quel che il visitatore avrà davanti agli occhi: da una parte lo Schmidhauser che si dedica al commercio delle cartoline turistiche. Dall’altra, la testimonianza di un’epoca in cui erano ancora ben vive professio-

ni oggi scomparse: ecco allora i ritratti del cestaio, dello zoccolaio o dell’arrotino.

Il ricco catalogo che accompagna la mostra ci racconta invece l’avventura umana e artistica del fotografo, che volentieri rasenta la leggenda: si dice che, sceso per la prima volta alla stazione di Lugano, chiese d’essere portato a Osteno (sul Ceresio presso Porlezza) a un vetturino. Quest’ultimo capì invece Astano e dunque si ritrovò nel Malcantone. Forse è leggenda, però è carina! È certo invece che una figura importante nella vita di Schmidhauser fu il ricco imprenditore tedesco Rudolf Fastenrath. Personaggio eccentrico e imprenditore audace quanto illuminato, dai molti interessi cultural/commerciali (dal trattamento delle malattie veneree al commercio di caffè, dalla musica all’omeopatia, dall’insegnamento alla letteratura: fu pure autore di un romanzo), costui divenne il precettore del giovane Eugenio, già suo allievo alla Scuola commerciale di Herisau, ma subito cooptato quale suo fotografo personale, dopo avergli finanziati gli studi al prestigioso Lehr und Versuchsanstalt für Photographie di Monaco di Baviera. Dalla natìa Westfalia, Fastenrath si stabilì a Magliaso, dove aprì un ufficio turistico, incaricando Schmidhauser di ritrarre le bellezze della regione. Aprì la Pension Paradies a Bedigliora, calandosi nel contempo nei panni dell’editore, fiutando il doppio affare: la promozione turistica attraverso la produzione di cartoline illustrate. Un mercato all’epoca più che fiorente: nel 1902 ne furono vendute in Svizzera più di venti milioni di esemplari. Schmidhauser rimase affascinato dall’intera regione malcantonese, ma fu conquistato in particolare dalle bellezze e dalla cordia-

Un varietà senza sorpresa

Spettacoli ◆ A Verscio, il Miraculus dell’Accademia

Dimitri mostra il limite del passaggio da scuola a scena, dove l’applauso atteso non sempre trova la sua ragione

Giorgio Thoeni

Siamo stati testimoni della nascita, della crescita e dello sviluppo di tutte le iniziative con il marchio Dimitri che hanno trovato il terreno ideale a Verscio. Il suo Teatro è ormai un’istituzione affermata e meta turistica molto gettonata, soprattutto durante il periodo estivo, grazie alla pacifica invasione dei numerosi confederati che adorano iniziare dal Ponte Brolla le escursioni alla scoperta delle terre di Pedemonte passando in pellegrinaggio dal villaggio del celebre clown. Sede della scuola di teatro – oggi Accademia e all’alba del suo giubileo (50 anni) – Verscio colora l’estate con gli exploit di giovani attori che, al termine del triennio di formazione, mettono in pratica quanto imparato.

lità degli abitanti di Astano, villaggio che lo adottò sin dal suo arrivo, fino a sceglierlo poi quale sindaco – dal 1932 al 1950. In riva all’ameno laghetto conobbe sua moglie, Ginevra Zanetti, con la quale rilevò e gestì per anni la Pensione della Posta. Non così idilliaco fu il suo rapporto con storici e colleghi. Virgilio Gilardoni gli rimproverò d’aver creato per le popolazioni cisalpine la sciocca immagine del popolo allegro. «Anche i fotografi ticinesi, impegnati a trasmettere una visione più autentica del Ticino – scrive Damiano Robbiani nel suo saggio in catalogo – si uniscono a questa critica. Tra loro Vicenzo Vicari, che fatica a imporre le proprie cartoline illustrate in un mercato allora dominato dagli svizzeri tedeschi». Il centinaio di opere esposte al MASI permetteranno viceversa al visitatore di scoprire anche l’assoluto valore artistico/estetico di Schmidhauser, del resto premiato all’epoca con alcuni riconoscimenti internazionali. Immagini vintage che si accompagnano alle ristampe curate da Stefano Spinelli, il quale riconosce al fotografo – tra le esigenze di Fastenrath e le sue mai sopite velleità lontane da interessi commerciali – il merito di essersi ritagliato uno spazio libero. Scrive infatti nel catalogo: «Paesaggi carichi d’intensità e a forti tinte, quasi inquietanti, degne illustrazioni di ipotetici racconti gotici che ci mostrano nel contempo la maestria tecnica e compositiva di cui Schmidhauser era dotato».

Dove e quando Eugenio Schmidhauser, Oltre il Malcantone, Palazzo Reali, Via Canova 10, Lugano. Orari: mame-ve 11-18; gio 11-20; sa-do e festivi 10-18; lu chiuso. Fino al 12.10.2025. www.masilugano.ch

Ma sugli esiti, il giudizio deve fare astrazione dall’indulgenza che si concede normalmente ai novellini per avvicinarsi a quella severità che la vita riserva a chi si affaccia alla professione. La riflessione scaturisce dalla recente visione di Miraculus, il Variété firmato dall’Accademia Teatro Dimitri e presentato nella storica sala del paese pedemontano.

Nel 1988 e per iniziativa di Dimitri, il Variété nasce con l’obiettivo di integrare diverse specialità legate a un’arte di natura circense per poi divenire materia anche per il palcoscenico. Musica, danza, pantomima, jonglage, acrobazia, maschere, improvvisazione e clownerie sono gli ingredienti che con il Variété dovrebbero amalgamarsi attorno a una storia. Quasi sempre pretestuosa, possibilmente comica, la tenue trama viene architettata come un collante per i diversi siparietti che costituiscono la sostanza dello spettacolo. Il Variété nasce dunque con quello spirito raggruppando professionisti

dell’allora Compagnia Teatro Dimitri con l’aggiunta di qualche promettente allievo. Ha poi coinvolto gli studenti del secondo anno di formazione chiamati a esibire le loro capacità espressive e più recentemente lo spettacolo porta in scena i futuri diplomati del terzo anno in aggiunta ai saggi finali.

Miraculus ha schierato sette ragazzi, tanti sono infatti gli allievi che hanno ultimato la formazione, affiancati da due ex allievi chiamati dalla regista Nancy Fürst per dar loro manforte. E si capisce il perché.

Punto di riferimento per il teatro fisico e l’arte performativa, a Verscio, più del palco, brilla la storia che lo circonda

Tranne un paio di loro, i ragazzi che abbiamo visto sul palco non ci sono sembrati così maturi nel rappresentare quelle forme teatrali performative che sono la caratteristica dell’Accademia. Tralasciando i due rinforzi, decisamente bravi nel tenere assieme il tutto (gli ex allievi Georgia Paleogianni e Juan Bautista Poniz), la storia di un ciarlatano che vuole meravigliare con «miracoli» basati su numeri di canto e danza uniti a pallidi sketch umoristici non decolla (assente l’improvvisazione). Insomma, il tutto ci è parso decisamente insufficiente, con la sensazione che ne serpeggiasse la consapevolezza ai piani alti. Auguriamo comunque migliore sorte per il futuro a Bejo Christen, Mirjam Gfeller, Gratianne Lagauzère, Maria Sofia Rizzi, Léonie Rossel, Anjane Rupp e Leonie Stalder.

CIAO TICINO

Condisci la tua estate

Una visita alla

«più grande pizzeria d’Italia»

Dove finisce la pizzeria e inizia la fabbrica?

Una visita nelle Prealpi vicino a Venezia, dove vengono prodotte le «pizze Da Emilio» della Migros

«La più grande pizzeria d’Italia». Ecco come si presenta, senza troppa modestia, Margherita, l’azienda che produce le pizze «Da Emilio» per la Migros. Quattro stabilimenti producono 130’000 unità al giorno per clienti di tutto il globo. Per fare un confronto, nella più grande fabbrica di pizze del mondo, in Germania, si produce un numero di basi per pizza fino a otto volte superiore nello stesso lasso di tempo. Quindi la domanda cruciale è: da Margherita, dove finisce la pizzeria e quando inizia la fabbrica? Una visita allo stabilimento principale di Fregona, a un’ora di macchina da Venezia, fornisce le risposte.

Impasto

Nella sua forma più semplice, l’impasto è composto da quattro ingredienti: farina, acqua, lievito e sale. Da Margherita, con l’aggiunta di olio extra vergine di oliva e lievito madre, la pizza diventa ancora più saporita ed elastica. Il tour inizia nella sala impasti con la sua potente impastatrice che può gestire 300

Testo: Kian Ramezani Foto: Paolo Dutto
La pizzaiola Imane El Hamoudi lavora l’impasto a mano.

chili alla volta. Molto di più rispetto a una comune macchina in uso nella ristorazione, ma il principio è lo stesso. «È importante che l’impasto pronto abbia una temperatura massima di 25 gradi», spiega il responsabile della qualità Francesco Callegher. Ecco perché l’acqua ha una temperatura di più o meno 10 gradi. La prima differenza rispetto a una pizzeria si riscontra nella porzionatura dei panetti in forma sferica, che viene eseguita da una macchina per garantire che abbiano tutti lo stesso peso. Questo vale anche per le pizze «Quattro stagioni» Da Emilio, che sono in programma oggi.

Lievitazione

Proprio come in pizzeria, i collaboratori ora allineano ordinatamente gli impasti in cassette di lievitazione e li lasciano lievitare lentamente in alte camere a temperatura e umidità controllate. A seconda della ricetta, questo processo richiede dalle 8 alle 24 ore. È a questo punto che l’impasto sviluppa il suo delicato sapore di lievito e la struttura del glutine, creando il tipico interno arioso dell’impasto della pizza durante la cottura.

Forma

I ritmi lenti delle camere di lievitazione si interrompono bruscamente, lasciando spazio a un processo rapido: un macchinario modella con delicatezza gli impasti lievitati, dando loro una forma a metà fra una sfera e un disco spesso. A questo punto l’automatizzazione si interrompe nuovamente. Con pochi semplici passaggi e molta passione, gli addetti stirano gli impasti su un nastro trasportatore e formano dei panetti perfetti e rotondi. Sulla superficie di lavoro è stampata la misura guida di 30 cm di diametro come ausilio, ma nessuno ne ha bisogno. «Lo faccio da un po’ di tempo», dice Imane El Hamoudi. «Il lavoro è duro, ma lo faccio con amore, altrimenti non sarei qui da 21 anni», dice ridendo. La loro routine fa sembrare il lavoro facile. Ma è solo un’impressione. «Chiunque inizi ha bisogno di circa un anno per raggiungere questo livello», afferma Francesco Cal-

«È importante che l’impasto pronto abbia una temperatura massima di 25 gradi».

Francesco Callegher, responsabile della qualità

Da Emilio Pizza 4

440 g Fr. 7.16 invece di 8.95

legher. «Per ogni impasto gli addetti non impiegano neanche dieci secondi».

Si potrebbe sostenere che stirare la pasta a mano sia un vantaggio soprattutto per il marketing. Francesco Callegher non è affatto d’accordo: «In una linea di produzione completamente automatizzata, la pasta viene appiattita e modellata da un rullo. Tuttavia, perde gran parte dell’aria e della struttura del glutine. Il risultato è una base per pizza meno ariosa e più dura, che non soddisfa i nostri standard». Tra l’altro, le pizzaiole di Margherita sono tutte donne, una differenza notevole rispetto alle pizzerie tradizionali.

Condimento

Dopo aver stirato la pasta, si aggiungono i condimenti, e anche in questo caso Margherita si affida quasi esclusivamente al lavoro manuale. La giusta quantità di salsa di pomodoro viene versata automaticamente sulle basi della pizza, ma i collaboratori usano un cucchiaio per distribuirla con un movimento circolare, proprio come in pizzeria. Poi si aggiungono gli altri ingredienti, nel caso della Quattro stagioni: mozzarella, prosciutto, carciofini e olive.

Cottura

Le quattro pizzaiole di una linea di produzione producono un totale di 1200 pizze all’ora. Si potrebbe fare anche di più, ma il forno non riuscirebbe a stare al passo. Sebbene sia elettrico, il tempo di cottura di 60-90 secondi a 400-450 gradi è praticamente identico a quello del forno a legna di una pizzeria e produce i tipici e raffinati aromi della pizza. Anche dopo la cottura, le pizze hanno un diametro di 30 cm, con una tolleranza di appena 1 cm. Questo dimostra ancora una volta la precisione con cui hanno lavorato Imane El Hamoudi e le sue colleghe. È un prerequisito fondamentale per il confezionamento automatico. Congelamento

Le pizze vengono cotte all’80%, il consumatore completerà la cottura a casa. Vengono poi congelate in un gigantesco freezer su dei vassoi rotanti disposti l’uno sull’altro a – 25 gradi, quindi sigillate in una pellicola e, nel caso di Da Emilio, dotate dell’apposita fascetta. Le pizze vengono poi trasportate in camion refrigerati in Svizzera, dove vengono collocate sugli scaffali della Migros.

Conclusione

I processi di lavorazione di Margherita sono più simili a una pizzeria che a una fabbrica. Si potrebbe dire che è stato scelto il meglio dei due mondi: artigianato e automatizzazione si completano perfettamente. Il risultato è una pizza che porta con sé l’impronta umana, sia nell’aspetto che nel sapore. Era proprio questa la visione del fondatore dell’azienda Fabrizio Taddei, un giovane pizzaiolo motivato. Voleva dare a tutti la possibilità di gustare a casa propria pizze della migliore qualità, proprio come in pizzeria. Non aveva idea di cosa sarebbe successo: i suoi prodotti erano sempre stati destinati all’esportazione, ma dopo la pandemia di Covid, le sue pizze pronte sono diventate sempre più popolari anche in Italia. Se questo non è un segno di qualità!

L’impastatrice lavora
300 kg di impasto alla volta, che corrispondo a ca. 1200 pizze.
Ogni disco di pizza viene formato a mano fino a raggiungere 30 cm di diametro.
Nelle pizze «Da Emilio» si nasconde molta artigianalità.
Attualmente alla Migros
Stagioni
Azione: sulle pizze e pinse
Da Emilio, dal 12 al 18 agosto 2025

Protezione aggiuntiva per la cura quotidiana dei denti

Pulizia extra delicata per i denti sensibili

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TEMPO LIBERO

Zigzagando nel Mangystau in Kazakistan

Un viaggio tra sacro, steppa e stratificazioni geologiche nell’antico fondale della Tetide, tra carovane scomparse, pascoli di cammelli, miraggi salati e santi nella polvere

Piume morbide e nastri che tintinnano

Quel che serve per fare un pannello sensoriale stimolante il gioco libero, la curiosità e la coordinazione mano-occhio dando vita a un riccio curioso alla scoperta del giardino

Baci rubati e lanci impazziti

Tra il ludico e il dilettevole ◆ Il baseball come metafora della vita, fra basi conquistate, lanci a effetto, e insospettabili grilli

Nel libro Pensare come un antropologo, Matthew Engelke racconta che, giovane studente di antropologia, durante un soggiorno in Zimbabwe, mentre si dedica allo studio dei costumi locali conosce Philip, un ragazzo del luogo con cui fa subito amicizia. Un giorno Philip si presenta da lui chiedendogli, sorridente, «do you like cricket?» («Ti piace il cricket?»). Engelke è americano, ma conosce bene il passato coloniale dello Zimbabwe, così dà per scontato che Philip, il cui inglese è molto approssimativo ma sufficiente per comunicare, lo stia invitando a giocare a cricket. Quando però, poco dopo, il suo amico entra in cucina e ne esce con una ciotola in mano, si rende conto che Philip in realtà gli sta offrendo un grillo, uno dei cibi più prelibati della zona.

Engelke, si capisce, è incappato in un equivoco semantico: il termine cricket, infatti, indica lo sport ma significa anche grillo. Lo stesso vocabolo, dunque, rinvia a due significati distinti senza che fra loro vi sia alcuna affinità di senso. Altre volte, però, le stesse parole o espressioni possono migrare da un contesto a un altro e, conservando alcune proprietà semantiche, danno luogo a nuovi impieghi: è il caso di quelle parole o espressioni di cui si dice che abbiano un senso figurato. In questo contributo ci occuperemo di sensi letterali e figurati partendo da uno sport che, guarda caso, è la versione americana del cricket e che, assieme al basket e al football, si contende la palma di sport nazionale americano per eccellenza. Stiamo parlando, qualora non fosse chiaro, del baseball.

Non bisogna conoscerne le regole per sapere che questo sport è profondamente radicato nella cultura americana. Pur non praticandolo, salvo eccezioni, nel nostro tempo libero, da profani possediamo qualche nozione che ci permette di crearci un’immagine più o meno rappresentativa di questo sport. Parte di tale conoscenza vicaria ci arriva da quel cinema, da quei telefilm e serie TV grazie a cui, fra l’altro, la cultura americana si diffonde nel mondo intero.

Molti di noi sanno a cosa allude un adolescente (che chiameremo Johnny) quando, in un telefilm o in una serie TV, riferendosi a una compagna di scuola (che chiameremo Kate), confida agli amici di aver «raggiunto la seconda base». Non abbiamo bisogno di chat GPT per capire che non allude alla partita della squadra della scuola, ma alla ragazza che sta frequentando in quel momento.

Tuttavia, pur cogliendo il sottotesto implicito nel senso figurato, codifichiamo solo parzialmente il contenuto veicolato, come se riconoscessimo una strizzata d’occhio senza afferrare tutti i dettagli. Partendo dall’analogia

con il baseball, sappiamo che Johnny è confrontato con una serie di tappe di una relazione sentimentale. Sappiamo che la progressione culmina, idealmente, nella conquista di una posta in gioco dall’alto contenuto simbolico. Quanto al resto, ci affidiamo all’intuizione, all’immaginazione e magari anche all’esperienza diretta, e completiamo il quadro in maniera parziale.

Arrivato in terza base?

Attento che ci sei quasi! In amore come nel baseball, tutto si gioca sul campo della progressione

Per i curiosi, invece, ecco i dettagli: Johnny ha già pomiciato (prima base) e ha palpeggiato la zona sopra la vita (seconda base). L’eventuale terza base, previo consenso di Kate, implica la stimolazione delle zone erogene sotto la vita, e la quarta e ultima base – la home run del baseball – equivale a un rapporto completo.

Occorre aggiungere, tuttavia, che tale schematizzazione – diffusasi negli States a partire dal secondo dopoguerra – ha suscitato, e continua a

suscitare, pareri controversi. I suoi detrattori insistono, per esempio, sul fatto che la metafora lasci intendere che le relazioni intime siano simili a uno sport dove a contare sono soprattutto la prestazione e la vittoria. Sul fronte apposto, c’è chi evidenzia la valenza didattica ed educativa della faccenda, partendo dall’idea diffusa, e condivisibile, secondo cui la propria sessualità va, idealmente, esplorata in modo progressivo, evitando di bruciare le tappe.

Se tutto ciò dimostra che il cinema, la televisione, e ora anche le piattaforme di streaming, diffondono con successo porzioni importanti di cultura pop americana facendo leva sulla metafora del baseball, è bene sapere che questo sport ha dato luogo anche a migrazioni di senso meno note, ma non per questo meno istruttive. Per esempio: cosa hanno in comune il gioco del baseball e le brillanti e divertenti commedie girate a Hollywood negli anni Trenta e Quaranta? La risposta, come vedremo, non è per nulla scontata.

Forse alcuni di voi sapranno che la commedia cinematografica statunitense di quel periodo è nota anche come screwball comedy. Meno noto è in-

vece l’origine di questa locuzione che ci riporta, ancora una volta, al baseball. Nel baseball, screwball (letteralmente «palla avvitata») è il nome di un lancio messo a punto da Carl Hubbell, lanciatore dei New York Giants, negli anni Venti. Grazie al movimento del polso, e alla presa delle dita attorno alla palla, Hubbell imprimeva a quest’ultima una rotazione tale che, a un certo punto, la sua traiettoria improvvisamente si incurvava verso l’esterno mandando a vuoto, come si dice in gergo, lo sconsolato battitore. Dopo che Hubbell battezzò il suo lancio, il termine screwball entrò nell’uso comune per indicare qualcosa di inaspettato, imprevedibile o eccentrico, designando talvolta una persona dal carattere curioso, talaltra un qualcosa di sciocco o poco pratico: oppure, appunto, un genere di commedia incentrata sull’amore e sul corteggiamento, sui mille ostacoli e impedimenti, anche inverosimili, che interferiscono nel rapporto di coppia.

Le trame di questi film – realizzati da grandi registi quali Frank Capra e Howard Hawks, e interpretati da attori iconici come Cary Grant o Carole Lombard – sono, proprio come la

traiettoria di una screwball, imprevedibili e eccentriche, a volte imbizzarrite e spiazzanti. I suoi protagonisti si muovono nell’alta società, dando luogo a una comicità «svitata» ritmata da dialoghi serrati, intrisi di doppi sensi e battute spregiudicate. Estremamente popolare negli anni Trenta, negli anni Quaranta la verve creativa e il disimpegno della screwball comedy subiscono il contraccolpo dell’entrata degli Stati Uniti nel secondo conflitto mondiale. Tuttavia, il suo stile caratteristico sopravvivrà sotto altre forme tanto da ritrovarsi, ancora oggi, in alcune produzioni contemporanee.

Fra basi conquistate, lanci impazziti e commedie svitate, passando con disinvoltura dagli affetti agli effetti, forse qualcuno si sarà chiesto, giustamente, come finisce la storia del grillo. Finisce che, quando Philip gli presenta quel grillo appena fritto, l’antropologo lo mastica e cerca di inghiottirlo. Ma, dato che il suo corpo non è abituato a mangiare insetti, il grillo, mezzo masticato, si ritrova di nuovo fuori. Forse, allora, anche il cricket e la screwball hanno qualcosa in comune: entrambi possono essere insidiosi; anzi no, indigesti.

Sebastiano Caroni
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Cuore di pietra, cuore di steppa

Reportage ◆ Appunti erranti dal Mangystau, regione estrema dell’Occidente kazako, terra di sali, santi, carovane e storia antica

Ecco che corre, zigzaga, ci scarta, si sfiata. È una saiga, una specie d’antilope, solitaria che, chissà come – di solito si dileguano al primo accenno d’un motore – quasi collide con il faro destro della Toyota Land Cruiser su cui solco da giorni questa steppa. Marrone, beige, oppure verdastra, si perde all’infinito, la steppa irsuta, o s’incaglia sbattendo contro un tavolato bianco, rive calcaree d’un oceano antico d’eoni ormai quasi scomparso.

La saiga è già lontana. Occhieggia, annusa e poi bruca.

Noi proseguiamo lungo i binari di terra e fango secco tra l’erba alta, che a volte si sdoppiano e partono verso chissà dove. Verso un branco di cavalli, o di cammelli, forse, o dromedari o nar, gli incroci pelosi d’una gobba o due. Oppure là, verso quella casa lontana, un tugurio di pietra, rifugio invernale di pastori erranti.

Ora tira un vento freddo. Qui c’è già sentor d’inverno. Il sole kazako però riscalda ancora questa valle chiara e così piena di meraviglie verticali, aguzze come guglie oppure tronche. Così la salita a piedi tra le rocce e gli arbusti di spine e fiori secchi mi fa stillare sudore e fiato grosso. Lassù, però, è come volare su Orione, o Marte, o chissà dove mi condurrà la fantasia, e respirare l’aria delle aquile, e poi sognare di planare dai picchi e dai pinnacoli giù, su quella sabbia bianca e morbida. Il vento soffia in faccia, e socchiudendo gli occhi sei davvero quell’aquila, e disegni cerchi nel cielo terso e guardi il mondo come fosse tuo.

La valle di Bozzhira è un sogno, per chi, come me, anela a deserti e roccia. Un sogno che sorge solitario come uno stilita dalla piana quieta e ondeggiante del grande mare dell’Asia Centrale. Il Mangystau, regione estrema dell’Occidente kazako aggettante sul Mar Caspio, residuo di quell’oceano, il Tetide, che allagava gran parte dell’Eurasia interna, è culla di sorprese geologiche belle da far mancare il fiato. Tra le sue pieghe, si trovano fos-

sili di conchiglie, di ossa di dinosauri. Si trovano denti di squalo. Materiale marino vecchio come il mondo. Ci sono pianure e altopiani, come quello di Ustyurt, un tavolato desertico pietroso e stepposo che s’estende fino a quel che resta del Lago d’Aral, una lastra calcarea e carsica piena di inghiottitoi e doline, che nascondono profondi laghi sotterranei. Ci sono depressioni che scendono a più di cento metri sotto il livello del mare, come a Karagiye. Ci sono caverne. Ci sono anche montagne, anche se la più alta, quella di Otpan (532m), da noi si direbbe collina. Ci sono colori, tanti, minerali: rosso, giallo, verde, marrone, rosa… strati d’ere geologiche che si sovrappongono. C’è addirittura un posto che ora, complice un mercato turistico in aumento, chiamano «tiramisù», in onore del dolce italico, ma nella versione rielaborata d’Asia Centrale. Kyzylkup, si chiama, o «molto rosso», per le sue venature che paion sciroppo, appunto. Ci si può perdere dentro, come in un labirinto a saliscendi.

E poi c’è il Tuzbayr, il grande la-

go salato, che se non è allagato per le piogge, appare come una distesa bianca e croccante a perdita d’occhio, bordata da una scogliera di gesso solcata da canaloni su cui ci si può arrampicare per abbracciare a sguardi l’enorme estensione candida e abbagliante. E d’estate, quando il caldo è torrido, si vede la magica fatamorgana, che da lontano trasforma cespugli in alberi, latte d’olio arrugginite in fantomatici viandanti, distese di sale in vaste pozze d’acqua che non arriveranno mai.

In queste lande inospitali, passava un tempo anche un ramo secondario della Via della seta. Il nome di Mangyshlak, originario della regione, si documenta da poco prima dell’anno Mille, proprio in relazione a qualche carovana di passaggio. Pare, dalle antiche carte, che la penisola sul cui capo sorge Fort Shevchenko un tempo arrivasse fin sulla sponda opposta, ora russa, e ne fosse la riva settentrionale.

Nelle steppe del Mangystau, quindi, navigavano carovane di centinaia di animali, asini, cavalli, cammelli, che recavano masserizie e merci. Tra

mugghi e ragli e schiocchi di frusta portavano mercanti, o popoli in cerca di nuovi pascoli dove montare il prossimo campo, lontano da una guerra, o dalla siccità. A lungo marca di confine tra khanati, emirati e imperi in odor di fiaba, sempre pochi furono coloro che vi si stabilirono, fossero essi nomadi sciiti, sudditi degli scià persiani di Corasmia o dei khan khazari, o parte di orde turciche o mongole. Cumani, calmucchi, uzbechi, turkmeni, kazachi. Gente di poche parole che viveva di latte di cammello e razzie. Nelle sue lande aride si affrontarono per secoli le truppe degli zar con quelle del khan di Khiva. A metà dell’Ottocento i russi si stabilirono sulle rive del Caspio, fondando la fortezza di Novopetrovskoye, ora Fort-Shevchenko, e nella seconda metà del secolo inglobarono per sempre l’antico khanato.

In questa terra di silenzi, le genti della steppa hanno riempito il vuoto con le loro storie, i loro eroi a cavallo vestiti di pelliccia e i loro santi seduti nella polvere. Predicatori, mistici, asceti, guaritori che qui hanno scel-

to di trascorrere l’esistenza in nome dell’Islam, per diffonderne il credo e fare opere di bene. Come Beket-Ata, per esempio, un saggio sufi del XVIII secolo che, dopo anni di studi nelle rinomate madrase di Khiva, tornò con la parola di Allah nella sua terra natia e vi lasciò una delle moschee rupestri che, pur rade, costellano le falesie della regione. Sono ambienti raccolti, spogli, grotte sgrezzate dalla volontà dei fedeli, che tutto l’anno accolgono pellegrini dall’intera la regione. Come anche quella, non meno celebre, di Shopan-Ata, altro derviscio la cui storia scaturisce da leggende diverse, questa volta legate al maestro Khoja Ahmed Yasawi, il mistico del XII secolo tanto celebre da meritarsi il grande mausoleo che ancora dà lustro alla città kazaka di Turkestan. È proprio lì, davanti alla porta di roccia della moschea di Shopan-Ata, che uno dei pellegrini seduti in buon ordine sulle panche in attesa di farsi ricevere dall’imam per le benedizioni, da sotto il suo kalpak nero (il berretto locale), mi racconta che sta compiendo una sorta di percorso votivo recandosi ai più importanti eremi della regione, rimettendo alla bontà di Dio la malattia incurabile della figlioletta.

Nel complesso, accanto alla vasta necropoli che sempre accompagna il sepolcro di un sant’uomo, c’è anche una casa per i pellegrini, dove le donne, volontarie, preparano di continuo il desco per chi viene a recare omaggio al santo. Ci si siede tutti insieme a terra, attorno a una tovaglia di plastica lunga molti metri imbandita di dolciumi, pane, frutta, tè. Qualcuno, proprio lì, mi consiglia di visitare anche Shakpak-Ata, che in effetti è forse la più bella di queste moschee ipogee, con le sue colonne sbozzate nel gesso e le sue nicchie incorniciate.

Ma il Mangystau non nasconde soltanto questi gioielli candidati alla lista del patrimonio Unesco. Ci sono tanti minerali ghiotti per l’industria. Ci sono enormi giacimenti di petrolio. Quando li scoprirono, nel XX secolo, ci vennero in tanti a lavorarci: russi, ucraini… Poi, crollato l’Urss, tutto divenne kazako. Ora, il suo capoluogo Aktau, una città moderna sul Caspio, oltre a essere la base di quest’industria, è ambita meta marittima dei danarosi della capitale, Astana, o di Almaty, ansiosi di trovarvi il proprio posto al sole. Anche se un sole a tratti freddo come un sole siberiano. O come il vento che stanotte, ululava nella mia tenda.

Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.

Una panoramica su Bozzhira, sull'altopiano di Ustyurt a Mangystau, Kazakistan; sotto: cammelli; in basso da sinistra a destra: Tuzbayr, il grande lago salato, la valle di Bozzhira.
Paolo Brovelli, testo e foto

Un riccio in viaggio tra colline di feltro

Crea con noi ◆ Tutorial per un pannello sensoriale che coinvolge tutta la famiglia in un gioco di creatività condivisa

Questo pannello sensoriale, ispirato a un simpatico riccio che passeggia in giardino, è pensato per offrire ai bambini piccoli un’attività ricca di stimoli tattili e visivi. Facile da realizzare, utilizza materiali semplici e facilmente reperibili in casa, come stoffa, cartoncino, feltro e nastri. Un gioco creativo e coinvolgente che unisce manualità, immaginazione e scoperta.

Preparazione

Ritagliate da uno scatolone un cartone di supporto delle dimensioni di circa 30x42 cm (formato A3). Rivestitelo nella parte superiore con stoffa o cartoncino azzurro, che rappresenterà il cielo del vostro paesaggio. Potete fissarlo utilizzando colla vinilica ben stesa su tutta la superficie.

Con il feltro e la carta verde ritagliate sagome ondulate di diverse tonalità per creare le colline. Sovrapponete i vari strati partendo dal basso verso l’alto per aggiungere profondità e rendere il paesaggio più dinamico e interessante.

Nella parte bassa del paesaggio, ritagliate una fessura lunga e alta circa 12 mm, servirà come guida per inserire e far scorrere il riccio. Questa misura è adatta per le testine di ricambio universali, facilmente reperibili nella vostra filiale Migros di fiducia. Ritagliate dal cartoncino marrone la sagoma del riccio, utilizzando il cartamodello per tracciarne i contorni. Inserite l’attacco della spazzola nella fessura e fissate la sagoma in cartoncino alla testina di ricambio con della colla a caldo.

Giochi e passatempi

Cruciverba Generalmente quanti denti hanno, rispettivamente, il maschio e la femmina del cavallo? Scoprilo leggendo, a soluzione ultimata, nelle caselle evidenziate.

(Frase: 8, 1, 9)

ORIZZONTALI

1. Parte di una somma globale

6. Si consumano camminando

11. Gridare

13. Fiume albanese

14. Andata alla latina

15. Serpente velenoso

17. La... precedono a tavola

18. Tutte d’un pezzo!

20. Un modo di acconsentire...

21. Iniziali di Machiavelli

22. Sono causa di sfuriate

23. Possessivo

Una volta fatto, girate il riccio e completatelo incollando due occhietti e un piccolo naso, ad esempio con un pon pon o un bottone. Se la vostra base in cartone è particolarmente spessa, potete incollare sul retro del riccio, in corrispondenza dell’attacco della spazzola, un

pezzetto di cartone. Questo piccolo spessore aiuterà il riccio ad appoggiarsi meglio al piano di lavoro e a scorrere con maggiore stabilità e fluidità lungo la guida. Tagliate un cerchio in feltro giallo utilizzando un bicchiere come guida per tracciare la forma. Sul retro del cerchio, incollate a raggiera diversi tipi di nastro, piume, e strisce di materiali vari per creare un sole tattile dai raggi morbidi e stimolanti, ricchi di consistenze differenti. Fissate tutto sul pannello.

Aquilone: Create una forma a rombo con del feltro, incollate all’estremità un nastro in cui avrete infilato delle perline.

Potete aggiungere un piccolo sonaglino alla fine del nastro per uno stimolo uditivo.

Alberi: Usate feltro verde per la chioma, bastoncini, sughero o carta per i tronchi. Aggiungete bottoni o decorazioni come frutti o fiori. Per maggior sicurezza cucite ogni elemento molto saldamente al pannello. Il vostro pannello tattile è pronto! Come tocco finale, potete aggiungere un tappo di bottiglia grande all’estremità del «binario»: rappresenterà il goloso cibo che il riccio, muovendosi lungo il percorso, andrà a cercare. Buon divertimento!

Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

Materiale

• Un cartone di riciclo formato A3

• Testina di ricambio per spazzola da cucina

• Tessuti di recupero (qui usati per il cielo)

• Resti di feltro verde in diverse tonalità

• Cartoncino verde liscio e ondulato

• Colla a caldo e colla vinilica

• Nastri nelle tonalità del giallo

• Bastoncini di legno tipo stecco da gelato

• Forbici, matita

• Bottoni decorativi, perline, panni da cucina, pon pon, e tutto ciò che la fantasia vi suggerisce purché si possa fissare in maniera sicura.

(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

24. Due vocali 25. Un famoso Robin 26. Locali delle navi

27. Dà punti e punture

28. Prima moglie di Giacobbe

VERTICALI

1. In questo luogo, poetico...

2. Collisione 3. Coreografia in curva

4. Tua... a Paris 5. Una bevanda 7. Ascoltare 8. Accozzaglie di

Pari in ultime

Preposizione francese

Fuori dai nostri confini 16. Si raccolgono nel frutteto 18. Come finisce... comincia

19. Nome femminile

21. ... di zecca!

23. Fatica in Inghilterra

25. Le iniziali del 33esimo Presidente USA

26. Le iniziali dell’attore Orlando

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku cliccando sull’icona «Concorsi», homepage in alto a destra Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano . Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.

uomini armati

Viaggiatori d’Occidente

La folla siamo noi

Folla, assembramenti, code, attese. Nel mezzo dell’estate i media ci restituiscono l’immagine di un mondo globale che sembra essersi ristretto come dopo un lavaggio andato a male. L’etichetta è già pronta: Overtourism. Ma è davvero così?

I numeri danno altre indicazioni. Per cominciare gli spazi del turismo internazionale sono ancora limitati. La metà dell’intero movimento turistico si concentra in appena quindici Paesi: in pratica l’Europa, il bacino del Mediterraneo (da solo, un terzo del turismo mondiale), gli Stati Uniti, il Sud-est asiatico. E anche quando visitano un determinato Paese, i turisti si dirigono in poche città, e all’interno di queste in pochi quartieri e in pochi luoghi instagrammable, perfetti per un selfie. Secondo uno studio di McKinsey, una delle più importanti società di consulenza strategica internazionale, l’80% dei viaggiatori visita solo il 10% delle destinazioni turistiche mondia-

li. Dunque ci sono spazi vastissimi dove di turisti non si vede nemmeno l’ombra: tutto il Canada, a nord delle città lungo il confine con gli Stati Uniti, o ancora immense regioni del Sud America, dell’Asia centrale, dell’Africa meridionale. E non stiamo parlando di deserti roventi o di distese ghiacciate. Sono terre dove abitano altri uomini come noi, con la sola differenza che non li incontriamo mai, anche perché restano a casa loro, per scelta o per necessità.

Certo fa impressione leggere che gli arrivi internazionali hanno toccato 1,4 miliardi, ma al mondo ci sono pur sempre otto miliardi di individui e dunque per ogni viaggiatore ci sono sei stanziali. Per limitarci a un esempio, solo l’11% della popolazione mondiale è salito su un aereo almeno una volta nella vita e appena il 3% ha volato nell’ultimo anno.

Insomma, se troviamo folla ovunque è perché andiamo tutti negli stessi posti. La folla siamo noi, non gli altri. Ovviamente è una scelta infelice. Le destinazioni soffrono dal punto di vista ambientale (erosione del suolo, inquinamento, uso eccessivo delle risorse in alta stagione), economico (eccessiva dipendenza dal turismo, lavoro stagionale precario e mal retribuito), sociale (aumento degli affitti, negozi tradizionali sostituiti da souvenir e fast food, rumore), culturale (danni ai monumenti, banalizzazione dell’identità locale, disneyficazione).

Cammino per Milano

Il parco Uboldo a Cernusco sul Naviglio

Alle prime armi con le stampelle, uno avanza a stento, appena uscito dall’ospedale Uboldo. In via Uboldo, quasi all’angolo con via Leonardo da Vinci, dove catturo un frammento dell’iscrizione scolpita su una lapide di marmo. Quasi coperta tutta da una pianta rampicante invasiva, l’ultima ottava della stanza quarantasei del canto settimo della Gerusalemme Liberata del Tasso, è la prima traccia del Tempio della Notte. A coronamento dei conci di puddinga –sopra una porta murata con mattoni in cotto che lasciano fuori una lunetta a raggi arrugginita da cui esce aria fredda come dagli sfiatatoi dei grotti ticinesi – il passante dovrebbe poter leggere: «Sempre all’entrar aperto, all’uscita chiuso». Scatta il nesso con la capanna del Tasso scomparsa della puntata precedente a Desio. E così, per la serie giardini all’inglese nell’hinterland milanese, ormai qua-

si un feuilleton estivo, svolto l’angolo costeggiando ancora le mura del Tempio della Notte e vado dritto fino all’entrata del parco Uboldo a Cernusco sul Naviglio. Quindici chilometri a est del Duomo, a cavallo degli anni Ssettanta-Ottanta era conosciuto anche come «il paese dei liberi» per aver dato i natali a tre forti giocatori di calcio in quel ruolo. Agguerrito, sul finire di un pomeriggio ai primi di agosto, entro in cerca di quel che rimane del giardino all’inglese di Ambrogio Uboldo (1785-1865), collezionista d’arte e armi. Stupisce subito la sopravvivenza del laghetto. Un laghetto irreale, risalente al 1808, con acqua verde pavone e un sacco di alberi e due isolette. Alimentato da un canale collegato al naviglio della Martesana – creazione di Leonardo da Vinci diramandolo dall’Adda – che scorre deciso e placido proprio qui a fianco del parco.

Sport in Azione

È un quesito che mi sono posto e che ha preso ulteriormente corpo quando Noè è entrato in piscina per affrontare la finale mondiale dei 100 delfino. A meno che i tecnici della RSI non abbiano giocato con i volumi, è parso palese che il boato più fragoroso fosse proprio quello che ha accolto il nostro beniamino. È accaduto a Singapore a oltre 10mila km da dove è nato e cresciuto. Dubito che in Estremo Oriente ci fosse una delegazione di cinquemila ticinesi.

È accaduto a un nuotatore che, pochi giorni prima, aveva vinto la sua prima medaglia (argento) in un Mondiale in vasca lunga. Mi sono chiesto persino se il boato fosse figlio delle sue prodezze in vasca corta, dove è senza dubbio il numero 1 al mondo nelle sue specialità, in virtù della sua straordinaria virata, seguita da una fase subacquea da urlo. Non so-

no stato capace di darmi una risposta. Da tempo, prendo però atto che Noè Ponti, diversamente da quanto accade per altri protagonisti dello sport, non è divisivo. Da noi lo è in dosi irrisorie, nonostante si sia palesemente schierato sul fronte dell’Ambrì-Piotta. Una macchia imperdonabile in un cantone soprannominato Derbylandia. Sui social media, la stragrande maggioranza degli internauti sta dalla sua parte. L’opinione pubblica ha sorriso dopo che in un’intervista televisiva era riuscito a sdoganare il termine gergale col quale viene denominato l’organo sessuale maschile, e quando, proprio a Singapore, ha chiamato in causa la madre di Gesù per definire il suo riscontro cronometrico nella finale dei 100 delfino. Chi perdona, ama. Mi rimane ancora qualche piccola fetta dell’interrogativo iniziale.

Il canale, prima di scomparire sotto il tempio di Diana, dove c’erano dei bagni misteriosi, è ornato di balaustra in pietra. È lì in faccia, in rovina, il tempio di Diana. Divinità dei boschi, caccia, animali selvatici, luna, parti, custode delle fonti e torrenti, protettrice degli oppressi. Ideato da Camillo Rougier, l’architetto-cugino dell’Uboldo, artefice anche degli altri capricci da giardino e che alcune fonti riportano come Carillo Rougier altre Cirillo. L’iscrizione sul portale è indecifrabile. Colgo solo gli svolazzi incisi di lettere svanite. Una lunetta sventrata mostra un soffitto stile grotta. A fianco, su una collinetta, riesco a sbirciare dentro da un’altra lunetta e la grotta artificiale, benché con rifiuti e così via, è notevole. Non trovo però le conchiglie come ho letto da qualche parte. Nessun sentiero porta a uno dei tre Templi della Notte esistenti al mon-

Ma nella calca anche l’esperienza dei turisti si impoverisce molto. E dunque perché continuiamo a com-

portarci così? In parte naturalmente per l’oggettiva bellezza delle mete: Venezia è Venezia e non è facile indicare un’alternativa all’altezza. Spesso ho pensato che la vista della città giungendo dal Canal Grande sia la più bella di questo nostro pur meraviglioso pianeta. E tuttavia c’è senza dubbio anche una componente di conformismo. La presenza degli altri ci rassicura, ci conforta nelle nostre scelte. Se tutti sono qui, come me, vuol dire che sono nel posto giusto. È come quando facciamo la coda per ore davanti al negozio che vende l’ultimo modello di smartphone o il capo di moda. La moda, appunto. Gli inglesi parlano di FOMO (Fear Of Missing Out), la paura di essere tagliati fuori, di perdersi qualcosa. Forse dovremmo essere più coraggiosi e scoprire il sottile piacere di una vacanza JOMO ( Joy of Missing Out): rinunciare serenamente, dire no, abbandonare la via battuta.

do. Uno si trova vicino, nei giardini di Villa Finzi, quartiere Gorla, il terzo è a una trentina di chilometri da Vienna, parco del castello di Schönau an der Triesting. Mi arrischio così a superare lo steccato e bordeggiare il laghetto tra vegetazione fuori controllo e bottiglie di vino qua e là, ciabatte da mare o cos’alto. Mi faccio largo tra uva turca, sambuchi, rovi. Incontro una colonia di felini inselvatichiti ma cibati da qualche gattara. Proseguo a naso, nella giungla di Cernusco, ed ecco, vicino al retro dell’ospedale una volta Villa Uboldo, l’entrata, con lucchetto, del tempio dedicato alla dea greca della notte. Il prologo, scomparso, era l’antro di Enea e Didone. Guardo tra le grate e agguanto con gli occhi, tra fantastiche stalattiti artificiali, il simulacro in pietra di un uovo di struzzo appeso. Rinascita, riti di passaggio, il

pensiero che corre al quadro di Piero della Francesca. Rafforza la sorpresa, nel buio, lo sprigionarsi di raggi di luce serale. Costruito sotto una collina di riporto, il Tempio della Notte, al centro di un labirinto di cunicoli e grotte, è orientato secondo gli astri e la luce degli equinozi al tramonto. Innamorati giovanissimi, su una panchina davanti al laghetto, su altre panchine uomini soli, catalpe, eucalipti, la casina di Angelica e Medoro: follia architettonica d’ispirazione ariostesca in stato pietoso. Supero il ponte merlato, ecco l’ultimo capriccio: una finta chiesa. C’è solo la facciata di una chiesetta lombardesca illusionistica. Saccheggiata da tutte le sculture tranne un magnifico cedro cesellato in marmo cristallino. Odore forte di mentuccia. Ai miei piedi, infatti, un manto di Calamintha nepeta in fiore. In cima, la croce, è posta su una palla di cannone.

Noè non appartiene alla ristrettissima schiera delle divinità del nuoto. Su tutti Michael Phelps, ingobbito dalle 23 medaglie d’oro olimpiche e dalle 26 iridate che si è messo al collo. Sono 83, se includiamo argento e bronzo. Come la sua connazionale Katie Ledecky, 28enne ancora in luce nell’edizione di quest’anno, la quale, come pochissimi altri, appartiene a coloro a cui tutto sembra riuscire con facilità disarmante. Al punto che lo Squalo di Baltimora, e il suo delfino Ryan Lochte – che ha conquistato «solo» 6 ori olimpici e 39 iridati tra vasca lunga e corta – si sono permessi di muovere pesanti critiche alla delegazione americana reduce da un buon mondiale, ma non stellare. Noè Ponti, non ha atteggiamenti da supereroe. Ostenta il fascino del bravo ragazzo. Quello che deve lottare giorno dopo giorno per conqui-

starsi un metro quadrato di Olimpo. Quello che lo fa sempre col sorriso. Che è certamente dotato di suo, ma che, nonostante ciò, non deve mollare di una virgola, altrimenti sbuca un nuovo avversario che fa scattare la fotocellula qualche centesimo prima di lui. Questa tenacia, questa capacità di soffrire, il nuotatore locarnese, non la millanta. Non la vende ai saldi. Traspare da tutto ciò che fa. Dall’incedere dinoccolato. Dalla mimica facciale. Dagli sguardi. Emerge prepotentemente soprattutto dalle interviste. Pochi secondi dopo aver conquistato la sua seconda medaglia d’argento, Noè si è dapprima complimentato con il vincitore, il francese Maxime Grousset, di due anni più anziano, dotato di una massa muscolare pazzesca. In seguito ha aggiunto che proverà a sconfiggerlo a casa sua, agli

Europei del prossimo anno che si terranno a Parigi. Noè, lo sappiamo, non è un alieno. È semplicemente un campione. Uno che ha ancora degli obiettivi da porsi, dei traguardi da raggiungere. L’oro olimpico e quello iridato non sono una chimera. Perché la sua determinazione è gigantesca. A noi pare che lui esista da sempre. Abbiamo cominciato a seguirlo e ad apprezzarlo quando era poco più di un bambino. Ha solo 24 anni. Ha vinto molto, ma si è preso anche le sue belle mazzate. Eppure, giorno dopo giorno, centesimo dopo centesimo, prosegue la sua scalata, col sostegno del suo allenatore Massimo Meloni e del suo staff. Con l’amore e la discrezione con cui lo seguono i famigliari. A uno che si mette in gioco costantemente, che non si nasconde mai, come si può non voler bene?

di Giancarlo Dionisio
di Oliver Scharpf
di Claudio Visentin

«Bici da trasporto»

«Fabbrica di cioccolato»

«Accettazione merce»

«Fattoria»

«Campo di verdure»

Settimana Migros Approfittane e gusta

1.70 invece di 2.–

Mais dolce Svizzera, vaschetta da 440 g, (100 g = 0.39) 15%

Tutti i pomodori Migros Bio e Demeter per es. pomodorini datterini Migros Bio, Svizzera, vaschetta da 300 g, 3.60 invece di 4.50, (100 g = 1.20) 20%

Il gusto di quest'uva ricorda lo zucchero filato

Melone Sélection Spagna/Francia, al pezzo 40%

2.60

invece di 4.40

2.80 invece di 3.50

Uva Extra Cotton Candy, senza semi Italia, sacchetto da 500 g, (100 g = 0.56) 20%

3.50

Prugne, Migros Bio Svizzera, 500 g, confezionate, (100 g = 0.70) 25%

invece di 4.70

Ticino, al kg, (100 g = 0.30) 21%

2.95

invece di 3.75

3.85 invece di 4.80 Bouquet d'insalata Anna's Best 250 g, (100 g = 1.54) 19%

Migros Ticino

3.95 invece di 5.95

Mini angurie Migros Bio Spagna/Italia, il pezzo 33%

verdi Migros Bio

g, 2.56 invece di 3.20, (100 g = 0.51) 20%

Aceto balsamico di Modena Ponti

Scalda subito il grill!

Una buona pesca

PREZZO BASSO

Oltre 1000 prodotti di uso quotidiano a prezzo basso

4.50 Salmone selvatico Sockeye M-Classic, MSC pesca, Pacifico nordorientale, per 100 g, in self-service

2.05

Orata reale M-Classic, ASC d'allevamento, Croazia, per 100 g, in self-service

2.95

Filetti di trota affumicati M-Classic, ASC d'allevamento, Danimarca, 125 g, in self-service, (100 g = 2.36)

20%

10.50 invece di 13.25

Filetti di salmone con pelle M-Classic, ASC d'allevamento, Norvegia, 4 pezzi, 500 g, in self-service, (100 g = 2.10)

Oratuttodisponibili l'anno

7.95

invece di 15.90

Cozze fresche M-Classic, MSC pesca, Paesi Bassi, 2 kg, in self-service, (1 kg = 3.98) 50%

24%

7.95

invece di 10.50

Filetti di merluzzo M-Classic, MSC pesca, Atlantico nordorientale, 375 g, in self-service, (100 g = 2.12)

20%

8.80

invece di 11.05

Croccantini di pangasio M-Classic, ASC d'allevamento, Vietnam, 700 g, in self-service, (100 g = 1.26)

12.70

invece di 15.90

Bastoncini di merluzzo Pelican, MSC prodotto surgelato, 2 x 720 g, (100 g = 0.88)

Pane e prodotti da forno

Cornetti alla crema in conf. speciale, 4 pezzi, 280 g, (100 g = 2.14) 14%

6.–

invece di 7.–

35%

Tutto l'assortimento di pasta fresca Garofalo, refrigerata (confezioni multiple escluse), per es. tortellini al prosciutto crudo, 250 g, 4.23 invece di 6.50, (100 g = 1.69)

Tanto gusto in pochi minuti

Versatile come la carne, ma a base vegetale

20%

16.90

invece di 26.–

Pasta fresca Garofalo, refrigerata

tortellini prosciutto crudo o ricotta e spinaci, 2 x 500 g, (100 g = 1.69)

Sostituti del pesce e della carne, V-Love, prodotti refrigerati (surgelati esclusi), per es. Peppery Steak Grill mi, 2 pezzi, 200 g, 4.76 invece di 5.95, (100 g = 2.38)

5.90

Focaccia all'alsaziana Flam'Fine zucchine oppure prosciutto e formaggio, 2 pezzi, 360 g, (100 g = 1.64) Hit

Perfetta per un picnic o uno spuntino

20%

Torta di noci grigionese Petit Bonheur e Migros Bio, per es. Petit Bonheur, 500 g, 6.36 invece di 7.95, prodotto confezionato, (100 g = 1.27)

3.55

Pane pita IP-SUISSE

400 g, prodotto confezionato, (100 g = 0.89)

a partire da 2 pezzi

Formaggi e latticini

Per colazione, pranzo o cena

Le Gruyère Höhlengold, AOP per 100 g, prodotto confezionato 18%

2.50 invece di 3.05

2.20

invece di 2.80

Formaggio cremoso Luzerner Emmi in conf. speciale, circa 280 g, per 100 g 21%

7.05

Le Gruyère grattugiato AOP 3 x 130 g, (100 g = 1.81) conf. da 3 20%

invece di 8.85

Tutti i formaggi per insalata e i tipi di feta per es. formaggio per insalata M-Classic, 250 g, 1.40 invece di 2.–, (100 g = 0.56) 30%

2.25

Caseificio Leventina per 100 g, prodotto confezionato 16%

invece di 2.70

3.65

Tomino boscaiolo con speck Italia, 195 g, (100 g = 1.87) 20%

invece di 4.60

Migros Ticino

conf. da 2 –.40 di riduzione

7.50 invece di 7.90 Il Burro 2 x 250 g, (100 g = 0.50)

20%

Philadelphia (confezioni multiple escl.), disponibile in diverse varietà, per es. original, 200 g, 2.20 invece di 2.75, (100 g = 1.10)

conf. da 2 20%

Philadelphia Balance, Original o alle erbe, per es. Balance, 2 x 200 g, 4.45 invece di 5.60, (100 g = 1.11)

Tutti i sostituti del latte V- Love (senza alternative al formaggio), per es. drink all'avena Barista bio, 1 litro, 2.32 invece di 2.90 20%

Non contiene lattosio e sostiene il sistema immunitario

a partire da 2 pezzi 20%

Yogurt da bere Aktifit Emmi fragola, pesca o frutta esotica, 6 x 65 ml, 3.80 invece di 4.75, (100 ml = 0.97)

Yogurt Pur Emmi disponibili in diverse varietà, per es. lampone, 150 g, –.90 invece di 1.10, (100 g = 0.60) 18%

conf. da 6 15%

Latte Valflora UHT IP-SUISSE

conf. da 6 x 1 l, per es. intero, 8.15 invece di 9.60, (100 ml = 0.14)

Migros Ticino
a partire da 2 pezzi

Rendi perfetta la tua pizza

Zeilenumbrüche verwenden!

Dolci e cioccolato

Ogni morso un sorriso

Tutte le tavolette di cioccolato Frey (prodotti Sélection e confezioni multiple esclusi), per es. Latte finissimo, 100 g, 2.– invece di 2.50

Tutti i biscotti Créa d'Or per es. Bretzeli, 100 g, 2.08 invece di 3.10

3.55 Knoppers minis in conf. speciale, 200 g, (100 g = 1.78)

Fare provviste mette di buon umore!

2

20%

Tutto l'assortimento di cereali Nestlé per es. Cini Minis, 500 g, 3.96 invece di 4.95, (100 g = 0.79)

partire da 2 pezzi 20%

Tutto l'assortimento Tiger Kitchen per es. salsa di soia, 250 ml, 2.24 invece di 2.80, (100 ml = 0.90)

a partire da 2 pezzi 3.–

Tutte le capsule Delizio, 48 pezzi per es. Crema Lungo, 16.80 invece di 19.80, (100 g = 5.83)

I sapori Orientedell'Estremo a casa tua

Couscous, lenticchie, ceci e quinoa, Migros Bio per es. lenticchie verdi, 500 g, 2.56 invece di 3.20, (100 g = 0.51) 20%

conf. da 2 30%

Involtini primavera J. Bank's prodotto surgelato, con pollo o verdure, per es. pollo, 2 x 6 pezzi, 740 g, 9.80 invece di 14.–, (100 g = 1.32)

a partire da 2 pezzi 20%

Tutti i ravioli M-Classic per es. Ravioli alla napoletana con ripieno di carne, 430 g, 1.84 invece di 2.30, (100 g = 0.43)

a partire da 2 pezzi 20%

Tutti i tipi di farina (articoli Demeter e Alnatura esclusi), per es. farina bianca M-Classic, IP-SUISSE, 1 kg, 1.52 invece di 1.90, (100 g = 0.15)

a partire da
pezzi
di riduzione
a

a partire da 2 pezzi –.30 di riduzione

Tutti i salatini da aperitivo Party per es. cracker alla pizza, 150 g, 2.80 invece di 3.10, (100 g = 1.87)

conf. da 10 40%

Mitico Ice Tea in brik al limone, light al limone o alla pesca, 10 x 1 litro, per es. Limone, 4.98 invece di 8.30, (100 ml = 0,05)

Irresistibile croccantezza bio senza additivi

2.55

invece di 3.40

Tortilla Chips Migros Bio al naturale, 150 g, (100 g = 1.70) 25%

conf. da 12 50%

4.50 invece di 9.–

Acqua minerale Aproz Gazéifiee, Légère o Naturelle, 12 x 500 ml, (100 ml = 0.08)

a partire da 2 pezzi 20%

Tutte le noci e le noci miste Sun Queen Apéro tostate e salate, per es. noci miste, 170 g, 3.72 invece di 4.65, (100 g = 2.19)

conf. da 6 25%

Tutto l'assortimento Vitamin Well per es. Reload, 6 x 500 ml, 10.13 invece di 13.50, (100 ml = 0.34)

Back to School

12.95

Borraccia Paper & Co.

350 ml, disponibile in azzurro con motivo circense, il pezzo

3.90

Barretta bio Freche Freunde pera, prugna e ribes nero, 4 x 23 g, (10 g = 0.42) 6.80 invece di 8.55 Mini Babybel in conf. speciale, rete da 18 x 22 g, (100 g = 1.72) 20%

6.80 in conf. speciale, rete da 350 ml, disponibile in azzurro 3.95 ca Extra

3.95 invece di 5.95 Nettarine a polpa bianca Extra Italia/Francia/Spagna, al kg 33%

Vestirsi e sentirsi bene

Prodotti per la cura quotidiana

conf. da 3 33%

7.90

invece di 11.85

Shampoo Nivea per es. Classic Care Mild, 3 x 250 ml, (100 ml = 1.05)

20%

Delicato sulla pelle e senza microplastica

Gel doccia pH balance per es. gel doccia pH 5,5, 2 x 250 ml, 5.60 invece di 7.–, (100 ml = 1.12)

conf. da 3 25%

Prodotti per la doccia I am o I am Men in confezioni multiple, per es. doccia crema Milk & Honey I am, 3 x 250 ml, 4.– invece di 5.40, (100 ml = 0.53)

Balsami trattanti o prodotti per lo styling dei capelli, Nivea per es. spray per capelli Diamond Volume, 2 x 250 ml, 7.40 invece di 9.90, (100 ml = 1.48) conf. da 2 25%

4.85

Fazzoletti Classic Linsoft, FSC® in conf. speciale, 56 x 10 pezzi Hit

conf. da 4 33%

Tutto l'assortimento di prodotti per la cura del viso L'Oréal Paris (confezioni multiple escluse), per es. crema da giorno antirughe Revitalift, 50 ml, 12.71 invece di 16.95, (10 ml = 2.54) a partire da 2 pezzi 25%

6.25 invece di 9.40

Fazzoletti di carta Linsoft in scatola, FSC® 4 x 100 pezzi

Dentifricio Meridol

protezione gengive, Parodont Expert o protezione gengive e sbiancante delicato, per es. protezione gengive, 2 x 75 ml, 7.70 invece di 10.30, (100 ml = 5.13)

Spazzolini da denti Meridol delicati, medi o extra delicati, per es. delicati, 6.75 invece di 9.–, (1 pz. = 3.38)

di 14.70

protezione carie o Sensitive, Elmex 3 x 75 ml, (100 ml = 4.87)

Articoli pratici per la cucina, il bagno e la vita di tutti i giorni

40%

Carta igienica Hakle, FSC® pulizia trattante, morbida o incredibile, in confezioni speciali, per es. pulizia trattante, 24 rotoli, 17.50 invece di 29.20

a partire da 2 pezzi

50%

Tutto l'assortimento Handymatic Supreme (sale rigeneratore escluso), per es. All in 1 in polvere, 800 g, 4.98 invece di 9.95, (100 g = 0.62)

45%

7.50

invece di 13.80

Salviettine igieniche umide Hakle freschezza e cura, freschezza assoluta o freschezza e sensibilità, 4 x 42 pezzi, per es. freschezza e cura conf. da 4

a partire da 3 pezzi

30%

Tutto l'assortimento Exelcat e Dreamies per es. delizia in salsa Exelcat con pollo, anatra, pollame e tacchino, 24 x 85 g, 11.17 invece di 15.95, (100 g = 0.55)

50%

Detersivo per bucato in gel o Power Bars, Persil in confezioni speciali, per es. Gel Universal, 3,6 litri, 24.95 invece di 51.80, (1 l = 6.93)

Rimuove le macchie

48% già a partire da 20 gradi

24.95

invece di 48.56

Detersivo per bucato in polvere o Discs, Persil in confezioni speciali, per es. in polvere per colorati, 4,5 kg, (1 kg = 5.54)

Batteria di padelle Pro Kitchen & Co. per es. padella a bordo basso, Ø 24 cm, il pezzo, 34.97 invece di 49.95 30%

9.95

invece di 12.95

Phalaenopsis multiflora a 2 steli M-Classic disponibile in diversi colori, Ø 12 cm, il vaso 23%

5.95

Minirose disponibili in diversi colori, mazzo da 14, lunghezza dello stelo 40 cm, il mazzo Hit

a partire da 2 pezzi 30%

Tutti i tovaglioli, le tovagliette e le tovaglie di carta, Kitchen & Co., FSC® (articoli Hit esclusi), per es. tovaglioli Basic gialli, 33 x 33 cm, 30 pezzi, 1.05 invece di 1.50

110.–di riduzione

29.95 invece di 139.95

Macchina per caffè in capsule Delizio Una Pure White il pezzo

a partire da 2 pezzi 20%

Tutto l'assortimento di alimenti per bebè Nestlé (latte Pre, latte di tipo 1, latte Comfort e confezioni multiple esclusi), per es. Beba Optipro Junior 18+, 800 g, 15.96 invece di 19.95, (100 g = 2.00)

Energizer Max AA o AAA in conf. speciale, 16 pezzi

19.95 Pampers Night Pants tg. 5 35 pezzi, (1 pz. = 1.66) 20x CUMULUS Novità

Prezzi imbattibili del weekend

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6.50 invece di 9.53

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