Azione 49 del 4 dicembre 2017

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio Come si affronta la quotidanità con una disabilità fisica? Ce lo spiega Gracemarie Bricalli

Ambiente e Benessere Le raccomandazioni pediatriche possono prevenire la tristemente nota Sindrome della morte improvvisa nell’infanzia

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXX 4 dicembre 2017

Azione 49 Politica e Economia Cina e Russia riscuotono a rate quel che resta di produttivo nel Venezuela

Cultura e Spettacoli Hans Magnus Enzensberger ha dedicato un magnifico libro alla storia del denaro

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di Fabio Dozio pagina 6

Didier Ruef

Ospiti a Corippo

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Quando il Novecento morì nei Balcani di Peter Schiesser Per un attimo, quel passato furioso, quella violenza inaspettata che ci aveva colto di sorpresa la seconda estate dopo la caduta del Muro di Berlino, sono riemersi: nel plateale gesto di Slobodan Praljak, a suo tempo capo delle forze armate croate dell’Erzegovina, di avvelenarsi nell’aula del Tribunale penale internazionale sull’ex Jugoslavia (TPIY), abbiamo rivisto uno sprazzo di quell’assurdità che ci ha accompagnati per quattro abbondanti anni e la sofferente passione dei suoi protagonisti, vittime e carnefici delle guerre che seguirono la dissoluzione della Jugoslavia. Ci è tornata alla memoria la nascita violenta di una Croazia indipendente e quella abortita di una Bosnia troppo divisa fra le sue etnie per poter sperare di esistere. Non dimentichiamolo: mentre in Occidente si celebrava la sconfitta del comunismo, la dissoluzione dell’Unione Sovietica, spingendo alcuni ad annunciare la fine della Storia (ossia la vittoria finale del capitalismo, della democrazia e della pace), nell’estate del 1991 l’Europa rabbrividì a constatare che la guerra era tornata, sul suo suolo. Dapprima con una guerricciola, durata 10 giorni, scoppiata

fra Serbia e Slovenia due giorni dopo che quest’ultima aveva dichiarato l’indipendenza. Costò la vita a 62 persone e il ferimento di 328. Poi con la ben più feroce guerra in Croazia, la cui dichiarazione di indipendenza era stata rapidamente riconosciuta dalla Germania e dal Vaticano, ma avversata dalla Serbia. Quindi un anno dopo con la peggiore di tutte le guerre balcaniche, quella in Bosnia Erzegovina, dove molto presto croati, serbi e bosniaci si combatterono vicendevolmente. E per finire, nel 1998 in Kosovo. Per chi scrive, fu uno shock constatare che in una Croazia che guardava all’Europa, una gioventù in blue jeans, t-shirt e scarpette eleganti si dava entusiasticamente da fare per caricare i cannoni contro un nemico fino a ieri fratello. La bestia addormentata dei Balcani si era risvegliata. Nomi come Vukovar, Krajina, Sarajevo, Srebrenica, Mostar, Prjiedor, Tuzla, ci sono diventati famigliari come simbolo di una ferocia di cui in Europa si era dunque ancora capaci. La guerra non sarebbe finita se gli Stati Uniti (Bill Clinton presidente) non si fossero imposti su un’Europa incapace di spegnere il fuoco riemerso dal suo passato. E non dobbiamo all’Europa che, a guerre ancora in corso (terminate nel dicembre del 1995), vi fu un consenso

generale ad istituire il Tricunale penale internazionale per i crimini nell’ex Jugoslavia. Lo vollero gli americani, ma lo elogiarono anche i russi (presidente Boris Eltsin). Per la prima volta, c’era la possibilità di giudicare una guerra, i suoi crimini e i suoi protagonisti, senza che prevalesse la legge dei vincitori (che non c’erano). E così è stato? Ricordiamo le principali sentenze del TPIY, che chiuderà i battenti a fine anno: Ratko Mladic, capo delle forze serbe in Bosnia, ergastolo (vedi Roberta Arnold a pagina 29); Radovan Karadzic, presidente della repubblica serba di Bosnia, 40 anni di carcere; Slobodan Milosevic, presidente della Serbia, deceduto prima della sentenza nel 2006; Ante Gotovina, comandante croato in Krajina, dapprima condannato a 24 anni e poi assolto in appello; Ramush Haradinaj, comandante dell’esercito per l’indipendenza del Kosovo e accusato di crimini contro l’umanità, doppiamente assolto. Due terzi dei condannati sono di etnia serba, mentre croati, bosniaci e albanesi del Kosovo se la sono cavata meglio, più spesso assolti dei serbi. Dunque: giustizia è stata fatta? Qua e là sì. Altre volte, non è stato possibile confermare fino in fondo i capi di accusa. Ma la pace, quella fatta di riconciliazione, no, quella è ancora di là da venire.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 dicembre 2017 • N. 49

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Attualità Migros

M Dutti per tutti

Scuola Club Migros Ticino Responsabilità sociale e sostenibilità in scena per ricordare il padre fondatore di Migros

Con la presentazione in prima assoluta della lettura teatrale Partita Doppia scritta e realizzata dall’attrice Laura Curino si sono chiusi martedì 28 novembre, presso l’Aula Magna della SUPSI di Trevano, i festeggiamenti per il 60esimo della Scuola Club di Migros Ticino. L’evento, al quale hanno partecipato oltre 250 invitati, ha visto i saluti istituzionali del Consigliere di Stato Christian Vitta, del Direttore Dipartimento economia aziendale, sanità e sociale della SUPSI Luca Crivelli e del Direttore di Migros Ticino Lorenzo Emma. Promossa da CSR Ticino (gruppo di lavoro composto da rappresentanti del Dipartimento delle finanze e dell’economia, Associazione Industrie Ticinesi, Associazione Bancaria Ticinese, Camera di Commercio e SUPSI che ha come tema centrale la responsabilità sociale) e sostenuta da Migros Ticino attraverso l’impegno della sua Scuola Club, la serata è stata ispirata e dedicata a Gottlieb Duttweiler. Con grande efficacia il testo – un affascinante dialogo tra Duttweiler e altre figure imprenditoriali nella storia del Novecento, tra le quali quella di Adriano Olivetti – porta ad emergere la visione lungimirante e straordinariamente anticipatrice di «Dutti» rispetto a un fare impresa sostenibile nel tempo e contributivo nei confronti del territorio di appartenenza. Si tratta di temi oggi di grande interesse e attualità, in un passaggio storico che nel richiedere una riformulazione dell’idea stessa di crescita spinge in avanti la riflessione sui modelli di business e sul ruolo sociale dell’impresa. Emozionato e rapito dalla profondità e dalla bellezza della proposta di Duttweiler che la capacità interpretativa di Laura Curino ha reso viva e vibrante, il pubblico presente ha confermato con gli applausi il riconosci-

L’attrice Laura Curino in un momento del suo spettacolo Partita Doppia, a Trevano. (S. Spinelli)

mento a un uomo che ha saputo conciliare ragione e passione, coraggio e responsabilità. Il titolo del testo teatrale Partita doppia, se richiama immediatamente il mondo della gestione contabile dell’impresa, rimanda però a una partita più ampia, doppia, appunto. È la partita giocata e vinta da Duttweiler contemporaneamente su due grandi tavoli, quello dell’economia e quello della società, così da dimostrare con i fatti la possibilità di conseguire crescita economica e, insieme, sviluppo sociale.

Ricordando il suo fondatore e la sua chiara direzione di impegno verso il miglioramento continuo della vita di tutti, tutti i giorni, la Scuola Club di Migros Ticino conclude un anno speciale che rinsalda la sua mission formativa a servizio del territorio. È nuova energia che consentirà alla scuola di continuare a giocare con passione la sua «partita doppia»: quella tra l’eredità valoriale del passato, da custodire e continuamente rinnovare, e il futuro che chiede di essere accompagnato con cura e professionalità per poter continuare ad esistere.

Un imprenditore illuminato e sorprendente.

Caritas e la lotta contro l’indebitamento

Ritiro merce

di beneficenza che saranno sostenute con le donazioni di Migros e dei suoi clienti

il prodotto Powercube Extended

Campagna di Natale 2017 L’istituzione di solidarietà è una delle cinque organizzazioni

La campagna natalizia proposta da Migros anche quest’anno vuole raccogliere fondi per sostenere le attività di solidarietà messe in opera da cinque importanti operatori del settore sociale nazionale. Caritas, in particolare ha annunciato che destinerà la cifra assegnatale al proprio servizio di consulen-

za contro l’indebitamento. Si tratta di un fenomeno di rilevante importanza che coinvolge giovani e meno giovani e in particolare persone che fanno parte di «fasce a rischio», come neo-lavoratori, neo-pensionati e neo-divorziati. L’indebitamento eccessivo non è un fenomeno legato alla mancanza di

Come contribuire Alle casse dei supermercati Migros sono presenti degli espositori che contengono cuori di cioccolata confezionati in carta stagnola colorata. Acquistandoli sosterrete l’azione natalizia di Migros. La cifra sarà immediatamente riversata nel fondo di solidarietà. Alla fine dell’azione Migros aggiungerà alla cifra raccolta un milione di

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

franchi. Il ricavato complessivo sarà suddiviso in parti uguali tra Caritas, Heks – Aiuto alle chiese protestanti, Pro Juventute, Pro Senectute e Soccorso d’inverno. Le cinque organizzazioni lo impiegheranno per progetti d’intervento in Svizzera. Altre informazioni di dettaglio sull’azione sono pubblicate nel sito web www.migros.ch/natale Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

denaro, bensì alla gestione inappropriata delle spese rispetto alla disponibilità finanziaria e all’uso non controllato degli strumenti di credito. Bisogna considerare, ad esempio, che solo in Ticino il problema dell’indebitamento eccessivo tocca quasi 24’000 persone, il 7,5% della popolazione. Caritas Ticino è attiva da anni su questo fronte con interventi che mirano alla prevenzione e alla risoluzione di problemi dovuti alle difficoltà di gestione del budget personale. In questo senso l’ente collabora al Piano cantonale contro l’indebitamento eccessivo e all’iniziativa denominata «Il Franco in Tasca» (si veda «Azione 04» del 25 gennaio 2016). Nell’ambito di questo impegno offre consulenza e accompagnamento a chi è confrontato con il problema dei debiti. Gli stessi servizi sociali comunali e cantonali così come l’Ufficio esecuzioni e fallimenti e l’Ufficio esazione e condoni indirizzano le persone in difficoltà Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Consulenza personalizzata da parte di un tutor. (D. Winkler)

al servizio, dove compiono un’analisi della situazione e sono accompagnate nel percorso di risanamento da parte di tutor formati specificamente.

Interio Richiamato

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 dicembre 2017 • N. 49

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Società e Territorio I disegni di Emma La fumettista francese pubblica il suo primo libro in italiano con il titolo Le brave ragazze si ribellano

Un’idea per Corippo Il più piccolo villaggio svizzero tenta una rinascita turistica grazie al progetto di albergo diffuso

La crescita vista dai bambini Intervista agli psicologi e psicoterapeuti Ulisse Mariani e Rosanna Schiralli autori del saggio I miei genitori crescono bene

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L’eroe che è in noi

Incontri Gracemarie Bricalli ci spiega come

si affronta la quotidianità con una disabilità fisica che ostacola la mobilità

Natascha Fioretti «Disabili siamo tutti: dall’assistenza all’inclusione» è il titolo, ma in fondo anche il messaggio, di un incontro a più voci che si è svolto ieri domenica 3 dicembre all’OTAF di Sorengo, in occasione della Giornata Internazionale sulla disabilità. Organizzato dall’Associazione Business and Professional Women’s Club Ticino, in collaborazione con Inclusione Andicap Ticino, Associazione Down Universe e Procap Ticino, a volerlo fortemente è stata Gracemarie Bricalli, membra BPW e responsabile degli Affari Internazionali di ESMO – Società europea per l’oncologia medica con sede a Viganello. Nata a New York, laureata in Affari Esteri all’Università Georgetown di Washington D.C., arrivata in Svizzera grazie ad una borsa di studio del Rotary, Gracemarie Bricalli ha un sorriso per tutti ed è una donna che non si arrende mai. Quando la incontro, abbiamo giusto un’ora di tempo perché deve prendere un volo per Singapore, arriva con il suo deambulatore che le permette di camminare in sicurezza ma anche di sedersi nei luoghi pubblici dove spesso i tavoli o le sedie sono troppo scomodi per lei. E non è il solo mezzo che ha a disposizione, quando viaggia in aereo porta sempre con se il suo scooter elettrico mobility a quattro ruote, perfettamente scomponibile e trasportabile, mentre per muoversi in città si è attrezzata di uno scooter elettrico mobility coperto per la pioggia. Il messaggio è chiaro, i limiti e le barriere non le interessano se non per essere superati, e avere una disabilità fisica come la sua che ostacola la mobilità, non significa doversi confinare in casa e isolarsi dal mondo. In questa intervista ci spiega come si fa e cosa significa essere una persona con disabilità. Gracemarie Bricalli da dove partiamo?

Da una convinzione fondamentale: le persone con disabilità sono forti e coraggiose. Nella vita quotidiana affrontano sfide che persone senza disabilità non possono nemmeno immaginare. Lei mi vede qui seduta e sorridente ma non sa cosa mi ci è voluto per essere qui, per vestirmi ed essere pronta in tempo per l’intervista. Se lei per prepararsi al mattino ci impiega mezz’ora per me ci vuole il doppio del tempo. Se per lei salire i gradini del portone, o le scale di un edificio è normale, io devo essere sicura che vi sia l’ascensore. Devo andare a

visitare i luoghi e i posti il giorno prima per vedere dove parcheggiare e capire se posso accedere agli edifici. Se per lei è facile salire sul marciapiede, per me un marciapiede può essere insormontabile, per non parlare delle scale senza ringhiera. Ho degli amici che non possono prendere l’aereo perché i bagni sono troppo stretti e non attrezzati. Le stanze degli alberghi pensate per chi ha degli handicap spesso non sono pratiche. Un piccolo sassolino sotto la scarpa può farmi perdere l’equilibrio, devo fare attenzione ad ogni mio passo, calcolare ogni movimento e trovare ogni giorno dei modi per superare le barriere che mi si presentano. Le persone forti e coraggiose possono essere una preziosa risorsa per la comunità nella quale vivono ma questo forse non è così ovvio?

Le persone con disabilità hanno molto da offrire alla società. Lavorano sodo e sono molto riconoscenti perché conoscono il sacrificio e la sofferenza. Sono abituate a confrontarsi con le avversità ogni giorno, sono in grado di gestire situazioni difficili, di perseverare e non mollare anche quando sono messe sotto pressione. Sono incredibilmente creative perché spesso devono trovare nuove strade per portare a termine anche i compiti più semplici. Sono risolutrici di problemi, conoscono l’importanza di pianificare per tempo e possono essere delle forze trainanti per progetti innovativi. A proposito di risoluzione di problemi, lei ha una vita piena di impegni e un incarico professionale importante, come concilia tutto?

Come responsabile degli Affari Internazionali di ESMO ho una grande responsabilità ma amo il mio lavoro e sono stata fortunata a trovarlo. ESMO ha fatto davvero molto per me, i dottori e tutto lo staff sono persone molto compassionevoli e attente alle mie esigenze particolari, per esempio l’affitto di uno scooter quando partecipo a congressi internazionali. Anche l’AI, Assicurazione Invalidità, mi sostiene con l’assistenza di cui ho bisogno assicurando così la mia indipendenza e la possibilità di continuare a svolgere il mio lavoro. Per il suo spirito così tenace si è guadagnata un soprannome, ci dice qual è?

C’è una canzone famosa in America, si chiama Amazing Grace e alcune persone mi chiamano proprio così, straordinaria Grace, perché pensano che ciò che faccio sia straordinario. È vero che tra la famiglia, il lavoro e

Gracemarie Bricalli è la responsabile degli Affari Internazionali di ESMO (Società europea per l’oncologia medica). (S. Spinelli)

la mia disabilità ho una vita molto impegnata ma, lo ammetto, non è per niente facile, ogni giorno le sfide mi mettono a dura prova e, talvolta, può essere molto frustrante. Ho imparato che la cosa migliore è rimanere calmi e affrontare le cose un passo alla volta. Ho fiducia nel fatto che qualsiasi cosa io decida di fare, la vita sta dalla mia parte e tutto andrà per il verso giusto. Potrei scrivere un libro sulle mie avventure e magari un giorno lo farò. In ogni cosa che faccio ci metto il sorriso e anche se accetto la mia condizione, credo nei miracoli e sono convinta che un giorno verrò guarita. Nella mia ricerca della guarigione ho imparato molto su come superare limiti interiori ed esteriori, credo nella forza della preghiera. È bello pensare di essere degli eroi ma la vita mette anche a dura prova, come fare per non scoraggiarsi?

Vorrei che le persone con disabilità capissero che la disabilità non ha nulla a che fare con la loro identità. Una disabilità è qualcosa che hai ma non qualcosa che definisce chi sei. Spero che le persone con disabilità possano vedersi come eroi forti e coraggiosi perché questo è ciò che sono. I bambini ci indicano col dito e chiedono alle loro mamme «Che cosa non va con quella signora?», voglio cambiare questa percezione, questo modo di vedere le cose. Voglio che le persone, quando ci guardano, vedano l’eroe che è in noi e dicano «Wow! Questa persona è forte e coraggiosa».

Dicevamo che gli impegni non le mancano, come è nata l’idea di organizzare l’incontro pubblico «Siamo tutti disabili: dall’assistenza all’inclusione»?

Molte persone mi hanno raccontato

di esperienze frustanti nelle quali si sono sentite dire di stare a casa e di non uscire se questo per loro implica delle difficoltà. Il mio intento è quello di fare qualcosa per cambiare questo modo di pensare, dire a tutti che siamo persone come le altre, con le stesse speranze e gli stessi sogni. Abbiamo lo stesso diritto di andare per strada e di godere appieno delle nostre vite. Non ho mai permesso alla mia disabilità di ostacolare ciò che volevo portare a compimento e voglio incoraggiare gli altri a fare lo stesso. L’evento voleva anche ricordare che, ad un certo punto delle nostre vite, siamo tutti confrontati con una disabilità, piccola o grande che sia, che ci impone magari di mettere gli occhiali per vedere, l’apparecchio acustico per sentire, l’uso di un bastone per sostenerci quando camminiamo.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 dicembre 2017 • N. 49

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Società e Territorio

Fa la brava e ribellati

Strenne storiche per la Svizzera italiana

il suo primo libro mentre in Francia esce il secondo

Editoria Volumi usciti nell’ultimo anno

Donne e uomini E mma, fumettista francese, pubblica in italiano

trattano vicende passate del nostro territorio Alessandro Zanoli

L’immagine di copertina de Le brave ragazze si ribellano. (Centauria edizioni)

Sara Rossi Guidicelli Emma ha 36 anni, un bimbo di 6, di professione è ingegnere informatico e quando ha finito di fare tutto disegna. E disegna non poco: sul suo blog si trova un’infinità di fumetti e di storie a vignette, alcune delle quali hanno fatto il giro del mondo e sono state pubblicate da «Le Monde» e «The Guardian». Il grande successo di Emma è che i disegni sono semplici, simpatici e il messaggio folgorante. Uno dei più apprezzati da tutte le mamme del pianeta si intitola Les vacances. Emma è appena rientrata al lavoro dopo il congedo maternità e insieme alle sue colleghe parla delle vacanze estive. Una di loro le dice: «Vai di nuovo via? Ma sei appena tornata...». Emma allora ripensa al parto, 12 ore di doglie e venti minuti di spinte. Al bambino che ha messo a dormire quella sera alle otto, sfinita dal sonno, con il corpo disfatto. Bambino che si sveglia alle nove per piangere un po’ e alle dieci per bere latte. L’infermiera che arriva dopo che lui si è appena riaddormentato per il pianto delle due del mattino e così via. Tre giorni in ospedale, poi il ritorno a casa, i pianti del bimbo, i pianti della mamma, il papà che dopo i primi dieci giorni torna al lavoro, lei a casa da sola con il piccolo che piange tanto e dorme a fatica. Lei che non riesce a riaddormentarsi dopo le poppate notturne. Ripensa a quando, verso i 4 mesi, il piccolo ha iniziato finalmente a dormire quasi tutta la notte senza svegliarsi... ed è stato anche il momento, per la mamma, di ritornare al lavoro. Conclusione: prima di chiamare «vacanze» un congedo maternità pensaci su due volte. Ma poi la conclusione è anche un’altra, più politica e non solo sociale, come spesso accade con Emma. Si interroga nelle ultime vignette: perché si parla di baby blues dovuto agli ormoni? Forse è più comodo delegare a una ragione scientifica e inalienabile il motivo per cui una

mamma sente di aver bisogno di molto più aiuto? Non si potrebbe magari, insinua la fumettista, come in altri paesi d’Europa, allungare il congedo paternità, maternità, offrire più visite della levatrice alla coppia che si trova da un giorno all’altro una creaturina sconosciuta in casa? La vignetta però che più in fretta ha fatto il giro del web (uscita a maggio su «Le Monde» e poi sul «Guardian») è Fallait demander, Bastava chiedere. Emma ha dato un nome a quella cosa che gran parte delle donne conoscono: l’ha chiamata la «charge mentale», il carico mentale e invisibile di chi a casa si occupa di pensare all’organizzazione della vita domestica. Avete in mente quando per pulire il tavolo dopo cena ci mettete tutta la serata? Non perché il tavolo sia particolarmente incrostato di sporco, no; perché mentre andate a pulire il tavolo vi ricordate che a cena avete finito l’olio e allora bisogna scrivere olio sulla lista della spesa; mentre andate a scrivere questo vi imbattete nell’asciugapiatti che è da cambiare e allora fate una deviazione verso la cesta dei panni sporchi... che è piena, e quindi avviate un bucato, ma in bagno vi accorgete che la vasca avrebbe un gran bisogno di essere pulita e che ci sono ancora dentro i giochi del bambino e poi che anche i giochi del salotto vanno messi a posto... Quando avete finito siete stanchi morti e sapete che sulla lista della spesa dovevate scrivere qualcosa di importante che adesso non vi viene in mente ma che se non lo trovate vi guasterà il bellissimo momento in cui si può finalmente prendere sonno... Femminista inclusiva e rivoluzionaria, come si definisce Emma, lei crede (ed è probabile che abbia perfettamente ragione) che siano le donne a detenere «il carico mentale» di casa. Fallait demander parla di quando il compagno si accorge di tutta quella stanchezza e candidamente dice: «Ah, ma dovevi chiedermi di aiutarti...». Certo, secondo Emma è già un passo

avanti che l’uomo partecipi alle faccende domestiche, ma è proprio questo «chiedi pure» che non va. Non basta eseguire per condividere il peso di un compito, bisognerebbe condividere anche il pensiero di cosa manca e va comprato, di cosa ci vuole per avere la casa pulita e in ordine, di cosa va fatto e a che ora. Non è divertente, ma proprio per questo va diviso per due, se si può. Questo fenomeno lo aveva già individuato la sociologa Susan Walzer nel 1996 nel suo studio intitolato Thinking About The Baby. Emma infatti non inventa teorie, ma racconta le idee che le hanno fatto cambiare il suo modo di vedere e guardare il mondo, cercando di divulgarle in modo ludico e con esempi pratici molto efficaci. Le sue storie sono semplici e quotidiane, e non affrontano solo le questioni femminili, ma anche quelle universali come il lavoro, l’attualità, il razzismo. Gli ultimi due fumetti di Emma, l’Attente e Travaille! si basano infatti su studi economici e sociologici che riguardano il tema del lavoro. Racconta e riflette sulla coppia con figli e anche sulla persona che semplicemente fa fatica a seguire i ritmi incalzanti di una vita lavorativa a tempo pieno; con umorismo prova a spiegare gli studi dell’economista Bernard Friot che in Francia è uno dei promotori del salario universale, secondo il quale il 30 per cento degli impieghi si potrebbe sopprimere senza conseguenze sulla vita sociale ed economica. Tutte queste vignette (e molte altre) si possono leggere per intero sul suo sito emmaclit.com. In francese è stato pubblicato Un autre Regard in maggio per le edizioni Massot, che è la raccolta dei fumetti scritti nel 2016; lo scorso 9 novembre è uscita per la stessa casa editrice la raccolta delle vignette del 2017: Fallait demander, Attente, Travaille! In italiano invece è appena stata pubblicata la traduzione del primo volume con il titolo Le brave ragazze si ribellano per Centauria edizioni.

La recente pubblicazione del libro di Gerry Mottis, Terra bruciata. Le streghe, il boia e il diavolo. (Gabriele Capelli Editore, 2017) si inserisce in un genere editoriale che non sembra soffrire di crisi e che rifornisce a getto continuo gli appassionati. Abbiamo pensato quindi di proporre qui alcuni titoli del filone storico locale, che potrebbero rendersi utili, magari anche solo come segnalazione prenatalizia per un regalo. Che gli avvenimenti storici possano essere trasposti in forma romanzesca Mottis lo sa bene. Lo dimostrava anche il suo precedente libro Fratelli neri. Storia dei primi internati africani nella Svizzera italiana (Dadò, 2015). Qui però l’impegno si fa molto più corposo, per dare luogo ad un volume di quasi 450 pagine. Il romanzo si concentra sulla figura di Kasper Abadeus, un boia che diventa protagonista di un noir mesolcinese di grande respiro e ambizione. Scandito da opportune citazioni del Malleus maleficarum, libro guida degli inquisitori della Controriforma, il romanzo di Mottis sembra volerci far paura ad ogni inizio di capitolo. Il suo collegamento alla storia della Mesolcina, per quanto elaborato come una fiction, finisce però per richiamarci sempre alla realtà degli eventi di allora. I documenti storici in appendice al libro ci forniscono persino la materia da cui il lettore può ricostruire la drammatizzazione compiuta da Mottis. Terra bruciata, al di là di tutto, è un bell’esempio di come non sia necessario andare lontano per trovare scenari degni di racconti fantasy (dimensione letteraria a cui la stessa copertina sembra volerci indirizzare): il tema dei processi alle streghe e agli stregoni fornisce elementi narrativi e raccapriccianti più che sufficienti. Giorgio Tognola è un altro letterato e ricercatore che da tempo si immerge nel mare magnum costituito dai materiali degli archivi del Grigioni italiano (in particolare dall’Archivio A Marca, ma anche dall’Archivio regionale della Calanca) per portare a galla frammenti significativi della storia di quella par-

Gerry Mottis ha nuovamente romanzato la realtà storica.

te della Svizzera italiana. Lo ha fatto in passato con Pur di magnar la suppa, (Edizioni Ulivo, 2015), ed è tornato di recente con Tracce d’inchiostro. Scritti di donne e uomini che percorsero la Mesolcina e la Calanca tra i X e il XXI secolo (s.e., 2017) e in precedenza con Villa de Calancha. Storie di gente e luoghi di Santa Maria (Torriani, Bellinzona, 2016). Tracce d’inchiostro recupera i testi di 90 autori sull’arco di undici secoli: sono le testimonianze di scrittori, viaggiatori, eruditi che hanno attraversato Mesolcina e Calanca, lasciando nei loro scritti, appunto, una traccia di quel passaggio. Una lunga lista che inizia con Liutprando da Cremona nel 941 e termina con un testo del 2013 di Franco Binda, conosciuto esperto ticinese di archeologia preistorica. Tra gli altri 88 estensori, troviamo poi nomi noti e meno noti, tra cui spiccano per noi italofoni quelli di Luigi Lavizzari, Ugo Foscolo, Antonio Fogazzaro, Sabatino Lopez, Diego Valeri, Piero Chiara, ma anche quelli di Samuel Butler, Robert Walser e di molti altri. Una escursione sul territorio di quelle sempre affascinanti perché incentrata sul punto di vista esterno, sul «come ci vedono»: un esercizio importante per valutare meglio il valore della terra in cui viviamo e che a noi sfugge sempre un po’. Più circostanziato e topograficamente circoscritto Villa de Calancha, volume dedicato da Tognola, appunto, alla Val Calanca. Il suo scopo è offrirci il ritratto vivo e curioso (pur nella precisione scientifica di una descrizione socio-etnografica) di una comunità di ristrette dimensioni ma non priva di una sua dinamicità interna e di una personalità. Tognola contribuisce con la sua abilità di sceneggiatore (gliela attribuisce nell’introduzione Marco Marcacci) a rendere interessanti e vivi i dettagli antropologici, che toccano vari aspetti della vita sociale, tra cui Chiesa, scuola, emigrazione, coltivazioni e allevamenti. Una parte interessante e drammatica è quella legata ai processi per stregoneria che si sono svolti in Calanca nell’epoca della Controriforma (e qui torniamo nell’ambito tematico del romanzo di Mottis). Il testo si conclude poi con un’appendice toponomastica agile e curiosa, a cui fanno da compendio un elenco dei nomi di famiglie e un album fotografico, entrambi di sicuro interesse per gli abitanti del luogo. Un volume altrettanto documentato e stimolante per la ricchezza di punti di vista sulla storia regionale è, infine, Un viaggio in immagini sul Monte Generoso di Kurt Baumgartner (Dadò, 2017). Occupandosi di questa importante porzione del Sottoceneri, il libro la osserva sotto numerosi aspetti (storici, paesaggistici, turistici), senza trascurare naturalmente le particolarità che da tempo sappiamo al centro dell’interesse dello stesso redattore, cioè quelle filateliche e postali. Un libro che offre una quantità enorme di spunti e curiosità, illustrato con grande cura e attenzione. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 dicembre 2017 • N. 49

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Società e Territorio

Hotel Corippo

Valle Verzasca Il più piccolo villaggio svizzero sta rinascendo grazie all’innovativo progetto di albergo diffuso

Fabio Dozio Museo a cielo aperto, reliquia dei secoli passati, gioiello incastonato nella montagna. Un centinaio di casupole di granito con la facciata rivolta a sud, per farsi accarezzare dal sole. Sole che illumina il villaggio il mattino, ma che, in autunno, all’una già si spegne. Corippo, il più piccolo paese della Svizzera, è abbarbicato sul lato destro della val Verzasca. «Villaggio che più di ogni altro ha saputo conservare un carattere tipicamente vallerano», si legge sul cartellone all’entrata. È rimasto intatto nel tempo e, infatti, è considerato un monumento di rilevanza nazionale e nel 1975 è stato designato «realizzazione esemplare» per l’Anno europeo del patrimonio architettonico. Ora ci vivono tredici persone, perlopiù anziane, quasi tutte fanno Scettrini di cognome. Nel 1850 gli abitanti erano 294. «Non siamo messi così male – ci racconta Gabriella Scettrini, 82 anni, mentre attraversa il sagrato e si appresta ad aprire la chiesa di Santa Maria del Carmine – al mattino arriva il panettiere, con pane e latte, poi il postino, si possono fare anche i pagamenti. Se il servizio postale rimane così, siamo contenti. Vado una volta al mese a fare la spesa grossa, con mio figlio. Io sono qui dal 1962, da 55 anni. Sono ripiombata a Corippo dopo essere stata al piano, dove il bisnonno aveva comperato terra e costruito con i soldi dell’emigrazione. Negli anni Sessanta eravamo una cinquantina di abitanti, famiglie con bambini e si stava bene». C’è anche chi è più critico. «La vita di paese non c’è più. I giovani se ne sono andati e non vengono ad abitare qui. Non ci sono posteggi, le case sono scomode, senza riscaldamento, vanno bene come case di vacanza», ci dice Pia Scettrini, vicina agli ottant’anni, che è stata municipale fino a qualche settimana fa quando insieme al sindaco Claudio Scettrini e all’altra municipale, la cognata Clarina Scettrini, ha dimissionato. Crisi politica per stanchezza e logoramento. Il Municipio, composto di tre persone, ha abdicato e il Consiglio di Stato ha dovuto nominare un gerente, Vittorio Scettrini, che assicurerà la gestione del villaggio fino all’aggrega-

A Corippo oggi vivono 13 persone. (Keystone)

zione con gli altri comuni della Valle. Un parto sofferto con un travaglio che dura da decenni e che, secondo le ultime previsioni, dovrebbe avvenire non prima del 2020, con una votazione popolare in valle, dopo l’approvazione da parte del Gran Consiglio. La fusione comunale sistemerà gli aspetti amministrativi, ma per mantenere in vita Corippo ci vuole altro. L’altro, per la fortuna di questo angolo sperduto di Ticino, è la Fondazione Corippo. Nel 1975, la Confederazione, il Cantone e il Comune hanno costituito una Fondazione per dare seguito al programma di interventi concordato in occasione dell’Anno europeo del patrimonio architettonico, indetto dal Consiglio d’Europa. Scopo della Fondazione è darsi da fare per conservare, rianimare e promuovere il villaggio. Negli anni Novanta si è capito che non si poteva pretendere di far rinascere il paese puntando sulla promozione delle abitazioni primarie. Corippo è un villaggio di altri tempi. «Io ho lavorato 40 anni in albergo a Locarno – racconta Pia Scettrini – partivo ogni mattina con il bus delle 6.20 e tornavo alla sera. I giovani non ci stanno a fare questa vita. Non vogliono più fare

due passi a piedi. Io ho due figli, ma si sono trasferiti entrambi al piano». Nel 2007 la Fondazione è stata rinnovata e da quel momento si è lanciata l’idea madre che dovrebbe salvare il villaggio: l’albergo diffuso. «È un progetto condiviso dagli abitanti, – ci dice l’architetto Fabio Giacomazzi, chiamato dal Cantone a presiedere e rilanciare la Fondazione – parlando con loro percepisco il timore che il villaggio possa lentamente morire. Per un certo periodo la Fondazione è rimasta inattiva. Da una decina di anni stiamo lavorando a questo progetto. Ora vi è l’attesa di vedere finalmente concretizzarsi qualcosa». I progetti sono chiari, l’albergo diffuso prevede la riattazione di otto edifici abitativi in disuso di proprietà della Fondazione, da cui si ricaveranno undici camere con bagno per un totale di ventidue posti letto. L’Osteria sulla piazza è pure stata acquisita dalla Fondazione che la sta rilanciando come punto di riferimento dell’albergo. Il gerente del locale fungerà da curatore e animatore delle iniziative turistiche, didattiche e culturali. Accanto alle camere verrà recuperato il vecchio mulino e si intende rivitalizzare alcuni

terrazzi ripristinando la coltura della segale. La prima tappa prevede investimenti per circa 3,2 milioni di franchi, in parte già stanziati da Confederazione, Cantone ed enti privati. Complessivamente, a progetto concluso, l’investimento ammonterà a 6,3 milioni. I tempi di realizzazione sono più lunghi del previsto: come mai? «A partire dal 2006 – spiega Giacomazzi – quando gli organi della Fondazione sono stati rinnovati per concretizzare il progetto di albergo diffuso, sono stati approntati gli studi che permettessero al Cantone di deliberare il proprio sostegno finanziario. Il credito è stato approvato dal Gran Consiglio nel febbraio del 2014. Da allora ci stiamo occupando del reperimento di ulteriori fondi necessari per il finanziamento dell’operazione. Le scarse risorse proprie disponibili hanno anche rallentato i lavori di progettazione. Alla luce della raccolta di fondi e del conseguente avanzamento del progetto, non saremo ancora pronti per la primavera del 2018, come a un certo punto si pensava; il tutto slitta al 2019». Il progetto di albergo diffuso, una novità in questa forma in Svizzera, ha avuto ampia eco. Ha ricevuto l’Hotel

Innovations Award, un premio nazionale, ma se ne parla anche all’estero. Il sito del quotidiano inglese «Daily Mail», per esempio, ha titolato: «Tiny Swiss village with a population of just 13 to be turned into a giant hotel to save it from extinction». I pochi abitanti sono un po’ frastornati, perché negli ultimi mesi sono giunti in paese molti giornalisti. «Non c’è mai stato un bataclan come quest’anno, – ci dice la signora Graziella – la cosa che mi disturba è che certi ti chiedono se abbiamo l’acqua in casa, come se fossimo non dico nel terzo, ma nel quarto mondo. Io ho fiducia nella Fondazione. L’albergo diffuso può funzionare, ma deve essere ben organizzato. Bisogna che ci sia il personale formato, che sappia cosa fare, non frim, frum, fram... L’osteria deve diventare il punto di riferimento, ma devono sistemarla». Fra i domiciliati non manca chi è scettico, ma è anche comprensibile perché sono decenni che si parla di rilanciare Corippo e non sempre le buone intenzioni si sono trasformate in realizzazioni. Come valuta il futuro il presidente della Fondazione? Il vostro intervento potrà in qualche modo far rinascere il villaggio? «L’idea alla base dell’albergo diffuso – precisa Fabio Giacomazzi – è proprio quella di dare una nuova destinazione e vita a edifici che non si prestano ad altre funzioni e che quindi resterebbero abbandonati, oppure diventerebbero case di vacanza private, chiuse per la maggior parte dell’anno. La destinazione alberghiera è quella che meglio permette di salvaguardare le caratteristiche architettoniche degli edifici e nel contempo evitare il fenomeno dei letti freddi. Il progetto va avanti e non ci aspettiamo ripercussioni negative dalla nuova situazione venutasi a creare con la messa in gerenza del Comune. Con la futura aggregazione si apriranno sicuramente nuove prospettive di cooperazione». «L’albergo diffuso è il nostro futuro, – ci dice prima di salutarci sulla piazza del paese Graziella Scettrini – altrimenti che cosa facciamo? A meno che arrivi qui uno come quello di Andermatt, come si chiama... che ha investito tutti quei milioni. Oppure che qualche emiro s’innamori di Corippo». Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio

Anche i genitori crescono

Pubblicazioni Un libro che affronta i temi evolutivi dei bambini dall’inedito punto di vista dei figli.

Conversazione con gli autori, gli psicologi e psicoterapeuti Ulisse Mariani e Rosanna Schiralli Elisabetta Oppo Oggigiorno i genitori che intendono acquistare un libro sull’evoluzione, la crescita e l’educazione dei figli hanno l’imbarazzo della scelta. Negli scaffali delle librerie i manuali di questo tipo abbondano, ma la maggior parte di essi spesso tralascia un aspetto fondamentale del processo educativo, il punto di vista dei protagonisti, cioè dei bambini e degli adolescenti. Da qui è nata l’idea di Rosanna Schiralli e Ulisse Mariani di pubblicare un nuovo saggio che si mette dalla parte dei figli, i quali raccontano in prima persona cosa significa crescere. Una prospettiva diversa, che può dare un aiuto concreto a mamme e papà per capire il mondo dei propri figli e aiutarli a diventare adulti sereni e consapevoli. Un libro che si presenta di facile lettura, con un tono comico e umoristico, ma che allo stesso tempo tratta i temi proposti in modo esaustivo e con grande professionalità. «L’idea di affrontare i problemi educativi dal punto di vista dei bambini e dei ragazzi è nata per far riflettere molti genitori sugli interventi di accudimento e sugli atteggiamenti educativi che molto spesso si rivelano sbagliati se non addirittura dannosi – spiega la psicologa e psicoterapeuta Rosanna Schiralli – invece di realizzare il solito manuale per genitori che poteva risultare ostico e ormai inflazionato abbiamo preferito dare la parola proprio a loro: i veri protagonisti del processo evolutivo. Li abbiamo immaginati perplessi, cinici, talvolta arrabbiati di fronte alle tante errate convinzioni pedagogiche dei loro genitori».

Per lo sviluppo equilibrato del cervello sono indispensabili disponibilità, accoglienza, tempo affettivamente significativo e regole Interessante un concetto affrontato all’inizio del libro, in cui si fa riferimento al fatto che il cervello umano per crescere ed evolversi abbia bisogno di connettersi con altri cervelli. Gli autori spiegano come gli esseri umani siano programmati per connettersi intensamente. «Il cervello è veramente un organo sociale e per svilupparsi, a differenza di tutti gli altri organi del corpo umano,

deve connettersi emotivamente con un altro cervello altrimenti non sviluppa le necessarie connessioni neurofisiologiche deputate alla sopravvivenza: questo avviene soltanto per gli esseri umani – sottolinea Ulisse Mariani – negli ultimi anni siamo in grado, grazie alle tecniche di diagnostica per immagini di sapere come reagisce il cervello di un bambino sin da neonato e di un ragazzo alla relazione educativa dei genitori e delle figure adulte di riferimento». Dagli studi risulta che i soggetti che ricevono un’educazione basata su accoglienza, empatia, condivisione emotiva, regole, confini, contenimento, e opportuni «no» producono più ossitocina, serotonina e dopamina, ovvero sostanze della calma, del benessere, della concentrazione e dell’attenzione. Dalla risonanza magnetica risulta una colorazione-attivazione dei lobi parietali, coinvolti appunto nella produzione di queste sostanze. I soggetti che invece ricevono un tipo di educazione basata sul permissivismo, e vengono lasciati in balia delle pulsioni, hanno una maggiore attivazione dei lobi frontali che sono coinvolti nella produzione delle sostanze dello stress, dell’ansia, dell’agitazione, della non concentrazione, primo fra tutti il cortisolo. «Questo è uno dei motivi per cui oggi abbiamo tanti bambini e ragazzi agitati, ansiosi e iperattivi, che poi saranno più esposti a disagi, soprattutto di dipendenza – evidenzia Rosanna Schiralli – possiamo perciò affermare che le neuroscienze oggi possono con precisione indicarci la via migliore per crescere i nostri figli più sani, più sereni e più autonomi. Oggi la neurofisiologia ci dice che le regole fanno davvero bene al cervello dei nostri figli. Regole e accoglienza promuovono un’architettura del cervello ottimale: i neuroni e le sinapsi neurali sono migliori per quantità, qualità e funzionamento». Nel libro, tappa dopo tappa, dalla nascita all’adolescenza, vengono illustrati i bisogni dei bambini e dei ragazzi. In un capitolo si parla della necessità della «valigia della sicurezza», termine con il quale gli autori vogliono indicare tutte quelle competenze che i genitori dovrebbero offrire per aiutare i figli a essere autonomi, ad avere una buona autostima e a costruire relazioni soddisfacenti con gli altri. «Queste competenze non sono innate, ma vanno favorite attraverso quel lungo processo di sviluppo che si chiama educazione – continua Ulisse Mariani – molto spesso i ragazzi si trovano con ben poche cose nella “valigia” e, sentendosi in difficoltà, utiliz-

Una prospettiva ribaltata che dà voce ai veri protagonisti del processo evolutivo: i bambini e i ragazzi. (Keystone)

zano quanto il mercato, legale e illegale, offre loro: uso di droghe, alcool, abuso di tecnologia e tanto altro ancora. Una buona “valigia della sicurezza” rappresenta un fattore di protezione notevole per difendersi dall’attrattiva di scorciatoie disadattate e pericolose». «Regolarità e calma» sono due termini ricorrenti quando si parla di educazione dei figli. Spesso però lo stile di vita della società moderna rende difficile per i genitori garantire ai propri figli una crescita in un contesto di questo tipo. Eppure per lo sviluppo del cervello del bambino è davvero importante, come conferma Rosanna Schiralli. «Il loro cervello è in via di sviluppo e non può reggere quei ritmi a cui noi adulti siamo abituati. La fretta e lo stress generano cortisolo che, se prodotto con continuità e in grandi quantità, interferisce con la costruzione dei circuiti neurali cerebrali. Calma, tempo lento e regolarità aiutano a sviluppare meglio mente e cervello dei nostri figli», spiega ancora la psicologa, che approfondisce meglio anche un altro aspetto trattato nel libro, quello relativo al «mondo pulsionale del bambino», facendo luce sul perché i bambini vogliono tutto e subito. Quel modo di fare che si tende a etichettare come «capriccio», ma in realtà è dovuto al fatto che lo sviluppo neurologico del bambino si deve ancora consolidare. «Alla nascita e per alcuni anni a segui-

re il cervello istintuale e pulsionale dei bambini è già ben sviluppato per una questione di sopravvivenza: quando il piccolo sente la sensazione della fame, urla poiché non può sapere che di lì a poco qualcuno interverrà prontamente; mentre il cervello razionale è tutto da sviluppare. Piano piano si creeranno le vie nervose che dal cervello razionale vanno verso quello istintuale per gestire e modulare le pulsioni, dapprima trasformandole in emozioni e poi in piani di azione –conclude la Schiralli – siamo noi adulti gli architetti del cervello dei nostri figli poiché l’assetto di un cervello in equilibrio tra pulsione e controllo dipende dall’educazione». E per aiutare lo sviluppo delle vie nervose che dal cervello superiore raggiungono quello inferiore, sono sufficienti poche, ma determinanti componenti: disponibilità, accoglienza, tempo affettivamente significativo e soprattutto regole. Le regole, infatti, servono proprio per creare i giusti collegamenti tra il cervello pulsionale e quello razionale. Un’educazione senza regole può essere compromettente per il cervello dei figli e per la loro vita. Nel libro si passa quindi a un altro importante periodo nella crescita e nell’educazione dei bambini, quello legato all’ingresso nella scuola dell’infanzia e nella scuola elementare. Anche in questo caso analizzato dagli autori

quando, con la preziosa collaborazione dell’amico Jo, si metterà sulle tracce del padre: un papà impiegato, piccolo borghese, «grigio», come lo vede Victoria, che le riserverà invece qualcosa di inaspettato. Victoria lo avvista un giorno, per caso, al volante della sua utilitaria, vestito da cow-boy. Perché? Dove va? In quale interessante avventura, anche lui, si sta cacciando? Forse è proprio il coraggio di vivere, nella nostra fragile e incerta dimensione umana, la più interessante delle avventure. Il che non implica per forza abbandonare i propri sogni, sembra dirci de Fombelle in questo romanzo breve, scritto come un unico respiro e diverso dal passo lungo e articolato a cui ci avevano abituati i suoi successi precedenti Tobia e Vango. Belle anche le illustrazioni di Mariachiara Di Giorgio, per l’edizione italiana.

Costellazioni. Le stelle che disegnano il cielo, Editoriale Scienza. Da 8 anni Da sempre, abbiamo avuto bisogno di creare sistemi, tracciare schemi, fare collegamenti, per trovare un senso, insomma, all’apparente e inquietante casualità del reale. Leggere come «necessario» qualcosa che appare solo «casuale», come Aristotele insegna, spinge l’umanità a raccontare. Ecco perché, sin dall’antichità, guardando l’immensità del cielo notturno, gli uomini hanno immaginato linee che collegassero le stelle in disegni che avessero un senso, e un nome. E sono nomi che a noi contemporanei suonano affascinanti, come Orione, Cassiopea, Andromeda, senza dimenticare le due Orse, e tutte le altre celebri costellazioni. Costellazioni, le stelle che disegnano il cielo, è appunto il titolo di questa nuova proposta di Editoriale Scienza: un bel libro che potrebbe essere una strenna natalizia molto gradita, perché unisce

dal punto di vista dei bimbi. «Se i genitori, soprattutto la mamma, sono tranquilli il passaggio non è mai difficile. I bambini amano stare con i coetanei, ma devono avere la tranquillità necessaria che, andando a scuola, nessuno soffra. Succede spesso che la difficoltà di entrare a scuola dipenda dal fatto che la mamma ha difficoltà a staccarsi dal figlio e questo le viene in “soccorso”, piangendo e disperandosi», chiarisce Ulisse Mariani che auspica anche una buona collaborazione tra genitori e maestri, «la scuola, in linea di massima e salvo rare eccezioni, andrebbe sempre difesa. Con i docenti va stretta subito un’alleanza leale e concreta con il fine comune di realizzare il benessere del bambino. La contrapposizione non fa altro che confondere il piccolo e fargli vivere lo spazio scuola come ostile. Inoltre i docenti costituiscono la prima autorità extrafamiliare con cui i bambini si devono confrontare. È assolutamente necessario dunque promuovere il rispetto: sminuire o, peggio ancora, parlare male ai figli dei loro docenti può innescare condotte contro ogni tipo di autorità e ogni tipo di regola». Bibliografia

Ulisse Mariani e Rosanna Schiralli, I miei genitori crescono bene, Mondadori, 2017.

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Timothée de Fombelle, Victoria sogna, Terre di Mezzo Editore. Da 8 anni «Victoria sogna» è un’affermazione che va immaginata con un’intonazione bonariamente dispregiativa, accompagnata da quello sguardo al cielo e quel sospiro che il mondo adulto ha sovente nei confronti di chi sovverte i confini del reale e lascia entrare folate dal mondo fantastico, da vivere come rifugio e come avventura: «Victoria sognava pericoli, inseguimenti, amici armati di spada che per lei avrebbero affrontato duelli, fiumi da attraversare a nuoto con gli orsi alle calcagna». Peccato che nella realtà Victoria abiti in una villetta a schiera di una cittadina di periferia, dove non c’è nessun animale selvaggio e dove la maggior parte dei suoi coetanei è presa da egocentriche dinamiche adolescenziali e non certo da imprese cavalleresche. Eppure Victoria sogna, e in ogni grigiore quotidiano – aiutata

da un’immaginazione ben nutrita dalle sue numerosissime letture – sa vedere squarci onirici, esotici, romanzeschi, meravigliosi, pur sapendo «distinguere perfettamente tra la propria immaginazione e la vita vera. Ed era proprio la consapevolezza di quella differenza a farle considerare tanto piatta la realtà». Perché il problema di Victoria, se di problema bisogna parlare, non è che ami sognare, ma che consideri poco interessante la realtà. E forse crescere non vuol dire smettere di sognare, ma comprendere che anche la vita vera può essere interessante e degna di essere vissuta. Ed è ciò che capirà Victoria,

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l’interesse scientifico con quello mitologico, per fortuna sempre vivo, o pronto a essere sollecitato, presso i ragazzini. Otto mappe del cielo, due per ogni stagione, precedono delle ricche pagine dedicate alle principali costellazioni: per ognuna, una puntuale spiegazione su come individuarla, alcune curiosità scientifiche, e le appassionanti storie dei miti a cui il nome della costellazione rimanda. Il libro è visibile anche di notte, proprio come le stelle vere, poiché le costellazioni illustrate sono fosforescenti! Le suggestive immagini di Desideria Guicciardini impreziosiscono i precisi testi di Lara Albanese.


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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Il diavolo, il santo e il somaro San Nicola di Bari/è la festa dei somari. Così recitava – o cantava – un motivetto ormai sconosciuto ai più che gli scolari della pianura padana ripetevano ad libitum a partire dalla vigilia del 5 dicembre e per tutto il giorno successivo. Difficile stabilire per quale motivo il Santo forse più venerato della cristianità Orientale sia divenuto patrono degli scolari, altro che per il fatto di avere nel suo palmares resuscitato tre fanciulli (in età prescolare? Chi può dirlo?) macellati e messi in salamoia da un commerciante che intendeva venderne la carne. Il rapporto scolari/ somari è ovvio peraltro oltre la rima, mentre non è affatto ovvio che il vostro Altropologo preferito riuscirà a procurarsi un somaro (vero) entro domani 5 dicembre. In gergo antropologico la chiamano «osservazione partecipante». Si tratta della pratica per cui il ricercatore si immerge completamente nella comunità ospite e prende parte attiva agli usi e costumi della stessa. Il risultato è spesso molto imbarazzante – capirete – e più di un aspirante

alla professione gliel’ha «data su» – al termine di performance partecipanti e disastrose che hanno aperto la via per altri mestieri. L’Altropologo invece no: la sera del 5 dicembre vestirà i paramenti vescovili del Santo anatolico e – sconosciuto ai bambini della comunità che lo ospita – distribuirà benedizioni, doni e qualche punizione tantoper, altrimenti che San Nicola è?! Accompagnato dall’Angelo, dal fedele servitore che quassù ha perso anche il nome che gli abitanti delle Terre Basse indicano in Knecht Ruprecht ma non dal peraltro canonico Diavolo e forse nemmeno dal somaro. Partiamo dall’ultimo del quintetto. Un paio di anni fa il somaro c’era. Nel momento però in cui San Nicolò aveva steso la mano per prendere i doni dalla gerla del basto asinino, il somaro aveva tentato di azzannargli una mano, rimediando così un sacrosanto cazzotto a tutta forza sulla fronte da parte di un San Nicolò non proprio in linea con la sua leggendaria (e sacrosanta) mitezza e decisamente a rischio della disastrosa performance di

cui sopra. «Così impara a comportarsi da cristiano», aveva glossato l’Altropologo, alias San Nicolò alias Osservatore Partecipante, alla notizia che il somaro in fabula era stato più tardi sbranato da uno dei primi lupi a farsi vivo da queste parti. Da queste parti gli asini/ somari sono stati introdotti di recente da una popolazione montanara, in età crescente e non più in grado di falciare i prati, per tenerli un minimo puliti dal bosco sempre più invadente. Il problema è che lo «stracotto di somaro» è un piatto tipico della tradizione veneta di queste plaghe. I somari vengono importati dai paesi dell’Est col risultato che dopo un paio di stagioni passate a brucare erba buona sono grassi al punto da essere appetibili tanto dai ristoratori quanto – oggi – dai lupi. Da qui la suddetta incertezza riguardo alla partecipazione del quadrupede. «No, il Diavolo no! Qui da noi non c’è mai stato e non ci sarà mai. Perché! Perché spaventa i bambini». Così decretava la insindacabile leader in materia rituale della comunità (donna) qualche

anno fa quando il vostro Altropologo (alias Osservatore alias San Nicolò) faceva notare come – per par condicio, correttezza filologica e completezza antropologica – se c’è l’Angelo deve esserci ex officio pure il Diavolo. Strano destino quello che Diavolo nei rituali associati a San Nicola in tutto l’arco alpino. Il processo di «secolarizzazione/globalizzazione» che ha visto negli ultimi trent’anni la rivisitazione di una serie di pratiche rituali della tradizione popolare ha visto l’innescarsi a livello globale di dinamiche culturali che hanno prima stravolto il significato della ritualità tradizionale per poi re-iscriverle in nuovi contesti di segno diverso se non diametralmente opposto. La tradizione della mascherata di San Nicola ha il suo nucleo nelle aree di cultura tedesca non incluse nella Riforma. Qui il protocollo prevede che il 5 dicembre i krampus mascherati si scatenino per le strade del paese, liberi di provocare caos ed infliggere «punizioni» alla popolazione «sul filo del coltello fra la lettera e lo scherzo».

Venuta la sera, con la comparsa del Santo e dell’Angelo, i diavoli venivano assoggettati e «addomesticati» da San Nicola: «il Bene vinse sul Male». Se questo è ancora il caso nei contesti rituali più conservatori, altrove ed in generale la tendenza è che i krampus si mettano in proprio, per così dire. Negli ultimi decenni, liberatisi dalla controparte vincente «buona», e resuscitati assieme a zombi, vampiri, streghe e quant’altro vomitato da un inferno al quale non crede più nessuno ma del quale una tarda modernità a dir poco confusa e regressiva sente tanta infantile nostalgia, i krampus invadono oggi – ormai egemoni e senza rivali – le notti di Halloween, che della tarda modernità sono l’espressione mimetica e globalizzata. Chissà se il Vostro San Nicola riuscirà più a trovare un diavolo – piccolo e scalcinato che pur sia – e un somarello, magro che pur sia, per ricomporre il quintettobase del 5 dicembre almeno in una particola – seppur remota – dell’orbe globalizzante.

zionare, sono sempre poche. Credo che, nei casi migliori, il numero di amiche non superi quello delle nostre dita. Inoltre le amicizie hanno di solito radici lunghe. Ho l’impressione che, per le donne, le più durature inizino nell’adolescenza, nel tempo in cui le ragazzine si scambiano confidenze, desideri e sogni specchiandosi l’una nell’altra senza invidia perché tutto deve ancora avvenire. Si rinsaldano poi quando, per i casi della vita, le amiche si trovano a condividere l’avventura della maternità e le ansie per i figli adolescenti. Nel suo caso invece si tratta di conoscenze recenti che non hanno ancora trovato il modo di trasformarsi in amicizie. Tenga conto che, per secoli, l’amicizia è stato un sentimento riservato agli uomini. Alle donne dovevano bastare i rapporti di parentela che, ancora oggi, risultano per noi prioritari. Con la differenza che i legami familiari per lo più non si scelgono, mentre l’amicizia presume una decisione libera e reciproca, che va comunque alimentata da una costante attenzione.

Come le piante, anche le amicizie hanno bisogno di essere innaffiate e accudite con cura, altrimenti inaridiscono. È però difficile trovare la giusta misura tra essere invadenti ed essere indifferenti, tra il troppo vicino e il troppo lontano. Poiché mutano le circostanze della vita, dobbiamo essere pronte a spostare il cursore lungo il righello delle frequentazioni in modo da tener conto dei nostri desideri e di quelli degli altri. Non si deluda pertanto se quelle che ritiene amiche non hanno risposto al suo invito. La libertà è il primo requisito di un’amicizia vera, che non chiede ma dona, non pretende ma offre. Se questa volta non avete combinato, e mi sembra per valide ragioni, ce ne sarà una prossima. Non provi, la prego, risentimento e rancore ma semplicemente rilanci l’invito sondando preventivamente la disponibilità delle sue ospiti. Per quanto riguarda il Natale, comprendo quanto sia triste restare soli ma se tutti quelli che si sentono soli si mettessero insieme, la tristezza dile-

guerebbe e il Natale sarebbe davvero una festa. Si guardi intorno e vedrà che sono pochi i fortunati che hanno avuto una vita serena e appagata come la sua. Forse è giunto il momento di dare più che di ricevere. Nella sua città esistono tante forme di solidarietà, laiche e religiose, perché non contattarle offrendo la sua disponibilità? Visto che lei segue regolarmente la Stanza del dialogo saprà che, secondo l’economia dei sentimenti che la vita mi ha insegnato, dare e ricevere alla fine si equivalgono ed è proprio offrendo ciò che non abbiamo che possiamo colmare la nostra mancanza. Auguri Daniela, a lei e a chi, ovunque accada, le si siederà accanto alla tavola di Natale.

bilancia 674 miliardi di franchi, 60 in più rispetto al 2016. Tanto meglio per loro, verrebbe spontaneamente da dire. Ma «Bilanz» propone un’altra interpretazione di questi dati. Significano prestazioni che attestano le capacità, l’intraprendenza, il fiuto di singole persone o di gruppi o consorzi. Di cui, da normali cittadini, godiamo gli effetti, in un’infinità di ambiti: prodotti di uso corrente, oggetti di lusso, servizi, trasporti, tecnologia, ricerca scientifica, spettacolo, sport, e via dicendo. Mentre, loro, come fabbricanti, finanziatori o inventori, godono gli effetti nella forma di proventi a volte sbalorditivi, al limite dell’assurdo. Al cospetto di patrimoni plurimilionari e plurimiliardari, si aprono, inevitabilmente, interrogativi d’ordine morale e, prima ancora umano. Lasciando da parte la questione etica

che esula dai propositi dell’indagine di «Bilanz», l’attenzione si concentra sugli aspetti, diciamo quotidiani, di questi protagonisti di vicende tutte fortunate, ma fra loro diverse, persino contrastanti. Del resto ai vertici della ricchezza si arriva in tanti modi, per merito, intuito, caso. Per via ereditaria, la più comoda, come Marina Picasso, nipote di Pablo, Margherita Agnelli figlia di Gianni. O spesso lungo un itinerario imprenditoriale, dove, con 12 miliardi Christoph Blocher figura fra i «top ten» nazionali, a confermare l’utile alleanza politica-affari. Ma serve anche un’idea vincente, come Silvio Tarchini, con il FoxTwon. In quanto idee vincenti, il campione della categoria rimane Ingvar Kamprad, l’inventore di Ikea, che, a 91 anni, ha ceduto le redini ai tre figli, residenti nel Vaud, cui spetta la

gestione di una rete aziendale valutata 48-49 miliardi. Proprio a loro spetta pure l’immagine dell’ultra ricco in stile pop. Cioè, jeans, maglietta, utilitaria malandata: una scelta di vita volutamente modesta. Cioè non imposta, qui sta la differenza essenziale. Evitare l’esibizione di lussi inopportuni, insomma volare basso sembra una ricetta comportamentale sempre più rispettata. E potrebbe far pensare a una nuova consapevolezza. Bill Gates ha fatto scuola? Sta di fatto che parecchi superricchi di casa nostra si sono impegnati sull’immenso fronte della solidarietà. Magari senza farlo sapere. Dobbiamo, invece, rompere il silenzio citando Roger Federer, che ha la fortuna di essersi conquistato tanti soldi, simpaticamente, sfruttando un vero talento. Al punto da farsi perdonare una ricchezza eccessiva.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Le amicizie hanno radici lunghe Cara Silvia, per anni, con mio marito, mi sono occupata della nostra azienda ma quando lui è venuto a mancare ho deciso di chiudere e di concedermi finalmente quegli svaghi che il lavoro mi aveva sempre negato. Mi sono iscritta in palestra, in piscina, frequento regolarmente un Centro estetico, ho fatto l’abbonamento ai concerti e non perdo una mostra. In questo modo mi sono fatta tante amiche e con loro volevo organizzare un bel pranzo di Natale a casa mia, che è la più grande e la più attrezzata. Ma non le dico come sono rimasta male quando tutte hanno, con un pretesto, declinato l’invito. Una aveva i nipotini, l’altra andava dalla cugina a Parigi, la terza non poteva rinunciare agli sci, l’ultima passava abitualmente il Natale con la vicina di casa… Mi sono trovata improvvisamente sola e mi chiedo: ma che amiche ho trovato? Che senso ha la parola «amicizia» se poi ognuna si fa i fatti suoi? Lo chiedo a lei perché io non so trovare una risposta. Grazie per la sua rubrica, che leggo sem-

pre con attenzione nella speranza che mi aiuti a vivere. / Daniela Cara Daniela, vivere non è mai facile per nessuno e, più che le parole, è la vita stessa che ci rende saggi attraverso le esperienze, che possono essere gradevoli o sgradevoli. Comunque sempre preziose se sappiamo farne tesoro. Da quanto scrive, mi sembra che lei abbia trascorso anni proficui e sereni accanto a suo marito, godendo del successo e dei profitti della vostra azienda. Rimasta vedova, si è concentrata su se stessa, sul benessere fisico e l’arricchimento culturale. Ma, quello che ancora non è riuscita a ottenere sono delle amiche vere, che ricambino i suoi sentimenti e corrispondano alle sue intenzioni. Probabilmente gli impegni di lavoro e l’affetto di suo marito non le avevano fatto sentire per anni questa mancanza. Bastavate a voi stessi. Ora, grazie alle sue numerose frequentazioni, può contare su molte conoscenze, ma le amicizie, che non si posso infla-

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Ultraricchi: i rischi del troppo Chi sono, dove abitano, come vivono e, soprattutto, in che modo sono riusciti a farcela? A queste curiosità, provocate da un’anomalia qual è la ricchezza esorbitante, risponde, il rituale numero natalizio di «Bilanz», dedicato ai 300 detentori delle più grosse fortune nel nostro Paese. Una Svizzera che, per motivi geografici, politici, amministrativi, con il danaro ha sviluppato una risaputa familiarità, diventando la materia prima di molteplici attività professionali e specialistiche. Tanto da meritarsi la maliziosa qualifica di cassaforte d’Europa, dove giacciono beni non sempre di origine cristallina. Ciò non ha impedito che, nei confronti dei Paperoni, nostri concittadini spesso d’adozione, prevalesse la tolleranza. Il caporedattore di «Bilanz», Dirk Schütz, parla di una sorta di «esemplare patto sociale»,

grazie al quale «le grandi fortune sono socialmente accettate». A condizione, però, «che il ceto medio possa partecipare al benessere del Paese». In altre parole, se io sto bene, sopporto che altri stiano meglio. Ora, questo tacito compromesso sembra in pericolo, nell’Europa dei populismi, dove le classi medie sono in affanno. Si tratta, conclude Schütz, di «reinventare questo patto sociale». L’impegno spetta anche a una Svizzera gelosa dei suoi equilibri, sempre più fragili. Comunque, da questa rivista di economia, con copertina simbolicamente dorata, arriva una voce fuori dal coro, che osa definire il 2017 «un anno di festa e non di paura». Ed è un ottimismo motivato, che si regge sui numeri. Nel corso di questi dodici mesi, si è registrato un record: i 300 super-ricchi hanno portato sulla


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 dicembre 2017 • N. 49

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Ambiente e Benessere Per i lettori di «Azione» Hotelplan organizza dal 3 al 18 aprile 2018 un viaggio in Iran con tappa in Azerbaijan

Il Mal d’Africa è... Più che un reportage, la descrizione di un sentimento legato al continente nero che ha stregato già molti viaggiatori, e continua a farlo pagina 19

I vini lussemburghesi Pur essendo un piccolo territorio, il Lussemburgo vanta pregevoli prodotti della viticoltura

Gli animali ragionano: si sa Restano dubbi sui processi mentali con i quali risolvono quesiti, contano e memorizzano

pagina 20

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Prevenire la Sids si può Pediatria I dati dimostrano che negli

Roberta Nicolò Fare prevenzione è una buona abitudine. Prevenire l’insorgenza di malattie, di disagi, di incidenti. Oggi siamo abituati alle campagne che, sia a livello federale sia cantonale, vengono proposte per migliorare la qualità della vita dei cittadini. Si tratta per lo più di raccomandazioni o buone prassi che possono avere un effetto positivo. Anche nel campo della pediatria le raccomandazioni di prevenzione sono caldamente consigliate e se ne trova informazione sui siti di riferimento ufficiali come quello della Società Svizzera dei Pediatri (SSP – www.swiss-paediatrics.org) e dell’Associazione Pediatri della Svizzera italiana (APSI – www. pediatriaticino.ch) o presso il proprio pediatra. Sono suggeriti, per esempio, controlli periodici, consigli sull’alimentazione, sull’apporto di vitamine. Tra le raccomandazioni che il neo genitore riceve sistematicamente durante il suo percorso di preparazione alla nascita c’è anche quella sulla morte bianca. Nel linguaggio comune, e una volta di più per chi non è genitore, spesso il termine «morte bianca» viene genericamente confuso con la mortalità infantile nei primi mesi del bebè. Il termine scientifico corretto è Sindrome della morte improvvisa nell’infanzia (Sids) la cui definizione recita: «È il decesso di un neonato durante i primi dodici mesi di vita per il quale neppure in seguito a ispezione e autopsia si sia potuta rilevare una causa clinica o patologica di decesso» (Cfr. «Pediatrica», Vol. 24 N° 5 del 2013), ovvero sono quelle morti che non trovano una spiegazione medica. Da diversi anni si pone attenzione sulla prevenzione della Sids. Il fenomeno è stato ed è oggetto di studi e proprio sulla base della letteratura scientifica sono state elaborate dalla Società Svizzera dei pediatri con la Società Svizzera di neonatologia e la collaborazione della Fondazione Svizzera per la promozione dell’allattamento materno, delle raccomandazioni che concorrono a prevenire la Sids e sono oggi largamente diffuse in Svizzera. I dati statistici, infatti, dimostrano che negli ultimi dieci anni c’è stato un netto calo della casistica nel nostro Pa-

ese. Nel 1995 si erano rilevati 35 decessi da Sids su 82’201 bambini nati mentre il dato più recente, che risale al 2014, segnala 4 casi su 85’287 nascite (dati ufficiali Office fédéral de la statistique, Statistique des causes de décès), un elemento confortante che concorre a validare l’utilità delle raccomandazioni preventive. «Le direttive per la prevenzione della Sids sono state introdotte ufficialmente dall’Associazione Pediatrica Americana (App) a partire dal 1992 – spiega la dottoressa Cristina Giuliani-Poncini, Caposervizio Pediatria dell’Ospedale Regionale di Bellinzona e Valli – e prevedono diverse regole di comportamento che vanno applicate tutte integralmente. Non basta metterne in campo solo alcune per poter parlare di prevenzione, questo è importante ricordarlo sempre. Oggi, in Ticino, le raccomandazioni sono date ai neo genitori fin dalla loro preparazione al parto, nei corsi che li accompagnano alla nascita del bambino, ma sono anche trattati in ospedale prima della dimissione di mamma e bebè. Un neo genitore è quindi ben informato sulla prevenzione alla Sids. Quando nasce un bambino è sempre difficile parlare di mortalità, il momento è delicato, sono istanti di grande gioia, ma noi, come pediatri, riprendiamo il tema della prevenzione alla Sids perché è di fondamentale importanza, soprattutto se si considera la riduzione dei casi da quando le raccomandazioni sono state introdotte». Nathalie Rossi è infermiera pediatrica e docente al Dipartimento economia aziendale, sanità e sociale, della Supsi: «Si tratta la Sids al terzo semestre di formazione del Bachelor in cure infermieristiche, dove vengono passati in rassegna i fattori di rischio e le raccomandazioni per la prevenzione. La materia fa parte del blocco di base e ogni infermiere formato, non solo quelli pediatrici, è al corrente di questo tema e deve poter essere in grado di dare le giuste indicazioni. Ai genitori viene consigliato di far dormire il neonato sulla schiena e di non mettere nella culla o nel lettino peluche e oggetti che possano finire sul viso come, per esempio, la copertina. È sconsigliato l’uso del cuscino ed è preferibile il sacco nan-

Pxhere.com

ultimi dieci anni c’è stato un netto calo della casistica di morti bianche nel nostro Paese e questo grazie alle raccomandazioni pediatriche

na – chiarisce Nathalie Rossi – e anche vivamente suggerito di evitare di avere il locale troppo caldo o troppo freddo, la temperatura giusta si attesta attorno ai diciotto, venti gradi centigradi. Naturalmente il fumo passivo è dannoso e occorre evitare di fumare in qualunque locale dove vive il piccolo, già da inizio gravidanza. Anche fare dormire il bebè nel lettone è molto sconsigliato, suggeriamo sempre di preferire il lettino o la culla che possono essere sistemati anche nella camera dei genitori per comodità, ma che presentino le giuste caratteristiche come un materasso sufficientemente duro. Se possibile l’allattamento con latte materno è preferibile durante il primo anno di vita. E appena l’allattamento funziona bene, dopo il primo mese, si può offrire al piccolo il ciuccio per addormentarlo, ma è ancora un argomento dibattuto; infatti se non lo vuole non bisogna forzarlo, e se

di notte lo sputa si spiega di non rimetterglielo in bocca. Solo se tutte le regole sono applicate possiamo in effetti parlare di prevenzione». Le infermiere pediatriche e le ostetriche, che si recano al domicilio del neonato per l’accompagnamento post natale, sono formate e attente alla prevenzione della Sids e aiutano i genitori a mantenere l’ambiente e le abitudini familiari ideali alla buona salute del bambino. «In alcuni casi viene anche introdotto un flyer informativo nel libretto della salute che viene consegnato al genitore, ma questo a discrezione degli ospedali – specifica la dottoressa Giuliani-Poncini – inoltre la corretta informazione fa parte dei compiti dei pediatri. Anche le infermiere e le levatrici continuano con la sensibilizzazione al domicilio. Hanno, infatti, il compito di verificare che le raccomandazioni ven-

gano seguite. La questione dello spazio sicuro è fondamentale e il bambino, anche dopo l’uscita dalla maternità, viene monitorato. Ci sono alcuni fattori, come la nascita prematura, una situazione socioeconomica disagiata della famiglia o il comportamento ostile, per esempio il tabagismo e l’uso di sostanze (alcol e stupefacenti) sui quali si presta la massima attenzione. C’è una continua comunicazione tra pediatra e infermiere pediatriche e levatrici proprio per garantire a ogni neonato la cura dovuta. In caso si presentino dei fattori di rischio questi vengono senz’altro segnalati. Sono aspetti sui quali c’è molta premura». Informazioni

Maggiori informazioni sulla Sindrome della morte improvvisa nell’infanzia presso i pediatri.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 dicembre 2017 • N. 49

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Ambiente e Benessere

Auto grandi, sì, ma anche ecologiche Motori Il giovane salone dell’auto cinese diventa ogni anno

sempre più importante a livello mondiale

Notizie scientifiche Medicina e dintorni Marialuigia Bagni Gemelli diversi? La placenta è fonte di diversità tra i gemelli. Il 15 per cento dei gemelli si sviluppa in modo diverso nel ventre della madre. Un’équipe dell’Ospedale pediatrico di Boston ha dimostrato che i ritardi di sviluppo (i quali possono anche toccare organi vitali) derivano da una placenta «difettosa», per cui certe zone rilasciano meno bene il sangue ossigenato al nascituro. Da qui l’importanza di individuare il problema appena possibile per poter proporre i trattamenti idonei. Il caldo rende egoisti Nervosismo, incostanza e mancanza di comportamenti sociali sarebbero gli effetti del caldo, secondo uno studio di due Università statunitensi. L’équipe si è focalizzata sulle temperature di luglio e agosto del 2011 e del 2017, esaminando la risposta lavorativa dei dipendenti di una catena di grande distribuzione. Con l’aumento della temperatura, il 50 per cento dei lavoratori si è dichiarato poco incline a collaborare con la clientela.

Il modello Infiniti, marchio di lusso di Nissan presentato al Salone di Guangzhou.

Mario Alberto Cucchi Il Guangzhou International Automobile Exhibition ha da poche ore spento i riflettori sulle molte novità presentate al sempre più esigente pubblico cinese. Un giovane salone dell’Auto che ogni anno diventa più importante a livello mondiale. Una vetrina ideale per capire quale sia l’orientamento del mercato dell’auto.

Il popolo cinese automobilistico cerca i Suv, che adora, ma richiede anche veicoli «verdi» Da una parte i cinesi adorano le auto a pianale alto, i Suv. Alcuni costruttori hanno addirittura in gamma solo quel tipo di vetture. Più sono grandi e più piacciono. Dall’altra la richiesta di veicoli ecologici è in sensibile aumento. Va detto però che, a parità di propulsori, più le automobili sono grandi più consumano e questo sembra porre l’automobilista davanti a un bivio. La Volkswagen fa una scelta di campo presentando al Guangzhou Motor Show la T-RocStar Concept e

svelando che il 2018 sarà per la Casa tedesca l’anno delle Suv con il lancio di quattro nuovi modelli che diventeranno almeno dieci entro il 2020. Volkswagen dichiara però che l’obiettivo resta quello di elettrificare l’intera gamma di prodotti. Nell’ambito della graduale elettrificazione della gamma del Gruppo Volkswagen, sarà coinvolta anche Porsche e in particolare la sua iconica sportiva 911 che avrà in futuro una versione ibrida plug-in ad affiancare la Panamera Turbo S E-Hybrid. La variante a batteria della 911 sarà introdotta quasi certamente con l’ottava generazione, attesa al debutto entro la fine del prossimo anno. L’autonomia in modalità esclusivamente elettrica dovrebbe aggirarsi sui 70 km. In Cina Toyota dagli stand del salone annuncia una nuova offensiva che punta a rafforzare i volumi di vendita nel principale mercato al mondo. Il costruttore giapponese, dal 2020, commercializzerà nel Paese orientale una nuova famiglia di veicoli elettrici da sviluppare insieme alle sue joint venture locali. Inoltre da metà del 2018 partirà la produzione di un Suv compatto basato sul prototipo Way, secondo modello realizzato sulla piattaforma TNGA (Toyota New Global Architecture). Il Suv sarà assemblato da entrambe le joint venture di Toyo-

ta che lo distribuiranno sotto differenti denominazioni: CH-R by Gac-Toyota e Izoa by Faw-Toyota. Nissan, altra Casa automobilistica giapponese, dal prossimo anno con Infiniti (il suo marchio di lusso) avvierà la produzione di un nuovo sport utility nello stabilimento cinese di Dalian sulla stessa linea dei Suv Qashqai e X-Trail di Nissan. Quello cinese è il secondo principale mercato al mondo per il brand premium dopo gli Stati Uniti e la decisione di assemblare un nuovo Suv nel Paese riflette la costante crescita di questo segmento in Cina dove Infiniti costruisce già la Sedan Q50 e una sua versione a passo lungo. Le vendite Infiniti in Cina sono aumentate del 15 per cento in ottobre a 37’977 unità. In occasione del Salone di Guangzhou, il Gruppo Daimler ha anticipato un investimento equivalente a circa 755 milioni di dollari per la produzione di vetture elettriche e delle relative batterie in Cina. Come sottolineato dal responsabile delle operazioni locali del colosso di Stoccarda, Hubertus Troska, l’investimento fa parte del progetto a più ampio respiro da quasi 12 miliardi di dollari grazie al quale Daimler conta con Mercedes e Smart di cavalcare l’offensiva «verde» nel Paese della Grande Muraglia.

«Associare» per ricordare Per migliorare la memoria può essere utile imparare a creare delle associazioni. Lo ha dimostrato un recente studio pubblicato sulla rivista «Neuron». L’allenamento con diverse memotecniche serve, ma nella vita quotidiana la capacità di ricordare si avvale soprattutto dell’abitudine a fare collegamenti. L’essenziale è dedicare attenzione a ciò che vogliamo ricordare o, meglio, cercare un’associazione tra la parola e una simile. Se rendiamo la parola protagonista di un’associazione con una simile o con un fatto che ce la ricordi, la probabilità di recuperarla si aggira sul 40 per cento. Tornano a preoccupare i raggi UV L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha avvertito che gli apparecchi che emettono raggi UV, al pari della luce solare nei paesi tropicali, sono alla base di mezzo milione all’anno di tumori della pelle, di cui oltre 10mila sono melanomi e di disturbi gravi agli occhi, come la cataratta. Per questo l’OMS si augura che tali apparecchiature vengano bandite dal mercato.

«The Social Science Journal». L’analisi è stata condotta su oltre 90mila studenti dai 12 ai 18 anni. Dammi una foto, ti dirò la ricetta A partire dalla foto di un piatto pare sia possibile risalire alla ricetta grazie a Pic2Recipe, algoritmo sviluppato da ricercatori statunitensi del Mit Computer Science and Artificial Intelligence Laboratory. Questo programma predice il modo in cui il piatto è stato cucinato con un’esattezza di oltre il 65 per cento. Sarà disponibile online, ma, per ancora qualche mese, si troverà solo su un database di ricette americane. Acqua calda o fredda per lavarsi? Basta l’acqua fredda per lavarsi le mani. Un’équipe americana ha dimostrato che non è indispensabile lavarsele con acqua calda. Venti partecipanti cui erano state «sporcate» le mani con un batterio inoffensivo si sono lavati, a più riprese, con acqua a 38, a 27 e a 15 gradi centigradi. La verifica dopo il lavaggio ha dimostrato che l’acqua calda non dava una maggior igiene come pure il sapone antibatterico. Al contrario, aveva effetto sfregarsi le mani per venti o più secondi con l’acqua fredda. Ne parla il «Journal of Food Protection». Il segreto della felicità Dipingere, fare bricolage e suonare uno strumento: ecco ciò che starebbe alla base della felicità. Insieme ad altre attività, dall’uncinetto allo scrivere. Lo hanno riscontrato ricercatori dell’Università americana del North Carolina, che hanno verificato inoltre come le sensazioni positive attivino un circolo virtuoso che porta a dedicarsi all’attività che dà piacere e allontana i «brutti pensieri».

Crea con noi A Natale gli auguri si fanno anche con le fotografie: su www.azione.ch Giovanna Grimaldi Leoni vi suggerisce come stamparle su borse e trousse di stoffa da regalare ai vostri cari, ma con un po’ di fantasia creerete molte altre decorazioni.

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Ambiente e Benessere

Una Pasqua persiana

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dell’architettura islamica. È questo il viaggio che Hotelplan in collaborazione con «Azione» propone per la Pasqua dell’anno prossimo (dal 3 al

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18 aprile 2018). L’Iran, un paese ricco di storia e splendidi monumenti di arte islamica, dichiarate anche patrimonio dell’umanità dall’UNESCO,

Il programma di viaggio Martedì 3 aprile – Partenza con il volo di linea per Teheran. Mercoledì 4 aprile – Visita della città. La giornata prosegue con la visita del Palazzo Golestan e volo per Kerman. Giovedì 5 aprile – Escursione a Rayen, con sosta a Mahan. Venerdì 6 aprile – Breve visita di Kerman, partenza in bus per Yazd. Sabato 7 aprile – Visita di Yazd. Partenza per Shiraz. Domenica 8 aprile – Visita della città. Lunedì 9 aprile – Partenza per Persepoli, la maestosa città-palazzo dei re persiani. Visita a Naqsh-e-Rostam. Sosta alla prima capitale achemenide

Pasargade, e proseguimento per Isfahan. Martedì 10 aprile / mercoledì 11 aprile – Due giornate dedicate alla visita di una delle città più belle del Medio Oriente. Giovedì 12 aprile – Partenza in bus per Teheran. Sosta lungo il percorso al villaggio di Natanz . Visita della bella cittadina di Kashan. Venerdì 13 aprile – Partenza per il Gilan per salire sulle montagne dell’Alamut. Arrivo a Qazvin. Sabato 14 aprile – Visita della città. Partenza per Zanjan e sosta lungo il tragitto a Sultanieh.

Desidero prenotare il viaggio in Iran con Azerbaijan: Nome

organizza dal 3 al 18 aprile 2018 un viaggio in Iran con tappa in Azerbaijan Un itinerario unico e straordinario tra le meraviglie architettoniche della Persia, visitando le città museo di Teheran, Isfahan e Shiraz, vere perle

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Domenica 15 aprile – Partenza alla volta del grandioso sito di Takht e Soleiman. Proseguimento per Ardabil. Lunedì 16 aprile – Breve visita di Ardabil e del mausoleo di Safi Al Din. Proseguimento verso il confine azero e proseguimento per Baku, la capitale dell’Azerbaijan. Martedì 17 aprile – Alla scoperta della città: visita di «Icheri Sheher». Proseguimento per la penisola di Absheron. Proseguimento verso la Moschea Mirovsum Aga. Sosta a Yanar Dag. Rientro a Baku. Mercoledì 18 aprile – Nella notte, partenza con volo per Milano e rientro in Ticino in torpedone.

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annovera alcune delle città più antiche del mondo, molte delle quali centri cardinali lungo la Via della Seta e racchiude così la maggior parte delle bellezze architettoniche di quest’area geografica. Di complemento alla Persia, concluderemo il viaggio a Baku, in Azerbaijan. Capitale di un paese emergente, ricco di gas e petrolio, Baku è una baia naturale su una penisola del Mar Caspio. Orientata verso l’acqua è ormai una scintillante metropoli di grattacieli, hotel, autostrade, centri commerciali. Chi deciderà di partire sarà

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accompagnato e guidato alla scoperta di questo fantastico caleidoscopio di esperienze indimenticabili e trionfo di cultura antica. Sul sito www.azione.ch, il dettaglio del calendario qui a lato.

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tasse incluse; tutti i trasferimenti in loco con bus e guida italofona; sistemazione in hotel 4****, in camera doppia con servizi privati; trattamento di pensione completa; tasse e percentuali di servizio; carta regalo Migros di Fr. 50.– a camera per prenotazioni entro il 12 dicembre; accompagnatore Hotelplan Ticino. La quota non comprende Pasti e bevande ove non menzionati; mance ed extra in genere; spese agenzia; visto Iran e Azerbaijan. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

L’ancestrale mal d’Africa Reportage Più che una nostalgia, è un

insieme di colori, odori, suoni, sguardi e modi di vivere Fredy Franzoni, foto Alfonso Zirpoli «Ho diciannove anni, sono francese e ho trascorso tredici anni della mia vita all’estero. Ho vissuto in diversi paesi, ma l’Africa mi ha segnata. Non riesco a parlarne con chicchessia, salvo le persone che hanno condiviso questa mia esperienza. Temo di non essere capita se spiego a che punto l’Africa vi può segnare ed entrare nella vostra pelle…». Così su una delle tante chat trovata sul web. Chi ha viaggiato in Africa spesso parla di questo strano male. Sarà solo nostalgia? Desiderio di essere ancora immersi nei colori, odori, sapori di un mondo che ci fa pensare alle nostre origini, all’essenza della vita? Un mondo comunque, proprio perché ci riporta indietro nel tempo, nel quale forse non saremmo mai capaci di immergerci, di assimilare del tutto. Ed è giusto così. L’Africa è e deve rimanere degli africani. Noi l’Africa la possiamo visitare, ma con garbo, con gentilezza. Non per accettarla, ma per capirla, per assaporarne la diversità. «Non desiderare solo la tua cultura, rischi la solitudine. Non desiderare solo la cultura d’altri, rischi di perdere la tua e distruggere te stesso» conclude Mohamed Ba nel suo libro Il tempo dalla mia parte in cui narra la sua esperienza di emigrante nero sbarcato sulle coste europee. Il mal d’Africa è un’emozione, uno stato d’animo intimo. Ma lo si può descrivere, a parole o con le immagini. Mal d’Africa. Lo senti già quando incroci lo sguardo del volto nero della donna che ti è seduta a fianco sul volo

di rientro. L’odore quasi artificiale della stoffa colorata del suo nuovo pagne che si mescola con quello acre della traspirazione, dovuta forse all’emozione di quel viaggio. Una volta sbarcati, mancheranno i colori in un mondo dove ci si veste quasi solo di scuro e rimarrà anche nelle narici il rigetto, che è anche stato imbarazzo, per le vampate di sudore subite. Amare è accettare il bello e il brutto. Il mal d’Africa è correre in macchina e chiedersi perché da noi i marciapiedi, larghi, asfaltati, con solide bordure di granito sono quasi sempre deserti. Ma è anche ricordarsi che attendere in modo troppo ossessivo il domani, fa sfuggire l’oggi. Imparare il «qui e ora» da noi è materia di corsi e di seminari a volte con etichette altisonanti e prezzi conseguenti. In Africa non lo si insegna, lo si vive. Irresponsabilità, ai nostri occhi, che però è anche necessità di sopravvivenza in una terra troppo matrigna nel condividere le proprie risorse. Mal d’Africa è mettere all’orecchio una conchiglia che non ti restituisce l’onda del mare, ma i suoni della vita quotidiana fuori dalle grandi città. Bambini che giocano, vecchi che discutono, donne che ridono, animali che mescolano i loro richiami. Motorette che sfrecciano sulla terra battuta; cigolii di ruote di vecchie biciclette, di carretti, di carrucole dei pozzi. Il suono di una radiolina a transistor. Il battere ritmato nei mortai, con i bambini che si lasciano cullare avvolti sulle schiene delle mamme. Lo scoppiettare delle braci, il bollire delle padelle. Colpi di

martello, il raschiare cadenzato delle seghe. Il respiro del vento. Rumori allo stato puro, che scorrono nella mente come un film che non ha più bisogno di immagini. Mal d’Africa è interrogarsi senza pregiudizi su una dimensione spirituale diversa, dove fede, natura, magia, dogmi si intersecano senza timore. Chiesa e foresta sacra; sacerdoti e marabù; santi e antenati; spiriti del bene e del male, tutto sembra confondersi in un grande caos. In Africa ci si divide, anche con violenza, tra le varie correnti cristiane e musulmane, per poi ritrovarsi quasi tutti concordi nel seguire le pratiche animiste. Mal d’Africa vuol anche dire interrogarsi sulle responsabilità passate e presenti di chi continua, stranieri o

indigeni che essi siano, a disegnare un continente su logiche e leggi estranee alla cultura locale. Ma obbliga anche a cercare un simbolo positivo, per dare speranza al futuro. Potrebbe essere un baobab; tozzo e forse non bello nelle sue forme, con il suo tronco obeso e i rami esili che sembrano agganciarsi al cielo seguendo lo spartito di una musica

impazzita, ma che ha radici profondissime, che sanno trovare nutrimento anche laddove nessun altro riuscirebbe a sopravvivere. È saldamente impiantato, il suo legname ha scarso valore, è difficile da sradicare, ma sa offrire frutti e foglie con proprietà mirabolanti. Sì, il mio mal d’Africa si chiama baobab!


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Il Lussemburgo, paradiso degli spumanti Bacco giramondo Non solo patria di viticoltori che coltivano vitigni di alta qualità, ma anche terra di bevitori Davide Comoli Da Wasserbillig (che si trova a nord) sino a Schengen (a sud), il vigneto lussemburghese si distende lungo il corso della Mosella su una superficie di circa 1300 ettari. Il Lussemburgo è forse il più piccolo tra i paesi produttori di vino, qui si producono per il 98 per cento vini bianchi secchi, aromatici e spumanti, mentre il 2 per cento di vini rossi sono prodotti esclusivamente dal Pinot Nero. Malgrado una superficie vitata così limitata, il Lussemburgo ha una lunga storia vinicola: ricerche archeologiche fatte lungo il corso della Mosella hanno, infatti, permesso di portare alla luce diverse necropoli risalenti al V sec. a.C. con vasellame vario decorato con grappoli d’uva e foglie di vite. Le rive della Mosella lussemburghese sono alle volte ripide e spettacolari, orientate per la maggior parte verso sud-sud-est. Vale la pena fare una mini crociera sul fiume per meglio capire l’energia e la fatica che i viticoltori debbono impiegare per coltivare le loro parcelle, che tra l’altro sono diminuite, perdendo circa 100 ettari vitati nell’ultimo decennio; oggi se ne contano 637. Sopravvissuti alla Rivoluzione francese, allo sradicamento voluto da Napoleone Bonaparte e non da ultimo alla distruzione per opera dei tedeschi durante la guerra del 1870, che approfittarono della circostanza per levarsi

di torno la diretta concorrenza della regione dei vini del Reno, i vigneti del Lussemburgo continuano a lottare. Ci troviamo al 51° di latitudine nord, dove le condizioni climatiche sono particolarmente avverse. Su questa mini-regione lunga 42 km e con un’altitudine che varia dai 300 ai 400 m slm, cadono in media 725 mm di pioggia all’anno. Tuttavia, per quanto concerne il suolo, si può constatare una netta differenza tra la zona di Grevenmacher al nord e quella di Remich a sud. A nord, là dove la vallata si restringe, i suoli sono calcarei e ricchi di conchiglie fossili. I vini prodotti in questa regione sono molto fini e dopo qualche anno d’invecchiamento diventano dei vini aristocratici. Nella parte meridionale, invece, a partire dal comune di Stadtbredimus, il suolo è principalmente composto da marne argillose; la vallata si allarga e produce vini armoniosi, ma di qualità un po’ inferiore. Negli ultimi 25 anni la produzione vinicola lussemburghese ha conosciuto dei progressi giganteschi; non solo sul piano della quantità, ma anche su quello qualitativo. Il Lussemburgo è il regno incontrastato del vitigno Rivaner (incrocio tra il Riesling e lo Chasselas) creato alla fine del XIX sec.: si tratta né più né meno che del famoso Müller-Thurgau, creato dal ricercatore svizzero, il Dr. Müller del canton Turgovia.

Il villaggio di Schengen, in Lussemburgo, tra la Mosella e i vigneti adiacenti. (Keystone)

All’inizio degli anni Ottanta, questo vitigno copriva la metà dei vigneti lussemburghesi, oggi rappresenta solo il 30 per cento della produzione; è un vitigno molto produttivo e dona dei vini fruttati, discreti e piuttosto semplici da bere. Anche l’Elbling, antico vitigno autoctono, sta lentamente perdendo posizioni causa la sua eccessiva acidità in certe annate; questo vitigno in condizioni climatiche ottimali, produce un vino leggero, fresco e un po’ pétillant, che serve come base per la produzione di vini spumanti. Negli ultimi anni i viticoltori lus-

semburghesi, si sono via via indirizzati su vitigni di qualità superiore. Il Riesling che matura in modo tardivo sulle coste della Mosella, produce vini secchi e leggeri, che sono sinonimo d’eleganza e mineralità, sviluppando un bouquet di profumi molto intensi. Nonostante le sue indubbie qualità, ultimamente però il Riesling è stato detronizzato dai Pinot Grigi, ma soprattutto dall’Auxerrois. Il successo di quest’ultimo parrebbe sorprendente (in Alsazia questo vitigno non gode di buona reputazione), ma lungo le sponde della Mosella lussemburghese, l’Auxerrois acquista carattere, morbidezza, struttura e sovente aro-

mi agrumati e a pieno titolo può essere considerato una specialità della regione. Anche il Pinot Grigio però ha i suoi meriti. Il vino prodotto con questo vitigno ha un’acidità piuttosto flebile, aromi intensi e una generosità che gli permette una certa opulenza, soprattutto nelle annate con molto sole. Negli ultimi anni anche il Pinot Bianco ha aumentato di molto la superficie d’allevamento. Come rari outsider del vigneto lussemburghese troviamo il Gewürtztraminer e lo Chardonnay tra i bianchi, e quasi il 7 per cento della superficie vitata viene riservato all’unico vitigno rosso: il Pinot Nero. In Lussemburgo la produzione degli spumanti gode di una lunga tradizione. Oltre ai vini spumanti prodotti con il metodo Charmat o con la rifermentazione in bottiglia, il Paese possiede dal 1991 (ma si produceva dal 1920) la sola appellation Crémant esistente al di fuori della Francia, il Crémant de Luxembourg. Secondo le disposizioni specifiche, questo vino spumante deve essere prodotto esclusivamente con uve coltivate nel Paese, quelle che abbiamo citato sopra, e inoltre il vino deve restare almeno nove mesi sulle proprie fecce prima del dégorgement (travaso). Che si tratti di vini tranquilli o spumanti, ogni abitante del Lussemburgo consuma 55,8 litri di vino all’anno, forse è il record mondiale! Annuncio pubblicitario

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Coca Cola fatta in casa

Gastronomia Sfatato il segreto del misterioso ingrediente 7X, con un po’ di pazienza si può tentare

La ricetta della Coca Cola Company è sempre stata miticamente segreta, anche se si è sempre saputo com’era più o meno fatta. Fu inventata dal farmacista John Stith Pemberton nel 1886 ad Atlanta come rimedio al mal di testa. Composta da estratto di noci di cola, foglie di coca private dell’elemento oppiaceo alcaloide e l’estratto aromatico di otto essenze (il misterioso «7X»), miscelate con acqua frizzante, caramello, caffeina, zucchero, acido citrico o fosforico.

L’ingrediente 7X è un mix di oli: d’arancia, di lime, di limone, di cassia, di coriandolo, di lavanda e di neroli È possibile farla in casa? Non certo ottenendone una uguale all’originale, ma fare una cola, una bevanda casalinga che la sostituisce è meno arduo di quanto sembri. Prima di cimentarvi nella creazione di ciò che non dovrebbe essere considerato un «falso», ma alla stregua di una bevanda nuova, procuratevi in erboristeria le essenze di: arancio, limetta, limone, cassia, noce moscata, coriandolo, lavanda e neroli. Il primo passo consiste nel ricreare un mix di elementi simile al mitico e misteriosissimo (si fa per dire) «7X». Per far ciò, armatevi di pazienza certosina e, con l’aiuto di una siringa millimetrata, versate nel fondo di un bicchiere pulitissimo 3,75 ml di olio di arancia, 3 ml di olio di lime, 1 ml di olio di limone, 1 ml di olio di cassia, 0,75 ml di olio di noce moscata, 0,25 ml (6 gocce) di olio di coriandolo, 0,25 ml di olio di lavanda (6 gocce) e 0,25 ml di olio di neroli (sempre 6 gocce, ma in questo caso si tratta di un ingrediente opzionale). Coprite il bicchiere, ponetelo per il momento da parte e versate in un altro bicchiere 20 ml di acqua e qual-

che goccia di vodka, mettendovi poi a sciogliere 10 g di gomma arabica istantanea. Versate quindi la soluzione nel mixer del vostro robot e frullatela al massimo della velocità, aggiungendo a essa con molta cautela il mix di oli che prima avete preparato e messo da parte. Frullate senza fretta, per 6-7 minuti, in maniera che gli oli si amalgamino perfettamente con gli altri elementi. Per verificare se avete fatto un lavoro a puntino, al termine della frullatura controllate che non affiori in superficie dell’emulsione nemmeno una goccia di olio. Non fosse così, significa che dovete proseguire a frullare l’emulsione ancora per qualche minuto. Ora lasciate che l’emulsione (il simil «7X») riposi un po’ e intanto preparate separatamente due miscele che, per convenzione, chiameremo A e B. Per fare la prima versate in un bicchiere 30 ml di caramello colorante e 10 ml di acqua, mescolateli e aggiungetevi quindi 10 ml del composto «7X». Per preparare la miscela B, invece, mettete in un mortaio 2,75 g di caffeina con 10 ml di acido citrico e 10 ml di acqua. Pestate energicamente con il pestello, fino a quando i grani di caffeina non si sfarinano, formando con acqua e acido citrico un composto omogeneo. Ora non vi resta che preparare lo sciroppo di cola, operazione che si svolge in due fasi: la prima delle quali consiste nello sciogliere (mescolando velocemente) 2 kg di zucchero in 1,5 litri di acqua; la seconda, invece, nel diluire con 5 dl di acqua la miscela B (ricordate? L’emulsione di caffeina, acido citrico e acqua), versandola poi nello sciroppo di acqua e zucchero e mescolando accuratamente il tutto, fino a ottenere un composto omogeneo e fluido. La «finta coca cola», in pratica, ora è pronta: dovete ancora provvedere, semplicemente, a miscelare in parti uguali sciroppo di cola e acqua gassata. Lo so, è un lavoro lungo e certosino. Proporre, però, agli amici una pseudo Coca home made, fa un grande effetto, la stima degli altri e l’autostima crescono e di molto.

CSF (come si fa)

Veronique Pagner

Allan Bay

Pxhere.com

di prepararne una versione casalinga

In maggio vi avevo dato la ricetta super canonica della blanquette de veau à l’ancienne, uno dei sommi piatti della cucina casalinga francese, un piatto che amo alla follia. Però io che sono un modernista a oltranza, senza se e senza ma, ne ho messo a punto una versione rivisitata per innovarla. Vediamo come si fa. Nota bene: quando leggete «fate raffreddare», si intende mettere in atto quello che si fa a casa, a temperatura ambiente o,

meglio, in questa stagione, fuori dalla finestra. Però se siete un ristorante o se avete la fortuna di avere un abbattitore, leggete: «abbattete a 3°». Blanquette alla Allan. Il giorno prima. Tagliate a dadi 1 kg di spalla e petto di vitello. Metteteli in una pentola con acqua a filo, portate al bollore e schiumate bene. Aggiungete 500 g in tutto di porri, carote, sedano, cipolle e un mazzetto guarnito (gambi di prezzemolo, alloro, dragoncello) e cuocete per 1 ora e mezza. Levate dal fuoco, eliminate il mazzetto e togliete la carne; fatela raffreddare bene poi mettetela in frigorifero. Filtrate il brodo di cottura, fatelo concentrare fino a 2 dl, e poi fatelo raffreddare; quindi conservate in frigorifero. Frullate le verdure, fatele raffreddare, poi tenete anche queste in frigo.

Il giorno dopo, con un coltello affilato eliminate il grasso in eccesso della carne. Con un cucchiaio, levate il grasso che si sarà concentrato sul brodo e con quel grasso fate saltare 200 g di funghi a piacere (i francesi amano moltissimo gli champignon, io no…) e glassate 200 g di cipolline, unendo poco zucchero. Al momento del pasto, mettete in una casseruola la carne, il brodo concentrato, le verdure frullate, pochissimo concentrato di pomodoro se volete (serve a dare un bel colore), le cipolline e i funghi e cuocete per 5’ mescolando. Regolate di prezzemolo tritato, di sale e di pepe, spegnete e mescolate 2 dl di panna da montare e il succo di 1 limone. Servite accompagnando con riso pilaf o con un puré di patate.

Ballando coi gusti I timballi sono dei piatti cotti al forno in uno stampo. Eccone due, semplici da fare ma goduriosi.

Timballo di riso giallo e cozze

Timballo di maccheroni e grana

Ingredienti per 4 persone: un risotto giallo per 4 persone cotto al dente · 1 kg di

Ingredienti per 4 persone: 400 g di pasta a piacere · 200 g di formaggio grana ·

cozze · 1 scatola di piselli fini · pecorino grattugiato · vino bianco secco · burro · sale e pepe.

In una capiente casseruola con dentro 1 bicchiere di vino fate aprire le cozze. Spegnete, fate intiepidire, levate dai gusci e tenete da parte, il fondo filtrato tenetelo per altre preparazioni. Ungete una pirofila con burro e stendetevi metà del risotto, mettete sopra le cozze e i pisellini e terminate con il risotto restante. Cospargete la superficie con pecorino grattugiato, poco sale e pepe e qualche fiocchetto di burro. Cuocete in forno a 180° per 25’, finché sulla superficie non si sarà formata una crosticina dorata.

2 uova · 2 cipolle · 200 g di besciamella · semi di finocchio · olio d’oliva · sale e pepe.

Tritate le cipolle, fatele cuocere per 15’ con poca acqua. Togliete dal fuoco e unite il grana grattugiato, le uova sbattute e 1 cucchiaio di semi di finocchio. Alla fine legate con la besciamella e regolate di sale e di pepe. Cuocete la pasta in abbondante acqua salata. Scolatela a 2 terzi della cottura prevista e conditela con poco olio. Distribuitene metà sul fondo di una teglia a bordo alto, foderata con carta da forno. Conditela con metà della salsa alla besciamella preparata, coprite con la pasta rimasta e fate un ultimo strato di salsa alla besciamella. Fate cuocere per 30’ in forno a 180°, poi sfornate e servite.


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Ambiente e Benessere

Intelligenze bestiali

Mondoanimale Alcune specie sanno ragionare e dimostrano di possedere persino menti brillanti

Maria Grazia Buletti Hugin è un corvo imperiale e «lavora» al computer presso una stazione di ricerca in Austria. Le formiche tagliafoglie si organizzano in una sorta di piramide che, da terra, permette loro di raggiungere la corolla di un fiore. Gli scimpanzé sanno trasportare sassi che poi utilizzano come strumenti, ad esempio, per spaccare noci. La gorilla di pianura Koko è nata il 4 luglio del 1971 e ha vissuto sempre insieme alla dottoressa Francine Patterson che le ha insegnato il linguaggio dei segni e il significato di oltre duemila parole, riuscendo a comunicare con lei. Le orche sono famose per utilizzare vere e proprie strategie di gruppo contro le loro prede. E ancora: lo scorso mese di luglio la rivista «Science» ha pubblicato uno studio (diretto da Can Kabadayi dell’Università svedese di Lund) a dimostrazione del fatto che i corvi, come gli umani e le grandi scimmie, sono capaci di anticipare il futuro. È già noto da precedenti ricerche che questi uccelli sono in grado di utilizzare gli strumenti necessari per nutrirsi e di inventarne di nuovi se necessario. Nello specifico, lo studio di Kabadayi ha dimostrato che i corvi sanno rinunciare a una ricompensa immediata per ottenerne di migliori dopo qualche tempo. Tutti questi esempi ci riportano alla questione dell’intelligenza animale che oramai è riconosciuta attraverso una miriade di studi e ricerche scientifiche. I dubbi residui riguardano i meccanismi e i processi mentali con i quali gli animali riescono a risolvere i quesiti, a contare e a memorizzare. L’aspetto etologico più complicato e controverso

Giochi Cruciverba Forse non tutti sanno che la Limousine più grande del mondo è lunga circa… e ha… Completa la frase risolvendo il cruciverba e leggendo nelle caselle evidenziate. (Frase: 6, 5 – 8, 5)

SUDOKU PER

sta proprio nel grosso rischio di umanizzarli. Nella valutazione delle differenti specie animali, infatti, concorrono processi tipicamente umani come il linguaggio, la capacità di manipolare strumenti e il pensiero astratto. La studiosa di delfini Denis Herzing afferma che: «L’idea di intelligenza parte da ciò che sappiamo noi, e perciò tendiamo a ritenere le scimmie antropomorfe più intelligenti dei delfini, i cani o i gatti». Bisogna però aggiustare il paradigma, ricordando che sulla Terra coesistono diverse forme di intelligenza, ognuna delle quali affronta a modo proprio le sfide della sopravvivenza. Attraverso la sua metafora, lo spiega bene nel libro Cervelli che contano (Adelphi) il direttore del Centro interdipartimentale Mente-Cervello di Rovereto, nella vicina Penisola, Giorgio Vallortigara: «L’intelligenza non è un’isola, ma un arcipelago. E quanto a dotazioni intellettuali non esiste una singola dimensione su cui collocare le varie specie». Attenzione dunque a considerare il ventaglio di manifestazioni intellettive, e soprattutto a saperle interpretare senza prendere un abbaglio o, peggio, cadere in contraddizione. Prendiamo ad esempio il cane che, di primo acchito, tendiamo a ritenere più intelligente di altre specie, dopo la scimmia. Nel suo libro The Intelligence of Dogs lo psicologo americano Stanley Coren descrive come i cani posseggono addirittura tre tipi di intelligenza: istintiva, adattativa e di lavoro. Quella adattativa permette loro di affrontare problemi e concetti nuovi (ad esempio il border collie Chaser comprende,

presentando sullo schermo del computer una serie di dieci numeri per pochi decimi di secondo, uno scimpanzé ne ricorda la posizione e l’ordine, compito impossibile per un essere umano. E quanto a capacità mnemoniche possiamo considerare simili se non superiori 5 a noi anche altri 4 animali: 8come ad esempio la Ghiandaia americana (Aphelocoma coerulescens) che ricor7 8 2 da decine e decine di nascondigli dove ha riposto il cibo. E i pipistrelli, come 4 2soricina che6si nutre di il Glossophaga nettare, che sono in grado di ricordare 9 a quaranta 5 6 posti2visitati, per non fino tornare sui fiori già sfruttati. Per non parlare della 6 capacità 1 di alcuni animali di «giocare con i numeri», abilità ben 1 descritta (sempre in Cervelli 3 che contano) da Giorgio Vallortigara e Nicla 2 Panciera, che la riconoscono 6 negli insospettabili: «Essa è presente anche in animali impensabili come i 6 9 3 5 pulcini di gallina». Gli animali dispongono, al pari nostro, di menti raffinate 7 studi scientifici 8 e parecchi dimostrano sempre meglio come la capacità di risolvere i problemi sia nata in vari gruppi animali, anche evolutivamente distanti fra loro. Troviamo i «vertici 2 dell’intelligenza» tra 5 i mammiferi e gli uccelli (essi sono i migliori anche nel provare emozioni), 1 in uno dei molluschi cefalopodi e in alcuni tra gli insetti sociali, come formiche 4e termiti. Gli studiosi rendono però attenti che in questi 6 ultimi non sono i singoli soggetti che risolvono i problemi ambientali, ma intere colonie. A dimostra6 4 zione che l’intelligenza può assumere differenti forme nelle diverse specie 4 e che8non è1necessariamente animali, legata al linguaggio.

N. 41 FACILE Schema 2 6

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N. 42 MEDIO La Ghiandaia americana ha una grande capacità mnemonica. (Pixabay)

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oltre alle parole del proprietario, sin- non aprendo il cancello, i cani avevano goli concetti come palla per tuttiGiochi gli per ben“Azione” compreso come si facesse, 4 per - Novembre 2017 ma oggetti rotondi, ed è dunque in grado agire stavano solo aspettando il perStefania Sargentini di «astrarre»). Ma qualche anno fa un messo del padrone. 9 1 esperimento compiuto in Ungheria Questo è un chiaro segno del fat(N. 45 - Pangolino, ingoiando sassi) ha dimostrato qualcos’altro: è stato mo- to che l’intelligenza pura e semplice è5 1 2 3 4 5 6 7 A N G legata O L alle A capacità I Nsociali strato ad alcuni cani come aprire un P strettamente 8 10 cancello e9 quasi nessuno, lasciato solo, E eGai sentimenti, N I Dnegli O animali I Ncosì O come 11 12 13 lo ha poi aperto. Ci si chiede allora se i R negli esseri umani. E gli animali I G O R E A R T Iriesco14 15 quanto afferma cani, al contrario di no anche a superarci in alcuni ambiti, R I C A R I C A2R E Coren, non siano stupidi. No: lo scien- come quello della memoria. Un gruppo 16 17 L E ricerca N I giapponese N U RhaNscoperto E ziato Vilmos Csanyi ha dimostrato che, di che 18 19 20 21

Giochi per “Azione” - Dicembre 2017 Stefania Sargentini D O T I P S

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5 3 Vinci una delle 3 carte regaloL da 50 franchi con il cruciverba I M E D I7 A A S T I O e una delle 2 carte regalo da 50 franchi il sudoku 1 con 2 7 6 24

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(N. 49 - ... trenta metri, ventisei ruote)

(N. 46 - ... dà la sensazione di cadere nel vuoto)

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20- De Gaulle, Grande Asparago) (N. 47 1

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Sudoku A` N I E L

N. 43 DIFFICILE A S T O P R E T I N A S O L E N Soluzione: 4 3 T I Ai 3 Z I Scoprire O U T G A M E S T numeri I A corretti P O T 9 1 7 da C inserire A nelle R R A N E L caselle colorate. R A V I S P O V E E S T E R D I T A 9 C A R D O R E A R R AV6 T I 8 C O N 3 E T T N I E O L E I B U I O S T O RPER I AZIONE E SUDOKU - NOVEMBRE 2017 E L I T R9 A 5L I 1S 4 E N. 41 FACILE Schema Soluzione A N T A O 4 1 9 6 D E4 R O8 G A 2 5 3 2 9 5 6 1 4 7 8 L2B 4 1 7 8 U L N A2 6 4 1 7 8 9 7 3 5 2 A S I A L R O L A E T A 8 7 4 2 6 5 8 7 3 4 2 1 6 9 G 6R O1G 7 9 5 M 6 A 2 U T DL O S1 7 3 89 5 6 2 8 4 R 5A N G O 6 D1 U E 8 9 5 2 3 4 6 1 7 5 4 A R E S C R A3 M P I 1 4 6 2 8 1 7 5 9 3 T R E M I T I G A I G R I D O O

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A Soluzione T U della L Isettimana V I precedente G N 6 9 3 5 25 26 2 euro 1 4 6 9 8 il 7 5 17. Articolo spagnolo di guadagnare settemila al mese come mio3papà!» S TRA O BAMBINI F F I –C«IoEsognoO R I 8 guadagna settemila euro al mese?» 20. Un anagramma di riso – «Perché7tuo papà Risposta risultante: «NO, È 9 5 6 4 77 3 8 2 1 21.48 «O» latino CHE ANCHE LUI SE LO SOGNA!». (N. - “No, è che anche lui se lo sogna!”) N. 42 MEDIO 22.2 Scampò alla distruzione di Sodoma 1 3 4 5 6 7 8 9 3 67 3 6 2 4 9 5 8 1 23. Il giorno più breve 3 A R2 N O 5C O P E R T A 10 11 6 7 8 I N I 5 4 2 8 3 1 7 6 9 4 G A I 1C A T 8 2RE 9 5 12 13 14 15 H G P O R T E S A 9 8 1 6 7 5 4 3 2 9 1 4 16 17 18 10 11 I N T E R N O C I E 7S 3 1 4 89 5 1 62 3 8 2 7 5 6 19 20 O R A T E M A H I Vincitori del concorso Cruciverba 3 1 8 5 2 7 6 9 4 6 4 21 22 23 24 13 O N E L U C I O 4 C su «Azione 47», del 20.11.201714 6 7 25 26 27 28 2 6 7 4 9 8 1 5 3 G. Mazzei, T. Dal Cero, C. Spandri 2 A R4 P A 8 1S U C C O S E 29 6 5 9 3 1 4 2 7 8 Vincitori del30 concorso Sudoku 31 L E I O P 7A 8C 5A C S 32 33 34 su «Azione 47», del 20.11.2017 8 7 4 9 5 2 3 1 6 7 Z C5 O R 3O N A G A S 35 C. Piccaluga, V. Gilardi 36 1 72 3 7 8 6 9 4 5 1 2 A B7 O L 6 I T A N E R A 18

ORIZZONTALI 1. Anagramma di spot 4. Formata da coni e bastoncelli 9. Il «fuori» del tennis 10. I tempi del set 11. Viene in camera dopo me... 12. Brioso, vivace 13. Vostra Eccellenza 14. Illeciti penali 15. Unitamente 16. Un’ala del coleottero 18. Logore, consumate 19. Imposta che non si paga 21. Dagli Urali al Giappone 22. Le iniziali dell’attrice Ranieri

23. Due spagnoli 24. Isole del mare Adriatico VERTICALI 1. Destino, fato 2. Possessivo 3 4 5 3. 1Due nel2canotto 4. Un tipo di treccine 5. 9Malvagi, crudeli 6. Il Teocoli della tv 7. Dulcis in fundo 8. 12 Capitale europea 10. Grosso recipiente di terracotta 12.15Cima 16 13. Pronome latino 14. Ha origine infettiva o allergica 15. 101 romani 17

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

I premi, cinque carte regalo 19 Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione 21 corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

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(N. 50 - Marte, Monte Olimpo, Ventidue) I vincitori

Partecipazione20online: inserire la

M A R E T E S E T T O T O E N. 43 DIFFICILE

T I R E M O N R O L O I R A M E S S I A L A T T E P V E5 N T I 4 T O6 luzione, corredata da nome, cognome, è possibile un pagamento in contanti 4 indirizzo, 3 email del partecipante deve premi. 1 4 I vincitori 8 3P 2saranno 6 7 avvertiti C I dei A A T99sarà5 essere spedita per iscritto. Il 8 nome dei vincitori 1 3 1 7 a «Redazione Azione, 9 5 3 8 1 7 4 6 2 Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». pubblicato su «Azione». Partecipazione 9 2 7esclusivamente 4a lettori 3 E 1 che 8 I suiA riservata D6 5U 9 N Non si intratterrà corrispondenza

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato 9 22 del sito. sulla pagina Partecipazione postale: la lettera o 8 vie legali sono3escluse. Non la 23 cartolina postale che riporti la so- 6 concorsi. Le

risiedono 4 6in Svizzera. 1 7 8 9 5 2 3


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 dicembre 2017 • N. 49

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Politica e Economia Attentato alla moschea L’Egitto lo considera il suo 11 Settembre, con gli oltre 300 morti civili musulmani

Ex Jugoslavia: ergastolo L’ex generale serbo Ratko Mladic è stato condannato all’ergastolo dal tribunale dell’Aja per genocidio, crimini contro l’umanità nella guerra in Bosnia durante gli anni Novanta, e in particolare nel massacro di Srebrenica e nell’assedio di Sarajevo

Royal wedding Il matrimonio fra il principe Harry e l’americana Meghan fa dimenticare il divorzio dalla Ue

«Una legge sull’islam» Intervista a Saïda KellerMessahli, voce critica fra i musulmani svizzeri contro i fondamentalismi islamici pagina 32

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Maduro ha appena firmato accordi con Putin per dilazionare il debito con Mosca. (AFP)

Cash russo per Maduro

Russia-Venezuala Mosca insieme alla Cina si sta mangiando l’economia venezuelana e il petrolio di Pdva

è il boccone più ambito

Angela Nocioni La militarizzazione della dirigenza politica del Venezuela è ormai completa. Il presidente Nicolás Maduro, non appartenente alla casta militare (è un ex autista della Metro di Caracas) e anche per questo guardato con diffidenza dai generalissimi venezuelani, ha nominato Manuel Quevedo, capo di stato maggiore della Guardia nazionale, a capo di Petróleos de Venezuela, l’impresa pubblica del petrolio che controlla le riserve di greggio più ricche del mondo. Quevedo è anche ministro dell’Energia, il che concentra nelle sue sole mani un potere gigantesco perché il 90 per cento delle entrate in dollari venezuelane dipende dal settore energetico. E mentre Pdvsa, come ex gioiello di Stato, annuncia pomposamente di aver «iniziato a rimborsare 233 milioni di dollari di interessi su due obbligazioni vicine alla scadenza, giorni prima della fine del periodo di 30 giorni di grazia» cercando così di seppellire i timori internazionali di un default sostanziale del Paese, indebitato per oltre 150 miliardi di dollari con l’estero – debito impossibile da saldare e in gran parte in mano a Cina e Russia che riscuotono a rate

comprandosi a prezzi stracciati quel che resta di produttivo in Venezuela – il presidente della società nazionale di pediatria, Huniades Urbina, fa sapere che nell’ultimo mese sono morti 7 bambini per denutrizione. Sono sedici i minori morti di fame da gennaio. Una cifra folle nell’ex «Venezuela saudita», uno dei paesi più ricchi del mondo. «Con la crisi che abbiamo per la scarsità di cibo, la gente sta mangiando meno, i piccoli mangiano porzioni piccole, con una qualità di proteine bassissima, ed è questo che sta producendo l’aumento dei casi di malnutrizione». Emblematico è il caso dell’ospedale J.M. de los Ríos di Caracas, il miglior centro pediatrico venezuelano. Nell’ospedale è stato registrato un aumento del 30 per cento mensile dei casi di denutrizione di diverso tipo, leggera o severa, durante gli ultimi due anni. Secondo un’inchiesta svolta dalla Caritas locale in 32 località tra le più povere la malnutrizione nei bambini fra 0 e 5 anni è aumentata dal 54 al 68 per cento fra l’aprile e l’agosto scorsi. L’opposizione venezuelana ha intanto accettato di riprendere il dialogo con il governo, in corso a Santo Domingo. Esponenti dell’opposizione venezuela-

na, che hanno posto come condizione necessaria la presenza di mediatori internazionali, si sono già consultati con rappresentanti del Cile, del Messico e del Paraguay i quali hanno confermato la loro disponibilità a partecipare al negoziato. Nelle stesse ore Luisa Ortega Díaz, l’ex procuratrice generale del Venezuela, ex chavista di ferro diventata simbolo della ribellione contro lo strapotere governativo, scappata da Caracas dove rischiava di finire in carcere come è successo a leader dell’opposizione, ha presentato alla Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aja una denuncia contro Maduro e altri membri del governo per crimini contro l’umanità. Rimane intatto, e strategico per la comprensione della reale partita politico-economica in corso a Caracas, il credito di sei miliardi di dollari che l’impresa statale russa del petrolio Rosneft vanta su Pdvsa. E che il governo russo si guarda bene dal rinegoziare. È questo infatti il cavallo di Troia con cui, silenziosamente, Mosca si sta insinuando nel cuore del capitale petrolifero del Paese: la Faglia dell’Orinoco, la più grande riserva del mondo di shale oil (petrolio sporco, costoso da raffinare) in un Paese ormai in bancarotta.

Mosca ha appena firmato con Caracas un accordo per dilazionare nei prossimi dieci anni il pagamento dei 3 miliardi e 150 milioni di dollari di debito venezuelano nei suoi confronti per l’ultimo credito statale concesso nel 2011. Il nuovo calendario di pagamenti prevede quote minime per i prossimi sei anni e lascia per ora in sospeso il mancato pagamento di altre rate per vecchi prestiti accumulati negli anni. Una boccata di ossigeno finanziario per Nicolás Maduro. Perché tanta disponibilità da parte di Mosca? «Perché lo sviluppo delle relazioni tra Russia e Venezuela dipende dal grado di mutuo beneficio tra i due Paesi» ha detto sibillino il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov. In realtà offrendo sostegno economico al boccheggiante Maduro, il presidente Vladimir Putin aiuta se stesso. La Russia, insieme alla Cina, si sta mangiando l’economia venezuelana e il petrolio di Pdvsa è il boccone più ambito. Ma è un boccone proibito. Perché l’impalcatura costituzionale venezuelana blinda la struttura pubblica dell’impresa statale del petrolio. Spiega Roland Denis, ex viceministro della pianificazione degli albori del chavismo e da anni ormai critico feroce del regime

venezuelano: «Mettere a tacere il parlamento, controllato dall’opposizione, per eliminare l’ostacolo a iniezioni di cash russo, è uno degli obiettivi principali di Nicolás Maduro. I russi in cambio di soldi freschi vogliono l’industria del petrolio, affare vietato per legge». Citgo, l’impresa di raffinazione di proprietà venezuelana negli Stati Uniti è già ipotecata al 49,9 per cento dall’impresa russa Rosnefet. Ad ottobre Maduro e il presidente di Rosnefet, Igor Sechin, hanno firmato un nuovo accordo per l’investimento russo di 20 miliardi di dollari in progetti petroliferi nei giacimenti della valle dell’Orinoco. Mosca sta studiando come trasportare petrolio venezuelano nella raffineria Essar Oil nel porto indiano di Vadinar. Pdvsa mette a tacere le voci annunciando su Twitter che «è stato avviato il processo di trasferimento per pagare gli interessi sulle obbligazioni». Le agenzie di rating, nelle scorse settimane, avevano dichiarato «default selettivo» per 200 milioni di dollari di Pdvsa. «Confermiamo la solvibilità e la solidità della nostra industria petrolifera, in una lotta contro le sanzioni illegali» sostiene l’azienda di Stato.


Cuori generosi Quando corriamo, noi umani prima o poi restiamo senza fiato. Per il polpo non è così. La natura l’ha dotato di ben tre cuori: due prelevano l’ossigeno dall’acqua, mentre il terzo, quello centrale, distribuisce il sangue nel corpo. Grazie a questa eccellente ossigenazione il polpo ha un’autonomia sufficiente per cacciare le sue prede. Per altre meraviglie: mari.wwf.ch

Proteggiamo le meraviglie della natura.

SPINAS CIVIL VOICES

Animali con tre cuori, una meraviglia dei mari


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 dicembre 2017 • N. 49

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Politica e Economia

Sinai, terra di coltura del terrorismo

11 settembre egiziano In attesa di capire bene che cosa sia successo e per mano di chi, la vittima principale

dell’attacco alla moschea è al-Sisi che non ha portato il benessere e la pace che aveva promesso nella penisola

Per la stampa israeliana si è trattato dell’«11 settembre dell’Egitto». Di certo l’attentato terroristico alla moschea al-Rawda (foto) nel villaggio di Bir alAbed del 24 novembre scorso è stato il peggior massacro mai compiuto in Egitto: 305 morti, tra cui 27 bambini, e 128 feriti. Nella già tormentata storia della penisola del Sinai (Bir al-Abed dista non più di 40 km dal capoluogo della provincia del Sinai del Nord, AlArish), non si era mai visto niente del genere. Secondo la ricostruzione dei testimoni e delle fonti ufficiali, verso il tramonto la moschea è stata circondata da un commando di 25-30 uomini in tuta mimetica, arrivati su 5 fuoristrada, che – dopo aver sbarrato porte e finestre – hanno aperto il fuoco e lanciato granate sui fedeli che si apprestavano ad ascoltare il sermone del venerdì. Non bastasse la carneficina, hanno aspettato che i sopravvissuti uscissero per prenderli nuovamente di mira, mentre incendiavano 7 auto parcheggiate nei pressi per impedire o rallentare l’arrivo dei soccorsi. Poi si son dati alla fuga. Si è trattato di un assalto militare in piena regola, ai danni di una moschea, nel giorno più sacro della settimana, il venerdì, all’ora della preghiera. Musulmani contro musulmani con una ferocia inaudita soprattutto perché molti dei fedeli convenuti erano sufi, generalmente definiti «i mistici dell’Islam». Ma i sufi sono soprattutto i seguaci più pacifici di Allah e la loro fede è quella più popolare tra la gente semplice di villaggi polverosi e decentrati come Bir al-Abed. Ci sono sufi tanto tra i sunniti quanto tra gli sciiti, quindi in ballo non c’è la frattura storica nel cuore dell’Islam. Diciamo invece che i puristi musulmani, come i wahhabiti dell’Arabia Saudita o i miliziani dell’Isis, considerano i sufi degli idolatri da colpire perché, come in ogni forma popolare dei tre monoteismi, spesso seguono la parola e l’insegnamento di sant’uomini di cui, una volta morti, venerano le tombe. Massacrare i sufi è dunque un vero atto di «codardia» come ha sottolineato il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, generale che ha appeso la divisa al chiodo. E per una volta gli si può anche dare ragione. In tutti i casi, qualsiasi atto di terrorismo sui civili è vile e codardo e quello del 24 novembre ancora di più perché segna una svolta perico-

losissima nella già sanguinosa strategia dei numerosi gruppi salafiti-radicali della penisola del Sinai. Prima del 24 novembre nel loro mirino c’erano essenzialmente uomini in divisa, militari e poliziotti, uccisi a centinaia. Ora ci sono i civili più inermi. È perlomeno dalla caduta del regime di Mubarak nel 2011 che la penisola è diventata una sorta di Far West egiziano. Le tribù beduine, sfruttando le convulsioni seguite alle primavere non solo in Egitto, ma anche in Libia, nonché il totale isolamento della Striscia Gaza, si sono date ancor più di prima al contrabbando di armi, viveri, medicinali. Ma soprattutto il Sinai è diventato il deserto «di coltura» dei terrorismi residuali. È terrorismo residuale quello di alQaeda nella penisola del Sinai (Aqps) che ha raggruppato altre formazioni terroristiche locali come Jund-al Islam, Ajnad Misr, Ansar al-Sharia, Jamaat alMourabitoun, al-Jama’a al Islamiyya, impegnate dal 2013 in una lotta all’ultimo sangue coi militari e i poliziotti egiziani dopo che il 3 luglio 2013 il colpo di Stato dell’allora generale al-Sisi aveva spodestato Muhammed Morsi dalla presidenza e messo fuori legge la Fratellanza musulmana il cui Partito Libertà e Giustizia aveva vinto le prime libere elezioni nel 2012. Dal 2014, poi, si erano impegnate in una lotta intra-jihadista con gli affiliati egiziani dell’Isis. Il 4 novembre 2014 infatti i miliziani di Ansar Bayt al-Maqdis (Sostenitori di Gerusalemme) avevano prestato giuramento di fedeltà allo Stato islamico ribattezzando la loro organizzazione Wilayat Sinai (Ws, Provincia islamica del Sinai). La lotta tra Wilayat Sinai e la micro galassia sanguinaria afferente all’Aqps si è fatta ancor più feroce quest’anno quando nella penisola sono arrivati anche foreign fighters e terroristi dell’Isis reduci dalla perdita delle loro capitali in Iraq (Mosul) e in Siria (Raqqa) riconquistate dalle forze governative locali. Non più tardi dell’11 novembre scorso ad esempio, Jund alIslam (Armata dell’Islam, qaedista) ha rivendicato un attacco contro jihadisti dell’Isis-Ws avvenuto in ottobre in una località non meglio precisata della penisola. Interessante la motivazione: «per aver commesso crimini contro i musulmani nel Sinai». Sanguinari per sanguinari, proprio in questa motivazione sta la differenza tra al-Qaeda e Isis non solo nella

penisola del Sinai, ma in tutto il Medio Oriente e l’Asia. Al-Qaeda, la casa madre del terrorismo islamico del Terzo Millennio, ha imparato che colpire alla cieca i musulmani significa solo alienarsi il consenso della popolazione, e anche per questo ha preferito scagliarsi innanzitutto contro «i nemici esterni» (leggi minoranze cristiane in terra islamica, Israele, Stati Uniti e Occidente «crociato» in generale), oppure i «servi dei regimi oppressori e apostati in terra musulmana» cioè i militari e le forze di sicurezza in paesi islamici. L’Isis, invece, non ha mai esitato a fare terra bruciata ovunque e contro tutti pur di affermare il suo disegno di potenza e dominio nel nome di un presunto Califfato. E all’indomani dell’attentato alla moschea di Bir al-Abed mentre la stampa internazionale elencava le condoglianze giunte all’Egitto e al presidente al-Sisi dai governi di mezzo mondo e dal Papa, arrivava anche la condanna della strage del 24 novembre da parte del Grande Imam della

Non è un attentato religioso Mohannad Sabry L’analista egiziano specializzato in Nord Sinai

spiega il contesto in cui è avvenuto l’attacco alla moschea di al-Radwa Costanza Spocci Un’esplosione e ripetute raffiche di kalashikov hanno segnato l’attacco terroristico più mortale della storia dell’Egitto. Nella moschea sufi di al-Radwa, a Bir al-Abed nel Nord Sinai, lo scorso 24 novembre 305 delle persone raccolte in moschea per la preghiera del venerdì sono morte e 128 rimaste ferite. L’attacco è imputato, seppur non rivendicato, a Wilayat Sina, lo Stato Islamico nella penisola del Sinai. Un attacco a sfondo religioso? «Bir al-Abed è il vero elemento per capire l’attentato», puntualizza Mohannad Sabry, analista egiziano specializzato in Nord Sinai e autore di Sinai: Egypt’s Linchpin, Gaza’s Lifeline, Israel’s Nightmare (AUC Press, 2015), «perché si tratta di un’area che è al di fuori dalla solita zona di ostilità tra l’esercito egiziano e i militanti islamisti ed è dove il

governo ha dichiarato a più riprese di avere il totale controllo della situazione». L’obiettivo dell’attacco è di mettere in imbarazzo il regime, mostrando come i tanto conclamati successi del governo nelle operazioni militari in Nord Sinai non rispecchino affatto la realtà sul terreno. Il fatto che la moschea di al-Radwa sia uno dei principali centri dell’ordine sufi Gaririya, una corrente mistica dell’Islam, è altrettanto rilevante, ma non va letto su un piano strettamente religioso. «Per quanto riguarda la comunità», spiega l’analista, «il messaggio è ora rinnovato su una scala molto più grande e più sanguinosa: anche se sei un musulmano sunnita che prega in una moschea, sei un bersaglio se non rispondi al richiamo di Isis». Ciò che più conta è che il fondatore dell’ordine sufi di al-Rawda è uno sheikh della tribù Sawarka che controlla l’area di Bir

moschea-università di al-Azhar al Cairo, Muhammad Ahmad al-Tayyib, ma soprattutto anche quelle di al-Qaeda, Jund al-Islam ed altri suoi affiliati locali. Stando all’Agence France Press persino simpatizzanti dell’Isis hanno manifestato tutto il loro sdegno sui blog, dopo che via Telegram era circolata una registrazione audio in cui un affiliato del defunto Califfato si vantava dell’attacco terroristico alla moschea. Ma è stato davvero un commando dell’Isis a compiere l’attacco? Il modus operandi suggerirebbe di sì. Inoltre i sopravvissuti al massacro hanno testimoniano che i jihadisti sventolavano una bandiera nera, tipica dell’Isis. Ma l’Isis non ha diffuso alcuna rivendicazione, per lo meno fino al 29 novembre. E qui gli interrogativi si moltiplicano: è davvero l’Isis l’autore del massacro o una nuova formazione di cui non si conosce ancora l’esistenza? Oppure il responsabile è il fu Califfato ma rendendosi conto di essersi spinto troppo oltre, ora tace? Potremmo continuare a farci do-

mande all’infinito. Lo stesso governo egiziano non ha ancora puntato il dito contro nessuna sigla in particolare. Ha invece reagito immediatamente, la sera stessa del massacro, andando a bombardare tutta la fascia litoranea settentrionale del Sinai ed affermando poi di aver ucciso 11 terroristi e aver «polverizzato» i loro fuoristrada. In attesa di capire meglio cosa sia successo, e con tutta la pietà per i morti e i feriti di Bir al-Abed, la vittima politica principale dell’attacco alla moschea è stato al-Sisi. Quando ha attuato il colpo di Stato nel 2013 ha solennemente giurato di portare il benessere diffuso in Egitto e di sradicare la malapianta del terrorismo islamico nella penisola del Sinai. Nonostante gli aiuti internazionali e americani in particolare (un miliardo di dollari all’anno) il paese è ancora preda di povertà e disoccupazione. Quanto al terrorismo islamico, non sono bastati i 40 battaglioni di fanteria e i corpi corazzati stanziati nel Sinai per averne ragione. Evidentemente affrontare la minaccia terroristica nella penisola soltanto con l’approccio militare più duro non paga e in più aliena al regime del Cairo anche la popolazione locale che oltre ad essere economicamente emarginata, si ritrova schiacciata tra forze di sicurezza brutali e macellai jihadisti. L’unico risultato sicuro di quattro inutili anni di stato d’emergenza e lotta contro il terrorismo è il consolidamento della dittatura di al-Sisi reso possibile anche dalla retorica della lotta al terrorismo medesimo. Un copione che conosciamo molto bene: la Siria e la Turchia, tra gli altri, insegnano. Ma le speranze che al-Sisi cambi direzione sono poche. L’anno prossimo si svolgeranno le elezioni presidenziali e la svolta impressa dal massacro di Bir al-Abed alla strategia terroristica (con obiettivi civili, non più solo militari) rischia di diventare il tema centrale della sua campagna elettorale e incarognirlo ancora di più nella deriva securitariadittatoriale che ha già preso. E tanto per sostenerlo è intervenuto il suo buon amico Mohammed bin Salman, l’erede al trono dell’Arabia Saudita, che il 26 novembre ha lanciato una nuova coalizione per combattere «in maniera implacabile» tutte le organizzazioni terroristiche fino alla loro«sparizione totale sulla terra». Ne fanno parte 40 paesi musulmani sunniti di Medio Oriente, Asia e Africa. Assenti ovviamente l’Iran, la Siria e l’Iraq.

fino al valico di Rafah al confine con Gaza. Quella che inizialmente doveva essere un’operazione lampo però è diventata una guerra a bassa intensità, tutt’oggi in corso. L’obiettivo dichiarato: colpire l’insorgenza islamista della penisola, Ansar Al Beit al Maqdis, che dal novembre 2014 ha prestato giuramento a Isis e si è ridenominata Wilayat Sina (WS), la provincia del Sinai. Le operazioni dovevano creare anche una zona cuscinetto che garantisse una maggiore sicurezza a Israele, rendendo più difficile il passaggio di armi, militanti, ma anche beni di prima necessità, nei tunnel sotterranei tra Egitto e Gaza. Le campagne militari hanno effettivamente garantito ad al-Sisi una notorietà tale da consentirgli la scalata alla presidenza; hanno dato anche il primo «La» a quella «lotta al terrorismo» che tuttora garantisce la legittimazione del suo potere. Nel frattempo, la guerra ha mietuto centinaia di vittime civili e generato migliaia di sfollati, con un picco nel 2014 quando il governo ha optato per la distruzione di 3200 abitazioni nella città transfrontaliera di Rafah. Il tessuto tribale del Nord Sinai si è inoltre progressivamente sfaldato, complici anche i decenni di politiche di repressione governativa che spesso e

volentieri hanno utilizzato lo strumento della punizione collettiva. Le vecchie dinamiche claniche di controllo del territorio da parte delle principali famiglie beduine sono così saltate. Il vuoto creato l’ha riempito il «modello sanguinario di Isis che nonostante anni di repressione militare», puntualizza Sabry, «rende WS un magnete per il reclutamento di chi per opporsi allo Stato è disposto a compiere stragi pur di raggiungere l’obiettivo». L’attacco del 24 novembre mostra l’abilità di Wilayat Sina «nell’individuare i fallimenti dell’intelligence e i punti deboli dello Stato e delle Forze Armate al di fuori della zona C», continua l’analista: «i combattenti di WS possono muoversi con armi leggere e in gran numero proprio in aree dove sono presenti accampamenti militari, come a Rawda». Per questo «la guerra al terrore e il suo fantomatico successo degli ultimi anni è decisamente da rimettere in questione», riassume Sabry. L’attentato alla moschea di Rawda, inoltre, «mostra come il media blackout imposto sul Nord Sinai non sia altro che una tattica per nascondere quello che ormai il Sinai rappresenta», conclude Sabry: «è il nervo scoperto di una falsa propaganda che il regime di Al Sisi ha diffuso per anni».

AFP

Marcella Emiliani

al-Abed. «Il clan Gararat (da cui Gaririya) per decenni è riuscito a fare quello che miliardi di dollari e anni di forza militare non sono riusciti a raggiungere», spiega Sabry, «cioè mantenere una forte linea di difesa ideologica, sociale e religiosa contro l’espandersi di un’ideologia jihadista, violenta e radicale». Questo, secondo l’analista, «per Wilayat Sina sarebbe molto più minaccioso di una presenza militare che si è mostrata «per anni un fallimento continuo». Dall’agosto del 2012, infatti, è in corso l’Operazione Sinai, voluta fortemente dall’allora Ministro della Difesa Abdel Fattah al-Sisi in risposta agli attacchi di militanti islamici contro le postazioni militari egiziane al confine con Gaza. Fino alla scorsa settimana, l’epicentro del conflitto in Nord Sinai è stato la Zona C, ovvero quella striscia di terra definita dagli accordi di Camp David che va dal capoluogo di El Arish


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 dicembre 2017 • N. 49

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Politica e Economia

A Srebrenica fu genocidio

Tribunale dell’Aja I giudici del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia hanno condannato

in primo grado all’ergastolo l’ex generale Ratko Mladic per crimini contro l’umanità durante la guerra in Bosnia

Mladic, 75 anni, ex comandante dell’esercito serbo-bosniaco. (Keystone)

Roberta Arnold «Ubi iudicia deficiunt incipit bellum»: questa è la frase incisa sulla facciata della Corte Suprema dell’Aja. La leggo alla vigilia del processo in appello contro Jadranko Prlic ed altri per crimini di guerra e contro l’umanità, mentre mi trovo sul tram che, passando dalla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) ubicata nel «Palazzo di Pace», conduce al Tribunale Internazionale per l’ex Yugoslavia (TPIY). La mente corre alla condanna all’ergastolo di Ratko Mladic per genocidio proferita la settimana prima per fatti occorsi a Srebrenica (Bosnia) nel 1995. Singolare come la linea 16 sembri creare un filo conduttore tra le tre strutture giudiziarie che, seppur con competenze diverse, si sono occupate dei medesimi fatti. La CIG, che giudica le cause tra Stati, nel 2006 aveva infatti statuito sulla vertenza tra Bosnia Erzegovina e Serbia e Montenegro circa l’applicazione della Convenzione sul Genocidio ai fatti di Srebrenica del 1995, concludendo che la Serbia, pur non essendo responsabile dei fatti, aveva violato la Convenzione nel mancare di prevenirli e di consegnare Mladic al TPIY. Il 6 settembre 2013 la Corte Suprema olandese, nelle cause civili mosse da H. Nuhanovic e R. Mustafic, aveva invece determinato la responsabilità del governo olandese (dimessosi nel 2002), per il fallimento dei suoi Caschi blu nel proteggere le persone in fuga da Srebrenica. Il mosaico, ad un mese dalla chiusura del TPIY, primo organo giudiziario impiegato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu quale strumento di imposizione della pace ai sensi del capitolo VII della sua Carta, si sta lentamente completando. All’indomani è previsto l’ultimo verdetto del TPIY. I protagonisti sono sei vertici dell’ex Repubblica croata di Herzeg-Bosnia (HB), l’entità autonoma esistita tra il 1991 e il 1994: J. Prlic,

ex Primo Ministro e presidente della milizia «HVO» (condannato a 25 anni); B. Stojić, ex capo del Dipartimento della Difesa (20 anni); S. Praljak, ex comandante dello stato maggiore del HVO nonché alto esponente del Ministero della difesa croato; (20 anni) M. Petković, ex comandante del HVO (20 anni); V. Ćorić, ex Capo dell’amministrazione della Polizia militare del HVO e poi Ministro dell’interno (16 anni) e B. Pusić, ex ufficiale della Polizia militare dell’HVO e responsabile dei centri di detenzione (10 anni). L’appello verte sulla loro partecipazione ad un’«Impresa criminale congiunta» costituita nel gennaio del 1993 al fine di ottenere, come indicato dalla Corte, «il dominio dei Croati della Repubblica Croata di Herzeg-Bosnia mediante la pulizia etnica della popolazione musulmana» sui territori rivendicati in Bosnia. Confermate le pene per tutti gli appellanti, nonostante il ribaltamento di alcune conclusioni tratte in prima istanza. Per esempio il Giudice Agius, nel motivare la condanna di S. Praljak, ha spiegato che contrariamente al primo giudizio, l’attacco al ponte di Mostar non era un crimine di guerra in quanto giustificato dalla necessità militare. Inoltre, egli non era responsabile della distruzione di sette moschee a Mostar est. Tuttavia, nel complesso, queste conclusioni non erano tali da ridurre la sua responsabilità per il ruolo avuto nell’impresa criminale. Come nei suoi film (p.es. Duhan del 1990), Praljak ha quindi diretto, in modo drammatico, l’epilogo del procedimento, ponendo fine alla sua vita. Non appena proclamata la condanna a 20 anni, alzandosi ha solennemente dichiarato «Slobodan Praljak non è un criminale di guerra, respingo con sdegno questa sentenza!», e ha ingerito del veleno. È stato necessario qualche attimo per capacitarsi dell’accaduto. Il pubblico e gli imputati hanno quindi richiamato l’attenzione della Corte, che

ha chiamato i soccorsi e interrotto il procedimento. Diffusa l’amarezza tra i Bosniaci-croati presenti, tra cui un giovane che, mostrando un rosario, dice «sono un croato della Herzeg Bosnia; da storico e uomo di scienza, non posso dar credito a questo tribunale politico; confido ormai solo in Gesù Cristo.» Il processo riprende dopo un’ora in un’altra Aula: il Giudice Agius ha ordinato l’intervento delle autorità olandesi competenti, senza ulteriori commenti. La mente di chi scrive torna al clima di tensione sovrastante le persone raccoltesi il 22 novembre in Churchillplein, la piazza della capitale olandese dedicata al grande statista britannico, dove ha sede il TPIY. Tutte, tranne Mladic, sono in attesa del verdetto: per lui, latitante per 16 anni, sei anni dopo l’arresto il 26 maggio 2011, il verdetto potrebbe significare una vita senza futuro. La lettura è prevista alle 10, ma già nelle prime ore del mattino, lungo Eisenhowerlaan, l’arteria che collega l’Europol con il TPIY, illuminato da timidi raggi si scorge l’avanzare mesto di un corteo. Saranno Serbi? O Bosniaci? Da lontano non è dato sapere e un timore riverente invita al silenzio chi ne incrocia gli sguardi: il conflitto dei Balcani non ha infatti né vincitori né vinti, ma solo feriti che faticano a guarire. Il Giudice Orie, apre puntuale il sipario. I sostenitori di Mladic sperano nel suo proscioglimento, mentre i sopravvissuti chiedono che la Corte renda loro giustizia. Mladic viene condannato alla reclusione a vita per aver partecipato, insieme a terzi, tra cui Radovan Karadazic, a 4 «imprese criminali congiunte» finalizzate alla commissione di crimini aventi quale fine il genocidio dell’etnia bosniaco-musulmana di Srebrenica; alla pulizia etnica di diverse municipalità della Bosnia rivendicate dalla Republika Srpska; alla presa in ostaggio e all’uso come scudi umani dei Caschi blu dell’Onu a Sre-

brenica, al fine di prevenire l’intervento della Nato; all’attuazione di una politica del terrore nei confronti della popolazione civile di Sarajevo. La Corte conferma l’atto d’accusa, ad eccezione dell’imputazione per genocidio riferita a fatti in diverse municipalità e campi della Bosnia. Essa non ha infatti raggiunto il pieno convincimento che gli autori abbiano avuto l’intento «speciale» di eliminare il «gruppo protetto dei Bosniaci musulmani», essendoci tra le vittime anche bosniacocroati. La qualifica appropriata è di crimini contro l’umanità. Di genocidio si è invece trattato a Srebrenica, dove nel 1995 sono stati uccisi oltre 7000 musulmani. Mladic non era presente alla lettura del dispositivo (contro il quale è già stato dichiarato il ricorso in appello). L’avvocato Ivetic aveva tentato per un ultima volta di rinviare il verdetto, chiedendo dapprima una pausa per permettere a Mladic di recarsi in bagno. Quasi paradossalmente, l’istanza veniva presentata dopo un resoconto del Giudice Orie delle condizioni a Omarska e Trnopolje, dove i prigionieri potevano recarsi in bagno solo una volta al giorno. Trascorsa mezz’ora, durante la quale molti si sono chiesti se vi fosse da temere un’uscita di scena di Mladic, il Giudice Orie ha ripreso spiegando che erano stati necessari degli accertamenti sullo stato di salute dell’imputato. Negata l’istanza di procedere subito con il dispositivo, Mladic si è alzato gridando che era tutto falso. Invitato a ritrovare la calma, è infine stato scortato in una sala adiacente da cui seguire il processo. Questa sentenza ha davvero chiuso un capitolo? Il TPIY ha realmente contribuito a ristabilire la pace nella regione? Per molti resta incomprensibile perché la Corte abbia riconosciuto il reato di genocidio solo in merito a Srebrenica, seppur agendo in coerenza con quanto concluso nella sentenza emessa

il 24 marzo 2016 nei confronti di Radovan Karadzic, l’ex presidente della Repubblica serba di Bosnia. Tra il pubblico c’era anche Fikret Alic, il protagonista della copertina del 17 agosto 1992 di «Time», ritraente un giovane dal corpo emaciato, in piedi dietro al filo spinato delimitante il campo di Trnopolje. A suo avviso, dopo 25 anni, anche se non si può asserire che il TPIY abbia ristabilito definitivamente la pace nella regione, il risultato è sicuramente importante. Egli è tornato a vivere a Prijedor e si ritiene fondamentalmente soddisfatto dell’esito. Dura invece la reazione di Kelima Dautovik: Mladic non è stato condannato per genocidio in merito ai fatti occorsi in varie municipalità della Bosnia. Pertanto, dichiara, non le importa né dell’esito né che Mladic venga incarcerato a vita o esca a piede libero. Ricorda come nella sola città di Prijedor, da cui proviene, sono morte 3800 persone. Come dimostrato in occasione di una partita disputata il 26 novembre, quando i giocatori della squadra del Kabel Novi Sad hanno indossato le maglie ritraenti Mladic, vi sono ancora molte posizioni contrastanti. Ma come ricordato dal procuratore Brammertz, l’esito del procedimento contro Mladic costituisce una pietra miliare nella storia del TPIY e per la giustizia penale internazionale. Resta tuttavia ancora molto da fare nella lotta contro i crimini di guerra. Al rientro, il tram si sofferma nuovamente davanti alla Corte Suprema: «La guerra inizia dove manca la giustizia». La frase invita a non dimenticare il passato, per evitare che gli stessi errori si ripetano in futuro. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

Un matrimonio per non pensare al divorzio Harry e Meghan sposi Downing Street ha sfruttato l’enorme distrazione mediatica proveniente dall’annuncio

del royal wedding per lasciare trapelare la notizia che è stato raggiunto un accordo con Bruxelles sul più spinoso e simbolico dei punti negoziali: il conto da saldare al momento dell’uscita Regno Unito Cristina Marconi La Brexit e la coppia Harry-Meghan sono nate nello stesso periodo, settimana più settimana meno: 23 giugno 2016 la prima e, si dice, il 4 luglio dello stesso anno la seconda. Ma questi diciotto mesi sono stati usati in maniera molto diversa dai protagonisti delle due vicende, e se il principe dalla chioma rossa ha dimostrato fin dall’inizio che «Meghan vuol dire Meghan» e non ha perso tempo a chiedere all’attrice americana – divorziata, più grande di lui, con una madre afroamericana e una famiglia sgangherata – di sposarlo, l’annuncio della premier Theresa May che «Brexit vuol dire Brexit» è rimasto solo uno slogan vuoto, un grido di battaglia fintamente risoluto che non ha portato a niente fino ad ora. Né ad una strategia chiara per portare il Paese fuori dalla Ue, né ad un tentativo esplicito di contenere l’autolesionismo derivante da un quesito referendario vago e ambiguo. La May sta agendo sottotraccia, avvalendosi di due grandi armi britanniche come l’understatement e l’ambiguità costruttiva per sventare i pericoli maggiori come la rottura del tavolo negoziale con Bruxelles, e per adesso, di crisi in crisi, è riuscita a resistere. Ma ora che dalla Ue i toni si sono fatti più pressanti, non bisogna essere eccessivamente maligni per pensare che Downing Street abbia sfruttato l’enorme distrazione mediatica proveniente dall’annuncio delle nozze di Harry e Meghan per lasciar trapelare la notizia che è stato raggiunto un accordo con Bruxelles sul più spinoso e simbolico dei punti negoziali: il conto da saldare al momento dell’uscita. Accordo è una parola grossa: diciamo che Londra ha accettato le richieste dei partner europei, ammettendo di dovere 100 miliardi di euro per chiudere quarant’anni e passa di relazione. Nella pratica ne verserà

circa la metà, in pagamenti distribuiti su quattro decenni. Ma 40 miliardi di sterline sono pur sempre il doppio dei 20 miliardi che la May aveva concesso nel suo discorso di Firenze e soprattutto sono un’enormità sia per chi pensa che la Brexit non abbia senso – quei soldi potrebbero andare alla sanità pubblica, ad esempio – sia per chi, in maniera diametralmente opposta, ritiene che il Regno Unito non debba niente a Bruxelles. L’ex leader Ukip Nigel Farage, che non ha più neppure un partito, ha scritto un editoriale spiegando che l’aver concesso tutti quei soldi a Bruxelles «unirà il Paese nel disgusto» e che questo dimostra che si sta andando verso un pessimo accordo, mentre il ministro degli Esteri Boris Johnson, che nonostante tutti i suoi errori e le sue gaffe continua ad essere al suo posto, ha usato una frase apparentemente conciliante per commentare la notizia. «Servirà a disincagliare la nave», ha spiegato Boris, accettando l’utilità della decisione ma mettendo al tempo stesso l’accento sulle secche negoziali dove il capitano May ha portato il Paese. Secondo i sondaggi l’opinione pubblica starebbe cambiando piano piano idea rispetto alla Brexit – non tutti trovano che sia una buona idea passare due anni a discutere di questioni così tecniche tralasciando i grandi problemi del Paese – e sui media si moltiplicano gli articoli e gli appelli a favore di un ripensamento. Ma sia Boris Johnson che il ministro per l’Ambiente Michael Gove, meno carismatico ma percepito come più competente, continuano ad alimentare ad euroscetticismo le loro ambizioni politiche e a lusingare le classi popolari con le loro opinioni nette ed è per questo che la May ha disperatamente bisogno di quelle «armi di distrazione di massa» che facciano passare in secondo piano le questioni di lana caprina di cui chi voglia prendere la Brexit sul serio è costretto a discutere.

I promessi sposi Harry e Meghan in posa per i fotografi a Kensington Palace. (Keystone)

Tanto più che la notizia del matrimonio di Harry e Meghan ha implicazioni socio-culturali più complesse di quelle di un semplice «royal wedding» e, paradossalmente, trasmette un messaggio esattamente inverso rispetto a quello della Brexit: l’attrice nota per il suo ruolo nella serie Suits ha una madre nera e si definisce lei stessa «né bianca né nera», è una donna fatta e finita, di successo, con un divorzio alle spalle, e questo avvicina in modo rivoluzionario la monarchia britannica a quello che succede nelle strade del Regno Unito, dove le persone di razza mista sono il gruppo in più forte crescita da un punto di vista demografico. E pazienza che per portare questa ventata d’aria fresca ci sia voluta un’americana, un’immigrata che ha deciso che seguirà la procedura ufficiale, con

tanto di esame, per avere la cittadinanza britannica. Per restare in vita la famiglia reale sa di dover fare di tutto per non essere anacronistica, e l’aver aperto le porte ad una donna che sulla carta non ha nessuna delle caratteristiche che si immaginano proprie della promessa sposa del quinto in linea di successione al trono dimostra che la regina ha le idee molto chiare su come usare la fabbrica di simboli e icone di cui è a capo (sempre che qualcuno avesse qualche dubbio dopo averla vista con un cappellino blu violaceo con dei fiori gialli così simile alla bandiera europea): Meghan è impegnata politicamente, è progressista e contemporanea, spigliata e comunicativa. Harry pure. Non c’è altro da aggiungere, in un Paese che da un anno e mezzo a questa parte si

sta chiudendo su se stesso alla velocità della luce. Panem et circenses, dicevano i romani, ma nessuno sembra aver colto il concetto meglio dei britannici, che in questa fredda settimana di novembre hanno fatto in modo di mettere in secondo piano non solo le concessioni fatte a Bruxelles, ma anche la serie interminabile di passi falsi che il governo, spaccato fino al midollo come tutto il partito conservatore, sta facendo sulla gestione del dossier Brexit. Facendo bene attenzione a centellinare le notizie – prima il matrimonio e la stagione, poi la chiesa e il mese, ma non il giorno esatto – in modo da far sì che l’efficacia dell’annuncio sia protratta nel tempo. Perché la comunicazione è tutto. Per una conferma, basta chiedere a Meghan. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

«Serve una legge sull’islam»

Fondamentalismo islamico Secondo l’esperta di questioni islamiche Saïda Keller-Messahli, autrice di una recente

pubblicazione, molti politici sono troppo naïf e non vogliono vedere in faccia il problema della radicalizzazione islamica che si annida nelle moschee in Svizzera

Luca Beti Saïda Keller-Messahli è una donna instancabile. Non manca occasione per esprimere il suo giudizio su temi legati all’islam che improvvisamente infiammano il dibattito pubblico e politico in Svizzera: il rifiuto di stringere la mano a un’insegnante, il divieto di partecipare alle lezioni di nuoto miste, il finanziamento estero delle moschee. L’esperta di questioni islamiche è un’interlocutrice disponibile e molto apprezzata dai giornalisti. Una popolarità che ha però un rovescio della medaglia. Esprimendosi senza giri di parole si è fatta molti nemici, soprattutto nelle cerchie dei fondamentalisti islamici. «No, io non ho alcuna paura», ci dice nonostante abbia ricevuto minacce di morte. Nemmeno dopo la pubblicazione del suo libro Islamistische Drehscheibe Schweiz, (Svizzera, crocevia islamista), in cui getta uno sguardo dietro le quinte delle moschee. Sono circa 370mila i mussulmani residenti in Svizzera, la maggior parte sono credenti moderati e ben integrati. La loro voce è però flebile, quasi impercettibile. Non così quella della 60enne Keller-Messahli. «Non so perché lo faccio», ci dice. «Forse questa combattività è insita nel mio carattere». In una recente intervista Hans-Jürg Käser, presidente della Conferenza dei direttori cantonali di giustizia e polizia della Svizzera, ha indicato che il Servizio delle attività informative della Confederazione segue con particolare attenzione 23 imam nel solo canton Berna. È una cifra che la sorprende?

No, per nulla. In Svizzera ci sono circa 300 moschee e visto che solo una piccola parte si trova sul territorio del canton Berna, questa cifra ci ricorda quanto sia acuto e grave il problema dei predicatori che insegnano e diffondono l’odio nel nostro Paese. Delle circa 300 moschee in Svizzera, quante sono quindi quelle che si rifanno a una visione radicale dell’islam?

Il loro numero dipende dalla definizione che diamo al termine «radicale». Osservo semplicemente che la maggior parte delle moschee diffonde dei valori e dei principi che sono in netto contrasto con i diritti fondamentali e i principi democratici della nostra società. Promuovono, per esempio, la separazione di genere, l’obbligo di portare il velo per le ragazze, l’istituzione illegale di scuole dell’infanzia mussulmane oppure invitano predicatori itineranti salafisti in Svizzera. Ci sono poi alcune moschee che si pavoneggiano per il numero di persone che sono riuscite a convertire all’islam oppure che danno molta importanza alla struttura delle loro organizzazioni nazionali e internazionali. Altre favoriscono la creazione di una società parallela, un mondo maschile con una dinamica propria, autosufficiente e che prende chiaramente le distanze dal resto della società da un punto di vista sia linguistico sia culturale. Anche in Ticino ci sono quindi simili edifici di culto mussulmani?

In Ticino ci sono circa dodici moschee. La perquisizione della moschea di Viganello da parte della polizia ci insegna che il pericolo della radicalizzazione islamica si annida anche a Sud delle Alpi. Hans-Jürg Käser chiede un giro di vite nei confronti dei mussulmani radicali. Lei ha spesso rinfacciato ai politici e alle autorità di peccare di ingenuità, di non voler vedere il

«Abbiamo problemi nella maggior parte delle moschee: vengono trasmessi valori che favoriscono l’isolamento e la segregazione sociale». (Keystone) problema. Ma non mi pare che la politica sia cieca.

Il signor Käser ha da tempo riconosciuto il problema. Altri invece non vogliono assolutamente guardare in faccia la realtà e minimizzano il fenomeno del radicalismo islamico e della minaccia salafista in Svizzera. Chi sono gli altri? Lei ha affermato in un’intervista che ci sono dei politici che vivono in una sorta di «trip della tolleranza».

Le faccio un esempio. La consigliera di Stato zurighese del Partito socialista, Jacqueline Fehr, si è espressa in favore di un riconoscimento di diritto pubblico delle associazioni mussulmane della Bosnia. A questo proposito ricordo che il leader dei rappresentanti della comunità islamica bosniaca in Svizzera è il gran mufti Hussein Kavazovic. Fino a poco tempo fa era membro dell’Unione internazionale degli studiosi mussulmani, un’organizzazione islamista, e sedeva nel gruppo dirigente dei Fratelli Mussulmani. Kavazovic ha esercitato quindi un forte influsso sulle moschee della diaspora bosniaca. Non sorprende quindi che in Austria i bosniaci siano uno dei gruppi più importanti tra i jihadisti.

Nel suo libro Islamistische Drehscheibe Schweiz (Svizzera, crocevia islamista) ha gettato uno sguardo dietro le quinte delle moschee in Svizzera. Cosa ha scoperto?

Che abbiamo un problema nella maggior parte delle moschee; in quelle turche come pure in quelle bosniache, albanesi o arabe. Vengono trasmessi dei valori che impediscono non solo l’integrazione sociale dei mussulmani in Svizzera, ma che ne favoriscono in maniera attiva l’isolamento e la segregazione sociale.

Ha anche scoperto che l’Arabia Saudita ha un ruolo fondamentale nel finanziamento delle moschee.

Sì, proprio così. Le faccio un esempio per spiegarle quale influsso esercita questo Paese sulle moschee in Svizzera. Sette anni fa, il Regno dell’Arabia Saudita ha donato 15 milioni di franchi alla Fondazione culturale islamica di Ginevra, ossia alla moschea di Petit-Saconnex. Il versamento di questo contributo viene espressamente indicato nel quarto capitolo degli

statuti della fondazione, statuti che ho pubblicato nell’appendice del mio libro. Sono però veramente poche le moschee che dichiarano in maniera trasparente la provenienza di simili donazioni o finanziamenti esteri.

Le moschee sostengono però che si finanziano con le quote dei loro membri o con donazioni di enti e istituzioni locali.

È compito delle moschee dimostrare in maniera trasparente e cristallina da dove provengono i soldi grazie a cui si mantengono. In questo momento il loro finanziamento è avvolto da un velo di mistero. Alcune moschee importanti, come quelle di Wil, nel canton San Gallo, o di Netstal, nel canton Glarona, hanno speso milioni di franchi per l’acquisto di un terreno edificabile e per la costruzione del luogo di preghiera. Non credo proprio che i membri albanesi, macedoni o bosniaci di queste comunità mussulmane siano così facoltosi e possano fare donazioni così importanti. Perché è tanto importante conoscere come vengono finanziate le moschee in Svizzera?

Perché il finanziamento delle moschee in Europa da parte di altri Stati non è né disinteressato né innocuo. Con denaro, piccoli privilegi, materiale propagandistico e predicatori itineranti possono esercitare il loro influsso sul contenuto del messaggio veicolato nelle moschee. Solo esigendo la massima trasparenza sui finanziamenti evitiamo che la popolazione nutra dei dubbi su ciò che avviene nei luoghi di preghiera musulmani. Quale influsso esercitano le moschee sulla radicalizzazione e sulla diffusione del terrorismo di matrice islamica in Svizzera?

Prima di diventare un terrorista, una persona vive una trasformazione mentale che è favorita da idee e opinioni islamiste. Per questo motivo è importante impedire ai fondamentalisti islamici, come il predicatore pregiudicato Shefket Krasniqi o il politico salafista del Kosovo Gezim Kelmendi, di parlare nelle moschee; corriamo altrimenti il rischio di alimentare la radicalizzazione islamica in Svizzera. I due si sono rivolti ai fedeli riuniti in preghiera nelle moschee di Aarburg e Regensdorf,

comunità che attraverso l’Unione degli imam albanesi della Svizzera indicano di rappresentare tutti i musulmani del Paese. Non dobbiamo dimenticare ciò che è avvenuto nelle moschee di An’Nur a Winterthur o di Errahmen a Bienne.

preislamica, ripresa non solo da alcuni mussulmani. I mussulmani radicali hanno però conferito a questo capo d’abbigliamento un’enorme importanza, rendendolo obbligatorio per le donne e trasformandolo in un simbolo della loro idea di islam.

Prima di venire in Svizzera, i predicatori itineranti stranieri dovrebbero essere obbligati a chiedere l’autorizzazione alle autorità elvetiche. Ciò impedirebbe loro di andare di moschea in moschea, quasi in incognito e in maniera del tutto indisturbata, e diffondere la loro visione distorta dell’islam.

Visto che non si tratta di un precetto religioso, non stiamo violando la libertà di religione. Inoltre anche questo diritto può essere in contrasto con altri diritti democratici fondamentali. Per esempio, il diritto fondamentale alla libertà di espressione di una persona può violare il diritto della personalità di un’altra persona.

Come possiamo allora evitare la presenza di predicatori dell’odio nelle moschee in Svizzera?

Non basterebbe formare gli imam in Svizzera? Se sono integrati socialmente e sanno parlare la lingua del posto, per loro sarà più difficile predicare l’odio, com’è avvenuto nella moschea di Bienne.

Sì, certo la formazione degli imam in Svizzera è un’idea che sostengo. Tuttavia risolve solo in parte il problema. Per questo motivo, secondo me dovremmo elaborare una legge sull’islam, così come ha fatto l’Austria, in cui vengono chiarite e regolate a livello nazionale tutte le questioni spinose, per esempio il finanziamento, le bancarelle dell’organizzazione «Lies» (Leggi, ndr.), i padri spirituali mussulmani nelle prigioni e negli ospedali.

Lei è per una politica di «tolleranza zero». Dal 1° luglio 2016, in Ticino è in vigore il divieto di dissimulare il volto. Quando parla di politica di «tolleranza zero» pensa all’adozione di leggi analoghe a livello nazionale, così come vuole un’iniziativa antiburqa del comitato di Egerkingen?

No, mi riferisco soprattutto ai predicatori dell’odio e alle aberrazioni dell’islam politico. Le loro richieste nei confronti della società sono contrarie a ogni tipo di convenzione democratica: il rifiuto di stringere la mano a una donna, l’obbligo per le ragazze di portare il velo, il divieto per i bambini mussulmani di festeggiare con gli altri il Natale o l’introduzione di una segregazione di genere già a partire dell’infanzia. Nel Corano non si parla né di velo né di velo integrale per le donne mussulmane. È una tradizione

Ma il divieto di indossare il velo è compatibile con la libertà di espressione e di religione?

In Svizzera vivono circa 370mila musulmani. Stando a un recente rapporto sulle religioni della Fondazione Bertelsmann, i mussulmani sono ben integrati nel nostro Paese. Con una politica di «tolleranza zero» non rischiamo di alimentare un clima di sospetto generalizzato, di crescente islamofobia?

No, con una politica coerente e che non fa sconti agli integralisti difendiamo proprio il 95 per cento della comunità mussulmana, formata da credenti moderati, dalla minoranza estremista. Inoltre non cediamo completamente il campo politico ai populisti che spesso fomentano proprio questo clima di sospetto nei confronti di tutti i mussulmani. E poi va ricordato che i fondamentalisti islamici usano volentieri il termine «islamofobia» per zittire i mussulmani che li criticano. Infine nutro dubbi sulle cifre pubblicate nel rapporto della Fondazione Bertelsmann. Stando al sociologo esperto in materia di migrazione Ruud Koopmans, i dati pubblicati dalla fondazione tedesca contraddicono tutte le statistiche precedenti in cui si evidenzia che in Germania i mussulmani sono più spesso disoccupati dei non mussulmani. Bibliografia

Islamistische Drehscheibe Schweiz – Ein Blick hinter der Kulissen der Moscheen di Säida Keller-Messahli; edito da NZZ Libro, Neue Zürcher Zeitung, 2017, Zurigo.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 dicembre 2017 • N. 49

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Politica e Economia

Il miliardo della discordia

CH-UE L ’annuncio del rinnovo del contributo svizzero ai paesi più poveri dell’UE è stato contestato dall’UDC,

ma anche il PLR ha adottato una posizione critica, chiedendo di vincolarlo alla cancellazione della clausola ghigliottina

Marzio Rigonalli La decisione del Consiglio federale di stanziare 1,3 miliardi di franchi per finanziare progetti nei paesi più poveri dell’Unione europea, il cosiddetto miliardo di coesione, ha suscitato numerose reazioni dei partiti politici, le une favorevoli, le altre contrarie, che annunciano una nuovo scontro in seno alle Camere federali e anche nell’opinione pubblica, se si arriverà ad una votazione popolare. Prima di soffermarsi sulle reazioni dei partiti e sulle loro motivazioni, conviene però ricordare l’aiuto che la Svizzera ha fornito finora ai paesi dell’Europa orientale. Tutto cominciò nel 2004, quando dieci paesi – otto dell’Europa dell’Est, più Malta e Cipro – entrarono a far parte dell’Unione europea. Rispondendo ad un invito dell’UE di partecipare alla riduzione delle disuguaglianze economiche e sociali presenti in seno all’Unione, il Consiglio federale decise di stanziare un contributo di un miliardo di franchi per finanziare progetti di sviluppo nei nuovi Stati membri. L’aiuto venne spalmato su un periodo di dieci anni. Nel 2007, la decisione del governo venne confermata in votazione popolare, con il 53,4% dei partecipanti. Al miliardo iniziale s’aggiunsero poi 260 milioni di franchi per la Bulgaria e la Romania, diventate Stati membri dell’UE qualche anno dopo, e 45 milioni per la Croazia, ventottesimo ed ultimo paese ad entrare nell’Unione, nel 2013. Quest’anno, il primo contributo di coesione è arrivato a scadenza ed il Consiglio federale, dopo un lungo periodo, durante il quale le tergiversazioni si sono alternate con i tentativi diplomatici di ottenere in cambio da Bruxelles qualcosa di concreto, ha deciso di rinnovare il contributo per altri dieci anni. Il governo ritiene che quest’aiuto è nell’interesse della Confederazione, un po’ perché rappresenta il prezzo da pagare per accedere liberamente al mercato unico europeo, un po’ perché rafforza le buone relazioni con l’UE, che è il nostro principale partner economico. L’aiuto previsto è di 1,3 miliardi di

Fra le decine di progetti sostenuti con il primo miliardo per la coesione, anche la scolarizzazione e l’integrazione di ragazzi di etnia rom in Romania. (Keystone)

franchi, di cui 1,1 miliardi per finanziare nei paesi dell’Europa orientale progetti destinati a migliorare la formazione professionale ed a sostenere la lotta contro la disoccupazione dei giovani, nonché 200 milioni per far fronte ai problemi della migrazione. I soldi non vanno dunque nelle casse dell’Unione europea e, per la Svizzera, rappresentano una spesa annuale di 130 milioni di franchi. L’aiuto dovrà ancora essere approvato dalle Camere federali ed è possibile, se si raggiungerà un accordo tra i partiti, che anche il popolo venga chiamato ad esprimersi, come avvenne nel 2007 per il primo miliardo di coesione. Le reazioni dei partiti politici non si sono fatte attendere. Senza ricorrere a tante parole, socialisti e verdi hanno approvato la decisione del Consiglio federale. Anche il PPD, nonostante qualche voce interna critica, ha espresso il suo consenso e sostiene la presidente della Confederazione. Doris Leuthard si è impegnata per migliorare le relazioni con Bruxelles e per ripristinare quel clima di fiducia che vigeva prima dell’approvazione dell’iniziativa popolare contro l’immigrazione di massa, il 9 febbraio 2014. Lo ha fatto cercando di elaborare una strategia di cui fa parte

anche l’approvazione del nuovo miliardo di coesione e, probabilmente, anche con l’intento di concludere con un evento positivo il suo anno di presidenza. Per Doris Leuthard, la visita a Berna di Jean-Claude Juncker rappresenta già un piccolo successo, poiché l’ultima visita nella capitale federale di un presidente della Commissione europea, quella di José Barroso, risale addirittura al 2008. L’opposizione, senza se e senza ma, è arrivata dall’UDC, che ha subito parlato di sperpero di denaro e di regalo di Natale fatto all’Unione europea. È una posizione che non sorprende e che s’iscrive nell’opposizione radicale che questo partito esercita nei confronti dell’Unione europea. Un’opposizione che chiude la porta a qualsiasi accordo con l’UE e che si manifesta attraverso diversi canali. Attraverso l’iniziativa popolare che prevede il primato del diritto interno sul diritto internazionale; attraverso l’iniziativa popolare contro la libera circolazione delle persone, della quale presto si raccoglieranno le firme, e attraverso il rifiuto di un accordo istituzionale, qualunque sia il suo contenuto. Il presidente dell’UDC, Albert Roesti, ha dichiarato di voler

combattere il nuovo miliardo di coesione, dapprima in seno al parlamento e poi, se sarà necessario, in votazione popolare. Una votazione, però, che sarà possibile soltanto se verrà cambiata la norma vigente che esclude il referendum finanziario. Più sorprendente, invece, è stata la reazione della presidente del PLR. Petra Gössi chiede che lo stanziamento del miliardo di coesione sia vincolato ad alcune condizioni, in particolare alla cancellazione della «clausola-ghigliottina». La clausola riguarda gli Accordi bilaterali 1 e prevede che se uno dei sette accordi di questo pacchetto vien denunciato, anche gli altri sei verrebbero abrogati. La rivendicazione ha poche probabilità di venir accolta, perché l’UE ha voluto questa clausola proprio per impedire che la Svizzera possa scegliere tra i sette accordi quelli che ha interesse a mantenere e quelli che, invece, preferisce denunciare. Sarebbe interessante conoscere in merito il pensiero del nuovo ministro degli esteri Ignazio Cassis, esponente del PLR, e scoprire se il miliardo promesso verrà effettivamente legato a specifiche condizioni, soprattutto nel negoziato in vista dell’accordo istituzionale, accordo

che Jean-Claude Juncker ha definito di amicizia. Lo stanziamento del nuovo miliardo di coesione non è esente da critiche. Prima fra tutte quella che riguarda il rispetto della democrazia e dei suoi valori. Non è un mistero che alcuni paesi dell’Europa orientale, come per esempio la Polonia e l’Ungheria, stanno mettendo a dura prova la separazione dei poteri, l’indipendenza della giustizia, la libertà dei giornalisti, i diritti delle minoranze e l’azione delle ONG. Bruxelles sta lottando contro queste situazioni, ma non sembra ottenere molti risultati. Il sostegno svizzero a progetti per migliorare la formazione professionale e per lottare contro la disoccupazione giovanile è importante certo, ma andrebbe accompagnato da pressioni, per lo meno diplomatiche, per ottenere un maggiore rispetto dei diritti fondamentali. In secondo luogo, nella cifra globale promessa sono compresi anche 200 milioni destinati alla gestione dei flussi migratori. Non vien però specificato in quali paesi verranno versati. Non sarà sicuramente nell’Europa dell’Est, visto il rifiuto di quei paesi di accogliere gli immigrati. Non dovrebbero essere nemmeno nei paesi dell’Europa occidentale, considerato che non sono paesi poveri. Quindi, è auspicabile che vengano usati per finanziare progetti concreti di sviluppo in quegli Stati africani che potrebbero contribuire a ridurre il flusso migratorio verso l’Europa. Le condizioni che caratterizzano il nuovo miliardo promesso andrebbero, quindi, migliorate. L’impegno assunto è importante per la Svizzera, perché rafforza la via bilaterale e la nostra posizione nei confronti dell’Unione europea, che è il nostro principale partner non soltanto nel settore economico, ma anche in quelli della migrazione e della sicurezza. Un’eventuale rinuncia, per qualsiasi ragione si voglia, non sarebbe vantaggiosa. Indebolirebbe la nostra posizione negoziale e renderebbe più difficile il raggiungimento di nuovi traguardi su quella via bilaterale, che rimane la strada maestra nei nostri rapporti con l’Unione europea e che ancora oggi vien sostenuta dalla maggioranza della popolazione.

Economia dei «semafori» Analisi Quali sono gli incentivi di politica economica per «dinamizzare» la società, e quali gli ostacoli? Edoardo Beretta È indiscutibile che vi sia spesso scarso consenso su quali siano le migliori «ricette» economiche per rendere più agili le economie post-industriali. Ciononostante, non si può prescindere dal prendere in considerazione alcuni principi comunemente accettati, qualora si vogliano mantenere vitali sistemi economici ormai «maturi» (e, quindi, esposti al rischio di «sclerotizzazione» nei loro meccanismi di funzionamento). Alla stregua di un impianto semaforico con i suoi tre colori, la cui corretta impostazione è fondamentale quanto non sempre scontata, è compito dei policymaker trovare quel bilanciamento di misure economico-politiche da proporre alla società di afferenza. Ecco che un buon grado di liberalizzazione economica (fatta di privatizzazioni laddove necessarie o prevenzione da monopoli artificiali oltre che accordi suscettibili di interventi anti-trust) è spesso visto quale «volàno» economico. Lo stesso dicasi per procedure burocratiche «snelle», cioè più informatizzate per ridurne tempi e costi di elaborazione. Più complesso è, invece, il consenso sull’opportunità che gli apparati statali utilizzino meno la leva dei

trasferimenti fiscali (per redistribuire ricchezza) a vantaggio di un approccio rivolto a creare le premesse atte alla realizzazione lavorativa di ciascun individuo nel territorio di sua preferenza: in altri termini, perseguire qualcosa di assai simile al concetto di capabilities («capacità») teorizzato dal Premio Nobel Amartya Sen, sebbene in questo caso esso dovrebbe essere «rimodellato» su Paesi già benestanti. In altre parole, affinché le diseguaglianze e, talvolta, la stessa povertà possano essere mitigate (se non sconfitte) non è la sola imposizione fiscale a potervi contribuire, ma in primissima istanza l’accesso a tutte le possibilità di autorealizzazione (lavorativo-individuale-sociale). Il rischio sarebbe di «educare» fasce della popolazione ad essere dipendenti dall’inter-

Elaborazione propria

ventismo statale quando sarebbe sufficiente soltanto la creazione di lavoro o condizioni idonee per «salire di grado» al suo interno. In altre parole, lo spirito di rinnovamento dovrebbe divenire «chiave» delle prospettive di crescita economica futura. Con maggiore scetticismo si dovrebbe, quindi, valutare ogni iper-interventismo statale, che a crisi economico-finanziarie concluse dovrebbe cessare così da mantenere intatti quei margini d’espansione necessari a fronteggiare eventuali altre situazioni future di incertezza economica. Con ciò non si intende, tuttavia, che gli Stati debbano farsi carico della mala gestio di singoli attori (finanziari e non), pagandone i costi − come anche eventi recenti, invece, dimostrano − senza compartecipare ad eventuali futuri introiti (e, quindi, avallando un inaccettabile moral hazard da parte privata). Da un punto di vista imprenditoriale-aziendale l’accento dovrebbe essere piuttosto sul concetto di «produttività», che è oggi inteso come «produrre di più a parità di tempo». Invece, la «produttività 2.0» dovrebbe essere riassunta dal più calzante «produrre meglio in meno tempo». Ma quali sono i «semafori rossi»,

cioè quelle misure economico-politiche, che tendono a frenare la vitalità del funzionamento economico? Sicuramente, eccessiva burocrazia oltre che tassazione dell’attività produttiva sono disincentivanti al punto da creare in molti disinteresse ad espandere la propria attività lavorativa. Se tale concetto (noto oltralpe con kalte Progression) è assai diffuso, esso si è aggravato in molte nazioni europee in seguito alla Grande Recessione ed alle necessità di finanziamento degli Stati a fronte di già ingenti disavanzi o debiti pubblici. L’instabilità politica certo non agevola, e neppure ogni politica degli alti tassi di interesse: quest’ultima (se prolungata) può implicare il cosiddetto «effetto di spiazzamento» (crowding-out effect), in conseguenza di cui solo certi attori economico-istituzionali «forti» sarebbero in grado di rifinanziarsi, mentre una parte dell’economia più «debole» verrebbe esclusa dalla possibilità d’investire. Se ciò è avvenuto in paesi quali l’Italia negli anni Ottanta − sia menzionato soltanto il «picco» in termini di tassi d’interesse al prestito nel 1983 (22,3%)1 −, si potrebbe domandare quale sia ora il motivo per non investire in epoche (forse irripetibili) di bassi tassi d’interesse. Che si sia in molti casi

passati da uno stato di «spiazzamento» ad uno «spiaggiamento»? E che dire poi della scarsa propensione al rinnovamento non necessariamente della classe imprenditoriale quanto dell’approccio con cui affrontare gli «scogli» di volta in volta all’orizzonte? Se superare una recessione economica non è semplice, il fine ultimo dovrebbe essere sempre il perseguimento dell’«onda verde» per favorire lo scorrimento del traffico ed evitarne situazioni di congestionamento. La tendenza è piuttosto quella di ricorrere alla «leva fiscale» oltre che ad una (iper-)regolamentazione, cioè all’introduzione metaforica di un semaforo rosso o attraversamento pedonale di fronte ad un rondò (esautorando quest’ultimo dalla sua funzione di autoregolamentazione viabilistica). Se l’intento comune è effettivamente quello di aumentare la «velocità di corsa» delle moderne economie, non vi dovranno essere allora troppi «semafori rossi». Nota

1. http://databank. worldbank.org/data/reports. aspx?source=2&series=FR.INR. LEND&country=


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Politica e Economia

Gli effetti della rivoluzione digitale

Economia e mondo del lavoro Secondo studi recenti, il fenomeno della digitalizzazione e della robotizzazione

in Svizzera non provoca perdite di posti di lavoro, ma cambiamenti di settore e anche di professione

Ignazio Bonoli I progressi della tecnica, nel mondo del lavoro, si scontrano talvolta con una mano d’opera non sufficientemente preparata ad accogliere le novità. In un mondo che promette di intensificare questa evoluzione, il problema antico della sostituzione del lavoro dell’uomo con quello delle macchine è sempre più d’attualità. Siamo ormai alla vigilia del tempo in cui i robot sostituiranno la quasi totalità del lavoro manuale, o magari in cui l’intelligenza artificiale sostituirà buona parte di quella dell’uomo. Se consideriamo i progressi realizzati negli ultimi 50 anni, vediamo che anche in Svizzera il trasferimento dal lavoro dell’uomo verso quello delle macchine è stato costante. Se nel 1850 ancora quasi il 60% delle persone attive lavorava nel settore agricolo, questa percentuale è scesa oggi al 3%. Per contro, la percentuale di persone attive nel settore dei servizi, che era allora del 10%, è oggi salita al 75% circa. Durante un secolo anche l’industria ha costantemente aumentato il numero di addetti, ma dal 1960 il numero di occupati nel settore è sceso da quasi 50 al 20% circa. È quello che gli economisti chiamano evoluzione strutturale, aggiungendo che essa continuerà e si è già guadagnata l’appellativo di «rivoluzione digitale». La Confederazione ha pubblicato in proposito un rapporto interno e tre studi esterni. Questi studi constatano un trasferimento del lavoro

dell’uomo alla macchina negli ultimi 20 anni. Nel frattempo, sono aumentate le professioni che richiedono prestazioni elevate, mentre sono diminuite le professioni con esigenze medie. È rimasta invece stabile la percentuale di professioni con esigenze basse (vedi anche Angelo Rossi a pagina 35, ndr). Finora la formazione in Svizzera ha saputo reagire bene all’aumento delle esigenze. La disoccupazione (epurata delle oscillazioni congiunturali) è rimasta relativamente stabile a un livello basso e la discrepanza fra i profili richiesti per i posti liberi e le competenze di coloro che cercano un posto di lavoro, secondo gli ultimi rapporti, non è aumentata. Su un piano generale, si può vedere che il grado di occupazione negli ultimi 20 anni è sensibilmente aumentato, mentre la distribuzione dei redditi nella popolazione è rimasta stabile. Anche i rapporti di lavoro «precari», cioè il lavoro su chiamata o a tempo determinato, dal 2010 varia fra il 2,2 e il 2,5% degli occupati. Secondo gli studi di riferimento, la «digitalizzazione» nei prossimi decenni potrebbe provocare la diminuzione del 10% dei posti di lavoro attuali, ma nel contempo creare nuovi posti di lavoro, come indicano i cambiamenti strutturali avvenuti in passato. Secondo un’indagine recente, tra il 2010 e il 2015, in media annuale, tra il 10 e il 15% dei lavoratori hanno cambiato il settore in cui lavorano, mentre tra il 7 e il 10% hanno cambiato professione.

Oggi la domanda si è fatta più intensa per posizioni nella professione come quelle di personale dirigente, di economisti, di specialisti in informatica e nel settore della comunicazione, ma anche nel settore della salute per il personale di cura. È invece diminuita la domanda per il personale generico d’ufficio, per montatori e alcune specialità particolari. In base al profilo delle attività, dal 1926 sono andati persi circa 250’000 posti di lavoro nelle attività caratterizzate dalla «routine». Queste attività sono state trasferite su macchine, oppure all’estero. Per contro, l’economia ha creato circa 900’000 posti di lavoro in attività non di «routine», soprattutto in attività con elevate competenze sociali o analitiche. Inoltre i posti di lavoro perdono attrattività nella produzione, mentre ne guadagnano nella tecnica e nei servizi. Uno degli studi ha allestito una lista di competenze che diventano sempre più importanti: quelle affini all’informatica, flessibili, di consulenza alla clientela, adatte al lavoro di squadra, all’analisi di dati, alla creatività e alla comunicazione. Non siamo però al punto in cui le conoscenze di ordine generale devono lasciare il posto a quelle specifiche della professione. Si conferma, infatti, che queste ultime vengono acquisite soprattutto in azienda. Il sistema di formazione duale in Svizzera si rivela ben preparato per far fronte alla sfida della «digitalizzazione». Anche secondo i datori di lavoro

Un robot con sembianze umane nel centro commerciale di Glattbrugg, Zurigo. (Keystone)

non sono necessari grandi cambiamenti nel sistema di formazione. È però evidente che la formazione continua e l’aggiornamento delle conoscenze diventano sempre più importanti. Le statistiche dimostrano che la quota dei lavoratori con una formazione terziaria (Università, scuola universitaria professionale superiore, perfezionamento) dal 1966 è quasi raddoppiata, salendo

dal 22 al 41%. Già oggi, per esempio, il 90% circa dei diplomati di una scuola per apprendisti di commercio segue corsi di perfezionamento. Lo stesso Consiglio federale ha deciso di stanziare maggiori fondi sia per il miglioramento delle conoscenze di base, sia per il perfezionamento, tenendo conto che la «digitalizzazione» è ormai di casa in tutte le professioni. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi La frustrazione dei commentatori economici Di questi tempi, quello del commentatore economico è un mestiere poco entusiasmante. Non solo le tendenze di sviluppo non cambiano, ma i numeri che gli istituti, che studiano la congiuntura, non cessano di fornirci non sono tali da far montare il morale alle stelle. Il giornalista deve così ogni volta studiare con quali aggettivi si possa cambiare quello che passa il convento in un menù da ristorante con due o più stelle Michelin. Così qualche giorno fa ho potuto leggere, nella pagina economica di un quotidiano ticinese, che, nel 2018, l’economia svizzera conoscerà un’accelerazione del Pil e questo perché questo aggregato, l’anno prossimo, dovrebbe crescere dell’1,7% invece che dell’1% come pare crescerà quest’anno. Non esageriamo: nonostante il rialzo del tasso di crescita la nostra macchina economica continuerà a viaggiare in prima. È come se invece di viaggiare a 20 km

orari il prossimo anno viaggiasse a 34. Un bel colpo di acceleratore, non c’è che dire! Dovrà però stare attenta a che non la superino le economie che si muovono con la bicicletta. La crescita dell’economia svizzera, nel 2018, non sarà dunque soddisfacente. Non è che possiamo fare molto per cambiare la tendenza. Abbiamo un franco forte e qualcuno che quando vuole sa fare la voce grossa potrebbe imporci di rivalutarlo anche di più di quanto non stia facendo il mercato internazionale delle divise. Di conseguenza le nostre aziende esportatrici, che sono poi quelle che assicurano la parte maggiore della crescita del Pil, anche mettendocela tutta, faranno fatica a combattere la concorrenza. Cosa fare? Gli economisti che si occupano di queste difficoltà rispondono in coro (così, di recente, anche l’Istituto di Ricerche economiche dell’USI): «Aumentiamo la produttività del lavoro!»

Tuttavia, nell’immediato, non è che si possa fare molto se non cercando di tagliare sui costi del lavoro. Bella prospettiva per chi lavora! Capite perché uno che deve commentare questi fatti possa sentirsi frustrato? A più lungo termine vi sono gli scenari che promettono aiuto dalla digitalizzazione e dalla robotizzazione. Ma anche queste alternative comporteranno sacrifici per i lavoratori. È vero che gli studi disponibili – c’è un rapporto del Consiglio federale appena pubblicato – sostengono che la digitalizzazione creerà più posti di lavoro di quanti ne distruggerà. Purtroppo però questi studi raramente ci dicono in che rami (e quindi in che localizzazioni) si troveranno i posti che andranno persi e i posti che saranno creati. Quelli che si azzardano a fare qualche congettura ci dicono che a perdere saranno le professioni con qualifiche medie e a guadagnare quelle con qualifiche

basse o molto elevate. Per gli impiegati di commercio che perderanno il loro posto, sostituiti dal computer – non sarà di nessun sollievo apprendere che il settore sanitario non sarà in grado di assumere il numero di aiuto-infermieri che gli servirebbe. Perché? Perché fare l’aiuto-infermiere presuppone una formazione completamente diversa da quella che possiede l’impiegato di commercio. Non è che il problema della riqualifica (ma con la digitalizzazione andremo incontro anche alle dequalifiche) sia nuovo. L’abbiamo già conosciuto negli anni Settanta e Ottanta del passato secolo quando il settore industriale si è ristrutturato. E già allora abbiamo visto che non è facile far cambiare professione a una persona, specie se non è più un lavoratore di primo pelo. Ho l’impressione che la ristrutturazione dei rami del terziario, che ancora ci sta davanti, comporterà problemi di

mutamento delle qualifiche ancora più difficili da risolvere. Per fortuna queste trasformazioni (digitalizzazione, robotizzazione) si manifesteranno su un periodo di tempo abbastanza lungo (si parla di 10-15 anni) il che dovrebbe consentire anche alle autorità politiche – che, in democrazia, non possono muoversi che lentamente – di prendere i provvedimenti necessari. C’è anche chi suggerisce l’alternativa folle. In fondo la competitività dell’economia svizzera sarebbe più facile da difendere se non avessimo come divisa il franco, che continua a rivalutarsi. Perché non entriamo nella zona euro dove già ci sono paesi come la Germania, la Francia e l’Italia che figurano tra i maggiori nostri clienti? State tranquilli, cari lettori, chi la pensa così non ha voce in capitolo né presso il nostro ministro dell’economia, né presso quello degli esteri, né presso la nostra Banca nazionale.

pronunciati con la voce impastata dallo scotch) e dalla forza straordinaria delle parole e dall’empatia del capo con la nazione. Churchill non è un populista, anzi, è figlio di un’Inghilterra privilegiata e lo rivendica; ma sa che il cedimento al nazismo avrebbe conseguenze gravi soprattutto per la classe popolare. Non ha «il dono della sobrietà»: beve whisky a colazione, ha «una sregolatezza nel sangue» che gli viene sia da una madre «troppo diffusamente amata» e da un padre che era «come Dio: sempre impegnato altrove». La prima volta che si è fatto fotografare con le dita a V (non per Vendetta ma per Vittoria) l’ha fatto mostrando il dorso anziché il palmo della mano, con un gesto che nei quartieri popolari viene letto come oggi il dito medio. Non arricchisce parrucchieri come farà Hollande, né truccatori come Macron. Non è neppure stato eletto dal popolo; è subentrato al premier Neville Chamberlain perché è l’unico nome che i laburisti sono di-

sposti ad appoggiare per costruire una «grand coalition». Soprattutto, Churchill è solo. Può contare su una moglie devota (Kristin Scott Thomas) e su figli affezionati ma assenti. Il suo partito gli è ostile. Il suo alleato Roosevelt rifiuta di consegnargli gli aerei che il governo britannico ha pagato, «al massimo potete farli trainare in territorio canadese dai cavalli, ma niente di motorizzato» («cavalli?!» si dispera Churchill). Il suo primo grande discorso ai Comuni – «non ho nulla da offrire se non sangue, fatica, lacrime, sudore» – viene accolto dal gelo dei deputati. Il suo ministro degli Esteri, visconte Halifax, trama contro di lui e attraverso l’ambasciatore italiano avvia trattative di pace, cioè di resa. Il re, amico personale di Halifax, lo subisce. Gli offre la mano da baciare e se la strofina dietro la schiena. Gli propone di vedersi ogni lunedì alle 4 del pomeriggio e si sente rispondere: «A quell’ora dormo. Lavoro di notte». A pranzo gli chiede: «Come fa lei a bere sempre, anche di giorno?» («practice»,

allenamento, è la risposta). Eppure sarà proprio Giorgio VI, con la sua balbuzie resa ormai celebre sempre dal cinema (Il discorso del re), a consigliargli di ascoltare il popolo, e a confortarlo nella scena di non arrendersi, di combattere. E davvero viene da pensare come sarebbe cambiata la storia del mondo se il fratello Edoardo, filotedesco, non avesse abdicato per amore (una scelta assecondata da Churchill, con un misto di intuito preveggenza). Nel suo bel libro Fatherland, patria, Robert Harris ipotizza uno scenario drammatico: la resa dell’Inghilterra, la vittoria di Hitler nella Seconda guerra mondiale, una Russia trasformata dai nazisti in una landa semideserta di sottouomini rassegnati o ribelli. L’autore immagina che Hitler all’apice del trionfo sia stato tentato dall’idea di invadere pure la Svizzera, ma poi aveva deciso che una zona franca poteva servirgli anche sul piano diplomatico. Per fortuna Hitler nella realtà non ha vinto; proprio perché l’Inghilterra non si è arresa.

Harvard) hanno saputo trasmettere. Ho così potuto scoprire il discorso pronunciato nel 1964 da Ronald Reagan all’esordio sulla scena politica come governatore della California, quindi in anticipo sull’elezione a presidente degli Stati Uniti. Noto con il titolo A Time of choosing esso reca anche questo brano: «A voi e a me viene detto, con sempre maggiore insistenza, che dovremo scegliere fra destra e sinistra, ma vorrei suggerire che, in questo caso, non ci sono una destra e una sinistra. Vi è solo un alto e un basso. Si può salire verso l’alto, elevandosi all’antichissimo sogno dell’uomo di coniugare il massimo della libertà personale con un ordine legittimo. Oppure cadere in basso, nel formicaio del totalitarismo». Ammaliato dalla sorprendente attualità di queste parole, ho cercato nel testo anche qualche legame con le vicende di Argo 1. E alla fine l’ho trovato. Non nel discorso citato, ma nella risposta data da Reagan a un giornalista che gli aveva chiesto cosa fosse per lui la politica:

«È solo un pezzo dell’industria dello spettacolo». Sebbene pronunciato da un politico da sempre considerato poco più che un attore da strapazzo, questo giudizio rafforza la mia convinzione personale: anche Argo 1 è ormai puro spettacolo, uno sceneggiato lanciato ogni volta con variopinti riassunti, amplificato dall’industria mediatica nostrana e dai prolungati maneggi che la classe politica, volente o distratta, ha accettato di offrire con la partecipazione diretta o indiretta di funzionari. Chi scrive è uno della vecchia guardia, da sempre, e anche per natura, portato a credere che litigi e dispute nell’ambito della politica cantonale abbiano la stessa funzione di quelle lunghe aste degli acrobati. Stando agli storici, più che per camminare in sicurezza, le aste sono servite ai partiti ticinesi per tenersi in equilibrio sulla corda tesa fra «pessimismo della ragione» e «ottimismo della volontà». Per questo in passato dopo i litigi, dopo essersi aiutati con le aste a ribadire le proprie

posizioni, i partiti si limitavano a rinviare «con fiducia» conclusioni e verdetti alle inchieste e non alle grida degli strilloni. Ma i tempi morti non si addicono alla spettacolarizzazione. Così mesi e mesi di telenovele ora spingono il cittadino a trarre conclusioni, anziché che da tesi e opinioni dei partiti, da una aggrovigliata e sempre mutevole ridda di insinuazioni e interrogativi correlati. Una condizione resa inevitabile anche dal fatto che nella vicenda Argo 1 supposizioni e smentite vengono meticolosamente comunicate sempre in scala: 200 righe per editoriali e articolesse, solo 5 righe di numero per le smentite. Non deve nemmeno sorprendere che l’opinione pubblica faccia fatica a rendersi conto che sopra, o sotto, o a fianco dello «scandalo» dell’anno, ne esiste un altro, non meno grave: quello di una classe politica che, forse per paura del fango mediatico, non si preoccupa di rispettare le decisioni dei magistrati.

In&outlet di Aldo Cazzullo L’importanza di avere un leader Ho visto in anteprima un film che mi ha molto colpito. Si intitola The darkest hour, «L’ora più buia», ma potrebbe intitolarsi «L’importanza di avere un leader», o di esserlo. La scena chiave è quando Winston Churchill, premier da pochi giorni, sale in metropolitana. È la prima volta in vita sua, ha già tentato di farlo in un giorno di sciopero, ma si è perso. Nel vagone tutti lo riconoscono, e anziché insultarlo o ignorarlo come magari farebbero oggi, si alzano in piedi, gli danno la mano e si presentano. Churchill improvvisa un sondaggio: la Francia sta per capitolare, i nazisti preparano l’invasione dell’Inghilterra; bisogna trattare? «Never! Never!» gridano tutti, muratori, neri, donne, pure una bambina: «Mai!». Cosa bisogna fare, allora? «Fight!», combattere! È lì che Churchill, tentato dall’ipotesi trattare con Hitler attraverso «il lacché Mussolini», matura la sua scelta e il suo successivo discorso in Parlamento: «Combatteremo sui mari e sugli oceani, combatteremo con crescente fiducia

e crescente forza nell’aria, combatteremo sulle spiagge, combatteremo nei campi e nelle strade... Non ci arrenderemo mai». L’episodio della metro non è storicamente attestato, ma è verosimile. Churchill viveva tra il bunker e Westminster, ma talora si concedeva un’incursione tra la gente comune, spesso conclusa dalle lacrime. Il film di Joe Wright – uscirà prima in America, poi in Inghilterra, infine nel resto d’Europa – è l’ideale seguito di Dunkirk. Se l’opera di Christopher Nolan mostrava la reazione di un esercito e di un popolo, questa racconta i tormenti e la decisione di un leader. L’unica scena in comune è l’arrivo delle barche da diporto sulla spiaggia di Dunkerque, per riportare in Inghilterra «our boys», i nostri ragazzi, come li chiama Churchill. Per il resto è un film che rischierebbe di risultare claustrofobico, se non fosse per la recitazione di Gary Oldman (può apparire caricaturale solo a chi non ha ascoltato i discorsi di Churchill,

Zig-Zag di Ovidio Biffi Ricchi sempre solo per i litigi Continuo a seguire, cercando di farmi forza, il tortuosissimo dibattito sul caso Argo 1, «scandalo» che da mesi tiene banco in Ticino. Non intendo però proporre visite al ginepraio del contendere, né per riesumare galanterie da 150 euro, né per seguire «scoop» che mirano solo al bersaglio fisso: il passo indietro – come minimo la rinuncia a un settore del suo dipartimento, meglio ancora se le dimissioni – di un ministro del nostro governo. Tanto più che dopo mesi di avvitamenti e contorsioni ora abbiamo la sospirata (metaforicamente) commissione parlamentare di inchiesta, voluta a tutti i costi (e non sarà solo un modo di dire, purtroppo) in barba persino ai «non luogo a procedere» sanciti dalla magistratura (l’ultimo esclude la corruzione, quindi conferma le penose arrampicate sui vetri di chi pesca nel torbido). Simili avvenimenti, senza fare troppa dietrologia, ed evitando di riesumare analoghe vicende ormai sepolte nell’oblio, hanno sempre avuto

anche il merito di restituire attualità al giudizio che oltre 150 anni fa, nelle sue «Semplici verità ai Ticinesi», il Franscini ha posto sulle labbra del benemerito Bonstetten: «Queste genti che non hanno mai denaro per le utili cose (...) solo per i litigi sono elleno ricche e liberali». Detto oggi suonerebbe così: passano gli anni, cambiano scenari e persone, ma la natura «cantonticinese» sembra condannata a rimanere schiava (o prigioniera) dell’arte del litigio. Nei giorni in cui il vortice mediatico legato ad Argo 1 iniziava ad alzarsi, seguivo una bella iniziativa giornalistica, avviata durante l’estate dal quotidiano «il Foglio» e imitata anche da altri editori: discorsi storici, famosi perché pronunciati da personaggi che hanno segnato la storia, ma soprattutto per il messaggio politico o morale che gli autori (statisti, intellettuali, religiosi, scienziati: sabato l’altro, «il Foglio» ospitava il discorso della scrittrice J.K. Rowling in cui parlava di fallimenti e immaginazione ai neolaureati di


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Cultura e Spettacoli Una scrittura vibrante A quarant’anni dalla scomparsa, alle nostre latitudini si riscopre la figura di Clarice Lispector

The American Dream a Bruzella La mostra in corso fino al 10 dicembre alla Fondazione Rolla nell’ambito della Biennale dell’immagine di Chiasso è interamente dedicata al sogno americano pagina 43

Per un maestro francese Honoré Daumier, in mostra a Bellinzona, si contraddistingueva per il suo piglio polemico e ironico

Urs Fischer a Firenze L’irriverente artista svizzero si confronta con il passato senza rinunciare alla provocazione

pagina 45

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pagina 39

Beato denaro Pubblicazioni Nel delizioso Parli sempre

di soldi! Hans Magnus Enzensberger traccia una breve storia dell’economia

Luigi Forte Con le crisi finanziarie sempre in agguato la buona zia Fé farebbe comodo un po’ a tutti. Un’ottuagenaria ancora lucida e combattiva, che sa mettere in guardia di fronte ai rischi e ai tranelli del mercato e parla di economia con la vivacità di chi dispensa storie e favole per ragazzi. Del resto proprio a loro è rivolto il suo racconto: alla piccola Fanny, all’adolescente Fabian e alla diciottenne Felicitas, la più vecchia dei tre rampolli di casa Federmann al centro del «breve romanzo economico» (così suona il sottotitolo) del grande Hans Magnus Enzensberger, Parli sempre di soldi! edito da Einaudi nell’ottima versione di Isabella Amico di Meane con splendide illustrazioni di Riccardo Guasco. Ancora una volta lo scrittore bavarese, classe 1929, l’ultimo di quella agguerrita schiera di autori che nel dopoguerra rifondarono la letteratura tedesca, si cala nei panni del pedagogo illuminato e corrosivo. L’aveva già fatto, in forma ben più fantasiosa in Storie raccapriccianti di bambini prodigio pubblicato nel 2007 col nome di Linda Quilt, traducendo favole e storie per ragazzi in spassosi apologhi per adulti. Del resto un certo côté favolistico lo ha sempre accompagnato fin dall’inizio, arricchito dal gusto per il paradosso e l’ironia pronte a distruggere certezze e a seminare inquietudini tra gli apologeti del capitalismo. Lui è rimasto l’intellettuale di un tempo nei suoi vari ruoli di poeta e critico, romanziere e drammaturgo, nemico del vuoto che ci scava dentro il progresso e fautore del pessimismo della ragione che, sotto sotto, sembra nutrire anche l’originale zia Fé. Una signora della buona società, con una madre ebrea e un passato avventuroso, un bel po’ di quattrini e una villa sul lago di Ginevra con tanto di maggiordomo. Emigrata in America con i genitori al tempo del nazismo, aveva fatto la bella vita, frequentato la bohème newyorkese, girato il mondo e s’era sposata un paio di volte. Ora va a trovare, ogni tanto, i vecchi parenti, la famiglia Federmann che abita a Monaco di Baviera. E naturalmente alloggia in una suite del migliore albergo della città, il Vier Jahreszeiten. È qui che l’infaticabile prozia incontra i suoi nipoti

per spiegare loro l’abbiccì dell’economia e introdurli nell’universo del denaro, «l’invenzione delle invenzioni» a sentire lei. Felicitas e Fabian si mostrano entusiasti e perfino la piccola Fanny partecipa non di rado con gioia a quello strano evento mentre gusta panini, marzapane e coppe di gelato, incuriosita dall’amabile incantatrice che sciorina storie e definizioni bizzarre. Anche il lettore non sfugge alla bacchetta magica di zia Fé che trasforma il suo abbecedario in un racconto ricco di sorprese e curiosità. È il mago Enzensberger che ne guida il percorso traducendo i concetti più astrusi in godibili e chiare parafrasi. Non senza qualche escursione nei secoli passati quando parla della falsificazione del denaro o della creazione della cartamoneta che perfino Mefistofele elogia nel Faust, come ricorda la zia declamandone i versi. Ma alle banconote si aggiunsero col tempo ben altri foglietti, suggerisce l’insolita docente: cambiali, lettere di credito, assegni e un numero sempre maggiore di azioni, in origine artisticamente illustrate e dall’aspetto sfarzoso. Il quadro poi si arricchisce, fra l’altro, con le banche centrali, i fallimenti e i trucchi per ridurre il debito, l’inflazione (che, val la pena ricordarlo, viene dal latino flatus!), le aste pubbliche, la congiuntura e un tema oggi ben noto, e non solo ai più sprovveduti in materia, cioè i derivati, vere «armi di distruzione di massa della finanza». Nelle sue infinite divagazioni la zia Fé ricorda lo strano ometto apparso in sogno al piccolo Roberto, protagonista del libro Il mago dei numeri: (1997), che per molte notti gli proporrà giochi di prestigio facendogli scoprire l’universo misterioso e affascinante della matematica. Anche allora Enzensberger, come ora nei panni di zia Fé, si mostrava nel suo duplice ruolo di uomo dotto e scrittore, pedagogo e affabulatore. Mentre il racconto segue una sua calcolata drammaturgia: stacchi, pause, divagazioni, discussioni coi nipoti, assenze prolungate della cara vegliarda. Perfino una gita in bus nella vicina Repubblica Ceca, un tuffo nella piscina del prestigioso hotel monacense, una visita con Felicitas a un’asta di oggetti smarriti e un’avventura sul sentiero dei pianeti, lungo il fiume Isar. Insom-

A chi non fanno gola? (Keystone)

ma queste strane lezioni di economia diventano l’occasione per un dialogo incalzante fra una gioventù ansiosa di risposte e una vecchiaia vivace e disincantata che cerca di far luce sui rischi dei labirinti finanziari aiutando a progettare un possibile futuro. In realtà Enzensberger propone uno splendido apologo sul mondo moderno e le sue inevitabili contraddizioni, osservando le cose, come sempre, da un’ottica inusuale. Come quando parla del lusso a cui «dobbiamo i primordi del nostro benessere» e dell’epoca della Rivoluzione francese, in cui nacquero come funghi trattorie e bistrot. Per non parlare dei ricchi, ineluttabili come il tempo, uno strano zoo, di cui nessuna società è mai riuscita a sbarazzarsi: perfino il rivoluzionario Lenin guidava una Rolls-Royce esposta in un museo di Mosca. Gente comunque di altra le-

vatura se paragonata ai vip di oggi, che compaiono in tivú e sui tabloid, calciatori, popstar, casalinghe con il bestseller e maestri della chiacchiera. La zia Fé è troppo vecchia per cedere alle illusioni e sa che una società giusta, come la sogna il giovane Fabian, non è mai esistita. Ci hanno provato in tanti, ricorda, da Spartaco a Mao e Pol Pot, ma ogni tentativo è fallito. Il che non la esime dal tessere a sorpresa un elogio di Karl Marx che non era né un parolaio né un imbroglione. Sarà pure ricca la signora, ma ha anche una mente ben nutrita di passato e sa divagare senza preclusioni. Se non fosse per quel malore che mette fine alla sua vita chissà quante storie potrebbe ancora raccontare. Ma ai nipoti come ai suoi lettori lascia in eredità un originale Vademecum con gustose annotazioni e citazioni letterarie sul denaro. È la

giovane Felicitas, cui dobbiamo tutta questa storia che lo ha conservato in appendice. A lei è andata l’eredità della zia: certo un bel po’ di quattrini, ma soprattutto una sana lezione morale. Non si chiede che cosa farà dei soldi, ma piuttosto che cosa i soldi faranno di lei. Non certo una ricca ereditiera, avendo già donato un quinto del patrimonio. Perché ha deciso di guadagnare da sola nella vita quello di cui avrà bisogno. L’anziano Enzensberger non disdegna alla fine, come si vede, una piccola ma confortante dose di utopia. Bibliografia

H.M. Enzensberger, Parli sempre di soldi! Breve romanzo economico, traduzione di Isabella Amico di Meane, illustrazioni di Riccardo Guasco, Einaudi, p. 181, € 18,50.


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Cultura e Spettacoli

Nel vortice dell’istante

In memoriam Clarice Lispector, riflessioni a quarant’anni dalla morte

Daniele Bernardi Alcuni mesi fa Adelphi proponeva ai lettori la rinnovata versione di un’opera impossibile, vibrante e totale: Acqua viva, della ucraino-brasiliana Clarice Lispector (Chechelnyk, 1925 – Rio de Janeiro, 1977). La recente traduzione di Roberto Francavilla – che tra l’altro si è da poco occupato di un altro importante testo dell’autrice: il postumo Um Sopro de Vida (Pulsações) – consente di rinnovare l’interesse nei confronti di quella che è stata a più riprese definita, dopo Kafka, la maggiore scrittrice ebrea del ’900.

Clarice Lispector non si definiva una professionista: questo le dava maggiori libertà Anche se rappresenta la punta estrema di un percorso, Acqua viva è uno dei libri che bene evidenzia l’indole di una scrittura che non ha eguali: prosa senza trama, senza personaggi – se non sfuggenti, proteiformi –, si presenta come un impetuoso e controllatissimo flusso di coscienza che forza i margini del dicibile per catturare il sentire dell’essere nel tempo presente. Ma l’operazione della Lispector non è cervellotica né intellettuale; quasi fosse in contatto con abissi di più vasto

Se insieme ad Acqua viva si dovesse, in questo senso, indicare un capolavoro della scrittrice, un’opera in cui tale impegno ha raggiunto vette memorabili, probabilmente molti menzionerebbero anche un altro romanzo: La passione secondo G.H., del 1964. Come un gorgo da cui si irradia il vortice del delirio, qui l’espediente narrativo è ancora presente: G.H. è una donna della agiata borghesia di Rio che, sola in casa, improvvisamente, imbattutasi in una blatta, è colta da una visitazione mistica. Entrata in contatto con l’insetto, con la sua percezione del mondo, G.H. inizia un viaggio nella propria mente; un viaggio che non è esattamente introspezione o analisi, ma piuttosto canto e amplificazione dell’evento. L’intero universo sembra spalancare le porte alle pareti della stanza e ai pensieri della protagonista; un crepaccio che ingoia tutto si dilata di pagina in pagina a ritmo vertiginoso, fino a toccare il parossismo. Utilizzando il monologo interiore, procedendo per brevi capitoli le cui frasi conclusive si ripetono come incipit nei brani seguenti, la Lispector indaga i territori dell’estasi con esiti poetici altissimi, usando formule in cui sembrano riecheggiare le brucianti parole di Santa Teresa D’Avila: «Io ero in grembo a un’indifferenza immobile e attenta. E in grembo a un amore indifferente, a un indifferente sonno desto, a un dolore indifferente. In seno a un Dio del quale, se io l’amavo, non comprendevo cosa Egli volesse da me. Lo so, Egli voleva

respiro, la scrittrice sembra comunicare con alterità sovrannaturali che nulla hanno da spartire con gli acrobatismi dei meri artifici letterari («Io non sono una professionista», sosteneva fermamente in una celebre intervista del 1977, «scrivo quando ne ho voglia. Scrivo da dilettante e così voglio continuare. Una professionista ha l’obbligo di scrivere verso se stessa o verso gli altri. Io ci tengo a non essere una professionista per mantenere la mia libertà»). Clarice Lispector, che fu anche giornalista, scrisse racconti per bambini e, paradossalmente, pure alcune novelle su commissione, ottenne grandi risultati: dei suoi venti libri si citano qui il precoce Vicino al cuore selvaggio (Adelphi, 1987), i racconti riuniti in Legami familiari e in La passione del corpo (Feltrinelli, 1986 e 1987) e i romanzi ora raccolti in lingua italiana in Le passioni e i legami (Feltrinelli, 2013). Attraverso il suo tragitto si possono azzardare alcune ipotesi sugli intenti – certo inconsci – di un lavoro volto a usurare gli impianti narrativi in virtù di un segreto che pare occhieggiare fra le parole e le cose; sì, perché è come se la voce di Clarice, costantemente, volesse andare a stanare la frattura che separa la lingua dalla materia. Quel che risulta evidente è un continuo voler afferrare una realtà inviolata, non soggiogabile alle leggi del linguaggio; e rapimento, morte e corpo sono alcune delle parole-chiave attorno a cui si coagula la ricerca di una verità che vive oltre le righe.

Un’intensa immagine della scrittrice. (claricelispectorims.com.br)

che io fossi il suo uguale, che a Lui io mi uguagliassi mediante un amore di cui non ero capace». Lo stesso fuoco, la stessa passione, alimenterà altri romanzi-poemi in cui, come un’ossessione, la ricerca di un tutto irraggiungibile, di un punto di contatto totale e assoluto con un grande Altro, sembra pervadere completamente la volontà di chi scrive; è il caso di Acqua viva, ma pure, diversamente, con un sentimento di positività, di Un

apprendistato o, ancora, di quell’ardente testamento che è L’ora della stella. La riedizione di Acqua viva è un invito a riscoprire e a rileggere un’autrice straordinaria – classica ma, al contempo, eversiva e visionaria – che ha saputo innervare nella sua prosa la linfa della poesia più pura; con grande aspettativa e curiosità si resta perciò in attesa, da parte di Adelphi, della pubblicazione del suo testo più «definitivo»: il già citato Um Sopro de Vida (Pulsações).

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Cultura e Spettacoli

I capelli della duchessa

Pubblicazioni La storia – vera o presunta, ma che importa? – del piccolo scrivano che mangiava la carta

nel libro docu-fiction di Edgardo Franzosini Stefano Vassere «L’episodio che, più di qualsiasi altro, gli sembrava indicare che la fine del mondo è prossima, è il caso spaventoso verificatosi nell’isola di Gotland. Laggiù una mucca, emettendo lunghi, strazianti muggiti, ha partorito un vitello che ha la fronte ornata di piccoli riccioli, e una testa da cui spiove, in ciocche massicce, una capigliatura lunga circa mezzo metro, acconciata a canne d’organo, alla maniera di Marie Angélique de Scorailles de Roussille duchessa di Fontanges. Alla maniera cioè dell’amante di Luigi XIV». Per risolvere il caso, lo strano caso, del Favorito Johann Ernst Biren, il piccolo scrivano dalla bellezza molle e maestosa che mangiava la carta dei documenti, impiegato alla corte settecentesca dello svedese Carlo XII, furono sentiti molti pareri e convocato tra gli altri il vescovo di Brumsbo Jesper Swedberg, esperto nell’interpretazione di enigmi ed eventi straordinari, che prospettava la fine dell’umanità e del pianeta sulla base dell’attribuzione di un esito rovinoso a qualsiasi cosa sfuggisse a una ragionevole spiegazione. Servì a poco, perché Biren, per quel suo particolare e irresistibile appetito che coinvolse volgari scartafacci ma anche per esempio il testo di un trattato tra il re e lo Zar di tutte le Russie della cui redazione era stato incaricato, fu processato e condannato alla morte per decapitazione. A questa sfuggì

per raggiungere il ducato di Curlandia nell’odierna Lettonia. E qui sedusse (era bellissimo, già detto) la duchessa Anna, che poi sposò, diventando egli stesso duca di quelle terre. Parte della vita di Biren è raccontata in una parentesi narrativa delle Illusioni perdute di Balzac; la storia di Biren, di Balzac che la racconta e qualche altro dato (autentico o inventato, chi lo sa?) è nella nuova edizione, da poco rimasticata, di Il mangiatore di carta di Edgardo Franzosini. Spiega Roland Barthes che quando si leggono i classici, soprattutto quelli francesi e soprattutto quelli dell’Ottocento, bisogna prestare attenzione ai passi trascurati, ai capitoletti, apparentemente minori e riempitivi come questo; perché spesso essi nascondono «un segreto molto più grande e profondo», che non può essere narrato a quel punto del racconto perché il romanzo ha altri destini e altre priorità, ma che merita forse un rinvio, un’esplosione, un’altra relazione, un racconto a sé, addirittura un libro, come in questo caso. Biren è personaggio autentico ma non si sa tutto della sua vita, come se fosse una figura inventata; diventa insomma una figura letterariamente «aumentata». Balzac non lo richiama per caso, perché lui stesso era ossessionato sopra ogni cosa da due pratiche, la scrittura e il consumo di cibo: a proposito di quest’ultima, l’editore Edmond Werdet lo descrive come continuamente in preda

a un’avidità incontrollata e aggiunge estenuanti elenchi di cibi e portate e osserva mesto che «Balzac inghiottiva ogni cosa senza misericordia». Il libro di Edgardo Franzosini è narrativamente perfetto per tre motivi: la cornice ipernarrativa balzachiana, il ragionamento sull’opera letteraria e sui suoi autori, una inconsueta abilità nelle descrizioni di luoghi e persone. La stessa storia dello scrivano che si ciba di parole e delle sue parole è la storia di un «cercatore di infinito» e, in una vertigine infinita, questo libro è bello perché è supremamente un libro che racconta di un libro che racconta di libri. Quando durante la lettura di un classico arriviamo dalle parti di un quadrettocornice narrativo che ci apre come lo spiracolo di una vita, un biografema, sappiamolo, fermiamoci. «Una donna di nome Ester Jonsdotter che viveva in buona salute nella regione del Vaestmanland ha preso all’improvviso, di certo per l’influsso di qualche tenebrosa intelligenza, a parlare in tutte le lingue del mondo. Dalla vergogna ora vive in un bosco, all’interno del tronco cavo di un albero, nutrendosi di funghi». Bibliografia

Onnivoro: Ernst Johann von Biron o Biren. (Wikimedia Commons)

Edgardo Franzosini, Il mangiatore di carta. Alcuni anni della vita di Johann Ernst Biren, Palermo, Sellerio editore, 2017. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Bob Dylan e i cristiani

Musica Il nuovo volume dell’imponente

opera monografica ci mostra un Dylan in stato di grazia

Benedicta Froelich Era il lontano 1991 quando la Columbia Records pubblicò il primo volume di quella che sarebbe divenuta una delle opere rock monografiche a lungo termine più intriganti di sempre, e non solo per i fan di Bob Dylan: parliamo della cosiddetta Bootleg Series, che, come il nome stesso suggerisce, raccoglie, in edizione infine «ufficiale», incisioni precedentemente disponibili soltanto sotto forma di nastri abusivi registrati dai fan – dando così vita a una serie di testimonianze giunte a costituire veri e propri capisaldi nella lunga carriera dell’artista statunitense, recentemente coronata dal conferimento del premio Nobel.

Alla fine degli Anni Settanta Bob Dylan improvvisamente decise di diventare un «cristiano rinato» E oggi, a oltre venticinque anni da quella prima uscita, ecco giungere nei negozi il tredicesimo volume della collezione, il quale si distingue per il fatto di concentrarsi su uno dei periodi artistici solitamente considerati come «minori» dalla storiografia musicale ufficiale, esplorando a fondo il versante live di quella che, tra le molteplici fasi creative attraversate dall’artista in oltre cinquant’anni di carriera, può forse considerarsi la più controversa in assoluto: il cosiddetto «periodo cristiano», che, come qualsiasi «dylanologo» può confermare, ha sempre subìto attacchi alquanto acidi dalla stragrande maggioranza dei critici musicali. Anche perché questo periodo della camaleontica carriera di Dylan deve il suo appellativo alla conversione religiosa di Bob, il quale, alla fine degli anni 70, decise di colpo di diventare un cosiddetto «cristiano rinato» (Born Again Christian), ovvero un adepto di una delle tante sette evangeliche che spopolano negli Stati Uniti, nota ormai da decenni come la favorita da molti celebri «redenti» quali ex gangster e serial killer. Un ennesimo «cambiamento di pelle» che avrebbe avuto grandi e fondamentali ripercussioni sulla produzione artistica di Bob: al punto che, ascoltando questo doppio album, dall’eloquente titolo di Trouble No More, sorge il dubbio che l’entusiasmo da predicatore navigato con cui l’artista si buttò nella sua nuova «vocazione spirituale» – arrivando al punto di arringare il pubblico presente ai suoi concerti con veri e propri sermoni improvvisati – fosse in realtà poco più di un pretesto per permettergli di lanciarsi, dal punto di vista artistico, in un’av-

ventura mai tentata. Ecco quindi come colui che era stato il simbolo della canzone di protesta degli anni 60, per poi convertirsi dapprima al rock e in seguito perfino al country, sbalordì il mondo musicale gettandosi anima e corpo nel gospel più puro, e realizzando, tra il 1979 e il 1981, ben tre album dalle tematiche perlopiù religiose (Slow Train Coming, Saved e Shot of Love), intrisi di frasi e scenari mutuati direttamente dalle Sacre Scritture. Non solo: armato di ottime e qualificate coriste appartenenti a un mondo fino ad allora per lui sconosciuto, Dylan riuscì a calarsi a tal punto nel suo nuovo ruolo da riscoprire un’energia e un entusiasmo performativo davvero notevoli – proprio quei tratti che, oggi, emergono con maggior forza dall’ascolto di questo disco. Qualsiasi senso di disagio davanti al carattere apparentemente un po’ «bigotto» del contesto svanisce così come neve al sole non appena si arriva all’elemento più importante dell’equazione: ovvero, la musica. Sì, perché nonostante i tre album di cui sopra siano stati a dir poco disprezzati dagli scandalizzati commentatori musicali del tempo (e lo siano a tutt’oggi), nessuno può negare come il repertorio cosiddetto «cristiano» contenga brani di assoluta forza e potenza – al punto che il livello qualitativo resta molto alto lungo l’intera tracklist di questo doppio CD. Anche e soprattutto in quanto la resa dal vivo di un simile registro stilistico appare, anche a tanti anni di distanza, semplicemente perfetta, mostrandoci un Dylan talmente infervorato dalla sua opera di evangelizzazione da ritrovare un rigore e una potenza espressivi degni dei fasti giovanili: basti pensare alla forza drammatica di un pezzo solenne come In The Garden, incentrato sui fatti del Getsemani, o al senso di struggimento e solitudine esistenziale che permea le malinconiche riflessioni di Every Grain of Sand. Non solo: perfino i brani di carattere palesemente romantico (su tutti, gli struggenti Precious Angel e Caribbean Wind) mostrano un equilibrio perfetto tra liricità e forza melodica; e per chi teme che tutto ciò possa costituire un eccessivo allontanamento dal rock puro, pezzi come la travolgente cavalcata elettrica Solid Rock o il ritmato Watered-Down Love sono sufficienti a fugare ogni dubbio. Il che dimostra come ci siano buoni motivi per sperare che questa serie, tradizionalmente riservata ai fan più sfegatati del «menestrello di Duluth», possa costituire un regalo anche per gli ascoltatori casuali – i quali, complice l’attenzione che il Premio Nobel ha riportato su Dylan, potrebbero, tramite queste tracce, scoprire un lato poco noto di un artista destinato a essere ricordato come tra i più complessi e sfaccettati della storia del rock.

Storie alla periferia dell’impero Teatro A Locarno è andato in scena L’ora di ricevimento. Banlieue

di Stefano Massini, per la regia di Michele Placido Giorgio Thoeni La parola di Stefano Massini è ormai da considerare come un consolidato tracciato del verbo teatrale italiano. Dai primi anni del nuovo secolo a oggi la sua fortunata e perfetta macchina drammaturgica lo ha portato a firmare opere che hanno raccontato le tele di Van Gogh, la tragica storia della giornalista russa Anna Politkovskaja, il Gerolamo Savonarola di Don Gallo e la trilogia dei fratelli Lehman, fino alle rivendicazioni operaie di 7 minuti. E diverse altre ancora fino al recente adattamento de Il nome della rosa di Umberto Eco. In un certo senso per tutto ciò possiamo dire grazie al grande Luca Ronconi. È stato lui infatti ad accorgersi per primo del grande talento che ha «invaso» la scena italiana di questi ultimi anni facendo innamorare il pubblico grazie anche a grandi interpreti e grandi registi. Nell’opera del prolifico autore fiorentino pulsa un cuore sociale che si sposa a un’attenzione particolare e profonda verso i grandi temi dell’uomo, della donna, del lavoro, della famiglia, dell’individuo: tutti soggetti immersi nella storia contemporanea. Sguardi intelligenti che nascono da microstorie per parlarci di dimensioni più ampie in una dinamica spiccatamente teatrale dove il gioco drammaturgico si affida all’attore e alla sua abilità teatrale nel lasciare allo spettatore, e a lui solo, la capacità di riempire i vuoti con

La locandina dello spettacolo andato in scena a Locarno. (teatrostabile. umbria.it)

immagini tratte dal mondo esterno che viene evocato dalle parole del testo. Un esercizio che a Massini riesce molto bene anche con L’ora di ricevimento. Banlieue, dove la sua abile penna descrive la comunità multirazziale fra le mura di una scuola di periferia in cui si rispecchia il quotidiano scontro con la realtà. Quella fatta di differenze, di pregiudizi e di rabbia, di dialogo, spesso delicato e difficile, fra religioni. Massini è attento alle diversità e al gioco di equilibri che richiede la convivenza delle culture. Le cogliamo dal racconto del professor Ardeche, docente di letteratura in una scuola della «banlieue» di Tolosa. Il giorno del colloquio con i genitori degli allievi adolescenti è un rituale che mostra un affresco di umanità variopinte e controverse, a volte spigolose ed esigenti, testimoni di una società che sta cam-

biando. Ardeche ha capito che per non capitolare deve affrontare il suo lavoro con spirito zen e con un briciolo di cinica furbizia, sublimando le tensioni con la tolleranza e la letteratura, fra le pagine di Baudelaire e di Rabelais, illustri incognite per una giovane platea di ignari guerrieri. La regia di Michele Placido ha confezionato due ore di spettacolo intelligente e leggero prodotto dallo Stabile dell’Umbria. Ospite del Teatro di Locarno, Banlieue ha proposto un ispirato Fabrizio Bentivoglio nel ruolo del pedagogo protagonista accolto da numerosi applausi condivisi con Francesco Bolo Rossin (pavido collega dai toni sparati in falsetto), Giordano Agrusta, Arianna Ancarani, Carolina Balucani, Rabii Brahim, Vittoria Corallo, Andrea Iarlori, Balkissa Maiga, Giulia Zeetti e Marouane Zotti. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Fotografare un sogno

Gigliola Cinquetti e i suoi fan

vi è il sogno americano con i suoi miti e le sue zone d’ombra

Cinema Migrazioni

Biennale dell’immagine Al centro della mostra in corso alla Fondazione Rolla di Bruzella

di ieri e di oggi nel documentario di Olmo Cerri

Gian Franco Ragno Al centro dell’attuale esposizione allo spazio dell’ex-Asilo di Bruzella della Fondazione Rolla vi è un concetto centrale nella cultura del Novecento, il cosiddetto «sogno americano». Un’entità difficile da definire ma che potremmo dire consista nella possibilità, data dalla grandezza del paese oltre l’Atlantico, di inventarsi e affermarsi economicamente nella vita. Un sogno alla portata di tutti, a patto di impegnarsi duramente nel lavoro, come afferma a ogni passo la retorica americana. Se il sogno non è soggetto di facile ripresa, lo sono invece i riconoscimenti tangibili e gli status symbol, che costituiscono il precipitato di tale successo esistenziale, secondo una visione piuttosto limitata che fa coincidere l’affermazione personale con la propria capacità di spesa. Uno degli elementi centrali dell’universo ideologico delineato è proprio la casa unifamiliare, nella sua forma della classica villetta in zone suburbane, comprendente un ampio garage e il giardino con prato inglese. Al tempo stesso tempio e simbolo, contenuto e contenitore, essa si trova al centro di questa galassia. E non importa quanto il rifugio famigliare sia uguale a decine, centinaia di altri – come sembra suggerire una fotografia dall’alto della nota reporter Margaret Bourke-White negli anni Cinquanta. Come ogni sogno che si rispetti, esso si nutre di una mitologia: un immaginario costruito inizialmente dall’industria e dalla potenza visiva del cinema e più tardi – passato il testimone nel secondo dopoguerra – della televisione. A questo proposito risulta puntuale e riuscito l’inserimento di una delle immagini più meravigliose in mostra, ovvero una fotografia della celeberrima serie dei «cinema» di Hiroshi Sugimoto: lasciando l’obiettivo aperto per tutta la durata del film, e quindi racchiudendo idealmente l’intera pellicola in una singola immagine, il fotografo giapponese ci restituisce la forza

Fabio Fumagalli *** Non ho l’età, di Olmo Cerri, doc. con Gigliola Cinquetti, Carmela Schipani, Gabriella Brasson, Lorella Previero, Gregorio Montillo (CH 2017)

Margaret Bourke-White, Levittown, NY, 1951 printed 1961. (© Fondazione Rolla)

suggestiva di un rettangolo bianchissimo in un contesto illuminato parzialmente dal riflesso della proiezione. Si può dire che al pari degli scrittori della loro stessa generazione (penso a Don DeLillo, Philip Roth e Richard Ford) i fotografi americani abbiano testimoniato non solo le contraddizioni ma anche la piatta superficialità, la mancanza di ombre, la spoglia essenzialità del mito americano. In questo senso è centrale la figura di Robert Adams. Cresciuto nel selvaggio Colorado e formatosi sui grandi classici della letteratura americana come Walt Whitman, al suo ritorno nella terra natìa vede come l’uniformità stia cancellando la natura incontaminata del West. Senza proclami, fotografa e testimonia, con approccio fenomenologico, il cam-

biamento antropologico in atto. Così come farà Lewis Baltz, suo compagno nella fondamentale esposizione The New Topographics del 1974, anch’egli presente nella collettiva. Altri dettagli di un malinconico passaggio della presenza umana, ripresi dalle generazioni successive a colori, troveranno il loro capostipite in William Eggleston, primo autore ad aver esposto al Moma di New York con tale tecnica e qui presente con un enigmatico scatto, il quale sembra proseguire la strada indicata da Robert Frank. Come ricorda Christian Marazzi, autore di un piccolo contributo e dell’intervista a Phil Rolla contenuta nel consueto opuscolo che accompagna l’esposizione, la globalizzazione e le recenti crisi economiche hanno cambiato le carte in tavola: l’America – un tempo

The Land of Plenty, il paese dell’abbondanza – vive un brusco risveglio: perde posti di lavoro e centralità internazionale, oltre a vedersi bloccare il tanto celebrato ascensore sociale. Il suo sogno si è trasformato in disillusione. Tuttavia, prima di decretarne la morte, dovremmo interrogarci sul destino del «American Dream»: forse, esso vive altrove. E chi lo racconterà, nei suoi aspetti positivi e negativi, saranno probabilmente le nuove generazioni globali attraverso non più la fotografia ma nuovi media e inedite forme artistiche. Dove e quando

American Dream. Fondazione Rolla, Bruzella. Fino al 10 dicembre 2017. www.rolla.info

Un Brecht spumeggiante

Teatro L’opera da tre soldi ha aperto la stagione 2017-18 alla Schauspielhaus di Zurigo Marinella Polli Die Dreigroschenoper (L’Opera da Tre Soldi) di Bertolt Brecht, liberamente ispirata alla Beggar’s Opera (L’opera del mendicante) di John Gay, autore inglese del Settecento, e del musicista Pepush John, è sicuramente il testo più famoso di Bertolt Brecht e, per molti, una sorta di primo Manifesto dell’autore tedesco che, pur creando scandalo, ebbe quasi a partire da subito un enorme successo. Nonostante il titolo, non è un’opera, ma un testo teatrale che, utilizzando la musica e le canzoni di Kurt Weill, riesce a creare uno strano equilibrio fra le piacevoli melodie e la durezza del testo e la palese, perentoria critica ad una società in cui è proprio il fascino del denaro a rendere tutti uguali, cioè tutti corrotti, per cui ogni differenza fra buoni e cattivi scompare. Dietro un universo pullulante di delinquenti, soggetti malavitosi, pittoreschi straccioni e altri miserabili, Brecht disegna infatti il profilo della società tedesca dei suoi tempi pronta a consegnarsi a violenza, male e sadismo del nazismo ormai alle porte. Un nuovo allestimento della Dreigroschenoper è attualmente in cartellone alla Schauspielhaus di Zurigo per

Gli attori Jirka Zett ed Elisa Plüss. (© Matthias Horn)

la regia di Tina Lanik e con un cast di attori di alta caratura. Uno spettacolo spumeggiante, più che un allestimento impegnato, ma la regista tedesca riesce comunque a rappresentare il lavoro brechtiano come quel grande affresco nel quale rivivono le vicende di Macheath, detto Mackie Messer, il quale sposa Polly, ovvero la figlia di Peachum, strozzino e padre-padrone di tutti i mendicanti di Soho (nella Londra del primo Novecento o altrove, o in qua-

lunque altra epoca poco importa), il quale può operare anche grazie al corrotto capo della polizia Tiger Brown. Gli altri personaggi sono Lucy, figlia di Brown, la signora Peachum, Jenny, nonché uno stuolo di mendicanti, prostitute e guardie in un concitato intreccio di passioni e amorazzi, colpi di scena, varie peripezie e impiccagioni. Quella finale che tocca a Meckie Messer viene evitata grazie all’intervento della Regina... ed ecco che stavolta è

proprio opera, melodramma all’ennesima potenza, e va detto che l’intero cast asseconda la parodia della regista dando prova di notevole professionalità, vuoi nella recitazione vuoi, anche se un pochino meno, nel canto. Ci sono piaciuti soprattutto Jirka Zett nei panni di Meckie Messer, qui più giovanotto stravizioso che delinquente incallito, e Elisa Plüss in quelli di Polly nella cui ottica ci vengono proposte le vicende. Bravini Klaus Brömmelmeier nel ruolo di Peachum, Isabelle Menke in quelli di sua moglie, Fritz Fenne nella parte del capo della polizia e Miriam Maertens nella parte di Lucy, sua figlia, e Julia Kreusch quale sensuale Jenny delle Spelonche. Resta ancora da dire dell’eloquente scala molto scenografica di Bettina Meyer, dell’appropriato light design di Frank Bittermann, dei costumi di Heide Kastler, di Polina Lapkovskaja che dirige un’orchestra composta da una decina di elementi, nonché degli scroscianti e interminabili battimani la sera della première da parte di un teatro stracolmo all’indirizzo di tutti i partecipanti, ma soprattutto del team registico e di Jirka Zett e Elisa Plüss, e delle repliche che si protrarranno sino al 27 dicembre; altre sono previste poi nel mese di marzo 2018.

Non proprio per tutti, ma il 1964 era l’anno di un boom economico già ben assestato, dell’inaugurazione dell’Autostrada del Sole, di un Sessantotto che si profilava all’orizzonte. Del ricorrente Festival di Sanremo, che esisteva ormai dal 1951; ma del quale c’è stata quell’edizione particolare, vinta da Non ho l’età (per amarti) di Gigliola Cinquetti. In questo primo lungometraggio di Olmo Cerri l’immagine per tanti indimenticabile dell’esordiente sedicenne viene bruciata dopo le prime sequenze. Con quel suo profilo che oggi definiremmo minimalista, il viso pulito, il vestitino grigio, l’atteggiamento discreto ma già determinato; il tutto sottolineato alla perfezione dal bianco e nero, nel formato storico, quasi quadrato della RAI di allora. Gigliola (che oggi sembra disinteressarsi della faccenda), non la vedremo più. E giustamente, in un film del quale è sì protagonista, ma solo per interposte persone. Non c’è allora da meravigliarsi se così tanti emigranti, fra chi non aveva avuto la fortuna di beneficiare del crescente benessere, si fossero mossi a scrivere all’adolescente dal sorriso tanto rassicurante. 140’000 lettere, 400 dalla Svizzera, selezionate e ordinate dallo zio della cantante, ormai occupata da un successo che si farà universale; donate, infine, a un fondo presso l’Archivio della Scrittura popolare di Trento. Il cineasta Olmo Cerri e la storica Daniela Delmenico (autrice della tesi Ammiratori italiani sfortunatamente all’estero) hanno intrapreso un lungo percorso che dopo quattro anni di ricerche ha condotto al film con le sue quattro storie autentiche «migranti» approdati in Svizzera. Mettendosi accanto alle vicende così diverse ma eguali di Carmela, don Gregorio, Gabriella e Lorella, un gigante buono dal sorriso gentile come il regista Olmo Cerri ha costruito uno splendido, soprattutto significativo mosaico. Un insieme ricchissimo, a prima vista quasi debordante, di materiale che va perfettamente organizzandosi: documenti d’epoca in parte dimenticati (primi fra tutti quelli dell’inavvicinabile testimonianza di Alexander Seiler) e filmati contemporanei, girati con insolita adeguatezza a Berna come in Calabria. I personaggi sono magnifici: italiani in Svizzera i cui genitori, o spesso i nonni, sono diventati più svizzeri di noi. Altri invece, pur riconoscenti per quanto ricevuto, sono sì felici di essere a Winterthur, ma preferirebbero ritornare a Cosenza. Gigliola non c’è più, non ha voluto esserci, e forse il film non lo vedrà nemmeno. Ma Non ho l’età è diventata nuovamente una canzone per tutti.


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Cultura e Spettacoli

I ciliegi di Ljuba in bianco e nero Teatro L’ultima commedia di Cechov messa in scena da Lev Dodin nell’ambito degli appuntamenti

dedicati a Giorgio Strehler nel ventennale della morte Giovanni Fattorini Erano due gli aspetti che più vistosamente caratterizzavano Il giardino dei ciliegi che Lev Dodin portò a Milano nel 1998: uno era l’atmosfera notturna e a tratti luttuosa che avvolgeva la casa e il giardino di Ljubov Andreevna Ranevskaja; l’altro, il contrasto fra la recitazione realistica di impronta stanislavskiana e la scenografia accentuatamente antinaturalistica, specie nella zona occupata dal ciliegeto, con le piante distribuite in modo irregolare dietro altissime vetrate disposte come paraventi, in modo da produrre effetti di vetrofania e di labirinto specchiante, che trasformavano il dato naturalistico in un’immagine stilizzata, e dunque assai lontana dai modi espressivi del celebre allestimento stanislavskiano del 1904. Nello spettacolo del 2014 in scena per pochi giorni al Piccolo Teatro di Milano (primo appuntamento del programma di iniziative dedicate a Giorgio Strehler nel ventennale della morte), un enorme telo bianco listato a lutto separa il proscenio dal resto del palcoscenico immerso nel buio, fungendo da schermo per la proiezione di un filmato in bianco e nero (immagini di ciliegi in fiore sotto cui si muovono persone elegantemente vestite), girato forse da Lopachin prima che Ljuba, in seguito alla morte del marito e all’annegamento del figlioletto Grisha, decidesse di partire per Parigi, dove ha vissuto per cinque anni e da dove è ap-

pena tornata, lasciando un amante per il quale ha dilapidato il patrimonio (ragion per cui si rende necessario vendere la tenuta) e che le scrive chiedendole di tornare. Più che a ridestare nella mente e nel cuore di Ljuba la memoria nostalgica del tempo perduto, le immagini che compaiono sullo schermo listato a lutto sembrano destinate a suscitare negli spettatori un’inquietante sensazione di «ritorno del morto», simile e forse anche più forte di quella che Roland Barthes diceva di avvertire davanti a un ritratto fotografico (analogon del reale che porta inscritta la morte anche quando il soggetto fotografato è ancora in vita). Catturate dalla macchina da presa, le persone diventano infatti figure immateriali: spettri, fantasmi che possono ripetere all’infinito ciò che è avvenuto una volta sola. Diventano immateriali anche i personaggi della commedia allorché lasciano il proscenio e la platea, e sollevando il telo bianco entrano nello spazio buio dove la luce di un proiettore li trasforma in sagome di un teatro d’ombre. Il telo-schermo listato a lutto – che è la più importante invenzione dello spettacolo – manifesta così, compiutamente, il suo valore di simbolo: il che può dispiacere, come poteva dispiacere, nello spettacolo strehleriano del 1974, l’armadio troppo scopertamente simbolico di Ljuba, da cui erompeva una polverosa valanga di oggetti infantili. Fortemente simbolica è anche l’immagine finale del teloschermo-sipario che cadendo mette il vecchio servitore Firs – abbandonato da

Il giardino dei ciliegi nell’allestimento di Lev Dodin. (piccoloteatro.org)

tutti nella casa vuota e chiusa – davanti a un’enorme parete senza spiragli, fatta di travi ricavate dai tronchi abbattuti dei ciliegi. (Poco prima, Ljuba e il fratello Gaev se ne erano andati portando con sé le pellicole con le fantasmatiche immagini in bianco e nero del loro irrecuperabile passato). Memore delle lamentele di Cechov riguardanti la tonalità troppo uniformemente seria, troppo grave della messinscena di Stanislavskij (a proposito della quale ebbe a dire: «Non ho scritto un dramma, bensì una commedia, e a

tratti una farsa»), Dodin ha saputo creare momenti di leggerezza e persino di allegria. Ma l’atmosfera dello spettacolo non è complessivamente meno cupa, notturna e luttuosa di quella che caratterizzava l’allestimento del ’98. Lo sguardo del regista è partecipe ma non fa sconti a nessuno: né agli esponenti di una nobiltà terriera incapace di tenere il passo coi tempi e prossima ad essere travolta dalla Storia, né a un utopista inconcludente come Trofimov, né al nuovo ricco Lopachin (stupendamente interpretato da Danila Kozlovskij), che

nello spettacolo adombra in qualche modo la figura dell’odierno neo-capitalista russo, e che per la sua energia e la sua contraddittorietà diventa – come nello spettacolo del ’98 – il personaggio principale della commedia, mettendo in secondo piano la figura di Ljuba, interpretata dalla bella e brava Ksenia Rappoport, diversissima dalla Valentina Cortese che nel ’74 mi afflisse con il suo birignao, il suo bambineggiare, il suo scarruffarsi i capelli, il suo agitare le mani verso l’alto, come se stesse per esalare l’anima da un momento all’altro. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli Honoré Daumier, Lanterna magica!!!, 1869 Litografia. (© Kunsthaus Zürich, Grafische Sammlung)

Noemi Lapzeson, donna mondo Personaggi La grande ballerina

ha vinto il Gran Premio svizzero di danza Giorgia Del Don

L’arte umana di Honoré Daumier

Mostre A Bellinzona il Museo Civico Villa dei Cedri rende omaggio

al maestro francese Alessia Brughera

Per Parigi i decenni centrali dell’Ottocento sono un momento storico particolarmente movimentato sia sul piano politico sia su quello sociale: le rivendicazioni nazionaliste, la crescita di una classe borghese desiderosa di riscatto e di un ceto popolare ammaliato dalle promesse della seconda rivoluzione industriale innescano grandi cambiamenti portando con sé contraddizioni e squilibri. Critico sagace del rapido sviluppo che proietta la Ville Lumière nella modernità è Honoré Daumier, nato a Marsiglia nel 1808 e giunto con la famiglia a Parigi nel 1816 per assecondare le velleità di drammaturgo del padre vetraio. Proprio i temi cruciali che segnano la società parigina del suo tempo diventano il soggetto delle opere dell’artista, animate da un piglio insieme polemico e ironico, obiettivo e partecipe. Ed è soprattutto attraverso la caricatura giornalistica, più ancora che con la pittura e la scultura, che Daumier riesce a restituire un ritratto puntuale e dissacrante della metamorfosi della città, esortato da un profondo senso della giustizia che lo porta a farsi paladino degli umili e fustigatore dei corrotti e degli impostori. Da quando incomincia a collaborare con il giornale umoristico «La Caricature», fondato nel 1830 da Charles Philipon, Daumier si impone all’attenzione del pubblico per le sue vignette dai toni accesi della denuncia politica. L’artista, infatti, non si esime dal beffeggiare anche le figure più potenti del paese: nel 1831 la caricatura del re Luigi Filippo I nelle vesti di Gargantua, l’ingordo gigante nato dalla fantasia di Rabelais, effigiato nell’atto di divorare con avidità le risorse del popolo, gli costa una multa salata e sei mesi di carcere per lesa maestà. Quando poi, a causa dei provvedimenti emanati dal governo nel 1835, che sottopongono a pesanti censure le riviste satiriche, Daumier si vede costretto ad abbandonare i temi politici, non viene meno la sua impareggiabile abilità nel prendere di mira con sottile sarcasmo le incoerenze della società. La notorietà dei suoi lavori deve molto non solo alla scelta di un mezzo

popolare come la stampa ma anche a una tecnica, la litografia, che permette ampia diffusione e accessibilità da parte di tutti. Daumier si serve di questo procedimento artistico per sperimentare in senso espressivo la deformazione caricaturale e per dar vita a una galleria di personaggi esilaranti, talvolta grotteschi ma mai volgari, perché la sua critica si concentra soprattutto sull’uomo come essere sociale. È una commedia umana quella che va in scena nelle opere di Daumier: le falsità dei potenti, i vizi del ceto medio, le avversità dei disagiati. C’è satira graffiante e aspra, ma c’è anche una profonda riflessione sulle questioni più delicate come i conflitti tra notabili ed emarginati, la libertà di stampa, il potere giudiziario e le condizioni di vita precarie dei poveri. La mostra dal titolo Daumier: attualità e varietà che il Museo Civico Villa dei Cedri a Bellinzona dedica all’artista francese documenta la sua capacità di tradurre in immagini la complessa realtà del tempo attraverso uno stile colto e popolare, toccandone tutti gli aspetti con rispettosa schiettezza. Ecco allora che nelle oltre cento litografie e silografie esposte, il nucleo più corposo della rassegna, così come nelle sculture, una trentina in tutto, e nei disegni ci appare l’intero universo figurativo di Daumier, dispiegato nelle sale secondo un ordine tematico. Tra le stampe più significative degli esordi dell’artista troviamo la celebre Rue Transnonain, il 15 aprile 1834, realizzata da Daumier a seguito della sanguinosa repressione della sommossa dei tessitori incominciata a Lione e proseguita poi a Parigi, dove l’esercito massacra a colpi di baionetta dodici civili innocenti. Nell’opera l’artista non sceglie di rappresentare la vicenda nel momento di massima tensione bensì si focalizza sul corpo esanime di una vittima anonima mettendola al centro di una scena che lascia immaginare chiaramente tutta l’infamia dell’accaduto. Nei lavori che hanno per tema la vita quotidiana dei parigini tra sventure e momenti di svago è di particolare interesse la serie di litografie intitolata Inquilini e proprietari, in cui Daumier volge la sua attenzione al problema de-

gli alloggi precari. Con garbata ironia l’artista delinea istantanee che hanno per protagonista lo sfortunato cittadino costretto a dormire nei gabinetti pubblici, dentro a un barile o abbarbicato su di un albero, in attesa di una sistemazione più dignitosa. Altro punto debole della società bersagliato da Daumier è l’inquinato apparato legislativo, fatto di avvocati boriosi e giudici spietati: nella litografia Sì, vogliamo spogliare dei suoi beni questo povero orfanello..., appartenente alla serie Gli uomini della giustizia pubblicata sul giornale «Le Charivari» (con cui l’artista collabora regolarmente dal 1835), un avvocato fin troppo infervorato fa la sua arringa davanti a tre giudici placidamente addormentati. Nella mostra di Bellinzona sono esposte anche alcune stampe risalenti al 1850-1860, periodo in cui la censura di Napoleone III proibisce di trattare temi legati alla politica francese, costringendo così Daumier a rivolgersi a quella estera. Soggetto principale di queste opere è la difficile formazione dell’Europa, come testimoniato ad esempio dalla bella tavola dal titolo Inizio di un nuovo anno. Nemmeno l’arte stessa si sottrae al tratto beffardo e bonario di Daumier, che esegue numerose stampe in cui si sofferma sulla bigotta giuria del Salon e sull’ignoranza del pubblico: in Davanti al quadro del signor Manet, denuncia tutta l’ipocrisia e la grossolanità della borghesia ritraendo una coppia di visitatori ottusamente attonita dinnanzi all’Olympia di Edgar Manet, dipinto considerato scandaloso per la modernità con cui viene raffigurata la donna nuda. Con opere sospese tra ironia, critica e sentimento, Daumier restituisce brani di un’attualità complicata e multiforme, riuscendo a caricare la quotidianità di un valore universale che travalica il suo tempo per diventare vivido specchio di ogni epoca.

Noemi Lapzeson, laureata del prestigioso Gran Premio svizzero di danza 2017 (ricevuto prima di lei, nel 2015, da un altro importante coreografo ginevrino: Gilles Jobin), è stata a giustissimo titolo definita da uno dei membri della giuria (il giornalista e critico della danza Alexandre Demidoff) come una «donna mondo». Una metafora che colpisce nel segno condensando in poche ma azzeccate parole l’essenza di una ballerina e coreografa inclassificabile, sfuggente come il vento che sferza sul lago Lemano e appassionata come un passo di tango della sua Argentina natale. Nata nel 1940 a Buenos Aires, Noemi Lapzeson si è lasciata sin da giovanissima trasportare dal soffio della danza (per riprendere un termine di Anna Halprin) in senso proprio come figurato. Sostenuta da una famiglia straordinaria: padre avvocato «che detestava la sua professione» ma con una passione senza freni per il cinema che l’ha spinto a organizzare delle colorite riunioni in casa con il fior fiore della comunità artistica dell’epoca, e una mamma «eccezionale», fra le prime professoresse universitarie dell’Argentina, che l’ha sempre incitata a fare ciò che voleva ma «facendolo bene!», Noemi Lapzeson ha vissuto un’infanzia ricca di germogli che ha disseminato lungo tutto il suo cammino. Il primo fiore è sbocciato a New York dove si è trasferita a soli sedici anni per formarsi alla prestigiosa Julliard School. New York, «la capitale della danza» come la definisce lei stessa, una città che vibra e con la quale Noemi non tarderà ad entrare in comunione è anche la città d’adozione di un’altra grande artista: Marta Graham. Una figura maestosa, quasi sovrumana, «terrorizzante» e allo stesso tempo ammaliante che l’intriga in modo quasi epidermico. Dopo due anni di corsi diretti con pugno di ferro dalla papessa della danza contemporanea e di ruoli «secondari», Noemi Lapzeson riesce a ritagliarsi uno spazio nei ranghi alti della prestigiosa Martha Graham Dance Company. Opposta a ogni interazione, cinica, prigioniera dei suoi stessi demoni e sbalzi d’umore, la grandissima e tragica Martha Graham non è ormai più che l’ombra di se stessa. Sebbene volesse fare della giovane ballerina argentina uno dei suoi discepoli (arrivando a proporle di riprendere la sua compagnia!) è ancora una volta la libertà, il soffio vitale della danza a salvarla. È quindi a Londra, dove un mecenate della grande coreografa le propone di creare una compagnia «alla Graham», che Noemi fugge. Ricca degli insegnamenti di quella che si rivelerà essere sia un mentore (per quanto riguarda la tecnica) sia un contro-esempio (a livello pedagogico), Noemi Lapzeson comincia a scrivere la sua propria storia in quanto coreografa e persona. La tecnica di Martha Graham, intimamente legata al concetto di respirazione (vuoto e pieno) e al suo indissociabile rapporto con il movimento, rimarrà il punto centrale della pedago-

Dove e quando

Daumier: attualità e varietà. Museo Civico Villa dei Cedri, Bellinzona. Fino al 7 gennaio 2018. Orari: da me a ve 14.00-18.00; sa, do e festivi 10.00-18.00; lu e ma chiuso. www.villacedri.ch

L’intensa Noemi Lapzeson. (Keystone)

gia di Lepzeson. Lo yoga e l’importanza che quest’antica disciplina accorda al soffio vitale (Prana, Apana, Udana, Samana e Vyana) arricchiscono e trasformano in modo personale la sua maniera di vivere e trasmettere la danza. «Fare qualcos’altro rispetto a Graham… perché fare meglio è impossibile» questo è quello che Noemi Lapzeson si fissa come obiettivo principale. Un obiettivo che non si trasformerà mai in teoria, in principio dogmatico, ma che saprà comunque diffondere con un’esigenza mai dispotica, benevola e costantemente in movimento, arricchita da molteplici ispirazioni: letterarie, musicali e personali. Imparare come lei stessa dice «per meglio immergersi in se stessi». A differenza di Martha Graham alla quale è stata legata per ben dodici anni e la cui tecnica è iscritta nelle sue ossa, Noemi Lapzeson riserva all’ascolto e all’osservazione un posto di primo piano, «per non fare e non farsi male». A gioire di quest’approccio che si trasforma ben presto in vocabolario comune sono stati (e continuano ad esserlo) i ballerini della sua Vertical Danse, la prima compagnia indipendente di danza a ricevere il sostegno della Città di Ginevra che l’ha adottata da quasi quarant’anni. Alla città sul Lemano Noemi Lapzeson regala molte prime volte: i primi nudi su scena, i primi innesti fra danza e musica contemporanea, poesia e filosofia. Quando, quasi per caso la nostra «donna mondo» sbarca a Ginevra (in quanto insegnante al Ballet du Grand Théâtre, all’istituto Jaques-Dalcroze e alla scuola di Beatriz Consuelo, fondatrice del Ballet Junior) ai suoi occhi si presenta un immenso campo vergine tutto da seminare. All’inizio degli anni Ottanta infatti, in quella che si trasformerà con il tempo in una delle capitali svizzere della danza, la nozione di «danza contemporanea» è ancora sconosciuta sebbene gli addetti ai lavori comincino a riflettere sulla sua natura attraverso delle timide strutture indipendenti di ricerca (finanziate da privati e mecenati). È in questo clima e sulla scena della mitica Salle Patiño che Noemi Lapzeson fa germogliare i suoi fiori più belli. Durante buona parte della sua vita è nella capitale romanda che Noemi lavora e struttura la sua personale pedagogia, il suo linguaggio coreografico condiviso da numerose generazioni di ballerini (fra i quali Philippe Saire, Yann Marussich, Marcela San Pedro o Romina Pedroli) cullati dalla sua compagnia Vertical Danse fondata nel 1989. Noemi Lapzeson ha trasformato il proprio studio in patria, un territorio senza frontiere dove si parla una lingua misteriosa che nasce dalle ossa, dalle orecchie, dagli occhi e dal cuore. Un territorio dove confrontarsi con i propri limiti e attingere alle proprie infinite risorse, dove cadere e rialzarsi (per riprendere il concetto di «gravità paradossale» del poeta argentino Roberto che ha ispirato il nome della compagnia), godere del vuoto e del pieno, dove sperimentare insieme, in tutta libertà, il soffio vitale della danza.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 dicembre 2017 • N. 49

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Cultura e Spettacoli

Le invasioni del presente

L’anomalia musicale che funziona Jazz U n quartetto

Incontri A colloquio con Sergio Risaliti

eccezionale allo Studio 2 RSI, il 13 dicembre alle 21.00

che è la mente del progetto di Urs Fischer Ada Cattaneo Le opere dello svizzero Urs Fischer sono esposte – fino al 21 gennaio 2018 – in uno dei luoghi più emblematici del Rinascimento: Piazza della Signoria a Firenze. Classe 1973, Fischer si è formato in Svizzera e ad Amsterdam, per poi stabilirsi a New York; le sue opere, sempre ironiche, ma allo stesso tempo realizzate con grande cura per l’aspetto tecnico, sono state oggetto di numerose mostre personali, fra cui quella al Centre Pompidou di Parigi e al Kunsthaus di Zurigo, oltre che presentate di frequente a biennali. Come si poteva immaginare, molte sono state le critiche e le polemiche suscitate dall’accostamento tra le sculture di questo irriverente artista e alcune delle opere più note della storia dell’arte (come la Giuditta di Donatello, il David di Michelangelo, e che siano copie o originali poco importa). Ma, se si ha il tempo di soffermarsi e di approfondire, le connessioni fra le opere presentate e gli oggetti antichi che le circondano sono molte più di quanto si possa immaginare. Il direttore artistico del progetto, Sergio Risaliti, ci spiega in un’intervista questi nessi e ci aiuta, se ce ne fosse ancora bisogno, a non temere il contemporaneo. Ci può raccontare come è composta la mostra?

Si compone di tre opere: Big Clay #4, collocata al centro di Piazza della Signoria, in metallo e alta circa dodici metri, mentre altre due sculture in cera sono state posizionate presso l’arengario di Palazzo Vecchio, tra la Giuditta di Donatello e il David di Michelangelo. Queste ultime si intitolano Two Tuscan Men. Mentre Big Clay #4 rappresenta la materia ancora informe, ma che sta per prendere forma, i due ritratti in cera sono invece opere molto realistiche, tanto da sembrare quasi dei calchi, così come avveniva nella tradizione della ceroplastica, cioè la tecnica di modellare la cera. Ovviamente il calco vero e proprio non è stato effettuato, poiché i soggetti raffigurati sono tuttora viventi; si tratta invece di una renderizzazione in 3D realizzata in digitale.

Concorsi

Cosa rappresentano queste ultime due figure?

www.azione.ch/concorsi

Si tratta di Francesco Bonami e Fabrizio Moretti, rispettivamente curatore e promotore della mostra. I due sono associati ad altri elementi: nel caso di Moretti si tratta di una statua rinascimentale di cui egli è gelosamente proprietario, essendo collezionista e mercante d’arte. Bonami, invece, si erge su un basamento ben diverso da quelli classici: un frigorifero all’interno del quale sono conservati frutta, vegetali e altro. Mentre la figura di Moretti è rivolta verso la piazza, quella di Bonami, introversa, guarda verso le mura del palazzo. È girato di spalle, tutto concentrato sul telefonino che lo collega di attimo in attimo con il mondo. Le due statue sono in realtà delle candele, che vengono continuamente accese, così che la cera, via via con il tempo, si scioglie, creando quasi delle cascate di materiale. Il processo continua fino al punto di trasformare in una massa informe i due ritratti a grandezza naturale. Quindi, se in Big Clay #4 assistiamo a una fase di creazione della forma, nei due ritratti è raffigurato il processo inverso: la distruzione.

Ciò che è raffigurato si consuma, distruggendosi. Questo avviene proprio nel luogo della massima celebrazione, cioè l’arengario. Nel caso di Big Clay #4, che tanto scandalo ha suscitato, la massa è come appena modellata dall’artista infante, che in questo caso sceglie quindi di comportarsi proprio come un bambino quando gli si dia un po’ di creta con cui giocare: la manipola, senza preoccupazione figurativa. Si tratta del gesto istintivo di plasmare la materia morbida, per sentirne il piacere stesso sotto le dita, fermandosi al punto in cui essa non ha preso una forma esemplare. L’artista crea così un piccolo modello, poi elaborato dal computer e ingigantito. Sul metallo si riscontrano quindi le impronte del polpastrello, il segno della mano che ha lavorato.

Urs Fischer, Fabrizio e Francesco 2017. ( Courtesy of the Artist, Photo by Mattia Marasco / MUS.E)

tecnologie. Un domani forse saranno i robot a occuparsene.

Ci ha appena raccontato che Two Tuscan Men sono opere realizzate in cera. Esiste un collegamento con l’uso di questo materiale nella tradizione scultorea?

Sicuramente. A pochi passi si trova il Perseo di Cellini, che è stato una delle grandi avventure rinascimentali della scultura in bronzo, realizzata con la tecnica della cera persa, con dimensioni monumentali. Poi c’è anche un’altra tradizione europea che ha avuto il suo centro proprio qui: Firenze fu la capitale della ceroplastica dal Trecento in poi, fino a tutto il Seicento. Figure in cera, anche a grandezza naturale, erano appese nelle chiese di Orsanmichele e della Santissima Annunziata. Nelle strade del quartiere tra Piazza Duomo e i Servi erano numerose le botteghe degli artigiani della ceroplastica. I grandi scultori si sono sempre serviti di questo materiale per realizzare i modelli preparatori, ma hanno anche realizzato vere e proprie sculture – conosciamo le vicende perfino di celebri ritratti medicei in cera – che per logici motivi di conservazione non ci sono quasi mai state tramandate.

in cui questa venga presentata al di fuori dei luoghi ad essa deputati?

Non vedo difficoltà: vedo prevalentemente disinteresse e superficialità. Ma, in ogni modo, qui essa smette di essere autoreferenziale. Qui non è più discussa o giudicata da un pubblico specifico e specializzato, educato alle sequenze iconografiche, formali, tecniche. Quando si entra in uno spazio pubblico, della rilevanza storica e universale come Piazza Signoria, tutto cambia. È come se noi vedessimo improvvisamente inserita una parte contemporanea in un affresco del Quattrocento. Lo riterremmo uno sfregio, una violenza. Quando un’opera contemporanea entra in un contesto storicizzato ci sentiamo turbati perché essa ci pone di fronte alla realtà odierna. Si infrange allora quel sogno idealistico di eterno presente che è la bellezza rinascimentale. Firenze si sta impegnando molto per portare il contemporaneo in città. Forse non ci si può accontentare di essere stati un grande centro artistico nel passato?

Si è molto discusso di queste opere, spesso con toni estremamente critici. Come vede la difficoltà di molto pubblico di fronte all’arte del presente, soprattutto nel momento

Con il sindaco Dario Nardella, da alcuni anni, stiamo portando avanti questo percorso. Si tratta di un piano articolato, fatto di tanti episodi. Abbiamo operato in più luoghi, considerando la città come vero e proprio laboratorio culturale e non come una vetrina a disposizione del mercato dell’arte. In quest’ottica, ogni luogo è potenzialmente un centro di arte contemporanea. Al Forte Belvedere abbiamo organizzato le mostre di Penone, Gormley, Fabre. Abbiamo portato opere contemporanee al Museo Bardini. Quest’anno ci siamo espansi, entrando agli Uffizi con le opere di Kounellis e Paolini, e ai Giardini di Boboli con Mimmo Paladino. Una disseminazione del contemporaneo nei luoghi conclamati del patrimonio storico. Ma la funzione più dirompente per questo rinnovamento è di certo da attribuire a Piazza della Signoria, centro nevralgico dell’antropologia culturale cittadina.

Coro Calicantus Musica vocale Chiesa S. Francesco , Locarno Domenica 10 dicembre ore 17.00

Lugano in Scena Stagione teatrale LAC Sala Teatro, Lugano Martedì 12 dicembre ore 20.30

Tra Jazz e nuove musiche Rassegna di RETE DUE Studio 2 RSI, Lugano Besso Mercoledì 13 dicembre ore 21.00

Concerto di Natale

Romeo e Giulietta

A Novel of Anomaly

Con 150 allievi della scuola Calicantus. Simona Crociani, pianoforte Deolinda Giovannettina, violino Réné Fontana, violoncello Mauro Fiero, Contrabbasso Italo Pesce, batteria, Flaviano Braga, fisarmonica e bandoneon Mario Fontana, direzione e chitarra

Adattamento Sylvia Milton e Davide Gasparro. Regia Davide Gasparro. Scene e costumi Eleonora Rossi. Luci Manuel Frenda. Produzione Compagnia BezoarT

Andreas Schaerer, voce Luciano Biondini, fisarmonica Kalle Kalima, chitarre Lucas Niggli, batteria e percussioni

www.corocalicantus.org

www.luganoinscena.ch

www.rsi.ch/jazz

Regolamento Migros Ticino offre ai lettori biglietti gratuiti per le manifestazioni sopra menzionate.

Massimo due biglietti per economia domestica. La partecipazione è riservata a chi non ha beneficiato di vincite in occasione di analoghe promozioni nel corso degli scorsi mesi.

Per concorrere, segui le istruzioni contenute nella pagina del sito www.azione.ch/concorsi.

Il passaggio al computer è solo funzionale oppure è nodale nel percorso creativo?

È un passaggio epocale, nel senso che è perfettamente attinente alla nostra epoca. Mentre il genio antico, rinascimentale o barocco, si poteva servire dei suoi scalpellini, oggi l’artista contemporaneo si può servire delle nuove

Da quanto ci sta raccontando sembra che le opere di Fischer esposte in Piazza della Signoria siano molto più legate alla tradizione artistica fiorentina di quanto appaia da un’osservazione superficiale.

Sì, più di quanto appaia. E non da ultimo ricordiamo che proprio lì in Piazza Signoria si sciolse in un rogo terribile il corpo di Savonarola. Quindi la piazza viene usata in senso simbolico, ma anche in quanto luogo antropologico, dell’esibizione e dell’imposizione del potere, oltre che dell’espiazione tramite il sacrificio.

Biglietti in palio per gli eventi sostenuti dal Percento culturale di Migros Ticino

Una produzione RSI Rete Due Diretta radiofonica su Rete Due

Buona fortuna!

I musicisti che compongono la band protagonista dell’ultimo concerto di Tra jazz e nuove musiche, rassegna di RETE DUE, curata da Paolo Keller con il sostegno del Percento culturale di Migros Ticino, si sono dati un nome letterario. A Novel of Anomaly (potremmo tradurlo come Il romanzo di un’anomalia) è un quartetto, se non proprio anomalo, perlomeno molto originale per quello che riguarda la provenienza dei suoi membri, la strumentazione scelta ma anche per il suo repertorio. Al centro della formazione naturalmente c’è la personalità vulcanica e virtuosistica del vocalist svizzero Andreas Schaerer (vedi intervista su «Azione 27» del 3 luglio scorso). Il suo ruolo lo mette inevitabilmente in posizione predominante, sia in quanto istrione e maestro di cerimonie del gruppo, sia per il suo ruolo di compositore. Ma occorre dire fin da subito che A Novel of Anomaly (e in questo è molto meno anomala di quanto si dichiari) trae la propria originalità e la sua forza dalla libertà espressiva che concede ai suoi membri. Il fisarmo-

Biondini, Kalima, Niggli e Schaerer. (andreasschaerer.com)

nicista italiano Luciano Biondini, il chitarrista scandinavo Kalle Kalima e il batterista elvetico Lucas Niggli partecipano alla creazione con tutta la forza della loro poetica personale e contribuiscono, questo sì, a dar forma a un jazz anomalo. Le inflessioni melanconiche della fisarmonica, strumento dalla personalità timbrica che richiama atmosfere folk, si sposano quindi con le sonorità elettriche, nervose e taglienti della chitarra, sostenute e contrappuntate dal lavoro intelligente e articolato della batteria. Il tutto dà luogo a un originalissimo paesaggio musicale, ricco di sorprese e di elementi inaspettati, su cui la voce di Schaerer può trovare un terreno d’appoggio ideale per le sue escursioni sperimentali e ardite. Proprio in ragione della sua originalità e forza espressiva, il gruppo si è conquistato quest’anno la possibilità di rappresentare la Svizzera alla Fiera europea del jazz di Brema. Subito dopo ha pubblicato il suo primo album, A Novel of Anomaly, per la casa discografica tedesca Act Music. Il disco contiene undici brani che rispecchiano esattamente la poetica multiforme del gruppo e traducono l’impegno di armonizzazione e valorizzazione degli stili dei singoli artisti. «Abbiamo cominciato utilizzando brani che avevamo composto in precedenza ma col passare del tempo ci siamo concentrati sulla creazione di pezzi nostri, originali, che riflettessero la nostra personale visione dello stile del gruppo» spiega Schaerer. Il risultato è uno dei più interessanti contributi al jazz svizzero contemporaneo. /AZ


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Idee e acquisti per la settimana

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shopping Buongusto secondo tradizione

Attualità Dai salumi ricercati ai paté più raffinati, ecco gli antipasti che non possono assolutamente mancare durante

Flavia Leuenberger Ceppi

Per dare il via con stile ai banchetti di fine anno ci sono delle pietanze che per molti commensali sono dei veri e propri must. Di queste fanno parte gli affettati misti e i paté, cibi che da sempre seducono qualsiasi palato. Nel ricco assortimento dei reparti salumeria e gastronomia dei supermercati Migros troverete una variegata proposta di prodotti pregiati e deliziosi appositamente selezionati per le festività. Perché non sorprendere i vostri ospiti con la Bresaola Black Angus? Questa specialità è prodotta con carne di una delle più antiche e pregiate razze bovine. La caratteristica marezzatura conferisce al salume un sapore marcatamente dolce. Il Lardo di Colonnata, dal canto suo, è uno dei salumi più rinomati della Toscana. Stagionato in vasche di marmo di Carrara per almeno sei mesi, possiede una morbidezza senza pari e un aroma deciso. Il gusto particolare del Salame Gran Riserva Rapelli a pasta grossa è dovuto agli ingredienti scelti con cura, alla miscela segreta di spezie utilizzata e alla lunga stagionatura a cui è sottoposto. Il Prosciutto San Daniele Selezione Speciale arricchisce qualunque tagliere di salumi misti. Prodotto esclusivamente nell’omonimo comune del Friuli, deve la sua morbidezza e la sua dolcezza alla particolare salatura a secco e alla stagionatura di almeno 13 mesi all’aria delle colline friulane. Un’idea squisita da regalare, o regalarsi, è di sicuro la Selezione Bottega Rapelli. Questo grande piatto misto per aperitivi o antipasti è composto da prosciutto crudo S. Pietro, salame classico, prosciutto crudo bellavista e salame grottino rustico. Infine, ecco i paté e le terrine, una grande tradizione della cucina francese, che da tempo ha conquistato anche qui da noi i favori dei consumatori. La scelta include innumerevoli proposte gustose, da più classici paté di fegato a quelli profumati al tartufo estivo e alle noci, passando per il finissimo paté di coniglio fino ai raffinati paté avvolti in un soffice manto di crosta che deliziano ogni palato. L’assortimento completo di queste specialità è disponibile nelle maggiori filiali Migros.

Flavia Leuenberger Ceppi

le occasioni speciali


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Idee e acquisti per la settimana

Il dizionario del dolce Natale Attualità Sfogliando nell’assortimento Migros, una delizia regionale alla volta...

Gianfranco Cuoco, Lostallo – Gonfiotto ai marroni Fratelli Buletti, Airolo – Panettone, Pandoro e Torrone

«T» per tradizione. Per fare i dolci natalizi tradizionali occorre tempo. È così per panettone e pandoro dei Fratelli Buletti. Caratteristica dei due lievitati è l’uso del burro d’alpeggio proveniente dalla regione del S. Gottardo, ingrediente ricco di omega 3 che contribuisce al sapore e alla digeribilità. A questi prodotti, il laboratorio affianca il classico torrone morbido, fatto con nocciole italiane, mandorle, pistacchi e molto miele. Ingredienti di prima scelta, assaggiati e scelti dai due fratelli.

«F» per finezza. Qualità che contraddistingue il delicato Gonfiotto ai marroni del laboratorio di Gianfranco Cuoco a Lostallo. Dai sapori equilibrati e note aromatiche arricchite dalla presenza di burro di un caseificio alpino, l’impasto del lievitato è arricchito ed addolcito da marrons glacés. Cuoco consiglia di gustare la delizia con del buon champagne secco per controbilanciare la dolcezza delle castagne candite nell’impasto e della classica glassa alle mandorle e armelline. Dello stesso produttore a breve arriverà anche la Stella alla cannella.

Poncini, Maggia – Triestina al cioccolato

Illustrazione: Sergio Simona; Testo: Luisa Jane Rusconi

«G» per generosa. La Triestina al cioccolato della panetteria Poncini non lesina in bontà, genuinità e qualità. Il segreto è un impasto ricco di burro che, come il resto degli ingredienti, è di altissima qualità. Il risultato è una nuvola soffice e alveolata, puntellata da gocce di cioccolato fondente e coperta in superficie da una glassa alle mandorle e cioccolato. Una delicata combinazione di sapori che si sciolgono armoniosamente in bocca.

Dolce Monaco, Losone – Panettone al Gianduja

«C» per cremoso. Nel panettone al Gianduja della Confetteria e Panetteria Dolce Monaco di Losone il dolce cioccolatino rende più ghiotto il soffice impasto. Morbidezza e croccantezza si incontrano esaltando il sapore della crema di nocciole in un concerto di gusti e consistenze, che dal primo assaggio avvolgono il palato. La glassa croccante, la morbidezza dell’impasto e la cremosità delle nocciole che si sciolgono lentamente in bocca lo rendono un dolce irresistibile.

Bottega del Fornaio, Mendrisio – Panettone tradizionale

«N» per naturale. La naturalezza contraddistingue il panettone tradizionale de La Bottega del Fornaio di Mendrisio. Essendo privo di additivi e conservanti la genuinità del prodotto non permette una conservazione lunghissima. Un’ottima scusa per non lasciarne nemmeno una fetta. Se così fosse Mastro Piff consiglia di scaldare in padella le fette, senza burro essendo questo l’ingrediente principale del dolce lievitato, facendole leggermente biscottare.


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Idee e acquisti per la settimana

Semplicemente gustose Attualità Le fondue di carne sono tra i piatti preferiti in occasione delle festività di fine anno. Ecco qualche consiglio

per un banchetto eccezionale

Fondue chinoise

Flavia Leuenberger Ceppi

La chinoise è la versione più leggera tra le fondue di carne perchè viene cotta nel brodo. I pezzi più indicati per la fondue chinoise sono il filetto o lo scamone di manzo o vitello, come pure i vari tagli di bistecca, il filetto e la lonza di maiale oppure anche il petto di pollo o tacchino. La carne deve essere di prima qualità e tagliata a fettine sottili. Un brodo gustoso può essere preparato in anticipo aggiungendo verdure quali p.es. cipolla, carota, porro, sedano e spezie come pepe, alloro e peperoncino. Una goccia di sherry conferisce al brodo un sapore particolarmente delicato. Alla fine del pasto si può utilizzare il brodo avanzato per preparare un saporito risotto. Fondue bourguignonne

Detta anche Fondue alla moda della Borgogna, è la variante più sostanziosa. Si prepara cuocendo in olio bollente o grasso dei dadini di carne varia quali filetto o scamone di manzo e filetto di maiale. La carne non dovrebbe essere lasciata troppo a lungo nell’olio affinché rimanga tenera e succosa. Il grasso di cottura può essere composto da olio di girasole, di arachidi, di colza oppu-

re anche da grasso di cocco che risulta meglio digeribile. Una patata cruda aggiunta all’olio evita che quest’ultimo bruci. Infine, entrambe le fondue riescono pienamente se la carne viene gustata con sfiziose salsine dai gusti

più disparati. Togliere la carne dal frigo un’ora prima del consumo. Prenotazioni

Sul nostro sito web avete la possibilità di ordinare e comporre comodamen-

te da casa il vostro vassoio di fondue chinoise o bourguignonne fresche e di scegliere in quale supermercato Migros ritirarlo. Come alternativa potete ovviamente riservare le specialità rivolgendovi ai nostri specialisti

del banco carne, i quali sono a vostra completa disposizione per ricette speciali, consigli personalizzati e astuzie per sorprendere gli ospiti. www.migros.ch/bancone

La Salsèta nostrana

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Che si tratti di chinoise oppure bourguignonne, le salsine sono il complemento imprescindibile di questi piatti conviviali. Che ne direste di accompagnare la carne con delle salse prodotte nella nostra regione? Infatti, per un periodo limitato i supermercati di Migros Ticino propongono sui propri scaffali la «Salsèta nostrana» in tre appetitosi gusti: al pepe aromatizzato, all’aglio orsino e al peperoncino. Il pepe utilizzato nella preparazione è quello «storico» della Valle Maggia, il suo ideatore, Virgilio Matasci, lo sviluppò negli anni ottanta arricchendo la spezia con vino, grappa, whiskey e ulteriori aromi segreti. Oltre al pepe, Virgilio Matasci si occupa pure della coltivazione di aglio orsino, uno degli altri saporiti ingredienti delle salse. Dal Malcantone arriva invece il peperoncino che conferisce una delicata nota piccante alla terza salsa dell’assortimento. Ad occuparsi della coltivazione è l’orticoltore di Magliaso Raffaele Gianola. Occorre notare che, rispetto alle salse convenzionali, le tre salse nostrane sono più leggere

perché composte principalmente da genuino Yogurt. Il latticino proviene dalla Agroval di Airolo, azienda già conosciuta e apprezzata dalla clientela per i suoi yogurt di montagna presenti da Migros Ticino in oltre dieci gusti. Infine, l’accurata produzione artigianale è affidata alla Best Gourmet di Gravesano, azienda attiva sul nostro territorio da oltre 20 anni e da sempre attenta alla valorizzazione dei prodotti ticinesi. Salsa al pepe aromatizzato in Valle Maggia 100 g Fr. 5.10 Salsa all’aglio orsino della Valle Maggia 100 g Fr. 5.10 Salsa al peperoncino del Malcantone 100 g Fr. 5.10 In vendita al reparto refrigerati delle maggiori filiali Migros


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Idee e acquisti per la settimana

Il camion di Natale Pista di pattinaggio al Centro Migros Coca-Cola di S. Antonino venerdì a S. Antonino Imperdibile appuntamento per piccoli e grandi, questo venerdì 8 dicembre: dalle ore 11.30 alle 18.00 il celebre camion di Natale della Coca-Cola, protagonista di molti spot TV, in occasione del suo tour prenatalizio attraverso la Svizzera, farà tappa al Centro Migros di

S. Antonino. I visitatori potranno ammirare l’imponente e sfavillante autocarro americano «Kenworth W900» dall’inconfondibile design, e persino posare con il «vero» Babbo Natale per una foto ricordo da portare a casa. Prendete nota!

Per rendere più divertenti le festività natalizie, fino al 5 gennaio Migros Ticino ha in serbo a S. Antonino una sorpresa molto speciale: all’esterno del centro commerciale è stata allestita una fantastica pista di pattinaggio sintetica dove poter trascorrere indimenticabili momenti di svago. E tutto questo gratuitamente. La pista è agibile tutti i giorni, dalle ore 10.00 fino

Panethon il panettone di Telethon Panethon Panettone Classico 120 g Fr. 4.– In vendita nelle maggiori filiali Migros.

Acquistando il panettoncino Panethon - prodotto dalla Panetteria-Pasticceria Pane Amico di Lugano - non gustate solamente qualcosa di buono, ma fate anche del bene. Parte dei proventi del suo acquisto, infatti, viene destinata alla Fondazione Telethon Azione Svizzera per sostenere progetti di ricerca e aiuto sociale in favore di persone colpite da malattie genetiche rare e dei loro familiari. Non va inoltre dimenticato che venerdì 8 e sabato 9 dicembre avrà luogo in tutta la Svizzera la tradizionale raccolta fondi per Telethon. Per l’occasione anche nella Svizzera italiana sono moltissimi gli eventi e le manifestazioni in programma. La totalità dei fondi netti raccolti viene utilizzata per sostenere progetti di ricerca (50 per cento) e per il sostegno sociale (50 per cento). In Svizzera sono oltre 500 mila le persone con una malattia genetica rara, mentre nella Svizzera italiana a essere confrontati con queste patologie invalidanti sono oltre 600 persone. Per continuare ad assicurare loro una migliore qualità di vita è fondamentale la generosità di ognuno di noi. www.telethon.ch

Virtual Reality Show Il Melectronics del Centro Migros di S. Antonino ospita dal 6 al 9 dicembre il Virtual Reality & Gaming Roadshow HP e Acer. I gamer partecipanti potranno non solo affrontarsi in live testing con allettanti premi in palio, ma potranno anche approfittare di riduzioni speciali su molti prodotti

alla chiusura del centro. I pattini si possono noleggiare direttamente sul posto oppure anche portare da casa. Per tutta la durata dell’evento non mancherà di certo un piacevole e coinvolgente intrattenimento musicale a tema natalizio. Insomma, una meravigliosa esperienza per tutta la famiglia. Vi aspettiamo numerosissimi!

Aiutaci a decorare l’albero di Natale

selezionati dei due celebri marchi d’elettronica e d’intrattenimento. Inoltre i migliori giocatori che si sfideranno nella VR-Zone avranno la possibilità, con un po’ di fortuna, di portarsi a casa degli ambiti accessori di Gaming e vincere delle carte regalo Migros del valore di 100 franchi.

Dal 6 dicembre al 5 gennaio i Ristoranti Migros di Agno, Grancia, S. Antonino e Serfontana celebreranno la gioia del Natale con una divertente attività rivolta a tutti i bambini. In uno spazio dei ristoranti appositamente dedicato, i piccoli artisti avranno la possibilità di decorare delle bocce di Natale uti-

lizzando le tecniche più disparate messe loro a disposizione, tra cui matite, stampini, pennarelli, colori e glitter. Le bocce così create saranno utilizzate per decorare l’alberello dei ristoranti. Tra tutti i partecipanti verranno inoltre estratti a sorte i vincitori che si aggiudicheranno fantastici premi, quali entrate a Splash e Spa di Rivera e a Gardaland, feste di compleanno Lilibiggs, oppure ancora menu gratuiti per bambini nei Ristoranti Migros. Venite a trovarci!


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Idee e acquisti per la settimana

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Idee e acquisti per la settimana

Suggerimento Ognuno può contribuire alla promozione della biodiversità: chi ha un giardino o un grande balcone, può appendere delle casette per la nidificazione e mettere a disposizione degli insetti rifugi in legno. I piccoli animali, come i ricci, in inverno cercano rifugio sotto le cataste di legna.

TerraSuisse

Al servizio del benessere degli animali

TerraSuisse scamone di manzo 1-2 pezzi, per 100 g al prezzo del giorno

La carne proveniente da aziende agricole controllate è un prodotto prezioso. La carne di manzo a marchio «TerraSuisse» è sinonimo di benessere degli animali, allevamenti rispettosi dell’ambiente e delle risorse, così come di promozione della biodiversità Testo: Claudia Schmidt Illustrazione: Mira Gisler

TerraSuisse fettine di manzo à la minute 3-4 pezzi, per 100 g al prezzo del giorno

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In collaborazione con la Stazione ornitologica di Sempach e con IP-Suisse, l’associazione svizzera degli agricoltori che praticano la produzione integrata, nel 2007 Migros ha dato vita al marchio «TerraSuisse». Un articolato regolamento funge da filo conduttore per le circa 11 000 aziende agricole che producono secondo i principi IP-Suisse. Grazie a misure mirate per promuovere la biodiversità, gli agricoltori IP-Suisse creano ulteriori spazi vitali naturali per piante e animali rari. Per l’ingrasso dei bovini si applicano regole speciali, soggette a uno stretto controllo.

La stabulazione dei bovini avviene in stalle particolarmente rispettose degli animali, caratterizzate dal cosiddetto sistema ad aree multiple. I bovini hanno ambienti separati, con zone coperte di paglia per riposare e zone per mangiare. Da questi spazi gli animali hanno in ogni momento la libertà di uscita all’aperto.

1

Gli animali ricevono il foraggio in un’apposita area separata. Anche il mangime sottostà alle linee guida di IP-Suisse e garantisce un’alimentazione rispettosa degli animali. I bovini ricevono inoltre mangimi prodotti dell’azienda agricola, come mais, foraggio insilato e fieno.

2

La libertà di movimento secondo URA («uscita regolare all‘aperto») garantisce agli animali l’accesso all’aria fresca in ogni momento, e non solo a orari definiti. Ciò ha effetti positivi sulla salute degli animali e comporta anche una migliore qualità della carne.

3

Con le casette per la nidificazione gli agricoltori che producono per «TerraSuisse» contribuiscono alla biodiversità. Nelle loro fattorie, gli agricoltori IP-Suisse creano ulteriori spazi vitali a favore di piante e animali rari, anche grazie a mucchi di sassi, cataste di legna e zone con fiori selvatici.

4

TerraSuisse spezzatino di manzo per 100 g al prezzo del giorno

4 Gli animali crescono in gruppo e con libertà di movimento in aziende agricole IP-Suisse rispettose della specie. Parte di

TerraSuisse Sminuzzato di manzo per 100 g al prezzo del giorno


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Idee e acquisti per la settimana

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La stabulazione dei bovini avviene in stalle particolarmente rispettose degli animali, caratterizzate dal cosiddetto sistema ad aree multiple. I bovini hanno ambienti separati, con zone coperte di paglia per riposare e zone per mangiare. Da questi spazi gli animali hanno in ogni momento la libertà di uscita all’aperto.

1

Gli animali ricevono il foraggio in un’apposita area separata. Anche il mangime sottostà alle linee guida di IP-Suisse e garantisce un’alimentazione rispettosa degli animali. I bovini ricevono inoltre mangimi prodotti dell’azienda agricola, come mais, foraggio insilato e fieno.

2

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20% Tutte le creme Dessert Tradition in conf. da 4 per es. alla vaniglia, 4 x 175 g, 4.15 invece di 5.20

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Tutti i tè e le tisane Yogi Tea, bio a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione

conf. da 3 conf. da 4

40% Pizza M-Classic in conf. da 4 per es. pizza del padrone, 4 x 400 g, 12.90 invece di 21.60

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20% Gnocchi e fettuccine Anna’s Best in conf. da 2 per es. gnocchi di patate al basilico, 2 x 500 g, 7.20 invece di 9.–

OFFERTE VALIDE SOLO DAL 5.12 ALL’11.12.2017, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

– .5 0

di riduzione Tutti i tipi di pane fresco bio per es. Twister bianco, 360 g, 2.80 invece di 3.30

30%

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Branches Frey in conf. da 50, UTZ Classic, Eimalzin o Noir, per es. Classic, 50 x 27 g, 12.30 invece di 24.75


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a partire da 2 confezioni

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Tutti i sofficini M-Classic prodotti surgelati, a partire da 2 confezioni, 20% di riduzione

14.55 invece di 24.30 Gamberetti tail-on Pelican, ASC surgelati, 750 g

50% Pommes Chips M-Classic in conf. speciale al naturale e alla paprica, per es. alla paprica, 400 g, 3.– invece di 6.–

a partire da 2 confezioni

– .5 0

di riduzione l’una Tutta la pasta Garofalo non refrigerata, a partire da 2 confezioni, –.50 di riduzione l’una, per es. fusillone, 500 g, 2.20 invece di 2.70

50% Tutti i tipi di Pepsi e Schwip Schwap in conf. da 6, 6 x 1,5 l per es. Pepsi Max, 5.50 invece di 11.–

2.85 invece di 5.70 Vittel in conf. da 6, 6 x 1,5 l

OFFERTE VALIDE SOLO DAL 5.12 ALL’11.12.2017, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

Tutto l’assortimento di stoviglie Cucina & Tavola di porcellana e di vetro a partire da 2 pezzi, 50% di riduzione, offerta valida fino al 18.12.2017

Olio d’oliva Monini Classico o Delicato in conf. da 2 per es. Classico, 2 x 1 l, 19.20 invece di 25.60

50%

Tutti i tovaglioli, le tovagliette e le tovaglie di carta Cucina & Tavola e Duni, FSC a partire da 2 confezioni, 50% di riduzione, offerta valida fino al 18.12.2017

50%

25%

Tutto l’assortimento Condy sottaceti e antipasti, per es. cetrioli alle erbe aromatiche, 270 g, 1.50 invece di 1.90

50%

a partire da 2 pezzi

conf. da 2

20%

a partire da 2 confezioni

conf. da 2 a partire da 2 confezioni

–.60

di riduzione l’una Tutto l’assortimento Blévita a partire da 2 confezioni, –.60 di riduzione l’una, per es. al sesamo, 295 g, 2.70 invece di 3.30

20%

25.40 invece di 31.80 Detersivi Total in conf. da 2 per es. 1 for all, 2 x 2 l, offerta valida fino al 18.12.2017

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Tutto l’assortimento di bicchieri Cucina & Tavola a partire da 2 confezioni, 50% di riduzione, offerta valida fino al 18.12.2017

50% Tutto l’assortimento di padelle Greenpan in acciaio inox, indicate anche per i fornelli a induzione, per es. padella a bordo basso Miami Marathon, Ø 28 cm, il pezzo, 29.50 invece di 59.–, offerta valida fino al 18.12.2017


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Altre offerte. Frutta e verdura

Tutti i tipi di latte Junior e di proseguimento Nestlé (latte di tipo 1 escluso), a partire da 2 pezzi 25% **

Fiori e piante

Farina bianca TerraSuisse da 1 kg, a partire da 3 pezzi 30% Arachidi bio, Egitto, in busta da 500 g, 3.80 invece di 5.80 33%

Pesce, carne e pollame

Minirose Fairtrade, mazzo da 20, lunghezza dello stelo 40 cm, disponibili in diversi colori, per es. arancioni, 10.95 invece di 12.90 15%

conf. da 2

33% Shampoo Nivea in conf. da 3 per es. Classic Care, 3 x 250 ml, 6.50 invece di 9.75

20% Saponi I am, Esthetic, pH balance e Nivea in confezioni multiple per es. sapone Milk Honey I am in conf. da 2, 2 x 300 ml, 4.60 invece di 5.80

Tutti gli antipasti Arte italiana Polli, a partire da 2 pezzi 20%

Filetti di agnello, Australia / Nuova Zelanda, imballati, per 100 g, 4.20 invece di 5.60 25% Costolette di vitello TerraSuisse, Svizzera, imballate, per 100 g, 4.60 invece di 5.80 20%

Pane e latticini

Tavolette di cioccolato Frey da 100 g in confezioni multiple, UTZ, al latte finissimo, al latte e alle nocciole, Noir 72% e Les Délices Blanc Croquant, per es. al latte finissimo in conf. da 10, 14.– invece di 20.– 30% Tutte le decorazioni per l’albero di Natale Frey, UTZ, per es. cioccolatini al latte da appendere all’albero, vuoti, assortiti, 300 g, 7.80 10x Punti

Michette precotte M-Classic in conf. da 1 kg e panini al latte precotti M-Classic in conf. da 600 g, TerraSuisse, per es. michette, 1 kg, 3.85 invece di 5.75 33%

conf. da 7

Hit

14.90

Calzini sportivi da uomo John Adams, neri, in conf. da 7 per es. numeri 43–46

conf. da 2

20%

17.80 invece di 22.40 Detersivi per capi delicati Yvette in conf. da 2 per es. Care, 2 x 2 l

conf. da 2

15%

Scatola con antipasti per le feste Happy Hour, prodotti surgelati, 1308 g, 11.55 invece di 16.50 30% Pomodori secchi Polli, 285 g, 2.60 invece di 3.30 a partire da 2 pezzi 20%

Altri alimenti conf. da 3

Tutte le capsule Twin, per es. Lungo, 16 capsule, 2.90 invece di 5.80 50%

Panini del mercato, 4 pezzi / 280 g, 2.85 invece di 3.60 20%

Tutto l’assortimento di portafogli, per es. borsellino Deluxe, 19.70 invece di 32.90 40% ** Alimenti per gatti Selina in conf. da 24 e snack Selina in conf. da 5, per es. Selina al pollo, 24 x 100 g, 12.45 invece di 15.60 20% Tutto l’assortimento di alimenti per gatti Gourmet, per es. Gold Mousse, 4 x 85 g, 3.20 invece di 4.– 20%

Novità

20x PUNTI

Caramelle Bonherba e pastiglie per la gola, in bustina, in conf. da 2, + scatolina gratis, per es. pastiglie per la gola al cassis, 2 x 220 g, 8.60 invece di 10.80 20% Carciofi Polli, 285 g, 3.95 invece di 4.95 a partire da 2 pezzi 20%

Near Food/Non Food

Fluido idratante I am Natural Cosmetics, 50 ml, 10.80 Novità ** Sapone liquido I am Natural Cosmetics in conf. di ricarica, White Lychee & Pink Pepper Scent, 300 ml, 3.– Novità ** Crema detergente purificante I am Natural Cosmetics, 150 ml, 6.50 Novità **

Tutti i tipi di latte Junior e di proseguimento Aptamil e Milumil (latte di tipo 1 escluso), a partire da 2 pezzi 20% ** Tutto l’assortimento Subito ed El Mundo, a partire da 2 pezzi 20%

Tutto l’assortimento per la cura delle scarpe Rapi, a partire da 2 pezzi 20% **

Set di biancheria intima invernale per bambini, disponibile in diverse misure, per es. biancheria intima invernale per bambina, orchidea, tg. 98/104, 14.90 Hit **

Crema per il contorno occhi I am Natural Cosmetics, 15 ml, 9.80 Novità **

Assorbenti e salvaslip Molfina nonché tamponi o.b. in conf. da 2 per es. salvaslip Bodyform Air, 2 x 46 pezzi, 2.80 invece di 3.30

110.–

di riduzione

139.– invece di 249.– MediaPad T3 Huawei schermo da 9,6", WiFi, microSD slot (fino a 128 GB), corpo completamente in metallo

conf. da 3

20% Salviettine umide Soft in conf. da 3 per es. Comfort Deluxe, 3 x 50 pezzi, 4.55 invece di 5.70

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30%

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Fino al 18.12.2017 riceverai un buono del valore di fr. 30.– per i tuoi acquisti a partire da fr. 100.–.

Carta igienica Soft Comfort in conf. speciale, FSC 32 rotoli

Buono valido dall’1.1 al 29.1.2018.

Dietro consegna del buono, al prossimo acquisto ricevi una riduzione di fr. 30.–. Utilizzabile per l’intero assortimento in tutte le filiali Micasa e nello shop online Micasa. Non valido per i servizi e gli altri mezzi di pagamento (buoni, carte regalo, ecc.). Non sono consentiti rimborsi parziali, pagamenti in contanti o compensazioni retroattive di acquisti precedenti. Buono valido dall’1.1 al 29.1.2018.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 dicembre 2017 • N. 49

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Idee e acquisti per la settimana

Anna’s Best

Un pasto completo veloce Instagram lo conferma: in molti mostrano le loro creazioni dai colori sgargianti, pasti completi composti da insalate, verdure e altri ingredienti. Queste «Bowls of Goodness» o «Buddha-Bowls» sono veloci da preparare con le insalate pronte di Anna’s Best in qualità bio, come il formentino o Armonia d’inverno. Ottime da aggiungere all’insalata sono le verdure biologiche come carote, rafano, zucchine o ancora dadini di zucca. Questi ultimi da far cuocere.

L’Hummus vegano con barbabietole non è solo una squisita crema, ma è utile anche per portare una sferzata di colore in tavola.

Anna’s Best Insalata di verdure, bio 300 g* Fr. 3.50 * nelle maggiori filiali

Anna’s Best Formentino, bio 60 g Fr. 3.40

Anna’s Best, Armonia d’inverno, Bio, 150 g Fr. 3.90

Anna’s Best Cubetti di zucca, bio, crudi 400 g* Fr. 4.40

Una Buddha-Bowl è una ricca insalata, che idealmente contiene tutti gli ingredienti di un pasto completo. Oltre a verdure e insalate, comprende sempre un alimento ricco di proteine (per esempio pollo), frutta dolce, qualcosa che sazia, come riso o legumi, qualcosa di croccante e un condimento. Un ingrediente colorato e nel contempo nutriente è per esempio il nuovo Hummus Vegi a base di barbabietola di Anna’s Best.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 dicembre 2017 • N. 49

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 dicembre 2017 • N. 49

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Idee e acquisti per la settimana

Pane del mese

Aromi intensi in panetteria

A completare l’offerta delle panetterie della casa Migros nel corso del mese di dicembre è il pane campagnolo. Un pane ricco di fibre alimentari, con semi e chicchi tostati, che gli conferiscono una nota dolce e un aroma di noci

Serie Il buon sapore del pane del mese

Per saperne di più sul gusto: www.piacere-delgusto.ch

A novembre: pane campagnolo Fernando Ferreira (57) è panettiere presso la filiale Migros Metropole Centre a La Chaux-de-Fonds. È uno dei circa 900 professionisti che più volte al giorno sfornano il pane nelle 130 panetterie della casa. Così il pane è sempre disponibile appena cotto e caldo fino all’orario di chiusura.

Testo Jacqueline Vinzelberg

Fernando Ferreira

«Il pane appena sfornato e ancora caldo viene subito acquistato»

Il pane campagnolo è un pane di frumento arioso con una crosta croccante. È ricco di fibre grazie al suo contenuto di semi di girasole, avena, semi di lino, sesamo, miglio e semi di papavero. Semi e chicchi danno risalto al gusto intenso del frumento, aggiungendo una delicata nota tostata. La forma ovale della pagnotta permette di tagliare delle fette della stessa dimensione, con le quali si possono preparare dei sandwich perfetti. È un pane sostanzioso, che si combina perfettamente sia a alimenti salati e speziati, sia alle marmellate di frutta. Per esempio a una semplice confettura fatta in casa con kiwi e pompelmo (vedi ricetta sotto), che accompagna il pane con le sue note asprigne.

Quale pane preferisce preparare? Li preparo tutti volentieri. Produciamo veramente tante varietà, con differenti ricette e forme. È proprio questa alternanza che mi appassiona. Cosa viene apprezzato in particolare di un pane? È importante che il percorso dal panificio al cliente sia breve. In genere il pane appena sfornato e ancora caldo viene subito acquistato. Quale altro pane le piacerebbe produrre? Già prepariamo pane con speck o patate, ma una variante alle verdure andrebbe sicuramente bene. Sarebbe un pane che fa per me. Quale è stato il suo momento più divertente legato al pane? Tornando a casa da una formazione per il pane del mese con due pagnotte fresche. I miei vicini erano in giardino a preparare una grigliata e io gli ho regalato uno dei pani. È piaciuto loro talmente tanto che il giorno successivo sono andati in una filiale Migros per acquistarlo. Ma nessuno ne sapeva nulla perché il pane non era ancora disponibile.

Suggerimento di presentazione

Preparazione: ca. 300 g di kiwi a cubetti, 3 pompelmi sfilettati. Mescolare gli ingredienti (ca. 500 g di polpa) con 270 g di zucchero gelatinizzante in un rapporto 2:1 e cuocere a fuoco vivo per 3 minuti esatti. Versare la marmellata di kiwi e pompelmo in vasetti sciacquati in acqua calda e chiuderli immediatamente. Servire con il pane campagnolo imburrato.

I prodotti TerraSuisse sono sinonimo di agricoltura svizzera sostenibile, che promuove la creazione di spazi vitali per piante e animali selvatici e che rinuncia all’uso di diverse sostanze chimiche ausiliarie.

Parte di

Foto e und Styling: Veronika Studer; Gaetan Bally

Gli esperti di Migusto hanno degustato il pane campagnolo. Come abbinamento ottimale consigliano una fruttata confettura di kiwi e pompelmo.

Pane campagnolo 400 g Fr.3.30 Disponibile nelle filiali Migros con panetteria della casa


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 dicembre 2017 • N. 49

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Pane del mese

Aromi intensi in panetteria

A completare l’offerta delle panetterie della casa Migros nel corso del mese di dicembre è il pane campagnolo. Un pane ricco di fibre alimentari, con semi e chicchi tostati, che gli conferiscono una nota dolce e un aroma di noci

Serie Il buon sapore del pane del mese

Per saperne di più sul gusto: www.piacere-delgusto.ch

A novembre: pane campagnolo Fernando Ferreira (57) è panettiere presso la filiale Migros Metropole Centre a La Chaux-de-Fonds. È uno dei circa 900 professionisti che più volte al giorno sfornano il pane nelle 130 panetterie della casa. Così il pane è sempre disponibile appena cotto e caldo fino all’orario di chiusura.

Testo Jacqueline Vinzelberg

Fernando Ferreira

«Il pane appena sfornato e ancora caldo viene subito acquistato»

Il pane campagnolo è un pane di frumento arioso con una crosta croccante. È ricco di fibre grazie al suo contenuto di semi di girasole, avena, semi di lino, sesamo, miglio e semi di papavero. Semi e chicchi danno risalto al gusto intenso del frumento, aggiungendo una delicata nota tostata. La forma ovale della pagnotta permette di tagliare delle fette della stessa dimensione, con le quali si possono preparare dei sandwich perfetti. È un pane sostanzioso, che si combina perfettamente sia a alimenti salati e speziati, sia alle marmellate di frutta. Per esempio a una semplice confettura fatta in casa con kiwi e pompelmo (vedi ricetta sotto), che accompagna il pane con le sue note asprigne.

Quale pane preferisce preparare? Li preparo tutti volentieri. Produciamo veramente tante varietà, con differenti ricette e forme. È proprio questa alternanza che mi appassiona. Cosa viene apprezzato in particolare di un pane? È importante che il percorso dal panificio al cliente sia breve. In genere il pane appena sfornato e ancora caldo viene subito acquistato. Quale altro pane le piacerebbe produrre? Già prepariamo pane con speck o patate, ma una variante alle verdure andrebbe sicuramente bene. Sarebbe un pane che fa per me. Quale è stato il suo momento più divertente legato al pane? Tornando a casa da una formazione per il pane del mese con due pagnotte fresche. I miei vicini erano in giardino a preparare una grigliata e io gli ho regalato uno dei pani. È piaciuto loro talmente tanto che il giorno successivo sono andati in una filiale Migros per acquistarlo. Ma nessuno ne sapeva nulla perché il pane non era ancora disponibile.

Suggerimento di presentazione

Preparazione: ca. 300 g di kiwi a cubetti, 3 pompelmi sfilettati. Mescolare gli ingredienti (ca. 500 g di polpa) con 270 g di zucchero gelatinizzante in un rapporto 2:1 e cuocere a fuoco vivo per 3 minuti esatti. Versare la marmellata di kiwi e pompelmo in vasetti sciacquati in acqua calda e chiuderli immediatamente. Servire con il pane campagnolo imburrato.

I prodotti TerraSuisse sono sinonimo di agricoltura svizzera sostenibile, che promuove la creazione di spazi vitali per piante e animali selvatici e che rinuncia all’uso di diverse sostanze chimiche ausiliarie.

Parte di

Foto e und Styling: Veronika Studer; Gaetan Bally

Gli esperti di Migusto hanno degustato il pane campagnolo. Come abbinamento ottimale consigliano una fruttata confettura di kiwi e pompelmo.

Pane campagnolo 400 g Fr.3.30 Disponibile nelle filiali Migros con panetteria della casa


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 dicembre 2017 • N. 49

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Idee e acquisti per la settimana

Farmer

Il müesli più popolare in una nuova veste

* Azione 50% sull’intero assortimento Farmer, a partire da 2 pezzi Solo il 5 dicembre

Entrambi i Birchermüesli Reddy sono ora disponibili con il marchio proprio Migros Farmer. L’apprezzata ricetta e il prezzo rimangono invariati. Le due miscele contengono ingredienti preziosi e sono affidabili fonti di energia e di fibre. Il müesli Fit con acido folico è prodotto senza aggiunta di zucchero, poiché alla sua leggera dolcezza provvede la frutta secca.

Farmer Birchermüesli Fit 700 g Fr. 2.40* invece di 4.80

Farmer Birchermüesli Original 800 g Fr. 2.40* invece di 4.80 *Nelle maggiori filiali

Immagini e styling: Giulia Marthaler

Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli a prezzo già ridotto.

Con lo squisito Birchermüesli Farmer la giornata prende avvio con il pieno di energia. M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche i prodotti Farmer.


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Idee e acquisti per la settimana

Sun Queen

Raffinati stuzzichini L’Avvento è anche tempo di aperitivi. Oltre alle bevande però è bello offrire anche buoni stuzzichini. L’assortimento Sun-Queen offre un’ampia scelta con diversi tipi di frutta secca: per chi ama i sapori piccanti ci sono le noci al Wasabi, per gli amanti del barbecue le mandorle affumicate mentre le noci di anacardo sono apprezzate da chi ama la cucina asiatica. Chi non riesce ad accontentarsi di un gusto solo può scegliere la miscela di noci Sun-Queen con mandorle, noci di pecan, anacardi e macadam.

Sun Queen Mandorle affumicate 170 g Fr. 4.–

Sun Queen Noci miste 170 g Fr. 4.90

Sun Queen Noci di anacardi 170 g Fr. 4.50

M-Industria crea molti prodotti Migros. Tra questi anche le noci di Sun Queen

Non c’è aperitivo senza stuzzichini. Per quello che riguarda l’offerta di noci e nocciole, l’assortimento Sun-Queen soddisfa tutti i desideri. Sun Queen Arachidi gusto wasabi 150 g Fr. 3.65


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Idee e acquisti per la settimana

Garnier

La forza del carbone

Il nuovo «Pure Active 3 Wash+peeling+mask» di Garnier grazie al contenuto di carbone agisce contro i punti neri e può essere utilizzato come detergente, come peeling e come maschera di bellezza. La Fashion Blogger Carmen Jenny lo ha provato Testo: Melanie Michael

Carmen Jenny, 22 anni, vive a RapperswilJona e nel 2015 ha creato carmitive.com, il suo sito dedicato alla moda. Nelle pagine Carmen dimostra i molti volti della moda, compone originali outfits e entusiasma i suoi followers con foto e articoli molto curati: tra i temi trattati si trovano anche testi dedicati a cibo, viaggi e bellezza. Carmen è studentessa e frequenta corsi di giornalismo di moda e comunicazione. Ha accettato di provare per due settimane il nuovo «Garnier Charcoal Wash+peeling+mask» ed è molto contenta del risultato. La sua conclusione: «Rinfrescante, detergente e curativo. Il prodotto, con le sue varie possibilità d’uso (detergente, peeling, maschera di bellezza) offre un perfetto trattamento wellness per il viso. Visto che non ho molto tempo disponibile durante la settimana, lo uso per una pulizia veloce: una o due volte alla settimana lascio agire la maschera di bellezza per cinque minuti, finché è quasi asciutta. Mi piace l’effetto opaco che si produce sulla pelle. Il prodotto è convincente: dopo ogni uso la mia pelle è fresca e idratata». Dalla sessione fotografica con Carmen Jenny sono risultate molte foto, belle e divertenti. E poi bisogna dirlo: anche con il viso ricoperto di carbone Carmen è proprio carina... / MM

Carmen Jenny di Carmitive. com ha provato il nuovo prodotto di bellezza a base di carbone ed è visibilmente contenta: «Mi piace l’effetto opaco sulla pelle che si ottiene dopo l’uso»

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Pulizia L’acido salicilico contenuto nella crema funge da antibatterico, toglie le impurità e lo sporco. «Pure Active 3 in 1» può essere usato ogni giorno come detergente. Per farlo il prodotto può essere spalmato sulla pelle inumidita e poi sciacquato semplicemente con acqua.

Peeling Le particelle naturali del prodotto «3 in 1» liberano i pori otturati e riducono visibilmente i punti neri. Con l’uso quotidiano di «Pure Active 3 in 1» le scaglie superficiali dell’epidermide vengono rimosse insieme ai punti neri. L’effetto è stato verificato con un test compiuto su 51 donne.

Maschera Il prodotto non ha soltanto proprietà detergenti e di peeling, ma può essere usato anche come maschera di bellezza. Carbone e estratto antiossidante di mirtillo rendono la pelle opaca e soda. Il produttore consiglia di usarlo tre volte alla settimana, dopo la pulizia del viso, lasciandolo agire sulla pelle per 5 minuti e poi sciacquandolo. Garnier Pure Active 3 Wash+peeling+mask, Contro i punti neri 150 ml Fr. 6.20 Nelle maggiori filiali


Aperture straordinarie

Venerdì 8 dicembre

Tutti i negozi e ristoranti Migros saranno aperti dalle ore 10 alle 18

Domenica 10 dicembre

Saranno aperti dalle ore 10 alle 18 Centro Agno – Arbedo Castione Bellinzona – Biasca – Locarno Pregassona – Lugano Centro Parco Commerciale Grancia – Taverne Centro S. Antonino Centro Shopping Serfontana Losone Do it + Garden


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