Azione 48 del 23 novembre 2020

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio Gli adolescenti trascorrono molto tempo sui social e in Internet anche per sfuggire a sentimenti negativi: un’inchiesta nazionale di Addiction Suisse

Ambiente e Benessere Covid-19 – Il dottor Pietro Antonini, spiega come le cure restino pressoché invariate, mentre la logistica e i tempi di intervento sono invece migliorati

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Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 23 novembre 2020

Azione 48 Politica e Economia Nasce il Rcep, una vera rivoluzione politica ed economica. Pechino gongola

Cultura e Spettacoli Il profondo sodalizio di Alexej Jawlensky e Marianne Werefkin in mostra ad Ascona

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di Simona Sala pagina 53

SRF/Sava Hlavacek

La pace, e poi?

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Come su una zattera sul mare di Peter Schiesser Ho un sogno, una proposta, una speranza: che alla fine di questa pandemia tutti noi si possa prendere una vacanza di un mese per recuperare forze e serenità, al termine della quale avvenga un rito o una festa di riconciliazione. Perché il livello di confusione, nervosismo, aggressività, spossatezza, follia sta crescendo in modo preoccupante. E siamo solo in novembre. Dopodiché, si analizzi cosa è andato per il verso giusto e cosa per quello sbagliato, con calma e distanza critica, meno gravati dalle emozioni. Non possiamo riprendere come se nulla fosse successo, come non si è al 100 per cento performanti dopo una grave malattia. Ci vorrà un tempo di convalescenza nazionale. Intanto, si potrebbe lavorare su alcuni fronti. Per esempio su quello della confusione. Si sente di tutto e il contrario di tutto, con tendenza al secondo sui social, e ormai ci si sono messi anche esperti e scienziati a fare previsioni e dichiarazioni fuorvianti. Stupisce in particolare che numerosi membri della Task Force nazionale, il cui scopo è di consigliare il governo federale, prendano continuamente

posizione pubblicamente, con raccomandazioni di carattere politico (imporre un nuovo lockdown, chiudere bar e ristoranti, eccetera), con critiche alle autorità, con interpretazioni della situazione spesso in contraddizione fra di loro. Un cacofonia che crea solo ulteriore insicurezza nella popolazione e rende meno credibile il coro di esperti. Non dovrebbe parlare solo il presidente della Task Force? Negli Stati Uniti l’autorevolezza ha un solo nome: Anthony Fauci. Un altro fronte è quello personale. Psichiatri e psicologi lo confermano: la pandemia ha un grande impatto sulla sfera emotiva (v. intervista alla psicologa Chiara Chillà alle pagine 10-11). Il disagio psichico è aumentato, ma anche per chi mentalmente regge meglio il colpo della pandemia non è facile mantenersi in equilibrio in un contesto di incertezza, nervosismo, aggressività. In realtà non basta essere buoni cittadini ed attenersi alle regole, bisogna dimostrarsi persone consapevoli, mature, con una cura della mente e delle emozioni. Ci sono strategie per riuscirci, anche semplici, ma ci vuole impegno personale per realizzarle. Chi non ne ha mai avuto gli strumenti, perché inconsapevole del peso delle emozioni sulla nostra vita e nei rapporti con il prossimo, oggi fa certamente più fatica. Ma tutti pos-

siamo provare a elaborare una strategia di sopravvivenza psichica. Un elemento che non deve andar perso è la fiducia nel futuro, nella fine della pandemia. E l’annuncio degli ottimi risultati ottenuti con i vaccini testati da Biontech e Pfizer da una parte e Moderna dall’altra sono un raggio di sole. Ce n’è un’altra decina nella terza fase di sperimentazione, ma oggi gli occhi sono puntati su Pfizer e Moderna. Perché il principio è innovativo: si inocula una versione sintetica del materiale genetico del coronavirus chiamato messenger RNA (quindi non le proteine del virus, ma l’informazione genetica) che induce il corpo a generare degli anticorpi che distruggono gli aculei del coronavirus, impedendogli di «attraccare». Una tecnologia nuova, di cui oggi non si vedono effetti negativi. Ed entrambi questi vaccini si sono rivelati efficaci quasi al 95 per cento, una proporzione altissima, e in tutte le categorie di età. Quello di Moderna ha un vantaggio: resiste a lungo anche in frigorifero; quello della Pfizer va tenuto a temperature bassissime. Dalla primavera del 2021 dovrebbero essere a disposizione, dopodiché ci sarà l’immane compito logistico di distribuirle e quello politico di convincere la popolazione a vaccinarsi. Ma a questo punto il vaccino non è più un miraggio.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 novembre 2020 • N. 48

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Concorsi per i lettori

Leonardo in 3D a Lugano

Mostre Al Centro Esposizioni di Lugano una originale proposta

per avvicinarsi alle opere del grande artista del Rinascimento

Da Vinci Experience è una mostra multimediale immersiva, concepita per raccontare il genio di Leonardo, la sua arte e le molteplici applicazioni del suo ingegno. La mostra arriva a Lugano grazie all’agenzia GC Events come «Prima» in Svizzera, dopo aver toccato le più famose città del mondo in cinque continenti. Un’esposizione unica ed emozionante, grazie a un allestimento che

propone una narrazione attraverso immagini ad altissima definizione, filmati video in full HD e una suggestiva colonna sonora d’autore diffusa a 360° in Dolby Surround. Si tratta di un percorso sensoriale concepito per avvolgere i visitatori e offrir loro la possibilità di godere di un’esperienza multimediale in quello che è stato il genio di Leonardo Da Vinci, raccontato minuziosamente attraverso

la sua arte, l’ingegneria, la meccanica e la medicina. La complessità delle doti di questo personaggio unico nel suo genere diventa accessibile e fruibile da un pubblico trasversale sia per età che per formazione. Si tratta di un progetto espositivo finalizzato alla divulgazione culturale, che sposa il concetto di edutainment, ossia la realizzazione di un genere d’intrattenimento che istru-

L’allestimento multimediale vuole coinvolgere i visitatori.

Un’esperienza indimenticabile di realtà virtuale.

isce coinvolgendo, avvalendosi di linguaggi comunicativi contemporanei, rivolti soprattutto ai più giovani e alle famiglie. Il cuore di questo percorso sensoriale e multimediale è sicuramente la sala interattiva in cui il visitatore, grazie al susseguirsi di immagini proiettate, ha la possibilità di lasciarsi trasportare in un’opera d’arte digitale. Il percorso è inoltre arricchito da infografiche e installazioni video, dall’esposizione di dieci modelli di macchine leonardesche a grandezza naturale e in scala, riprodotte minuziosamente dalle sapienti mani di artigiani italiani sulla base di progetti originali. Tra queste, di particolare rilievo, il grande prototipo di bicicletta. A Lugano, per la prima volta, presso Da Vinci Experience saranno allestite otto postazioni per l’esperienza di realtà virtuale 3D con visori Oculus: l’applicazione «Da Vinci VR Experience», creata appositamente per la mostra. Questa tecnologia permetterà ai visitatori di entrare nel carro armato progettato da Leonardo interagendo con i suoi meccanismi, di navigare con la barca a pale, e di volare sopra la magnifica Firenze rinascimentale con la vite aerea e l’ornitottero.

Il sito ufficiale della mostra www.davincilugano.ch contiene tra l’altro una video promo in cui assaggiare un’anteprima dell’allestimento(www.youtube.com/watch?time_ continue=62&v=QC5BtJsFH9o) Dove e quando

Da Vinci Experience, Centro Esposizioni Lugano. Dal 3 dicembre 2020 al 14 febbraio 2021. Aperto tutti i giorni nei seguenti orari: da Lu a Ve 13.00-19.00; Sa, Do e festivi 10.00-20.00. www.davincilugano.ch

Biglietti in palio per i lettori di «Azione» Il Percento culturale di Migros Ticino, che sostiene l’evento luganese offre ai nostri lettori 25 coppie di biglietti d’entrata per Da Vinci Experience. Per partecipare all’estrazione seguire le istruzioni contenute nella pagina www.azione.ch/concorsi. Buona Fortuna!

Il circo dell’arte per bambini creativi

Mostre Al Museo in Erba un’esposizione vuole introdurre i piccoli visitatori all’opera di Calder Il Museo in erba è l’unico museo per i bambini in Ticino dove si scopre l’arte giocando. È un museo privato, gestito dall’omonima Associazione, inaugurato nel 2000. Presenta mostre interattive con un approccio ludico e al contempo educativo, in cui i visitatori sono i veri protagonisti delle loro scoperte. Propone inoltre un programma di laboratori per sperimentare la creazione artistica ed esprimere liberamente la propria

Biglietti in palio per i nostri lettori Il Percento culturale di Migros Ticino che sostiene la manifestazione mette in palio per i lettori di «Azione» 10 posti per l’animazione delle giornate inaugurali riservata solo ai bambini (28 e 29 novembre ore 15.00) e 10 entrate gratuite per 2 persone (da usare entro il 13 giugno 2021). Per partecipare all’estrazione seguire le istruzioni contenute nella pagina www.azione.ch/concorsi. Buona fortuna!

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

fantasia con l’utilizzo di originali e sempre diverse tecniche pittoriche. Anche i più piccoli di 2-3 anni, accompagnati, hanno la possibilità di muovere i primi passi nell’arte grazie ai «Baby atelier». L’esposizione, ideata dal Centre Pompidou di Parigi con una divertente e colorata scenografia ispirata al mondo del circo, sarà presentata dal prossimo 28 novembre e darà ai bambini l’opportunità di scoprire la forza, la poesia e l’inventiva dell’opera di Alexander Calder (1898-1976), importante artista del XX secolo. Nelle diverse zone del percorso i bambini sperimentano in prima persona le basi del linguaggio plastico dell’artista: manipolano forme colorate e oggetti quotidiani, compiono gesti semplici come soffiare, spingere, girare: imparano a conoscere l’equilibrio, il movimento, la composizione, il disegno nello spazio, il pieno e il vuoto e presentano ai compagni le loro creazioni. Questi dispositivi ludici offrono ai piccoli visitatori le chiavi di lettura per comprendere le opere di Calder, creando una complicità che favorisce l’incontro con l’artista. Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Un’immersione nei colori. (H. Véronèse)

Il percorso è arricchito da un’ampia documentazione fotografica, stampata su grandi supporti di tela e da alcuni filmati che permettono ai bambini di avvicinarsi e capire la magia e l’umorismo di Alexander Calder, l’artista che ha saputo reinventare la scultura trasformandola in disegno nello spazio.

L’esposizione prevede tre zone: Giocare con l’equilibrio delle forme, Disegnare nello spazio e... Tutti in pista! In questa sezione i piccoli visitatori potranno scoprire le nozioni di equilibrio/stabilità e di movimento, inventare giochi d’acrobazia mettendo in equilibrio delle forme colorate, disegnare con varie tecniche e creare figurine con

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materiali di fortuna, come faceva Calder, e poi mettere in scena un loro spettacolo circense. Alexander Calder è una delle figure significative della scultura del XX secolo. Nasce negli Stati Uniti in una famiglia di artisti ma la sua vera carriera inizia quando arriva a Parigi nel 1926. In pochi anni reinventa la scultura, la trasforma in disegno nello spazio, la fa evolvere verso il dinamismo e l’astrazione. Tra il 1926 e il 1931 crea un’opera del tutto originale, il Cirque Calder, composto da centinaia di figurine realizzate con materiali riciclati e animate con meccanismi rudimentali, che comanda lui stesso con delle corde, come un burattinaio. La sua carriera è, fino alla fine, segnata da successi e grandi collaborazioni, la sua opera è unica, esuberante e poetica. Dove e quando

Calder, che circo! Museo in Erba, Lugano. Riva Caccia 1 Central Park, 1° piano, Lugano. Dal 28 novembre 2020 al 13 giugno 2021. Tel. +41 91 835 52 54. ilmuseoinerba@bluewin.ch www.museoinerba.com Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 novembre 2020 • N. 48

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Società e Territorio Pandemia e salute mentale La sfera emotiva della popolazione è messa a dura prova dalla pandemia: intervista alla psicologa Chiara Chillà

85 anni di meteorologia Locarno-Monti: incontro con Marco Gaia, responsabile del Centro regionale Sud di MeteoSvizzera pagina 13

pagine 10-11

Un sostegno a Tavolino Magico Si svolgerà sabato 28 novembre la tradizionale giornata della colletta alimentare, diverse filiali di Migros Ticino accolgono i volontari pagina 14

Se internet è una via di fuga

Ragazzi Un’inchiesta di Addiction Suisse

ha rilevato che gli adolescenti trascorrono molto tempo sui social media e in Internet anche per sfuggire a sentimenti negativi

Stefania Hubmann Trascorrere molto tempo sui social media per sfuggire a sentimenti negativi è uno dei principali risultati di un’inchiesta nazionale rappresentativa effettuata da Addiction Suisse presso i giovani fra gli 11 e i 15 anni. Un fenomeno non del tutto nuovo, ma che ha raggiunto livelli notevoli. Pubblicati a fine estate, i dati dell’indagine rivelano come la proporzione di interpellati che risponde affermativamente a questa domanda si situi attorno al 25%. Fra le difficoltà indicate dagli adolescenti spiccano i problemi con l’uso delle reti sociali virtuali, i vani tentativi di ridurre il tempo dedicato a queste attività e i conflitti familiari derivanti dalle medesime. Proprio a questi nuclei si rivolge Addiction Suisse con la nuova guida per i genitori nella quale affronta la problematica già dalla prima infanzia. Fondazione indipendente di utilità pubblica riconosciuta quale centro di competenze nell’ambito delle dipendenze, Addiction Suisse, con sede a Losanna, è attiva su più fronti: ricerca, divulgazione, prevenzione, aiuto concreto. Ogni quattro anni partecipa a un’ampia ricerca internazionale (Health Behaviour in School-aged Children) sui comportamenti correlati con la salute negli allievi fra 11 e 15 anni. I dati raccolti nel 2018 e resi noti alcuni mesi fa indicano anche quanto, come e perché i giovani residenti in Svizzera utilizzano gli schermi digitali, in particolare in relazione a internet e ai social media. Il tempo resta un fattore rilevante che aumenta con l’età. Rispetto ai risultati precedenti questo tempo è rimasto piuttosto stabile nei giorni di scuola, mentre è progredito durante i fine settimana, soprattutto per i ragazzi. Una differenza di genere viene notata anche negli sforzi messi in atto per cercare di diminuire, senza successo, le ore trascorse in rete. Questo tentativo è compiuto più dalle ragazze (37,5%) rispetto ai ragazzi (23,7%). «L’ultimo studio ha permesso di indagare più in profondità i motivi legati al lungo tempo trascorso dai giovani davanti agli schermi», precisa Markus Meury, portavoce di Addiction

Suisse. «Uno dei risultati più interessanti è quello riguardante il malessere che sovente spinge ad usare internet. Quest’ultimo diventa una via di fuga dalla realtà per un quarto degli intervistati». Da rilevare, fra le difficoltà indicate dagli adolescenti nell’uso dei social media, un serio conflitto con i genitori o con i fratelli e le sorelle (ragazze 18,2%; ragazzi 14,6%). Se con il 4% di giovani che presentano un utilizzo problematico dei social media la Svizzera ne esce piuttosto bene rispetto agli altri paesi dell’inchiesta internazionale, per Addiction Suisse le difficoltà segnalate mostrano che è necessario insistere sul ruolo della famiglia ed agire già quando i figli sono piccoli. Alcuni anni fa la fondazione ha affrontato il tema delle nuove tecnologie nell’ambito delle lettere educative destinate ai genitori, sollecitando il loro ruolo nel trasmettere valori e favorire un confronto costruttivo. Compiti essenziali anche in un campo in cui le competenze tecniche dei figli superano quelle dei genitori. Nel 2020 si è però voluto promuovere un’azione più mirata, come spiega Markus Meury. «I giovani iniziano prima ad usare cellulari e computer, per cui è necessario offrire ai genitori alcuni strumenti per gestire queste nuove situazioni. Ciò significa essere in grado di discutere il tema con i figli, ma anche saper cogliere eventuali segnali di un problema». Al momento disponibile in francese e tedesco, la guida offre alcune piste per accompagnare bambini e adolescenti in un impiego ragionevole dei dispositivi digitali. Opportunità, rischi, limiti, tempo, regole, sono alcune questioni affrontate nell’intento di non banalizzare, ma nemmeno drammatizzare l’uso di strumenti che ormai sono diventati parte integrante della vita di tutti. L’opuscolo spiega come già dalla prima infanzia sia importante guidare i bambini nell’apprendere ad utilizzare questi dispositivi fissando regole adatte alla loro età. Non va inoltre dimenticato che i più piccoli osservano ciò che fanno gli adulti attorno a loro, quindi anche come e quando usano smartphone e tablet. Sui conflitti che sorgono in fami-

Conflitti con i genitori o con fratelli e sorelle, sono spesso queste le difficoltà alla base del malessere dei giovani. (Keystone)

glia in questo ambito il nostro interlocutore evidenzia in primo luogo la questione del tempo. Markus Meury: «I giovani sono completamente immersi nel mondo virtuale, per cui dal loro punto di vista il tempo a disposizione non è mai sufficiente. I genitori sono visti come coloro che rovinano il piacere e minacciano le relazioni sociali con gli amici con i quali sono connessi sui social media. I consigli forniti nella guida non hanno lo scopo di impedire l’uso di questi strumenti, bensì di riuscire a discuterne insieme i rischi per poi fissare delle regole. Considerata la sua età, un adolescente può anche contribuire a negoziarle. Quando le regole non vengono rispettate, devono esserci delle conseguenze, altrimenti cade il loro scopo. Questo aspetto è importante, ma ancora più significativo è il legame che si riesce ad instaurare fra genitori e figli». A questa rapida evoluzione dell’u-

so delle moderne tecnologie da parte delle giovani generazioni si è aggiunta nel 2020 la grande influenza del lockdown primaverile con restrizioni e conseguenze ancora in atto. Cosa ne pensa l’esperto di dipendenze? «L’aumento del tempo trascorso davanti allo schermo derivante dal lockdown riguarda tutti e non solo i giovani. Questi ultimi lo hanno in parte impiegato per continuare a seguire le lezioni, anche se sono sicuramente aumentate pure le ore dedicate a giochi e social media, essendo altre attività del tempo libero vietate o limitate. Nella nostra prossima pubblicazione annuale, in uscita a febbraio 2021, passeremo in rassegna questo anno e quanto accaduto. Ribadisco l’importanza dei genitori quali modelli e il loro ruolo nel regolare il tempo di utilizzo, capire il tipo di uso e accompagnare i figli discutendo con loro i rischi legati a questi dispositivi.

Videogiochi e social media costituiscono le attrazioni maggiori e nel contempo le principali fonti di pericolo, i primi specialmente per i ragazzi, i secondi per le ragazze». Complice la pandemia, l’uso di internet e dei social media è esploso. Per sfruttarne al massimo le risorse riducendone i rischi, è necessario ancora una volta passare dall’informazione e dal confronto come suggeriscono gli esperti. Evitare l’instaurarsi di una dipendenza a favore di un uso consapevole dei dispositivi digitali è l’obiettivo di Addiction Suisse che con le iniziative citate cerca di tutelare soprattutto le giovani generazioni, più fragili e nel contempo più attratte dal mondo virtuale. Informazioni

www.addictionsuisse.ch


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Idee e acquisti per la settimana

Una star tra i pani

Attualità Il pane ticinese è un grande classico dell’assortimento Migros e questa settimana è in offerta speciale

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Composto dalle caratteristiche cinque micche l’una affiancata all’altra facilmente staccabili con le mani, il pane bianco ticinese è da sempre derivato della maestria dei panettieri Jowa nel saper unire con perizia i migliori ingredienti naturali di origine svizzera. La sua crosta dorata al punto giusto, la mollica morbida e areata, come pure il sapore aromatico, ne fanno un protagonista imprescindibile non solo della cucina nostrana di tutti i giorni, ma è ideale anche per preparare sfiziosi panini imbottiti. L’aggiunta di olio di girasole nell’impasto fa sì che il pane rimanga soffice più a lungo. Pur essendo un pane a base di farina bianca, il pane ticinese negli anni ha conquistato anche il palato dei nostri confederati grazie alla sua versatilità. Consigli per una buona conservazione del pane: tenete il pane in un luogo asciutto. Il pane deve «respirare», pertanto conservatelo nel proprio imballaggio originale oppure in un sacchetto di lino o cotone. Mai tenere il pane in contenitori di plastica o in frigorifero. Congelate il pane solo quando è freschissimo.

Sapori della Mesolcina

Attualità Il prosciutto crudo della macelleria Fagetti di Roveredo

si caratterizza per il suo aroma delicatamente affumicato

Rafforzare le difese immunitarie Novità Integratore a base di echinacea ricco

di vitamina C e zinco in formato shot

Per questo prelibato prosciutto crudo, la macelleria-salumeria Fagetti utilizza solo carne di maiale svizzera, attentamente selezionata dal titolare Moreno Fagetti. La lavorazione artigianale avviene secondo una tipica ricetta di famiglia vecchia di 60 anni. Dopo la minuziosa rifilatura, operazione che permette di eliminare le parti di grasso e cotenna in eccesso e conferire la classica forma al prodotto, le cosce vengono lasciate riposare per diversi giorni in una salamoia a base di una miscela segreta di spezie, sale e vino nostrano, in modo che la carne possa assorbire uniformemente tutti gli aromi. Dopo questa fase, i prosciutti passano alla leggera affumicatura, ottenuta con legno misto, che avviene in un locale apposito in cui viene fatto confluire lentamente il fumo. La terza e ultima fase della lavorazione prevede la stagionatura, processo che dura non meno di due mesi e avviene in una cantina in pietra che beneficia delle condizioni ambientali ideali e di sufficiente ricambio d’aria. Prima di gustarlo, si consiglia di portare il prosciutto a temperatura ambiente, così facendo si potranno apprezzare pienamente le delicate sfumature aromatiche di questa specialità del Grigioni italiano.

Azione 25% Prosciutto crudo della Mesolcina al banco, 100 g Fr. 4.75 invece di 6.35 fino al 30.11

Siamo lieti di presentarvi una gustosa novità ideale per la stagione fredda: lo shot echinacea. Contiene preziosi concentrati ed estratti vegetali di echinacea purpurea, bacche di sambuco, amarena e succo di camu-camu, una bacca di una varietà di mirto che apporta un’elevata quantità di vitamina C naturale. Inoltre lo shot è arricchito di zinco. La vitamina C e lo zinco sono essenziali per il normale funzionamento del sistema immunitario. Uno shot al giorno favorisce il

benessere generale. Naturalmente questo non è tutto. Un’alimentazione sana, come pure esercizio fisico e sonno a sufficienza sono le premesse per il benessere fisico e mentale quotidiano. I complementi alimentari non sostituiscono un’alimentazione variata ed equilibrata. Echinacea Shot 60 ml Fr. 2.50 In vendita al reparto refrigerati delle maggiori filiali Migros


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Idee e acquisti per la settimana

Dolci come il miele

Novità Le clementine Dolcemiele sorprendono con il loro sapore

fresco e zuccherino

Effetto balsamico

Attualità Una tisana buona

tutto l’anno

Disponibili da novembre a gennaio, le clementine Dolcemiele maturano al sole della regione spagnola di Castellon, a nord di Valencia, dove sono state selezionate negli anni Cinquanta. Facili da pelare, senza o con pochissimi semi, non subiscono nessun trattamento chimico dopo la raccolta. Posseggono una polpa succosa e dolcissima. Si gustano non solo fresche, ma sono ottime anche nelle insalate o come ingrediente per pasticceria o marmellate. Le clementine sono un incrocio tra l’arancia e il mandarino e, rispetto a quest’ultimo, hanno una buccia più spessa. Come gli altri agrumi sono molto consigliati in inverno in virtù del loro elevato con-

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tenuto di vitamina C, che supporta il sistema immunitario e agisce contro la fatica. Tre clementine coprono il fabbisogno giornaliero di questa importante vitamina. Trovate le clementine Dolcemiele nei maggiori supermercati Migros in un originale sacchetto di iuta riciclabile.

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La tisana alla malva dei Nostrani del Ticino non è solo buona e rinfrescante in estate, ma grazie alle sue proprietà antitussive, espettoranti e antinfiammatorie è particolarmente indicata anche durante la stagione fredda. È preparata a partire da un infuso di erbe

officinali coltivate in Ticino in modo biologico, a cui viene semplicemente aggiunto dell’acqua e dello zucchero caramellato. Non contiene né conservanti né coloranti ed è prodotta e imbottigliata nella bottiglietta PET da mezzo litro dalla Sicas di Chiasso. Annuncio pubblicitario

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Idee e acquisti per la settimana

Il bagno nel mare primordiale

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La temperatura perfetta

di un bagno distensivo è tra i 36 e i 38 gradi Celsius. L’acqua non dovrebbe essere più calda, poiché una temperatura troppo alta può sollecitare il sistema cardiovascolare. Inoltre, le temperature elevate tendono a seccare la pelle.

Il tempo ideale di un bagno

è tra i 15 e i 20 minuti. Per beneficiare degli effetti positivi, è consigliabile distendersi in vasca almeno cinque minuti. Più di 20 minuti può invece mettere a dura prova il sistema circolatorio.

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Fare il bagno da una a due volte

Foto Getty Images

alla settimana aiuta a rilassarsi e a staccare la spina. Gli oli essenziali, dal canto loro, possono avere un gradevolissimo effetto rinvigorente.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 novembre 2020 • N. 48

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Società e Territorio

Prendersi cura della sfera emotiva Intervista La pandemia ha un impatto sulla salute mentale delle persone, a rischio sono anche i bambini

e gli adolescenti che vedono la propria quotidianità stravolta. Ne abbiamo parlato con Chiara Chillà, psicologa specializzata nella gestione delle emozioni e in nutrizione Barbara Manzoni La pandemia influisce sulla psiche delle persone: anche se mancano ancora dati rappresentativi, appare sempre più evidente che l’emergenza coronavirus ha un impatto sulla salute mentale della popolazione. È di due settimane fa la pubblicazione di uno studio commissionato dall’Ufficio federale della sanità pubblica (UFSP) e realizzato dalla società B&A e da Büro BASS che ha esaminato gli effetti della pandemia sulla salute mentale della popolazione in generale e dei gruppi a rischio in particolare e ha analizzato il ricorso all’offerta di supporto psicosociale e di assistenza psichiatrica-psicoterapeutica durante la crisi. La questione era già emersa durante la prima ondata e si ripresenta ora. Diversi gli enti che suonano il campanello di allarme, da Pro Juventute a Telefono Amico, mentre gli psichiatri svizzeri chiedono la reintroduzione delle sedute in videoconferenza pagate dalle casse malati. Abbiamo parlato del tema con la dottoressa Chiara Chillà, psicologa specializzata nella gestione delle emozioni e in nutrizione. Ticinese di origine, Chiara Chillà ha uno studio privato a Losanna, collabora con l’Università di Basilea, si occupa di programmi di gestione delle emozioni per adolescenti nelle scuole del Canton Vaud e lavora presso l’Ospe-

dale Universitario di Ginevra dove coordina gruppi e corsi dedicati alla nutrizione per pazienti che hanno seguito cure psichiatriche. Dottoressa Chillà, la pandemia e il lockdown hanno agito e agiscono sulla sfera emotiva e psicologica delle persone? In che modo?

Sì, c’è stato un grande effetto della pandemia sulla sfera emotiva delle persone anche se all’inizio è stato sottovalutato. Il direttore generale dell’OMS già in maggio aveva detto che la nuova urgenza sanitaria post covid sarebbe stata la salute mentale. Sempre l’OMS nella sua definizione di benessere sottolinea come quest’ultimo non sia solo una questione di salute fisica ma un costrutto più complesso che coinvolge la dimensione psico-socio-economica dell’individuo. In questa seconda ondata si assiste a una stanchezza generale della popolazione, le persone sono meno reattive, meno motivate, ci sono ribellioni sociali. Dopo la breve illusione estiva la situazione pandemica è tornata ad aggravarsi in modo molto rapido e fatichiamo ad adattarci psicologicamente. È perciò molto importante prendersi cura non solo della nostra salute fisica ma anche di quella mentale. Questo stress arrivato così velocemente ha portato uno scombussolamento emotivo, una forte ansia e a non avere più i punti di riferimento e

I genitori devono essere consapevoli che è fondamentale far sentire i bambini e gli adolescenti sicuri e protetti. (Marka)

la quotidianità che eravamo riusciti a riconquistare in estate. In particolare a livello svizzero quello che abbiamo constatato è che i diversi

cantoni non sono stati allineati nelle decisioni e nella comunicazione, il che ha provocato a livello della sfera psicologica ancora più caos. Se non si hanno

punti di riferimento chiari le persone possono sviluppare un senso di confusione mentale, paure, insicurezze e comportamenti ossessivi-compulsivi. Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio La Confederazione dovrebbe dare delle linea generali uguali per ogni Cantone, per diminuire questo senso generalizzato di insicurezza e aiutare la popolazione a capire quale sia la direttiva più corretta da seguire per stare in salute e protetti. Nella sua esperienza professionale quotidiana ha notato questo peggioramento?

Sì, durante la prima ondata all’ospedale è stato molto difficile. Seguivo dei gruppi di parola sulla gestione delle emozioni e sull’alimentazione per pazienti che in seguito alle cure psicologiche hanno gravi problemi di sovrappeso. Purtroppo in questi gruppi ci sono stati casi di suicidio, persone che non riuscivano più a gestire lo stress, alcuni hanno avuto un peggioramento e sono stati ricoverati, altri hanno sviluppato una forte paura sociale, non riuscivano più a uscire di casa anche quando c’è stata la riapertura. Spesso questi pazienti non hanno una rete famigliare forte e questo non aiuta. C’è anche stata una crescita delle domande di aiuto da parte di persone sane ma che hanno cominciato a sviluppare ansie, frustrazione, insicurezza e paura. Spesso erano anche genitori a chiedere consigli su come comportarsi con i propri figli. Cosa comporta emotivamente per i bambini e per i ragazzi il distanziamento dai coetanei? Come aiutarli?

È fondamentale aiutare i bambini e gli adolescenti a metabolizzare questa interruzione delle normali attività e questa improvvisa separazione dai loro amici e dai loro cari. In una famiglia che sta bene, che non ha casi a rischio e riesce a gestire emotivamente la situazione, dove i genitori sono all’ascolto e non sono troppo altalenanti nell’umore (è ovvio che in questa situazione anche gli adulti possono essere più irritabili) la cosa migliore da fare è innanzitutto far sentire i bambini e

gli adolescenti sicuri e protetti. Come? Facendo più chiarezza, spiegando loro bene la situazione, perché c’è il pericolo che in internet o sui social si imbattano in fake news o notizie allarmanti ma senza spiegazioni scientificamente corrette. I genitori devono essere lì, presenti per dare spiegazioni chiare e farli sentire al sicuro. Solo così i ragazzi potranno metabolizzare questa situazione e il distacco fisico e sociale dalle loro attività quotidiane. Per farli vivere bene è poi importante creare una routine quotidiana in casa, nella quale è consigliabile prevedere anche le videochiamate dove possono vedere le espressioni facciali degli amici o dei nonni con i quali non hanno più contatti. È una cosa che rassicura. In questa nuova quotidianità dovrebbe esserci un momento dedicato al gioco, perché è importante che i ragazzi e i bambini svolgano delle attività che li fanno stare bene. Ciò di cui i bambini e i ragazzi hanno bisogno è soprattutto di essere ascoltati, di sentirsi al sicuro. Anche se non ci sono certezze su come evolverà la situazione, è fondamentale che i genitori li facciano sentire protetti, che diano un senso di sicurezza, che facciano passare il messaggio che «come famiglia siamo un team». Il genitore deve saper dialogare e saper ascoltare, ma soprattutto deve essere compassionevole, tollerare certi comportamenti e andare incontro alle difficoltà dei propri figli. Questa è la situazione ideale ma se l’insicurezza in famiglia aumentasse?

Sì, questa ovviamente è la situazione ideale. Se invece in famiglia si sente che le preoccupazioni aumentano, magari dovute a una situazione lavorativa ed economica instabile oppure a uno stato di salute che peggiora, gli adulti potrebbero provare a diminuire la propria ansia per il bene di tutta la

La psicologa Chiara Chillà.

famiglia. È fondamentale cercare di migliorare il proprio benessere personale se si vuole in seguito stare in armonia con gli altri membri della famiglia. Bisognerebbe prendere del tempo per se stessi e auto-aiutarsi a rilassarsi (con attività che diano piacere). Poi si possono mettere in atto diverse strategie per vivere meglio questo periodo in famiglia: guardare solo una volta al giorno il telegiornale, fare delle serate gioco nelle quali anche il genitore si diverta, cucinare insieme ai propri figli, fare giochi a distanza con amici o parenti che vivono lontani, avere dei piccoli momenti in cui si ride insieme, magari guardando video umoristici su YouTube. Insomma cercare di smorzare questo sentimento di frustrazione e insicurezza, con il piacere e rallentando il ritmo. Quali sono i campanelli d’allarme ai quali un genitore deve prestare attenzione?

È molto importante che gli adulti si focalizzino sulla salute mentale affinché anche i giovani non perdano il contatto con la realtà e affinché più tardi, come adulti, non sviluppino delle paure e delle angosce che hanno tenuto dentro adesso e che potrebbero ripresentarsi in futuro e portare allo sviluppo di malattie mentali. I genitori e gli adulti di riferimento devono pre-

stare attenzione a eventuali variazioni dello stato emotivo dei ragazzi, sia a scuola sia a casa. Notare se i figli cominciano a manifestare più rabbia, più tristezza, più apatia, se piangono di più o se somatizzano il loro malessere esprimendolo come mal di pancia, mal di testa, problemi di concentrazione o del sonno. Inoltre è importante monitorare il livello della qualità e della quantità della nutrizione, le quali potrebbero diminuire o aumentare se non si sta bene a livello psicologico. Gli adolescenti sono più vulnerabili, il loro cervello non è ancora del tutto sviluppato e a livello emotivo non gestiscono le situazioni come gli adulti, perciò farli sentire più sicuri e protetti è la migliore strategia che attualmente si può mettere in pratica. Ansie, frustrazioni, insicurezza e paura: sembra che la pandemia abbia portato nelle nostre vite un fardello emotivo negativo, è veramente così? Non c’è nulla di positivo?

Stare a casa non per tutti è stato negativo, anzi, c’è chi ha approfittato del lockdown, lo ha vissuto come un momento di calma, di rallentamento e di rifocalizzazione su se stessi e sulle cose importanti della propria vita. Cercare di cogliere il meglio nella propria situazione personale è un buon allenamento da fare anche con i più piccoli. Ci sono dei metodi come ad esempio prima di andare a dormire trovare tre piccole cose che nella giornata mi hanno dato gioia: mio fratello mi ha sorriso, oppure la mia amica mi ha fatto ridere durante la videochiamata, ho provato una nuova ricetta e mi è riuscita bene, ho fatto un disegno bellissimo. Se ogni sera si riprogramma il cervello cercando di trovare ogni volta tre attività positive nonostante la situazione difficile che stiamo vivendo, programmiamo il cervello a lungo termine più verso l’ottimismo che non verso il pessimismo.

I fumetti dedicati ai matematici Web Sul nostro

sito continua la pubblicazione delle avventure di Ellie È online da oggi la seconda puntata dei fumetti creati nell’ambito del progetto Matematicando del Centro competenze didattica della matematica del Dipartimento formazione e apprendimento della Supsi. La giovane Ellie accompagnata dal suo geniale zio Angelo continua il viaggio alla scoperta dei personaggi che hanno fatto la storia della matematica. L’introduzione e la prima puntata dedicata a Didone erano apparsi sul numero del 26 ottobre scorso. Per leggere i fumetti consultate il sito www.azione.ch/societa

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Società e Territorio

Che tempo che fa e che farà

Locarno-Monti Incontro con Marco Gaia, responsabile del Centro regionale Sud di MeteoSvizzera. Da 85 anni

è la «sentinella» atmosferica ticinese, ritagliandosi il ruolo di eccellenza nella gestione dei radar che sorvegliano l’evoluzione meteorologica in Svizzera

Nella sede di Locarno-Monti Marco Gaia e il suo staff di una trentina di collaboratori interpretano gli innumerevoli dati provenienti da radar e stazioni meteo di tutta la Svizzera. (Enrico Cane/Centro regionale sud di MeteoSvizzera)

Mauro Giacometti Il senso di Marco Gaia per le nuvole. Parafrasando il celebre romanzo di Peter Høeg, al responsabile del Centro regionale sud di MeteoSvizzera non manca certo la passione e la competenza nel pronosticare il tempo che farà scrutando il cielo. O meglio, con il suo staff di una trentina di collaboratori che occupano la sede di Locarno-Monti, saper interpretare gli innumerevoli dati che provengono da radar e stazioni meteorologiche di tutta la Svizzera per formulare le previsioni testuali «just in time» che saranno inserite nell’App di MeteoSvizzera consultata da migliaia di utenti ogni giorno. «In effetti da qualche decennio non stiamo più con il naso all’insù, a perlustrare formazioni nuvolose, alte e basse pressioni e direzione dei venti, bensì davanti ad uno schermo di PC scandagliando webcam, numeri, algoritmi, grafici.

Marco Gaia: «L’imprevedibilità della natura è un dato di fatto, noi possiamo solo formulare degli scenari e indicare la probabilità che essi avvengano» Il nostro lavoro, con il progresso tecnologico, è radicalmente cambiato, ma resta la conoscenza, l’esperienza e l’intuito nell’interpretare la grande mole di informazioni che riceviamo e allestire, dunque, delle previsioni meteorologiche affidabili. Quando entrai in MeteoSvizzera, nel 2001, fui assunto come previsore del tempo, oggi invece selezioniamo meteorologi, vale a dire consulenti che forniscono alle autori-

tà preposte o ai privati informazioni più dettagliate ed esaustive, tramite le nostre “expertise”, sulle proiezioni elaborate dai supercalcolatori». L’expertise umana rimarrà ancora a lungo importante, ma già oggi senza i supercalcolatori non sarebbe possibile fornire la quantità di previsioni localizzate richieste dagli utenti, sottolinea Marco Gaia mentre lo intervistiamo via Skype a causa delle limitazioni dettate dall’emergenza sanitaria. Laureatosi in fisica al Politecnico di Zurigo, appassionato di montagna, il responsabile di Locarno-Monti non è approdato subito alla meteorologia. Per quasi dieci anni, infatti, si è dedicato all’insegnamento al CSIA e all’Istituto svizzero di pedagogia per la formazione professionale. Poi il concorso a MeteoSvizzera e dalla cattedra è passato ad osservare il cielo per interpretarne gli «umori» e prevedere le bizze del tempo. Previsioni, occorre dirlo, sempre più affidabili anche a medio o lungo termine. Come le recenti e copiose precipitazioni all’inizio del mese di ottobre, preallertate con diversi giorni di anticipo tramite la App del servizio meteorologico nazionale, una delle più scaricate in assoluto in Svizzera. «L’errore nella nostra professione c’è sempre stato, c’è ancora e ci sarà sempre – precisa –. Magari non sarà più clamoroso, come qualche decennio fa, quando capitava di emanare una previsione errata sostanzialmente per mancanza di mezzi tecnici. L’atmosfera terrestre però è un sistema non lineare, caotico quindi, e in certe situazioni ci può essere qualche sorpresa nonostante oggi la meteorologia disponga di una dovizia di mezzi tecnici, stazioni di misura, radar, satelliti e quant’altro. L’imprevedibilità della natura è un dato di fatto, noi possiamo solo formulare degli scenari indican-

do la probabilità che essi avvengano», spiega Gaia. Che proprio riferendosi all’inizio di ottobre ricorda: «La perturbazione, proveniente da sud, con forti venti di scirocco e che prevedeva, nello scenario più probabile, copiose precipitazioni con una media di 250 lt/ mq nelle 24 ore, era stata individuata circa una settimana prima. Poi, sulla base di previsioni divenute via via più affidabili, abbiamo lanciato l’allerta vera e propria di grado 4 il giorno prima, come da protocollo. Nonostante fosse dunque tutto previsto, ci sono state delle sorprese: a Camedo in 24 ore sono caduti ben 411 lt/mq, valore supe-

riore, ad esempio, alla tragica alluvione della Maggia dell’agosto del 1978». È indubbio che fenomeni atmosferici estremi, come le cosiddette «bombe d’acqua» piuttosto che i prolungati periodi di siccità o canicola, stiano caratterizzando sempre più il clima mondiale e continentale. La Svizzera, negli ultimi decenni, è stata interessata più volte da fenomeni eccezionali: c’è da attendersi qualche uragano anche nelle Alpi? chiediamo al nostro competente «mago della pioggia». «Voglio essere chiaro: uragani e tornado, fenomeni disastrosi e che, anche per motivi spettacolari, stuzzicano la fantasia popola-

Osservatorio privilegiato sul Verbano Il primo passo per l’istituzione del Centro meteorologico risale al 1929 con la creazione dell’Osservatorio bioclimatico di Orselina, centro collinare che si affaccia sul Verbano (ora Locarno-Monti), nato sotto l’egida dell’Associazione climatologica ticinese, con la collaborazione dei professori Ferri di Lugano e Mariani di Locarno. Nel 1935 l’allora Centrale Meteorologica Svizzera ebbe la possibilità di rilevare lo stabile ed estendere anche al Ticino la sua attività nel campo delle previsioni meteorologiche. Il 1° maggio di quell’anno, il neocostituito Osservatorio ticinese emise il primo bollettino di previsione. MeteoSvizzera, di cui il centro di Locarno Monti è una delle quattro sedi, fa parte del Dipartimento federale dell’interno (DFI) e adempie a compiti meteorologici e climatologici di importanza nazionale a favore di popolazione, enti pubblici ed economia privata. Cura inoltre i contatti con istituti di ricerca, servizi meteorologici esteri e rappresenta

la Svizzera presso le organizzazioni internazionali, in particolare l’Organizzazione meteorologica mondiale (OMM), con sede a Ginevra.

re, da noi non si vedranno mai. Certo è che alcuni eventi meteorologici ad alto impatto, che comunque ci sono sempre stati, si stanno verificando con maggiore frequenza. Statisticamente il cambio più chiaro, a livello globale e locale, è quello della temperatura media, che si sta sensibilmente innalzando a causa del surriscaldamento dell’atmosfera provocato dalle emissioni di gas ad effetto serra da parte delle attività umane», sottolinea Marco Gaia. Il quale, per poter affinare le previsioni a corto termine, soprattutto per ciò che riguarda le precipitazioni, con il suo staff ha da qualche anno a disposizione cinque radar posizionati in altrettante regioni svizzere. «Vorrei sottolineare che quello che appare pubblicamente, vale a dire le previsioni meteo, è solo la punta dell’iceberg del nostro lavoro. La maggior parte del personale di MeteoSvizzera lavora “dietro le quinte” nella gestione degli strumenti di misura e nello sviluppo dei metodi di previsione. LocarnoMonti, ad esempio, è il centro di competenza nazionale per i radar meteorologici. Tutto iniziò con Jürg Joss, giovane neolaureato del Politecnico di Zurigo che negli anni 60 sviluppò la meteorologia radar in Svizzera, proprio da Locarno-Monti. I radar meteorologici sono in grado di scansionare l’atmosfera a 360° e rilevare ogni cinque minuti, e a largo raggio – circa 250 km in larghezza e 15-18 km in altitudine – lo stato delle precipitazioni e gli spostamenti delle zone di precipitazione. Da Locarno-Monti si gestisce l’intera rete di radar meteorologici, mettendo a disposizione i dati radar a tutti gli utenti, interni e esterni a MeteoSvizzera. Ad esempio tramite l’animazione delle precipitazioni che appare sull’App di MeteoSvizzera, funzione che mi risulta sia molto apprezzata dagli utenti», conclude Marco Gaia.


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Società e Territorio

Acquisti solidali con il Tavolino magico

Beneficenza Le filiali di Migros Ticino accolgono sabato 28 novembre 2020 la giornata della colletta alimentare

Il prossimo finesettimana in nove località della Svizzera italiana si terrà l’ormai tradizionale giornata della colletta alimentare. Le attuali circostanze pesantemente determinate dal Covid-19 non hanno fermato l’attività dei suoi organizzatori, anzi li hanno spinti a mettere in opera uno sforzo maggiore per cercare e trovare modalità nuove con cui proporre il loro gesto solidale

Cosa offrire Elenco dei prodotti a lunga conservazione che potete acquistare: ■ Cacao o cioccolato per la colazione ■ Farina per la polenta ■ Pasta e riso ■ Succhi di frutta ■ Latte UHT ■ Caffè in grani o macinato ■ Cereali per la colazione (müesli) ■ Carne in scatola ■ Tonno in scatola ■ Marmellate e miele ■ Legumi secchi ■ Aceto, olio, sale ■ Pomodori pelati ■ Concentrato per brodi ■ Tè nero, alle erbe o di frutta ■ Pomodori pelati ■ Farina bianca (da panificazione) ■ Zucchero

verso persone e famiglie in difficoltà economiche. Come ogni anno, infatti, la giornata della colletta vuole essere un forte richiamo per tutti alla solidarietà, alla carità, a lottare contro l’indifferenza che rischia in ogni istante di diffondersi, soprattutto in un momento particolare e così carico di difficoltà. È importante sapere che le richieste di un aiuto economico sotto forma di prodotti alimentari aumentano sempre di più: nella Svizzera italiana sono quasi 1800 le persone bisognose aiutate settimanalmente da Tavolino Magico. L’associazione nel 2019 ha raccolto e distribuito 600 tonnellate di cibo. Per questa ragione, al motto «condividere i bisogni per condividere il senso della vita», il gruppo di volontari che si riunisce sotto il nome di Amici della colletta organizza, nel rispetto di tutte le norme sanitarie vigenti, una raccolta di provviste a sostegno dell’attività del Tavolino Magico. Come detto la raccolta avverrà all’entrata di nove supermercati della nostra regione. Chi farà la spesa in una delle filiali Migros di: Giubiasco, Locarno-Mercato, S. Antonino, Agno, Besso-Radio, Lugano Centro, Pregassona, Molino Nuovo e Mendrisio Sud potrà aiutare in modo concreto acquistando e donando i prodotti segnalati. I volontari presenti nei supermercati l’intera giornata e facilmente ricono-

Il virus non ferma l’impegno a favore di chi è sfavorito.

scibili grazie ad un adesivo indossato sul proprio abito, sensibilizzeranno i clienti su questa iniziativa e aiuteranno a raccogliere i generi alimentari alle casse. Il Tavolino Magico è un’associazione senza scopo di lucro costituita a Zurigo nel 1999 e operativa da ormai 14 anni nella Svizzera italiana a favo-

re di persone in difficoltà finanziaria e contro lo spreco alimentare. Con la collaborazione di dettaglianti, grossisti, supermercati e produttori e grazie all’attività di volontariato di 320 persone contribuisce settimanalmente a consegnare generi alimentari di ottima qualità a circa 1800 persone bisognose

in uno dei suoi 14 centri di distribuzione (Bellinzona San Biagio e Scuola di commercio; Biasca; Caslano; Chiasso; Grono; Lamone; Locarno Arca e S. Antonio; Lugano Pregassona, Viganello e Stadio Cornaredo; Mendrisio; Quartino). Il Tavolino fornisce inoltre derrate alimentari a diverse mense del cantone.

Il mammo, una meraviglia dei mari

Sensibilità femminile

Solo le mamme sanno cosa significa partorire. Fatta eccezione per i maschi di cavalluccio marino. Le femmine depongono infatti le uova in un apposito marsupio dei maschi che provvedono a fecondarle, nutrirle e covarle. Dopo circa dodici giorni, sono loro che danno alla luce i piccoli, passando attraverso le doglie del parto. Per altre meraviglie: mari.wwf.ch

Proteggiamo le meraviglie della natura.

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Società e Territorio Rubriche

Approdi e derive di Lina Bertola Un virus nell’epoca della tecnologia Situazioni di ordinaria frustrazione. In coda, in automobile, vorrei aprire il finestrino ma il pulsante elettronico non reagisce al mio comando. Istintivamente cerco la classica manovella ma scopro che non c’è. Non me ne ero mai accorta. Sto cucinando e all’improvviso i comandi delle piastre vanno in tilt. Anche qui, nessuna manopola a disposizione per un intervento manuale più che urgente. Il touch che impazzisce è un’esperienza abbastanza ricorrente, eppure ad ogni occasione riesce a sorprenderci, lasciandoci interdetti e anche un po’ increduli: ma è mai possibile che non funzioni? Per non parlare poi di tutti quei dispetti, spesso altamente ansiogeni, che ci propina il telefono cellulare a cui abbiamo consegnato i molti frammenti della nostra vita. Gesti consueti fuori controllo suscitano in noi sentimenti di frustrazione. E questo accade perché la tecnologia, mentre continua ad alimen-

tare la fiducia in un mondo sempre più disponibile, ci costringe ad accettare anche la sua inattesa indisponibilità. Una forma di resistenza, forse il segno inavvertito di un limite: non sappiamo più dove mettere le mani. Eppure alla capacità di controllare un mondo a nostra disposizione continuiamo ad offrire incondizionata fiducia. Gli attimi di frustrazione, forse anche di sospetto o addirittura di rifiuto, vengono perlopiù riassorbiti dall’atmosfera pervasiva di legami tecnologici sempre più performanti e soprattutto ineludibili. Per cercare di dare un senso a queste ambivalenze, l’idea di un progresso tecnologico che promette meraviglie, seppure a volte disattese, andrebbe guardata un po’ più da vicino. E allora potremmo vedere che questo cosiddetto progresso si offre a noi piuttosto come una forma di continuo potenziamento. La civiltà della tecnica potenzia le sue prestazioni. Potenziamento non

è però necessariamente progresso. Perché il progresso implica l’idea di una meta verso cui tendere, un fine, un altrove, un superamento del presente in cui intravvedere, appunto, un progresso nell’espressione del valore del vivere e del convivere. La tecnologia invece, nel suo progetto infinito di potenziamento, non necessita di un fine fuori di sé. Il suo sviluppo si presenta come il fine intrinseco di tutto il processo. Un fine autoreferenziale: lo abbiamo capito da tempo, i mezzi si sono trasformati in fini, consegnando il valore delle cose al loro volto utilitaristico. Questo valore autoreferenziale della tecnologia anestetizza molte domande di senso. Da quale idea di progresso per l’umanità è nutrito l’entusiasmo per il suo continuo potenziamento? Risposta non pervenuta! Eppure sarebbe auspicabile, forse anche urgente, porsi alcune domande. Chiederci quali siano le migliori risorse, da incoraggiare e da far progredire

nell’espressione della nostra umanità. Il che ci permetterebbe di individuare una soglia antropologica da cui orientare e scegliere il buon uso delle tecnologie, distinguendo, ad esempio, tra un’apprezzata funzione collaborativa e una loro presenza che potrebbe invece rivelarsi sostitutiva di alcuni elementi fondanti dell’umano. Il potenziamento autoreferenziale elude questi interrogativi di senso continuando ad alimentare il desiderio di controllo sulla natura e la fiducia nel fatto che ciò sia sempre possibile. Da qui nascono le piccole o grandi frustrazioni quotidiane e i momenti di disorientamento più o meno passeggeri. Alla fine però tutto si risolve tra le mani sapienti di un tecnico. O nei vortici della cosiddetta obsolescenza programmata: le tecnologie altamente sofisticate è meglio che durino poco perché altrimenti la logica dell’auto-potenziamento rischierebbe di incepparsi. Queste forme di frustra-

zione e di disorientamento al più ci suggeriscono qualche domanda sulla reale disponibilità della natura, ma spesso non arrivano ad aprire la strada ad un sentimento di incertezza. Poi invece arriva un virus a mettere in crisi in modo più profondo e subdolo la fiducia nella nostra reale capacità di poter controllare, e prevedere, le vicende di un mondo ritenuto sempre pronto a soddisfare le nostre richieste. Il virus ci sta spiazzando, facendo affiorare in noi sentimenti di incertezza e soprattutto di inadeguatezza nel governare la vita, la nostra e quella dell’altro. Sentimenti di inadeguatezza, anche, nel modo di abitare il mondo. Forse, pur nella sua malefica e aggressiva naturalezza, ci sta insegnando qualcosa. Allo specchio della sua naturale presenza, invisibile quanto minacciosa, ci ritroviamo costretti ad accogliere, tra le nostre mani a volte divenute impotenti, i battiti inquietanti dell’incertezza.

figure propiziatorie dei Dogon, alcune con ancora la patina del sangue sacrificale di capre sgozzate. Lo sfondo nero, il soffitto lattescente luminoso, le poltrone in pelle: il visitatore non può chiedere di meglio per astrarsi. Scendo ancora più giù nel profondo, al secondo piano sottoterra dedicato alle esposizioni temporanee. Gigantesche porte di vetro si spalancano su minuscoli paesaggi d’inchiostro dipinti su carta centinaia di anni fa in Cina: montagne innevate, torrenti, spazi vuoti, fragili capanne di eremiti, acrobatici Pinus hwangshanensis aggrappati alle rocce, avvolte dalla nebbiolina tipica. Il bunker, arioso, affina la visione fino quasi a poter scomparire immergendosi in questi paesaggini selvaggi. La natura ancestrale rivive negli occhi. Un rombo aereo distoglie l’attenzione. È Phantom Landscape (2010) di Yang Yongliang, classe 1980: un video-quadro dove l’apparente idillio panoramico di montagne e acqua, a guardarlo meglio, si rivela divertente megalopoli apocalittica con cascate dai grattacieli, sul traffico. Risalgo le scale per il deposito in bellavista: appena passi

s’illuminano le vetrine dove, tra miriadi di pezzi, già solo due gatti in bronzo del primo secolo avanti Cristo, varrebbero la pena. Riemergo, come in un passaggio segreto, nella villa liederistica disegnata dall’architetto Leonhard Zeugheer (1812-1866). Dove tra felci in vaso per le scale e marmo senape, sono accolto da un gruppo di divinità indiane tra le quali un bel Ganesh. È la collezione di Eduard von der Heydt (1882-1964) – il barone con la faccia da Budda e lo sguardo da volpe che si era comprato tutto il Monte Verità – all’origine di questo museo. Sprazzi di lago ai piani superiori, maschere di sciamani siberiani, cervi inginocchiati. Fuori, mi siedo su una vecchia panchina verde davanti a Villa Wesendonck. Il collegio da incubo, chiamato non a caso Mädchen Internat Richard Wagner, che appare, diverse volte con le finestre illuminate nella notte e la musica incalzante dei Goblin, in Phenomena (1985) di Dario Argento con la graziosa Jennifer Connelly come protagonista (che ha una speciale empatia per gli insetti grazie alla quale risolve la serie di spaventosi delitti nei dintorni).

Haratischwili di casa a Berlino. Una saga familiare lunga quasi un secolo che ripercorre la storia di otto generazioni. Non a caso si intitola L’ottava vita e, vi anticipo, tra i protagonisti c’è anche una magica ricetta per una cioccolata calda molto speciale che con solennità viene tramandata di generazione in generazione. Proprio come lo scialle di seta verde al centro del libro della giornalista Marcella Meier che ripercorre il coraggio di quattro generazioni di donne coraggiose vissute a cavallo di tre secoli tra l’Engadina e la Val Bregaglia. In questa fase in cui le nostre vite sono state ridimensionate e il futuro è parecchio incerto qualcosa a cui aggrapparci c’è. Un sorriso e la voglia di ballare, seppur da soli, come Francesca Giorzi ha ricordato nel suo corsivo su Rete Due dedicato agli artisti e alla chiusura di teatri e luoghi di cultura. L’elezione della prima donna vicepresidente

degli Stati Uniti. Certo, riflettevamo con la scrittrice Simone Lappert, è difficile nella narrazione covid-centrica e nelle vite ridimensionate di ognuno trovare fonti di ispirazione e materia viva di scrittura. Cosa racconteranno i romanzi tra due o tre anni? Chissà, intanto condivido uno spunto di riflessione datomi da Willi Näf nel suo articolo sulla «Schweiz am Wochenende» in cui racconta della morte di sua madre. Una morte assistita e serena in presenza dei suoi quattro figli nella sua fattoria in Appenzello. Quando veniamo al mondo ci sono le ostetriche che esercitano l’arte antica dello stare accanto e quando ce ne andiamo? In questi tempi di abbracci e di morti rubate, vale la pena spenderci il pensiero. D’altronde è proprio nei tempi bui che si deve trovare il coraggio di guardarsi allo specchio e avere l’audacia di cambiare. Good night & Good luck!

Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf Il museo Rietberg di Zurigo Un padiglione di vetro color smeraldo, di fronte a Villa Wesendonck, in cima a un collinetta di un grande parco pubblico non lontano dal lago, è l’unica traccia del prodigioso ampliamento sotterraneo – ad opera, nel 2007, di Grazioli e Krischanitz – del museo Rietberg. Lo spunto, per il padiglione in faccia alla sede del museo d’arte extraeuropea nato nel 1952, proviene dal secondo verso di una delle cinque poesie scritte da Mathilde Wesendonck (1828-1902) e musicate da Wagner, ciclo noto come Wesendonck-Lieder: Baldachine von Smaragd. Baldacchini di smeraldo: così, l’amante o musa di Wagner, moglie dell’industriale della seta e mecenate tedesco Otto Wesendonck (1815-1896) – committente della villa neoclassica sorta nel 1857 che catturo ora con lo sguardo – vedeva i portapiante nella serra. Im Treibhaus, nella serra, non per niente è il titolo di questo terzo Lied, considerato – assieme al quinto, Träume – uno studio preparatorio per il Tristano e Isotta (1865) composto da Wagner quando era ospite qui. Tra aprile 1857 e luglio 1858, in un cottage –

oggi invisibile perché sostituito da Villa Schönberg tutta di mattoni rossi che comunque attrae wagneriani da tutto il mondo ostinati a percepirne l’aura – accanto alla villa dei Wesendonck. Le cui colonne doriche sono baciate adesso dal sole mattinale. Il museo, però, trae il nome da Adolf Rieter (1817-1882), altro industriale, della lana, di Winterthur, che nel 1871 compra villa e parco, diventandone anche di questo, l’eponimo. E così, al Rieterpark, verso le dieci di mattina a metà novembre, dopo una breve camminata dirottata un po’ dall’incanto di tre ginkgo biloba autunnali le cui foglie magiche sono in parte per terra, entro al museo Rietberg (439 m) di Zurigo. C’ero stato un paio di anni fa, per la mostra sulle misteriose linee Nazca tracciate nel deserto peruviano. Il padiglione-parallelepipedo di smeraldo, ricamato con motivo geometrico ipnotico in filigrana, contiene bookshop e cassa, subito accanto alla quale scendono le meravigliose scale tutte in legno chiaro. Scalini, corrimano che accarezzo con il palmo, pareti, tutto, in legno di quercia. In modo da infondere

intimità, passo dopo passo, togliendo di mezzo il mondo esterno. Le pareti, soprattutto, reticolate, ricordandomi la leggerezza dei paraventi di case del tè giapponesi o l’ariosità delle mashrabiya nelle medine, mi fanno sprofondare in un altrove. La superficie traslucida verde bluescente, simile alla giada, di alcune ceramiche cinesi della dinastia Song (969-1279), m’intontisce in partenza. In particolar modo, da una ciotola-fiore di loto – della collezione Meiyintang che nel 1994 stupì mezzo mondo accorso al British Museum e dal gennaio 2013 parte della permanente del Rietberg grazie ai fratelli Zuellig – proveniente dalla provincia di Zhejiang, dietro le vetrine perfettamente illuminate, di una bellezza epurata da tutto, non riesco a staccare gli occhi. La serenità indomita di un Guanyin, il bodhisattva della compassione, in pietra, con braccia mozzate e naso sbriciolato, mi accompagna poi, come farmaco a lento rilascio, per un pezzo di viaggio giù nel Congo, tra amuleti fatti con denti d’ippopotamo, sculture Luba di divinità – donne stralunate. Poi nel Mali incontro le esili

La società connessa di Natascha Fioretti Good night and good luck Il 24 ottobre del 2010, insieme ad altri colleghi giornalisti europei partivamo alla volta degli Stati Uniti su invito del Dipartimento di Stato americano per prendere parte all’Edward R. Murrow Program for Journalists. Che esperienza quelle tre settimane tra Washington, Denver, il North Carolina e New York. Il paesaggio autunnale valeva già tutta la traversata. Quando dall’aereo vidi quel tripudio di colori, quel tappeto di sfumature rosse, gialle, aranciate e marroni mi sentii già a casa. La crisi dei media e dei giornali da quelle parti già mieteva le prime vittime ma il giornalismo conservava ancora la sua aura speciale. I miei colleghi, gran parte di loro giornalisti politici e inviati, erano fieri del loro lavoro e pieni di speranze per il futuro. Da allora una parte del gruppo è rimasta unita, ci siamo rivisti a Berlino, a Istanbul... Quest’anno su Zoom. Meglio di niente, dieci anni vanno fe-

steggiati. La nota più spensierata è stata la volpe che curiosa si aggirava nel giardino di casa del collega tedesco. Le volpi in Oriente sono viste come creature benevole, portatrici di ricchezza e prosperità. Il collega tedesco a Berlino lavora in una delle emittenti televisive private più importanti del paese. È l’unico nel gruppo ad avere il terreno sotto i piedi e un orizzonte a cui guardare. Bartosz, corrispondente estero della radio pubblica polacca, lotta tra tagli e salvaguardia dell’indipendenza della sua emittente. Elif in Turchia, promettente inviato per emittenti televisive e giornali, oggi insegna all’Università e fa il giornalista a tempo perso. Andre, economista ed esperto di politica può continuare a fare il giornalista in Grecia solo grazie alla collaborazione con un importante settimanale tedesco. Memore delle atmosfere statunitensi anche un po’ goliardiche, rivederci in video con

qualche sogno in meno e qualche anno in più mi ha lasciato un’enorme tristezza. Anche se, rivendendomi nei panni di una decade fa, oggi professionalmente sono molto felice. Ho appena fatto la mia prima esperienza di conduzione in diretta al microfono e in generale il 2020 mi sta regalando molte soddisfazioni. Penso sempre a mio nonno Peter che lavorava in radio e oggi saprebbe darmi dei consigli. Lo so, ve l’ho raccontato tante volte ma certe cose non si vorrebbe mai smettere di ripeterle. In fondo questi tempi bui ci ricordano che le storie da raccontare, da leggere, da ricordare e da tramandare hanno un potere salvifico. Ve ne consiglio due, al femminile, storie di coraggio e di sciagure perché amiamo ripeterci che andrà tutto bene in verità, covid a parte, la vita non manca di tirarci brutti scherzi e confrontarci con gli abissi. Il primo è quello della scrittrice georgiana Nino


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Ambiente e Benessere Aeroporto Willy Brandt Il 1. novembre, sono atterrati i primi voli, accolti con un sospiro di sollievo dai berlinesi

L’evoluzione parallela Vegetali e animali fitofagi si sono evoluti attraverso complessi meccanismi di simbiosi, competizione e parassitismo pagina 21

Duri ma tanto buoni Fragranti biscotti alle mandorle d’accompagnamento al caffè o da abbinare con un Vin Santo pagina 24

Per tenere vivo lo sport Sono numerosi i giovani che meritano di essere sostenuti, aiutati, compresi e valorizzati

pagina 27

pagina 19

Il ritorno della «tempesta perfetta» Covid-19 Pazienti affetti da coronavirus

e una seconda ondata che non giunge inattesa

Maria Grazia Buletti «C’era da aspettarselo», afferma l’epatologo ed esperto in malattie infettive Andreas Cerny: oggi questa seconda tempesta perfetta è favorita e aggravata da condizioni differenti rispetto alla primavera passata: «le misure di contenimento sono meno severe di prima (quando avevamo sprangato al virus tutte le porte, chiudendo scuole e commerci). Oggi attività commerciali, trasporti, mobilità delle persone, edilizia e scuole sono diversi aspetti della nostra società che restano attivi, permettendo dunque al coronavirus di diffondersi pure nei mesi a venire». Gli chiediamo cosa sia cambiato per i pazienti ambulatoriali e i trapiantati: «I medici, già presenti sul territorio da subito, oggi sono pronti e abituati a seguire a domicilio i pazienti fragili. Nel frattempo, è stato varato un sistema di monitoraggio dei parametri a domicilio, in modo da ricoverare solo chi lo necessita e farlo immediatamente all’aggravarsi della situazione». 293 nuove persone positive, 48 nuove persone ricoverate, 36 pazienti in cure intense, 4 persone decedute: ecco un esempio di dati emanati dal DSS sulla situazione epidemiologica del 18 novembre scorso. Numeri con cui siamo ormai abituati a confrontarci quotidianamente. Ma dietro a queste cifre ci stanno le persone, quelle che si ammalano più o meno gravemente di Covid-19. A fronte delle cifre delle nuove infezioni, il dottor Pietro Antonini, specialista in medicina interna e tropicale che si trova in prima linea con i pazienti covid alla Clinica Luganese di Moncucco, così interpreta la situazione attuale e le differenze con la primavera scorsa: «La popolazione testata a fine primavera era completamente diversa da quella che testiamo oggi: all’inizio i tamponi erano effettuati solo a persone molto malate, mature per entrare in ospedale, mentre gli altri erano scarsamente testati e restavano a domicilio aspettando che passasse. Comunque, la siero-sorveglianza cantonale aveva dimostrato che circa il 10 percento dei ticinesi si era infettato: dai dati sierologici si è estrapolato che si erano infettate circa 33mila persone su 3mila diagnosi effettuate». Oggi sono per contro testate molte

più persone: «Si sottopongono a tampone tutti quelli che presentano sintomi, pure simili a quelli influenzali, come mal di gola e raffreddore. Ora il tasso di positività non è paragonabile a quello di marzo, ma il virus circola più ampiamente perché chi ha un raffreddore ha una probabilità su quattro di avere contratto il coronavirus che, d’altra parte, è uno dei virus respiratori che circola maggiormente». Al netto dei dati, oggi le persone vengono ricoverate prima di essere gravissime: «Ricoveriamo chi avrebbe alta probabilità di decorso grave ma che sta ancora relativamente bene». Per questo, i ricoveri sono convogliati per lo più nei reparti di degenza e, al momento in cui parliamo con il dottor Antonini, egli conferma che a fronte di 130 ricoverati solo 5 o 6 sono degenti in terapia intensiva (anche se la situazione potrebbe essere in divenire): «L’ospedale è consigliato alle persone con fattori di rischio per una grave evoluzione, dimostrata ad esempio dalla storia clinica individuale e dagli esami di laboratorio». Certo è che all’esaurirsi delle proprie risorse respiratorie la persona degente deve essere trasferita in cure intense, dove può essere posta al respiratore: «L’insufficienza respiratoria potrebbe avere esito infausto, dunque alcuni pazienti devono essere ventilati dalle macchine perché non ce la fanno più, altri possono fruire di diversi presidi ventilatori che aiutano a evitare l’intubazione. Coloro che non vengono intubati hanno ancora un po’ di riserva, sebbene molto gravemente ammalati». Oggi sono sottoposte a test e prese a carico più persone con sintomi meno gravi rispetto alla prima ondata, eppure egli afferma: «Non abbiamo ancora una terapia efficace scientificamente provata e non ci sono grandi differenze di presa a carico rispetto a prima». Parla delle consuete «terapie di supporto» con ossigeno, idratazione, anticoagulanti. Questi ultimi definiti «un’arma a doppio taglio» per il rischio di trombosi superiore a chi ha l’influenza («gli anticoagulanti vanno dosati attentamente per non causare altri problemi»). Spiega che gli antivirali sono fra i farmaci specifici («oggi diversi prodotti sono allo studio e il Remdesivir è l’unico che per ora pare dare risultati»). Rispolvera il «buon vecchio cortisone» a cui rico-

Il dottor Pietro Antonini, specialista in medicina interna e tropicale, lavora a contatto coi degenti Covid-19 alla Clinica Luganese. (Stefano Spinelli)

nosce qualche effetto su chi ha sindrome infiammatoria importante, ma ne ricorda pure i limiti. E sugli immunosoppressori dice: «Ne abbiamo usati di quelli per le malattie reumatiche, ma l’argomento è ancora molto controverso e gli studi in corso non danno ancora esiti soddisfacenti». Al netto di questi farmaci che definisce «non banali», con effetti secondari, somministrati per corto tempo, egli afferma: «A oggi le terapie non hanno effetto certificato su decorso, durata della malattia e mortalità anche in chi assume cortisone: pazienti altamente sintomatici o con forte sindrome infiammatoria provocata dal virus, col rischio di prolungare la permanenza del virus e il quadro clinico». D’altronde dal 1700 in poi, con le

altre pandemie, già si sapeva che l’efficacia della lotta stava nelle misure di contenimento come munirsi di pazienza, distanza sociale, mascherine usate correttamente, disinfezione delle mani, e prudenza nei contatti: «Anche a livello terapeutico stiamo combattendo quest’epidemia con presidi che conoscevamo già dal 1700 e tutto ciò che stiamo aggiungendo è davvero low tech, in attesa del vaccino nel quale confidiamo prima possibile». Oggi sappiamo che la malattia è chiaramente legata all’età e a determinati fattori di rischio: «I diabetici si ammalano più gravemente degli altri; possono concorrere fattori genetici e la prognosi può giocarsi anche attorno alle probabilità di guarigione o meno

dell’individuo». Sui pazienti dimessi egli ricorda che la durata dell’immunità è ancora al vaglio e il vaccino, ribadisce, aiuterà nella gestione di questo virus: «Con alti e bassi andremo avanti fino a marzo, poi la bella stagione permetterà una tregua e speriamo di vaccinare un po’ di persone; a ottobre non sarà debellato, ma speriamo di non avere più queste ondate». Però ci mette in guardia: «Fino alla prossima pandemia: dovremmo investire di più nella ricerca delle zoonosi (ndr: virus e batteri trasmessi dall’animale all’uomo) perché ci sono virus anche molto più gravi di questo. Non dobbiamo illuderci che questa volta sia l’ultima; dunque, la ricerca sarebbe la nostra àncora di salvezza per non trovarci impreparati».


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Ambiente e Benessere

Esiste la pasta senza glutine ma integrale?

La nutrizionista Basta prendere quella prodotta con farina di legumi come ceci, lenticchie e piselli

che sono ricchi di fibre alimentari

pasta è prodotta con fecola di tapioca 10%, farina di riso 7%, e preparazione di farina di piselli; inoltre si aggiunge all’elenco la presenza di fibre alimentari a base di patate, granoturco, piselli e Plantago Psyllium; sono a forma di fiori, da cui prendono il nome, e ripieni di spinaci e ricotta: «senza glutine, senza lattosio, senza frumento»). Spesso questi prodotti però non portano la sigla «aha!» o equivalenti, come la spiga barrata, e quindi è molto importante leggere bene l’etichetta del prodotto: le sostanze che possono dare allergia o gli ingredienti da esse ricavate e presenti nel prodotto finito, anche in forma modificata, devono essere chiaramente definiti nell’elenco degli ingredienti e l’indicazione deve essere evidenziata mediante il carattere, lo stile, il colore dello sfondo o altri accorgimenti adeguati. Spesso sono in grassetto e nero, per cui risaltano bene sulla lista degli ingredienti. Inoltre, alla fine di questa lista può esserci anche scritto: «contiene glutine».

Laura Botticelli Gentile Dietista, mia figlia di 20 anni ha sempre mangiato in modo sano e regolare. Da qualche tempo, e dopo aver avuto problemi digestivi, ha scoperto di non tollerare gli alimenti che contengono glutine. Mi domandavo se in commercio esista la pasta integrale (che prima tollerava bene), ma senza glutine. In commercio vedo solo la pasta aha! «normale» e non integrale. Grazie per una sua indicazione. / Anna Gentile signora Anna, mi dispiace che sua figlia abbia sviluppato un’intolleranza al glutine, ma vedrà che averlo scoperto migliorerà la sua qualità di vita e i cambiamenti alimentari che adesso dovrà fare e sembrano spiacevoli alla fine verranno ricompensati perché non avrà più problemi digestivi e sicuramente si sentirà molto meglio in generale. Effettivamente la maggior parte dei prodotti senza glutine certificati derivano dalle farine di mais e di riso, due cereali naturalmente privi di questo complesso proteico. Se mediamente un pacco di spaghetti di frumento o di spelta integrali può contenere dai 5 g agli 11 g di fibre su 100 g di prodotto, la pasta che deriva dal riso e dal mais ne ha solo 2,5 g/100 g. Come fare dunque a recuperare

Non tutti i prodotti adatti portano la sigla «aha!» o equivalenti, come la spiga barrata, e quindi è molto importante leggere bene l’etichetta del prodotto.

un buon apporto di fibre? Il mio consiglio è quello di scegliere paste prodotte con farine di altra provenienza. Di fatto, in commercio ci sono spaghetti, penne e altri formati di pasta preparati

Informazioni

con farine di legumi come ceci, lenticchie e piselli. I legumi sono naturalmente privi di glutine e ricchi di fibre (in media su 100 g di spaghetti ci sono dai 5 g ai 9 g di fibre) e, a differenza dei

cereali, i legumi abbondano pure di proteine. (nota di redazione: ad esempio, tra i prodotti «aha!» in vendita alla Migros si trovano nel reparto della pasta fresca confezioni di ravioli la cui

Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch Le precedenti puntate si trovano sul sito: www.azione.ch Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Un nido di aquile che non spiccheranno più il volo?

Sul filo della frontiera rossocrociata Bussole Inviti a

letture per viaggiare

Viaggiatori d’Occidente Dopo alcuni tentativi di apertura falliti e slittamenti vari,

Berlino ha finalmente il suo nuovo Aeroporto internazionale (BER), proprio ora che bisognerà ripensare il ruolo dei trasporti aerei

Claudio Visentin

«È il 4 giugno 2015. Mi trovo in kayak sul Reno a Kleinhüningen, un sobborgo appena a nord di Basilea vicino al confine tedesco, pronto per partire. La mia intenzione è di seguire il confine internazionale della Svizzera e tornare in questo stesso luogo, ma provenendo dall’altra direzione. Sono 1935 km di frontiera».

OTFW, Berlin

Dopo sette mesi di forzata immobilità, il giornalista Andrew Curry è finalmente andato in aeroporto e ha passato tutti i controlli in attesa di imbarcarsi sul volo per Kutaisi, città della Georgia. Ma poi non è partito e l’epidemia non c’entra. Andrew, infatti, è uno dei numerosi volontari convocati per l’ultimo collaudo delle procedure nel nuovo Aeroporto internazionale di Berlino (BER), intitolato all’ex cancelliere Willy Brandt. Troppa cautela? Forse no, gli imprevisti sono sempre in agguato. Nel 2008 l’apertura del modernissimo Terminal 5 dell’Aeroporto di Heathrow (Londra) provocò un caos inimmaginabile: i computer di ultima generazione spedirono ventitremila bagagli in giro per il mondo senza i loro padroni e causarono cinquecento cancellazioni di voli in solo cinque giorni. Da allora questi test sono la regola, come nel caso dell’Aeroporto Changi di Singapore (2017), da molti considerato il più bello del mondo. Comunque, alla fine la prova generale è andata bene e, il primo novembre, sono atterrati i primi voli, accolti con un sospiro di sollievo dai berlinesi. Qualcuno a dire il vero ha sottolineato la coincidenza con Halloween e in effetti qualche scherzetto il nuovo aeroporto l’ha giocato. Il percorso verso l’apertura, infatti, è stato quanto mai sofferto, tra scandali, errori progettuali, costi fuori controllo (la spesa finale di sei miliardi di euro è il triplo del previsto), ditte insolventi, rinvii. A un nuovo aeroporto berlinese si pensò subito dopo la riunificazione delle due Germanie, nel 1990. I lavori iniziarono nel 2006 e l’inaugurazione era prevista nel giugno 2012, quando controlli di routine rivelarono una serie infinita di problemi tecnici la cui soluzione ha richiesto otto anni. Sembra una storia poco tedesca ma si sa che i berlinesi sono molto diversi dal resto del paese, nel bene e nel male. Gli abitanti della capitale sono famosi anche per il loro spirito sarcastico e le battute sul nuovo aeroporto si sono sprecate: «Non era più conveniente demolire Berlino e ricostruirla vicino a un aeroporto funzionante?». E nella gigantesca area duty free Swatch vende l’orologio modello Delayed: sul cinturino sono incisi gli ultimi dieci anni, alcuni cancellati in corrispondenza dei falliti tentativi di apertura.

Ma adesso ci siamo e finalmente Berlino ha un unico grande aeroporto internazionale. Sino a questo momento infatti diversi impianti hanno servito la città, ciascuno con una sua spiccata identità storica. Per cominciare Schönefeld, inglobato nel nuovo progetto e rinominato Terminal 5. Aperto nel 1947, fu fino al 1990 l’aeroporto di Berlino Est e della Repubblica democratica tedesca, con la compagnia di bandiera Interflug e naturalmente i sovietici di Aeroflot. Poiché da qui si volava anche verso i Paesi occidentali i controlli della Stasi (i servizi segreti della Germania est) erano interminabili, con tanto di macchina della verità. Andando verso il centro della città, appena oltre il quartiere alla moda di Kreuzberg, a sud-est, s’incontra lo storico Aeroporto di Tempelhof. Era solo un campo nel 1908 quando due svizzeri, Théodor Schaeck ed Emil Messner, si staccarono dal suolo con il pallone Helvetia per un volo di milleduecento chilometri sino alla Norvegia. L’aeroporto vero e proprio fu inaugurato nel 1923 sotto la Germania di Weimar, quando l’aviazione civile muoveva i primi passi: qui fu fondata Lufthansa e qui attraccavano i giganteschi dirigibili Zeppelin di ritorno dai viaggi intercontinentali. Durante il nazismo l’aeroporto fu enormemente ampliato e trasformato

in un simbolo del nuovo regime. L’edificio principale, a forma d’aquila con le ali spiegate, è tra i più grandi al mondo. Il 10 maggio 1933 oltre un milione di tedeschi si radunarono a Tempelhof per ascoltare un discorso di Hitler. I bombardamenti alleati lo risparmiarono, forse in vista di un uso futuro. E in effetti conobbe la sua ora migliore tra il giugno 1948 e il maggio 1949. Come reazione al blocco sovietico di tutte le vie di accesso a Berlino Ovest, gli Alleati organizzarono un gigantesco ponte aereo (nel momento cruciale atterrava un aereo al minuto) per rifornire la città di tutto il necessario, dal carbone al cibo alle medicine. Dopo un lungo utilizzo come aeroporto civile una grande festa celebrò la chiusura di Tempelhof, il 30 ottobre 2008. Poco prima di mezzanotte, mentre gli ultimi aerei rimasti si levavano in volo, gli ottocento invitati cantarono Time to say goodbye, poi tutte le luci dell’aeroporto si spensero per sempre. Dal 2010 Tempelhof è un popolare parco pubblico prediletto da pattinatori, artisti, ciclisti, giocolieri e ballerini. È anche un set scelto da molti registi (qui è stato girato per esempio The Hunger Games), nonché un centro di accoglienza per rifugiati provenienti da Iraq e Siria: un singolare destino per un aeroporto legato al nazismo.

L’ultimo aeroporto storico di Berlino, Tegel, sorge a nord-ovest della capitale. Il primo settembre 1970 Pan Am e British Airways trasferirono qui tutti i loro aerei e nello spazio di un giorno Tegel divenne il principale aeroporto di Berlino Ovest. La chiusura era prevista per il 2012 ma i ritardi del nuovo aeroporto lo hanno costretto a operare fuori tempo massimo e oltre i limiti delle sue capacità: progettato per due milioni e mezzo di passeggeri, nel 2019 ne ha accolti ben ventiquattro milioni, prima di passare la mano al nuovo aeroporto internazionale da quaranta milioni. E tuttavia molti ancora lo rimpiangono, soprattutto per la sua vicinanza al centro città. Dopo tante incertezze, un luminoso futuro sembra attendere l’Aeroporto internazionale di Berlino. In questi anni, tuttavia, il mondo dell’aviazione è cambiato in profondità. Il nuovo impianto ha aperto le porte proprio quando la capitale tedesca è tornata in lockdown (2 novembre), per limitare la diffusione del contagio che sta mettendo a rischio la sopravvivenza delle compagnie aeree. Inoltre, il cambiamento climatico, più rapido del previsto, renderà presto necessario un ripensamento del trasporto aereo, frenando prospettive di crescita troppo ottimistiche. Le sorprese non sono finite.

I viaggiatori per definizione varcano confini. Da qualche tempo tuttavia molti indugiano nella terra di nessuno tra due Stati o ne fanno la ragione stessa del viaggio. Per esempio, Erika Fatland, La frontiera. Viaggio intorno alla Russia (Marsilio) o Kapka Kassabova, Confine. Viaggio al termine dell’Europa (EDT). Alla voce Svizzera il Guinness dei primati registra Andrea Vogel: nel 1992 compì in tre mesi il periplo della Confederazione e si diede poi ad altre imprese avventurose, come la traversata del Sahara. Tuttavia, anche Rupert Roschnik coltivava questo stesso progetto, esattamente dal 1983, quando aveva 43 anni e da tempo si era trasferito in Svizzera per lavorare in una multinazionale. Ma per compiere la grande impresa Rupert ha dovuto aspettare la pensione e solo a 75 anni è partito anch’egli da Basilea, muovendosi in senso antiorario e cercando di restare sempre il più vicino possibile al confine. Il percorso è stato compiuto in momenti diversi del 2015 e 2016, superando anche vari imprevisti e qualche incidente. La scrittura (in inglese) è piana e descrittiva, senza pretese, ma una sincera curiosità e una certa modestia finiscono per far apprezzare l’autore e la numerosa compagnia di familiari, amici e guide ai quali è affidata la logistica della spedizione. Un lungo capitolo con numerose fotografie descrive la parte ticinese del viaggio, compresi avventurosi attraversamenti dei nostri laghi in kayak. / CV Bibliografia

Rupert Roschnik, Frontier Fascination. Adventures around the Swiss border on foot, by bicycle and kayak, Upfront Publishing, pp. 187, € 26,45.

Il traduttore acrobatico

Giochi di parole Cervello umano contro intelligenza artificiale: vince il contenuto semantico

1. Abbinare il frutto al dolce. 2. Aumentarsi l’intelligenza. 3. Barcamenarsi con l’inconsistenza in seno. 4. Cambiare sostentamento per schiacciata. 5. Convertire gli statuti in tabella. 6. Dare ospitalità a lavoratori illuminati. 7. Disporre gli appoggi tra le alternanze. 8. Frugare il satellite nel mucchio. 9. Giustificare l’ammonimento. 10. Inseguire i rivenditori dalla loggia.

11. Perfino il gusto consente la propria fetta. 12. Piantare il legno che setaccia a monte. 13. Proiettare il blocco e velare la direzione. 14. Puntare a documenti scoperchiati.

15. Raccogliersi in un campanile di candore. 16. Rasserenare gli infuriati fantasmi. 17. Ridursi i collegamenti alle scarpate. 18. Smussare alla maniera dei miceti. 19. Togliersi un jack dal mezzo. 20. Vivere a costruzione del perverso.

Soluzione

parole date con degli opportuni sinonimi.

Anche l’occhio vuole la sua parte – 12. Abbandonare la nave che cola a picco – 13. Gettare il sasso e nascondere la mano – 14. Giocare a carte scoperte – 15. Chiudersi in una torre d’avorio – 16. Calmare i bollenti spiriti – 17. Tagliarsi i ponti alle spalle – 18. Spuntare come funghi – 19. Levarsi una spina dal cuore – 20. Abitare a casa del diavolo.

Anche se la maggioranza della gente è convinta che il computer sia notevolmente più potente del nostro cervello in qualsiasi campo di applicazione, esistono diverse attitudini della mente umana che gli esperti di Intelligenza Artificiale non sono ancora riusciti a simulare in maniera soddisfacente. Una di queste, in particolare, è la capacità di saper interpretare il contesto di un discorso. Di conseguenza, se a una macchina si chiede di elaborare un testo che rispetti un determinato contenuto semantico, il risultato sarà assai deludente, se non addirittura ridicolo.

Ad esempio, la traduzione automatica, dall’italiano in russo, di una frase come: «Lo spirito è forte, ma la carne è debole», può produrre un risultato del tipo: «La Vodka è buona, ma la ciccia è marcia». Il seguente gioco è nato con il preciso intento di dissacrare un pochino le potenzialità del computer. Ognuna delle seguenti venti frasi rappresenta un ipotetico risultato ottenibile traducendo automaticamente un nostro popolare modo di dire, prima in un’altra lingua, e poi da questa di nuovo in italiano. Cercate di ricostruire il maggior numero di modi di dire originali, sostituendo alcune delle

1. Unire l’utile al dilettevole – 2. Montarsi la testa – 3. Navigare col vento in poppa – 4. Rendere pan per focaccia – 5. Cambiare le carte in tavola – 6. Accogliere a braccia aperte – 7. Mettere i bastoni tra le ruote – 8. Cercare la luna nel pozzo – 9. Capire l’antifona – 10. Cacciare i mercanti dal tempio – 11.

Ennio Peres


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Idee e acquisti per la settimana

Dolci sorprese Le specialità natalizie della Chocolat Frey assicurano momenti di assoluto piacere, sia come regalo per i propri cari, sia per sé. Nel nuovo Calendario dell’Avvento per adulti si nascondono truffes al liquore e non solo, per un pezzetto di dolce fortuna ogni giorno. I Coaties con mandorle ricoperte di cioccolato sono ora disponibili come nuova creazione al caramello-mandorla. La voglia di Natale è soddisfatta anche con i Clouds, i croccanti crispies di frumento integrale con cioccolato al latte e aroma di arancia-cannella, oppure ancora con la miscela «Santa Moments», una selezione di diverse delizie al cioccolato.

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Lo sapevate? Il calendario dell’Avvento fu inventato dai genitori per rendere tangibile il periodo festivo ai propri bambini. Il primo calendario dell’Avvento nacque nel 1851. All’epoca le famiglie cristiane appendevano 24 quadretti con motivi natalizi al muro o sulle finestre. Un’altra variante era quella di tracciare 24 linee con il gesso sulle ante degli armadi o sulle porte. Ai bambini ogni giorno era permesso di cancellarne una.

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Ambiente e Benessere

Brillanti mangiatori di foglie Etimologia Gli insetti nella vita e nello sviluppo dei vegetali

Alessandro Focarile La superficie del Globo che ci ospita è pari a 550 milioni di chilometri quadrati, dei quali il settanta per cento è coperto da acqua: mari, oceani, laghi e fiumi. Il restante trenta per cento (pari a 165 milioni di chilometri quadrati) costituisce l’insieme delle terre emerse, che comprendono anche i deserti e i territori inabitabili. Sulle superfici che consentono la vita, sono presenti attualmente circa 300mila specie di vegetali (Jolivet 1998), escludendo da questo numero (già imponente) l’immenso esercito delle muffe, dei funghi, delle felci, dei muschi e infine dei licheni. Del Carbonifero durato 60 milioni di anni ci sono note soltanto 500 specie di vegetali, grazie alle impronte fossili scoperte durante i tempi geologici posteriori. Il numero delle specie è vertiginosamente e progressivamente aumentato grazie a un esplosivo fenomeno di diversificazione, che ha prodotto l’attuale flora. Nel corso della vita sulle terre emerse del pianeta, i vegetali e gli animali vertebrati e invertebrati da essi dipendenti hanno elaborato una evoluzione parallela, una coevoluzione, grazie a complessi meccanismi di simbiosi (= vita in comune, insieme), di competizione e di parassitismo. Nel corso del tempo, i vegetali hanno sviluppato metodi difensivi, che si realizzano attraverso difese morfologiche (spine, peli ade-

Oreina gloriosa. (Alessandro Focarile)

sivi), e chimiche con la produzione di sostanze tossiche e repellenti (alcaloidi). La prima pianta con fiori (Pannaulikia) emerse dalla melma di un mare poco profondo e poco salato nel Triassico (220 milioni di anni or sono). Durante questo periodo comparivano progressivamente gli uccelli e gli insetti più evoluti e con occhi composti, come le formiche e le api. Nel successivo periodo Giurassico erano abbondanti le conifere, i ginkgo e le felci. La vegetazione produceva, come ai nostri giorni, enormi quantitativi di parti morte deposte al suolo, trasformate nell’immensa fabbrica dell’humus, mescolate con la componente minerale grazie al lavorìo di un esercito di detritivori e trasformatori. Tra questi, i millepiedi (Miriapodi Diplopodi), che avevano dimensioni gigantesche fino a tre metri di lunghezza. In questi esseri, il ruolo ecologico non è mutato durante i 400 milioni di anni della loro evoluzione fino ai giorni nostri. Attualmente, millepiedi lunghi soltanto alcuni centimetri vanno a spasso lentamente nella lettiera dei nostri boschi, continuando ad assolvere il compito della loro vita: masticare e triturare la vegetazione decomposta che giace a terra. Al momento (2010) sono state censite e descritte 1 milione e 400mila specie di insetti, il cinquanta per cento delle quali sono legate (infeudate) per la loro vita ai vegetali: sono i fitofagi. Ai quali sono da aggiungere alcune

Dorifora della patata (Leptinotarsa decemlineata). (Alessandro Focarile)

Una crisomelide Melasoma (o Chrysomela) aenea. (Tobias 67)

migliaia di vertebrati erbivori, tra cui i mammiferi, i pesci e alcuni rettili… Cioè quegli esseri che si cibano dei vegetali: dai semi e dalle radici, fino ai tronchi degli alberi e ai pollini. I primi insetti fitofagi leccavano liquidi presenti sulle piante. Il secondo sistema di alimentazione era realizzato attraverso la succhiatura della linfa, sostanza zuccherina costituente un nutriente liquido, con perforazione dei tessuti. Una terza fase evolutiva vedeva la comparsa delle mandibole, che consentivano la masticazione di materie vegetali. Nell’ecosistema di qualsiasi biotopo dominato dai vegetali superiori – dalle praterie ai boschi – la componente dei fillofagi, cioè che si nutrono di foglie, è di dominante importanza, sia per il numero delle specie, sia per l’astronomico numero di individui ivi presenti, venendo a costituire un considerevole apporto nell’ambito della biomassa complessiva. L’ordine dei Coleotteri è rappresentato in Svizzera da 6400 specie (Besuchet 1985). Nell’ambito di questo importante patrimonio faunistico, i

coleotteri crisomelidi, rutilanti esseri vistosamente colorati, sono rappresentati da 480 specie: dai salici della Valle Maggia a quelli di alta montagna, come il salice erbaceo a quasi 4000 metri sulla Grivola (Valle d’Aosta). Si tratta di un raggruppamento faunistico molto importante per il loro interesse anche forestale e agrario, in quanto sono entità totalmente fitofaghe, cioè interamente legate ai vegetali per la loro alimentazione. Gli adulti e le larve dei coleotteri crisomelidi producono enormi quantità di escrementi che si presentano sotto forma di glomeruli e pallottoline. Sono miliardi di pacchetti di fertilizzanti con una ragguardevole componente di potassio, sodio, fosforo e azoto, che cadono a terra alla base della vegetazione. Venendo a contribuire alla feracità del suolo, con un elevato apporto di nutrienti, dove sono dilavati dalle piogge e incorporati. I crisomelidi hanno diversi e peculiari fenomeni biologici di particolare rilevanza attinenti al loro comportamento. Innanzitutto, il «cannibalismo» attuato dagli adulti a carico delle pro-

prie uova e larve. Il «viviparismo» è un fenomeno di particolare importanza per la continuità di una specie, specialmente in ambienti limite qual è l’alta montagna. Il ciclo biologico si svolge attraverso 2-3 anni e la femmina, anziché deporre le uova, partorisce giovani larve. Sempre nei biotopi di alta quota, alcune specie di coleotteri crisomelidi e curculionidi mostrano il fenomeno della «partenogènesi»: le femmine generano solo femmine, e la continuità della stirpe è assicurata da tutto quello che abbiamo raccontato. Giungiamo alla conclusione che i rapporti tra piante e animali erbivori sono talmente stretti, indissolubili, da costituire un unico e grandioso successo biologico. Bibliografia

Pierre Jolivet, Interrelationship between Insects and Plants, CRC Press, Boca Radon (New York-London, 1998), 309 pp. Ch. Besuchet, Combien d’espèces d’Insectes en Suisse? Bulletin de la Societé entomologique suisse (1985). Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Turisti a cavallo nel Pantanal, Mato Grosso, Brasile; su www. azione.ch si trova una galleria fotografica più ampia. (Franco Banfi)

Terre arse

Reportage Pantanal: l’agonia di un ecosistema unico al mondo Sabrina Belloni Su una superficie di oltre 170mila kmq (pari a quattro volte la Svizzera) i proprietari terrieri appiccano il fuoco per liberare immense aree della savana brasiliana dalla vegetazione naturale, ottenere terreni fertili da sfruttare con coltivazioni intensive prevalentemente di soia (utilizzata nella produzione di mangimi per gli animali da allevamento) e rinverdire i pascoli dove sono allevati oltre cinque milioni di capi di bestiame. Quest’anno, decine di migliaia di ettari di aree naturali sono scomparse avvolte da un fumo denso, acre. Gli incendi sono divampati senza possibilità di controllo su un territorio arido come una polveriera. L’aria divenuta irrespirabile e il calore radiante hanno annichilito centinaia di migliaia di animali selvatici, che sono rimasti intrappolati in cortine di fiamme e fumo, arsi vivi senza possibilità di fuga. L’ossigeno brucia, alimentando gli incendi, e l’anidride carbonica si espande. Non potendo essere catturata dagli organismi viventi (né da quel che resta della relativamente vicina foresta amazzonica, né dal fitoplancton negli oceani), l’anidride carbonica si diffonde nell’atmosfera, incrementando l’effetto serra e accelerando il cambiamento climatico del pianeta. Un circolo vizioso su cui le scelte dell’uomo influiscono in modo determinante. L’enorme superficie del Pantanal è uno degli ambienti più incontaminati e meno esplorati del Sud America, un universo di rara bellezza, sospeso tra terra e acqua, che ospita una delle maggiori concentrazioni di fauna selvatica al mondo: 102 specie di mammiferi, 650 specie di uccelli, 270 di pesci, 177 specie di rettili e 40 di anfibi. Si stima che 30 milioni di caimani convivano con giaguari, formichieri, anaconde, capibara, scimmie, lontre giganti, piraña, ara giacinto ed altre centinaia di specie. La sua superficie si estende per il 70% in territorio brasiliano negli stati di Mato Grosso e Mato Grosso do Sul, il 20% in Bolivia e 10% in Paraguay, nella parte superiore del bacino del fiume omonimo. Questa è una delle zone a più alta biodiversità mondiale. Dal 2000 Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO, ha però un limite: oltre il 90% dei territori

sono di proprietà privata, il che ne mette a rischio la integrità e unicità biologica. Come indicato dal nome stesso, il Pantanal è una piana alluvionale immensa, dove sorgenti, fiumi, paludi ed acquitrini si susseguono senza interruzione alcuna nella stagione delle piogge, generando la più grande zona umida tropicale del pianeta. Essi regolano il ciclo dell’acqua piovana da cui dipende la vita, purificano l’acqua e aiutano a prevenire inondazioni e siccità. La zona umida si colma d’acqua durante la stagione delle piogge e si svuota durante quella secca: un ritmo alternato che evoca un cuore che batte, una regione che palpita al ritmo della natura. È un palese controsenso che il fuoco devasti una immensa piana alluvionale in modo talmente disastroso. L’acqua è un formidabile agente di spegnimento ed è il più comune ed economico materiale naturale estinguente, tanto che i vigili del fuoco utilizzano prevalentemente l’acqua per domare gli incendi di legname, di carta, di bosco, di sterpaglie e via elencando. Ma questo eccezionale elemento non è stato sufficiente a preservare il Pantanal, soprattutto nelle ultime due stagioni estive. Sulla base dei dati pubblicati dall’INPE (Istituto nazionale per le ricerche spaziali brasiliano; vedi nota n. 1), da inizio anno a metà settembre 2020 sono stati registrati 141’578 incendi, il 12% in più rispetto a quelli segnalati nell’anno 2019 (125’714) e quasi il doppio di quelli divampati nel 2018 (82’247). Negli anni scorsi, le fiamme

Paesaggio sulla riva del fiume, zone umide del Pantanal. (Franco Banfi)

sono state contenute dal mosaico d’acqua del territorio, ma l’estrema siccità di quest’anno ha ridotto la portata delle barriere naturali, e la deforestazione ha colmato i fiumi di legname e residui boschivi, trasformandoli in fattori di propagazione degli incendi. Sebbene l’influenza del cambiamento climatico sull’attuale siccità non sia stata ancora scientificamente provata, i ricercatori ritengono che l’estrema aridità nella regione possa essere stata innescata dalle maggiori temperature registrate negli oceani del Nord Atlan-

Il giaguaro (Panthera onca) è una specie di gatto selvatico ed è l’unico membro esistente del genere Panthera originario delle Americhe. (Franco Banfi)

tico e Nord Pacifico. I dati raccolti dal 1. gennaio al 18 ottobre e riferiti al solo Pantanal brasiliano, elaborati da LASA (Laboratorio di applicazioni satellitari ambientali, Dipartimento di meteorologia, Istituto di geoscienze, Università federale di Rio de Janeiro; vedi nota n. 2), indicano che le superfici arse nel 2020 (oltre 4mila milioni di ettari) sono più che raddoppiate rispetto al 2019 (oltre 1700 milioni di ettari), con valori mensili del +253% a marzo, +314% a luglio e +293% a ottobre. I rilevamenti satellitari hanno dimostrato che il numero degli incendi ha iniziato ad aumentare a fine luglio, ed è esploso ad agosto e settembre quando si è raggiunto il 72% dei focolai dei primi nove mesi dell’anno. Il fumo degli incendi che hanno devastato l’Amazzonia e il Pantanal si è esteso per oltre 4mila chilometri e ha raggiunto almeno cinque paesi confinanti, Perù, Bolivia, Paraguay, Argentina e Uruguay. I vigili del fuoco sono stati affiancati dai volontari, sia da rancheros (preoccupati per le mandrie) sia da professionisti del turismo locale, i quali si sono trovati ad affrontare una battaglia persa in partenza. Hanno scavato trincee e barriere antincendio per fermare le fiamme, ma inutilmente: il vento alimentava il fuoco, rendendolo incontenibile. La densità di fumo nell’aria e il

calore impedivano all’acqua trasportata dai canadair di raggiungere il suolo, lasciando mano libera alla potenza catastrofica del fuoco, che ha decretato la morte di milioni di animali. I ricercatori temono che fenomeni di portata così devastante possano alterare permanentemente il bioma del Pantanal, che potrebbe non essere più in grado di sostenere la diversità delle piante e della fauna selvatica attuali, soprattutto nello Stato del Mato Grosso dove le fiamme hanno interessato anche le riserve e i parchi naturali. Molti animali non sono riusciti a sfuggire alle fiamme o si sono trovati isolati in regioni senza possibilità di alimentarsi. Tra le tante specie protette spicca la onçapintada, un giaguaro striato considerato il maggior felino delle Americhe e l’arara azzurra, l’ara giacinto, il più grande pappagallo al mondo, capace di percorrere grandi distanze grazie ad una apertura alare che può arrivare fino a 140 centimetri. Note

1. Professoressa Luciana Gatti, una ricercatrice del Brazil’s National Institute for Space Research (INPE). 2. Professor Carlos Nobre, un ricercatore dell’Università di Sao Paulo, Institute for Advanced Studies.


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Il bio sulla pelle

Ambiente e Benessere

Consumi L’azienda vodese Satori ha sviluppato una tecnica per incidere sulla buccia

della frutta il logo Migros Bio. In questo modo sarà possibile risparmiare un’etichettatura in plastica Pierre Wuthrich La zona industriale di Aclens, tra Losanna e Yverdon-les-Bains non gode di particolare popolarità. Eppure è proprio qui che, in una serie di capannoni più o meno anonimi, è in corso un’attività che è una prima nazionale. «Siamo effettivamente la prima società svizzera a effettuare il Natural Branding, cioè l’incisione al laser della pelle dei frutti e delle verdure» ci spiega, non senza una punta di fierezza, Valon Morina, 35 anni, responsabile maturazione e stoccaggio di Satori, uno dei fornitori di Migros di frutta e verdura esotiche. Questo tipo di tatuaggio non ha evidentemente nessuna funzione estetica o di marketing, ma ha un obiettivo ecologico ben preciso: incidendo il logo Migros Bio sulla superficie di un prodotto, è possibile evitare di utilizzare un imballaggio in plastica. Lo scopo è indicare una differenza precisa tra i prodotti che sono frutto di agricoltura biologica e altri che non lo sono, così come prescrive la legge. La commercializzazione di frutti muniti di nuova etichettatura è stata proposta durante un periodo di prova, tra giugno e novembre, prima nei supermercati delle cooperative Migros Vaud e Zurigo, poi in quelle di Ginevra, Neuchâtel-Friborgo e Lucerna. La prova ha avuto successo, tanto che da questa settimana le maggiori filiali Migros svizzere propongono manghi bio con il loro bel tatuaggio. «I nostri collaboratori sono stati appositamente formati per utilizzare questa macchina» spiega Valon Morina. Un apparecchio che è attrezzato con procedure di sicurezza ed è chiuso da tutti i lati, per evitare possibili incidenti». Concretamente, i manghi bio che arrivano dalla Spagna, dal Brasile o dal Perù (trasportati esclusivamente su camion o su nave) sono in un primo momento collocati in uno stabilimento di maturazione, cioè un deposito in cui regna una temperatura costante di 19° C. «Qui effettuiamo un controllo quotidiano per scegliere i frutti che potranno essere marcati secondo le regole definite da Migros» continua Morina. Una volta effettuata la selezione, tutto procede poi molto velocemente. I manghi sono disposti in un’ingabbiatura a gruppi di otto, e messi poi su un nastro trasportatore all’entrata della macchina. Un apparecchio fotografico misura allora la dimensione del contenuto e calcola l’altezza esatta dei frutti, per poter regolare il laser. Poco dopo, due raggi bruciano in una frazione di secondo la buccia, per incidere il logo «Migros Bio». Una volta usciti dalla macchina, Vjolca Hoxha, 42 anni, responsabile dell’équipe, o una delle sue collaboratrici controlla ognuno dei

Le fasi della lavorazione. (Mathieu Rod)

frutti, per assicurarsi che siano correttamente tatuati. «Può succedere che la marcatura non sia ancora completamente chiara, in quel momento. Ma per esperienza sappiamo che acquisterà di intensità dopo due o tre ore dal trattamento» precisa Vjolca Hoxha. Quattro giorni dopo è effettuato un ultimo controllo per verificare che la polpa non sia stata toccata. «Non succede mai» ci assicura la responsabile. «Il laser è estremamente preciso e non incide che superficialmente i frutti e le verdure. Possono quindi essere consumati senza preoccupazione». Insieme ai manghi, Satori incide attualmente anche gli avocadi bio e ciò nel quadro di un test che si terrà fino a primavera. Se anch’esso si rivelerà positivo, Migros potrà risparmiare, tra manghi e avocadi, più di 5.5 milioni di etichette di plastica ogni anno.

«Le reazioni dei clienti sono molto positive»

Migros propone già manghi bio tatuati e attualmente sta provando la nuova tecnica del Natural Branding sugli avocadi bio. Questi due prodotti però, già oggi, sono molto poco imballati. Perché avete scelto di cominciare proprio da quelli ?

Tecnicamente è possibile incidere numerosi tipi di frutti e verdure. Detto questo, ci sono vari aspetti da considerare. Nel caso dello zenzero, ad esempio, bisogna che il logo rimanga perfettamente visibile. Ciò che non è scontato, vista la forma della radice. Per quello che riguarda il marchio su una buccia commestibile, come nel caso della pesca, sarà necessario osservare la reazione dei consumatori.

Forte di queste prime esperienze, Migros svilupperà ulteriormente la sua offerta di prodotti bio tatuati?

La volontà di ridurre la quantità di imballaggi è molto ben accettata dai consumatori. Abbiamo ricevuto molti commenti positivi, sia tramite i social media che tramite la nostra M-Infoline.

Intervista a Mirco Passarelli, Category Field Manager Frutta per la Federazione delle Cooperative Migros.

Era importante per noi compiere i primi test su frutti che avessero una buccia relativamente spessa e dunque meno fragile. I due candidati ideali erano proprio manghi e avocadi.

E quali sono quelle registrate fino ad oggi ?

I test sugli avocadi sono iniziati allo stesso momento di quelli sui manghi. Perché la fase di prova, nel caso dei primi, è stata prolungata ?

Abbiamo dovuto constatare che gli avocadi bio reagivano di più all’incisione laser e avevano una maggiore tendenza ad avariarsi. Siamo tuttavia convinti della validità della tecnica del Natural Branding. È per questo che stiamo rivedendo i nostri processi e che cercheremo di incidere solamente il contorno del logo, per evitare di occupare una superficie troppo ampia. In caso di successo, tutti gli avocadi bio venduti da Migros esibiranno, a partire dalla prossima primavera, in tutta la Svizzera, il logo Migros Bio sulla loro buccia. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere Migusto La ricetta della settimana

Biscotti alle mandorle Dolce Ingredienti per circa 50 pezzi: 300 g di farina · 1½ cc di lievito in polvere · 170 g di zucchero · 3 bustine di zucchero vanigliato · ¼ cc di sale · 150 g di mandorle · 3 uova grosse · farina per la spianatoia.

migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.

1. Scaldate il forno a 180 °C. Mescolate la farina con il lievito, i due tipi di zucchero, il sale e le mandorle. Incorporate le uova, impastate velocemente e formate un panetto. 2. Dividetelo in due parti uguali. Sulla spianatoia leggermente infarinata formate due filoni di circa 30 cm di lunghezza e di circa 2 centimetri d’altezza. Disponeteli su una teglia foderata con carta da forno e cuoceteli al centro del forno per 35-40 minuti finché si dorano. Sfornate e lasciate intiepidire. 3. Abbassate la temperatura del forno a 160 °C. Tagliate i filoni in biscotti larghi 1 cm e accomodateli nuovamente sulla teglia. Tostateli al centro del forno, girandoli una volta, per 20-30 minuti. In una scatola ermetica i biscotti alle mandorle si conservano per 3-4 settimane. Ottimi con il caffè, ma anche con un bicchierino di Vin Santo. Preparazione: circa 20 minuti; cottura in forno: circa 1 ora; tempo di raffreddamento: 45 minuti. Per porzione: circa 2 g di proteine, 2 g di grassi, 8 g di carboidrati, 60 kcal/250 kJ.

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Ambiente e Benessere

Determinazione, forza, fiducia Sport È la lezione che ci viene dal tanto vituperato mondo dell’agonismo

Giancarlo Dionisio «Se c’era una cosa a cui guardare con entusiasmo in questo mese di novembre, per me era proprio la serata Miglior Sportivo Ticinese. Non tanto per i riconoscimenti che vengono attribuiti, ma perché è una serata che celebra lo sport, gli sportivi e chi per questo mondo fa tanto. E il 2020 ci doveva almeno questo, ma è andata diversamente… Un grande chapeau agli sportivi in gara nel concorso, e non. Ognuno di voi è un esempio da seguire, con la propria storia. Non vediamo tutto quello che succede, il lavoro giornaliero, i sacrifici, i sorrisi e le lacrime. Sono felice di essere parte di una comunità che non ha mollato anche quando ci si doveva fermare, dimostrando valore, coraggio e forza interiore». Questa è una parte del testo redatto dalla velocista Ajla Del Ponte sul suo profilo Instagram in occasione del suo terzo successo quale Miglior Sportivo Ticinese, a cui si aggiunge peraltro la recentissima nomina di Atleta Svizzera dell’Anno. La serata di cerimonia in Ticino non si è tenuta, poiché quel giorno si era nel regime delle 5 persone in sala. Ma i premi, almeno virtualmente sono stati distribuiti e annunciati ai media, e al paese. È un paese virtuoso, il nostro cantone, in ambito sportivo. Su un fazzoletto di 2812 km quadrati (circa 8 volte più piccolo della Lombardia), in cui vivono 353mila persone (quasi 30 volte meno rispetto alla regione confinante), nelle varie discipline si stanno arrabattando, in pieno Covid, una decina di squadre di serie A. Alcune sono delle vere e proprie aziende, alle quali vanno aggiunte le altre importanti real-

tà. In fondo siamo quella che Francesco Chiesa, definiva «la repubblica dell’iperbole» (ancora pochi anni fa, si poteva permettere fino a sette quotidiani). È più complicato sopravvivere, in questo periodo di inquietanti incertezze, in un contesto collettivo. Lo svolgimento dei campionati di hockey, calcio e pallacanestro, lo dimostrano. Bastano un paio di contagiati per porre in quarantena un’intera squadra, e mettere a rischio tutta la stagione. Rivolgo il mio pensiero a tutti coloro che, per scelta o per caso, sono invece confrontati con una disciplina individuale. Come Ajla Del Ponte, la giovane sprinter losonese che ha illuminato la scena mondiale lo scorso mese di agosto, dominando due tappe della Diamond League; come Filippo Colombo, frenato da una foratura, quando era probabilmente lanciato verso il podio nella prova regina agli europei di MTB; o Noè Ponti, che lo scorso finesettimana ha messo il suo sigillo sui Campionati nazionali di nuoto in vasca corta; e ancora come tutti gli altri giovanissimi atleti inseriti nel progetto olimpico patrocinato dall’Associazione Aiuto Sport Ticino, e sostenuto da AIL. Si tratta di nove ragazzi e ragazze che hanno le credenziali per inseguire il sogno olimpico. Vuoi perché, come è il caso di Ajla Del Ponte e Noè Ponti, i loro valori sono vicinissimi ai limiti di partecipazione posti dalle rispettive federazioni. Vuoi perché dispongono del potenziale per raggiungere l’obiettivo. L’aveva senza dubbio Ilaria Käslin, la ginnasta di Sagno, che poche settimane fa si è chiamata fuori, immagino per sfinimento, dopo aver comunque vissuto la gioia di numero-

Ajla Del Ponte. (Bob Ramsak)

se partecipazioni di qualità a Mondiali ed Europei. L’hanno tutt’ora il biker Filippo Colombo, oramai costantemente vicino all’élite mondiale; l’atleta Emma Piffaretti, la vogatrice Olivia Negrinotti, il triatleta Sasha Caterina,

il pugile Tiago Pugno, e lo spadista Elia Dagani. Questi giovani hanno dalla loro una carta importante, quasi un asso. Possono anche allenarsi da soli, o in un contesto che prevede pochissime per-

sone attorno. Quindi nel pieno rispetto delle norme anti pandemia. Eh già, sembra facile! Provate voi ad alzarvi ogni mattina alle cinque, per essere in piscina alle sei. Oppure a sciropparvi sette-otto ore di lezione, uscire di corsa, prendere bus, bici o motorino per essere alle cinque allo stadio, in pedana, al centro remiero, oppure in sella alla bici con un centinaio di chilometri che vi attendono. Il tutto rigorosamente da soli. Senza un compagno con cui scambiare due parole. In fondo è ciò che scrive, Ajla Del Ponte nella citazione introduttiva. Ha 24 anni, e dimostra una grande maturità. Ha ragione. Spesso siamo portati a mettere in evidenza gli aspetti deleteri del pianeta sport. Ce ne sono, perbacco. Le pulizie di Pasqua andrebbero fatte anche a Natale e a Carnevale, mettendo alla porta allenatori incompetenti, violenti, poco empatici, e dirigenti fanfaroni che mirano esclusivamente alla celebrazione di loro stessi. Ma, come dicono a Roma, «quanno ce vo’, ce vo’», quindi, come dice il Vangelo, «diamo a Cesare ciò che è di Cesare». Ci sono numerosi giovani che meritano di essere sostenuti, aiutati, compresi, valorizzati. Sia quelli di punta, che abbiamo citato, e che continuano a lavorare duramente, anche se i Giochi Olimpici di Tokyo 2021 sono tutt’altro che una realtà. Sia le migliaia di ragazzi e ragazze che frequentano regolarmente campi, campetti, piscine, palestre, boschi e altri luoghi in cui regalare benessere al proprio organismo, forgiare spirito e carattere, tentando di raggiungere obiettivi importanti, anche se modesti, alimentare relazioni di amicizia e di rispetto.

Giochi

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

Cruciverba Quella che vedete nella foto è la Fontana dei Quattro Fiumi a Roma, da chi fu realizzata? Lo scoprirai a cruciverba ultimato leggendo le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 4, 7, 7)

ORIZZONTALI 1. Servivano a corte 5. Grezza è in bioccoli 9. Una preposizione 10. In Messico nome dato alle grotte con laghetti di acqua dolce 11. Plurale maiestatico 12. Corrugamenti di superfici lisce 13. Consiglio Nazionale 14. Si divide al bivio 15. Il padre dei vizi 17. Usa poco le ruote 18. Audace 19. Ha la criniera sulla schiena 21. Sono divise da C e D... 22. Altari pagani 23. Preposizione articolata 24. Esistono anche gelati... 25. Pianta dai bei fiori

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

VERTICALI 1. Con la capra in uno scioglilingua 2. Lo lascia la macchia 3. Un articolo 4. In genere... sono estremi 5. Monete rumene 6. Cosa che si trascina da tempo 7. Famose quelle di Figaro 8. Lo erano Sartre e Pirandello 10. Il verso della rana 12. Letizia 14. Pronome personale 16. Sermone 18. È il numero uno in Inghilterra 20. Una consonante 21. Indispensabili quelli di prima necessità 23. Avverbio di negazione 24. Simbolo chimico del cobalto Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

Sudoku Soluzione:

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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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Soluzione della settimana precedente

DAL DOTTORE – Il dottore alla paziente: «Come si chiama?» – «Maria» – «Quanti anni ha?» – «Cinquantadue» – «Dica trentatré»… Risposta risultante: «CI HO PROVATO MA NON CI CREDE NESSUNO!» C I I S M E A N L I A L N E N O S

N A T I O

G H I A R E A V A R T O N V O L N E T T C O T T O F I E R I E M I D S C I C A S O B U G

T O P O O V R N A R T A R E I C N G A D L E N A E L O O S E N O L A

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 novembre 2020 • N. 48

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Politica e Economia Peru, crisi rientrata L’elezione a presidente ad interim di Francisco Sagasti pone fine alla crisi istituzionale e alle proteste popolari

Trump abbandona l’Afghanistan La decisione della Casa Bianca di ritirare le truppe americane entro il 15 gennaio 2021 regala di fatto il paese ai Taliban pagina 33

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Reportage Come vivono i profughi siriani in Libano? In questo viaggio di Francesca Mannocchi tutto il dramma della loro vita perduta nelle tendopoli libanesi

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AFP

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La prossima Expo Dopo quella del 2002, fra setteotto anni è prevista la prossima esposizione nazionale: quattro i progetti in lizza

Senza gli Usa, con la Cina

Rcep I leader di 15 paesi della regione Asia-Pacifico hanno firmato uno dei più grandi trattati commerciali

della storia: un accordo che istituisce la più grande area di libero scambio al mondo. L’India è la grande assente Lucio Caracciolo Gli Stati Uniti attraversano una fase di confusione acuta e la Cina ne profitta. Ne è testimonianza l’annuncio della firma di un accordo che istituisce la più grande area di libero scambio al mondo: senza gli Usa, con la Cina al centro di un sistema di 15 paesi asiatici. È la Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep). Vi partecipano le 10 nazioni dell’Asean – gli Stati del Sud-Est asiatico – ovvero Vietnam, Cambogia, Indonesia, Malaysia, Laos, Myanmar, Filippine, Singapore, Thailandia e Brunei – insieme a Corea del Sud, Giappone, Australia, Nuova Zelanda e appunto Repubblica Popolare Cinese. Insieme, più o meno un terzo dell’economia globale e oltre 2 miliardi di abitanti. Sarebbe dovuta esserci anche l’India, che si è tirata indietro all’ultimo momento anche perché temeva di

essere invasa dai prodotti cinesi a basso costo – oltre che per considerazioni geopolitiche, che ne fanno un nemico permanente di Pechino. È la conseguenza lineare della scelta americana di rinunciare alla Trans-Pacific Partnership, sabotata da Trump. E della successiva scelta di aprire una guerra commerciale con la Cina, divenuta sempre più pesante e carica di significati non solo economici. Sicché la TPP è andata avanti prima senza gli Stati Uniti poi, su iniziativa di Pechino, si è integrata con la Repubblica Popolare. Anche se non sarà un’area di libero scambio profonda, come ad esempio quella nordamericana fra Usa, Canada e Messico o quale l’Unione Europea, si tratta di un’intesa che conferma nella Cina il leader regionale cui fanno riferimento paesi amici e soprattutto soggetti vicini agli Usa o addirittura suoi alleati.

Si palesa così l’impossibilità per gli americani di sigillare una catena di contenimento dell’espansione economica e commerciale della Repubblica Popolare. Negli ultimi mesi, infatti, l’amministrazione Trump aveva stretto i bulloni della pressione su Pechino. Fino a proporsi di «liberare» il popolo cinese dalla dittatura del Partito comunista, assimilato all’omologo sovietico se non al nazismo. La Cina fra l’altro si garantisce di non dover intaccare il sistema delle grandi imprese di Stato, che costituiscono tuttora il nerbo della sua economia. Così anche quanto a proprietà intellettuale o servizi, su cui Pechino continua a muoversi come crede. La Cina partecipa dunque in posizione dominante a un sistema regionale che le permetterà di riscrivere le leggi del commercio asiatico, in contrasto con le norme ereditate dalle regolamenta-

zioni volute dagli Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale. Il «Global Times», giornale cinese che esprime gli orientamenti del regime, celebra con gusto questo successo: «La Rcep rappresenta il fallimento del tentativo di accerchiamento della Cina voluto dall’amministrazione Trump». Come si vede, il sottotesto geopolitico dell’operazione è ben chiaro. L’obiettivo della nuova amministrazione americana, secondo il «Global Times», sarà di «alterare la catena di fornitura globale centrata sulla Cina e portare il centro di gravità delle reti di produzione globale di nuovo verso gli Stati Uniti e i loro alleati». Ma questo è impossibile: «La rivalità fra Cina e Stati Uniti ha raggiunto lo stadio in cui nessuna delle due nazioni può sopprimere l’altra. Almeno sotto il profilo commerciale, una strategia di contenimento colpisce il benessere globale

e danneggia gli interessi economici di entrambi i paesi. Sfortunatamente, questo senso comune non è stato ancora preso sul serio dalle élite politiche americane». Possibile che con Biden la musica cambi? Qualche gesto di apertura è da aspettarsi. Difficile che la sostanza e la durezza dello scontro cambino. Uno dei pochi temi su cui gli americani concordano è la necessità di sbarrare la strada all’ascesa cinese. Con le buone o con le cattive. Se necessario con una guerra limitata. In questa fase la Cina fruisce del vantaggio di aver superato la crisi del Covid-19 mentre gli Stati Uniti ne sono pienamente investiti. Un dato di fatto di cui devono tenere conto tutti i paesi. A cominciare da quelli attorno alla Cina, che fanno del commercio con l’Impero del Centro il cuore delle rispettive economie.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 novembre 2020 • N. 48

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Il Perù ritrova la calma

America Latina L’elezione a presidente ad interim di Francisco Sagasti pone fine alla crisi

istituzionale e alle violente proteste degli scorsi giorni a Lima

Il momento del giuramento del nuovo governo guidato da Francisco Sagasti. (Keystone)

Angela Nocioni Francisco Sagasti, settantaseienne ex funzionario della Banca mondiale vissuto a lungo all’estero, è il nuovo presidente del Perù. Dovrà traghettare il Paese andino fino alle elezioni dell’11 aprile. È stato lui la via d’uscita alla terribile crisi istituzionale che ha cambiato tre presidenti in una settimana a Lima e lasciato sul selciato due ventenni uccisi dalla polizia mentre protestavano in piazza: Jack Bryan Pintado Sánchez e Jordan Inti Sotelo Camargo. Oltre a settanta feriti gravi e a centinaia di arresti.

Il paese andino è ancora diviso fra chi vuole un uomo forte al comando e chi teme un nuovo Fujimori Sagasti è anche il quarto presidente in meno di cinque anni a Lima, città decollata un decennio fa grazie a uno sviluppo economico frizzante che pareva inarrestabile, frenata poi dalla crisi e travolta negli ultimi mesi dall’emergenza da epidemia di Covid-19 che ha messo in ginocchio con una quarantena durata da marzo a giugno una economia sostenuta da un 70% di manodopera in nero. Almeno sette milioni di persone hanno perso il lavoro in quei mesi e non l’hanno recuperato, denuncia l’Istituto nazionale di statistica. In questo contesto socialmente drammatico agli inizi di novembre è maturata una manovra politico-giudiziaria che ha rapidamente dato scacco matto al presidente in carica, Martín Vizcarra, accusato di aver ricevuto tangenti per 634mila dollari quando ricopriva un incarico locale sei anni fa. Il principale regista dell’operazione politica che ha portato alla destituzione di Vizcarra per indegnità morale è stato l’allora presidente del parlamento, Manuel Merino, un vecchio latifondista ferocemente razzista con indigeni e afro-indios, noto essenzialmente per aver fatto lavorare nel suo fondo agrario molti minori ridotti in stato di schiavitù. Fatto fuori Vizcarra, da presidente del Parlamento Merino ne ha

preso il posto ad interim e quando, a sorpresa perché Vizcarra non era certo un presidente molto amato, migliaia di persone si sono riversate in piazza a Lima denunciando l’operazione interpretata come una manovra della destra estrema per prendere con un colpo di mano il governo, Merino ha evitato ogni mediazione politica ed ha ordinato alla polizia una repressione feroce. Tra i feriti ci sono molti giornalisti. Lo scandalo che ne è seguito e la mobilitazione di parte della borghesia limeña hanno costretto Merino a mollare e hanno portato alla presidenza della repubblica Francisco Sagasti che si è sempre mostrato un ragionevole moderato di idee liberali e che di recente aveva accettato di presentarsi alle prossime elezioni generali come vice di Julio Guzman, centrista, leader del partito Morado, uno tra i minori dei 24 partiti che siedono nel Congresso nazionale (monocamera con 130 deputati). Julio Guzman è stato il suo mentore. Si era già opposto all’interdizione del presidente Martin Vizcarra da parte della Camera ritenendola una forzatura giuridica. Dopo la repressione delle manifestazioni, Guzman ha chiesto le dimissioni di Merino stringendo nel frattempo un accordo con la sinistra parlamentare per sostituire il presidente ad interim con la giornalista Rocio Silva Santesteban. Candidatura caduta sotto il voto contrario di franchi tiratori, molti dei quali centristi come Guzman. Per uscire dall’angolo Guzman ha brandito la necessità di scongiurare il ritorno dell’uomo forte, ha sventolato il fantasma di Alberto Fujimori raccomandando a centrodestra e centrosinistra di scuotersi per evitare di infilarsi nel solito vicolo cieco della ricerca del caudillo per domare situazioni di emergenza. Il timore ha funzionato, per superare le resistenze dei principali partiti è andata in porto in tempi rapidissimi la manovra concordata per far eleggere Sagasti prima presidente della Camera e immediatamente dopo dello Stato. Sua vice è stata votata Mirtha Vazquez, del socialista Frente Amplio. La prima mossa del neopresidente, a parte la conferma della convocazione di elezioni ad aprile, è stato l’annunciato pacchetto di misure per «rafforzare

l’indipendenza della Procura generale dello Stato e la Sovrintendenza dell’educazione superiore». Quest’ultima è stata al centro della crisi. Perché secondo la vulgata che ha portato alle mobilitazioni di piazza per bloccare la rimozione dell ex presidente Vizcarra c’era il progetto, da parte di un gruppo di partiti di governo, di toglierle alcune centrali funzioni di controllo e indirizzo affinché poi fosse possibile obbligarla a riaprire centri universitari privati, chiusi per non aver rispettato standard minimi di qualità, di cui esponenti di primo piano di partiti di governo sono proprietari (una crisi politica drammatica che celasse un business per gli studi universitari privati è un inedito nella pur travagliata e fantasiosa storia di crisi peruviane). Fondamentale nello scongiurare il protrarsi del vuoto istituzionale è stato il timore di aprire un varco al colpo di mano di un nuovo Fujimori. Lo spettro evocato da Guzman ha funzionato perché convitato di pietra di ogni discussione politica in Perù è ancora Alberto Fujimori, che ha governato con pugno di ferro tra il 1990 e il 2000. La discussione politica lì è ancora tutta occupata dalla battaglia tra fujimorismo e antifujimorismo, i due grandi campi di appartenenza in cui si divide il paese. Da una parte quelli per cui il nome Fujimori è sinonimo di tirannia. Dall’altra quelli per cui Fujimori era il padrone cattivo ma zelante che si faceva vedere nelle zone più desolate del Perù, raccoglieva meticolosamente richieste e preghiere e poi faceva arrivare qua e là camion di elettrodomestici da distribuire gratuitamente in quartieri in cui un frullatore funzionante era un miraggio. La promessa del nuovo presidente di rafforzare l’indipendenza della magistratura ha invece destato più preoccupazione che sollievo in patria. In molti temono infatti che più autonomia si traduca semplicemente in più potere, anche politico. Il Perù è stato recentemente travolto da una grande indagine giudiziaria sulla corruzione di amministratori pubblici da parte delle imprese. La serie di inchieste ha terremotato la politica locale e generato mandati d’arresto per gli ultimi quattro presidenti della repubblica. E ha portato a un suicidio eccellente. Il mercoledì della Settimana san-

ta dell’anno scorso il popolarissimo ex presidente Alan Garcia – due volte presidente della repubblica (1985-1990, 2006-2011) – aspettava a casa di essere portato in carcere con accuse di corruzione. Era indagato per le concessioni pubbliche relative alla linea 1 della metropolitana di Lima. Secondo le ipotesi degli inquirenti, vari membri del suo secondo governo avrebbero intascato 24 milioni di dollari di cui ci sarebbe traccia in conti segreti ad Andorra e lui stesso avrebbe mantenuto spese superiori al suo patrimonio. Garcia aveva chiesto invano asilo politico in Uruguay, lamentando una persecuzione giudiziaria nei suoi confronti. Il governo di Montevideo l’aveva rifiutato perché, così recita la motivazione resa pubblica, «in Perù il potere giudiziario è indipendente dal governo e quindi non si può considerare nessuno perseguitato per ragioni politiche». Pochi secondi prima essere arrestato Alan Garcia ha tirato fuori dalla cassapanca accanto al suo letto una pistola Colt e si è sparato alla tempia destra. In un suo scritto ha spiegato d’aver deciso di suicidarsi «in disprezzo ai nemici». Lì ribadisce la sua innocenza: «Non ci sono conti segreti, né tangenti». Due giorni dopo il suicidio di Garcia, in uno dei rivoli peruviani della stessa inchiesta centrata sulle mazzette milionarie della Odebrecht – la grande impresa di costruzioni brasiliana che ha distribuito, secondo le ammissioni di alcuni suoi dirigenti, una marea di soldi a vari governi latinoamericani cominciando da quello brasiliano – è stato mandato in cella Pablo Kuczynsky, ex presidente ottantunenne, ricoverato da tempo per problemi di salute. In questo quadro – in un solo anno sono stati aperti 4225 dossier per reati di corruzione, con 2059 autorità locali come imputati, tra i quali 57 governatori ed ex governatori regionali, 344 sindaci ed ex sindaci e 1658 altri amministratori pubblici – la rimozione di Vizcarra per una accusa di corruzione risalente a un suo vecchio incarico locale, è sembrata a molti una violazione della libertà degli elettori di scegliersi un presidente. Da lì le vaste mobilitazioni delle settimane scorse, che sono il dato politico nuovo e sorprendente della crisi istituzionale aperta e chiusa a Lima in questo mese.

Politica e Economia Notizie dal mondo Etiopia, rischio di guerra civile La comunità internazionale guarda con preoccupazione agli ultimi sviluppi del conflitto in corso in questi giorni in Etiopia tra il governo centrale del presidente Abiy Ahmed e il governo regionale del Tigray, regione al confine con l’Eritrea. Il difficile rapporto tra i due contendenti trova la sua origine nel passato, cresciuta su motivazioni politiche che hanno soprattutto un carattere etnico: i tigrini, abitanti del Tigray, sono una delle quattro principali comunità che popolano l’Etiopia. Dopo anni di instabilità e di combattimenti sembrava che l’elezione di Abiy nel 2018 avesse aperto la strada a un tentativo di conciliazione nazionale basato sulla tolleranza e sull’equilibrio tra le varie componenti, tanto che il primo ministro era stato persino insignito del Nobel per la Pace nel 2019. La situazione però sembra deteriorarsi in modo inevitabile. Dopo le avvisaglie della scorsa estate (vedi «Azione» del 13.7.20) e l’uccisione, il 29 giugno, del cantautore di etnia Oromo Hachalu Hundessa, oggi alla base dello scontro politico c’è la mai sopita volontà di tornare al potere dei tigrini, fino a qualche anno fa etnia dominante, dopo che nel 1974 aveva portato al rovesciamento dell’ex imperatore Hailé Selassié. Delle quattro componenti etniche che formavano la coalizione di governo federale etiope – oromo (l’etnia del premier Abiy), amara, popoli del Sud e tigrina – quest’ultima ha defezionato. La scintilla che sembra aver scatenato il conflitto è stata la decisione del presidente Abiy di posticipare (nelle motivazioni ufficiali a causa dell’epidemia di Covid) quelle che avrebbero dovuto essere le prime grandi elezioni democratiche in Etiopia. Programmate originariamente per l’agosto 2020 sono state rimandate al 2021. La decisione ufficiale è stata rifiutata dai leader del Fronte popolare di liberazione del Tigray, i quali hanno indetto delle elezioni regionali che si sono tenute nel mese di settembre. Le urne hanno decretato un succeso dei tigrini che hanno incassato il risultato elettorale e lo fanno valere di fronte alle autorità come un segno di forza. La risposta del governo centrale si è concretizzata in un attacco militare in grande stile, iniziato lo scorso 3 novembre, contro la regione dissidente. La manovra, secondo varie testimonianze raccolte tra le vittime, si caratterizza per un’estrema violenza e sta lasciando sul terreno centinaia di vittime, oltre ad una fuga di massa delle popolazioni colpite che cercano riparo nelle nazioni confinanti come il Sudan. Migliaia di persone si dirigono verso campi di raccolta, tra cui quello di Um Rakuba, che vent’anni fa aveva accolto i profughi della storica carestia in corso allora in Etiopia. L’attacco militare, che ha previsto anche attacchi aerei sul Tigray, è stigmatizzato sia da organizzazioni non governative come Amnesty International, che ne denuncia la crudeltà verso la popolazione civile, sia dalle stesse Nazioni Unite, le quali valutano la possibilità che siano stati commessi crimini di guerra. Dal canto suo il governo di Addis Abeba giustifica l’intervento militare con la necessità di riguadagnare il controllo della situazione e di mettere a tacere una minoranza che sta destabilizzando la nazione. Il conflitto, comunque, sta chiaramente dando luogo a quella che viene definita «una crisi umanitaria su vasta scala», in cui vanno considerati oltre agli aspetti di accoglienza e gestione dei rifugiati quelli ancora più evidenti e preoccupanti legati all’epidemia di Covid, che potrebbe diffondersi tra i fuggiaschi. /Limes



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Politica e Economia

Trump regala l’Afghanistan ai Taliban Politica estera USA La Casa Bianca ha annunciato di voler accelerare il ritiro delle sue truppe,

dando seguito all’accordo con gli integralisti islamici che esclude di fatto il governo legittimo di Ashraf Ghani Francesca Marino Donald Trump ha intenzione, a quanto si dice, di creare quanti più problemi è possibile a Joe Biden nel momento in cui, in gennaio, sarà alla fine costretto ad abbandonare la Casa Bianca. E così, dopo aver licenziato per l’ennesima volta i vertici del Pentagono, annuncia la sua intenzione di accelerare il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan e dall’Iraq. Lasciando, entro il 15 gennaio, soltanto 2500 soldati americani a Kabul e dintorni e concludendo di fatto con una comica finale la colossale farsa del cosiddetto «processo di pace» con i Taliban.

Dopo il 15 gennaio 2021 resteranno soltanto 2500 soldati statunitensi a Kabul e dintorni - una presenza solo simbolica Il «processo di pace», scaturito dagli accordi firmati a Doha lo scorso febbraio tra gli Stati Uniti e rappresentanti dei Taliban, è sempre stato difatti, secondo la maggior parte degli osservatori, una foglia di fico che permetteva agli americani di abbandonare l’Afghanistan senza dover pronunciare la parola «ritiro». L’accordo è stato firmato praticamente senza condizioni, senza alcun cessate il fuoco soprattutto, e senza la partecipazione diretta di rappresentanti del governo legittimo insediato a Kabul, per inciso, con la benedizione degli stessi americani. L’unica condizione posta ai Taliban per il ritiro delle truppe americane è stata la promessa che il gruppo avrebbe cessato ogni rapporto con Al Qaida e non avrebbe più permesso che l’Afghanistan fosse adoperato come base logistica per attentati contro l’occidente. Inutile sottolineare che fin da subito i Taliban e la rete Haqqani hanno annunciato di aver vinto la ultra-ventennale guerra, e che hanno dimostrato di non avere alcuna intenzione di tener fede ad eventuali promesse. Negli ultimi mesi gli attacchi dei Taliban contro i civili e contro l’esercito regolare afghano si sono succeduti con ritmo sempre più incalzante, e il «processo di pace» è diventato poco più di una parola priva di senso. Costretti a sedersi al tavolo delle trattative con il governo ufficiale di Kabul, i Taliban e i rappresentanti del presidente Ghani non sono riusciti nemmeno a trovare un accordo su un

Di fatto, la decennale guerra americana in Afghanistan si è risolta in una sconfitta. (Keystone)

possibile calendario dei colloqui. Il rappresentante speciale degli Usa Khalilzad, non si sa quanto per convinzione o costretto a mentire dalle circostanze, è praticamente diventato uno specialista delle condoglianze ai parenti delle vittime e della negazione. Ha continuato difatti ad attribuire all’Isis ogni possibile attentato, operando dei sottili distinguo tra la suddetta Isis e i Taliban. Senza curarsi del fatto che, da rapporti dell’intelligence afghana e di rispettati analisti internazionali come Bill Roggio o Antonio Giustozzi, emerge chiaramente il legame tra le due organizzazioni. Sia i Taliban che l’Isis-K sono gestiti e finanziati dal Pakistan, e all’Isis vengono affidati i «lavori sporchi» che i Taliban non vogliono o non possono fare. D’altra parte, i Taliban non hanno mai nascosto il loro punto di vista e non hanno alcuna intenzione di smettere di combattere o di integrarsi nel cosiddetto processo democratico: «Sono un branco di criminali e mercenari» ha dichiarato di recente il portavoce dei Taliban Zaibullah Mujahid parlando

delle forze di polizia e dell’esercito afghano regolare. Aggiungendo che saranno massacrati fino all’ultimo uomo «Se non si pentono e accettano il sistema islamico». La verità è che il «processo di pace» non esiste e non è mai esistito, tranne che nella mente di Khalilzad e di tutti coloro che, più o meno in malafede, hanno convinto Washington a questo accordo sciagurato e che i Taliban, a questo punto grandi sostenitori di Trump, non aspettano altro che il ritiro completo delle truppe. Visto che non hanno alcuna intenzione di «divorziare» da Al Qaida, come ha dichiarato Edmund Fitton-Brown, coordinatore del gruppo di monitoraggio su Al Qaida, Taliban e Stato Islamico delle Nazioni Unite: «I Taliban parlano regolarmente e ad alto livello con Al Qaida e hanno assicurato all’organizzazione che gli storici legami saranno onorati». Tutto il resto è soltanto aria fritta. E se già gli analisti si preoccupavano di analizzare le conseguenze del cambio della guardia alla Casa Bian-

ca, dopo l’annuncio di Trump rimarrà molto poco da analizzare. Se il folle Donald stabilisce il ritiro delle truppe con decreto presidenziale ci sarà difatti molto poco che Biden potrà fare nel prossimo futuro. Di certo non cambieranno, ma non sarebbero cambiati probabilmente nemmeno in circostanze ordinarie, i vergognosi termini dell’accordo. A farne le spese sono, come sempre, gli afghani. Che sono stati del tutto esclusi dalle negoziazioni perché, nonostante le ripetute e strombazzate dichiarazioni sul fatto che gli Usa volevano un processo di pace «Afghan-led and Afghanowned» diretto e negoziato cioè dagli afghani, gli unici afghani che sono stati presi in considerazione sono chiaramente i membri di organizzazioni terroristiche di vario genere mentre al governo legittimo non è stata data alcuna possibilità di intervenire. Intanto, i Taliban hanno inaugurato sempre più «campi di addestramento alla pace»: in cui gli stessi Taliban, Al Qaida e la Rete Haqqani addestrano nuove reclute appartenenti a gruppi

terroristici di matrice pakistana come la Jaish-i-Mohammed e la Lashkari-Toiba. In Pakistan, al confine, sono tornati i vecchi gruppi Taliban e Islamabad ne sta formando addirittura di nuovi. Non a caso difatti, all’indomani dell’annuncio di Trump, Imran Khan si è precipitato a Kabul per incontrare il presidente Ghani. La verità è che Trump, con quest’ultima mossa in perfetto stile Sansone con i Filistei, tramuterà definitivamente l’Afghanistan in un paradiso per terroristi, governato da terroristi e diretto da remoto da uno Stato produttore di terroristi: il Pakistan. E, alle spalle del Pakistan, la Cina che già da tempo parla con i Taliban e che non ha nessuna remora etica o morale di sostanza o di forma. Ciò che importa, è il progetto imperialista della Belt and Road Initiative per il quale l’accesso all’Afghanistan è fondamentale. La pace rischia di costare cara, più cara della guerra. L’occidente sta voltando le spalle a una polveriera, una polveriera che rischia di esplodere con pesanti ripercussioni per tutti. Annuncio pubblicitario


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 novembre 2020 • N. 48

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Politica e Economia

Gli indesiderati del Libano

Reportage Perché i siriani arrivati in Libano non sono considerati profughi e sono costretti a vivere in tendopoli

Francesca Mannocchi Lo scorso 5 novembre un uomo si è dato fuoco di fronte alla sede dell’Unhcr (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati) nell’area di Bin Hassan a Beirut. Non aveva un lavoro e non aveva un soldo per comprare medicinali per la figlia malata. Poche settimane prima un caso simile, ad Arsal, nel nord del Paese. Un sessantenne ha tentato di impiccarsi. Troppa la povertà. Troppa la vergogna per aver perso il lavoro. Troppo poca la speranza di tornare, un giorno, a casa sua. Anche lui, come l’uomo che si è dato fuoco nella capitale, è scappato dalla guerra siriana. Da quando è iniziata la guerra nella vicina Siria un milione di persone ha cercato riparo in Libano. Un milione almeno su carta. Perché nel 2015, su richiesta del governo libanese, le Nazioni Unite hanno smesso di contare. Al momento, secondo le stime (per difetto) dell’UNHCR, il Paese ospita 900 mila siriani, ma la cifra più verosimile è di un milione e mezzo, che vanno ad aggiungersi ai duecentomila palestinesi che vivono nel Paese da decenni. Numeri che rendono il Libano il paese che ospita il più alto numero di persone straniere pro capite. Su una popolazione di cinque milioni un milione e settecentomila sono rifugiati. Un terzo della popolazione. Assimilarli nella società non è mai stata un’opzione. In Libano il sistema di divisione del potere si fonda su una ripartizione delle cariche su base religiosa (sunniti, sciiti, drusi, maroniti e altre 14 confessioni) che a sua volta si aggancia a un censimento degli anni Trenta, quando i cristiani rappresentavano la maggioranza del Paese. Il sistema ha paralizzato i processi decisionali, trasformando la vita politica in una spartizione familiare influenzata dalla corruzione endemica. In questa ripartizione, in cui il presidente deve essere un cristiano maronita, il primo ministro un musulmano sunnita e il presidente del parlamento un musulmano sciita, censire un milione e mezzo di musulmani rischia di far saltare tutto. Ecco perché i siriani arrivati in Libano non sono nemmeno considerati «profughi», «rifugiati»: questo implicherebbe oneri e obblighi che il governo libanese non ha avuto, né ha intenzione di prendersi. I siriani sono «ospiti». Una delle conseguenze è che per gli ospiti siriani non sono mai stati costruiti veri campi profughi. Ma solo tollerati campi informali. Un invito a non restare che negli anni si sta trasformando in un invito ad andare via, cioè tornare in Siria. La valle della Bekaa è stata ed è il centro della crisi dei siriani in Libano. Ospita più o meno la metà dei rifugiati, che, in mancanza di campi formali, hanno costruito tende e baracche di fortuna dove potevano. Arsal, al confine con la Siria, è una storia nella storia. Le tende sono dappertutto. Le Nazioni Unite le chiamano ITS, insediamenti informali di tende. È il modo burocratico per descrivere gli ammassi di plastica, ferraglia e legno ammuffito che per mezzo milione di persone sono diventate una casa. Mohammed Elsoufi vive in una di queste baracche. Ha un volto senza età. Che sia un uomo di cinquant’anni lo dice la sua carta di identità. Ma sulla sua pelle è scolpita la fatica della vita in una tenda. Come quasi tutti, qui, è arrivato pensando di restare uno o due mesi, che la guerra sarebbe finita in fretta, e sperando che avrebbe potuto far ritorno a casa sua, a Homs, con la moglie e i quattro figli. Invece sono passati otto anni, il figlio minore, Omar – che aveva un anno quando hanno attraversato le

montagne – è un ragazzino emaciato e troppo magro, e sua moglie ha trasformato due metri quadrati della tenda in una cucina, e indossa un lenzuolo che ha tagliato in due e cucito come velo e come abaya, la veste che la copre. In Siria, la loro era una famiglia normale. Mohammed lavorava come carpentiere, manteneva una famiglia di quattro figli e una casa umile ma decorosa. Di quella casa oggi non resta che qualche parete sopravvissuta ai bombardamenti. Suo fratello, che è ancora in Siria, gli ha inviato delle foto. Ma Mohammed le ha cancellate. Non vuole vederle. «Quel che è perso, è perso». Il campo in cui vive ora è uno dei 170 insediamenti informali di Arsal. Solo nel suo vivono tra le seicento e le settecento persone. In tutta l’area i siriani sono 150 mila. I libanesi meno della metà. L’inverno della Bekaa, con le temperature che scendono sotto lo zero, è iniziato. Per lui è l’ottavo. La tenda di Mohammed è piena d’acqua, è piovuto per ore. I canali di scarico sono ostruiti, così negli insediamenti sale acqua dal terreno e entra dal tetto, che non è un tetto, ma pezzi di legno tenuti insieme per scommessa e coperti di plastica. I materassi sono bagnati, i vestiti sono umidi. Tra una tenda e l’altra tubi di fortuna, che diventano stagni di acqua ghiacciata dove giocano i bambini, scalzi. Quando piove troppo i canali si riempiono di liquami. La stufa al centro della tenda di Mohammed è spenta. I soldi per il combustibile erano pochi l’anno scorso, quest’anno con l’inflazione i pochi che ci sono non valgono quasi niente. Prima della crisi economica in Libano, Mohammed riusciva sporadicamente a lavorare. Tre, quattro giorni al mese, come muratore o nelle cave della zona. Il compenso era un quarto della paga destinata ai lavoratori libanesi, ma Mohammed si accontentava di poco pur di portare a casa qualcosa di più nutriente del pane. La crisi prima, l’esplosione al porto poi hanno piegato quello che ancora combatteva per restare in piedi, così l’ingiustizia è diventata sfruttamento – qualche datore di lavoro non ha mai pagato le giornate – e poi semplicemente disoccupazione. «Fino a qualche mese fa per un giorno di lavoro riuscivo a guadagnare 15-20 mila lire libanesi. Che valevano 13-15 dollari. Oggi, col cambio del mercato nero valgono più o meno tre dollari». Lo dice e scuote la testa, Mohammed, e ripete, come tutti: «Non c’era altro da fare». Oggi non c’è niente da fare e basta. Non c’è lavoro per i libanesi e neppure per i siriani, per anni considerati parte della crisi, manodopera a basso costo. E non c’è troppa alternativa, perché alla maggior parte dei rifugiati viene negata la residenza legale o l’accesso al mercato del lavoro. I siriani possono lavorare legalmente solo in tre settori poco qualificati: agricoltura, edilizia e pulizie. Di conseguenza, molti trovano lavoro nel settore informale, dove è più facile essere esposti allo sfruttamento. «Quando non hai soldi devi chiederne in prestito. Puoi mangiare una volta al giorno, ma con la neve il combustibile serve, bisogna scaldarsi, ci sono i bambini». Così, per quelli come Mohammed aumentano gli anni in tenda sul calendario e aumentano i debiti. Le Nazioni Unite stimano che l’80% dei siriani in Libano viva sotto la soglia della povertà. Omar ascolta suo padre col viso basso. Ha un maglione troppo piccolo per la sua età e troppo leggero per le temperature. Tossisce. Dorme, come la madre e il padre, su materassi a terra che non si asciugano mai. Mohammed non vuole che lavori, non vuole cioè che finisca come troppi suoi coetanei con la

Alessio Romenzi

clandestine? Ora, dopo l’esplosione nel porto e la crisi economica, rischiano il rimpatrio. O peggio la morte

schiena piegata sui campi a raccogliere frutta e verdura per due dollari al giorno. Ma non va nemmeno a scuola, perché non possono permettersi l’iscrizione e lo spostamento per raggiungerla. Sarebbero in tutto 200 mila lire libanesi l’anno. Al cambio ora, sono settanta dollari. Che Mohammed non ha. Mohammed non si commuove, non si altera, non alza la voce. Racconta l’inumanità dei campi come se il dolore non gli appartenesse, «non possiamo fare niente» dice. Non ha rabbia, né rivendicazioni. Il dolore più fitto che possiede lo trattiene, e ha il volto di un ragazzo di quindici anni ucciso dalle bombe di Assad mentre scappavano via da Homs. Il volto di suo figlio. Ma Mohammed non ne parla. Ascolta sua moglie, Ghadir, che lo evoca, e si concede una lacrima, l’unica, che sceglie di non condividere. Uscendo dalla tenda, scusandosi per quel dolore intimo consegnato a degli sconosciuti. Ghadir non ricorda l’ultima volta che è uscita dal campo. Sua sorella vive in una tenda a pochi chilometri di distanza, in un altro insediamento. Non la vede da mesi. «Anche se la situazione è migliorata qui rispetto a qualche anno fa. Prima nascondevano le armi nelle tende, un ragazzo un giorno è uscito in strada gridando che se lo avessero preso si sarebbe fatto esplodere. Che avrebbe sparato a tutti. Non dimenticherò quella notte, è stato spaventoso. Ora, almeno, sono stati cacciati tutti». Per i rifugiati di Arsal la difficoltà della vita dei campi si è unita per anni alla mancanza di sicurezza. Dal 2014 l’arida zona montuosa di Arsal è stata una base per i militanti legati al fronte al Nusra e allo Stato Islamico, fino al 2017 quando Hezbollah ha ripreso il controllo della zona, e l’accordo che ha cessato gli scontri armati ha permesso a 8000 militanti di Al Nusra di essere evacuati da Arsal verso il nord della Siria. La tranquillità, o presunta tale, è durata poco. Lo scorso anno il governo libanese ha ordinato di demolire tutte le strutture di cemento alte più di un metro negli insediamenti, così quelle che provavano a essere baracche sono tornate strutture fatiscenti di legno e teli di plastica. «Torneremo a casa nostra, un giorno» dice Ghadir. Difficile capire se i rifugiati siriani ci credano ancora, se lo ripetano perché casa è a trenta chilometri da lì ed è la sola ragione per sopportare dopo anni la brutalità della vita dei campi, o se lo ripetano per non considerare che quella vita permanente possa essere diventata definitiva. «Torneremo a casa, a dio piacendo e Mohammed potrà mangiare ancora la kubba, la carne che gli piace tanto. Sono quattro anni che non possono più permettersela.

Anche prima della crisi finanziaria, prima dell’esplosione del porto di Beirut ad agosto, i rifugiati siriani vivevano con meno di tre dollari al giorno, oggi l’aiuto che ammonta a 27 dollari a persona al mese viene pagato in valuta libanese, 70’000 che al cambio del mercato nero valgono 10 massimo 15 dollari. Anche prima della crisi metà dei bambini siriani in età scolare era esclusa dal sistema educativo libanese. Metà di mezzo milione. Più di duecentomila bambini che non hanno avuto, né hanno, la possibilità di andare a scuola. Oggi ad aggravare la situazione è la chiusura dei centri scolastici informali. Nella sola regione di Arsal ci sono 10 mila bambini in età da scuola primaria. Le scuole pubbliche libanesi fino allo scorso anno avevano posto solo per 3 mila di loro. Quest’autunno il Ministero dell’Istruzione ha deciso di chiudere le scuole informali, strutture gestite da ONG, nate per tamponare temporaneamente l’esigenza di istruzione per i bambini siriani che non potevano iscriversi alle scuole libanesi fino al loro rientro in Siria. Anche queste scuole, come le tende, negli anni, hanno smesso di essere transitorie e sono diventate l’unica possibilità di accesso a un sistema educativo. Cioè l’unica possibilità di non crescere analfabeti. Non sono riconosciute dal sistema scolastico libanese, non danno attestati, ma per molte famiglie qualsiasi istruzione era meglio di niente, erano soprattutto la sola alternativa allo sfruttamento, al lavoro minorile. Difficile non leggere la decisione di chiudere le scuole informali come un altro passo della strategia del governo libanese per disincentivare i siriani a restare. Il presidente Michel Aoun, alla fine di settembre, in un discorso in occasione del 75.mo anniversario dell’istituzione delle Nazioni Unite ha detto «Chiediamo al mondo di aiutarci a garantire il ritorno sicuro degli sfollati siriani perché il Libano soffre una crisi senza precedenti, ed è ormai incapace di ospitarli». Una posizione non nuova e alimentata dal suo partito, il Movimento Patriottico Libero (FPM) il più grande partito cristiano del paese. Lo scorso anno i volontari dell’ala giovanile del partito hanno portato avanti una campagna per chiedere la chiusura di attività che impiegano rifugiati siriani e cittadini non libanesi, distribuendo volantini e chiedendo ai libanesi di inviare prove, video e foto, per localizzare i negozi e le attività che secondo loro avrebbero dovuto essere chiuse, al grido di «Prima i libanesi». Sui volantini c’era scritto: «Proteggi i libanesi, denuncia i trasgressori. La Siria è sicura per il loro ritorno». Negli anni i rifugiati siriani sono diventati il capro espiatorio dei problemi antichi,

strutturali, del Libano. I funzionari di governo hanno lungamente sfruttato la loro presenza per fini politici, tra loro alcuni membri del governo, come Gebran Bassil, genero del presidente Aoun, nonché ex ministro degli Esteri, nonché presidente del Movimento Patriottico Libero, noto per i suoi tweet razzisti in cui rivendica la superiorità del popolo libanese: «i siriani minacciano l’identità del nostro popolo». Bassil ha incitato e celebrato le campagne antisiriane: «Non è discriminazione razziale, ma consolidamento della nostra sovranità», «i siriani hanno una casa sicura dove tornare. Dovevano tornarci ieri, devono tornarci oggi e dovranno tornarci domani». Nel 2018, il Libano ha iniziato a organizzare il ritorno dei rifugiati siriani nonostante i numerosi rischi, nonostante gli avvertimenti delle organizzazioni umanitarie e dei funzionari del Dipartimento di Stato americano che definiscono i tempi «non maturi per il rientro», mesi dopo ha stabilito che qualsiasi siriano entrato in Libano illegalmente dopo il 24 aprile 2019 potesse essere deportato senza essere precedentemente passato da un giudice. La pressione è ancora più forte ora che la crisi della lira libanese e l’esplosione al porto hanno ancor più esasperato gli animi. Abdul Razzak al Abed vive ad Arsal dal 2013, è scappato dalla vicina Qalamoun. Sua madre è tornata in Siria un anno e mezzo fa con suo fratello firmando una dichiarazione di riconciliazione con il regime. Le parla spesso. Abdul tiene il conto di chi parte e non torna. E sa che per un uomo attraversare il confine e tornare a casa corrisponde, spesso, a sparire nel nulla. Cosa che è successa a due cugini, finiti in prigione. A un parente, giustiziato. E a un nipote, di dodici anni, fatto sparire il giorno stesso in cui è entrato in Siria. «Se hai lasciato la Siria sei considerato automaticamente un terrorista. Non importa se hai dodici anni e sei un bambino, questo è il regime», dice Abdul, mostrando la foto di Ahmad, suo nipote. «Tornare a casa? Ci penso ogni giorno. Ogni notte che mi addormento su un materasso umido, ogni giorno che indosso abiti che non si asciugano mai, e ogni volta che penso che sono sette anni che non faccio una doccia. Ma non c’è niente da fare». Non c’è niente altro da fare. Ripete. Poi ci guida, sulle colline, nel punto più alto di Arsal. E cammina sulle pietre aride con la sicurezza di chi potrebbe farlo a occhi bendati. Come chi è andato a sbirciare il passato da lì ogni volta che poteva. Dalla collina la vista nelle valli è macchiata di bianco, il bianco delle tende. Ovunque, a perdita d’occhio. All’altezza degli occhi, invece, c’è la Siria. «Proprio al di là delle montagne. – dice Abdul – casa mia».


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 novembre 2020 • N. 48

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Politica e Economia

C’è voglia di Expo

Esposizione nazionale Tra sette anni si dovrebbe tenere la prossima esposizione nazionale. Ma quale?

Quattro progetti si contendono i milioni della Confederazione Luca Beti Sono immagini indimenticabili quelle che ci ha regalato l’Expo02: il monolito sul lago di Morat, la nuvola artificiale a Yverdon-les-Bains, le torri di Bienne o il palazzo dell’equilibrio di Neuchâtel. Sono trascorsi quasi due decenni, eppure le strutture futuristiche dell’ultima esposizione nazionale, quella che si è tenuta su quattro arteplages nella regione dei laghi di Neuchâtel, Morat e Bienne, sono ancora lì a ricordarci un evento che ha segnato una generazione. Se vogliamo regalarne una anche alla prossima, di generazione, allora è tempo di organizzare un’altra expo, la settima. «Ogni 25 anni circa la Svizzera si presenta attraverso una grande esposizione nazionale con l’obiettivo di presentare la vita culturale, politica ed economica del Paese», si legge sul sito del Dipartimento federale degli affari esteri. A rigor di logica, la prossima dovrebbe quindi tenersi nel 2027. Ma quale? Al momento, in lizza ci sono quattro idee. «Svizra27» è un progetto promosso da politici e associazioni economiche della Svizzera nordoccidentale. «X27» vuole presentare una visione futurista sull’aeroporto di Dübendorf, a Zurigo. «Nexpo» è un’iniziativa lanciata dalle dieci maggiori città elvetiche (vedi «Azione» del 26 ottobre). Il loro intento è presentare la convivenza nel 21° secolo. E infine c’è «Muntagna», evento pluriennale incentrato sulla vita nella regione alpina. Per strada sono rimasti il progetto «Gottardo 2020», abbandonato dai cantoni Uri, Grigioni, Ticino e Vallese per ragioni di costi e tempi, ed «Expedition27», idea bocciata alle urne dai votanti di San Gallo, Turgovia e Appenzello Esterno nel 2016. Due sogni falliti di fronte alle difficoltà con cui, da sempre, è confrontata l’organizzazione di un’esposizione nazionale. La Landi 39 venne rimandata tre volte, quella del 1914 a Berna dovette fare i conti con il fossato tra le regioni linguistiche del Paese, allargato dalle tensioni che precedettero lo scoppio della Prima guerra mondiale. Expo02 era sull’orlo del fallimento nel 1999, salvata dal generoso sostegno di 900 milioni di franchi della Confede-

razione. Il resto è una storia di successo. Da maggio ad ottobre, Expo02 venne visitata da oltre 10,3 milioni di persone, rimaste ammaliate da quella combinazione tra paesaggio naturale e strutture architettoniche futuristiche, dal villaggio di tepee e da un giro in un gigantesco carrello della spesa. E ora, quattro comitati organizzativi vogliono di nuovo lanciarsi nell’impresa. Una sorta di gara ad ostacoli che si augurano di poter affrontare a braccetto con la Confederazione, chiamata ancora una volta a sostenere quella che viene considerata «un’istantanea dell’epoca». Per ora, il Consiglio federale non promette nulla. Con una crisi che sta svuotando le casse dello Stato, questo non è di certo il momento migliore per dispensare centinaia di milioni di franchi. In linea di principio e alla luce dell’esperienza con Expo02, il governo ha stabilito che è disposto a sostenere un’eventuale esposizione nazionale con una quota non superiore al 50 per cento dei costi complessivi, costi che non potranno superare il miliardo di franchi. Sarà il ministro dell’economia e responsabile del dossier Guy Parmelin, insieme agli altri membri dell’esecutivo, a scegliere nei prossimi due anni a quale progetto destinare i sussidi federali. È stato così anche in passato. Nel 1995, il Consiglio federale dovette scegliere tra la proposta ginevrina «Swiss Epo», l’idea ticinese «La Svizzera e le nuove frontiere», promossa tra gli altri da Mario Botta, e il progetto ispirato al motto «Il tempo o la Svizzera in movimento», che la spuntò sugli altri e diede vita a Expo02. Questa volta le candidature dovrebbero essere quattro: «Muntagna», «Svizra27», «X27» e «Nexpo». «Muntagna» è l’ultimo progetto in ordine di tempo. È stato presentato all’inizio di ottobre sul passo dell’Oberalp. Il suo slogan è «Ripensare le Alpi». Sarebbe la prima esposizione nazionale pluriennale organizzata sull’arco alpino a cui partecipano i cantoni Ticino, Grigioni, Vallese, Uri e Berna e che coinvolge le quattro regioni linguistiche del Paese. Expo-Alpi 2027 vuole creare un momento di incontro

Il monolito di Jean Nouvel all’arteplage di Murten, Expo02. (Keystone)

tra generazioni, culture e lingue diverse e fare da volano per l’economia delle regioni di montagna che non vanno più viste soltanto come luogo di svago e vacanza, bensì come spazio per vivere e lavorare. L’idea «Nexpo – la nuova Expo» è sostenuta dalle dieci maggiori città svizzere. Tramite una piattaforma online, i promotori intendono coinvolgere la popolazione nella progettazione della prossima expo, prevista nel 2028. Con un sondaggio d’opinione, l’associazione vuole inoltre far riflettere su ciò che caratterizza la Svizzera o sui valori che tengono unita la nazione. Dall’inchiesta dovrebbe risultare una specie di cartina tornasole delle idee, dei desideri e dei sogni della popolazione elvetica. «Nexpo» sarà un’esposizione decentralizzata, non legata a una regione specifica e porrà l’accento sulla convivenza nell’era della globalizzazione, sulla digitalizzazione, sul cambiamento climatico e sulla migrazione. «Svizra27» ricalca, invece, il modello della classica esposizione nazionale, un evento per fare incontrare fi-

sicamente la popolazione. Il progetto è sostenuto dai cantoni Argovia, BasileaCampagna, Basilea-Città, Giura, Soletta e dalle tre associazioni padronali nazionali economiesuisse, Unione svizzera degli imprenditori e Unione svizzera delle arti e dei mestieri. «Svizra27» è prevista nella Svizzera nordoccidentale e ruoterà attorno al tema lavoro, inteso come cardine e fulcro dell’esistenza, visto che «se in futuro il lavoro cambia a causa dei processi di trasformazione, ciò ha un impatto sulla vita e sulla convivenza». Quest’estate è stato lanciato un concorso di idee. La giuria, di cui fa parte l’ex consigliera federale Doris Leuthard, sceglierà il progetto migliore nell’autunno 2021. L’associazione promotrice prevede costi globali di circa un miliardo di franchi. La metà dovrebbe essere assunta dalla Confederazione, il 25 per cento dalle associazioni economiche e l’importo restante dai cinque cantoni coinvolti e coperto dalla vendita dei biglietti. L’ultimo progetto «X27» vuole addirittura plasmare il futuro della Svizzera. Il suo motto è «Reclaim the

future – Dammi forma. Io sono il tuo futuro. Io ti appartengo». Ma quale futuro? Sarà la popolazione a deciderlo e a costruirlo. È questo uno degli intenti dei promotori della manifestazione che si dovrebbe svolgere sull’aeroporto di Dübendorf, nel canton Zurigo. L’esposizione nazionale sarà il momento culminante di un processo già cominciato e volto a promuovere i cosiddetti progetti ponte, ossia soluzioni concrete per le esigenze del futuro della Svizzera. Alcune idee sono già state lanciate e spaziano dalla gestione dell’intelligenza artificiale allo sviluppo di prodotti o tessili sostenibili fino a nuovi concetti d’apprendimento a scuola. «X27» vuole essere un palcoscenico per presentare queste iniziative innovative all’opinione pubblica. Quattro progetti, quattro idee diverse da regalare tra sette anni alla prossima generazione. Con un po’ di fortuna, ci saremo anche noi, con la memoria che magari andrà a ripescare i ricordi dell’Expo02, per esempio quelli di una notte insonne in un villaggio di tepee sulle rive del lago di Neuchâtel. Annuncio pubblicitario

Per Lars M. non è una novità: non ha mai potuto permettersi un biglietto.

Nome e immagine modificate a tutela della personalità

La Svizzera impara a rinunciare ai grandi eventi.

Il coronavirus accresce la povertà in Svizzera. Con la sua donazione aiuta le persone in difficoltà. www.caritas.ch/covid19


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 novembre 2020 • N. 48

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Politica e Economia

L’«essenzialità» e la pandemia: un concetto preoccupante

Analisi Perché situazioni emergenziali non giustificano provvedimenti che privilegino alcune

ma non altre attività economiche

Edoardo Beretta Non vi sono dubbi che gli attuali siano tempi eccezionali, che abbisognino di misure fuori del comune: fra queste, sono anche già solo l’uso assiduo della mascherina di protezione, il distanziamento sociale e le misure igieniche in vigore. Se sulla necessità di proteggersi per proteggere (anche laddove non vi sia un obbligo, ma solo un invito) non si può transigere, l’essere umano pare non tenere più nel giusto conto il rispetto, il timore o la consapevolezza nei confronti di una minaccia non troppo latente com’è il rischio d’infezione: l’essere animale, invece, ancora fugge non appena si senta esposto ad un pericolo. Sul perché dell’avere perso la sensibilità all’ascolto del proprio istinto più profondo (cioè di proteggersi dinanzi alla minac-

cia) ritengo che sia opportuno interrogarsi non appena la situazione contingente finirà. E finirà perché già Eraclito insegnava fra il V e VI secolo a. C. che panta rhei (cioè «tutto scorre»). Ciò che contraddistingue l’essere umano è, però, un’altra caratteristica: il concetto di «bisogno». Quest’ultimo – mi riferisco ad Abraham Maslow (1954) – nasce come «fisiologico» (ad es., mangiare, bere, respirare etc.), diviene «di sicurezza», si sviluppa in «appartenenza» per poi raggiungere i suoi livelli più elevati, cioè di «stima» ed «autorealizzazione». In altri termini, l’individuo ambisce ai gradini più alti all’interno di tale piramide dei bisogni, dando invece quelli di base per acquisiti. Ed ha ragione a comportarsi in tal modo. Traducendo in chiave economica: la composizione del PIL si è

L’evoluzione del contributo al PIL dei principali settori economici1 Agri-, silvi- ed itticoltura Industria (incl. costruzioni) 2000 2017 2000 2017 Francia Germania Italia Mondo Regno Unito Stati Uniti d’America Svizzera

2,1 1,0 2,6 4,9 0,9 1,2 1,2

1,5 0,8 2,0 3,4 0,7 0,9 0,7

21,2 27,7 24,3 29,0 23,1 22,5 25,4

17,2 27,4 21,3 25,4 17,6 18,2 25,2

nel corso dei decenni evoluta vedendo emergere alcune voci al suo interno (in special modo, i servizi) a svantaggio di altre. Significa, forse, che le une sono più importanti o più degne di essere perseguite delle altre? Nossignore. Peccato, però, che la pandemia da SARS-CoV-2 abbia spinto e spinga i policymaker (fra cui politici, esperti di sanità etc.) di ogni dove dapprima a sconsigliare, poi a vietare attività economiche ritenute «non essenziali» e spostamenti se non per ragioni «urgenti», reintroducendo in epoche di pace il concetto di coprifuoco. L’Italia, fra i primi Paesi al mondo ad avere deliberato a marzo 2020 il lockdown nazionale con chiusura unilaterale dei confini nazionali ed obbligo di autodichiarazione per gli spostamenti, docet in tal senso. Ma anche la Germania, con la CancelManifattura

Servizi

2000

2017

2000

2017

14,5 20,5 17,6 17,1 13,5 15,5 17,9

10,1 20,6 14,9 15,5 9,0 11,2 18,3

66,3 61,5 62,7 60,2 65,7 72,8 68,9

70,3 61,8 66,4 65,1 70,9 77,4 71,0

liera Angela Merkel che pronunciava il 17 ottobre 2020 il seguente appello alla Nazione, non è da meno: «Incontratevi con un numero decisamente inferiore di persone – indipendentemente che siate a casa o fuori. Vi prego: rinunciate a qualsiasi viaggio, che non sia davvero ed obbligatoriamente necessario, ad ogni festa, che non sia davvero ed obbligatoriamente necessaria. Vi prego di rimanere – ogniqualvolta ciò sia possibile – a casa presso il vostro luogo di residenza»2 . Se vedere folle di persone festanti, assembrate o incuranti del pericolo sia ben più che inopportuno e debba essere sanzionato, è il messaggio di fondo ad essere inquietante. Che cos’è «essenziale» in una società postindustriale da bisogni e necessità articolati ed interconnessi? Ad esempio, è davvero necessario concedersi questo o quell’altro acquisto? E, poi, perché permettersi spese ulteriori rispetto a quelle alimentari o di sostentamento? Per quale ragione si dovrebbe, poi, investire in settori dell’economia e professionalità laddove contribuiscano sempre meno al PIL? E perché non dedicarsi al solo essenziale nel proprio quotidiano, tralasciando tutto il resto non strettamente necessario alla sopravvivenza? Ciascuna risposta, che ciascun lettore potrebbe formulare, implicherebbe giudizi di valore che sono risaputamente soggettivi. In altre parole, chi

definisce il concetto di «essenzialità» da un punto di vista economico-sociale sta già incasellando un’attività economica (e le figure professionali lì impiegate) in base ad un giudizio potenzialmente arbitrario e, quindi, discriminatorio. Se è vero (come è vero) che ogni attività economica contribuisca per la sua parte – piccola o grande – al PIL e vi siano figure come le/i casalinghe/i che non percependo un salario non vi rientrano (sebbene la loro funzione sia essenziale per l’economia domestica), deve esserlo anche il rispetto spettante a ciascuna di esse. Ritenere che un’attività sia «più essenziale» di un’altra – anche solo, reinterpretando il discorso della Cancelliera, un viaggio di lavoro non rinviabile rispetto ad una visita ad un proprio caro – e vietarla per un periodo di tempo anche solo circoscritto è dirigismo inopportuno nei confronti degli individui. Anche in tempi eccezionali, che si collocano – pur sempre – nel XXI Secolo. Note

1. https://datacatalog.worldbank.org/ dataset/world-development-indicators. 2. Traduzione propria sulla base di: https://www.bundeskanzlerin.de/ bkin-de/mediathek/bundeskanzlerinmerkel-aktuell/podcast-coronavirus-1799292. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 novembre 2020 • N. 48

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Politica e Economia

«Soldi dall’elicottero» anche dalla BNS?

Politica monetaria Lo chiede un’iniziativa per la quale inizia la raccolta delle firme: si propone di dare a ogni

svizzero 7500 franchi mediante l’emissione della moneta necessaria da parte della BNS. Con quali risultati? Ignazio Bonoli La fantasia del popolo svizzero in materia di diritti popolari non finisce mai di stupire. Questa volta la proposta è di quelle serie, anche se probabilmente irrealizzabile. Un non meglio specificato gruppo di 7 cittadini del canton San Gallo ha inoltrato alla Cancelleria federale il testo di un’iniziativa che chiede di distribuire a ogni cittadino di nazionalità svizzera 7500 franchi «una tantum». Nel titolo l’iniziativa riprende anche un concetto già espresso una cinquantina di anni fa dal celebre economista americano Milton Friedman, che consisteva letteralmente nel gettare soldi dall’elicottero sulla popolazione. Da qui il titolo «Iniziativa per l’elicottero monetario» . Come detto, il primo ad esprimere il concetto di «Helicopter Money» fu Milton Friedman, ma si trattò più che altro di una battuta. Sennonché il noto Premio Nobel per l’economia riprese il concetto nel 1969 per spiegare proprio l’intervento di una banca centrale, sotto forma di immissione diretta di moneta nell’economia, nell’intento di favorire l’espansione economica e combattere la deflazione. Sotto questa forma non è mai stata praticata, poiché la Banca centrale passa sempre attraverso il sistema bancario per immettere moneta nell’economia di un paese.

Vi furono però interventi che mostrano qualche analogia con «l’Helicopter Money». Ad esempio, nel 1999 il Giappone, dopo un decennio di crisi economica, decise di distribuire buoni di consumo alla popolazione, da spendere entro sei mesi. In realtà, vi fu una crescita di spese in beni di consumo non durevoli, ma negli anni seguenti l’effetto finì e i consumi tornarono a ristagnare. Più recentemente, Hong Kong fece versare dalla banca centrale a ciascun residente maggiorenne 10’000 dollari HK (circa 1140 franchi) per sostenere l’economia locale. Anche Mario Draghi ne parlò nel 2016, ma preferì una misura come il «Quantitative Easing» (acquisto di titoli statali) per risanare i bilanci delle banche europee, mentre nel 2002 Ben Bernanke, allora presidente della Federal Reserve americana, accarezzò l’idea, ma non la concretizzò su larga scala. Il tema si sta riproponendo con la necessità per tutti i governi di superare la crisi dovuta al Covid e trovare i soldi per finanziare le necessarie misure. Anche a livello teorico rispunta la disputa fra keynesiani e monetaristi. Mentre il celebre economista inglese John Maynard Keynes propendeva per il primato della politica fiscale e la gestione anticiclica dell’economia per contrastare la deflazione e la recessione, i monetaristi riaffermavano il primato della politica monetaria, giungendo

fino a dare un insperato sostegno alla «Helicopter Money». In realtà, da tempo, le banche centrali iniettano moneta nel sistema economico, sia per combattere le recessioni, sia per favorire la crescita. Oggigiorno conosciamo anche gli interessi a tasso zero o perfino sotto, ma il problema non sta nell’azione politica, monetaria o keynesiana, quanto piuttosto nel fatto che il suo impatto sull’economia è trascurabile. È il famoso «cavallo che non beve» degli economisti britannici. Espressione usata per dire che versare acqua (cioè denaro) a un cavallo che non beve (il consumatore che non spende) non serve a rilanciare consumi e investimenti per favorire la crescita. Quindi la moneta a disposizione non va a finire nei consumi o negli investimenti, ma piuttosto nei risparmi, sotto forma di titoli di vario tipo. Scusandoci per l’estrema semplificazione del dibattito teorico, veniamo al problema dell’iniziativa. Letteralmente essa chiede che la Banca Nazionale versi a ogni cittadino svizzero 7500 franchi entro un anno, esenti da imposte. La banca ottiene questa somma stampando moneta. Non dice come il cittadino dovrà spendere questa somma, che nelle attuali circostanze andrà a risparmio, all’attuazione di spese già programmate o all’anticipazione di queste. Al massimo l’operazione potrebbe

Secondo alcune esperienze, stampare e distribuire denaro alla popolazione non stimola i consumi in modo durevole. (Keystone)

generare un effetto inflazionistico con un aumento dei prezzi già prima del versamento previsto. Cosa finora non riuscita con il «Quantitative Easing» della Banca Centrale Europea. Oppure non vi sarà nessun effetto perché la popolazione si aspetta di ricevere la somma e l’aumento dei prezzi potrebbe essere anticipato. Non si vede in che misura un simile provvedimento possa contribuire al rilancio dell’economia, attraverso il rilancio dei consumi. Senza dimenticare che «l’elicottero» che distribuirà i soldi lo farà escludendo tutti

gli stranieri residenti. Con che criterio? Si potrà finanziare la spesa dovuta al Covid con l’emissione di moneta? La Banca nazionale Svizzera non emette finora moneta per finanziare il debito dello Stato. Non ne avrebbe nemmeno bisogno, viste le buone condizioni delle finanze della Confederazione. E anche le spese finora sostenute sono limitate e lo Stato riuscirà a ritrovare l’equilibrio anche senza la politica monetaria, che però potrà essere usata (se del caso) per il sostegno alla ripresa dell’economia nelle forme tradizionali. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 novembre 2020 • N. 48

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Idee e acquisti per la settimana

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?

Sono un grande fan della cannella e sono rimasto sorpreso quando ho scoperto un detersivo per rigovernare Manella al profumo di cannella. L’ho acquistato subito, la sua fragranza è semplicemente meravigliosa. Ma sono anche un fan degli imballaggi rispettosi dell’ambiente e ho notato che il flacone non è composto al 100 per cento da PET riciclato. C’è una spiegazione a questo? Saluti Marc

Caro Marc, ci fa piacere che con questa Limited Edition abbiamo accontentato un grande fan della cannella come te. È corretto: i flaconi di Manella sono realizzati all’80 per cento con PET riciclato, finora era il 50 per cento. Per poter produrre del materiale riciclato, c’è comunque bisogno di una parte di materiale originale. Se dovessimo utilizzare solo del composto riciclato, ad un certo punto ce ne sarebbe una carenza. Per questo abbiamo deciso comunque di aumentarne il contenuto del 30 per cento.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 novembre 2020 • N. 48

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Frontalieri e apprendisti: il mercato si muove Le novità economiche di questo inizio di novembre in Ticino riguardano il mercato del lavoro. Dapprima è venuta la notizia che nel terzo trimestre, nonostante la pandemia, l’effettivo dei frontalieri occupati nel Cantone ha superato la quota delle 70’000 unità. Qualche giorno fa, poi, è arrivato il comunicato del DECS (Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport) stando al quale la campagna di collocamento a tirocinio 2020 ha raggiunto il suo obiettivo. Cominciamo da qui. Da gennaio a novembre sono stati firmati in Ticino 2369 nuovi contratti di tirocinio. Il traguardo raggiunto è importante perché ancora nel mese di giugno, quando la flessione nel numero dei nuovi contratti era del 20%, nessuno pensava che

in autunno si sarebbero superati 2300 nuovi contratti. Il risultato raggiunto è quindi rallegrante. Tuttavia è giusto anche notare che, seguendo la tendenza degli ultimi anni, anche quest’anno il numero dei nuovi contratti di tirocinio conclusi è diminuito. Rispetto al 2019 si è registrata una diminuzione di 80 unità. Come precisa il comunicato del DECS il grosso della diminuzione si concentra in due rami: quello del commercio, con una cinquantina di contratti in meno, e quello degli assistenti di farmacia con una ventina di contratti in meno. Ma veniamo ai frontalieri. A inizio mese sono stati pubblicati i dati concernenti il terzo trimestre. In Ticino l’effettivo dei frontalieri ha superato quella che alcuni commentatori hanno

chiamato la «soglia psicologica» delle 70’000 unità, raggiungendo un totale pari a 70’078 persone. In termini relativi però, l’aumento rispetto al terzo trimestre del 2019 è stato irrisorio, pari solamente all’1 per mille. Per effetto del caso, o perché il diavolo ci ha messo la coda, in termini assoluti l’aumento dei frontalieri è stato pari a 80 unità, ossia esattamente uguale alla diminuzione, sempre in termini assoluti, registrata dal totale dei nuovi contratti di tirocinio. Fossimo simpatizzanti dell’UDC e alla caccia di prove per dimostrare che nel mercato ticinese del lavoro i frontalieri sostituiscono i residenti, non lasceremmo di mettere in evidenza l’identità di queste due variazioni. Purtroppo non è possibile dimostrare, con i dati disponibili,

che l’aumento del numero dei frontalieri sia avvenuto nei rami e nelle aziende nelle quali, quest’anno, sono diminuiti i nuovi contratti di tirocinio. È abbastanza logico pensare che l’aumento dei frontalieri, durante il terzo trimestre, ossia durante i mesi da luglio a settembre, sia stato influenzato dall’intensificarsi dell’attività in rami come l’agricoltura, il turismo e le costruzioni, per i quali la stagione estiva è importante. Come abbiamo già ricordato qui sopra, questi non sono i rami nei quali si è concentrata la diminuzione dei nuovi contratti di tirocinio, ragione per cui la relazione tra aumento dell’effettivo dei frontalieri e diminuzione del numero dei nuovi contratti di apprendistato resta da dimostrare. Al di là comunque dei risul-

tati messi in evidenza dalle statistiche disponibili si può argomentare che per il datore di lavoro, in particolare quello che gestisce una piccola azienda con margini di guadagno contenuti, che ha deciso di applicare una politica di flessibilizzazione dell’occupazione, frontalieri e apprendisti sono componenti dell’offerta di manodopera particolarmente appetibili perché generano costi del personale inferiori a quelli che si devono sopportare per la manodopera residente, formata e occupata in modo permanente. Tuttavia solo l’effettivo dei frontalieri è in grado di adattarsi in modo flessibile alle esigenze in materia di durata e discontinuità del lavoro che si manifestano in periodi critici come quello che sta attraversando attualmente l’economia del Cantone.

blocco all’assistenzialismo, il governo di Roma non esiterebbe un istante e saprebbe benissimo come spenderli, anche in vista delle prossime elezioni politiche. Ma dovendo destinarli agli investimenti, all’evidenza l’esecutivo è del tutto privo di un piano strategico. L’Italia è già in ritardo rispetto agli altri grandi Paesi europei. E la situazione non sembra destinata a migliorare in tempi rapidi. Il modo in cui saranno spesi i soldi del Recovery Fund è il segreto meglio custodito della penisola. Ci sono tutte le premesse affinché vadano sprecati. Digitale, transizione ecologica, sostenibilità sono titoli da convegno; ma poi servono le misure concrete. «Pe’ mmia chi c’è?» si chiedono a Catania; «a me che mi vien?» si domandano a Verona. Il concetto è lo stesso: gli italiani non sanno come quella montagna di denaro potrà migliorare le loro vite, dare ossigeno all’economia strozzata dal virus, restituire una speranza. A differenza di altri, non mi sono scandalizzato per gli Stati generali organizzati da Conte al termine della prima ondata della pandemia. È bene che il governo coinvolga nelle grandi decisioni le migliori energie del Paese. A decidere la destinazione delle risorse

non possono essere soltanto burocrati che sanno poco della vita, dell’economia reale, delle difficoltà delle aziende. Il punto è non limitarsi alle parole, ma individuare una fase operativa che non può essere né superficiale e frettolosa, né cavillosa e infinita. Con una priorità che deve essere ben chiara: il lavoro ai giovani. I giovani sono stati i più penalizzati dalla pandemia, in particolare coloro che escono ora dalle superiori o dall’università. Un Paese che investe su quota cento e sul reddito di cittadinanza – cioè sull’assistenzialismo – anziché sul lavoro ai giovani è un Paese senza futuro. Se daremo lavoro ai ragazzi, risparmieremo sui sussidi e restituiremo potere d’acquisto pure ai pensionati, che non dovranno più mantenere i nipoti. Ovviamente Conte spera che la prospettiva di avere molte risorse da investire gli prolunghi la vita. Il ragionamento è semplice: perché cambiare in corsa un governo nel pieno di un’emergenza, proprio quando finalmente l’arcigna Europa sta per allargare i cordoni della borsa? In realtà, qualcuno nel Partito democratico – e pure nel movimento Cinque Stelle – si libererebbe volentieri del presidente

del Consiglio. Le ipotesi sono due: un rimpasto che potrebbe anche non coinvolgere Palazzo Chigi; o l’allargamento della maggioranza, magari coinvolgendo un peso massimo come l’ex presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi. Ovviamente i partiti preferirebbero evitare di richiamare in servizio un supertecnico. Ma le condizioni dell’economia italiana sono talmente gravi, da richiedere risposte straordinarie. Bisognerà capire se il sistema politico avrà l’intelligenza di capirlo; o se invece prevarranno i calcoli personali e di partito. Dal canto suo, Silvio Berlusconi ha aperto al governo: Forza Italia potrebbe votare la legge di bilancio, o comunque evitare che venga bocciata in Senato. Il Cavaliere fa di tutto per smarcarsi da Salvini: mentre il capo della Lega ostentava la mascherina con la scritta «vota Trump», e accusava i democratici americani di brogli, Berlusconi telefonava a RaiTre, la rete televisiva della sinistra, per dire che Trump ha perso perché troppo arrogante. Il vero obiettivo di Silvio è essere coinvolto nella scelta del presidente della Repubblica; con il sogno – probabilmente impossibile – che il nome del prossimo capo dello Stato assomigli il più possibile al suo.

l’intera impalcatura costituzionale, comprese le regole del gioco concordate in precedenza; uno svuotamento che vediamo all’opera soprattutto là dove le istituzioni appaiono più fragili e scarsamente puntellate dalla società civile. Come detto, per giungere anche in Ticino alla definizione di una democrazia funzionante ed inclusiva il cammino è stato lungo e tortuoso. Un percorso irto di ostacoli, che parte dal censo (due secoli fa) per approdare al suffragio femminile (1969). In mezzo, tanti traguardi parziali, tante baruffe, tante leggi e leggine, riforme e riformette, «trappole» di vario genere, coi partiti impegnati a trarre il maggior profitto possibile da tornate elettorali sempre contestate. Sì, perché al momento del voto rispuntava il fantasma dei brogli, delle schede orientate e controllate, degli emigranti richiamati in patria, dei defunti che improvvisamente risuscitavano nelle cabine elettorali. Una

prassi che la stampa d’oltralpe attribuiva al «temperamento sanguigno» dei ticinesi ma che accompagnò il voto anche nel secolo successivo, attraverso espedienti sempre più raffinati. Ancora nel 1948, in un rapporto inviato al governo, il procuratore pubblico Brenno Gallacchi poté lamentare la persistenza della corruzione elettorale. Questa la sua conclusione: «A conti fatti, quanta delusione, quanta amarezza, quanto rammarico e rimpianto, negli stessi vincitori che devono pagar le cambiali e le fatture degli osti per forniture di vini e di salsicce. E il denaro speso avesse almeno fruttato l’acquisto del voto; nove volte su dieci l’elettore prende la moneta e vota come gli pare. E ride in cuor suo della burla riuscita». Non pareva insomma possibile estirpare tale malvezzo dalle pratiche dei partiti: evidentemente il civismo degli elettori era malfermo, mentre oltre modo sviluppata sembrava a Gallacchi la «malizia

umana», espertissima «nell’escogitare i mezzi fraudolenti di accaparramento delle coscienze e dei voti». Oggi tutti questi trucchi e mezzucci sanno di muffa, retaggio di un malcostume consegnato agli archivi. I cittadini esprimono il loro parere per corrispondenza; basta aprire e chiudere una busta, e pazienza se la segretezza del voto – argomento in passato di infinite diatribe – non è più garantita. La prossima tappa sarà il voto elettronico da casa, davanti ad uno schermo, stazione finale di un processo deliberativo sempre più guidato da centrali di potere occulte. Si arriverà così alla «democrazia dei followers», come profetizza lo storico Alberto Mario Banti nel suo ultimo saggio? Gli anni a venire ci diranno se la democrazia finirà nelle mani dei baroni del web, potentati lontani e imperscrutabili, o se, all’opposto, saprà dotarsi dei necessari anticorpi per evitare tale infausto destino.

In&outlet di Aldo Cazzullo Come investire 200 miliardi? Il cosiddetto Recovery Fund, il grande piano – adesso si chiama Next Generation Ue – che avrebbe dovuto rilanciare l’economia europea e quella italiana in particolare, rischia di trasformarsi rapidamente da opportunità a gigantesca grana per il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. L’Italia tradizionalmente non riesce a spendere i fondi europei. Il motivo è semplice. L’Unione non finanza gli stipendi dei forestali della Magna Grecia e il reddito di cittadinanza; finanzia cantieri, progetti. Proprio quelli che mancano; soprattutto al Sud.

Nel settennato 2014-2020 l’Italia ha ricevuto 45 miliardi di euro di contributi Ue in fondi strutturali. Nel prossimo periodo, se si contano tutti gli strumenti Ue per la ripresa, riceverà tre volte di più, come ha fatto notare la commissaria europea alla Coesione e alle Riforme Elisa Ferreira. Ma dei 45 miliardi già stanziati l’Italia non è riuscita a spendere neppure la metà. Difficile scandalizzarsi per lo scetticismo di molti Paesi del Nord e dell’Est Europa. Se gli oltre duecento miliardi di euro in arrivo potessero essere destinati in

Giuseppe Conte e Ursula von der Leyen: dall’UE l’Italia riceve più denaro di quanto finora è riuscita a spendere. (AFP)

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti La democrazia imbrogliata La democrazia è un congegno delicato, un prodotto di meccanica fine, costruita pezzo per pezzo nelle piazze e nei parlamenti, tra successi e sconfitte, progressi e repentini arretramenti. Un percorso in cui s’intrecciano diritti politici e conquiste civili, un patrimonio mai messo in sicurezza una volta per tutte, ma sempre esposto agli assalti di autocrati e oligarchi. Succede soprattutto nei paesi dell’ex blocco orientale, dove la tradizione più nobile del liberalismo politico non ha mai messo solide radici. Ma insidie e imprevisti possono insorgere anche nei sistemi più maturi e collaudati, come s’è visto nel corso delle ultime elezioni americane, complice la macchinosità delle procedure. In questo caso basta sollevare dubbi sulla legittimità del voto, gettare un po’ di sabbia negli ingranaggi per screditare l’intera architettura. È una manovra che i populisti coltivano con maestria, confidando nella memoria corta dell’e-

lettorato: essere nel contempo dentro le istituzioni e fuori; collocarsi dunque su un doppio binario, quello governativo e quello rivendicativo. Su questo punto occorre però distinguere tra cortocircuiti fisiologici e derive patologiche. Alla prima categoria appartengono le sorprese, il caso inopinato. Intoppi sempre possibili, che tuttavia non corrodono le fondamenta dell’edificio democratico. I lettori ricorderanno il duello del 2011 tra Monica Duca Widmer e Marco Romano per il seggio al Nazionale: contesa finita in parità e risolta ricorrendo al sorteggio. Anche la corsa per il Consiglio degli Stati del 2019 tra Marina Carobbio e Filippo Lombardi è stata vinta dalla prima con pochi voti di scarto (46). Due episodi curiosi e rari, che tuttavia non hanno portato alla delegittimazione del sistema da parte dei soccombenti. La patologia è altra cosa: è il tentativo, condotto scientemente, di smantellare


Articolo pubbliredazionale

Ma in inverno le mucche hanno freddo? Con Swissmilk all’azienda Tossa di Avers (GR)

In palio una settimana bianca per tutta la famiglia La regione Dents du Midi ha in serbo una vasta gamma di proposte per chi ama le vacanze in montagna. Perché non cogliere l’occasione di una settimana bianca in famiglia per scoprire di che cosa si tratta?

© Hôtel Etable

Per parteci pare: swissmilk .c h/ family

Domanda del concorso

Che cosa avviene alle forme di formaggio che stagionano in cantina? a) Vengono allineate in funzione delle fasi lunari b) Vengono rivoltate c) Vengono forate a distanze regolari

In inverno, quando i pascoli sono coperti da una fitta coltre di neve, le mucche hanno lasciato da tempo l’alpe per tornare a casa. Ma lì che cosa mangiano? E man mano che il clima si fa più rigido, hanno freddo anche loro? Per scoprirlo, ci siamo recati nell’azienda agricola della famiglia Höllrigl. Quassù ad Avers, a quasi 2’000 metri di quota, gli inverni sono lunghi. Iniziano in ottobre e durano fino a maggio. Le mucche di Simon e Sandra Höllrigl tornano dall’alpe in settembre, e tutto, qui nell’azienda agricola Tossa, è pronto per accoglierle. La famiglia, che conta anche le quattro figlie Tessa (9), Melina (6), Giulia (5) e Chiara (1), ha trascorso gran parte dell’estate a fare fieno sui prati, così che le 17 mucche da latte e i loro vitelli abbiano cibo sano a sufficienza anche in inverno. Le mucche dell’azienda Tossa vivono in un sistema a stabulazione libera. In altre parole, decidono da sole quando uscire all’aperto o quando starsene al coperto. «In generale, però, alle mucche il freddo non dispiace», spiega Simon. «Al contrario, sembrano apprezzare molto l’arietta fresca e i raggi di sole. Solo quando c’è troppo vento preferiscono il caldino della stalla». La famiglia Höllrigl trascorre molto tempo nella stalla con le sue mucche. Bisogna pulire le lettiere, distribuire il fieno, mungere – ma anche fare un po’ di coccole. Sì, perché ogni anno in inverno nascono i vitellini. I primi quattro o cinque giorni restano con le madri, per essere allattati. Poi devono abituarsi lentamente al biberon. «Dedichiamo loro moltissimo tempo», spiega Simon. Ma anche fuori dalla stalla c’è sempre da fare: c’è il negozietto per la vendita diretta, bisogna sgomberare la neve, poi c’è da spazzolare e rivoltare il formaggio che stagiona in cantina. Una cosa è certa: qui ad Avers non ci si annoia mai. L’articolo completo è pubblicato sull’ultimo numero della rivista Swissmilk Family e sul sito swissmilk.ch/family.

Il latte e i latticini svizzeri. Che forza!

Termine di partecipazione: 31 dicembre 2020

1° premio* Sette notti a Les Crosets, presso l’albergo L’Étable, con la sua incantevole architettura tradizionale. Dall’albergo, accesso diretto alle piste di sci del comprensorio Portes du Soleil e panorama imperdibile sull’imponente catena alpina dei Dents du Midi, l’emblema della regione. Compreso anche lo skipass per tutti i giorni e una selezione di prodotti del marchio «Saveurs Dents du Midi». Il prezzo equivale a una camera famigliare (due adulti e due bambini), prima colazione inclusa. 2° – 5° premio Reka-Check dal valore di 200.– fr. 6° – 10° premio Reka-Check dal valore di 100.– fr. 11° – 15° premio Reka-Check dal valore di 50.– fr. * Valido fino a fine aprile 2022. Estrazione a sorte secondo disponibilità.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 novembre 2020 • N. 48

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Cultura e Spettacoli La peste di Atene Tucidide fu un attento testimone della pandemia che colpì Atene nel 430 a.C. pagina 47

Le corde di Hendrix A cinquant’anni dalla morte di Jimi Hendrix, il genio che dominava la chitarra

La voglia di ricominciare Il prezzo della pace è una delle più importanti produzioni della televisione svizzera, oltre ad essere un’occasione per rielaborare gli anni che seguirono il Secondo conflitto mondiale

Le radici del giallo Luca Crovi ci consegna un libro in cui ripercorre la storia di un genere molto amato in Italia

pagina 53

pagina 49

pagina 54

L’arte oltre il sentimento

Mostre Ascona dedica una mostra ai pittori

russi Marianne Werefkin e Alexej Jawlensky Alessia Brughera «Il legame che mi unì a lei cambiò completamente la mia vita. Divenni il compagno di questa signora gentile e dolce, dotata di uno straordinario talento», confessava Alexej Jawlensky nelle sue memorie datate 1937 ricordando il fatidico incontro con Marianne Werefkin. «Io l’amo con tutta me stessa, è il mio primo e ultimo pensiero. Tutto il mio onore, tutta la mia virtù sta in questo affetto, in questo amore», scriveva la pittrice nelle sue Lettres à un inconnu redatte in forma di diario intimo fra il 1901 e il 1905. Marianne Werefkin e Alexej Jawlensky, due artisti che hanno dato un contributo determinante all’evoluzione delle avanguardie del primo Novecento, sono stati i protagonisti di una relazione intensa ed estremamente complessa, per loro una sorta di croce e delizia che li ha tenuti insieme fra estasi e tormenti per quasi trent’anni. Lei, aristocratica dalla personalità travolgente, era una donna fuori dal comune avulsa dalle consuetudini sociali e con «un universo interiore a parte», come affermava chi bene la conosceva; lui, nato da una famiglia di rigide tradizioni militari, era un uomo brillante e determinato, tanto intollerante alle regole da sfuggire a una promettente carriera nell’esercito per dedicarsi alla pittura. Legati dal 1892 al 1921, il loro rapporto, mai legittimato dal matrimonio, è stato caratterizzato da continui contrasti. Da questa liaison tutt’altro che idilliaca, frutto di un avvicinamento non convenzionale tra due temperamenti forti, ha preso vita una tensione permanente che se da una parte ha finito per logorare il sodalizio stesso, dall’altra è stata fondamentale per dare energia al potenziale creativo di entrambi. Nel loro travagliato legame non è facile distinguere i diversi momenti in cui la Werefkin e Jawlensky sono stati amanti, amici o solo colleghi (la moglie di Paul Klee aveva definito il loro vincolo «un amore amicale eroticamente platonico»), ma ciò che rimane indubbio è che i due hanno sempre contato sulla fiducia reciproca, sorretti dalla convinzione del grande valore dell’altro, mai venuta a mancare nemmeno dopo il distacco definitivo. È stata questa certezza a unirli a lungo, a dispetto di Helena Nesnakomova, la cameriera con cui Jawlensky ha una relazione (motivo principale dei litigi fra i due artisti) nonché un figlio, e con cui un giorno convolerà a nozze. Ed è stata questa certezza a portare la Werefkin a smettere di dipingere per dieci anni, sacrificando sé stessa per diventare promotrice del talento del compagno.

Ben più di una coppia, la Werefkin e Jawlensky sono stati dunque due anime appassionate, complici nel sostenersi a vicenda e nel consacrare la loro esistenza all’arte. «Compagni di vita» è la riuscita espressione che la mostra allestita negli spazi del Museo Comunale d’Arte Moderna di Ascona (terza tappa di un itinerario che ha coinvolto lo Städtische Museum im Lenbachhaus di Monaco e il Museum Wiesbaden) ha utilizzato per testimoniare il loro percorso, in cui si intrecciano indissolubilmente rapporto privato e avventura artistica. La rassegna, curata da Mara Folini, si avvale di oltre cento opere per raccontare lo sviluppo della produzione di questi due pittori russi, per la prima volta oggetto di un’esposizione comune, innescando continui richiami al loro legame personale. Eccoci allora, a inizio esposizione, negli anni in cui i due si conoscono a San Pietroburgo. È la primavera del 1892 e il loro maestro Ilya Repin, stimato pittore realista (con cui pare la Werefkin abbia avuto una breve relazione), presenta la sua giovane allieva, già conosciuta come la «Rembrandt russa», al nuovo valente artista da poco diventato suo studente all’Accademia imperiale. La coppia incomincia a frequentarsi e a lavorare insieme condividendo i medesimi riferimenti, che vanno da Velázquez agli impressionisti francesi. Di questo breve periodo realista, interessante, nella rassegna, è l’autoritratto della Werefkin, in cui la pittrice si effigia con una fisionomia androgina, mostrandosi allo spettatore con uno sguardo diretto e spensierato. Abbandonato il limitante ambiente russo, la Werefkin e Jawlensky approdano nel 1896 a Monaco di Baviera, desiderosi di entrare in contatto con le tendenze più moderne. Qui difatti frequentano Kubin, Marc, Kandinskij e la Münter, dando vita con loro alla Neue Künstlervereinigung München, associazione da cui avrebbe preso le mosse il movimento Der Blaue Reiter. Dopo il volontario esonero dalla pittura trascorso a sostenere la crescita artistica di Jawlensky (dettato anche dalla convinzione che solo un uomo avrebbe potuto rinnovare l’arte), la Werefkin torna finalmente a dipingere nel 1906. Dalle opere di questo periodo, un momento difficile nel rapporto tra i due pittori per la presenza sempre più ingombrante della cameriera, si evince come il linguaggio di Jawlensky, ispirato a van Gogh e ai fauves, faccia di un intenso colorismo lo strumento privilegiato per cogliere l’essenza del reale, mentre quello della Werefkin, memore della lezione di Gauguin e dei Nabis, sia teso a un sintetismo elementare di forme e colori puri capace di generare compo-

Marianne Werefkin, Autoritratto, 1910 circa. (Städtische Galerie im Lenbachhaus und Kunstbau München)

sizioni dall’alto contenuto simbolico. Con lo scoppio della Prima guerra mondiale, la Werefkin e Jawlensky, sempre con al seguito l’amante e il figlio illegittimo di lui, riparano in Svizzera, prima sul lago Lemano, poi, nel 1917, nella fervida Zurigo (dove già da un anno la corrente dadaista stava stravolgendo il mondo dell’arte), infine, nel 1918, proprio ad Ascona. Sono anni ancor più complicati, questi, che vedono la coppia, abituata a un’esistenza di agi, vivere in ristrettezze economiche, per la prima volta costretta a tirare avanti solo con i proventi del proprio lavoro. I dipinti del periodo elvetico rivelano quanto i percorsi dei due artisti stiano ormai prendendo direzioni differenti: Jawlen-

sky, come dimostra ad esempio l’opera Testa astratta, datata 1918, fa il grande passo verso un’astrazione lirica caratterizzata dalla concentrazione delle forme e da una scala cromatica profondamente spirituale, la Werefkin, invece, prosegue sulla traiettoria di un espressionismo più radicale, contraddistinto dal piacere della narrazione e da una spiccata visionarietà mistica. Ormai molto lontani l’uno dall’altra, sentimentalmente e artisticamente, i due pittori decidono di separarsi nel 1921. Jawlesky torna in Germania, a Wiesbaden, dove entra a far parte del gruppo Die Blaue Vier (insieme a Kandinskij, Klee e Feininger) e sposa la cameriera Helena. La Werefkin rimane

ad Ascona, dove fonda l’associazione di artisti Der Grosse Bär e continua la sua instancabile ricerca di un linguaggio che possa andare oltre la contingenza per esternare i moti dell’anima. Nel 1938 lei muore. Appena un anno prima, lui, in una lettera a un amico, confessava di pensarla ogni giorno. Dove e quando

Alexej Jawlensky e Marianne Werefkin. Compagni di vita. Museo Comunale d’Arte Moderna, Ascona. Fino al 10 gennaio 2021. Orari: ma-ve 10.0012.00/14.00-17.00; sa 10.00-17.00; do e festivi 10.00-16.00; lu chiuso. www. museoascona.ch


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 novembre 2020 • N. 48

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Cultura e Spettacoli

Le visioni di Anita

Personaggi Un’avventura lunga un secolo: l’incredibile percorso dell’orgogliosa e indipendente Anita Spinelli,

donna e artista fuori dagli schemi

Benedicta Froelich Il fatto che, in termini geografici, il Ticino possa definirsi come un territorio dall’estensione piuttosto modesta non ha impedito, nel corso degli anni, l’avvento di artisti anche molto influenti, spesso riconducibili alla scuola lombarda; ma quello della longeva Anita Spinelli, una delle pochissime donne che la pittura ticinese possa vantare, è senz’altro un caso particolare. L’anima fortemente indipendente, e allo stesso tempo sognante e perfino «eterea» della Spinelli – per molti versi in contrasto con i turbolenti moti della società del ’900, secolo da lei attraversato nella sua interezza – le avrebbe infatti permesso di lasciare un segno sull’arte figurativa ben oltre i nostri confini.

Per Anita Spinelli, donna consapevole del proprio talento, il Mendrisiotto era luogo dell’anima Nata con il nome di Anita Corti a Balerna nel 1908 e influenzata dall’esempio del padre – il quale, seppur appartenente all’ambito commerciale, fungeva da mecenate di diversi artisti ed era egli stesso un capace disegnatore – Anita crebbe in un ambiente contraddistinto dalla passione per il bello, ed ebbe così l’opportunità di frequentare la Scuola di Arti e Mestieri di Lugano e, in seguito, di trovare un mentore in Guido Gonzato, uno dei pittori sostenuti dalla famiglia. Fu così che giunse a sfidare le oppressive convenzioni sociali di un Ticino all’epoca ancora rurale e ben poco incline all’emancipazione femminile, ottenendo infine dai genitori il permesso di frequentare il liceo artistico e l’Accademia di Belle Arti di Brera – dove fu l’unica studentessa ticinese, nonché una delle pochissime donne a diplomarsi in quel periodo (era il 1933). L’esperienza milanese, durata ben otto anni (vissuti da pendolare tra Milano e Balerna) si sarebbe rivelata fondamentale per Anita, la quale, oltre a beneficiare degli insegnamenti di Aldo Carpi e Giuseppe Guidi, sviluppò rapidamente una propria, personalissima concezione dell’arte pittorica: uno stile in cui è chiaramente visibile l’influsso della corrente novecentesca italiana (riferimenti principali: Sironi e Carrà), e dove la fluidità e pastosa espressività dei co-

La pittrice ticinese Anita Spinelli. (Ti-Press)

lori, via via più soffusi e trasparenti, si fondono con un tratto «allungato» e dinamico, inconfondibile quanto moderno. Nel frattempo, però, la giovane artista si era sposata con Paolo Spinelli, da cui avrebbe avuto due figlie, e si era stabilita a Pignora, frazione del comune di Novazzano. Eppure, nonostante le responsabilità della vita di famiglia, non volle mai rinunciare a quell’intima e profonda forma di libertà personale che trovava principale espressione proprio nell’impulso pittorico: grazie alla generosità e al supporto del marito, Anita poté infatti dedicare tutte le sue energie a sviluppare e ampliare la propria ricerca artistica, e, nonostante il trauma della fine del periodo milanese – dovuto all’ascesa del fascismo e alla chiusura delle frontiere durante l’intero periodo bellico – ebbe comunque l’opportunità di andare oltre i ristretti confini dell’esilio a Pignora e di scendere a patti con la propria estraneità verso il mondo contadino, che ancora la face-

va da padrone nel Mendrisiotto. Il tutto grazie a una particolare sensibilità personale, che l’avrebbe sovente portata a ritrarre le sfumature della condizione femminile per come lei la percepiva e idealizzava – nell’immagine di una donna indipendente e consapevole delle proprie potenzialità, proprio come la stessa Anita si sforzò di essere nell’arco di tutta la sua lunga vita: conservando sempre una forte curiosità, nonché una vera e propria fame di nuove esperienze e il desiderio di sperimentare liberamente tutto quanto l’esistenza poteva offrire. Il contrasto stridente tra la «reclusione» ticinese e gli stimoli della grande città la spinse infine a tornare alle origini, e a ritrarre soggetti legati al lavoro nei campi e alle persone che si muovevano intorno alla masseria di Pignora; e sarà proprio grazie al maestro di un tempo, Gonzato, che Anita imparerà infine a considerare il Mendrisiotto come proprio luogo dell’anima, e ad abbracciarlo in quanto fonte d’ispirazione.

Grazie a questa importantissima «resa», la Spinelli ebbe anche l’opportunità di entrare a far parte del gruppo di artisti svizzeri noto con il nome di I Solidali – dove, in quanto unica donna, si sarebbe a tratti trovata a vivere una forma di silenziosa, ma non per questo meno sofferta, solitudine; un sentimento che la condusse infine a trascorrere gran parte degli anni successivi alla guerra viaggiando da un capo all’altro dell’Europa e del mondo – dall’Africa alla Cina, fino ai lunghi soggiorni negli Stati Uniti, che le permisero di ampliare i propri orizzonti, non solo artistici. Tempo dopo, in collaborazione con il Dr. Franco Regli del CHUV di Losanna, sarebbe venuto anche l’importante progetto, a cavallo tra arte e medicina, incentrato sulla rappresentazione grafica delle patologie neurologiche. Di fatto, Anita non si concesse mai un solo attimo di riposo, continuando a dipingere diligentemente fino all’età di 102 anni. Oggi, proprio a Novazzano, dove

la Spinelli scelse di mantenere per tutta la vita il proprio atelier, risiede «la Quadreria», come lei stessa era solita chiamarla: l’amato spazio espositivo e di lavoro in cui, tra il 1970 e il 2010 (anno della scomparsa), l’artista conservò la propria opera, e dove, dal 2002, la sua memoria e lascito pittorico vengono custoditi con cura all’interno del loro contesto originario. Ed è proprio tramite la collezione permanente e le varie mostre tematiche che la Quadreria si impegna a perpetuare il ricordo di una vita il cui influsso sull’arte (non solo ticinese) rimane a tutt’oggi imprescindibile. Del resto, come la stessa Anita affermava, «fare arte, per me, è essere viva tra i viventi»: un sentimento che riassume appieno la sua totale e innata dedizione verso il proprio lavoro. La medesima dedizione che ancora si riflette nella bellezza delle tele della Spinelli – sempre suggestive, spesso innovative e a volte perfino provocanti; a tutt’oggi un’ispirazione per molti artisti fuori dagli schemi, svizzeri e non. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Flagello e disperazione Letteratura – 3 Tucidide e la peste di Atene (parte II)

Elio Marinoni Nella seconda parte della sua narrazione (capp. 51-53) Tucidide si sofferma sull’incapacità della scienza medica di escogitare una profilassi e una terapia efficaci e sulle conseguenze dell’epidemia sul piano psicologico e comportamentale. «51.1. È questo il quadro generale e complessivo della malattia, sebbene sia stato costretto a tralasciare molti fenomeni e caratteri peculiari per cui ogni caso, anche se di poco, tendeva sempre a distinguersi dall’altro. Nessun’altra infermità di tipo comune insorse nel periodo in cui infuriava il contagio; e in esso confluiva qualunque altro sintomo si manifestasse. 2. I decessi si dovevano in parte alle cure molto precarie, ma anche un’assistenza assidua e precisa si rivelava inefficace. Non si riuscì a determinare, si può dire, neppure una sola linea terapeutica la cui applicazione risultasse universalmente positiva: un farmaco salutare in un caso, era nocivo in un altro. 3. Nessuno, di debole o vigorosa tempra, mostrò mai di possedere in sé energie bastanti a contrastare il morbo, che rapiva indifferentemente chiunque, anche quelli circondati dalle precauzioni più scrupolose. 4. Nel complesso di dolorosi particolari che caratterizzavano questo flagello, uno s’imponeva, tristissimo: lo sgomento, da cui ci si lasciava cogliere quando si faceva strada la certezza di aver contratto il contagio (la disperazione prostrava rapida lo spirito, sicché ci si esponeva molto più inermi all’attacco del morbo, con un cedimento immediato); inoltre la circostanza che, nel desiderio di scambiarsi cure ed aiuti, i rapporti reciproci si intensificavano, e la gente moriva, come le pecore. Era questa la causa della enorme mortalità. 5. Chi per paura rifiutava ogni contatto, periva solo. Famiglie al completo furono distrutte per mancanza di chi fosse disposto a curarle. Chi invece coltivava amicizie e relazioni, perdeva egualmente la vita: quelli in particolare che tendevano a far mostra di nobiltà di spirito. Per rispetto umano, si recavano in visita agli amici, disprezzando il pericolo, quando perfino gli intimi trascuravano la pratica del lamento funebre sui propri congiunti, abbattuti e vinti sotto lo schianto della calamità. 6. Una compassione più viva, su un morto o verso un malato, dimostravano quelli che ne erano scampati vivi: conoscevano di persona l’intensità del soffrire e si facevano forti d’un sentimento di sicurezza. Il male non

Leo von Klenze, Ricostruzione dell’Acropoli e Aeropago ad Atene, 1846. (Wikipedia)

aggrediva mai due volte: o, almeno, l’eventuale ricaduta non era letale. Erano giudicati felici dagli altri e nella eccitata commozione di un momento si abbandonavano alla speranza, illusoria e incerta, che anche in futuro nessuna malattia si sarebbe più impossessata di loro, strappandoli a questo mondo». La prima parte del capitolo 51 (1-3) evidenzia l’incapacità della medicina di mettere a punto una terapia universalmente valida (2) ed efficaci misure profilattiche contro il contagio (3-4). La seconda si sofferma sulle conseguenze dell’epidemia sulla psicologia di coloro che vi furono coinvolti: alla prostrazione psichica dei contagiati, che secondo l’autore ne abbassava le difese immunitarie (4), fanno da contrappunto la solidarietà sprezzante del pericolo mostrata da alcuni (5) e l’atteggiamento compassionevole dei guariti: è un concetto comune nella cultura classica la pietà, da parte di chi ha conosciuto il male, nei confronti di chi si trova nella stessa situazione: «non ignara del male» – dirà la Didone virgiliana – «ho

imparato a soccorrere gli infelici». La presunzione di immortalità dei guariti era ovviamente illusoria, ma essi potevano contare su una almeno parziale immunità (6). «52.1. L’imperversare dell’epidemia era reso più insopportabile dal continuo afflusso di contadini alla città: la prova più dolorosa colpiva gli sfollati. 2. Essi non disponevano di abitazioni adatte e vivevano in baracche soffocanti per quella stagione dell’anno: il contagio mieteva vittime con furia disordinata. I cadaveri giacevano a mucchi e tra essi, alla rinfusa, alcuni ancora in agonia. Per le strade si voltolavano strisciando uomini già prossimi a morire, disperatamente tesi alle fontane, pazzi di sete. 3. I santuari, che avevano offerto una sistemazione provvisoria, erano colmi di morti: gente spirata lì dentro, uno dopo l’altro. La violenza selvaggia del morbo aveva come spezzato i freni morali degli uomini che, preda di un destino ignoto, non si attenevano più alle leggi divine e alle norme di pietà umana. 4. Le pie usanze

che fino a quell’epoca avevano regolato le esequie funebri caddero travolte in abbandono. Ciascuno seppelliva come poteva. Molti si ridussero a funerali indecorosi per la scarsità di arredi necessari, causata dal gran numero di morti che avevano già avuto in famiglia: deponevano il cadavere del proprio congiunto su falò preparati per altri e vi appiccavano la fiamma prima che i proprietari vi facessero ritorno, mentre altri gettavano sul rogo già acceso per un altro il proprio morto, allontanandosi subito. 53.1. Anche in campi diversi, l’epidemia travolse in più punti gli argini della legalità fino allora vigente nella vita civile. Si scatenarono dilagando impulsi prima a lungo repressi, alla vista di sbalzi di fortuna inaspettati e fulminei: decessi improvvisi di persone facoltose, e gente povera da sempre che ora, di colpo, si ritrovava ricca di inattese eredità. 2. Considerando ormai la vita e il denaro come valori di passaggio, si bramava un godere che s’esaurisse in fretta, in soddisfazioni rapide

e concrete. 3. Nessuno si metteva di cuore a impegnare con anticipo energie in qualche impresa ritenuta degna, nel dubbio che la morte giungesse a folgorarlo, a mezzo del cammino. L’immediato piacere e qualsiasi espediente atto a procurarlo costituivano gli unici beni considerati onesti e utili. 4. Nessun freno di pietà divina o di umana regola: rispetto e sacrilegio non si distinguevano, da parte di chi assisteva al quotidiano spettacolo di una morte che colpiva senza distinzione, ciecamente. Inoltre nessuno concepiva il serio timore di arrivar vivo a rendere conto alla giustizia dei propri crimini. Avvertivano sospesa sul loro capo una condanna ben più pesante: e prima che s’abbattesse, era umano godersi un po’ della vita». (Trad. di Ezio Savino, Garzanti, Milano 1974) Tucidide indica il sovraffollamento della città a causa dell’afflusso dal contado (52, 1-2) come aggravante che favorì il dilagare del contagio. Si sofferma poi sul gran numero di cadaveri, ammucchiati nelle strade o stipati nei santuari, che rendeva impossibile la celebrazione di regolari e decorose esequie (2-4). Questo particolare, ricordato anche da Sofocle nell’Edipo re (cfr. sopra) non può non riportare alla nostra mente le tristissime immagini dei convogli militari, carichi di vittime del Covid-19, in uscita dalla città di Bergamo pochi mesi or sono. L’ultimo capitolo (53) espone brevemente le conseguenze dell’epidemia sul piano della morale e della legge: anche l’accenno ai repentini «sbalzi di fortuna» può essere letto in chiave di attualità: alla crisi economica generalizzata causata dalla pandemia del Covid-19 si contrappone l’incremento registrato da settori specifici come quello delle vendite online, quello dei prodotti telematici o quello di alcuni «presidi sanitari» richiesti dalla lotta alla pandemia. A differenza di quanto avviene nei primi due testi esaminati (di Omero e di Sofocle), la descrizione tucididea della peste si mantiene su un piano puramente scientifico e umano, escludendo ogni prospettiva ultraterrena. L’idea del castigo divino, presente nei primi due testi, ritorna invece nella descrizione della peste (loimós) di Agrigento del 406 a.C. da parte dello storico di età augustea Diodoro Siculo (XIII, 86,2-3), che la interpreta appunto come punizione della sacrilega profanazione delle tombe compiuta dai soldati cartaginesi durante l’assedio.

«Familiare» o «famigliare»? Una bega… che bega non è

La lingua batte In realtà sono corrette entrambe le versioni, come confermano illustri esempi

della letteratura italiana. Ma non scordiamo le nobili radici latine Laila Meroni Petrantoni «Aguzzate la vista». Si chiama così uno dei giochi più amati e longevi di uno storico settimanale enigmistico prodotto in Italia. Due vignette apparentemente identiche vengono messe a confronto, con la sfida di scoprire una manciata di piccoli particolari che le fanno differenti: è solo scandagliando le varie figure, esaminando i dettagli, che si risolve l’enigma. Aguzzate la vista ora su due romanzi pienamente riconosciuti dalle antologie della letteratura italiana: prendete Cronaca familiare di Vasco Pratolini e Lessico famigliare di Natalia Ginzburg. Separano i due titoli solo sedici anni – sono stati pubblicati

nel 1947 il primo, nel 1963 il secondo – e non generazioni intere. Notata la sottile differenza? Certamente, quella lettera g che c’è e non c’è. Possibile che uno dei due autori si sia sbagliato? Come mai l’aggettivo è scritto in modo diverso? All’ultimo interrogativo non so dare risposta: forse sta nella volontà di essere o non essere vincolati dal passato della lingua italiana. All’ipotesi che uno dei due scrittori sia caduto in fallo… chiaramente la risposta è no. I dizionari accolgono entrambe le forme, con o senza g; semmai, a onor di cronaca, è utile segnalare che le voci più autorevoli nel campo indicano la forma «familiare» come ancor oggi più corretta e più frequente. Forse le cose

potrebbero cambiare presto, ma non curiamocene ora. Come mai disponiamo di due versioni? «Familiare» mantiene evidente la sua origine diretta latina (derivando da «familia» e «familiarem»), mentre l’alternativa con la lettera g discende già dall’italiano «famiglia»: come dire, la prima ha preso la scorciatoia più dritta, la seconda ha fatto stop al casello che separa antico e moderno. Per gli amanti della linguistica, della fonetica e già che ci siamo dell’enigmistica (che fa sempre bene al cervello), la metamorfosi che ha permesso a «familia» di farsi crescere una g si chiama palatalizzazione: fate caso alla vostra lingua, a dove si trova se pronunciate «familia» prima e «famiglia» dopo, e avrete notato il suo

arretramento lungo il palato, giusto? Questo è accaduto. E magari varrebbe la pena chiedersi perché oggi siano accettate entrambe le forme ma nel contempo sia assolutamente errato scrivere «la mia familia». Misteri dell’evoluzione. Torniamo però alla grammatica, che sembra zeppa di regole ma che in realtà è molto più elastica di quanto si pensi. Pare in effetti che non vi sia una norma specifica che faccia preferire l’una o l’altra forma. Nei testi sul tema si ritrova qua e là una regoletta che suggerisce l’uso della g quando sostanzialmente ci si riferisce alla parentela, mentre la sua omissione sarebbe più indicata quando si intenda ciò che è noto o conosciuto («quel viso mi è familiare»). In realtà sembra che non vi sia alcuna

prova che le cose debbano stare così, insomma sarebbe una specie di regola fantasma. Del resto se voi, navigatori del web, chiedeste lumi a un motore di ricerca inserendo ad esempio la stringa «saga famigliare», vi butterà fuori con una pernacchia facendovi rimbalzare su «Forse cercavi: saga familiare». Voilà. Ho fatto la mia scelta tempo fa, quando ancora «famigliare» era corretto dal maestro con la penna rossa. E voi, cari lettori? Seguite a spron battuto la corrente della modernità oppure come la sottoscritta nuotate faticosamente nella direzione opposta in nome dell’antico antenato latino? State con Vasco Pratolini o con Natalia Ginzburg? Le differenze più intriganti si celano dei dettagli.


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Cultura e Spettacoli

Hendrix, leggenda assoluta Anniversari 50 anni or sono moriva uno dei migliori chitarristi della storia:

un ricordo di Jimi Hendrix, ad oggi artista insuperato

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e balestra: il fascino griffato degli oggetti

Enza Di Santo Già, perché a Jimi Hendrix, miglior chitarrista di tutti i tempi, la sua chitarra non bastava più. Venuto a mancare il 18 settembre di 50 anni fa, dalla sua Fender Stratocaster ha estratto tutto il potenziale, ha prosciugato completamente le possibilità dello strumento rivoluzionandone i suoni e l’utilizzo. Unico, originale e immortale, il sound di Hendrix rappresenta il traguardo massimo e inarrivabile dell’espressione delle sei corde. Un’espressione che non si esaurisce nella tecnica resa creativa dal fatto di essere mancino e suonare la chitarra per destrimani a rovescio. Hendrix, infatti, aveva una cultura musicale molto variegata che trovava radici nel blues, ma che si apriva al rock’n’roll e alla prima psichedelia, fino ad arrivare al suo rock innovativo, seducente e distorto dettato perlopiù dall’intuito e dalla sua personalità. Le intense performance al Festival di Monterey nel ’67, durante il quale bruciò la sua chitarra, e di Woodstock nel ’69, quando dissacrò l’inno americano con distorsioni trasformate in bombe, hanno sconvolto la funzione che la musica aveva fino a quel momento, rendendola strumento di critica al sistema. Hendrix aveva talento e grandi mani, aveva orecchio e un innato senso poetico, aveva anche un sex appeal notevole, ma se non fosse stato per Chas Chandler, bassista degli Animals e suo primo produttore, che lo spronò a cantare, non avremmo scoperto la sua calda voce capace di trovare il punto tra ricchezza melodica, inventiva poetica e parlato. Nato nel ’42 a Seattle con il nome di Johnny Allen non ebbe una giovinezza facile. Dopo l’ennesima fuga della madre, il padre cambiò il nome del figlio in James Marshall, ma non riuscì a occuparsene, così il piccolo Jimi fu spesso affidato alle cure di altri famigliari. Era un ragazzetto senza una casa che, con il padre e i fratelli, soggiornava in stanze d’albergo per brevi periodi. Neanche a dirlo, abbandonò gli studi. Hendrix, genio indubbio, non aveva altro che la sua chitarra che, di fatto,

Giorgio Thoeni

Hendrix in uno scatto degli Anni Sessanta in cui suona la chitarra con i denti. (Keystone)

era un’estensione del suo corpo e del suo essere. Ovviamente, l’iconografia che lo rappresenta con la Stratocaster bianca attaccata a un gigantesco amplificatore Marshall, non è altro che l’apice di una vita, breve, spesa a conoscere lo strumento. Autodidatta, aveva iniziato suonando un’economica chitarra acustica o forse si trattava di un malandato ukulele, certo è che Jimi lo suonava a rovescio perché era uno strumento per destrimani. Nel ’59 aveva ricevuto una Supro Ozark modello 1560, la prima chitarra elettrica con la quale aveva cominciato a esibirsi in piccoli concerti. Purtroppo, il suo primo amore gli fu rubato e fu costretto a sostituirlo con quella che poi sarà per lui una vera compagna. Con «Betty Jean», una modesta Silvertone Danelectro, condivise il periodo di leva, al quale era stato costretto per aver rubato due automobili, e fondò i King Casuals. Congedato

dall’addestramento militare nel ’62, scambiò Betty Jean con un’Epiphone Wilshire e comprò un’Ibanez modello 1860, che dovette restituire perché non riusciva a pagarne le rate. Nonostante le difficoltà, tra il ’63 e il ’65, era riuscito a entrare nel Chitlin’ Circuit, a farsi notare da King Curtis e gli Isley Brothers, a esibirsi con i grandi del soul B.B. King, Jackie Wilson e Sam Cooke, e a suonare per Little Richard. Una gavetta che non gli piaceva: suonava per altri musica che lo annoiava, sapeva di avere un talento innovativo e cercava di avere il suo spazio sulla scena. Nel ’66, fondò con il batterista Mitch Mitchell e il bassista Noel Redding, la Jimi Hendrix Experience e in meno di un anno, nel ’67, uscirono il primo singolo, la cover di Hey Joe dalle sonorità assolutamente inedite, Are You Experienced, esplosivo disco d’esordio che contiene le celebri Foxey

Lady e Purple Haze e il secondo disco Axis: Bold As Love, in cui si trova Little Wing, una delle composizioni in cui è presente la poetica lessicale di Hendrix. Electric Ladyland, pubblicato nel ’68 fu l’ultimo album in studio della band e consacrò alla storia Voodoo Child e la cover di All Along the Watchtower di Bob Dylan, superiore nella versione rivoluzionaria di Hendrix. Tutti capirono quanto Hendrix fosse avanti, tutti ne riconoscevano il genio. Nel ’66 aveva fatto impallidire il re britannico della chitarra, Eric Clapton, con un’esibizione straordinaria del complicatissimo brano di Howlin’ Wolf, Killing Floor, suonando la sua chitarra come sempre sottosopra, dietro la schiena, con i denti e sdraiandosi a terra. Al di là della sua sconcertante dipartita, Jimi Hendrix è stato una fiamma bruciata troppo in fretta e per questo rimarrà un’assoluta leggenda.

Il Diavolo, sempre e ancora

Netflix In The Devil All The Time tutta la pericolosità dei predicatori

Alessandro Panelli The Devil All The Time (Le strade del male) è un film del 2020 diretto da Antonio Campos, prodotto da Jake Gyllenhaal e distribuito dalla piattaforma streaming Netflix. Il film è ispirato all’omonimo romanzo di Roman Ray Pollock, il quale presta anche la voce come narratore dell’opera visiva. Il regista per la prima volta si trova a dirigere un cast stellare capitanato dall’interprete di Spider-Man del Marvel Cinematic Universe, Tom Holland. Al suo fianco figurano nomi del calibro di Robert Pattinson (Twilight Saga, Tenet, The Lighthouse, Maps to the Stars), Bill Skarsgård (It, Atomica Bionda, Deadpool 2) e Mia Wasikowska (Alice in Wonderland, Solo gli amanti sopravvivono). Dopo aver diretto una serie di film indipendenti (Christine, Afterschool, Simon Killer) Antonio Campos esordisce davanti al grande pubblico con un film dai toni violenti e cupi, ambientato tra due anonime e remote cittadine dell’Ohio, rispettivamente del West Virginia.

Le strade del male è in onda su Netflix.

L’opera si presenta con la voce del narratore che imposta immediatamente una diegesi dalla forte componente thriller, dove dannazioni, sacrifici, e riti «religiosi alternativi» sono all’ordine del giorno e narra le vicende di Arvin (Holland), un giovane lacerato dal passato e dall’estremismo religioso del padre che cerca di porre fine alle dannazioni che lo circondano. La sua strada verrà ostacolata da predicatori inferociti che tenteranno di bloccarlo colpendo i suoi cari.

Il film si svolge in un arco temporale che va dagli anni’50 fino agli inizi degli anni ’70. Grazie alle ellissi temporali e ai vari flashback la struttura narrativa è molto solida e stimola lo spettatore a rimanere impegnato fino ai titoli di coda. Questo perché la storia si sviluppa a cavallo tra due generazioni. Il protagonista vero e proprio ci viene infatti presentato soltanto dopo un buon quarantacinque minuti dall’inizio, in quanto nell’introduzione è il padre Willard (Skarsgård), che conduce la vicenda, un predicatore ossessivo costretto a tradire la fiducia del figlio Arvin per salvare sua moglie malata terminale. Questa struttura è caratterizzata dai forti colpi di scena e lo spettatore si ritrova ad affrontare la morte di molti personaggi primari. Una morte fredda, effimera e devastante. Se Bill Skarsgård e Robert Pattinson siamo abituati a vederli vestire ruoli dalla forte componente maniacaossessiva, la stessa cosa non si può dire per Tom Holland, che in un contesto per lui atipico ha dato prova della sua dinamicità professionale trovando il

suo spazio all’interno di un mondo cupo, tetro, tremendo, dove Dio è presente solamente dopo la morte di una persona cara. Nonostante l’ottima composizione scenica, con una fotografia grezza e desaturata, supportata da una musica che gioca molto spesso in contrapposizione con quello che accade sullo schermo, il film soffre di una mancata profondità dei personaggi, in quanto la sceneggiatura non consente loro di essere sufficientemente incisivi per elevarsi a un livello di interpretazione più macroscopica, così come alcuni escamotage appaiono troppo evidenti e interrompono la fluidità visiva. Malgrado ciò The Devil All The Time è un’opera riuscita per il coraggio in termini di narrazione e per il tremendo carattere nella messa in scena. Per due ore e venti il narratore permette allo spettatore di osservare la trama da una finestra senza mai oltrepassarla, mantenendo una soglia evidente di superficialità, ma il risultato rimane a ogni modo esaltante.

L’artista è portatore di desideri. Lo ha ricordato Tiziana Arnaboldi introducendo la conferenza-performance di Riccardo Blumer tenuta sul palco del Teatro San Materno di Ascona dal titolo Design svizzero. Visione ed esplorazione di alcuni oggetti svizzeri. L’architetto e designer, direttore dell’Accademia di architettura di Mendrisio, ha intrattenuto il pubblico – 30 persone a distanza virale (e non sociale, come sostengono in molti), gli altri via streaming – dapprima riflettendo su considerazioni etico-filosofiche attorno agli oggetti, successivamente mostrandone alcuni della sua personale collezione. Oggetti che rappresentano ciò che siamo e che siamo diventati: raccontano la nostra storia, il nostro pensiero e sono in rapporto con il corpo di cui sono una estroflessione, come suggerisce il filosofo Carlo Sini (L’uomo, la macchina, l’automa). Un’estensione che mette in relazione il cervello con il movimento. Gli oggetti sono testimoni di cultura, ci indicano quanto abbiamo bisogno del contatto fisico per affermare il nostro essere come entità collettiva, ci raccontano il progresso e le caratteristiche del nostro Paese. Tutti gli oggetti sono stati marchiati con un simbolo: una balestra, in ricordo del leggendario Guglielmo Tell; con una croce, richiamo alla bandiera nazionale. Un segno facile da incidere e garanzia di qualità. Fascini griffati per la storia di una svizzeritudine legata a una terra che ha dovuto fare i conti con la sua natura povera. Come il pelapatate, strumento che racconta la pratica del risparmio nel taglio sottile delle bucce, un manifesto contro lo spreco. Blumer scoperchia gli scatoloni ammucchiati e allinea sulla scena i suoi protagonisti. Sono oggetti fabbricati in Svizzera, esemplari acquistati per pochi soldi da robivecchi dal design di ogni tipo che veicolano messaggi preindustriali dai mirabili rigori estetici. Grattugie dalla bellezza grafica da guardare con l’occhio della meraviglia: non c’è niente che non serve! Un coltellino Caran d’Ache adatto a segnare i luoghi degli incidenti. Un ferro da stiro da viaggio dalla forma suggestiva di uno scafo in miniatura. Scarponcini con ramponi amovibili da tacco, per non scivolare… Lame per pattini da ghiaccio da applicare sulle suole. Puntine (a tre punte), una pentola a pressione, una padella, un ventilatore, una macchina per cucire militare scomponibile, una borraccia militare senza saldature. Cubi di sapone da cucina e tessere di un Domino: marchiati con la balestra, svizzeri: ça va sans dire. Oggetti che dichiarano l’amor patrio per una tradizione della perfezione. È la cultura dell’oggetto che racconta la nostra identità, conclude Blumer, intelligente e appassionato incantatore. Che spettacolo!

Riccardo Blumer durante la sua conferenza-performance. (G. Thoeni)


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Prepararsi in anticipo alle festività per trascorrere il periodo natalizio senza stress: grazie all’ampio e variegato assortimento di surgelati della Migros potete acquistare i vostri ingredienti per la fondue chinoise già sin d’ora. Proprio perché non è chiaro con quante persone potremo festeggiare il Natale quest’anno, avere una scorta di buona carne in congelatore è sempre un vantaggio. La scelta di prodotti, vantaggiosa e di qualità, spazia dal tacchino a diverse varietà di carne svizzera. In questo modo la fondue si trasforma in un gustoso momento per tutta la famiglia.

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Quanto costa la libertà?

Cultura e Spettacoli

Storia svizzera La fortunata serie di sei puntate Il prezzo della pace apre un dibattito interessante:

quale fu la posizione della Svizzera dopo la Seconda guerra mondiale? Simona Sala Quanto costa la libertà? Forse è questa la domanda, la forza motrice che sta dietro a una delle più grandi produzioni mai realizzate dalla televisione svizzera in collaborazione con Arte. Quando, nel periodo postbellico, alla Svizzera riuscì una brillante ripresa economica coniugata a un repulisti della propria immagine grazie alle iniziative umanitarie, si poté finalmente cominciare a guardare avanti, nel nome della libertà ritrovata. Ma la Svizzera pagò un prezzo morale, per quei traguardi? Nella serie Frieden – Il prezzo della pace, diretta da Mike Schaerer (Lina, Tatort) su scenografia di Petra Volpe (L’ordine divino), che ha lavorato al progetto da 8 milioni di franchi per nove anni, si intrecciano le storie dell’imminente dopoguerra. E ciò in una Svizzera che si lasciava vieppiù alle spalle la propria vocazione prettamente rurale, e cominciava a definire i contorni del Paese che conosciamo oggi. Johann (Max Hubacher, Vite rubate) e Egon (Dimitri Stapfer) sono fratelli, il primo ha sposato la ricca Klara (Annina Walt), il cui padre possiede un’azienda tessile che presto gli affiderà, mentre il secondo, devastato dall’esperienza militare al confine ticinese e affetto da quello che oggi chiameremmo distress post traumatico, dà la caccia ai nazisti rifugiatisi in Svizzera con la connivenza di politici e industriali locali. Sullo sfondo, la vicenda vera e propria, quella che rende possibile il racconto di tutte le altre e che fa da cartina da tornasole per la statura morale dei protagonisti della serie, girata con una

Annina Walt (Klara) mentre controlla i documenti di un profugo ebreo. (Copyright: SRF/ Nadia Klier)

grazia straordinaria, un’attenzione scenografica fuori del comune, e una prestazione attoriale di livello altissimo. Nel 1946, 370 giovani ebrei sopravvissuti a Buchenwald furono invitati dalla Croce Rossa (che un po’ voleva aiutarli a risollevarsi, e un po’ voleva ridare lustro all’immagine della Svizzera presso gli Alleati) a trascorrere un periodo sulla Zugerberg, nell’imponente istituto Felsenegg. Dal treno però, non scesero 370 bambini come

concordato, ma giovani maschi tra i 16 anni e la ventina (nella serie uno dei ragazzi di Buchenwald spiega: «Non sono arrivati i bambini sotto i dodici anni, perché quelli venivano uccisi subito»). I ragazzi, traumatizzati e denutriti, furono accettati ugualmente, sebbene la serie sottilmente denunci le condizioni paramilitari elvetiche. All’interno di Felsenegg si creò una scissione, con le rigide regole dei rappresentati della Croce Rossa (allora ancora legata alla

Confederazione e dunque meno libera nelle proprie decisioni) contrapposte alla sensibilità di un gruppo di donne tenaci, lontane dalle logiche burocratiche e diplomatiche, e soprattutto umane. Quelle donne avevano capito che non bastava dare ordini ai ragazzi e chiuderli in un nuovo recinto, ma che ci volevano ascolto, cibo e calore. Anche Charlotte Weber, classe 1912, attivista, insegnante e giornalista, faceva parte di quel gruppo, anzi, ne

Quando la Svizzera accolse i «figli dei traditori» del 20 luglio 1944 L’iniziativa «Buchenwald-Kinder» non fu isolata. Nel 1947 il pediatra e colonnello bernese Albert von Erlach, medico della Croce Rossa Internazionale per la quale era delegato alle visite dei prigionieri inglesi nei lager nazisti, invitò in Svizzera i «bambini di Bad Sachsa». Fra questi vi era il professor Friedrich-Wilhelm von Hase, figlio del generale Paul von Hase, imparentato con il pastore Dieter Bonhoeffer e giustiziato per avere partecipato all’Operazione Valchiria del 20 luglio 1944. Dopo la guerra von Hase trascorse lunghi periodi in Svizzera, ospitato dalla famiglia von Erlach di Muri. Prof. von Hase, la Svizzera ospitò anche i figli dei «traditori» che parteciparono all’Operazione Valchiria. Cosa ricorda di quel periodo?

All’epoca dell’attentato avevo sette anni e abitavo da amici in campagna, dove ero stato mandato dopo l’inizio dei bombardamenti nel 42. L’appartamento di famiglia si trovava nel cuore di Berlino, al prestigioso indirizzo di Unter den Linden 1, lo stesso della Stadtkommandatur (il comando centrale, Ndt). Al primo piano c’erano il nostro appartamento e gli uffici di mio padre, che rivestiva anche funzioni diplomatiche nei confronti degli Alleati e aveva contatti con gli attaché militari, davanti a casa nostra, un imponente palazzo dell’Ottocento, passavano le parate militari.

Suo padre, pur lavorando per il regime, era contrario a Hitler…

Mio padre era nemico di Hitler. Nel 1938 avrebbe partecipato anche al piano Witzleben-Halder, che saltò con l’incontro di Monaco tra Mussolini, Hitler, Chamberlain e Daladier, dove si scongiurò temporaneamente la guerra. Dopo l’attentato organizzato

dal colonnello Stauffenberg, la Gestapo istituì una commissione che in poco tempo scoprì tutti i collegamenti; si decise di punire le famiglie degli attentatori attraverso la Sippenhaftung (il sequestro della stirpe, Ndt). Gli adulti furono mandati nei lager o in prigione, noi bambini fummo portati a Bad Sachsa. Eravamo in 46, di un’età compresa da pochi mesi a 15 anni. Ci diedero nuovi nomi nella speranza che avremmo dimenticato le nostre origini. Forse volevano affidarci a brave famiglie SS affinché crescessimo secondo l’ideologia nazista.

In casa percepiva scetticismo verso Hitler?

In casa eravamo consapevoli che mio padre non lo sopportava, ma non se ne parlava: si stava in guardia perché le spie erano ovunque. Il suo pensiero lo si evince leggendo Resistenza e resa, una raccolta di lettere di Dieter Bonhoeffer, che mio padre ebbe modo di visitare in carcere. Come furono trattati in Germania i figli degli attentatori?

Il 20 luglio del 1957 fu una data cruciale per la percezione della Seconda guerra mondiale grazie al discorso del presidente Theodor Heuss. Con l’elaborazione storica la percezione dei fatti del 20 luglio è cambiata radicalmente. Ma dobbiamo continuare a lottare per quest’eredità. Ha ricordi di Bad Sachsa?

Me ne sono rimasti pochi, sono come spezzoni di film. Dieci anni or sono a Bad Sachsa ci fu un convegno cui partecipò anche la sindaca, psicologa, e in quell’occasione emersero molti traumi. La pubblicazione di Hitlers Rache (SCM Hännsler, 2014) o di un mio discorso sul tema delle persecuzioni subite nei primi anni del dopoguerra, negli atti del convegno di Dresda del

Da sin. «Friewi», G. von Erlach e la madre, 1950. (G. v. Erlach)

2019, intitolati Für Freiheit, Recht, Zivilcourage. Der 20. Juli 1944 (be.bra wissenschaft Verlag, Berlin 2020) mi ha aiutato tanto.

Cosa ricorda del suo arrivo in Svizzera?

Finii dai parenti di Albert von Erlach a Muri, vicino a Berna. Avevo dieci anni, ero intimorito, senza più una vita familiare. La Svizzera per me era come un paradiso: tutto era intatto e disponibile, anche se si parlava un tedesco incomprensibile! Fui trattato come un figlio, e il colonnello brigadiere Hans Ulrich von Erlach per me è stato un vicepadre. Oggi siamo come parenti. Non ho mai dimenticato cosa ha fatto la Svizzera per me. Colonnello von Erlach, come si arrivò a ospitare i bambini di Bad Sachsa in Svizzera?

L’operazione era stata avviata da mio zio Albert von Erlach, che aveva contatti a Berlino e conosceva le condizioni delle famiglie degli attentatori: non avevano diritto ad alcuna pensione

e il cibo scarseggiava. Piazzò molti bambini, alcuni in famiglia e altri nell’istituto «Maiezyt» di Habkern, vicino a Interlaken.

Ricorda il primo incontro con F.-W. von Hase?

Quando «Friewi» venne per la prima volta a casa nostra nel 1947, avevo cinque anni. Ero impressionato perché sapevo dai miei genitori che suo padre era stato nella resistenza e che era stato impiccato. Un bambino che aveva perso il padre in quel modo, a casa nostra!

Come era visto il fatto che questo piccolo tedesco venisse in vacanza da voi?

Non è mai stato un argomento di discussione, né con i vicini né con gli amici di famiglia. Per un certo periodo Friewi frequentò perfino la mia scuola a Muri. Mia nonna era tedesca, per cui in casa non ci sono mai stati pregiudizi. Abbiamo sempre ospitato studenti stranieri, tra cui anche Gerritt, il figlio della sorella di Friewi, che nel frattempo è diventato svizzero. Per me Friewi è un fratello. / S. Sala

era la coraggiosa portavoce, come testimoniano le immagini contenute nel bel documentario di accompagnamento alla serie, I bambini di Buchenwald, e le sue memorie, Gegen den Strom der Finsternis. Als Betreuerin in Schweizer Flüchtlingsheimen 1942–1945 (Chronos, 1997). È proprio sulle sue memorie sapientemente mescolate alla ricerca di Madeleine Lerf, Buchenwaldkinder, eine Schweizer Hilfsaktion (Chronos, 2009), che si basa la serie, accolta con ovazioni da parte di storici e critici dall’altra parte del Gottardo, dove ha scatenato accesi dibattiti, contrariamente alla tiepida accoglienza riservatale qui. In Il prezzo della pace lo spirito di Charlotte Weber è rappresentato dalla dolce e ricca Klara, interpretata da Annina Walt, che non riesce ad accettare la tolleranza dei ricchi genitori verso i nazisti, e proprio tra gli ebrei dagli occhi tristi, reietti e senza nulla da offrirle, troverà l’umanità capace di dare un senso alla sua vita. E mentre lei si danna per migliorare le condizioni dei profughi, suo marito Johann capisce certe regole legate ai capitali, ma soprattutto, come non sia sempre necessario fare domande sulla loro provenienza. Glielo spiega bene lo zio acquisito Carl Frei, in affari con pezzi grossi della politica e nazisti sotto copertura, interpretato da uno Stefan Kurt a dir poco strepitoso. Sulla «Sonntagszeitung» del 15 novembre Rico Bandle rimproverava alla SRF di essere troppo inclemente con la politica postbellica del nostro Paese, non concedendole sconti né attenuanti. Forse ha ragione, soprattutto davanti ai personaggi di Klara ed Egon, che fanno la differenza, lei con le sue lacrime impotenti di fronte all’orrore del nazismo, lui in balia di alcol e insonnia, come testimoniano quelle occhiaie definite «le più belle della Svizzera». Certamente quest’operazione ha spalancato le porte sul periodo postbellico elvetico, ancora poco esplorato e molto sfaccettato. Sarà impossibile anche questa volta dare un verdetto definitivo e unanime sulla Svizzera, ma può anche darsi che sia giusto così perché, come dimostra Il prezzo della pace, ogni popolo è fatto di persone, e queste sono fortunatamente diverse tra di loro. Dove e quando

Tutte le puntate della serie e i documentari si possono rivedere su Play RSI. www.rsi.ch/play/tv


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Cultura e Spettacoli

Le città e i delitti

Pubblicazioni Una bella storia del giallo, tra ambientazioni cittadine e loro protagonisti, a dare sostanza

a un genere ricco e peculiare della letteratura italiana Stefano Vassere «Torino è una città pericolosamente mascherata. Non è affatto sobria e diffidente. È la più pronta a captare il Male da ogni angolo della terra, e la sua funzione è di spargerlo in giro per il resto della penisola». Fosse solo anche per il numero delle pagine, cinquecento, questa Storia del giallo italiano di Luca Crovi ha di sicuro il carattere del monumento. Le due prospettive principali sono quella cronologica e quella geografica, attorno alle quali cresce una lunga vicenda sorprendente per originalità e varietà. Per la prima, il libro si apre con l’opera precoce di Emilio De Marchi: sul finire dell’Ottocento la sua ambizione fu subito quella di creare un nuovo tipo di narrativa, quella «sulle colpe e sui colpevoli», centrando un proprio target popolare con un prodotto «locale» di impatto. La prospettiva geografica descrive poi una serie di realtà cittadine circoscritte ma densissime del giallo italiano, anche qui di costituzione antica: attorno alla metà del diciannovesimo secolo, infatti, il tipo I misteri di… elencherà una serie di opere collocate via via a Palermo, Roma, Firenze, Milano, Napoli, Torino. Il libro le riprende tutte, in una serie di capitoli centrali che raccontano le città che ancora oggi ospitano le varie storie. Non di rado, il genere è stato ed è aiutato e promosso dalla struttu-

Copertina de L’affare D’Arblay di Richard Austin Freeman, n.23 de I libri gialli di Mondadori, 1931. (Wikipedia)

razione in collane, e spesso cavalcando l’effetto seriale e continuato dato da innumerevoli investigatori, magistrati, poliziotti, avvocati; in questa squadra, il libro fa bene a non dimenticare quelli che Crovi chiama «nonni

thriller», pensionati che sul modello di Agatha Christie e Miss Marple popolano un vero e proprio genere nel genere. Si sa che il nome del giallo deriva direttamente dalla mitica collana

inaugurata da Mondadori nel 1929; meno noto il fatto che, a quei tempi, la casa editrice milanese già disponeva di altre serie colorate: «I Libri Azzurri», «i Libri Verdi», «Il Libri Neri», i quali evidentemente non ebbero come i gialli la forza di fondare un genere. Questa e altre scelte grafiche del tempo furono però molto consapevoli, e su questo aspetto lo stesso Crovi indugia giustamente un po’. Il giallo italiano è scritto da autori prestati occasionalmente o in modo regolare al canone, e ovviamente da tutta una serie di scrittori «nativi» che finiscono qua e là per assumere lo statuto di classici della letteratura italiana recente (Giorgio Scerbanenco, Andrea Camilleri, Massimo Carlotto tra gli altri). In posizione intermedia sta l’«ibrido» di alcune figure come quelle di Giovanni Comisso e Sergio Saviane, a metà tra la narrazione e la cronaca; a un fatto nero, la serie di omicidi montani accaduti ad Alleghe, nelle Dolomiti bellunesi, questi due scrittori di molto diversa provenienza dedicarono due libri memorabili. Qui è interessante sottolineare che, tra i vari teatri delle diverse vicende (dal giallo storico classico, al Ventennio fascista, alla mala milanese degli anni Sessanta e Settanta, alle tensioni degli Anni di piombo), ha certamente un suo posto il thriller di montagna, quello che mette in scena «i tremendi segreti delle comunità», dove il delitto oppri-

e il mondo della cultura lo omaggia Simona Sala Un poeta, uno scrittore, un osservatore attento dei tempi che cambiano e delle mode che passano. Per alcuni Alberto Nessi è lo scrittore che ci ha regalato le raccolte poetiche I giorni feriali (1969) e Il colore della malva (1992), ma anche i romanzi Terra matta (1984) e Tutti discendono (1989). Allo stesso tempo, per altri è anche l’insegnante che ha «contaminato» decine e decine di studentesse e studenti di amore per la letteratura, di voglia e curiosità, virtù necessarie per riuscire ad andare oltre la parola. Ora Alberto Nessi, chiassese che ha eletto Bruzella a propria patria adottiva, e che è riuscito a farsi apprezzare anche dall’altra parte del Gottardo,

compie ottant’anni, e ha dunque diritto di raccogliere i frutti del suo lavoro, dei suoi pensieri e dei suoi scritti. Per l’occasione, la Casa della Letteratura ha così giustamente pensato di festeggiare una delle voci letterarie più apprezzate del nostro cantone, un intellettuale che ha sempre accompagnato i suoi lettori, seppur discretamente, a volte da lontano, ma soprattutto senza mai alzare la voce o perdere anche un solo briciolo di stupore davanti alla vita. Che le qualità di Alberto Nessi siano realtà nota ai più, lo testimonia il folto gruppo (oltre trenta) di scrittrici e scrittori, traduttrici e traduttori, giornalisti e intellettuali che hanno raccolto l’invito a partecipare alla pubblicazione di rampe di lancio doganieri nuvole, omaggiando il vincitore del Gran premio di letteratura svizzero del 2016 con interviste, poesie inedite, ricordi, testi critici o opere grafiche. Sfogliando le pagine del libro, in vendita da oggi ed edito da sottoscala, ci si rende conto di quante vite abbia sfiorato, Alberto Nessi. Grazie a incontri e riflessioni, egli è riuscito a tessere un filo invisibile tra i suoi sodali e ammiratori, e perché no?, forse anche discepoli, che ora si riuniscono davanti al poeta per festeggiarlo, una pagina dopo l’altra; in mano, invece di un fiore, reggono un delicato pensiero ancorato su carta. Auguri, Alberto Nessi! Bibliografia

Per Alberto Nessi.

Rampe di lancio doganieri nuvole. Omaggio ad Alberto Nessi. AAVV, Prefazione di Fabiano Alborghetti. Bellinzona, Edizioni Sottoscala, 2020.

Bibliografia

Luca Crovi, Storia del giallo italiano, Venezia, Marsilio, 2020. Annuncio pubblicitario

Una poesia per un amico, poeta

Compleanni Alberto Nessi festeggia 80 anni

me anche perché inserito in un’angustia regionale di angoscia e inquietudine. C’è – è chiaro – dell’altro, nel libro di Luca Crovi: un accenno per esempio a una sorta di «giallo nel giallo», il giallo-bolla, che incorpora altre storie. Il personaggio di Sherlock Holmes è inserito nei pastiches letterari di parecchi scrittori. Giorgio Celli è autore di un Come fu ucciso Umberto Eco del 1991 (l’idea è stata poi ripresa, omologa anche nella scelta della vittima «semiotica», nel recente La settima funzione del linguaggio di Laurent Binet, dove l’omicidio è quello di Roland Barthes). Non manca infine in questo libro qualche accenno alla notevole opera di teorizzazione: il manuale di Laura Grimaldi, le riflessioni dello stesso Massimo Carlotto, l’opera di Leonardo Sciascia e tutta una linea tecnica che consolida e afferma il giallo come una delle modalità di prima fila della letteratura italiana contemporanea. «Se uno ci fa caso, in ognuno dei flagelli che opprimono la patria ci trova sempre sotto la mano torinese. È una città straniera che odia il resto d’Italia e manda i suoi messaggeri maledetti a diffonderci ogni più abominevole trovata».

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Mirage Visor, tg. 53–59 cm, 299.– 4618.246 4605.405

2 Sci On Piste E S/Max W8 con attacchi M11 GW, lunghezza 150–165 cm, 549.– 4643.140

4 Giacca da sci Snow Rebel, tg. S–XL, 319.– 4625.502

7 Strato intermedio Radiant, tg. S–XL, 109.– 4625.505

5 Sciarpa tubolare Areco, 22.90 4605.305

8 Guanti Ziener, 49.90 4964.774

3 Casco con visiera

6 Berretto Trevolution, 11.90

9 Pantaloni da sci Edge, tg. XS–XL, 179.– 4625.508 10 Scarpone da sci

S/Pro 90, n. 23.5–27.5, 399.– 4954.688 11 Scarponcino invernale Breccia 2 GTX, n. 36–42, 229.– 4751.069


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Tutto l'assortimento Handymatic Supreme (sale rigeneratore escluso), per es. pastiglie All in 1, 44 pezzi, 7.50 invece di 14.95

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Frutta e verdura

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Mix per grill da tavola Grill mi mini salsicce senza carne di maiale, Svizzera/Inghilterra/ Irlanda, 8 pezzi, 160 g, in self-service

30% Tutti i salami Rapelli Classico e Rustico, affettati e al pezzo per es. Classico affettato in vaschetta mini, per 100 g, 3.60 invece di 5.20, in self-service

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Spezzatino di manzo TerraSuisse Svizzera, per 100 g, imballato


Pesce e frutti di mare

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Tutto l’assortimento di filetti di pesce fresco (escluso articoli già in azione) per es. Filetti di passera MSC, Atlantico nord-orientale, per 100 g, valido fino al 28.11.2020

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Filetto di salmone senza pelle M-Classic, ASC d'allevamento, Norvegia, in confezione speciale, 380 g

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Tutti i latticini e gli albumi d'uovo Oh! per es. Pudding High Protein al cioccolato, 200 g, 1.75 invece di 2.20

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Le Gruyère Höhlengold, AOP ca. 250 g, per 100 g, confezionato

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Prodotti freschi e pronti

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Tutti gli antipasti Anna's Best, M-Classic e bio per es. Hummus Picante M-Classic, 200 g, 2.25 invece di 2.85

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Dolce e salato

Per mangiucchiare e curiosare in giro

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Tutto l'assortimento di biscotti di Natale Grand-Mère per es. miscela di Natale, 380 g, 5.50 invece di 6.–

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per es. chips alla paprica, 2 x 90 g, 3.65 invece di 4.60


Fiori e giardino

Avvento, Avvento...

CONSIGLIO DEGLI ESPERTI Per mantenere bella a lungo la corona dell'Avvento basta tenerla al fresco prima di utilizzarla. Se viene tenuta vicino a un calorifero o a un camino, il processo di essicazione accelera.

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