Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXX 21 agosto 2017
Azione 34 ping -63 M shop ne 41-46 / 59 i alle pag
Società e Territorio La società che cambia: sempre più persone raggiungono, e in buona forma, la quarta età
Ambiente e Benessere I costi complessivi legati alle complicanze del sovrappeso e all’obesità in Svizzera sono triplicati in dieci anni
Politica e Economia In Venezuela Maduro deve «oliare» l’esercito per paura di un golpe militare
pagina 9
pagina 3
Cultura e Spettacoli Luca Corti, nuovo responsabile del Percento culturale di Migros Ticino, racconta le novità del programma 2017-2018
pagina 23
di Franco Banfi pagina 11
Franco Banfi
Nuotando con le balene
pagina 35
Un odio incatena l’America di Peter Schiesser Quanto odio cova nelle viscere dell’America? Le immagini di Charlottesville, Virginia, ne hanno dato un assaggio, e l’amaro in bocca lascia presagire che ne verrà vomitato ancora. Almeno così minacciano gli estremisti di destra («questo è solo l’inizio») dopo gli scontri con i gruppi anti-fascisti, nel video del canale americano VICE News, Charlottesville: race or terror (fruibile su Youtube). Vedremo se sotto il cappello di alt-right (alternative right) sapranno ripetere la mobilitazione di un’intera galassia di gruppi di estrema destra come non si era mai vista da decenni, con la quale hanno portato 1500 persone a sfilare nella notte al lume delle torce per le vie della città, suppostamente per evitare la rimozione di una statua del generale sudista Robert E. Lee. Internet li ha aiutati a riunirsi, ma resta da capire se e quale terreno comune potrà trovare in futuro questa miriade di gruppi e gruppuscoli con orientamenti diversi. Le scene del filmato citato sopra, però, fanno venire i brividi: quelle urla gutturali, di guerrieri pronti alla battaglia, al sacrificio, l’esaltazione fisica della violenza, richiamano alla mente un odore
di sangue; la luce minacciosa di fiaccole brandite nella notte per infiammare l’America ricorda i riti nazisti; l’odio freddo espresso con appena controllata rabbia nelle interviste a bocce ferme, i pseudo-ragionamenti sulle razze e il potere, lasciano intravvedere una guerra che è appena cominciata; quelle urla di terrore e i corpi che volano per aria, investiti da un’auto guidata da un giovane che il giorno prima, fra i 1500, sventolava un cartello del gruppo estremista Vanguard America, fanno capire che la guerra è cominciata. Federico Rampini, a pagina 24, ci racconta bene le giravolte di un presidente Trump che si conferma sempre più non essere una persona che sa unire gli animi. La sua inconsistenza e la sua qualunquistica equidistanza hanno comunque conseguenze gravi: i gruppi di estrema destra si sentono legittimati, e questo li galvanizza. Da loro dovremo aspettarci una maggiore attività – e violenza: dal 1992 sono stati responsabili di 219 assassini, di cui 168 a Oklahoma City nel 1995, l’estrema sinistra di 23. Ma ci sarà anche da attendersi una massiccia mobilitazione dei gruppi avversari, provenienti dalla galassia della sinistra e dell’estrema sinistra. Non lasceranno il campo a razzisti e fascisti, come non lo hanno lasciato a Charlot-
tesville. E hanno certo un potenziale di mobilitazione maggiore. Le immagini del filmato di VICE News non lasciano dubbi: con caschi, scudi, randelli, coltelli, gli estremisti di destra mostrano una carica aggressiva e una preparazione allo scontro ben superiore a quella dei manifestanti della sinistra alternativa, che si difendono o aggrediscono a pugni e calci. Non c’è dubbio che il vero pericolo per la società americana venga, sia fisicamente sia moralmente, da destra. Tuttavia, scene viste nel filmato già citato e in altri, in cui si vede l’abbattimento di una statua dedicata ai soldati confederati da parte di alternativi di sinistra, mostrano che un odio profondo cova anche a sinistra. Sarà la logica frustrazione di sapersi comandati da un presidente come Trump dopo gli otto anni di Obama, ma gli insulti, gli strattoni, i pugni per non far parlare un leader dell’estrema destra ad una conferenza stampa, gli sputi e i calci contro quella statua caduta dedicata ai caduti della Guerra di secessione non sono un bello spettacolo. Significa che cova qualcosa di insidioso sotto la pelle dell’America. Donald Trump non può fare a meno di esacerbare i dissidi, è nel suo essere; a questo punto dovrà essere un’altra America a farsi carico di questo conflitto profondo.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 agosto 2017 • N. 34
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 agosto 2017 • N. 34
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Società e Territorio La carica dei novantenni Sempre più persone raggiungono la quarta età e restare in forma è possibile pagina 3
Come «ricomporre» un alpe Il lavoro dell’architetto Martino Pedrozzi sull’Alpe di Sceru, in alta Malvaglia, ha restituito senso e dignità ad un luogo vieppiù abbandonato pagina 5
Quanto turismo nelle valli? Complice l’apertura della galleria di base sotto il San Gottardo e il successo della Ticino Card, nelle valli si registra un marcato aumento dei turisti pagina 6
Novantenni inarrestabili
Quarta età Complice l’allungamento generale dell’aspettativa e il miglioramento della qualità della vita, sono sempre
di più le persone che arrivano alla quarta età. Un documentario prodotto dalla Hbo racconta i novantenni di oggi, abbattendo gli stereotipi Stefania Prandi I novant’anni sono difficili da immaginare per chi non ce li ha: sembrano lontani e irraggiungibili. Eppure, complice l’allungamento dell’aspettativa e il miglioramento della qualità della vita, sono sempre di più le persone che si avvicinano a quest’età, riuscendo anche a superarla. Un documentario prodotto dalla Hbo, tra i canali via cavo più famosi e amati dal grande pubblico americano, racconta i novantenni di oggi, rompendo gli stereotipi ancora diffusi sull’«anzianità» avanzata. If You’re Not in the Obit, Eat Breakfast (Se non sei nei necrologi, fai colazione), ha protagonisti come Carl Reiner (95enne), leggenda della commedia americana – una delle celebrity più anziane attive su Twitter – e l’attrice Patricia Morison che debuttò a Hollywood nel 1939 e che ha spento 102 candeline lo scorso marzo. Il titolo, ironicamente irriverente e sarcastico, arriva proprio da una battuta di Reiner: «Ogni mattina prendo il giornale, vado alla sezione dei necrologi, e guardo se trovo il mio. Se non c’è, faccio colazione». Nel video si chiede, con un certo stupore, come sia possibile essere ancora al mondo: «Fortuna? Geni? La medicina moderna? Oppure stiamo facendo qualcosa di giusto?».
Come superare l’indifferenza
Vivere oggi Nel libro Tenerezza la teologa
e docente di Storia della filosofia Isabella Guanzini offre un antidoto al sovraccarico di emozioni, cose e persone che ci spinge verso l’insensibilità
Laura Di Corcia «Par délicatesse / j’ai perdu ma vie»: già il visionario Rimbaud metteva in guardia dagli eccessi di altruismo. D’altra parte lo sappiamo: l’egoismo, quando è sano, protegge dalle prepotenze degli altri e migliora l’autostima. Però oggi come oggi pare che l’insensibilità verso le miserie di chi ci sta accanto sia l’unica moneta corrente e questo non giova certamente alla collettività. Come possiamo, in un’epoca dai ritmi velocissimi, coltivare le relazioni con il nostro prossimo? Quanto è importante spostare lo sguardo verso le fragilità altrui? Ne parliamo con Isabella Guanzini, che recentemente ha pubblicato un saggio per Ponte alle Grazie con un titolo demodé, in un’epoca dove l’aggressività pare avere la meglio: Tenerezza. Come mai un libro che parla della tenerezza parte dalla vita nelle metropoli?
Quella è un po’ la part destruens, attraverso la quale ho voluto descrivere i luoghi in cui si fa fatica a vivere e a pensare la tenerezza. La metropoli è il simbolo del nostro tempo, il luogo in cui accade tutto e questo ha un riscontro anche su chi non ci vive. Nel suo eccesso di stimoli, nei suoi imperativi, nelle sue leggi di prestazione fa sì che gli uomini e le donne sviluppino una sorta di anestesia emotiva, sfidando la possibilità della tenerezza. Tutti hanno l’impressione di doversi proteggere dal sovraccarico di persone, di cose e di immagini, tutti puntano a diventare più freddi. «Cool» è il personaggio del momento e alla base c’è proprio l’idea di non farsi coinvolgere troppo. È una forma di protezione?
È una forma di protezione dei nervi. Non a caso ho citato il libro di Georg Simmel, La metropoli e la vita dello spirito, in cui il generatore simbolico è il denaro e in cui il lavoro fagocita le persone. Il risultato? Siamo sempre più stanchi, sempre più esausti. E la stanchezza e la sovraeccitazione sono
a rifletterci bene il contrario della tenerezza.
Gli effetti negativi dell’invecchiamento sembra siano dovuti più al «disuso» che alla malattia
Come fare breccia in questo paradigma che ci vede distanti, su posizioni spesso nemiche?
La tenerezza è un modo di percepire e di incontrare il mondo, è una questione di cambiamento di visione. Nel libro cito David Forster Wallace, che racconta che quando siamo imbottigliati nel traffico o in coda al supermercato, la nostra reazione automatica è quella di reagire con aggressività e insofferenza. I bambini schiamazzano, la persona in coda è molto lenta, un automobilista ci sorpassa sulla destra; tutto ci urta i nervi. Dovremmo provare invece a cambiare la nostra disposizione mentale e pensare che i bambini si lamentano perché come noi sono molto stanchi, la persona davanti è lenta perché magari ha appena subito una separazione e l’automobilista ci sorpassa sulla destra per arrivare presto dalla madre che non sta bene. Questo approccio ci aiuta a metterci nei panni dell’altro e a sviluppare una sorta di sguardo sensibile, più attento, non aggressivo nei confronti delle situazioni. Per me la tenerezza risiede in questo, nell’educare lo sguardo a un nuovo approccio alla realtà, più attento alla fragilità dell’altro e di se stessi. È possibile iniziare questa educazione alla tenerezza con i bambini, che di solito sviluppano queste modalità aggressivo-protettive più avanti?
Non è vero che i bambini sono teneri e poi all’interno di questa società della concorrenza e della prestazione diventano sempre più duri; io credo sia molto diffuso un modello educativo che porta alla diffidenza sin da subito. Ai bambini si passano dei messaggi contraddittori: da una parte gli si chiede di essere gentili, buoni, rispettosi, dall’altra l’estraneo viene rappresentato come una potenziale minaccia dalla quale bisogna proteggersi. Per questo è necessaria un’educazione al sentire in grado di iniettare nei bambini la capacità di essere
Nelle grandi città uomini e donne sviluppano una sorta di anestesia emotiva, di fronte ai troppi stimoli. (Keystone)
attenti, di notare i dettagli, di sforzarsi di comprendere le situazioni. Credo che la scuola sia un luogo decisivo per la tenerezza, perché noi docenti (ho insegnato tantissimi anni al Liceo) siamo diventati molto bravi nel costruire delle mappe cognitive, ma ci dimentichiamo spesso dell’altrettanto utile se non più importante mappa affettiva. I ragazzi devono imparare a nominare le proprie emozioni, le proprie ansie e le proprie felicità. Talvolta questa grammatica degli affetti manca del tutto. E quando gli affetti, soprattutto quelli negativi, non vengono nominati, rischiano di esplodere in atti violenti. La mediazione della parola, del linguaggio e della cultura è essenziale per sviluppare questo modo di stare al mondo. Ma che cos’è, in definitiva, la tenerezza?
Per come la intendo io è la percezione della fragilità dell’altro, è una reazione di cura nei confronti di una situazione, di una persona che ha bisogno.
Perché ha parlato di tenerezza e non di gentilezza?
La gentilezza e la tenerezza hanno sicuramente degli aspetti in comune. Già sulla tenerezza grava un’enorme ipoteca, si fa fatica a definirla, spesso la si confonde col sentimentale; la gentilezza porta con sé un altro rischio, quello dell’inautenticità. Di fronte a una persona molto gentile ci si chiede sempre se sia vera, si percepisce una patina un po’ artificiale. La gentilezza è un mediatore delle situazioni pubbliche, ha un elemento di formalità, mentre la tenerezza, per come la intendo io, è qualcosa di più viscerale. Ci sono delle persone che sono eccessivamente preoccupate del benessere altrui e mettono da parte il proprio. Come capire qual è il dosaggio giusto per la tenerezza?
Il rispetto dei limiti dell’altro passa per forza di cose attraverso la presa di coscienza dei propri. La tenerezza non è un gesto di estroversione per cui si è rivolti esclusivamente verso l’altro, è qualcosa di
più elementare e originario, uno sguardo che percepisce che siamo tutti fragili, tutti bisognosi di cura e attenzione. Lei vive fra Italia e Austria. Fra il mondo germanofono e quello italofono. Nota delle differenze nell’approccio alla tenerezza?
L’Italia ha una sua caratteristica propria difficile da definire. Ci troviamo un paesaggio umano, ma anche naturale, che ha a che fare con una «geoestetica», cioè con un insieme di luoghi e percezioni, che genera un mondo affettivo fatto di lingua, cibo, profumi unici. L’umanità di fondo è secondo me davvero particolare, forse perché il mio Paese ha una tradizione familiare, benché in crisi, molto più forte. Vienna, la città dove vivo, non fa testo, è una città particolare, ha dei tratti di cinismo che riscontrano quasi tutti: qui la vita pubblica è piena di ironia e sarcasmo. L’Austria in sé, che non è Vienna, è naturalmente un luogo di emozioni e affettività, ma il modo di viverle ed esprimerle ha una tonalità diversa.
Interpellato al riguardo, Dan Buettner, esperto di longevità e autore del bestseller Lezioni di lunga vita. Le zone blu. I segreti delle popolazioni ultracentenarie, reportage sulle cinque diverse regioni del mondo dove si vive più a lungo (Icaria in Grecia, Sardegna in Italia, Okinawa in Giappone, Loma Linda in California, Nicoya in Costa Rica), spiega che il corpo umano può vivere bene fino ai 90 anni. Secondo le sue ricerche, a fare la differenza sono per il 45% i geni e per il 15% le circostanze. Resta, quindi, un 40% di margine che dipende dall’iniziativa personale, dall’attitudine e dalle buone abitudini. Di parere simile un
Un Kirk Douglas in splendida forma il giorno del suo 100esimo compleanno, il 9 dicembre 2016, felicitato dal figlio Michael e dalla nuora Catherine Zeta-Jones. (Keystone)
altro esperto, Walter Bortz, professore all’università di Stanford: dopo anni di studi è giunto alla conclusione che gli effetti negativi dell’invecchiamento siano dovuti al «disuso» più che alla malattia. «Chi si ferma è perduto», questo è il motto da tenere a mente quando si pensa al tempo che passa. Bortz dà il buon esempio e a 86 anni continua a tenersi in forma: da oltre quarant’anni corre una maratona all’anno. L’intento del lungometraggio è raccontare che, nonostante la vecchiaia, si possa vivere bene – non semplicemente sopravvivere – restando attivi, continuando a fare quel che si è sempre amato. Il quadro che ne emerge è senza dubbio interessante: il cantante Tony Bennett continua a cantare nonostante i novanta suonati, il regista Mel Brooks e il produttore Norman Lear hanno ancora voglia di lavorare, così come gli attori Betty White e Dick Van Dyke, sposato con una donna più giovane di 40 anni, e impegnato nella registrazione di un nuovo album. Il pianista Irving Fields, mancato nel 2016 alla veneranda età di 101 anni, è stato ripreso men-
tre teneva concerti al Park Lane Hotel a New York. «Potrei lavorare dieci giorni alla settimana senza essere stanco. Vado avanti perché amo quel che faccio», ha detto. Altri intervistati sono Stan Lee, editore, scrittore di libri comici, ex presidente della Marvel, che a 94 anni scrive, produce e appare in piccoli camei, e l’icona fashion Iris Apfel, 95enne regina della moda e del design di New York, già protagonista, nel 2014, del documentario Iris. Nel 2005, quando aveva 82 anni, le sue collezioni di tessuti e oggetti raccolti in giro per il mondo sono state celebrate al Metropolitan Museum. Un altro «nonnino» notevole è Kirk Douglas, cent’anni tondi, che ha portato in scena uno spettacolo da solo, un monologo, nei suoi novant’anni, nonostante fosse stato colpito da un ictus che ha condizionato per sempre il suo modo di parlare. I 90 sono i nuovi 65, viene da pensare, osservando le vite di questi reduci di Hollywood, e anche quelle di Harriette Thompson, 93 anni, la donna anagraficamente più «grande» ad avere completato una maratona, di
Tao Porchon-Lynch, maestra di yoga 98enne, che ha marciato con Gandhi e che da poco ha cominciato a ballare il tango (è diventata famosa grazie ai social network dopo che, nel 2012, è stata fotografata mentre insegnava a Central Park) e di Jim «Pee Wee» Martin, 95enne, che ha combattuto durante il D-Day e che si lancia ancora con il paracadute. Particolarmente istruttivo l’approccio di Ida Keeling, atleta 101enne con diversi record (detiene il primato mondiale per avere corso i 100 metri a cent’anni), che si allena ancora un’ora al giorno. Ha iniziato a correre a 67 anni, dopo una vita segnata da eventi tragici: ha perso la madre quando era piccola, il marito a 42 anni, e due dei suoi quattro figli sono stati uccisi per motivi legati alla droga e alla malavita a distanza di pochi anni uno dall’altro. «Da quando faccio jogging mi sento diversa, è come se fossi uscita dal guscio – spiega. – Rincorro solo me stessa, non competo con gli altri. Non mi considero vecchia. Siamo noi i padroni del nostro corpo. Se non ce ne prendiamo cura, nessuno lo farà al nostro posto».
cui l’amico più fidato era il dizionario, quello biligue e quello monolingue, per non parlare dei testi in lingua per imparare ad esempio i verbi frasali in inglese, mi sembra incredibile. Oggi per tradurre o cercare un vocabolo usiamo Leo dictionary, Wordreference.com, per sapere il significato di una parola italiana andiamo invece sull’enciclopedia Treccani online. Devo ammettere però che quando scrivo o traduco per lavoro preferisco di gran lunga i miei cari dizionari cartacei. Il mio monolitico DUDEN monolingue per esempio non lo cambierei con nessun dizionario online anche se, lo ammetto, non posso portarlo con me in viaggio e allora ricorro a quello online. Non so se qualcuno di voi ricorda Speak up, la prima rivista audiomensile per perfezionare l’inglese che offriva corsi su cassetta e spesso
in allegato aveva dei film in lingua originale. Operazione superatissima oggi grazie a piattforme come Netflix che ti permettono di guardare i film in lingua originale con i sottotitoli che preferisci. Di recente mi sono molto stupita, ero a caccia di una serie nuova, il solito dilemma quando hai appena finito di divorarti le puntate dell’ultima che diventa sempre la tua preferita e nessun titolo nuovo ti prende. Nel mio caso si trattava di Mad Men, vista su suggerimento di un’amica, ambientata negli anni Sessanta, in cui il protagonista è Donald Draper pubblicitario di grido che incarna il sogno americano in un ambiente di lavoro altamente maschilista dove gli alcolici si consumavano con la stessa intensità dell’acqua e chi non fumava era uno sfigato. Per farla breve, mi imbatto in Stranger, clicco e scopro
If You’re Not in the Obit, Eat Breakfast è stato prodotto da George Shapiro che ha raccontato, in un’intervista, di essersi convinto a credere nel progetto dopo avere letto le storie dei protagonisti ed essersi reso conto della gioia che mettono in ogni nuovo giorno. Ciò che accomuna gli arzilli novantenni, diversi tra loro per interessi e vicende personali, è il trasporto per la vita e la capacità di coltivare le proprie passioni. Come ha detto Van Dyke, se si fa un lavoro che non si ama, va bene andare in pensione, ma non si può restare fermi, si deve trovare altro, qualcosa che piace. Restare con le mani in mano è la cosa peggiore. Aiuta, inoltre, stare lontani il più possibile dall’autocompatimento, che può arrivare a un certo punto, considerando che la vecchiaia non è sempre una passeggiata. L’ironia è sicuramente un buon antidoto. L’attore George Burns, che se n’è andato lo scorso anno, a cent’anni, diceva: «Realizzi che stai diventando vecchio quando smetti di allacciarti le scarpe e ti chiedi cos’altro potresti fare quando sei là sotto».
La società connessa di Natascha Fioretti Imparare le lingue, mai stato così facile Ero appena entrata in Youtube per cercare una canzone di Randy Newman, talentuoso compositore e mordace satirista sociale del quale è appena uscito l’ultimo album Dark Matter, titolo in sintonia con l’umore del suo pubblico visto che a suo dire oggi in America «le persone non ridono più» schiacciate dalla crisi economica e da una politica che non le sostiene e non le ascolta. Clicco sulla sua canzone dedicata a Putin e prima di ascoltarla devono sorbirmi gli usuali secondi di pubblicità che detesto. Se non fosse però che questa volta non è il solito spot inutile ma la pubblicità di Grammarly (www. grammarly.com) un sito che corregge i tuoi testi in inglese dagli errori grammaticali, di punteggiatura e di orto-
grafia. Un modo facile, veloce e sicuro anche per pubblicare post senza errori su Facebook e altre piattaforme social o per scrivere email. Come sempre c’è una versione base gratuita e una avanzata a pagamento per 11 dollari al mese che offre servizi aggiuntivi, ad esempio suggerisce i vocaboli più appropriati da usare, a seconda del tipo di documento consiglia lo stile di scrittura più appropriato e così via. È possibile scaricare l’applicazione di Grammarly per Chrome, Microsoft Office e Windows. Incuriosita ho subito guardato se esiste un Grammarly per il tedesco e ho trovato una piattaforma simile che si chiama Language Tool (languagetool.org/de) che in realtà funziona per oltre 20 lingue come il russo, il polacco, l’esperanto, il giapponese, il catalano... Se penso ai miei tempi al liceo e all’università in
che è disponibile solo in coreano. Provo con un’altra ed è disponibile solo in bulgaro... In questi casi ti senti subito inadeguato perché tutt’a un tratto le tre lingue che conosci non ti bastano e, a pensarci, nel mondo globalizzato di oggi non solo nel mondo di Netflix. Dieci anni fa parlare tre lingue era un ottimo passepartout per l’estero, oggi si può fare di meglio e abbiamo a disposizione, rispetto al passato, moltissimi strumenti per migliorare e perfezionare le nostre conoscenze linguistiche ed essere più veloci nello scrivere o correggere testi in lingua straniera. Al mio primo anno di università il test più temuto da tutti, bocciavano il 90% degli iscritti, ero lo scritto di inglese. Sarei curiosa di sapere se oggi è ancora un esame così temuto o se i nuovi strumenti online hanno fatto miracoli.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 agosto 2017 • N. 34
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Società e Territorio La carica dei novantenni Sempre più persone raggiungono la quarta età e restare in forma è possibile pagina 3
Come «ricomporre» un alpe Il lavoro dell’architetto Martino Pedrozzi sull’Alpe di Sceru, in alta Malvaglia, ha restituito senso e dignità ad un luogo vieppiù abbandonato pagina 5
Quanto turismo nelle valli? Complice l’apertura della galleria di base sotto il San Gottardo e il successo della Ticino Card, nelle valli si registra un marcato aumento dei turisti pagina 6
Novantenni inarrestabili
Quarta età Complice l’allungamento generale dell’aspettativa e il miglioramento della qualità della vita, sono sempre
di più le persone che arrivano alla quarta età. Un documentario prodotto dalla Hbo racconta i novantenni di oggi, abbattendo gli stereotipi Stefania Prandi I novant’anni sono difficili da immaginare per chi non ce li ha: sembrano lontani e irraggiungibili. Eppure, complice l’allungamento dell’aspettativa e il miglioramento della qualità della vita, sono sempre di più le persone che si avvicinano a quest’età, riuscendo anche a superarla. Un documentario prodotto dalla Hbo, tra i canali via cavo più famosi e amati dal grande pubblico americano, racconta i novantenni di oggi, rompendo gli stereotipi ancora diffusi sull’«anzianità» avanzata. If You’re Not in the Obit, Eat Breakfast (Se non sei nei necrologi, fai colazione), ha protagonisti come Carl Reiner (95enne), leggenda della commedia americana – una delle celebrity più anziane attive su Twitter – e l’attrice Patricia Morison che debuttò a Hollywood nel 1939 e che ha spento 102 candeline lo scorso marzo. Il titolo, ironicamente irriverente e sarcastico, arriva proprio da una battuta di Reiner: «Ogni mattina prendo il giornale, vado alla sezione dei necrologi, e guardo se trovo il mio. Se non c’è, faccio colazione». Nel video si chiede, con un certo stupore, come sia possibile essere ancora al mondo: «Fortuna? Geni? La medicina moderna? Oppure stiamo facendo qualcosa di giusto?».
Come superare l’indifferenza
Vivere oggi Nel libro Tenerezza la teologa
e docente di Storia della filosofia Isabella Guanzini offre un antidoto al sovraccarico di emozioni, cose e persone che ci spinge verso l’insensibilità
Laura Di Corcia «Par délicatesse / j’ai perdu ma vie»: già il visionario Rimbaud metteva in guardia dagli eccessi di altruismo. D’altra parte lo sappiamo: l’egoismo, quando è sano, protegge dalle prepotenze degli altri e migliora l’autostima. Però oggi come oggi pare che l’insensibilità verso le miserie di chi ci sta accanto sia l’unica moneta corrente e questo non giova certamente alla collettività. Come possiamo, in un’epoca dai ritmi velocissimi, coltivare le relazioni con il nostro prossimo? Quanto è importante spostare lo sguardo verso le fragilità altrui? Ne parliamo con Isabella Guanzini, che recentemente ha pubblicato un saggio per Ponte alle Grazie con un titolo demodé, in un’epoca dove l’aggressività pare avere la meglio: Tenerezza. Come mai un libro che parla della tenerezza parte dalla vita nelle metropoli?
Quella è un po’ la part destruens, attraverso la quale ho voluto descrivere i luoghi in cui si fa fatica a vivere e a pensare la tenerezza. La metropoli è il simbolo del nostro tempo, il luogo in cui accade tutto e questo ha un riscontro anche su chi non ci vive. Nel suo eccesso di stimoli, nei suoi imperativi, nelle sue leggi di prestazione fa sì che gli uomini e le donne sviluppino una sorta di anestesia emotiva, sfidando la possibilità della tenerezza. Tutti hanno l’impressione di doversi proteggere dal sovraccarico di persone, di cose e di immagini, tutti puntano a diventare più freddi. «Cool» è il personaggio del momento e alla base c’è proprio l’idea di non farsi coinvolgere troppo. È una forma di protezione?
È una forma di protezione dei nervi. Non a caso ho citato il libro di Georg Simmel, La metropoli e la vita dello spirito, in cui il generatore simbolico è il denaro e in cui il lavoro fagocita le persone. Il risultato? Siamo sempre più stanchi, sempre più esausti. E la stanchezza e la sovraeccitazione sono
a rifletterci bene il contrario della tenerezza.
Gli effetti negativi dell’invecchiamento sembra siano dovuti più al «disuso» che alla malattia
Come fare breccia in questo paradigma che ci vede distanti, su posizioni spesso nemiche?
La tenerezza è un modo di percepire e di incontrare il mondo, è una questione di cambiamento di visione. Nel libro cito David Forster Wallace, che racconta che quando siamo imbottigliati nel traffico o in coda al supermercato, la nostra reazione automatica è quella di reagire con aggressività e insofferenza. I bambini schiamazzano, la persona in coda è molto lenta, un automobilista ci sorpassa sulla destra; tutto ci urta i nervi. Dovremmo provare invece a cambiare la nostra disposizione mentale e pensare che i bambini si lamentano perché come noi sono molto stanchi, la persona davanti è lenta perché magari ha appena subito una separazione e l’automobilista ci sorpassa sulla destra per arrivare presto dalla madre che non sta bene. Questo approccio ci aiuta a metterci nei panni dell’altro e a sviluppare una sorta di sguardo sensibile, più attento, non aggressivo nei confronti delle situazioni. Per me la tenerezza risiede in questo, nell’educare lo sguardo a un nuovo approccio alla realtà, più attento alla fragilità dell’altro e di se stessi. È possibile iniziare questa educazione alla tenerezza con i bambini, che di solito sviluppano queste modalità aggressivo-protettive più avanti?
Non è vero che i bambini sono teneri e poi all’interno di questa società della concorrenza e della prestazione diventano sempre più duri; io credo sia molto diffuso un modello educativo che porta alla diffidenza sin da subito. Ai bambini si passano dei messaggi contraddittori: da una parte gli si chiede di essere gentili, buoni, rispettosi, dall’altra l’estraneo viene rappresentato come una potenziale minaccia dalla quale bisogna proteggersi. Per questo è necessaria un’educazione al sentire in grado di iniettare nei bambini la capacità di essere
Nelle grandi città uomini e donne sviluppano una sorta di anestesia emotiva, di fronte ai troppi stimoli. (Keystone)
attenti, di notare i dettagli, di sforzarsi di comprendere le situazioni. Credo che la scuola sia un luogo decisivo per la tenerezza, perché noi docenti (ho insegnato tantissimi anni al Liceo) siamo diventati molto bravi nel costruire delle mappe cognitive, ma ci dimentichiamo spesso dell’altrettanto utile se non più importante mappa affettiva. I ragazzi devono imparare a nominare le proprie emozioni, le proprie ansie e le proprie felicità. Talvolta questa grammatica degli affetti manca del tutto. E quando gli affetti, soprattutto quelli negativi, non vengono nominati, rischiano di esplodere in atti violenti. La mediazione della parola, del linguaggio e della cultura è essenziale per sviluppare questo modo di stare al mondo. Ma che cos’è, in definitiva, la tenerezza?
Per come la intendo io è la percezione della fragilità dell’altro, è una reazione di cura nei confronti di una situazione, di una persona che ha bisogno.
Perché ha parlato di tenerezza e non di gentilezza?
La gentilezza e la tenerezza hanno sicuramente degli aspetti in comune. Già sulla tenerezza grava un’enorme ipoteca, si fa fatica a definirla, spesso la si confonde col sentimentale; la gentilezza porta con sé un altro rischio, quello dell’inautenticità. Di fronte a una persona molto gentile ci si chiede sempre se sia vera, si percepisce una patina un po’ artificiale. La gentilezza è un mediatore delle situazioni pubbliche, ha un elemento di formalità, mentre la tenerezza, per come la intendo io, è qualcosa di più viscerale. Ci sono delle persone che sono eccessivamente preoccupate del benessere altrui e mettono da parte il proprio. Come capire qual è il dosaggio giusto per la tenerezza?
Il rispetto dei limiti dell’altro passa per forza di cose attraverso la presa di coscienza dei propri. La tenerezza non è un gesto di estroversione per cui si è rivolti esclusivamente verso l’altro, è qualcosa di
più elementare e originario, uno sguardo che percepisce che siamo tutti fragili, tutti bisognosi di cura e attenzione. Lei vive fra Italia e Austria. Fra il mondo germanofono e quello italofono. Nota delle differenze nell’approccio alla tenerezza?
L’Italia ha una sua caratteristica propria difficile da definire. Ci troviamo un paesaggio umano, ma anche naturale, che ha a che fare con una «geoestetica», cioè con un insieme di luoghi e percezioni, che genera un mondo affettivo fatto di lingua, cibo, profumi unici. L’umanità di fondo è secondo me davvero particolare, forse perché il mio Paese ha una tradizione familiare, benché in crisi, molto più forte. Vienna, la città dove vivo, non fa testo, è una città particolare, ha dei tratti di cinismo che riscontrano quasi tutti: qui la vita pubblica è piena di ironia e sarcasmo. L’Austria in sé, che non è Vienna, è naturalmente un luogo di emozioni e affettività, ma il modo di viverle ed esprimerle ha una tonalità diversa.
Interpellato al riguardo, Dan Buettner, esperto di longevità e autore del bestseller Lezioni di lunga vita. Le zone blu. I segreti delle popolazioni ultracentenarie, reportage sulle cinque diverse regioni del mondo dove si vive più a lungo (Icaria in Grecia, Sardegna in Italia, Okinawa in Giappone, Loma Linda in California, Nicoya in Costa Rica), spiega che il corpo umano può vivere bene fino ai 90 anni. Secondo le sue ricerche, a fare la differenza sono per il 45% i geni e per il 15% le circostanze. Resta, quindi, un 40% di margine che dipende dall’iniziativa personale, dall’attitudine e dalle buone abitudini. Di parere simile un
Un Kirk Douglas in splendida forma il giorno del suo 100esimo compleanno, il 9 dicembre 2016, felicitato dal figlio Michael e dalla nuora Catherine Zeta-Jones. (Keystone)
altro esperto, Walter Bortz, professore all’università di Stanford: dopo anni di studi è giunto alla conclusione che gli effetti negativi dell’invecchiamento siano dovuti al «disuso» più che alla malattia. «Chi si ferma è perduto», questo è il motto da tenere a mente quando si pensa al tempo che passa. Bortz dà il buon esempio e a 86 anni continua a tenersi in forma: da oltre quarant’anni corre una maratona all’anno. L’intento del lungometraggio è raccontare che, nonostante la vecchiaia, si possa vivere bene – non semplicemente sopravvivere – restando attivi, continuando a fare quel che si è sempre amato. Il quadro che ne emerge è senza dubbio interessante: il cantante Tony Bennett continua a cantare nonostante i novanta suonati, il regista Mel Brooks e il produttore Norman Lear hanno ancora voglia di lavorare, così come gli attori Betty White e Dick Van Dyke, sposato con una donna più giovane di 40 anni, e impegnato nella registrazione di un nuovo album. Il pianista Irving Fields, mancato nel 2016 alla veneranda età di 101 anni, è stato ripreso men-
tre teneva concerti al Park Lane Hotel a New York. «Potrei lavorare dieci giorni alla settimana senza essere stanco. Vado avanti perché amo quel che faccio», ha detto. Altri intervistati sono Stan Lee, editore, scrittore di libri comici, ex presidente della Marvel, che a 94 anni scrive, produce e appare in piccoli camei, e l’icona fashion Iris Apfel, 95enne regina della moda e del design di New York, già protagonista, nel 2014, del documentario Iris. Nel 2005, quando aveva 82 anni, le sue collezioni di tessuti e oggetti raccolti in giro per il mondo sono state celebrate al Metropolitan Museum. Un altro «nonnino» notevole è Kirk Douglas, cent’anni tondi, che ha portato in scena uno spettacolo da solo, un monologo, nei suoi novant’anni, nonostante fosse stato colpito da un ictus che ha condizionato per sempre il suo modo di parlare. I 90 sono i nuovi 65, viene da pensare, osservando le vite di questi reduci di Hollywood, e anche quelle di Harriette Thompson, 93 anni, la donna anagraficamente più «grande» ad avere completato una maratona, di
Tao Porchon-Lynch, maestra di yoga 98enne, che ha marciato con Gandhi e che da poco ha cominciato a ballare il tango (è diventata famosa grazie ai social network dopo che, nel 2012, è stata fotografata mentre insegnava a Central Park) e di Jim «Pee Wee» Martin, 95enne, che ha combattuto durante il D-Day e che si lancia ancora con il paracadute. Particolarmente istruttivo l’approccio di Ida Keeling, atleta 101enne con diversi record (detiene il primato mondiale per avere corso i 100 metri a cent’anni), che si allena ancora un’ora al giorno. Ha iniziato a correre a 67 anni, dopo una vita segnata da eventi tragici: ha perso la madre quando era piccola, il marito a 42 anni, e due dei suoi quattro figli sono stati uccisi per motivi legati alla droga e alla malavita a distanza di pochi anni uno dall’altro. «Da quando faccio jogging mi sento diversa, è come se fossi uscita dal guscio – spiega. – Rincorro solo me stessa, non competo con gli altri. Non mi considero vecchia. Siamo noi i padroni del nostro corpo. Se non ce ne prendiamo cura, nessuno lo farà al nostro posto».
cui l’amico più fidato era il dizionario, quello biligue e quello monolingue, per non parlare dei testi in lingua per imparare ad esempio i verbi frasali in inglese, mi sembra incredibile. Oggi per tradurre o cercare un vocabolo usiamo Leo dictionary, Wordreference.com, per sapere il significato di una parola italiana andiamo invece sull’enciclopedia Treccani online. Devo ammettere però che quando scrivo o traduco per lavoro preferisco di gran lunga i miei cari dizionari cartacei. Il mio monolitico DUDEN monolingue per esempio non lo cambierei con nessun dizionario online anche se, lo ammetto, non posso portarlo con me in viaggio e allora ricorro a quello online. Non so se qualcuno di voi ricorda Speak up, la prima rivista audiomensile per perfezionare l’inglese che offriva corsi su cassetta e spesso
in allegato aveva dei film in lingua originale. Operazione superatissima oggi grazie a piattforme come Netflix che ti permettono di guardare i film in lingua originale con i sottotitoli che preferisci. Di recente mi sono molto stupita, ero a caccia di una serie nuova, il solito dilemma quando hai appena finito di divorarti le puntate dell’ultima che diventa sempre la tua preferita e nessun titolo nuovo ti prende. Nel mio caso si trattava di Mad Men, vista su suggerimento di un’amica, ambientata negli anni Sessanta, in cui il protagonista è Donald Draper pubblicitario di grido che incarna il sogno americano in un ambiente di lavoro altamente maschilista dove gli alcolici si consumavano con la stessa intensità dell’acqua e chi non fumava era uno sfigato. Per farla breve, mi imbatto in Stranger, clicco e scopro
If You’re Not in the Obit, Eat Breakfast è stato prodotto da George Shapiro che ha raccontato, in un’intervista, di essersi convinto a credere nel progetto dopo avere letto le storie dei protagonisti ed essersi reso conto della gioia che mettono in ogni nuovo giorno. Ciò che accomuna gli arzilli novantenni, diversi tra loro per interessi e vicende personali, è il trasporto per la vita e la capacità di coltivare le proprie passioni. Come ha detto Van Dyke, se si fa un lavoro che non si ama, va bene andare in pensione, ma non si può restare fermi, si deve trovare altro, qualcosa che piace. Restare con le mani in mano è la cosa peggiore. Aiuta, inoltre, stare lontani il più possibile dall’autocompatimento, che può arrivare a un certo punto, considerando che la vecchiaia non è sempre una passeggiata. L’ironia è sicuramente un buon antidoto. L’attore George Burns, che se n’è andato lo scorso anno, a cent’anni, diceva: «Realizzi che stai diventando vecchio quando smetti di allacciarti le scarpe e ti chiedi cos’altro potresti fare quando sei là sotto».
La società connessa di Natascha Fioretti Imparare le lingue, mai stato così facile Ero appena entrata in Youtube per cercare una canzone di Randy Newman, talentuoso compositore e mordace satirista sociale del quale è appena uscito l’ultimo album Dark Matter, titolo in sintonia con l’umore del suo pubblico visto che a suo dire oggi in America «le persone non ridono più» schiacciate dalla crisi economica e da una politica che non le sostiene e non le ascolta. Clicco sulla sua canzone dedicata a Putin e prima di ascoltarla devono sorbirmi gli usuali secondi di pubblicità che detesto. Se non fosse però che questa volta non è il solito spot inutile ma la pubblicità di Grammarly (www. grammarly.com) un sito che corregge i tuoi testi in inglese dagli errori grammaticali, di punteggiatura e di orto-
grafia. Un modo facile, veloce e sicuro anche per pubblicare post senza errori su Facebook e altre piattaforme social o per scrivere email. Come sempre c’è una versione base gratuita e una avanzata a pagamento per 11 dollari al mese che offre servizi aggiuntivi, ad esempio suggerisce i vocaboli più appropriati da usare, a seconda del tipo di documento consiglia lo stile di scrittura più appropriato e così via. È possibile scaricare l’applicazione di Grammarly per Chrome, Microsoft Office e Windows. Incuriosita ho subito guardato se esiste un Grammarly per il tedesco e ho trovato una piattaforma simile che si chiama Language Tool (languagetool.org/de) che in realtà funziona per oltre 20 lingue come il russo, il polacco, l’esperanto, il giapponese, il catalano... Se penso ai miei tempi al liceo e all’università in
che è disponibile solo in coreano. Provo con un’altra ed è disponibile solo in bulgaro... In questi casi ti senti subito inadeguato perché tutt’a un tratto le tre lingue che conosci non ti bastano e, a pensarci, nel mondo globalizzato di oggi non solo nel mondo di Netflix. Dieci anni fa parlare tre lingue era un ottimo passepartout per l’estero, oggi si può fare di meglio e abbiamo a disposizione, rispetto al passato, moltissimi strumenti per migliorare e perfezionare le nostre conoscenze linguistiche ed essere più veloci nello scrivere o correggere testi in lingua straniera. Al mio primo anno di università il test più temuto da tutti, bocciavano il 90% degli iscritti, ero lo scritto di inglese. Sarei curiosa di sapere se oggi è ancora un esame così temuto o se i nuovi strumenti online hanno fatto miracoli.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 agosto 2017 • N. 34
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Società e Territorio
L’arte di riordinare le pietre
Ricomposizioni In Alta Valle Malvaglia, in zona alpestre, l’architetto Martino Pedrozzi ha rimesso ordine
«ricomponendo» alcuni edifici abbandonati e crollati Elia Stampanoni
Alpe di Sceru, Val Malvaglia, come si presenta dopo gli interventi di Martino Pedrozzi. (Elia Stampanoni)
altà solo nel 2000, come ci racconta l’architetto, oggi anche docente presso l’Accademia di Mendrisio. «Esatto, l’idea è maturata con gli anni e solo nel 2000, contattato l’amico e fotografo Pino Brioschi, abbiamo messo mano alla prima rovina sull’Alpe di Sceru e praticamente in un giorno abbiamo spostato tutte le pietre che erano cadute all’esterno del perimetro al suo interno». Di questo in sostanza si tratta: mettere le pietre cadute disordinatamente sul terreno all’interno dell’edificio o, meglio, delle mura rimaste. Lo scopo è sia architettonico che paesaggistico e, infatti, il territorio tor-
na di nuovo a disposizione del bestiame per il pascolo e si presenta in modo ordinato con cumuli di pietre. «Certo – conferma l’architetto – l’obiettivo del mio intervento è proprio quello di migliorare la qualità dello spazio pubblico e del paesaggio. Oggi l’erba può crescere di nuovo fino alla base dell’edificio e nel contempo è anche una sorta di omaggio alle cascine, una sorta di lieto fine per delle costruzioni erette con fatica e che hanno servito per anni una popolazione rurale dedita all’allevamento e alla vita alpestre». Pedrozzi ha ricevuto per questo suo lavoro anche dei riconoscimenti e
molti apprezzamenti dalla popolazione locale. «Sì, la gente apprezza questi interventi, li vede come una degna fine di un’opera ormai dimenticata. L’abbandono è invece associato a un sentimento di tristezza». Dalla prima ricostruzione avvenuta nel 2000, il lavoro è proseguito con altre rovine e oggi all’alpe di Sceru tutte le cascine sono state ricomposte e giacciono ordinate accanto ai quattro-cinque edifici ancora esistenti e ora in parte utilizzati da Pedrozzi e dalla sua famiglia durante l’estate oppure come punto d’appoggio durante il periodo della caccia. L’impegno è di seguito proseguito
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Alpe di Sceru, Valla Malvaglia, 1968 metri. È qui che inizia l’avventura di Martino Pedrozzi e delle sue ricomposizioni. Nato a Zurigo ma cresciuto a Semione, l’architetto è infatti l’artefice di queste ricostruzioni che possiamo osservare camminando in questa verde e aspra regione della Valle di Blenio. Da Malvaglia si sale e presto ci si ritrova nel silenzio della montagna, passando da alcune frazioni ancora abitate, soprattutto o solamente d’estate. Da Dandrio il tutto si fa ancor più rurale e alcuni nuclei come Visnòu, Anzano o Ticiall sono lì sul versante con uno sguardo verso valle. S’incontrano diverse cascine riattate e ristrutturate oppure, come a Germanionico, c’è aria di rinnovo grazie a un progetto che intende salvare e ridare vita all’interno monte. Siamo a 1500-1600 metri d’altitudine, ma la montagna è ancora generosa e più in su, verso i 2000 metri ci sono gli ultimi edifici utilizzati a scopo agricolo fino agli anni ’50. Si tratta di edifici utilizzati per poche settimane durante la stagione d’alpeggio che, con l’abbandono di alcune attività alpestri, sono andati in decadimento. Cadute e abbandonate, quelle all’Alpe di Sceru non sono passate inosservate a Martino Pedrozzi che nel 1994 ne riattò una per adibirla a luogo di vacanza. Nel pieno dei suoi studi presso il Politecnico federale di Losanna, Pedrozzi volle però fare qualcosa anche per le altre rovine. Da qui l’idea delle ricomposizioni, che divenne re-
anche nella zona alpestre di Giumello, dove sono state gradualmente ricostruite altre rovine, sempre documentate dalle fotografie di Pino Brioschi, considerate parte integrante del progetto. «A Giumello abbiamo ricostruito altri 25 edifici da anni abbandonati e crollati, di dimensioni minori rispetto a quelli di Sceru, ma comunque impegnativi. Sempre più persone mi hanno aiutato nell’opera: parenti, amici e anche studenti dell’Accademia d’architettura». Pure Giumello è oggi una zona abbandonata che rivive per poche settimane all’anno con la presenza di una famiglia, oppure con alcuni pastori e cacciatori che sostano per brevi periodi nelle poche cascine rimaste funzionali. Il lavoro di ricomposizione segue un schema preciso, sotto il coordinamento di Martino Pedrozzi, il quale sottolinea che si tratta semplicemente di riportare dei sassi entro il perimetro originale di un edificio in rovina. Le costruzioni appaiono quindi come degli ordinati cubi o parallelepipedi realizzati seguendo il perimetro dei muri di cinta esistenti. Al loro interno, ben ammucchiate, tutte le pietre un tempo adoperate per la realizzazione dell’edificio stesso. Pedrozzi preferisce non parlare di arte: «L’intervento è chiaramente un lavoro d’architettura dove il punto centrale è l’edificio e la ricomposizione è una tipologia di restauro». Un’operazione che ridà agio al territorio e a cui ci si può avvicinare con una passeggiata nella sorprendente Val Malvaglia.
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Società e Territorio
Quanto sopportano le Valli?
Turismo L’apertura della galleria di base del San Gottardo e la Ticino Card hanno generato un aumento degli arrivi –
Come si stanno muovendo le autorità locali per sfruttare e incanalare il crescente afflusso dei turisti?
Guido Grilli Estate, le valli si ripopolano. Di più. Talora le presenze raddoppiano. La casetta, il rustico, la cascina riattata – insomma, le abitazioni secondarie – aprono e si animano di nuovi ospiti producendo un boom di presenze. Indaghiamo su quanto i Comuni siano pronti a gestire quella che nelle ultime settimane è stata persino definita invasione ed emergenza – dopo il clamoroso caso del video amatoriale girato da un giovane italiano che ha postato su youtube un filmato di inno alla purezza e al fascino delle acque della Verzasca, intitolato Le Maldive a un’ora d’auto da Milano richiamando in valle forti e sorprendenti affluenze e l’interessamento dei media di tutt’Europa («ne ha parlato anche la… Bbc»). Lo abbiamo chiesto a tre sindaci di altrettante località ticinesi nelle quali la presenza delle residenze secondarie supera la fatidica soglia del 20%, limite che non può più essere oltrepassato a far stato dal 1° gennaio 2015, dopo che nel 2012 Popolo e Cantoni hanno accolto in votazione l’iniziativa, «Basta con la costruzione sfrenata di abitazioni secondarie». Per la prima volta, a marzo di quest’anno, l’Ufficio federale dello sviluppo territoriale ha pubblicato l’inventario delle abitazioni dei Comuni alla base dei calcoli necessari per determinare la quota delle residenze secondarie. «In questo periodo la nostra popolazione raddoppia» – conferma Claudia Boschetti Straub, 53 anni, prima sindaca leghista di Blenio. «Da 1800 domiciliati passiamo a circa 3600 presenze. Occorre poi aggiungere le numerose colonie estive e gli scout: abbiamo diverse case che le ospitano, a Sommascona, Camperio, Campo Blenio, Aquila». «Per noi è una ricchezza» – assicura il capo dell’Esecutivo di Blenio, dove la presenza delle abitazioni secondarie si attesta al 64,6%, superando di molto quella delle case primarie (35,4%). «Abbiamo segnalato questa maggiore presenza estiva all’Organizzazione turistica regionale che ci offre una mano per l’accoglienza, ma non si tratta di soli turisti, sono molti anche i ticinesi che vengono a godere delle bellezze della valle o a seguire gli eventi proposti dal centro polisportivo di Olivone, il più esteso quartiere di Blenio. La caratteristica del nostro Comune è rappresentata dalla sua ampia superficie, pari a 222 chilometri quadrati che da un canto richiede parecchio impegno per poter servire tutte le case, i monti, le cascine e dall’altra è
Lavertezzo quest’estate è stata presa d’assalto, dopo il video Le Maldive a un’ora d’auto da Milano, ma le autorità locali sono convinte di poter gestire bene l’aumentato afflusso di turisti. (Keystone)
anche la nostra peculiarità: pensiamo solo alla zona del Lucomagno con il suo moderno Centro Pro Natura appena sorto, alla zona di Campo Blenio per cui si sta pensando all’apertura della funivia anche d’estate, a quella di Ghirone che va verso la Greina, e ancora a tutti i percorsi escursionistici per cui si stanno realizzando numerose azioni di promozione, in particolare per il mountain-bike, per cui è in corso un importante progetto con nuovi sentieri. Noi abbiamo le più alte cime del Ticino, fino ai tremila metri. Una morfologia, quindi, che consente gite per la famiglia, come pure per escursionisti provetti. La nostra difficoltà risiede nel fatto che abbiamo tante iniziative e che dunque vanno coordinate. Un altro progetto è il centro di Campra, per cui è appena stato inaugurato il cantiere che garantirà nuove strutture di accoglienza, ristorante, camere e wellness pronte fra un paio di anni». Con quali ricadute economiche? «L’indotto è importante. Penso alle numerose aziende agricole moderne presenti sul nostro territorio, che hanno la possibilità di vendere i loro prodotti locali direttamente, un aspetto molto apprezzato dalla gente». Spostiamoci ora a Lavertezzo, dove le abitazioni secondarie si attestano al
36,7% contro il 63,3% di case primarie. Qui il vento dell’impennata demografica estiva è stata però soprattutto il risultato di una serie di concomitanze favorevoli. Osserva Roberto Bacciarini, 53 anni, PPD, sindaco da due lustri: «Il nostro Comune ha una doppia territorialità: abbiamo Lavertezzo Piano, con la maggior parte di case primarie, mentre le case secondarie stanno invece tutte in valle. Per i nuclei di valle, qualcosa cambierà, mi risulta che a livello federale si stia lavorando per un cambiamento della legge in tema di residenze secondarie: io dico che se non ci fosse chi ristruttura i rustici assisteremmo ad uno spopolamento e alla presenza di soli diroccati. Capisco Comuni come Ascona dove in effetti si sono implementate le costruzioni di case secondarie, ma per una valle la residenza secondaria si traduce nel mantenimento e nella salvaguardia di un territorio». Ma Lavertezzo, forte anche del caso del video Le Maldive di Milano, quale capacità ricettiva è in grado di sostenere? «Ancora di recente abbiamo avuto un incontro fra i sindaci della valle, la Fondazione Verzasca e le polizie per quantificare quella che è stata definita un’emergenza di presenze – risponde Bacciarini – e il sentore comune è stato quello di evidenziare la vo-
lontà di offrire una valida accoglienza ai turisti, di sapere fornire loro informazioni e istruzioni affinché si rispettino le aree preservate, i posteggi, ad osservare una sensibilità in tema di gestione dei rifiuti, ciò che per contro già si constata a dispetto delle esagerazioni che si sono sentite in questi ultimi tempi». L’incremento delle presenze in luglio a Lavertezzo, oltre al ripopolamento estivo attribuibile alle case secondarie e di vacanza, è pure la conseguenza «dell’apertura di Alptransit – evidenzia Bacciarini – e della promozione di Ticino Card. E, come si può ben notare, gli aupostali sono stracolmi. L’aumento delle presenze è stato pari al 20% rispetto ai picchi registrati nello stesso periodo dello scorso anno e non rappresenta certo una percentuale allarmante né dal profilo del traffico né della sicurezza. Per quanto riguarda i posteggi abbiamo realizzato con la Fondazione Verzasca e i Comuni ormai cinque anni fa il progetto “Area Verde” con la realizzazione di 1000 posteggi. Prima di allora i parcheggi erano selvaggi». «La maggiore affluenza – conclude il sindaco – rappresenta anche maggior lavoro per i ristoranti». Altra realtà, quella di Breggia a sud del Ticino, che dal 2009 contempla le
località aggregate di Bruzella, Cabbio, Morbio Superiore, Muggio, Sagno e Caneggio. Nel Comune le residenze secondarie superano la soglia del 20%: si fissano precisamente al 35,8% rispetto alle abitazioni primarie a quota 64,2%, come indica la statistica federale. Il sindaco, Sebastiano Gaffuri, Plr, 27 anni, in carica da oltre un anno e, record, il più giovane sindaco del Ticino: «Non siamo certo Morcote, la nostra crescita è più modesta. Il nostro problema è piuttosto legato ai rustici per cui non sono più autorizzate nuove residenze secondarie. Inoltre un altro ostacolo della Lex Weber – e lo abbiamo vissuto in due casi – è che in occasione di costruzioni di complessi immobiliari, non è più possibile prevedervi all’interno residenze secondarie, con il risultato che alcuni investitori rinunciano del tutto a nuove edificazioni». E per Breggia c’è un altro limite significativo. «Chi dalla valle di Muggio se n’è andato dopo aver abitato nella casa di famiglia – segnala il sindaco – non la può più mantenere come residenza secondaria, ma è costretto a trasformarla in casa primaria e ad affittarla oppure a venderla. E questo è motivo di dispiaceri e non contribuisce al ripopolamento delle valli». Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Tante diversità diverse Qualche tempo fa ho visitato una mostra allestita a Villa Saroli, a Lugano, dal titolo «TU! Un percorso sulla diversità». La diversità qui documentata è quella che un tempo si chiamava «invalidità» e che spesso costituiva un fattore di segregazione e di esclusione dalla vita sociale. «Diversi, eppure uguali» è la tesi che questa mostra sostiene e illustra con abbondanza d’esempi. Ho apprezzato la mostra, e soprattutto la tesi che vuole affermare: riconoscere l’uguale dignità di chi si ritrova inferiore ai «normali» per varie forme di handicap è un progresso per certi versi persino incredibile della mentalità civile. Per secoli e secoli la malattia congenita, la deformità del corpo, l’invalidità fisica o mentale sono state stigmatizzate come una giusta punizione divina per qualche peccato commesso dai genitori o dal malato stesso. Per tutto il Medioevo i coniugi
venivano esortati alla continenza e al rispetto delle regole – rigidissime – della pratica sessuale stabilite dalla Chiesa: la non osservanza di tali regole avrebbe comportato, per condanna divina, la generazione di mostri o, come minimo, di figli tarati. Questa mentalità superstiziosa e ingiusta è andata annullandosi gradualmente nel corso del tempo; ma c’è voluto non poco per comprendere che il «diverso» – anche se uguale nei diritti e nella dignità – è pur sempre diverso per la limitatezza di certe sue capacità e per le difficoltà che si trova ad affrontare. Per limitarci ad un unico esempio: le «barriere architettoniche» – come oggi vengono definite – erano cosa alla quale in passato nessuno faceva caso e che finivano per escludere persone con difficoltà motoria dalla vita normale. Le scuole, i tribunali, le chiese, persino gli ospedali erano solitamente alloggiati in grandi edifici con imponenti
scalinate: e lo studente con difficoltà motorie doveva comunque farsi alcuni piani di scale più volte al giorno. È pur vero che lo studio, un tempo, era considerato una doverosa fatica; ma, per il disabile, la fatica era doppia. Oggi precise norme stabiliscono le condizioni di accessibilità che ogni edificio pubblico è tenuto a garantire. Anche i marciapiedi sono solitamente regolati in modo da facilitare la salita e la discesa di chi si sposta su una carrozzella; e gli ascensori e i mezzi di trasporto pubblici opportunamente attrezzati sono una manna dal cielo. Così la tecnologia appiana diversità che altrimenti si tradurrebbero in diseguaglianze. Ma le tecnologie, da sole, non servirebbero gran che se, parallelamente, non si fosse sviluppata una sensibilità pubblica che prima non c’era. A questo sviluppo ha indubbiamente concorso la crescita progressiva delle forme di disabilità: infortuni occasionali,
patologie congenite e, soprattutto, il prolungamento della vita (con gli acciacchi che la vecchiaia normalmente comporta), hanno aumentato il numero delle persone con difficoltà motorie che non intendono affatto rimanere segregate in casa. Dunque, l’ente pubblico provvede. Ma è ancora da rilevare che gli accorgimenti tecnici non bastano, se poi mancano quella sensibilità e quel rispetto che sarebbero dovuti a tutti. Ricordo di aver visto, a Roma, molti marciapiedi smussati ai punti di attraversamento, proprio per agevolare il passaggio di una carrozzella. La legge ci ha pensato, i cittadini, no. Se per molti è abitudine parcheggiare l’auto sul marciapiede, come ci passa una carrozzella? È questo un aspetto del problema dell’integrazione che non può essere disciplinato da leggi e regolamenti. A che servono le buone decisioni amministrative se poi manca una
cultura pubblica del rispetto dell’altro? E, sia chiaro, «l’altro» non dev’essere necessariamente un disabile: un tempo si cedeva il posto sul bus all’anziano; oggi, quanti sono i giovani che ancora lo fanno? Non sto dicendo che i giovani d’oggi sono egoisti: dico che non vedono. Perché spesso non gli si insegna a vedere, a uscire dal proprio esclusivo punto di vista e a mettersi nei panni dell’altro. Più volte mi capita di pensare che l’educazione dei giovani si va riducendo a grandi discorsi: una retorica della morale si sostituisce alla vera morale. Così non si sviluppa quella sensibilità che è doverosa non solo verso la disabilità, ma verso chiunque. Così accade che crescano persone che non hanno alcun riguardo per l’altro e fanno solo quel che gli garba. Anche loro sono «diversi»: potrebbero definirsi «moralmente disabili». Questa, però, è l’unica forma di diversità che non meriti alcun rispetto.
secondo schema. Un sogno d’acqua spumeggiante e roccia liscia dove scroscia una possente cascata. C’è un po’ di traffico però, ritorno su pensando a quello che mi ha raccontato la signora al bar Mondo: un tipo anni fa si è tuffato dal ponte e ora gira in sedia a rotelle. Una coppia in costume sulle due panche fuori la chiesetta, sbircia in ginocchio tra le grate, gli affreschi dentro. Nel buio, prima, ho acciuffato una sirena. Ora un rospo è immobile su un sasso algoso. Ancora dentro nella pozza preferita, facendo il morto, abbraccio un pezzo della gola della Froda che nasce su all’Alpe di Lago e le fronde tranquillanti degli alberi. Poi mi sdraio sui sassi levigati al sole. Oltre il ponte a schiena d’asino, si apre un panorama che arriva fino all’imbocco della Leventina. L’abitato di Personico, la piega della Val d’Ambra, lassù il Pizzo Forno. Cumulonembi mutano adagio nel cielo. Un castagno tra tutti, spicca accanto al ponte, monumentale e pieno di ricci verdi. Tre locali giocano
a scopa, due ragazze lettoni si fanno immortalare da un loro amico con il natel. Ancora acqua bella fredda e poi al sole, tutt’uno con gli avvallamenti di gneiss la cui anatomicità è qualcosa. La cura dei pozzoni ha effetto dopo il quinto o sesto contrasto freddo-caldo: atemporalità benefica, calma olimpionica, religiosità selvaggia, appartenenza, per un pomeriggio o tutta la vita, a questo luogo. In controluce ora il ponte sembra un’aureola che incornicia e perdona il mostruoso palazzone giù in basso. E via in acqua. Più che un’occupazione sto coltivando una fortissima dipendenza da quest’acqua. Il sole di una fine pomeriggio a metà agosto filtra tra le fronde, il caldo sahariano è annientato. Ragionevole sarebbe restare qui a mollo nelle pozze di Santa Petronilla (325 m) fino al tramonto. Ma vi confesso che non sono tanto da tramonti e poi devo andare a scoprire i grotti di Biasca: gazose Starnini a go go. Dopotutto, pozzone e gazosa al grotto, si sa, è un po’ un irrinunciabile combo.
grado di offrire non soltanto un sostegno materiale, di tipo organizzativo e logistico, ma anche di tipo psicologico e affettivo. Nei confronti, in particolare, della solitudine, condizione frequente nella nostra società, di famiglie piccole, di singles, di culto dell’indipendenza. La vacanza rischia, infatti, di esasperare disagi, tenuti a bada nella quotidianità lavorativa. Basti pensare al momento topico della cena, da soli, in albergo, rievocato emblematicamente nella rubrica viaggi della «NZZ», sotto il titolo Ferien ohne die andern (Vacanze senza gli altri). Insomma, andare o non andare, da soli o in compagnia, con un itinerario preciso o da inventare? Abbiamo girato le domande a Werner Kropik «viaggiatore» qualificato, ben noto al nostro pubblico, come autore di filmati capaci di trasmettere conoscenze ed emozioni, filtrate da un amabile umorismo, di marca viennese. Lo incontriamo, reduce da un viaggio in Pakistan, dov’era tornato, dopo 18 anni, e pronto a partire
per la Mongolia. «Partire – dice subito senza esitazione – è un’esigenza spontanea, la curiosità di vedere quel che c’è dietro la collina». Nel suo caso, niente da spartir con un eventuale rifiuto nei confronti della sua quotidianità, vissuta serenamente a Lugano, in un Ticino, percorso in lungo e in largo, e dove ha messo radici. «Però, matura anche il bisogno di sottrarsi al tran-tran». Per spirito d’avventura o programmando? «Le due cose coincidono, il viaggiatore deve adeguarsi a situazioni imprevedibili, seguendo però un obiettivo, che è il frutto di preparazione e in pari tempo di passione per l’ignoto». Werner non parte da solo. «In due, si riesce ad affrontare anche i momenti critici, aiutandosi a vicenda, imparando a condividere. Nel prossimo viaggio in Mongolia, avrò al mio fianco la fotografa Alessandra Meniconzi. E laggiù entreremo a contatto con l’associazione Arcobaleno, creata da Alex Pedrazzini». Come dire che, oggi, i legami fra luoghi lontani s’intrecciano.
Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf Le pozze di Santa Petronilla a Biasca È tutta l’estate che mi occupo di pozzoni, neanche il tempo di andare in vacanza. Osogna spesso, repertoriato qualche anno fa su queste pagine, Tegna idem. Maglio di Aranno, Iragna, Sigirino, Cresciano, gole della Breggia. Un paio poi sono segreti, insvelabili, esoterici. Tra questi, scovato soltanto quest’anno, il mitico Tropico alpino. Altro che «Le Maldive di Milano» come sono state enfaticamente soprannominate alcune settimane fa, in un video postato su youtube che ha spopolato in rete, le pozze della Verzasca all’altezza del ponte dei salti. Finite sulle pagine del «Corriere della Sera» ne ha parlato persino la BBC. Posto del resto già turisticamente stranoto – quasi Rimini quando ci sono andato per un pezzo uscito nel luglio 2013 – invaso così ancora di più da un carnaio di pecoroni modaioli. Le pozze del Tropico alpino non sono le Maldive di nessuno e non sono le Maldive, si tratta soltanto di uno dei posti più stupefacenti al mondo. L’altro giorno, al bar Mondo di Bia-
sca, stavo elogiavo il pozzone di Iragna quando una signora mi fa che anche le pozze di Santa Petronilla valgono la pena. Già la cascata di Santa Petronilla era un soggetto papabile da anni: da sempre, quando il treno passa dalla stazione di Biasca, mi regala uno sprazzo di stupore per quella particolare caduta d’acqua a incrocio. Come adesso. In cammino, lassù sopra le rotaie, ora si scorge bene anche il ponte romano. Il sentiero parte alle spalle di San Pietro e Paolo, una tra le più belle chiese romaniche del Ticino, snodandosi in una selva castanile costellata da quattordici cappellette. Una piacevole via crucis rallegrata dal bianco, come di pizzo, del fior di carota selvatica che in alcuni casi si chiude a nido d’uccello o a sfera. Una ventina di minuti ed ecco l’umile ponte romano bellissimo che supera da secoli, il riale della Froda. Sotto il ponte, un grande pozzone cristallino, a strapiombo sopra la famosa cascata. L’oratorio in sassi di Santa Petronilla sorge dal 1632 lì su quel dosso dopo il ponte. Sulla sini-
stra, tra gli scenografici sassi, adocchio le due pozze potenziali. Dodici scalini in pietra portano però prima al sagrato erboso; sotto la feritoia a croce, un affresco sbiadito a tratti quasi svanito. A stento si decifra la figura della santa patrona degli alpinisti dal buffo nome. Intorno castagni secolari accrescono la forza del luogo, scivolo tutto sudato nella pozza ombrosa a monte. La cascatella è un insuperabile jacuzzi per la schiena. Due ragazzi si tuffano spericolati, prima uno poi l’altro, da una roccia in alto. Parto subito a piedi nudi verso il pozzone sotto il ponte, cinque minuti giù da un ripido sentiero di pietre scottanti distratto solo dai ceri fioriti del verbasco. Qui tanti si abbronzano come aragoste, i meno giovani stanno anche solo a bordo pozzone per il refrigerio, io mi tuffo senza esitazione. Non male, ma l’acqua è meno fredda rispetto a sopra. Un incavo stretto di roccia porta a un secondo pozzone, bisogna infilare le dita in un foro fatto apposta per tirarsi su e passare, come nei videogame, al
Mode e modi di Luciana Caglio Partire si deve: ma come e con chi? Proprio si deve. Una volta ancora, il Ferragosto ha confermato, visibilmente, quanto sia rispettata la parola d’ordine di una data, ormai simbolica: andare in vacanza è un dovere. Stiamo, infatti, assistendo a un’evoluzione addirittura paradossale. Un diritto irrinunciabile, le ferie aziendali pagate, che aveva segnato la storia della nostra socialità, è sfociato in una deriva in senso opposto. All’aspetto liberatorio di una conquista, d’ordine politico e ideologico, che offriva un tempo destinato al meritato riposo, si contrappone, adesso, quello di un tempo da dedicare, invece, alle innumerevoli attività, con cui riempire un vuoto: considerato inaccettabile. Tutto ciò sul filo di un percorso logico. Mentre si allungavano i congedi retribuiti (passati, per la mia generazione, da due a cinque settimane), cresceva l’epoca degli spostamenti facili e persino obbligati, con effetti rilevanti sia sulle abitudini e sulle mentalità individuali sia dell’economia e persino della morale. Promosso a tema centrale,
il turismo rivelava promesse e incognite. Nuove professioni, scambi culturali, una forma virtuosa di apertura alle diversità o piuttosto un condizionamento consumistico assurdo, per non dire umiliante? In quest’estate ’17, il turismo ha avuto gli onori delle cronache, si fa per dire. In re-
Werner Kropik: «In due è più facile affrontare i momenti critici». (Ti-Press)
altà, i media ne hanno illustrato soprattutto gli aspetti negativi, registrando addirittura il fenomeno dell’antiturismo, che la dice lunga su inattesi umori popolari. Ma come in ogni movimento d’opposizione, anche qui lo snobismo ha la sua parte. L’immagine del branco, che segue la guida con l’ombrellino aperto, in piazza San Marco, si presta all’ironia, però scontata. Al pari del commento, firmato da un intellettuale di fama, che esalta il fascino della città deserta, privilegio dei pochi rimasti a casa. Riemerge così l’interrogativo di fondo: la vacanza comporta necessariamente una partenza? In proposito, le opinioni continuano a essere divise, anche fra gli addetti ai lavori. Nel delizioso saggio Idées reçues, l’antropologo Jean Didier Urbain smentisce che «essere in vacanza significhi necessariamente partire. Definisce, invece, un tempo vacante, un vacuum, di cui disporre liberamente». Ma, oggi, è un’arte andata persa. E, allora, si ricorre al viaggio, come rimedio. Un ambito in
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Ambiente e Benessere Un gigante gentile Reportage dall’Oceano Indiano nelle cui acque vivono le balene blu, in costante pericolo di collisione con le navi che vi transitano
I gelsi sono pure decorativi Belli e vigorosi, hanno una folta chioma e risultano essere piante ideali per ampi giardini
La doppia faccia di Lomé La spiaggia della capitale del Togo, di notte, è il regno di senzatetto anche bambini
Quando si supera la soglia Le nuove tecnologie hanno spinto il turismo verso una crescita senza freni
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Equilibrio fra alimentazione e movimento Campagna di sensibilizzazione
Maria Grazia Buletti «Il numero di persone in sovrappeso cresce in modo esponenziale in tutto il mondo e da vent’anni rappresenta un problema anche in Svizzera», è chiara la premessa nel foglio di informazione edito in primavera da Promozione salute svizzera a proposito dell’importanza dell’attività fisica e dell’alimentazione per bambini e giovani. Le complicanze di un marcato sovrappeso sono note e vanno dal rischio di sviluppare diverse patologie (tra cui l’ipertensione arteriosa, le difficoltà respiratorie e le malattie articolari), ai disturbi metabolici che, uniti al sovrappeso cronico, possono condurre a malattie pure croniche come il diabete di tipo 2, o alcune forme tumorali, ictus e malattie cardiocircolatorie. Inoltre sovrappeso e obesità generano costi della salute non indifferenti, gravando molto sull’economia, come conferma Promozione salute svizzera: «I costi complessivi legati alle complicanze del sovrappeso e all’obesità in Svizzera sono triplicati nell’arco di dieci anni, passando da 2648 milioni di franchi nel 2002 a 7990 milioni nel 2012». Dai risultati dell’attività di informazione e prevenzione del sodalizio su alimentazione e movimento tra bambini e giovani si evince che tra gli scolari dell’anno 2014/2015 la percentuale di bambini in sovrappeso ammonta al 17,3%, mentre il 4,4% è obeso. Nell’ambito di questo problema di salute, l’infanzia è dunque decisiva, in quanto il 41% di bambini in sovrappeso all’età di 7 anni si trasforma in adulti in sovrappeso; tra quelli obesi di età compresa tra i 10 e i 13 anni la percentuale aumenta addirittura fino all’80%. Le radici di sovrappeso e obesità vengono riconosciute come una serie di cause complesse e multifattoriali così riassunte: «La ragione principale di un aumento ponderale eccessivo
risiede in uno squilibrio del bilancio energetico e ciò avviene quando l’apporto calorico è superiore al dispendio calorico». Secondo lo studio del 2014, Gesundes Körperwicht bei Kindern und Jugendlichen, Aktualisierung der wissenschaftlichen Grundlagen (di Steiger, Baumgartner, Perren di Promozione salute CH), i fattori ereditari svolgono un ruolo importante e fondamentale nel sovrappeso di bambini e giovani. Ciononostante, la scienza conferma che, adottando comportamenti preventivi contestualizzati, è possibile influenzare positivamente il bilancio energetico, mentre i programmi volti a promuovere un’alimentazione equilibrata e maggiore attività fisica tra bambini e giovani si sono rivelati particolarmente efficaci. Perciò, da quasi dieci anni Promozione salute svizzera si impegna a favore di un peso corporeo sano nell’ambito giovanile, in collaborazione con i Cantoni: «I programmi cantonali (Pac), al cui centro vi sono gruppi di popolazione con uno status socioeconomico basso (ndr: tra i quali il problema del sovrappeso è particolarmente diffuso), creano i presupposti per un’alimentazione equilibrata e un’attività fisica sufficiente». Sappiamo dunque che nel 2016 sono 20 i Cantoni che hanno aderito contrattualmente a queste iniziative, e 12 sono già entrati nella terza fase. Per tutti, Promozione salute svizzera decide l’orientamento, definendo una serie di obiettivi e requisiti di qualità. Nel contempo, sempre ai Cantoni è lasciato un margine di manovra sufficiente per adeguare i programmi alle esigenze e alle situazioni di ognuno di essi. I Pac si basano sulle ultime evidenze scientifiche, tra le quali quelle contenute nel rapporto Gesundes Körpergewicht: Wie können wir der Übergewichtsepidemie entgegenwirken? («Peso corporeo sano, come possiamo contrastare l’epidemia di sovrappeso?») del 2005. Essi si arti-
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Promozione salute svizzera informa i giovani sui benefici dell’attività fisica e di un’alimentazione sana
colano su quattro livelli: «Diversi interventi di Promozione salute svizzera con cui in tutta la Svizzera vengono diffusi progetti regionali di comprovata efficacia focalizzati su alimentazione e movimento; linea direttiva con cui si esorta a ottenere cambiamenti positivi e duraturi nel tempo, dei contesti di vita delle famiglie svizzere; messa in rete degli attori impegnati a livello cantonale, comunale e di diverse organizzazioni con lo stesso obiettivo; iniziative di pubbliche relazioni in collaborazione con i differenti partner con cui si cerca di sensibilizzare la popolazione elvetica sull’importanza di mantenere un peso corporeo sano». E tutto questo impegno, alla resa dei conti, pare funzionare egregiamente: «Tra il 2007 e il 2015, sono 22 i Cantoni che hanno investito nella promozione della salute e nella prevenzione fra bambini e giovani; dalla valutazione
emerge che le tematiche alimentazione e movimento sono una parte integrante della strategia cantonale (programmi politici, programmi quadro, decisioni dei governi cantonali…)». E la tematica è stata affrontata in modo opportuno anche nel contesto scolastico: «Secondo il monitoraggio dei rapporti e delle condizioni quadro nelle scuole, circa il 50% delle scuole interessate fornisce raccomandazioni di intervento al proprio personale insegnante». Infine, l’impatto dell’impegno di Promozione salute svizzera e dei Cantoni parla da solo del successo di questa iniziativa multisettoriale mirata ai bambini e ai giovani: «Il loro comportamento è cambiato nel movimento, visto che oggi circa 47mila bambini e giovani in più svolgono un’attività fisica sufficiente». E anche i dati sull’alimentazione sono incoraggianti: «Oggi circa 74mila ulteriori giovani e bambi-
ni si alimentano in modo equilibrato». Resta comunque ancora qualcosa da fare: «Anche dopo anni di sviluppo costante, i programmi cantonali possono ancora essere migliorati: ad esempio, in primo luogo esiste la necessità di concentrarsi maggiormente su progetti più efficaci e di rafforzare la collaborazione inter-settoriale». La motivazione verso un’alimentazione sana ed equilibrata va incrementata, come risulta da numerosi studi: «Dallo studio HBSC del 2014 è ad esempio risultato che solo il 10,3% degli scolari fra gli 11 e i 15 anni consuma più volte al giorno frutta e verdura». Infine, Promozione salute svizzera si ripropone di portare avanti l’impegno svolto fino ad oggi. Tutta salute, a partire dagli adulti di domani! Informazioni
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Ambiente e Benessere
Sulla rotta delle balene blu
Mondo sommerso Un tuffo nell’Oceano Indiano vicino alle coste dello Sri Lanka per nuotare con il più grande
mammifero vivente
Franco Banfi, foto e testo Le acque dell’Oceano Indiano che bagnano le coste meridionali e orientali della Sri Lanka (ex isola di Ceylon, l’isola splendente) sono state riconosciute dai ricercatori come uno dei migliori luoghi al mondo in cui osservare le balenottere azzurre. Esse sono una sottospecie del più grande mammifero vivente: le balene blu sono cetacei di grandi dimensioni del sottordine dei misticeti, ovvero animali marini dotati di speciali lamine presenti nella bocca al posto dei denti. Ma queste acque sono altresì la migliore destinazione per vedere i capodogli, i più grandi mammiferi marini odontoceti, cioè dotati di denti.
Le collisioni con le navi sono una delle principali cause di morte delle balene in tutto il mondo La differenza anatomica è indice di una diversa alimentazione. I misticeti sono animali filtratori: ingoiano tonnellate di acqua che spingono con la lingua attraverso i fanoni, che setacciano e trattengono prevalentemente il krill, un minuscolo organismo che compone lo zooplancton di cui questi cetacei si nutrono. Gli odontoceti, invece, sono mammiferi carnivori, che si nutrono prevalentemente di cefalopodi nelle profondità abissali. Nell’area sud orientale dello Sri Lanka, la piattaforma continentale è veramente breve: la profondità dell’oceano raggiunge mille metri a soli sei chilometri dalla costa. E i capodogli possono raggiungere profondità superiori ai duemila metri, restando sott’acqua per oltre due ore, anche se normalmente le loro immersioni sono più contenute. La balena blu (Balaenoptera musculus musculus) è l’animale più grande esistito ed esistente sulla Terra, maggiore persino dei dinosauri. L’esemplare più grande di cui si ha notizia era di 33 metri di lunghezza e 180 tonnellate di peso. Le femmine sono più grandi dei maschi della stessa età. Le balenottere azzurre dell’Oceano Indiano (Balaenoptera musculus brevicauda ed Indica) in media hanno una lunghezza compresa tra 23-24,5 metri (ben maggiori di un autobus) e pesano circa 10 tonnellate. Anche se è possibile trovarle in piccoli gruppi, è più comune vedere le balenottere azzurre singole o a coppie, costituite spesso dalla madre con il piccolo. In rare occasioni sono stati avvistati gruppi più numerosi e in quei casi sono state osservate concentrazioni di 50-60 esemplari. Sono veloci nuotatrici, in grado di raggiungere 50 km orari se allarmate, sebbene la loro velocità di crociera sia di circa 20 km orari. In genere si immergono per 10-20 minuti e quando risalgono in superficie fanno da 8 a 15 respiri prima di immergersi nuovamente. Come le megattere, anche le balenottere azzurre possono vocalizzare e fare dei richiami sonori. C’è molto dibattito sulla tassonomia delle balene blu e attualmente esistono diverse sottospecie riconosciute: Balaenoptera musculus musculus si riferisce alle popolazioni di balenottera azzurra che si trovano nel nord Pacifico e del nord Atlantico; Balaenoptera musculus intermedia (a volte chiamata la «vera» balenottera azzurra) indica la specie Antartica; Balaenoptera musculus brevicauda (nota anche come balenottera azzurra pigmea), descrive
La Balaenoptera musculus brevicauda è fra i cetacei più grandi al mondo. Esemplare fotografato al largo di Mirissa, Sri Lanka, Oceano Indiano. (sul sito www.azione.ch, una galleria fotografica più ampia)
la popolazione che si trova nell’Oceano Indiano e nell’emisfero australe; Balaenoptera musculus Indica, si riferisce alle balene blu che si trovano nell’Oceano Indiano settentrionale e Balaenoptera musculus sottospecie senza nome si riferisce alla popolazione di balenottere azzurre che si trovano in acque cilene. Detto questo, la cosa più straordinaria è nuotare e interagire con questi animali, come è capitato a me con le balenottere blu pigmee. Immaginate di essere su un’imbarcazione più piccola
della balena che state cercando, circa dieci chilometri al largo della costa più vicina. Ora immaginate di scrutare l’impenetrabile superficie scura dell’oceano alla ricerca di una balena, con la speranza di avvistarne alcune. La loro dimensione media può raggiungere i 25 metri di lunghezza, ben superiore al doppio della barca sulla quale vi trovate. Finalmente una balena risale dalla sua immersione a parecchi metri di distanza da voi e vedete il classico sbuffo di aria vaporizzata fuoriuscire dallo
sfiatatoio, oltre il moto ondoso sulla superficie del mare. Lo skipper ruota la prua in direzione dello sbuffo e si avvicina; ognuno in barca è in trepida attesa e spera che la balena resti in superficie, che non si immerga spaventata dal nostro avvicinarsi. Già si preannuncia un incontro che ci farà certamente sentire piccoli e vulnerabili. Eppure non c’è nulla da temere da un gigante gentile che risale alla superficie ogni 20 o 30 minuti per prendere una boccata d’aria e anzi, è enorme l’e-
mozione che si prova nel nuotare fianco a fianco e nel guardare una balena negli occhi, a un paio di metri di distanza. L’importante è sempre mantenere un comportamento gentile e nuotare in modo lieve, così facendo le balene accettano la nostra vicinanza (*). E quando saranno annoiate, si allontaneranno e si immergeranno alcuni metri al di sotto della superficie, con un delicato battito di coda. Il loro incontro con le imbarcazioni non è però sempre indolore. Le collisioni con le navi sono una delle principali cause di morte delle balene in tutto il mondo, insieme ai vari tipi di inquinamento, principalmente ambientale (ingestione di plastiche, microplastiche e metalli pesanti, sversamenti di idrocarburi e altri inquinanti, come le acque di zavorra), acustico ed elettromagnetico. Qualsiasi tipo di nave può causare una collisione, ma il rischio di lesioni fatali sembra essere correlato alla velocità dell’imbarcazione e alla sua stazza. La costa meridionale dello Sri Lanka, uno dei più vasti areali di nutrizione della balenottera blu, si trova sulla rotta internazionale che collega il continente africano e il mar Arabico con l’Oceano Pacifico. È una delle rotte più trafficate al mondo, che vede numerose navi (soprattutto cargo) transitare nella zona ad alta velocità, giorno e notte. E le collisioni con le balene non sono rare, perché i cetacei percorrono la medesima area durante le migrazioni stagionali. Fortunatamente, vi è una crescente consapevolezza di questo pericolo, anche grazie agli studi effettuati dall’Università di Ruhuna Indian Ocean Marine Mammal Research. Sono state individuate alcune opzioni per mitigare il fenomeno delle collisioni, che includono lo spostamento della rotta di navigazione del traffico navale, la riduzione della velocità delle navi oppure dichiarare off limits le aree individuate. Valutando le tre opzioni, quella più facilmente attuabile è lo spostamento in mare aperto della rotta del traffico navale, 3 km a sud della linea attuale. Questo tuttavia impatterebbe con un’altra attività a ridosso della rotta di navigazione, cioè la pesca con reti derivanti, maglie in nylon che sono praticamente invisibili agli occhi di una balena. Se le rotte di navigazione verranno traslate in mare aperto, è probabile che i pescatori pescheranno nelle acque in precedenza utilizzate come corridoio di navigazione, quelle stesse acque che oggi sono il bacino di alimentazione e di maggiore attività delle balene. Analogamente, ridurre solamente la velocità delle navi in questa zona non avrebbe alcun effetto sulla cortina di reti derivanti che occupano i margini delle rotte migratorie. Tuttavia sulle reti da pesca potrebbero essere montati i cosiddetti «pingers», allarmi acustici che disturbano le balene e pertanto fungere da deterrente, con il pericolo però che i cetacei si allontanino definitivamente dall’aerea. La migliore soluzione sembrerebbe essere quella di spostare i canali di navigazione più a sud e fare in modo che il governo locale vieti la pesca con le reti derivanti, pur consentendo ai pescatori altri metodi di pesca nella zona tra i 200m e i 2000m di profondità. Informazioni
(*) Le interazioni con le balene sono possibili solamente previa acquisizione di un permesso speciale, rilasciato dagli enti governativi solamente a scopi di ricerca ed identificazione. Per qualsiasi informazione rivolgersi a info@banfi.ch.
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Ambiente e Benessere
Gelso: un passato molto attuale
Mondoverde Lungamente utilizzato per la bachicoltura, è un testimone importante del passato contadino
Anita Negretti Belli, vigorosi e con una chioma folta, i gelsi risultano essere piante ideali da coltivare in giardini ampi. Soprattutto se vengono utilizzate come piante isolate per garantir loro un buono sviluppo. Conosciuti da molti grazie al fatto che durante il secolo scorso venivano impiegati per nutrire i bachi da seta (Bombyx mori) per merito delle loro grandi foglie, oggi vengono commercializzati perché hanno un forte carattere decorativo.
Originari della Cina settentrionale e della Corea, vennero introdotti in Europa dalla metà del Seicento Spogli e imponenti durante l’inverno, mostrano una bella corteccia bruna profondamente solcata. Dalle prime giornate tiepide di marzo si riempiono di foglie verde lucido che all’interno della stessa pianta assumono forme differenti, passando da ovate fino a cuoriformi. In primavera, tra aprile e le prime settimane di maggio, fioriscono producendo corolle biancogiallastre a cui seguono i frutti, denominati more (il cui corretto nome botanico è sorosio). Le more del gelso – che sono frut-
ti commestibili (dolci e zuccherini) – possono essere bianche se portate da Morus alba o nere se di Morus nigra. Possono esser consumate fresche o utilizzate per confezionare marmellate, sciroppi, gelatine o liquori alcolici. In autunno, poi, le foglie si tingono di giallo carico, regalando un effetto molto decorativo al giardino. Alti fino a otto-dieci metri e con un diametro della chioma che raggiunge i cinque-sei metri, i gelsi sono alberi della famiglia delle Moraceae. Originari della Cina settentrionale e della Corea, vennero introdotti in Europa, specialmente nel caso di M. alba, dalla metà del Seicento, mediante talee e semi nascosti nelle cavità dei bastoni di bambù portati da esploratori europei di ritorno in patria. Lungamente utilizzati per la bachicoltura, come detto, testimoniano ancora oggi un passato contadino delle zone rurali ticinesi e della vicina pianura padana. Queste belle piante hanno garantito in passato la sopravvivenza a interi nuclei famigliari che basavano la loro economia sull’allevamento dei bachi da seta. Terminato quel periodo storico, molti degli alberi di gelso vennero tagliati e utilizzati per la produzione di legna da ardere e paleria. Al loro posto sono state utilizzate altre essenze, ma negli ultimi anni si è assistito a un ritorno nell’uso di gelsi da parte di amanti del giardinaggio, che le scelgono per le loro caratteristiche sia decorative sia produttive. I gelsi prediligono terreni fertili
Shioshvili
delle zone rurali ticinesi
esposti al sole e con un ampio spazio per potersi sviluppare se coltivati in forma libera. Possono essere allevati anche seguendo la forma a vaso, ovvero con soli tre rami principali che partono dal fusto e che nel corso degli anni vengono tenuti potati per evitare un eccessivo sviluppo della chioma. Rustici, si adattano bene ad ogni clima anche se è preferibile prestare attenzione alle giovani piante durante i freddi inverni. Per ottenere piante rigo-
gliose e con una crescita naturale, è necessario intervenire ogni tre o quattro anni con una forte potatura invernale per svecchiare la vegetazione. Oltre alle due già citate specie, M. alba dal frutto bianco-crema e M. nigra con more nero-violacee, vi sono altre specie interessanti, come ad esempio Morus kagayamae «Sterile». Si tratta di un piccolo albero in grado di raggiungere solo i quattro-sei metri, dalla chioma molto espansa, ideale
per creare zone d’ombra in giardino. Fiorisce in primavera ma non produce frutta dunque può essere destinato anche in contesti più cittadini o in giardini dove i proprietari non amano vedere frutta a terra. Anch’esso risulta essere molto rustico: ama il sole, poca acqua, necessita di un palo tutore nei primi anni e una robusta potatura invernale ogni tre anni per ottenere nella primavera-estate successiva rami più vigorosi e con foglie più grandi.
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Foto: Alexandra Wey
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Bangladesh: vivere più sicuri nello slum Non vi è Paese così toccato dal cambiamento climatico e dalle conseguenti catastrofi come il Bangladesh. Particolarmente esposti alle catastrofi sono gli slum con la loro elevata densità di popolazione, la scarsa infrastruttura e le loro posizioni spesso non protette. La gente, in gran parte molto povera e indifesa, è abbandonata a ondate di calore, alluvioni e terremoti, ma anche a catastrofi provocate dall’essere umano, come incendi o incidenti quotidiani. Annientano tutti i tentativi di costruirsi qualcosa sul lungo periodo.
La famiglia di Monwara sfida le catastrofi Monwara Begum (40) vive con il marito malato e i quattro figli nello slum di Lalmath a Dacca, capitale del Bangladesh. Catastrofi come incendi e alluvioni le causano disperazione nella dura lotta quotidiana per la sopravvivenza. Grazie alle donazioni dalla Svizzera, Monwara ora può affrontarle con successo. Quando Monwara Begum la mattina lascia la casa nello slum, viene accompagnata dall’incertezza: oggi guadagnerà abbastanza per far mangiare i quattro figli la sera? Monwara raccoglie rifiuti. Dalle cinque del mattino fino alle nove di sera, con qualsiasi tempo, cerca bottiglie nei cassonetti della città che poi rivende e anche altri oggetti che in qualche modo sono riciclabili. Guadagna circa 100 taka al giorno, poco più di un franco. Da quando il marito si è ammalato, la pressione di dover mantenere la famiglia ricade unicamente su Monwara. Il duro lavoro fisico, una lesione e le condizioni igieniche catastrofiche nello slum lo hanno provato. Adesso resta a casa e cura i bambini. Di andare a scuola non se ne parla proprio: la retta è troppo cara e i bambini hanno perso troppo a causa dei continui traslochi. La sciagura portata dall’acqua È stata l’acqua che ha tolto la casa a questa famiglia. Prima
Monwara viveva a Bhola, nel profondo sud del Paese, nell’enorme delta dove i tre grandi fiumi del Bangladesh sfociano nel mare. Come gran parte della popolazione rurale povera, vivevano di agricoltura. Ma le loro basi vitali sprofondarono a poco a poco nell’acqua. Come conseguenza del cambiamento climatico, nel delta sale il livello del mare, cicloni e alluvioni sono sempre più frequenti e sempre più forti. E così, oltre 15 anni fa, l’acqua si è portata via la casa della famiglia. Monwara e suo marito hanno perso tutto. Nella speranza di trovare una vita migliore, si sono recati a Dacca. E non sono gli unici: ogni giorno la popolazione della capitale del Bangladesh cresce di 1400 persone. Nel Paese con la maggiore densità di popolazione di tutta l’Asia, la disperazione fa muovere la gente dalla campagna verso le città. Le loro abilità, però, lì non sono molto richieste e solo pochi hanno una formazione. Così è accaduto anche a Monwara e a suo marito. Dopo una lunga ricerca di una nuova casa, sono
Per saperne di più su Monwara: farelacosagiusta.caritas.ch
finiti nello slum di Lalmath dove giorno dopo giorno lottano per sopravvivere. La povertà e le catastrofi accompagnano Monwara continuamente A Dacca, tuttavia, non si è trasferita solo la povertà insieme a Monwara e suo marito: «Ovunque io vada, le catastrofi mi seguono» racconta Monwara. Poco tempo dopo che finalmente avevano trovato un alloggio nello slum, un incendio devastò la casa. Qualcuno aveva messo della legna accanto a una stufa scoperta. Nello slum, dove migliaia di casette sono costruite una accanto all’altra, il fuoco si propagò in un batter d’occhio.
Caritas aiuta gli abitanti degli slum a fronteggiare le catastrofi con donazioni che vengono dalla Svizzera. Apprendono a riconoscere eventuali rischi e a organizzarsi, in modo che nella quotidianità possano proteggersi dai pericoli specifici del loro ambiente e prepararsi meglio alle catastrofi. Caritas investe inoltre nell’infrastruttura e mette in atto misure architettoniche per rendere gli slum più sicuri.
Anche l’acqua continua a essere fatale alla famiglia. Lo slum si trova in un avvallamento. La loro casa – una baracca di lamiera senza finestre né mobili e senza corrente – è in fondo, nei lowlands, accanto a una casetta che funge da toilette e alla discarica. Nello slum non esiste un sistema di scolo. Non appena piove, tutto è subito sott’acqua. Passare la notte in casa diventa impossibile. Monwara in quel caso non può nemmeno cucinare. «Quando piove forte, dobbiamo lasciare la casa. Allora andiamo sul piazzale davanti alla moschea. È accessibile tutto il giorno e non finisce sott’acqua.» La famiglia aspetta lì finché la situazione rientra nella normalità. Un futuro migliore per i figli di Monwara Monwara non desidera altro se non una vita più dignitosa. I suoi figli un giorno devono vivere meglio di lei. Il suo sogno è aprire un negozietto di vendita. Caritas aiuta Monwara e la sua famiglia a sfidare acqua e fuoco e a migliorare le proprie condizioni di vita. In modo che il desiderio di Monwara possa diventare realtà.
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Ambiente e Benessere
I ragazzi della spiaggia di Lomé Reportage Togo, di giorno meta turistica per locali e stranieri, di notte, dormitorio di senzatetto
cordone ombelicale. Racconti che rendono la disperazione e il degrado della situazione. Nell’area sono attive alcune ong. Lo Stato invece è assente, ad eccezione di un servizio di sorveglianza contro furti e aggressioni rivolto ai cittadini che di giorno si recano sulla spiaggia. Ange è uno dei pochi centri di accoglienza in cui i ragazzi possono trovare un letto, dei pasti caldi e soprattutto figure professionali con cui iniziare a progettare un futuro. I posti però sono limitati, non più di trenta.
Per i pochi operatori sociali che seguono i ragazzi sulla spiaggia, attenzione particolare viene anche prestata allo sfruttamento del lavoro minorile. Troppi, secondo Yves, i datori di lavoro che approfittano per proporre salari irrisori, oppure per far lavorare dei minorenni. Difficile comunque conoscere le situazioni di sfruttamento perché pur di poter guadagnare qualche soldo per mangiare i ragazzi denunciano molto raramente le situazioni di sfruttamento. «Un ragazzo di strada è
potenzialmente pericoloso per la società. Salvare un ragazzo di strada vuol dire proteggere la comunità». Questa la filosofia di Yves. Trentacinque anni, una famiglia con tre figli. Ha studiato in Francia, ma ha scelto di tornare nel suo Paese. Il salario è molto basso, ci dice. Vive in un appartamento modestissimo, si sposta in motocicletta perché non può permettersi l’automobile, come invece avrebbe potuto fare se fosse rimasto in Europa. Ma è felice della sua scelta. E lo dice con un ampio sorriso che gli illumina il volto. Inevitabile riprendere l’argomento Europa con i ragazzi. Pità è lapidario: «Vivere la sofferenza in Europa vuol dire costruire la propria ricchezza in Africa». I compagni annuiscono. Gli chiedo di spiegarsi meglio. «Guadagnare in Europa anche svolgendo i compiti più umili, vuol dire poter vivere bene al momento in cui si torna in Africa». Lasciando la spiaggia incrociamo un gruppetto di giovanissimi. Parlano concitatamente in ewé, la più diffusa lingua del paese. Un ragazzino, traduce per noi Yves, con fare minaccioso dice a una ragazzina che questa sera andrà a cercarla là sotto il barcone. Non si capisce se lei si stia difendendo o lo stia provocando. Ambedue avranno sì e no dodici anni e da tempo vivono sulla spiaggia di Lomé. Informazioni
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per mangiare, spiega Boga con un filo di voce che sembra alleviare la sua imponente stazza. Anche lui vive in spiaggia da molti anni, non ricorda quanti. Se n’era andato da casa alla morte della madre. Ieri ha lavorato al mercato raccogliendo le scatole vuote dei verdurai per venderle per pochi spiccioli alle venditrici di pesci quando vanno ad acquistare il pesce dai barconi appena rientrati dal mare. Piccoli e miseri commerci che permettono però a molti di sopravvivere. Ragazzi visti comunque con reticenza dalla gente di Lomé. Nella cronaca non mancano racconti di furti. Il portamonete ai meno avveduti, turisti in particolare, tanto che si sconsiglia a tutti di frequentare la spiaggia dopo il calar della notte. Allora l’area diventa il regno quasi esclusivo dei senza casa. Bambini, anche di sei sette anni; ragazzi e adulti. Molti di questi ultimi con turbe mentali o dipendenti da alcol o stupefacenti. Yves, l’assistete sociale che si occupa dei più giovani, ci porta verso un’area dove pernottano delle ragazze. Il relitto di un barcone rovesciato, consumato dal tempo e dal mare, è il loro tetto per proteggerle dalle aggressioni, più che dalle rare piogge. Attorno, mucchi di vestiti e noci di cocco svuotate, probabili resti di misere cene. Moltissime ragazze vengono sfruttate sessualmente. Troppi adulti ne abusano, ma poi ci sono anche gli stessi ragazzi della spiaggia che a volte le aggrediscono. Yves racconta di neonati trovati sepolti nella sabbia con ancora il
Alfonso Zirpoli
È bella e invitante la spiaggia di Lomé, la capitale del Togo e capoluogo della regione Marittima. Una lunga striscia di sabbia gialla. Un mare dalle onde generose. File di palme sotto cui camminare o fermarsi a cercare l’ombra. Sul bagnasciuga grandi barconi, con a volte gruppi di uomini a ricucire gli strappi nelle reti della pesca precedente. La domenica mattina centinaia di persone a correre in gruppo, cadenzando il ritmo con canzoni o tamburi improvvisati. Nel pomeriggio, quando il caldo diventa meno soffocante, arrivano migliaia di famiglie. Chi a mangiare in gruppo, chi per guardare il mare fino al calar del sole, verso le 18. Pochi, pochissimi i bagnanti. La corrente è infida: innumerevoli le sue vittime che trascina al largo, lasciando poche vie di scampo. Questa, la spiaggia di Lomé di giorno. La notte invece diventa il territorio esclusivo dei ragazzi di strada e degli emarginati in genere. Centinaia di minorenni fuggiti da casa, a volte cacciati perché mancano i soldi per mantenere una famiglia diventata troppo numerosa. Ne incontriamo alcuni in un assolatissimo pomeriggio. Di solito a quest’ora sono in centro alla ricerca di qualche lavoro o a mendicare. Sono una decina, sdraiati sotto una palma. Oggi nessuno ha avuto bisogno di loro, ci dice Pità, che si presenta subito come il capo del gruppo. Era fuggito da casa dieci anni fa, terminato il primo anno di liceo. Suo padre gli aveva detto che non poteva più proseguire gli studi per mancanza di soldi. Allora aveva deciso di andarsene. Ma nella testa e nel cuore non ha cancellato il sogno di diventare medico. Snello, statura media, un accenno di baffetti e di barba che a difficoltà si riescono a distinguere sulla pelle scurissima. Addosso, una casacca e un paio di pantaloni di stoffa leggera con ampi disegni dalle tonalità che vanno dal verde al rosso scuro. In testa un berretto nero con visiera, ai piedi degli infradito di colore viola. È tutto quanto ha, ci dice con rassegnazione che però ha anche il sapore di sfida per stupirci. Non gli interessano i telefonini, avere vestiti di ricambio, poter dormire sotto un tetto. La spiaggia gli basta. Gli amici attorno annuiscono. A differenza di Pità parlano pochissimo, ma ascoltano con attenzione. Colpiscono i loro sguardi cupi, tristi. Tra di loro c’è però molta solidarietà. Si aiutano quando uno di loro è ammalato o non riesce a guadagnare i soldi
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Ambiente e Benessere
Iperturismo
Viaggiatori d’Occidente In tutta Europa cresce il movimento antituristico
Claudio Visentin Cronache di mezza estate. Barcellona: davanti allo stadio Camp Nou un gruppo di giovani della sinistra radicale col volto coperto assalta uno dei numerosi bus turistici a due piani Hop on Hop off. Prima di far perdere le loro tracce, tagliano una gomma dell’autobus e con una bomboletta spray scrivono sul lunotto: «Il turismo uccide i quartieri». È un gesto estremo (e criticabile) ma radicato in un contesto di diffusa esasperazione. Già alla fine dello scorso gennaio, i residenti sulla Rambla, la principale strada del centro di Barcellona, avevano occupato la loro strada per protestare contro i troppi turisti. E in risposta a un sondaggio del municipio, gli abitanti hanno indicato nel turismo il problema più grave della città, davanti a disoccupazione e traffico. Venezia: alle cinque del mattino un barcaiolo sorprende due turisti che dormono completamente nudi, abbracciati su un pontile vicino a un hotel di lusso. Sempre a Venezia, pochi giorni prima, giovani turisti belgi si erano tuffati nel Canal Grande dal Ponte di Calatrava, davanti alla stazione. I veneziani rispondono con un manifesto sul quale campeggia un maiale in mutande e la scritta: «Non siete benvenuti!». Magaluf, Baleari: giovani turisti inglesi e tedeschi entrano in una spirale di degrado con ubriachezza, atti osceni, risse di strada. I locali protestano davanti ai ristoranti gremiti di turisti. Qualcuno scrive sul muro: «Turisti, i terroristi siete voi!». Quando perfino la compassata Oxford rimprovera ai turisti di creare un «inferno in terra» è chiaro che la situazione rischia di sfuggire al controllo. Che cosa è successo? Semplicemente questo: tutti i luoghi citati hanno superato la loro soglia di carico, la capacità di ospitare turisti in condizioni ragionevoli. Barcellona, con un milione e mezzo di abitanti, accoglie trenta milioni di turisti; erano ancora soltanto un paio di milioni all’inizio
degli anni Novanta del secolo scorso. Si stima che Venezia possa ricevere una decina di milioni di turisti all’anno: oggi sono trenta milioni… Non è solo una questione di quantità ma anche di qualità. Alcuni gruppi di turisti hanno un impatto maggiore di altri. Per esempio gli escursionisti, che oltretutto lasciano poche risorse sul territorio rispetto a chi si ferma più a lungo. E pochi turisti particolarmente trasgressivi possono rovinare la vita quotidiana di una destinazione: sono ben conosciute le feste di addio al celibato all’estero dei giovani inglesi. Oltre un certo limite, il turismo si impadronisce dei luoghi. E se in un primo momento i turisti utilizzano i mezzi di trasporto e i negozi dei locali, con effetti anche positivi, poi i ruoli si invertono e i residenti sono costretti a usufruire dei servizi pensati per i turisti, per esempio mangiando in trattorie dove il menu, in mancanza di una lingua comune, mostra le foto delle portate. E se il residente ha bisogno di riparare le sue scarpe, ma il turista è disposto a pagare di più per un tramezzino, come pensate che finirà? La bottega da ciabattino chiude in favore di un fast food. Al di là dei singoli episodi, il turismo sembra entrato in una nuova fase del suo sviluppo. È sempre più veloce, massiccio, invasivo, è un turismo al quadrato; si comincia a usare il termine iperturismo. Le nuove tecnologie, in particolare, hanno spinto il turismo verso una crescita senza freni. Piattaforme come Airbnb mettono in collegamento domanda e offerta con una facilità mai sperimentata prima. Al tempo stesso però questi intermediari non si fanno carico delle conseguenze delle loro azioni, quando il prezzo delle case sale e in interi quartieri i proprietari espellono i residenti in favore dei più redditizi affitti turistici. Le compagnie low cost per parte loro hanno il merito di aver reso il viaggio più facile ed economico, ma proprio per questo la durata media del soggiorno si è accorciata. Alla tradizionale vacanza lunga si preferiscono numerosi
Venezia durante una fredda giornata invernale, in bassa stagione. (Manuela Mazzi)
city break di pochi giorni nelle principali città europee servite da Ryanair o easyJet. In questo modo però l’impatto ambientale dei nostri viaggi aumenta a dismisura. Non fatevi ingannare dall’apparente leggerezza del turismo: già ora la metà degli arrivi internazionali (parliamo di un miliardo e 235 milioni nel 2016) avviene in aereo e in un caso su due la motivazione è turistica. Se società e ambiente soffrono, tutti i vantaggi di questa crescita impetuosa del turismo sono economici.
Nel 2012 la Spagna riceveva 57 milioni di turisti stranieri, quest’anno supererà ampiamente quota ottanta milioni: vuol dire undici per cento del PIL, due milioni e mezzo di posti di lavoro in tempi di crisi. Difficile dire basta, anche quando si toccano con mano i limiti dello sviluppo. Ma se il turismo diventa soprattutto un consumo – anziché un’esperienza – non peggiora solo la qualità di vita dei residenti; ne soffrono anche l’interesse e la bellezza dei nostri viaggi.
I tecnici propongono diverse soluzioni per ridurre le conseguenze negative dell’iperturismo: estendere la stagionalità, incoraggiare il ritorno dei visitatori (perché eviteranno probabilmente le zone più famose, avendole già viste), valorizzare le produzioni locali ecc. Ma niente sembra così urgente quanto il recupero di un’arte del viaggio, una nuova capacità di vedere e trarre piacere dalla bellezza del mondo. Poco, piano, bene: è così che vogliamo viaggiare. Annuncio pubblicitario
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L’etica di chi parte Bussole I nviti a letture per viaggiare
Anche nel tempo dell’iperturismo, un turismo migliore è possibile. Sul piano teorico il nuovo libro di Corrado Del Bò, Etica del turismo, aiuta a mettere a fuoco i criteri ai quali ispirarsi – responsabilità, sostenibilità, equità e rispetto delle differenze culturali – cercando un difficile equilibrio tra il diritto dei turisti di vedere i luoghi più belli del mondo e quello dei residenti di vivere come preferiscono a casa propria. Ma poi il miglior modo di contrastare il turismo di massa è viaggiare in modo intelligente e divertente, magari con l’aiuto di un buon libro. Ecco dunque alcune proposte di letture estive. Fredrik Sjöberg con L’arte della fuga ha completato la sua stralunata e
acclamata trilogia (dopo L’arte di collezionare mosche e Il re dell’uvetta): questa volta viaggiamo nella wilderness tra Nevada, Arizona e Colorado sulle tracce di un inquieto pittore del primo Novecento. Senza allontanarsi troppo dall’Europa del nord, ecco l’Atlante leggendario delle strade d’Islanda, un viaggio lungo la famosa Statale n.1 dove ogni luogo ha una storia da raccontare: elfi, troll, spettri, eroi e stregoni… Alle nostre latitudini si può invece seguire l’ispirazione di Riccardo Finelli: novecento chilometri tra Milano e Roma lungo la traccia liquida dei fiumi (Po, Trebbia, Tevere). Un tempo muovevano uomini, merci e mulini, oggi scorrono pigri e dimenticati, insidiati dalla siccità.
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Corrado Del Bò, Etica del turismo. Responsabilità, sostenibilità, equità, Carocci, 2017, pp. 144, € 15,00. Fredrik Sjöberg, L’arte della fuga, Iperborea, 2017, pp. 192, €16,00. Jón R. Hjálmarsson, Atlante leggendario delle strade d’Islanda, Iperborea, 2017, pp. 252, €16,00. Riccardo Finelli, Il cammino dell’acqua. A piedi da Milano a Roma lungo il corso dimenticato dei fiumi, Sperling & Kupfer, 2017, pp. 278, € 16,00.
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Ambiente e Benessere
Torta alla frutta
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Dessert
migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.
Ingredienti per una tortiera di circa 30 centimetri di diametro: 100 g di burro, morbido · 80 g di miele liquido · 50 g di zucchero a velo · 4 uova · 150 g di farina · 200 g di mandorle spellate e macinate · 2 cucchiaini di lievito in polvere · 600 g di frutta mista estiva, ad es. albicocche, nettarine, fichi e ciliege · 5 cucchiai di mandorle a scaglie · 1½ cucchiai di granella di zucchero · fleur de sel. 1. Foderate il fondo della tortiera con carta da forno. Lavorate il burro a spuma con il miele e lo zucchero a velo con uno sbattitore elettrico. Incorporate le uova e la farina alternandole, poi le mandorle e il lievito. Versate l’impasto nella tortiera e livellatelo. 2. Scaldate il forno a 180 °C. Tagliate la frutta a metà e snocciolatela, se necessario. Dividetela a spicchi e distribuiteli sulla pasta. Cospargete con le mandorle a scaglie e lo zucchero a granella. Cuocete al centro del forno per 35-40 minuti. Sfornate e lasciate raffreddare. Preparazione: circa 30 minuti + cottura in forno 35-40 minuti. Per porzione: circa 10 g di proteine, 20 g di grassi, 28 g di carboidrati, 350
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Ambiente e Benessere
La bellezza di un giardino imperfetto
Il seme nel cassetto Il giardino, nell’ottica dell’architetto, giardiniere e scrittore Paolo Pejrone, deve essere generoso
e accogliente, ma soprattutto non globalizzato
Un giardino imperfetto, ricco di imprevisti, dove ci sia spazio per una bellezza spontanea e lontana da quella imposta dai canoni pop: il punto di vista dell’architetto e giardiniere Paolo Pejrone – che con Un giardino semplice. Storie di felici accoglienze e armoniose convivenze (Einaudi, 189 pagg, 16 euro) ci regala un libro pieno di poesia e stupore – non è lontano da quello di altri giardinieri con i quali ci siamo confrontati in questa rubrica, come Pia Pera e Umberto Pasti. Aberrante gli orrori che un eccesso di controllo esercita sul tessuto naturale, questo scritto preferisce accordarsi sui ritmi delle stagioni. Si parte dalla primavera, che offre fiori timidi nella loro grazia, talvolta demodé, come i narcisi, gli iris, i mughetti, le viole, le primule (che non sono piante annuali, ma biannuali). Non mancano, nei vari paragrafi che deliziano anche chi pur non avendo il pollice verde ama lo spettacolo della natura, annotazioni storiche: in questa parte del libro veniamo per esempio a sapere che le primule furono amate in particolare in Inghilterra, dove a metà Ottocento si esibivano come opere d’arte in appositi teatrini di legno rivestiti di velluto scuro per esaltarne il colore e la forma. Le «forme nuove e nevrotiche» di giardinaggio hanno ucciso una pianta gentile, i giacinti romani, indipendenti e non amanti di eccessive attenzioni da parte del giardiniere: sarà questo che li ha resi, oggi come oggi, una rarità? E non dimentichiamo le rose, le immancabili rose che tornano a fiorire e
a mostrarci il loro mistero: sul sito del vivaio di Anna Peyron, facilmente recuperabile con una ricerca su Google, si trovano innumerevoli specie, con tanto di spiegazioni storiche. Il giardino, nell’ottica di Pejrone, deve essere generoso e accogliente: ben vengano le mangiatoie e gli abbeveratoi per gli uccelli, che però non amano i giardini patinati e «tutti erba e diserbante» di cui siamo soliti circondare le nostre case per rispondere ai dettami di una moda globalizzata, che ci vuole tutti uguali e asettici da Nord a Sud, da Est a Ovest: se vogliamo che la nostra oasi verde sia frequentata da pettirosse e cince (che delizia), bisogna che il giardino sia un po’ sporco, che lasci crescere in qualche angolo ombroso foglie e rametti, e perché no, come consiglia Pejrone, anche un po’ di sano letame, preso 1 ma2 gari da qualche alpeggio qui vicino. In primavera, se avremo voglia, 7 potremo strappare dal generoso suolo che la Terra ci mette a disposizione profumi e odori per piatti deliziosi: 9 borragine, tarassaco, soncino, dragoncello. L’estate si apre con i papaveri, 11 che, quando inondano i campi, sono uno degli spettacoli più belli di sempre (non 13 a caso 14 la letteratura 15 16 – ma anche la pubblicità – hanno saccheggiato a man bassa): non si trovano facilmente 18 19 in giardino perché hanno una fioritura breve, eppure il sogno segreto di 20 giardiniere resta 21 22 ogni la Meconopsis, il papavero blu himalayano, che però per sopravvivere ha bisogno di fresco 24 25 26 (in montagna forse si può tentare): arrivarono in Europa a inizio Novecento 28 portati dal botanico inglese KingdonWard che «in una ventosa giornata d’e-
state, tra sogno e realtà, li scambiò per uno sciame di farfalle azzurre». L’estate è il regno dell’orto: se si è lavorato bene, i frutti esploderanno deliziando il naso e il palato. Pomodori, melanzane, cocomeri, tutto cresce bene se evitiamo di ammassare le piante, ma al contrario le facciamo respirare. E poi, non accontentiamoci dei semi più gettonati, troviamone di rari, osiamo. Come ci spiega Pejrone, c’è chi nel suo orto coltiva più di seicento varietà di pomodori. I bulbi in tanti casi si piantano in autunno, una stagione che si apre sotto il segno del ciclamino: il consiglio vale anche per chi non ha un giardino, raccomanda l’autore, bastano dei vasi in terracotta. Via libera alla creatività: crochi, narcisi, fritillarie, tulipani. Si mette un bulbo sottoterra e dopo un po’ di mesi, vedremo che l’alchimia della natura ha fatto il suo corso. Fra i frutti da non perdere, ci sono la melagrana, con carattere, e la più dolce e remissiva nespola. Senza dimenticare le castagne, che possono regalare momenti magici. L’inverno è il capitolo – si capirà – più breve. Sembra che nulla fiorisca, eppure qualche rosa fa sempre capolinea. È tempo di riti propiziatori, poi tutto ricomincia. E, dopo aver letto questo libro, ci fa rabbia pensare che la ricchezza-delle stagioni via via sceSUDOKU PER AZIONE LUGLIO BISstia 2017 mando.
Giochi per “Azione” - Agosto 2017 Stefania Sargentini
(N. 33 - Se in pericolo attacca anche i leoni) 3
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S E C C M A T T A A R C A N. 25 FACILE G9Schema I2 7 C O 3 5 8 3 4 2 R E O P 3 9 8 4 5 8 O L E O S
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Anna Regge
Laura Di Corcia
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Giochi
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Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba 3 1 4 2 6 3 1 4 9 5 2 7 e una delle i2miei cartesoldi!”) regalo da 50 franchi con il sudoku (N. 34 - “Allora svelto dammi 6 3 9 5 6 7 4 8 3
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
23. Rosso a Londra 24. Preposizione 25. Sono infiniti nel Creato 26. Digiuno prolungato VERTICALI 1 2 3 1. Privi di germi 2. Prima moglie di Giacobbe 6 contrario 3. Al... 4. Evidenti 5. Re 8 di Francia 9 6. Anno francese 7. Piccoli barbuti 11 8. Particola10 10. La showgirl Yespica 13. 12 Capitale europea 13 14. Lago parigino 15. Si paga a scadenza fissa
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SUDOKU 1 5 9 4
8 7 2 3 6 N. 29 FACILE L A OSchema R A N G O 1 4 2 9 5 7 8 3 6
S I A E A 2 1T 7 R 6 T7 5R A2 9 I U T N. 27 DIFFICILE 1 3 7 C I A1 7 5 58 I6 N 2 4 3I 7 N 5 7
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3 8 Scoprire i 3 numeri corretti 6 1 da inserire nelle 8 9 caselle colorate.
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2 Soluzione:
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N. 26 MEDIO Sudoku A L
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ORIZZONTALI 1. Preposizione articolata 4. Grossa scimmia 9. Segue il «così» liturgico 10. Bagna Bristol 11. Le iniziali del conduttore Savino 12. Le vocali in testa 13. Piccoli corsi d’acqua 14. Scampò alla distruzione di Sodoma 15. La maggiore isola dell’Egeo 16. D’estate si coprono e d’inverno si spogliano 17. Le vicende di un film 19. Regione storica dell’Asia Minore 20. Fibra da sacco 21. Nota musicale 22. A est della Francia...
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Cruciverba Un ladro ad un passante: «Svelto dammi i tuoi soldi!» – «Guardi che io sono un importante politico!» Trova la risposta del ladro a cruciverba ultimato leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 6, 6, 5, 1, 4, 5)
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E R I N P R I T R E A O I A L T I A S S O P E C O S T I R A N RBibliografia R Soluzione A L H Paolo4Pejrone, 6 9 con 8 acquerelli 2 7 1 di3Anna 5 Regge, Un giardino semplice. Storie di 5 7 6 1 3 L 4 2O 9 Ifelici accoglienze E8 R e armoniose convi1 2 3 4 9 5 8 7 venze, Einaudi, 189 pagg, 16 euro. 6 1 5 N 7 6 9 O 2 4 E I 8 T3
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54 2 3 8 N 7 V 6O9 N 7 3 8 6 1 4 9 R75 I2 V8 2I 8 4 1 L9 6 O5 1 5 7 3 4 8 2 6 O D4 I6 9 21 R 4 6 3 A 7 5M 2 3 6 9 8 2 1 4 M8 A 8L 2 7I 5 C 4 3 I1 A8 2 M 4I 5 15 7 6 9 83 8 1 4 6 9 3 7 54 R9 E D 3 4 92 73 56 87 845 21 18 S O L I 2 6 7 5 2 83 9 51 6 3 1 4 9 3 7 5 2 E D I A
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4 5 1 2 9 16. Fanno rima con ma... Giochi per “Azione” - Agosto 2017 7 9 6 4 8 18. Un famoso cardinale di nome Camillo Soluzione della settimana precedente Stefania Sargentini 19. Nome femminile UN CORAGGIOSO PICCOLETTO – Il Tasso del 6Miele: 8 4 21. Nel frutteto SE IN PERICOLO ATTACCA ANCHE I LEONI. (N. 33 - Se in pericolo attacca anche i leoni) N.28 GENI 23. Il5cantautore Stewart 4 1 2 3 4 5 6 25. Precede un’ipotesi 2 7 5 3S E R I N P 7 8 3 8 7 E 4R I T 2R E A 9 10 9 1 9 1 C O I 6 A L T 11 12 1 2 1 7 C I 8 A S S O 13 14 15 16 17 Vincitori del concorso Cruciverba 5 6 M A T 2T 8A P E C O S su «Azione 32»,19del 7.8.2017 18 8 4 7T I R 3A N A 4R C A P. Califano, M. Galfetti, P. Bisi 23 20 21 22 6 3 3 5 1 8 G I C O R R A L H Vincitori del concorso Sudoku 24 25 26 27 su «Azione 32», del 7.8.2017 4 9 R E O P I E R L O 14 15 16 17 28 D. Varone, M. Quadri 29 7 5 7O L E 6O 4S 8O 2 E N I T
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N. 30 MEDIO
(N. 35 - Posside canali dai quali esce saliva)
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S4 2 5 63 7T 9 1 4 I8 5 7 9 6 A9 1
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4 P O S A 9S I 5 7 6 7 9 4 1 5 2 7 I vincitori E N D T E 2 N 4 8 5 2 3 6 57 7 4 6 3 8 9 5 R C S A N T 6 3 2 8 9 47 4 1 9 5 1 7 6 2 3 2 9 7 5 4 1 8 E R 9A 4L 7D O 8 3 2 1 5 7 6 I A V I N A1 6D48 8 I 2 3A19 18 19 20 21 I premi, cinque carte regalo Migros (N. Partecipazione online: inserire la luzione, T corredata O Rda nome, I cognome,1Oè possibile A unI pagamentoQin contanti U 34 - “Allora svelto dammi i miei soldi!”) del 22 valore di 50 franchi, saranno soluzione del cruciverba o del sudoku indirizzo, email del partecipante deve dei premi. I vincitori saranno avvertiti 23sor24 teggiati tra i partecipanti che avranno nell’apposito formulario pubblicato essere iscritto. vincitori AAL spedita LL A a «Redazione R A 3Azione, N O per T 9 EIl nome 7 Dsarà I O 66901 EG S RdeiPartecipazione fatto pervenire la soluzione corretta sulla pagina del sito. Concorsi, C.P. 6315, Lugano». pubblicato su «Azione». S I A A V O N N S 25 il venerdì seguente26 27 28la lettera o entro la pubblica- Partecipazione postale: Non si intratterrà corrispondenza sui riservata esclusivamente a lettori che 2E 7LLNon ECA Le I Vsono I escluse. O S T risiedono zione del gioco. la cartolina postale che riporti la so- concorsi. AvieR legali A in Svizzera. O L1 I 1
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Preparazione: Mescolate il formaggio fresco con quasi la metà dell’olio e il succo di limone. Aggiungete un po’ di scorza di limone grattugiata e condite con la miscela di spezie e pochissimo sale. Distribuite il formaggio fresco aromatizzato sulle fette di bresaola, aggiungete qualche foglia di rucola e arrotolate le fette. Condite le fette arrotolate con l’olio rimasto e cospargete con un pizzico di miscela di spezie. SUGGERIMENTO: potete sostituire la miscela di spezie Smoking hot Taste con pepe di Cayenna. Tempo di preparazione ca. 15 minuti Per persona ca. 14 g di proteine, 14 g di grassi, 4 g di carboidrati, 800 kJ/200 kcal Questa e altre ricette su migusto.ch
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 agosto 2017 • N. 34
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Politica e Economia Virginia: Trump ci ripensa Il dietrofront del presidente sui disordini di Charlottesville, mette in difficoltà i capitalisti Usa
I cugini cosa vogliono? In un film nelle sale si comprende il grande desiderio dei sudcoreani di non volere iniziare una guerra con i nordcoreani. Perché i primi a perderci sarebbero loro, fra cui la democrazia costruita faticosamente negli anni
I consiglieri federali ticinesi Chi erano i sette ticinesi che sedettero nel governo federale? In quali circostanze vennero eletti?
Nuova legge rompicapo La nuova legge sull’infrastruttra dei mercati finanziari (Finfrag) suscita interrogativi, ma le regole Finma arriveranno solo nel 2018 pagina 29
pagina 25
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Militari dell’esercito venezuelano dimostrano il loro supporto al governo tenendo un ritratto del generale Bolìvar. (AFP)
Maduro teme il golpe
Venezuela Il presidente Maduro offre favori e promozioni alla forze armate fra le quali serpeggiano malcontento
e aria di ribellione. Anche per edulcorare la sparizione del militare più amato, il generale ribelle Baduel Angela Nocioni L’infornata di 139 generali e ammiragli nuovi di zecca, promossi in gran fretta per tener buone le forze armate, non basta a scacciare dalla mente del presidente venezuelano Nicolás Maduro la paura di un golpe. C’è scontento nell’aviazione, cresce il malanimo nella marina. Per ora sta buono l’esercito, che a Caracas è quel che conta davvero per scongiurare un colpo di Stato. Ma anche lì comincia a serpeggiare malcontento. S’è visto da come tra i militari di basso rango è corsa la notizia, diffusa il 14 agosto, del trasferimento in luogo segreto del generale (detenuto) Raul Isaias Baduel, il dissidente più chavista di tutti, l’ex grande amico del defunto presidente Hugo Chávez, l’uomo che gli salvò la vita durante il golpe del 2002, colui che lo riportò sano e salvo tra due ali di folla festante al palazzo del Planalto cacciandone i golpisti. È sparito dal carcere di Ramo Verde il generalissimo Baduel, la carta più preziosa delle forze armate contrarie al regime instaurato da Nicolas Maduro. Spopola l’hashtag #dondeestaelgeneralbaduel. È stato trasferito altrove, si suppone, ma né il governo né le autorità carcerarie fanno sapere alla famiglia dove sia stato portato il militare più amato dall’e-
sercito venezuelano, quello che fu l’alter ego di Hugo Chávez finché, dieci anni fa, non si oppose all’idea di trasformare la Costituzione chavista in una Costituzione socialista, chiamò il popolo a votare «No» al referendum, il popolo gli diede retta, il progetto socialista fu bloccato e lui diventò il più temuto dissidente, tanto pericoloso per Chávez in quanto militare di carriera dal pedigree rivoluzionario immacolato. Alla vigilia del referendum del dicembre 2007 per trasformare in senso socialista la Carta chavista, Baduel disse che quella riforma equivaleva «a un golpe». E la riforma non passò. Chávez non glielo perdonò mai. «Le forze armate sono al servizio della nazione. Non possono essere al servizio di parti politiche, di qualsiasi parte si tratti» disse allora il generale Baduel. «È questo il mandato previsto dalla Costituzione bolivariana. Disciplina, obbedienza e subordinazione sono vincolate alla difesa della nazione, non a quella di un progetto politico, né di una persona. Quando ho fatto sapere di non aver mai ricevuto un ordine relativo all’introduzione del saluto “patria socialismo o muerte”, Chávez ha detto di non aver mai dato ordine che questa espressione venisse introdotta nelle forze armate. Poi però ho ascoltato generali usare quest’espressione. Nessuno può
dire che Raul Isaias Baduel abbia mai salutato qualcuno così. Ci sono decisioni che vengono prese, cambiamenti importanti che aleggiano, senza essere formulati con chiarezza. Per esempio il progetto di una sorta di federazione cubanovenezuelana di cui ogni tanto si parla. Il vicepresidente cubano, Carlos Lage, è sembrato farvi accenno. Ma l’espressione “un unico Stato con due presidenti” non ha nessun senso. L’autoderminazione popolare e la sovranità sono princìpi inviolabili» furono le sue prime parole da dissidente. Da allora la sua vita diventò un inferno. Ostracismo, sospetti velenosi, finché fu accusato senza prove di aver rubato soldi statali, arrestato, poi messo ai domiciliari. Nel gennaio scorso Maduro diede l’ordine di rispedirlo in cella. Troppo pericoloso un Baduel ai domiciliari mentre tra i militari si teme la diffusione di un sentimento di ribellione verso quella che molti chavisti graduati ritengono sia una rivoluzione tradita. Il regime si difende come sa, come ha sempre fatto, distribuendo soldi e privilegi ai più alti in grado. Mette militari a gestire il greggio venezuelano, militari al comando della produzione di energia elettrica, militari a trafficare con le miniere d’oro. Il modello è quello cubano: ovunque circoli
dollaro cash, il portafogli dev’essere delle forze armate. Piazzare ammiragli e ufficiali vari, a capo dell’enorme mercato delle risorse naturali. La lezione appresa da Chávez, Maduro la applica alla lettera, con la solerzia dell’apprendista che, avendo avuto origine politica nel sindacato della metropolitana di Caracas, deve farsi in quattro per accreditarsi presso l’Olimpo militare. Ambasciatori, amministratori di imprese pubbliche, onnipotenti direttori delle commissioni che vigilano sui prestiti statali di valuta straniera, tutte nomine rigorosamente riservate da Maduro alle forze armate. Sono militari i responsabili dei servizi di intelligence, ma anche i principali diplomatici in carica all’estero e la maggior parte dei governatori. È in nome di Simon Bolìvar, l’eroe dell’indipendenza, che il regime promuove il «patto civico-militare», formula pomposa con cui è stato confezionato il piano di inserimento capillare dei militari nell’amministrazione dello Stato. L’articolo 328 della Costituzione, approvata in referendum nel 1999, quella che ora Maduro si appresta a modificare per afferrarsi al potere, definisce i compiti delle forze armate: difesa del territorio, mantenimento dell’ordine pubblico, partecipazione allo sviluppo del Paese.
Nell’estensiva interpretazione che il governo chavista ha sempre dato alla norma, questo significa che l’esercito può essere usato per piazzare nei posti chiave del Paese ufficiali amici a cui affidare i piani considerati delicati. Il regime non si fida dei tecnici, molto spesso legati all’opposizione, anche per questo ricorre ai militari che spera gli siano fedeli. In Petroleo de Venezuela (Pdvsa), l’impresa pubblica del petrolio, i militari sono entrati in massa dopo la lunga paralisi della produzione che mise in ginocchio il Paese tra il dicembre 2002 e il gennaio 2003. Regnano nelle società statali di importazione, dove fluiscono milioni di soldi pubblici. Sono a capo delle società di importazione. E sono loro a dirigere di fatto Cemex, la impresa con sede formale a Panama che si occupa della triangolazione commerciale con l’Avana. Ma non è detto che tutto ciò basti a tenerli buoni. Le forze armate venezuelane sono un esercito di estrazione popolare, di formazione fortemente nazionalistica, ma non antidemocratica. Non è facile che si prestino a sparare sul popolo in piazza, per esempio. Maduro lo sa e infatti a reprimere le manifestazioni di protesta finora ha mandato la polizia, non l’esercito.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 agosto 2017 • N. 34
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Politica e Economia
Charlottesville, l’ultimo strappo Usa Diversi esponenti del capitalismo americano si trovano in difficoltà perché Trump non ha rinnegato
i legami con l’estrema destra razzista dopo le violenze in Virginia e ora rivedono la loro scommessa sul presidente abbandonando la Casa Bianca Federico Rampini Il vero Donald Trump getta la maschera: sdogana l’estrema destra razzista, provoca turbamento e critiche anche fra i repubblicani. Più un fuggi fuggi di top manager che si dimettono dal ruolo di consiglieri della Casa Bianca, costringendo il presidente a sciogliere due di quegli organi di consulenza. Nella prima conferenza stampa al ritorno nella Trump Tower dopo mesi di assenza da New York (la Casa Bianca approfitta delle vacanze per fare lavori di restauro, e lui adora giocare a golf nei suoi resort), il presidente corregge se stesso. Gli antichi legami col mondo dei suprematisti bianchi hanno la meglio. Trump torna a commentare le violenze di Charlottesville (Virginia) che hanno fatto una vittima. Alla terza volta lui riprende la versione numero uno: si rimangia la condanna che aveva espresso contro le milizie neo-naziste e dei suprematisti bianchi. Torna così alla primissima reazione che già aveva avuto a caldo: equidistanza e un pizzico di comprensione per l’estrema destra. A chi lo interroga sugli scontri risponde piccato: «Che dire della sinistra radicale che ha aggredito quella che voi chiamate la destra radicale? Non hanno qualche colpa anche loro?» Il presidente aggiunge che nei cortei degli ultrà «non c’erano solo suprematisti bianchi, ma anche persone davvero per bene». Lo elogia l’ex leader del Ku Klux Klan, David Duke: «Grazie Presidente Trump per la sua onestà e coraggio nel dire la verità».
La sua ascesa alla politica è stata punteggiata da una serie di ammiccamenti verso molte fazioni estremiste Un coro di condanne si leva dal partito repubblicano, coinvolgendo esponenti autorevoli e le due cariche istituzionali più elevate del Congresso. Il presidente della Camera, Paul Ryan: «Il movimento per la supremazia bianca è ripugnante. Questo fanatismo è contrario ai valori dell’America. Non può esserci ambiguità morale». Il suo omologo al Senato, Mitch McConnell: «Non esistono neo-nazisti buoni. Abbiamo la responsabilità di lottare contro l’odio quando rialza la sua testa malefica». Il senatore della Florida Marco Rubio, che un anno fa gareggiava per la nomination repubblicana: «Signor Presidente, lei non può lasciare che i suprematisti bianchi si prendano solo una parte del biasimo. Sostengono un’ideologia che ha provocato tanta sofferenza». Due grandi vecchi della destra al Senato, John McCain e Lindsay Graham, condannano «ogni equidistanza tra l’estrema destra razzista e chi vi si oppone». Molti del suo stesso partito condannano Trump per aver messo implicitamente sullo stesso piano i cortei degli ultrà razzisti e Heather Heyer, la donna che era scesa in piazza per manifestare la sua opposizione ed è stata uccisa da un fanatico che l’ha investita. L’indignazione tra repubblicani è reale, resta da vedere se siamo davvero
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
alla vigilia di una rivolta contro il presidente: troppo spesso annunciata, mai avvenuta finora. Però Trump può pagare un prezzo politico comunque. Lo si è visto quando la sua maggioranza non ha approvato la contro-riforma sanitaria. L’agenda di riforme promesse dal presidente – a cominciare dalla riduzione delle tasse – può spappolarsi se al Congresso si regolano i conti di questa lotta intestina. Un altro pezzo di establishment rivede la sua scommessa su Trump: i capitalisti. Le parole scandalose su Charlottesville accelerano il fuggi fuggi dei top manager, che si dimettono da consulenti della Casa Bianca. Sette chief executive di grandi aziende hanno dato le dimissioni abbandonando i comitati consultivi in cui Trump li aveva invitati per avere idee sulle riforme economiche. I capi dell’azienda farmaceutica Merck, del gigante elettronico Intel, della catena di ipermercati WalMart, sono i più noti. Si aggiungono a quelli della Disney e Tesla che già se n’erano andati per dissensi su ambiente e immigrazione. Lo strappo di Charlottesville è il più clamoroso: Trump mette in difficoltà i moderati e gli ambienti industriali, pur di non rinnegare quella tela di amicizie e simpatie che si era conquistato nell’estrema destra ancor prima di candidarsi. E Trump per ripicca cancella due di quei comitati di consiglieri economici. Trump sposa un teorema sugli «opposti estremismi», del tutto inadeguato all’America di oggi. Non siamo negli anni Sessanta quando esisteva un terrorismo di sinistra (Black Panthers, Weathermen). Continuano invece ad esistere milizie armate di estrema destra, razziste e fasciste. In azione alla luce del sole a Charlottesville. La sua ascesa come star della politica americana è stata punteggiata – e accelerata – da una serie di ammiccamenti verso tutte quelle fazioni estremiste citate nel comunicato di condanna. Prima tappa: nella campagna elettorale del 2012, quando Trump si trastulla con l’idea di candidarsi per la nomination repubblicana ma poi rinuncia (sarà candidato Mitt Romney contro Barack Obama). Per mesi però Trump lancia un messaggio che a posteriori capiremo essere stato un «ballon d’essai», un test in vista della candidatura: «Obama è nato in Kenya, per legge non può essere presidente degli Stati Uniti». Menzogna spudorata e vergognosa, che verrà smentita ma conserverà un seguito ampio a destra. Trump diventa il leader del «Birther Movement», il movimento che contesta il luogo di nascita del presidente. Il messaggio subliminale va dritto ai suprematisti bianchi, al Kkk tristemente noto per i linciaggi degli «incappucciati», ai sudisti nostalgici dell’America pre-guerra civile e del segregazionismo. Un afroamericano alla Casa Bianca non può che essere un alieno, uno straniero, un usurpatore che ci porta via la «nostra» America per governare in favore di «quelli là». È da quel momento che la destra razzista, estremista, fino ai filo-nazisti, s’incolla a Trump con una fedeltà assoluta. E lui si guarda bene dal rinnegare questi fan. Secondo capitolo della vicenda: l’ex capo del rinato Kkk, David Duke, gli dà Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Dopo le violenze di Charlottesville, Baltimora ha rimosso le statue sudiste del generale Lee e di Stonewall Jackson. Di notte, per evitare scontri. (AFP)
un endorsement nella campagna elettorale del 2016. Orrore, non solo a sinistra. Quei repubblicani che ricordano di essere stati il partito di Abraham Lincoln esigono una immediata e netta presa di distanza. Trump tace, prende tempo, poi se la cava con dichiarazioni evasive e ambigue. Non vuole tagliare i ponti che lo legano a un nucleo duro di fan fedelissimi. La stessa cosa avviene con l’ultra-destra del fondamentalismo cristiano (una galassia distinta anche se a volte l’ideologia fascista e il tema della «difesa della civiltà cristiana» possono incontrarsi). Terzo capitolo: le nomine. Quando s’insedia alla Casa Bianca, Trump fa scalpore chiamando nella cerchia dei consiglieri più influenti Stephen Bannon e Steve Miller. Tutti e due già visibili nell’entourage durante la campagna elettorale. Ma tutti e due con profili biografici del tutto inadatti alle cariche istituzionali vicine allo Studio Ovale. Bannon ha diretto il sito di estrema destra Breitbart, è un noto esponente della cosiddetta alt-right (destra alternativa, in realtà sta per destra radicale), cita Julius Evola tra le sue letture preferite. Miller è noto per i suoi contatti con i suprematisti bianchi. «Le prossime statue da demolire saranno quelle di George Washington?» A modo suo Trump mette il dito su una piaga. L’eroe della guerra d’indipendenza contro gli inglesi, nonché primo presidente degli Stati Uniti d’America,
al quale è intitolata la capitale federale, era un latifondista proprietario di schiavi neri. La battuta velenosa di Trump è una critica a quelle autorità locali impegnate in una «rimozione storica»: la guerra delle statue. Ultima la sindaca di Baltimora, città con una forte percentuale di afro-americani e teatro di vaste proteste alcuni anni fa contro le violenze razziste della polizia. La sindaca Catherine Pugh ha ordinato l’eliminazione delle statue di Robert Lee e Thomas Jackson, due generali confederati cioè sudisti. Lo ha fatto «nell’interesse della città, alla svelta e senza clamore». Le gru hanno agito sotto la protezione della polizia. Su uno dei monumenti era stato scritto con lo spray Black Lives Matter, «le vite dei neri contano», lo slogan che ha dato nome al movimento di protesta contro gli abusi (spesso mortali) delle forze dell’ordine. La stessa operazione non era andata né alla svelta né senza clamore nella vicina Charlottesville (Virginia): in quella città la guerra alle statue aveva attirato un raduno di suprematisti bianchi e neo-nazisti, culminato nelle violente proteste che hanno fatto una vittima. La guerra delle statue dura da tempo. Un censimento approssimativo stima che restano 718 monumenti in America, eretti in onore di leader della Confederazione che combatterono contro il Nord e per salvaguardare lo schiavismo. Se li si considera come al-
trettanti simboli dei valori del Ku Klux Klan, razzismo e supremazia bianca, l’indignazione è naturale. È come se le piazze d’Italia pullulassero di statue di Mussolini e quelle tedesche avessero altrettanti busti di Hitler. Molti nel Sud la vedono altrimenti. A 152 anni dalla fine della guerra civile, c’è un pezzo d’America che non si rassegna ad averla persa. E a prescindere dalle frange estremiste, nel profondo Sud la narrazione diffusa sulla guerra civile è sempre stata molto diversa che al Nord, molti bianchi del Sud non credono che con Abraham Lincoln abbiano trionfato valori etici e di giustizia. Per loro statue o bandiere confederate sono omaggi ad un mondo che va rispettato anche se perse una guerra. Il confine culturale tra razzismo esplicito, negazionismo da una parte, dall’altra revisionismo storico e relativismo culturale, non è sempre netto. Trump ha detto da che parte sta. E anche a sinistra c’è chi ammonisce: non basta renderli invisibili, perché i miti del profondo Sud cessino di tormentarci. Del resto per capire che queste ferite non sono state curate, basta guardare la data di costruzione delle due statue rimosse da Baltimora: è l’anno 1948. Tre anni dopo la fine, non della guerra civile, ma della Seconda guerra mondiale. In cui tanti neri erano morti al fronte, per difendere contro Hitler i valori della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
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Politica e Economia
Seul non vuole la guerra
Corea del Sud S pesso accusata di non curarsi della follia dei cugini, la Repubblica vive la guerra del 1950
come una ferita ancora aperta, sulla quale ha costruito negli anni una democrazia che non vuole perdere
Cittadini sudcoreani spensierati nelle vie di Seul. (AFP)
Giulia Pompili Quando Moon Jae-in è stato eletto in Corea del sud, poco più di tre mesi fa, non pensava certo di ritrovarsi nel mezzo di una delle crisi più difficili della penisola da un decennio a questa parte. Durante tutta la campagna elettorale aveva insistito su un punto, soprattutto in politica estera: c’è bisogno di un cambio di passo, ma questa volta i sudcoreani sono adulti e maturi, e possono scegliere per conto loro. E infatti, poche settimane dopo la sua elezione, l’accordo caldeggiato da Washington tra Tokyo e Seul sulle cosiddette «donne di conforto» – un accordo firmato in fretta e furia alla fine dello scorso anno – è stato di fatto annullato. Allora la Corea del sud si era impegnata a rinunciare alle scuse formali da parte del Giappone, dovute alle schiave del sesso usate dall’esercito nipponico durante l’occupazione, in cambio di un corrispettivo economico. Ma l’opinione pubblica era rimasta scontenta, e comprensibilmente: una transazione non equivale al riconoscimento di un crimine di guerra. Moon Jae-in aveva usato la stessa narrativa anche per i rapporti con la Corea del nord: sono i nostri fratelli, i nordcoreani, e l’ipotesi di una guerra è esclusa. Piuttosto, dobbiamo riaprire tutti i canali di comunicazione, farli sedere al tavolo delle trattative e cercare il coinvolgimento, anche economico. Per esempio con la riapertura del complesso industriale congiunto di Kaesong, l’unica zona franca tra il Nord e il Sud, chiuso nel febbraio del 2016 dopo le ripetute provocazioni della leadership di Pyongyang. Insomma, Moon sperava in un ritorno a quella che viene chiamata la «Sunshine policy», una politica di dialogo con il Nord, ma questa volta condotta da Seul. Perché in Corea del sud tutti sanno che la partita della penisola in realtà si gioca tra l’America e la Cina. Eppure, in caso di guerra, l’esercito sudcoreano sarebbe tra i primi a intervenire, e l’artiglieria e i missili a corto raggio nordcoreani sarebbero certamente puntati verso sud. Su una città come Seul, coi suoi quasi dieci milioni di abitanti, e sui duecento chilometri scarsi che la dividono da Pyongyang. Moon voleva tendere una mano al leader nordco-
reano Kim Jong-un ma si è ritrovato alla Casa Bianca Donald Trump, che provoca via Twitter e fa saltare i tavoli delle trattative. Per i sudcoreani questo è una specie di déjà-vu. Anche durante la guerra tra le due Coree iniziata nel 1950 con un tentativo di invasione da parte della Corea del nord di Kim Ilsung, era stata l’America di MacArthur a decidere di proseguire oltre il 38° parallelo, e respingere l’influenza russocinese oltre i confini della penisola. Finì malissimo, con milioni di morti e tre anni di conflitto. Ma per i sudcoreani poter essere finalmente liberi di decidere che tipo di politica adottare con il Nord è anche una scelta identitaria. La Corea ha attraversato periodi difficili, di governi autoritari e «unfit», e adesso vuole dimostrare di poter fare da sola, e di essere l’unica in grado di risolvere la questione nordcoreana.
È appena uscito un film che sta sbancando al botteghino: racconta perché una guerra dichiarata dall’America proprio non la vorrebbero Come sempre, è il passato a spiegare il presente. Uno dei film più visti in questi giorni in Corea del sud, il più visto di sempre a una settimana dall’uscita nelle sale cinematografiche, è una produzione tutta coreana. Diretto da Jang Hoon, A Taxi Driver è la storia vera di Kim Sa-bok, un tassista di Seul, che nel 1980 si trovò suo malgrado ad accompagnare il giornalista tedesco Jürgen Hinzpeter a Gwangju, 260 chilometri a sud della capitale sudcoreana. Da queste parti Hinzpeter, scomparso l’anno scorso a quasi ottant’anni, è un eroe nazionale, ed è qui che ha voluto essere sepolto. Hinzpeter è stato l’unico giornalista straniero a raccontare la rivolta di Gwangju del maggio del 1980, quando governo ed esercito repressero il desiderio di democrazia degli studenti universitari. Per i sudcoreani Gwangju è una ferita aperta, di cui ancora oggi si parla con imbarazzo. Ma non è un
caso che il film sia uscito proprio adesso: perché quella rivolta è stato un momento fondamentale nel processo di democratizzazione della Corea del sud. È stato Moon Jae-in, il presidente eletto nello scorso maggio, il primo a piangere durante la commemorazione che ogni anno, il 18 maggio, si svolge al memoriale dedicato agli studenti morti. Il primo a dare risalto mediatico alla cerimonia. Quest’anno, centomila persone hanno assistito per la prima volta a un presidente che, insieme agli altri, ha cantato la March for the Beloved, il brano dedicato alle vittime della strage. Fino allo scorso anno soltanto l’orchestra poteva suonare quella canzone, ma nessuno poteva cantarla. Per legge. La rivolta di Gwangju apparve in un periodo già turbolento in Corea del sud. Park Chung-hee, da molti considerato un dittatore per il suo stile duro e autoritario, che aveva preso il potere nel 1960 con un colpo di Stato, era stato assassinato soltanto l’anno prima – un evento che aveva portato all’istituzione della legge marziale in tutto il Paese. Nel maggio del 1980 a governare la Corea del sud c’era la giunta militare presieduta da Chun Doo-hwan, che era un fedele di Park. Tutto iniziò con l’ipotesi di chiudere l’università di Chonnam, a Gwangju. La mattina del 18 maggio gli studenti, almeno duecento, si piazzarono davanti ai cancelli: ci furono i primi scontri con la polizia. Ma nel pomeriggio, in sostegno dei ragazzi, arrivarono altre duemila persone. Kim Gyeong-cheol, ventinove anni, stava tornando al lavoro dopo la pausa pranzo, fu colpito nel mucchio e ucciso dalle forze di polizia. Quella morte scatenò altre violenze. Il 20 maggio le persone in strada a combattere contro il governo e a chiedere più democrazia diventarono diecimila. Chun chiamò i rinforzi, tra cui i carri armati. Il 27 maggio la rivolta era sedata, ma nessuno ancora oggi conosce il numero di morti – si dice tra i duecento e i duemila. Il governo aveva messo in piedi una sofisticata macchina di propaganda per screditare i rivoltosi, accusandoli di essere infiltrati della Corea del nord. L’America, nel frattempo, monitorava insieme con il Giappone la situazione, chiudendo gli occhi sulla repres-
sione violenta, proprio per controllare l’eventuale presenza di nordcoreani tra i rivoltosi e – soprattutto – scongiurare che Pyongyang potesse avvantaggiarsi dalla Corea del sud nel caos. Le immagini delle violenze di Gwangju ricordano quelle di piazza Tiennanmen in Cina. Eppure per i decenni successivi tutti i presidenti sudcoreani hanno tentato di sminuire la memoria del massacro. È alla luce di questo che le proteste pacifiche del novembre del 2016, che
hanno portato all’impeachment e poi all’arresto della presidente Park Geunhye, avevano tutto un altro significato. La volontà di Moon Jae-in di tendere una mano al Nord, nonostante la determinazione di Trump di cancellare la politica della «pazienza strategica» dell’Amministrazione di Barack Obama, ha un senso solo se considerata insieme alla coscienza di un popolo intero. Che di una guerra proprio non ne vuole sapere. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
Grace getta scompiglio in Sud Africa Fra cronaca e crisi internazionale La moglie del presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe è accusata di aver
picchiato una modella in Sud Africa. Il caso dovrà essere gestito diplomaticamente dai due governi
Pietro Veronese La sera di domenica 13 agosto una signora di una cinquantina d’anni elegantemente vestita, accompagnata da un certo numero di guardie del corpo, attraversa a passo spedito la hall del Capital 20 West, un albergo a cinque stelle del quartiere più danaroso di Johannesburg, in Sud Africa. Il personale dell’hotel sa benissimo chi è e nessuno si sogna di chiederle dove sia diretta. La signora e la sua scorta si infilano in un ascensore scomparendo alla vista. Qualche piano più su, tre ragazze giovanissime e un loro amico si stanno rilassando sul divano di una piccola suite. Aspettano altri due ragazzi conosciuti appena la sera prima, di nazionalità zimbabweana. Il programma della serata non è chiaro, ma dai ritratti postati sui social da almeno una delle tre, ventenne di professione modella, è facile supporre che tutti siano lì riuniti con il preciso scopo di divertirsela. All’improvviso la porta della suite si spalanca ed ecco irrompere la signora vista poco prima nella hall. «Dove sono i miei figli?», grida come una furia, e incomincia a malmenare i presenti. Di fronte alla reazione spaventata, confusa delle ragazze e del loro accompagnatore, la sua ira non fa che montare. Afferra la prolunga elettrica di un lume, la fa roteare a mezz’aria e ne usa la pesante spina come una mazza che piomba ripetutamente sulla testa di una delle malcapitate. Le altre riescono a darsela a gambe, ma la giovane vittima finisce a
quattro zampe sulla moquette, sanguinando da profonde ferite alla fronte e al cuoio capelluto. Le guardie del corpo assistono impassibili. Alla fine anche l’ultima ragazza si mette in salvo in qualche modo. Finisce al pronto soccorso, dove rimedia almeno 14 punti in varie parti del capo. Ma non si accontenta di suture e cerotti: firma anche una denuncia per lesioni personali aggravate. Ed è così che la storia diventa un caso internazionale. Perché la responsabile dell’aggressione ai danni di Gabriella Engels, ventenne modella sudafricana, altri non è che Grace Mugabe, consorte di Robert, presidente dello Zimbabwe. Al momento in cui scriviamo la first lady zimbabweana è, almeno ufficialmente, latitante. Le autorità sudafricane pretendono di non sapere dove si trovi, pur dicendosi sicure che non abbia ancora lasciato il Paese. La polizia di frontiera è stata posta in allarme rosso, schede segnaletiche sono state inviate a tutti i valichi di confine. Nel frattempo è arrivato in Sud Africa anche il marito, novantatreenne, per presenziare a un vertice dei capi di Stato dell’Africa australe. Grace Mugabe non è un personaggio molto amato. Faceva la dattilografa al palazzo presidenziale quando divenne l’amante del presidente, che ha 41 anni più di lei. I due si sposarono dopo che Mugabe era rimasto vedovo; anche Grace è al secondo matrimonio. L’hanno soprannominata DisGrace, o Gucci Grace, per le spese folli che faceva durante le visite ufficiali in giro per
Robert Mugabe bacia Grace durante le cerimonie per l’anniversario dell’indipendenza. (AFP)
il mondo, finché la coppia presidenziale non è stata oggetto di un bando Onu e si è ritrovata costretta a non farsi quasi più vedere in giro. Anche se non lo ha mai proclamato apertamente, lei non nasconde l’ambizione di succedere al marito alla guida dello Zimbabwe, un momento che non può essere troppo lontano considerata l’età di lui. Di recente, in un comizio, gli ha chiesto pubblicamente di nominare un successore. Grace Mugabe non è nuova alle in-
temperanze fisiche. Almeno un paio di volte negli ultimi anni, sempre mentre si trovava all’estero, ha aggredito violentemente dei fotografi. In quest’ultimo caso tuttavia la vittima è una ragazza giovanissima, e ci sono di mezzo anche due dei tre figli della coppia presidenziale: Robert junior, 25 anni, e Chatunga, 21. I due si trovano in Sud Africa ufficialmente per studiare, ma è notorio come preferiscano dedicarsi alla bella vita.
Per quanto imbarazzante, il caso dell’aggressione al Capital 20 West potrebbe essere gestito diplomaticamente dai due governi, non fosse che entrambi sono di questi tempi estremamente indeboliti e sottoposti ad attento scrutinio interno ed internazionale. Il presidente sudafricano Jacob Zuma è appena sopravvissuto d’un soffio all’ennesimo voto di sfiducia in Parlamento; è coinvolto in numerosi scandali e accusato da più parti di considerarsi al di sopra della legge. Se dovesse concedere l’impunità alla manesca Grace – la quale peraltro ha mancato di rispetto alla giustizia sudafricana evitando di presentarsi davanti al tribunale che l’aveva convocata all’indomani dell’aggressione – la sua popolarità già in caduta libera soffrirebbe di certo un altro brutto colpo. Dal canto suo Robert Mugabe regna da quasi 40 anni su un Paese preda della violenza e della fame. Le intemperanze della moglie in uno degli alberghi più lussuosi del Sud Africa, per giunta impegnata a dare la caccia a due rampolli che conducono vita da playboy mentre i loro concittadini sono in miseria, non migliorano certo l’opinione di cui gode nel suo Zimbabwe. Ci dispiace non poter raccontare ai lettori di «Azione» come sia andata a finire la vicenda. Possiamo solo anticipare che l’unica a poter contare di guadagnarci qualcosa è la malcapitata Gabriella Engels. La sua domenica sera è finita in un incubo; ma le sue ferite si rimargineranno e la sua fama sui social è assicurata. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
Dal Ticino sette consiglieri federali
Storia Per 81 anni soltanto, sui 169 dalla nascita della Svizzera moderna, c’è stato un italofono in governo –
Chi erano e quali circostanze li hanno portati in Consiglio federale? È il momento dell’ottavo ticinese?
Roberto Porta Non ci sono regole o percorsi predefiniti per meritarsi un posto in Consiglio federale. Un principio che vale per tutti, anche per i sette politici ticinesi che finora hanno rappresentato la Svizzera italiana nel governo del nostro Paese. Ma chi erano questi sette ministri? E in quali circostanze riuscirono a entrare in governo, per ricoprire la carica politica più prestigiosa del Paese? Per prima cosa la storia ci dice che, dalla nascita della Svizzera moderna, 169 anni fa, per 81 anni soltanto c’è stato un italofono in governo. L’altra minoranza svizzera, quella romanda, ha invece sempre avuto almeno un proprio ministro. Due finora i partiti ticinesi che sono riusciti a ottenere un posto tra i «sette saggi». Il PPD, con 4 ministri, e il PLR con tre. Nessuna donna tra loro, un solo rappresentante del Sottoceneri, 2 Locarnesi e ben 4 Leventinesi. E proprio dalla Leventina giunse il primo consigliere federale ticinese. Figlio di contadini ma di solida formazione umanistica, Stefano Franscini fece parte del primo governo della Svizzera moderna, dopo essere stato consigliere di Stato in Ticino ed essersi meritato l’appellativo di «padre della patria» per la sua instancabile opera nel fare del suo cantone un Paese moderno. La sua elezione a Berna non fu però per nulla brillante. Ottenne 68 voti su 132 votanti, il bottino più scarso tra i sette eletti di quel giorno, era il 16 novembre del 1848. Franscini guidò il Dipartimento dell’interno, dove tra le altre cose gettò le basi legali per la creazione del Politecnico federale. Il Leventinese non ebbe vita facile in governo, anche per le difficili relazioni con il suo cantone di origine, tese a tal punto da rischiare di comprometterne la rielezione. Allora era indispensabile sedere in Parlamento per poter accedere al governo, e nel 1854 il popolo ticinese non riconfermò Franscini in Consiglio nazionale. Venne «recuperato» dal canton Sciaffusa che lo iscrisse nelle sue liste elettorali, mossa che gli permise di rimanere in carica, fino alla sua morte nel 1857. Gli successe Giovan Battista Pioda, di Locarno. Dapprima consigliere di Stato, Pioda entrò nel governo federale, superando al primo turno un altro ticinese, Sebastiano Beroldingen di Mendrisio. Anche Pioda assunse la guida del Dipartimento dell’interno. A lui si deve in particolare l’impulso politico per la realizzazione del traforo ferroviario del San Gottardo. Opera a cui Pioda si consacrò anche dopo aver
Da sinistra: Stefano Franscini, Giovanni Battista Pioda, Giuseppe Motta, Enrico Celio, Giuseppe Lepori, Nello Celio e Flavio Cotti (con lo scrittore Friedrich Dürrenmatt). (Keystone)
lasciato il Consiglio federale nel 1864 ed esser stato nominato ambasciatore svizzero presso il regno d’Italia. La partenza di Pioda aprì una lunga parentesi senza membri italofoni in Consiglio federale. Un’assenza di ben 47 anni dovuta anche alle continue lotte politiche intestine al canton Ticino e a una profonda incomprensione con il resto del Paese. Nel 1911, proprio per rafforzare la coesione nazionale, si voltò finalmente pagina, con l’elezione di Giuseppe Motta. A soli 40 anni e padre di 10 figli, l’Airolese fu il primo conservatore ticinese in Consiglio federale. Ministro delle finanze e, per ben 20 anni, capo della diplomazia svizzera, Motta segna di fatto un’epoca. «I giudizi divergono – scrive Franco Celio nel suo volume Gli uomini che fecero il Ticino – Se per alcuni il Motta difende al meglio gli interessi della Svizzera, per altri è troppo arrendevole, se non simpatizzante, nei confronti del regime fascista, dimostrandosi ostile ai rifugiati politici. Probabilmente la verità sta nel mezzo». Come già con Franscini e Pioda, anche a Motta, che morì in carica nel 1940, successe un altro Ticinese, Enrico Celio anch’egli conservatore. Nato ad Ambrì, Celio è eletto a sorpresa, anche
perché era poco conosciuto a Berna, benché fosse consigliere di Stato in Ticino. Per garantire al Paese la necessaria unità nel bel mezzo della seconda guerra mondiale si puntò ancora su un candidato italofono, nonostante un’azione di disturbo organizzata invano dai liberali-radicali del canton Ticino, ostili all’elezione di un altro conservatore, seppur ticinese. A Celio venne affidato il dipartimento delle Poste e delle Ferrovie. Il suo non fu di certo un compito facile, perlomeno inizialmente visto che dovette confrontarsi con l’eredità e il peso politico lasciati da Giuseppe Motta, rimasto in governo per quasi 30 anni. «La sfortuna della mia fortuna», ebbe a dire lo stesso Celio, che si dimetterà nel 1950. Passano solo 4 anni e fu subito l’ora di un altro ticinese, l’allora consigliere di Stato Giuseppe Lepori, conservatore di Massagno. Fu un’elezione a sorpresa, frutto di un’alleanza tattica tra socialisti e conservatori, che permise a questi ultimi per la prima e unica volta di avere ben tre ministri. Fu di fatto una tappa transitoria verso la nascita della «formula magica», nel 1959, con i conservatori che restituirono il piacere e permisero l’elezione di due socialisti. Lepori guidò il Dipartimento delle
poste e delle ferrovie dove affrontò tra le altre cose lo sviluppo del traffico aereo e la nascita della radio-televisione pubblica. Venne colpito da un’emorragia celebrale e lasciò il governo già nel 1954. Dodici anni dopo fu il turno di Nello Celio. Già consigliere di Stato in Ticino, il liberale radicale di Ambrì prese il posto di un ministro romando, il vodese Paul Chaudet, azzoppato dallo scandalo dei Mirages. Con la sua elezione Celio riuscì a respingere sia la forte concorrenza interna al PLR ticinese sia le ambizioni del canton Vaud, pronto a riconquistare un seggio che considerava storicamente proprio. Lo fece anche grazie al forte sostegno dei parlamentari svizzero-tedeschi, in particolare quelli vicini agli ambienti economici. Un appoggio non casuale, così almeno diranno i detrattori del ministro. In Consiglio di Stato, Celio aveva infatti promosso la nascita e lo sviluppo degli impianti idroelettrici, concedendo le acque della Val Maggia e della Valle di Blenio alle grandi società del settore che avevano sede Oltralpe. A Berna Celio fu dapprima ministro della difesa e poi delle finanze dove fu chiamato a lottare contro l’inflazione, allora molto alta, e a risanare le
casse federali. Il Leventinese era molto popolare a tal punto che il sostegno dei cittadini lo indusse a rinviare le sue dimissioni di un anno. Lasciò il governo nel 1973. Siamo così giunti al settimo e finora ultimo consigliere federale ticinese, Flavio Cotti, eletto nel 1987 al primo turno. Ministro dell’interno e poi degli esteri, il popolare democratico dovette in particolare affrontare due temi decisamente ostici: le relazioni con l’UE dopo il no popolare allo Spazio Economico Europeo e la crisi dei fondi ebraici depositati nelle banche svizzere. Lasciò nell’aprile del 1999, quando gli accordi bilaterali erano praticamente pronti per la firma conclusiva. Da allora diversi sono stati i tentativi per riportare un italofono governo, tutti falliti. Tocca ora a Ignazio Cassis provarci, in una costellazione politica che per certi versi ricorda quella di Nello Celio. Anche Cassis è chiamato a sostituire un Romando e anche lui deve saper respingere in particolare le ambizioni dei liberali radicali vodesi. Occorrerà capire se, come nel caso di Celio, riuscirà ad ottenere l’appoggio convinto dei parlamentari svizzero tedeschi. Se così fosse si potrà dire che, sì, a volte la storia si ripete. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 agosto 2017 • N. 34
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Politica e Economia
Infrastruttura dei mercati finanziari: una nuova legge rompicapo
Finanza La Finfrag, decisa dal G-20, varata in Europa nel 2012, è entrata in vigore in Svizzera nel 2016, mentre
le regole Finma varranno dal 2018. Dovrebbe proteggere le attività nei derivati, ma qualcuno teme regole troppo rigide Ignazio Bonoli Dopo la crisi – di ormai dieci anni fa – le cui conseguenze si sono trascinate per anni, il settore bancario in molti paesi, ma soprattutto in Svizzera, ha dovuto sopportare una serie di misure che spesso sono apparse esagerate. Le banche se ne sono lamentate più volte, ma evidentemente, visti i precedenti, le strette regolamentatorie non si sono allentate. Anche i rapporti fra le monete e soprattutto le tendenze di fondo, sono cambiate. Rispetto al franco svizero, il dollaro si avvicina ormai alla parità col franco, mentre anche l’euro è ormai alla soglia di 1,15 franchi per un euro. Tutto dipende ora dai possibili sviluppi delle economie americane ed europee. In ogni caso, la crisi di cui si diceva lascia ancora parecchie tracce, a partire dalla montagna di debiti accumulata da parecchi Stati, fino agli interessi negativi applicati a depositi importanti. Molte conseguenze della crisi sono tuttora visibili nelle strette regolamentazioni applicate ai mercati finanziari. Anche la Svizzera non ha potuto sottrarsi a questo movimento e – come spesso avviene – è andata molto vicino al massimo delle regolamentazioni possibili. Un esempio di questa imposizione è stato rilevato nei giorni scorsi nel
campo del commercio di derivati, le cui conseguenze vanno forse al di là delle intenzioni iniziali. In concreto si tratta della legge sulle infrastrutture del mercato finanziario (Finfrag è l’abbreviazione più usata). È entrata in vigore il 1. gennaio 2016 e si occupa del commercio di derivati fuori borsa, applicandosi a tutte le istituzioni che si occupano di questo mercato. La legge che – secondo un primo commentario – dovrebbe anche favorire un accesso al mercato dell’Unione Europea, suddivide in tre categorie gli istituti che si occupano di questo mercato: le borse, i sistemi multilaterali di scambio e i sistemi commerciali organizzati. Mentre nei primi due casi si tratta di piazze commerciali, nel terzo i sistemi commerciali organizzati non vengono considerati strutture finanziarie. Quindi non necessitano di autorizzazioni particolari, ma in pratica vengono usati da attori autorizzati del mercato finanziario: quindi banche, borse o sistemi multilaterali. L’importante per i giuristi è che il commercio avvenga secondo regole unitarie, vincolanti per l’utilizzatore Mentre si stanno facendo le prime esperienze in questo contesto, molti operatori si chiedono se le loro piattaforme siano adeguate alle nuove regole, valide per i sistemi commerciali organizzati. Regole che in questo caso sono
Mark Branson, direttore della Finma: si spera che le nuove regole definite dall’organo di controllo facciano chiarezza. (Keystone)
molto rigide. Il campo d’applicazione è comunque molto vasto. In Svizzera esistono già centinaia di queste piattaforme. È però anche possibile che altre forme di investimento (per esempio i contratti a termine) cadano sotto la legge, colpendo transazioni che finora erano eseguite senza problemi. È quindi possibile che molti operatori dei sistemi commerciali organizzati non si siano ancora resi conto di dover sottostare alla nuova legge e quindi di operare magari fuori dal qua-
dro legale stabilito. C’è quindi la possibilità che queste piattaforme debbano venir chiuse. All’inizio di quest’anno, la Finma (l’organo di controllo dei mercati finanziari) ha emanato una circolare dedicata a questi sistemi, concretizzando così le attività di sorveglianza in questo campo. Le regole Finma entrano in vigore il 1.gennaio 2018. Secondo alcuni operatori, il legislatore svizzero, con la «Finfrag», sembra voler «usare il cannone per sparare alle mosche». Sono infatti molte le
piattaforme che possono cadere sotto la nuova legislazione e dover quindi affrontare costi sproporzionati. Ne deriverebbe un danno alla concorrenza, riducendo il mercato a pochi grossi operatori. Le autorità svizzere sembrano soprattutto preoccupate di adeguarsi agli standard internazionali, senza tenere in considerazione anche le particolarità svizzere. Regole simili sono state adottate dal G-20 e nell’Unione Europea nel 2012. La legge svizzera è del 2015. Non soddisfacendo però pienamente gli standard internazionali non c’erano le premesse per un riconoscimento internazionale del commercio con i derivati. Ancora una volta la Svizzera ha reagito alle pressioni internazionali, ma, come spesso avviene, con zelo eccessivo. Tant’è che parecchi operatori del settore non sanno ancora se devono sottostare alle legge o no. Soprattutto considerato che su questo mercato parallelo (fuori borsa) vi sono parecchi piccoli operatori. Ora si spera che, con le regole dettate dalla Finma, si possa fare chiarezza a partire dall’anno prossimo. Dalle prime applicazioni dei controlli si potrà capire chi e perché è soggetto alla «Finfrag» e con quali regole. Si spera anche che, oltre alla chiarezza, la Finma possa anche operare in modo da mitigare le eventuali conseguenze negative. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 agosto 2017 • N. 34
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Politica e Economia
Qual è la differenza tra fondi a capitalizzazione e a distribuzione? La consulenza della Banca Migros Effe o degli interessi compos su diversi tassi d’interesse nell’arco di 25 anni (capitale iniziale: 10000 CHF)
Thomas Pentsy
Thomas Pentsy è analista dei mercati e dei prodotti presso la Banca Migros
Per scegliere il giusto fondo d’investimento si devono prendere innumerevoli decisioni. Ad esempio, esistono fondi a capitalizzazione e fondi a distribuzione, e spesso un singolo fondo è disponibile in entrambe le varianti. Quali sono le differenze? Le distribuzioni di un fondo d’investimento corrispondono in linea di principio ai proventi – ad esempio, interessi e dividendi – che il fondo realizza nel corso di un anno d’investimento. I fondi a distribuzione versano questi proventi ai sottoscrittori delle proprie quote, mentre quelli a capitalizzazione reinvestono costantemente i proventi realizzati nel patrimonio del fondo stesso. La differenza diventa particolarmente evidente nel giorno della distribuzione. Nel caso di un fondo a distribuzione diminuirà il prezzo delle quote del fondo. Il patrimonio del fondo finisce infatti per ridursi attraverso la distribuzione e di conseguenza anche le quote perdono valore. Al contrario, nel caso di un fondo a capitalizzazione, il prezzo delle quote rimarrà invariato oppure si ridurrà soltanto dell’importo corrispondente all’imposta preventiva. Attraverso una costante capitalizza-
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Effetto degli interessi composti su diversi tassi d’interesse nell’arco di 25 anni (capitale iniziale: 10’000 CHF).
zione, a lungo termine si ottiene un notevole aumento del patrimonio del fondo. Questo incremento è paragonabile all’effetto prodotto dagli interessi composti: prima si inizia a risparmiare, più cresce il patrimonio. Un altro vantaggio è che gli investitori non devono occuparsi del reinvestimento e, per i fondi della Banca Migros, questa operazione è gratuita.
Da un punto di vista fiscale, per i fondi svizzeri non ci sono differenze tra le varianti a capitalizzazione e a distribuzione. In entrambi i casi i proventi distribuiti o capitalizzati vanno inseriti come reddito nella dichiarazione d’imposta. Solo così è possibile ricevere il rimborso dell’imposta preventiva che ammonta al 35% dei proventi (tranne per i fondi previ-
denziali, che ne sono invece esenti). La scelta della tipologia di fondo più adatta dipende dunque dalle esigenze individuali e dalla situazione personale degli investitori. Chi ha bisogno di entrate regolari dovrebbe optare per i fondi a distribuzione; chi invece desidera accrescere il proprio capitale di vecchiaia, può orientarsi sui fondi a capitalizzazione. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Digitalizzazione e occupazione Di questi tempi, giorno per giorno, i tre candidati al Consiglio federale, rilasciano interviste e dichiarazioni sul modo nel quale considerano il futuro del nostro paese. Mentre su questioni come la relazione con l’Europa e l’immigrazione i pareri dei candidati sono diversi, sulla rivoluzione digitale in atto in numerosi rami della nostra economia, in particolare nel settore dei servizi, tutti sembrano avere la medesima opinione: si tratta di una questione vitale per il futuro dell’economia svizzera. In questo i nostri candidati sono unanimi e d’accordo con il Consiglio federale, che ha reso pubblico di recente un ulteriore rapporto tranquillizzante, e con i rappresentanti dell’industria e delle attività del settore dei servizi che pure reputano essere la digitalizzazione un’esigenza inevitabile. Candidati, Consiglio federale e rappresentanti dell’economia sono quindi unanimi
nel considerare positivo il bilancio dei possibili effetti della futura digitalizzazione. Basandosi su studi fatti da università, think tank pubblici e privati e singoli esperti, essi relativizzano anche le perdite in posti di lavoro provocate dalla digitalizzazione. È vero che la digitalizzazione eliminerà posti di lavoro (a livello svizzero si parla di perdite tra i 180’000 e i 250’000 posti, da qui al 2030) ma ne creerà altrettanti se non di più. Per il Ticino, per quanto ne sappia io, nessuno si è ancora occupato di stimare gli effetti della digitalizzazione delle attività lavorative sull’occupazione. Questo perché mettere a punto una ricerca del genere non è certo facile. Sull’evoluzione dell’occupazione nel suo complesso, e, più ancora, sull’evoluzione dell’occupazione nei singoli rami, influiscono infatti diversi fattori. Di conseguenza non è facile isolare l’effetto della digitalizzazione, separan-
dolo da quello di altri fattori come, per citarne solo uno, la tendenza di sviluppo di lungo termine dell’economia o del ramo considerato. Il giornalista che vuole rendersi conto dei cambiamenti in atto nella struttura dell’occupazione della nostra economia e di quanto la digitalizzazione delle operazioni lavorative abbia potuto incidere sugli stessi, può però procedere per ipotesi. Partendo dall’assunto che l’automazione dei processi industriali è già avvenuta, può intanto pensare che la digitalizzazione sta influenzando e influenzerà ancor di più in futuro soprattutto le attività del settore dei servizi. Come insegnano gli esempi delle ferrovie, delle poste, dei ristoranti e degli alberghi, nonché delle banche, la digitalizzazione delle attività di servizio viene portata avanti, con ritmo forzato, in particolare in quelle attività nelle quali il contatto personale con il cliente è importante.
In generale la soluzione digitalizzata elimina il personale che teneva il contatto con il cliente e carica sulle spalle del cliente l’onere di mantenere questo contatto. Esempi ce ne sono a iosa: dall’e-banking ai ristoranti fast food, dalla chiusura di stazioni ferroviarie e uffici postali agli alberghi che non hanno più una reception. Certe volte ad essere sostituito è il personale con bassa qualifica, altre volte, invece, si tratta di personale qualificato e, in certi casi, addirittura di personale specializzato. Con ciò voglio dire che nei confronti della rivoluzione digitale il livello di formazione elevato non costituisce più una certezza occupazionale. Per il momento, in Ticino, nel ramo dei servizi, la digitalizzazione non sembra aver creato problemi occupazionali. Ad eccezione del ramo degli alberghi e dei ristoranti e, esprimo però questo parere con grande cautela, in quello delle
banche. Ma in diversi rami il processo di digitalizzazione ha trasformato profondamente la struttura dell’occupazione. In generale la digitalizzazione ha fatto aumentare la quota del lavoro a tempo parziale. Vi sono poi rami nei quali il peso delle singole attività è cambiato. Per esempio, per restare al settore dei servizi, il ramo trasporti e comunicazioni. Fino quasi alla fine del secolo, la quota maggiore dell’occupazione in questo ramo era nelle attività di trasporto. Oggi, invece, per effetto della digitalizzazione vi primeggiano le attività legate alle comunicazioni. La digitalizzazione ha quindi conseguenze importanti sulla domanda di lavoro e sul tasso di occupazione. Chi predica la digitalizzazione dovrebbe perciò tenere in maggior conto del fatto che la stessa ha effetti collaterali negativi importanti sull’occupazione e che, dopo il digitale, verranno i robot.
avevano continuato a fotografare; ma la prima telefonata di allarme era venuta da uno di loro. Poi si era fermato un medico, che aveva capito subito che per Diana non c’era nulla da fare: il cuore spostato a destra dall’impatto, il capo reclinato in posizione innaturale. Si disse poi che la principessa era incinta, ed era stata assassinata dai servizi segreti inglesi, perché gli eredi al trono non potevano avere un fratellino musulmano. Tuttora molti ne sono convinti. Ovviamente, le cose sono spesso più semplici di come le vorremmo. Diana si era lasciata trascinare nel vortice folle della vita di Dodi Al Fayed, inquieto miliardario playboy. Il suo errore di gioventù era stato credere alle favole, per cui le principesse vivono felici e contente. Quando realizzò che era stata ingaggiata per recitare una parte e fare, come tutti, un mestiere, si ribellò al destino che le era stato scritto da altri. Cambiò pettinatura e look. Si riprese la sua vita, senza rinunciare a qualche privilegio della precedente. Il suo coraggio piacque un po’ a tutti, e fece sembrare vecchia e imparruccata la corte, compresa la regina, oggi di nuovo popola-
rissima. Qualcosa di Diana vive nei suoi figli e nel suo primo nipote, e alla lunga la monarchia inglese sarà modernizzata. Ma non è vero quel che è stato scritto, che la sua morte chiuse un’epoca. Gli anni Novanta della grande speranza di pace, della «fine della storia», sono finiti a New York l’11 settembre. Non sotto il ponte dell’Alma, dove si schiantò un autista ubriaco al volante di un’auto bisognosa di revisione. Nei giorni successivi ci mettemmo a caccia di notizie. Tentammo di penetrare nell’ospedale dov’era ricoverato l’unico superstite, Trevor Rees-Jones, la guardia del corpo che sedeva davanti, che ovviamente era piantonato sia dai francesi sia dagli inglesi, e oltretutto aveva perso la memoria (dettaglio che in effetti destò qualche legittimo sospetto). Ogni reporter aveva i suoi informatori e la sua pista, che ovviamente portava sempre dalla stessa parte: era stato un incidente. Ma ben presto la scena si spostò a Londra, dove migliaia di inglesi commossi portavano fiori a Buckingham Palace, dove la regina si guardava bene dal rientrare, mentre la Union Jack
garriva felice anziché essere esposta a mezz’asta. Intanto le star piangevano in pubblico, Elton John riadattava una sua canzone, Alastair Campbell coniò a beneficio di Tony Blair la definizione di «principessa del popolo», e il giovane primo ministro laburista convinse la sovrana che era il caso di tornare a Londra ed esprimere cordoglio per la morte della madre di William e Harry, vale a dire il futuro della famiglia e della monarchia. Qualche giorno dopo morì anche madre Teresa di Calcutta, girarono fotografie della suora albanese accanto a lady D, e la principessa parve sullo stesso piano della santa. Insomma, si esagerò. In realtà avevano sbagliato in due: Diana a inseguire una felicità impossibile, la famiglia reale a non valorizzare appieno l’atout di avere a Palazzo una giovane donna in cui milioni di inglesi (e non solo) potevano identificarsi. Finì in tragedia, ma la corona è ancora lì. E i tour che ancora oggi vengono organizzati a Parigi per ricostruire l’ultima notte di Diana finiscono sempre al ponte dell’Alma, accanto alla partenza di un’altra attrattiva turistica, i Bateaux Mouches.
candidato che ha avuto la sfortuna di affacciarsi proprio nei giorni in cui i media diffondevano i primi annunci, come sempre allarmanti, sui previsti aumenti dell’assicurazione malattia. Di qui la levata di scudi contro il medico-politico, stipendiato dall’associazione Curafutura. In altre parole, un deputato-lobbista (ma non è l’unico sui banchi delle Camere...). Tutto questo è grave? Faremmo torto a Cassis, e alla sua intelligenza (che ha pur sempre alle spalle impegnativi studi di medicina), se lo rinchiudessero in questa gabbia d’interessi. Fin qui ha esercitato questo mestiere, ma nella nuova compagine farà altro. Non è il primo caso, non sarà l’ultimo. Non crediamo che coltivi segretamente l’ambizione di ricoprire la carica di Alain Berset, l’attuale responsabile del Dipartimento dell’Interno, e quindi della sanità pubblica. È vero: l’aumento dei costi del sistema
sanitario è fonte di tachicardie. Nessuno sa come invertire la tendenza. Ma non è Cassis il responsabile dell’esplosione dei costi. Come ognun sa le cause di questa deriva sono molteplici: l’invecchiamento della popolazione, che richiede cure continue; la produzione farmacologica; una diagnostica sempre più raffinata, svolta con l’ausilio di tecnologie sofisticate, le terapie ecc. Chi ha la sventura di varcare la soglia di un ospedale come paziente capisce quanto complessa sia e perciò onerosa la macchina sanitaria odierna. Le aspettative sono elevate, probabilmente troppo. Cassis non avrà vita facile con il suo cantone d’origine, il quale si aspetta un soccorso diretto, una voce che difenda i suoi interessi e le sue rivendicazioni nel consesso federale. Qui si nasconde la trappola peggiore, perché il Consigliere federale non è un delegato di un cantone
o di una regione linguistica, ma il magistrato di tutti. Il rischio è che il fardello delle domande (impastate anche di frustrazioni e malumori) si ribalti tutto sulle spalle dell’eletto, che ovviamente non potrà soddisfare senza tradire la sua funzione. Un’ultima osservazione: sono pochi i politici svizzeri che possono vantare un irradiamento nazionale, con la sola eccezione dei presidenti delle principali famiglie partitiche. I più rimangono nell’ombra, sconosciuti al vasto pubblico fino all’assunzione della carica; alcuni, addirittura, non raggiungeranno nemmeno questo grado di notorietà. Fanno velo la struttura federalistica del paese, gli ostacoli linguistici, un sistema elettivo ancora basato sulla spartizione preventiva. Ma forse tutto questo non è così negativo, considerato quanto avviene all’estero con l’estrema personalizzazione dello scontro politico.
In&outlet di Aldo Cazzullo Lady D, 20 anni dalla morte Ci sono momenti in cui non sembra accadere nulla, e poi la storia ti entra in casa, anzi in camera. Saranno state le tre di notte, quando nel residence dove passavo l’estate (per sostituire il corrispondente vero della «Stampa») arrivò la telefonata del caporedattore: «Lady Diana si è schiantata in macchina, lì a Parigi. Era con Dodi. Lui è morto, lei sta morendo. Mettiti davanti alla tv e mandaci il pezzo». Il problema è che la tv francese ignorava il fatto, e quindi bisognava andare sul lungo Senna, sotto il ponte
dell’Alma, divenuto in poche ore il centro del mondo. E siccome non si poteva ammettere che la donna più famosa e amata del pianeta era morta in un banale incidente stradale, come Grace Kelly e James Dean, già circolavano voci improbabili di colpevoli e complotti. Prima si diede la colpa ai fotografi. Si disse che la Mercedes di Diana e Dodi veniva rallentata da una moto che la precedeva zigzagando, per dar modo ai colleghi di inseguirla. Si aggiunse che i paparazzi, anziché prestare soccorso,
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Come si fabbrica un Bundesrat Il preludio è stato un colpo di timpano: «occasione irripetibile». Questa era la volta buona, dopo anni di tentativi andati a vuoto, candidature improvvisate, delusioni cocenti. Il successore di Burkhalter doveva essere ticinese. L’ha scritto, a caratteri cubitali, anche il «Blick». Questa la premessa. Sennonché, nel sistema politico svizzero, di «irripetibile» non c’è nulla, una finestra si apre sempre, è solo questione di tempo. Se così non fosse, la Svizzera si condannerebbe all’autodissoluzione. È bene e sacrosanto sfruttare il momento, che oggettivamente è favorevole. Ma se dovesse andar male non stracciamoci le vesti. Altre dimissioni sono alle viste. Secondo tema. Si parla ora di «minoranze». L’una storica, quella svizzeroitaliana, assente dall’esecutivo federale da quasi vent’anni; l’altra di genere, la sotto-rappresentazione delle donne. Nel dibattito che si è sviluppato, le due
minoranze sono state poste l’una contro l’altra, come se fossero due squadre in lizza della stessa categoria. E no. La prima rappresenta la terza Svizzera, la lingua e la civiltà italiane, una tessera fondamentale del mosaico elvetico; la seconda è un problema generale, che riguarda tutti, in primis i partiti e le istituzioni con i loro meccanismi di promozione o discriminazione della componente femminile. L’impressione, insomma, è che si voglia moltiplicare i criteri per accedere all’elezione. Prima il cantone d’origine, poi il partito, l’orientamento ideologico, la lingua, la religione e ora il genere. Di questo passo il «candidato ideale» non potrà che assomigliare ad un automa costruito in laboratorio, un androide da scomporre e ricomporre in base alle esigenze contingenti. Del vero criterio che conta, la competenza, si parla raramente. E veniamo ad Ignazio Cassis, il
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 agosto 2017 • N. 34
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Cultura e Spettacoli Musica, ultima vacanza Finisce con le confessioni di Fabrizio Rosso la nostra rubrica estiva La musica va in vacanza
Il sostegno del Percento culturale Luca Corti, nuovo responsabile del Percento culturale di Migros Ticino, racconta le novità del programma 2017-2018
Finzi Pasca, un’impresa Durante un recente incontro la Compagnia ha spiegato i suoi complessi meccanismi
Regina di Saba, un mito? L’esistenza di alcuni personaggi storici è ancora tutta da provare
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L’allestimento Mortality With Vitali, curato da Peter Greenaway nella sede espositiva di Casa Manzoni. (www.archivivitali.it)
Vitale Vitali
Mostre Milano rende omaggio al pittore bellanese scoperto da Giovanni Testori
con un’ampia e articolata retrospettiva
Emanuela Burgazzoli «Nato nel 1929 a Bellano, dove vive». La biografia di Gianfranco Vitali, figlio di pescatori, è di quelle scarne, che ben si adattano a una vita forse povera di accadimenti esteriori, ma ricca di moti interiori. Poche parole che racchiudono la devozione del pittore al suo luogo di nascita, alla sua casa e ai suoi affetti famigliari, ma anche la ricercata solitudine per dedicarsi a quella che Giovanni Testori definiva la risultanza (pittorica), «un atto, o un fatto, di tutta angoscia, di tutta fatica e, dunque, di tutta e difficilissima lettura». Rileggere questi settant’anni di pittura è la sfida ora raccolta dal figlio Velasco, pittore a sua volta, che ha così compiuto come curatore un cammino filologico per rintracciare un ordine nelle storie e nei gesti dell’arte del padre, come figlio invece un percorso quasi psicanalitico che indaga un rapporto fatto di stimoli, di condizionamenti, di insegnamenti, di critiche e sfide più o meno consci, come suggerisce il doppio ritratto dipinto da Velasco Vitali nel 1988 a fine mostra. Time out, il titolo della mostra, fa
riferimento a quel tempo sospeso in cui si è ritirato Giancarlo preso dal desiderio di una pittura vera (indifferente a ogni forma di celebrazione non ha presenziato all’inaugurazione della mostra), ma anche al desiderio di Velasco di fermare il flusso delle cose per ripartire e rimettersi in gioco, ridisegnando gli schemi. Fuori dagli schemi e dalle mode è sempre stata l’arte di Gianfranco Vitali, che ha attinto dall’umanità che popola Bellano, concentrandosi già da giovanissimo sui ritratti: «Per me dipingere il volto, la testa di un uomo è come toccare la totalità.(…). Quello che io ho cercato di fare con la mia pittura è stato restituire le mie emozioni. E nessun’altra cosa mi ha mai dato emozioni più di un viso. Ma non ho fatto solo ritratti. Con la mia pittura ho cercato di raccontare un pezzo di storia, soprattutto pescando tra la «normalità» della gente comune». Una «pittura di realtà» che affonda le radici in una lunga tradizione lombarda, ma che gioca con la sua illusione, rivisitata con il gesto drammatico e trasfigurante dell’espressionista e la libertà di chi ha assimilato profondamente la le-
zione pittorica (e morale) di maestri antichi e moderni – da Goya a Velázquez a Rembrandt, da Morandi a De Pisis, da De Chirico a Sironi, da Beato Angelico a Ensor. La pittura di Vitali sorprende, travolge, invita al sorriso, come quando immortala i resti di un banchetto su una tavola abbandonata dai commensali o ritrae alcune capre o si inventa una strepitosa serie sui girasoli, giocando con un soggetto reso celebre da Van Gogh, o insegue la quotidianità lacustre con le piccole nature morte di pesci. Ma il suo paesaggio preferito, o meglio il teatro a cui guarda, resta il suo paese con i suoi personaggi – il farmacista, il prete, le «spennapolli», la matta, i contadini – che con il tempo confluiscono in scene di gruppo, raccontate con una ironia sottile in un’esplosione di colori e movimento che sottolineano il carattere farsesco di questi matrimoni, processioni e cene di lusso. «Quella del Vitali è un’ironia che, se mai, tutti, a modo suo, intende assolverci. E intende assolverci, tramite la sola carità che compete a un pittore: quella del pittorico e materico splendore»: sono sempre parole di Giovanni Testori, che nel 1983 resta folgorato dalle «macelle-
rie» del pittore di Bellano, che dedicherà allo scrittore milanese il Trittico del toro, dono a cui Testori risponderà componendo tre poesie. L’universo pittorico di Vitali dilata i suoi confini ad altri ambiti, e la mostra articolata su quattro sedi lo documenta in modo puntuale: a Castello Sforzesco è stato allestito un percorso omaggio al talento di incisore di Vitali e ai maestri da lui amati, valorizzando così anche la preziosa collezione di grafica Bertarelli; il Museo di Storia naturale espone invece i «ritratti» di fossili, la serie Le forme del tempo realizzata nel 1991 in occasione del centenario della morte del padre della geologia italiana Antonio Stoppani. L’allestimento più inaspettato però è quello che Peter Greenaway, catturato dalla «vischiosità della pittura» di Vitali, ha realizzato nelle stanze della Casa del Manzoni: vere e proprie scenografie che attraverso installazioni sonore e visive richiamano i soggetti e le atmosfere dei dipinti esposti: ci si aggira così fra le stanze come attraversando nature morte a grandezza naturale – una tavola imbandita, il banco del macellaio,
cibi pronti per essere cucinati, casacche da cuoco, scarpe e cappelli disseminati sulle scale, abiti e corredi, ma anche letti di ospedale che richiamano l’esperienza della malattia vissuta da Vitali e raccontata attraverso disegni e incisioni. Un percorso in cui sono riconoscibili le ossessioni visive del regista de Il cuoco il ladro la moglie e l’amante, ma in grado di iniettare come un fluido misterioso nuova intimità famigliare agli interni di casa Manzoni, scelti da Greenaway proprio perché non spazio asettico di un museo d’arte, ma luogo di vita vissuta (e di morte). «I quadri – scrive il regista e pittore di formazione – non appartengono a un altro mondo, sono di questo mondo. (…) Sono tutte testimonianze che ci aiutano a guardare e a vedere. E a vivere». Dove e quando
Giancarlo Vitali. Time Out. Milano, Castello Sforzesco, Casa del Manzoni, Museo Civico di Storia Naturale, Palazzo Reale. Per gli orari vedi: www.palazzorealemilano.it. Fino al 24 settembre 2017. archivivitali.com
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 agosto 2017 • N. 34
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Cultura e Spettacoli
Netflix la balena del cinema Cinematografia Il ruolo della piattaforma diventa sempre
più importante, anche più dei festival, attraendo ora pure i migliori registi
Tra carillon e autostrade La musica va in vacanza Il lavoro di
Fabrizio Rosso è il risultato della competenza tecnica mescolata al pensiero Zeno Gabaglio Fabrizio Rosso – biografia
I fratelli registi Ethan e Joel Cohen, anch’essi entrati nell’orbita di Netflix. (Keystone)
Mariarosa Mancuso
Concorso
Mentre il Locarno Festival prospera come se nel cinema nulla fosse accaduto dagli anni 70 a oggi – coltivando un suo pubblico affezionato e altrettanto nostalgico, non si spiegherebbero sennò i risultati dell’edizione appena conclusa con un Palmarès che più cinefilo non si poteva – il resto del mondo parla di Netflix. Discute e commenta non i primi piani sul volto di una contadina cinese moribonda (nel film vincitore, Mrs Fang di Wang Bing) ma gli ottimi colpi appena messi a segno dalla piattaforma streaming. Per esempio il contratto firmato con Shonda Rhimes, scrittrice e produttrice – basta citare Grey’s Anatomy, Scandal, Le regole del delitto perfetto – che ha traslocato dalla ABC verso Netflix la sua società «Shondaland». Per esempio, il progetto di una serie comica d’animazione firmata Matt Groening, il creatore dei «Simpson». Per esempio, una nuova serie western diretta dai fratelli Ethan e Joel Cohen.
Saranno targati Netflix il prossimo film di Martin Scorsese, The Irishman (con Robert De Niro, Al Pacino, Joe Pesci), e Bright, il nuovo film con il campione di incassi Will Smith. Vedremo su Netflix anche Le nostre anime di notte dal romanzo di Kent Haruf, evento speciale alla prossima Mostra di Venezia: gli attori sono Jane Fonda e Robert Redford, che riceveranno un premio alla carriera. Troppe cose e troppi nomi per far finta di niente. È su Netflix anche What Happened to Monday di Tommy Wirkola, presentato in Piazza Grande a Locarno (dal 18 agosto, per gli spettatori inglesi e americani, in altri paesi prenderà la via delle sale). Ed è su Netflix Okja di Bong Jong-ho, il film che assieme a The Meyrowitz Stories di Noah Baumbach diede scandalo a Cannes, perché non sarebbe uscito nei cinema francesi. Programmarlo nelle sale, anche poche e per un solo giorno – colpa di una legge anche più fuori dal tempo della cinefilia coltivata al Locarno Festival – obbligherebbe a tenere il
5x2 Biglietti in palio Inti Illimani Històrico Teatro di Locarno (Kursaal), sabato 2 settembre, ore 20.30
Concerto Una delle più celebri realtà musicali dell’America latina porta il suo sound folkloristico e armonico in Ticino. La band, che compie 50 anni di attività, ha vissuto una carriera artistica importante che l’ha resa un riferimento nel panorama musicale mondiale. Inti Illimani Històrico, con José Seves e Horacio Duran, ha saputo affrontare il proprio percorso creativo senza mai abbandonare le proprie radici e cercando sempre la propria patria.
giochi@azione.ch Regolamento Migros Ticino offre ai lettori di «Azione» i biglietti gratuiti per le manifestazioni organizzate con il sostegno del Percento culturale (max 2 biglietti per economia domestica). La partecipazione è riservata a chi non ha beneficiato di vincite in occasione di analoghe promozioni nel corso degli scorsi mesi. Per partecipare basta
inviare una mail entro la mezzanotte di mercoledì 23 agosto all’indirizzo giochi@azione.ch indicando il proprio nome, cognome indirizzo postale e la parola chiave «Concerto». I vincitori saranno estratti a sorte tra tutti i partecipanti e riceveranno conferma via mail. Buona fortuna!
Biglietti in palio per gli eventi sostenuti dal Percento culturale di Migros Ticino
film fermo due anni, prima di poterlo mostrare su uno schermo con abbonamento mensile. Tale risulta infatti Netflix. Non sfuggirà a nessuno che i fratelli Ethan e Joel Coen o Noah Baumbach sono registi finora coccolati dai festival cinematografici, quindi non possiamo liquidare Netflix – hanno tentato di farlo i francesi – come «la solita cattiva multinazionale americana». La situazione è più complicata e molto più interessante. Il colosso dello streaming – 104 milioni di abbonati in 190 paesi, dall’Irlanda al Giappone all’Afghanistan – non inquina, non sfrutta il lavoro minorile né va a produrre nel terzo mondo. In cambio di un obolo mensile ragionevolmente basso – meno del biglietto che si paga per un film – mette a disposizione serie, originali oppure già in onda sulla tv via cavo, documentari, registrazioni di spettacoli comici, e appunto film. Va per festival, anche, e acquista titoli non esattamente da grande pubblico (guardabili però: si possono girare bei film senza punire lo spettatore). All’ultimo Sundance Film Festival – il festival del cinema indipendente americano voluto da Robert Redford – Netflix e Amazon hanno fatto una bella campagna acquisti, facendo alzare i prezzi. E anche questo, per un cinema indipendente che sempre lamenta l’omologazione dei gusti e la scarsità dei finanziamenti, è un risultato notevole. L’ultimo numero di «Variety» dedica la copertina a Ted Sarandos, Chief Content Officer di Netflix. Passano da lui i contenuti della piattaforma, nata per distribuire DVD via posta (senza la fregatura di ritornarli, bastava infilarli una bucalettere del mitico servizio postale USA: sembra la preistoria, ma è così). «Abbiamo cominciato a produrre contenuti originali cinque anni fa», ricorda. Saggia decisione: è di questi giorni anche la notizia che Disney intende ritirare dalla piattaforma Netflix i propri film – anche i classici, anche i titoli Pixar – per avviare uno streaming suo. Racconta Ted Sarandos (greco di origine) che per accontentare gli spettatori dei diversi paesi molti sono i progetti radicati nei territori: alla mostra di Venezia vedremo Suburra, prima produzione Netflix italiana con Michele Placido nell’inedito ruolo di showrunner. E anche questa dovrebbe essere una buona notizia, per chi lamenta lo strapotere di Hollywood sul nostro immaginario. Ava DuVernay, che qualche anno fa scatenò la campagna #Oscarsowhite, loda l’apertura di Netflix alla diversità e alle minoranze. Il diavolo Netflix non sembra così brutto come lo si dipinge. Anche se i nemici dicono che si comporta come Pac Man, divorando tutto quel che trova sul suo cammino.
Nato a Torino, ha studiato pianoforte nei conservatori di Torino, Zurigo, Lugano e direzione cinematografica alla USC School of Cinematic Arts di Los Angeles. Ha partecipato a numerosi progetti nell’ambito della musica nuova – tra i vari con Karlheinz Stockhausen (per la prima esecuzione e l’incisione di Sonntags-Abschied) e Sylvano Bussotti (per la versione multimediale di «Solo» dall’opera La Passion selon Sade) – lavorando in contesti quali Berliner Festspiele, Biennale di Venezia, Hangar Bicocca a Milano, Teatro Manzoni a Bologna, Teatro Stabile di Torino e Tonhalle Zürich. Ha partecipato alla creazione delle fortunate tanto quanto atipiche rassegne Lanterna Rossa e Neon&Caffeine presso il Conservatorio della Svizzera italiana, dove è anche attivo come professore. Come regista ha curato scrittura e realizzazione di diversi cortometraggi (presentati e premiati su scala internazionale) e diretto lo spettacolo teatrale con Anahì Traversi La Extravagancia #0, selezionato per lo Schweizer Theatertreffen 2015. Nella valigia musicale
1. Un vecchio carillon – Apparteneva a mia mamma, o forse già a mia nonna, quella scatola di legno laccato, chiusa da un coperchio con impresso un
disegno orientale stile Hokusai e contenente uno specchio, già all’epoca molto rovinato. Sollevando il coperchio si attiva il meccanismo del carillon e da un sottile cassetto è possibile vedere il congegno meccanico. È un oggetto senza alcun valore artistico o commerciale, ma nella mia vita è stato determinante. Quasi fosse un altarino proibito, andavo di nascosto nella stanza dei miei genitori, lo guardavo, lo aprivo, ne venivo magicamente catturato: quel coperchio era una porta su un mondo parallelo. Il mio intimo sentimento per la musica e per l’arte è ancora legato a quei momenti in cui il suono mi trascinava verso un universo segreto e misterioso, in grado di trascendere completamente la normale vita quotidiana. 2. Il film: Fantasia – Ora è soltanto una banca, quello stupendo palazzo ottocentesco in corso Vittorio Emanuele a Torino. Ma un tempo lì c’era il Cinema Corso e, com’era uso, una volta pagato il biglietto si poteva stare in sala fino alla chiusura, come in piscina. Questo accadde quando mia madre mi portò a vedere Fantasia di Walt Disney, film che lei si dovette subire tre volte di fila. Quel che non sapeva è che io attendevo con trepidazione solo l’episodio La
notte sul Monte Calvo con le musiche di Modest Musorgskij. Il brivido che mi trasmetteva la visione della montagna che si trasforma nel Diavolo era allora incomprensibile, ma è chiaro oggi: i miei mostri più spaventosi sono la manifestazione allegorica di desideri inconfessabili e pericolosi. Grazie al film Fantasia ho imparato che metterli in scena o in musica è un modo per farli vivere e godermeli senza rischi. 3. Il libro: Sull’utilità e il danno della storia per la vita – La conoscenza della storia vissuta come adorazione del passato si può trasformare in malattia, se il «non più» si declina al presente come un categorico «mai più». Questo è l’assunto di base del terzo – e decisamente più impegnativo – oggetto che metto in valigia. Avere cultura oggi significa essere colti, cioè dotti; però questa non è una vera cultura, ma solo una specie di sapere intorno alla cultura: non sapendo ricavare niente da noi stessi preferiamo piuttosto trasformarci in enciclopedie ambulanti. Nietzsche illustra i sintomi della malattia in un artista vivente che «per forza maggiore» si ritrova a essere attivo nel presente: «si smette di credere in se stessi e si sprofonda nel deserto accumulato delle cose apprese». Questo libro aiuta a non dimenticare che senza libertà, fiducia in se stessi e una certa dose di ingenuità è impossibile agire nell’arte in modo autentico e personale. A chi si è dovuto sorbire anni di formazione accademica, consiglio di bere ogni tanto l’amara medicina distillata e conservata in questo testo. 4. L’intera A26 – La valigia dovrà essere ben grande per questo quarto oggetto: tutta intera la A26, l’autostrada che solca in direzione Nord-Sud la terra di mezzo fra Torino e Milano. La A26 in molti punti è dritta come una strada americana, è assai poco frequentata e la castrazione elettronica del radar è cosa rara, per cui i limiti sono variabili e corrispondono alla velocità che la tua auto vuole raggiungere. Dato che la casa è il luogo da cui si parte e in cui si ritorna, la A26 è la via che prima dal Monferrato e poi dal Ticino mi ha collegato al mondo, mi ha accompagnato alle porte dell’Europa, mi ha lasciato sulla pista degli aeroporti milanesi verso America e Asia, ma soprattutto è un filo d’Arianna verso il mare. Percorrendola sono stato visitato da molte idee poi confluite nei miei lavori, ho ascoltato molta musica e vissuto avventure immaginarie: quell’autostrada è testimonianza vivente che le schegge di libertà possono esistere. 5. Un mixer audio – Non importa la marca o il modello o la grandezza: il mixer audio è lo strumento per eccellenza di tutta la musica elettroacustica, sia live sia registrata. Il mixer miscela le voci, regola le proporzioni delle intensità sonore, modifica il rapporto fra i timbri creando il suono stesso del brano musicale. Un missaggio può deformare un buon brano fino a renderlo mostruoso, perché la musica – come in genere l’arte – si basa sulla ricerca del giusto equilibrio fra le parti in gioco. Il mixer è uno strumento semplice che non emette suoni ma crea gerarchie: è lo strumento del regista del suono, che non sta in gioco ma dietro al gioco. Valigia musicale
1. Un vecchio carillon 2. Il film Fantasia 3. Il libro Sull’utilità e il danno della storia per la vita 4. L’intera A26 5. Un mixer audio
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 agosto 2017 • N. 34
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Cultura e Spettacoli
Un mix di cultura formidabile
Intervista In occasione dell’uscita del nuovo
Stefano Spinelli
programma del Percento culturale di Migros Ticino abbiamo incontrato Luca Corti, responsabile del Servizio Comunicazione e cultura di Migros Ticino
Simona Sala La cultura non va solamente fatta, ma ci vuole anche qualcuno che la proponga, che la gestisca e che la sostenga. In questo senso Migros ha sempre avuto un ruolo pionieristico, riuscendo nel difficile esercizio di mantenere un equilibrio tra arte cosiddetta «alta» e arte popolare, tra generazioni diverse, ma anche tra eventi sostenuti ed eventi (co)prodotti. Il Percento culturale di Migros Ticino non fa eccezione a quella che per l’azienda fondata da Gottlieb Duttweiler è ormai una tradizione, come dimostra l’articolata serie di appuntamenti proposti nel nuovo calendario annuale. Anche quest’anno il Percento culturale di Migros Ticino è presente nella scena culturale cantonale con un ruolo di prim’ordine, ben dosato tra discipline diverse e target di pubblico particolarmente eterogenei. Quest’elasticità permette di riunire sotto lo stesso cappello eventi anche lontani tra di loro, come festival letterari, rappresentazioni teatrali e di danza, concerti di vari generi musicali, spettacoli per piccolissimi, open air rivolti agli adolescenti... In occasione dell’uscita del nuovo calendario culturale per la stagione 2017-2018 del Percento culturale di Migros Ticino (allegato a questa edizione di «Azione»), abbiamo incontrato Luca Corti, responsabile da quasi un anno del Servizio Comunicazione e cultura di Migros Ticino. Luca Corti, lei è responsabile sia della comunicazione, sia di aspetti più prettamente culturali: come si arriva ad ottenere questa doppia formazione?
Ho sempre avuto la fortuna di potermi muovere tra i due ambiti, comunicativo e culturale. Già nel corso dei miei studi – ho conseguito un Master in scienze della comunicazione all’USI di Lugano, specializzandomi in Corporate Communication – collaboravo con l’allora Dicastero Giovani ed eventi, occupandomi del cartellone culturale. Ero responsabile della Sala Metrò e coordinatore dello Studio Foce e il mio lavoro principale era proprio quello di organizzare e gestire eventi culturali. A questa attività, svolta in un secondo momento da consulente esterno, è seguita quella nel reparto marketing dell’allora Banca del Gottardo, dove organizzavo prevalentemente eventi clientelari, ma ho anche avuto modo di lavorare molto con la Galleria Gottardo di Rogantini. Sono seguiti quasi dieci anni di attività, sempre nei campi di comunicazione e cultura, per un grande rivenditore nazionale, finché
nel settembre del 2016 sono arrivato in Migros.
Come sono stati questi primi undici mesi di attività a Migros Ticino?
Molto intensi, una centrifuga, ma sono abituato a questi ritmi, è un feeling che conoscevo bene dalle mie attività precedenti. Ovviamente la cultura ora gioca un ruolo molto più importante nella mia professione, ma alcuni attori del mondo culturale non sono nuovi per me. Ho avuto modo di rendermi conto personalmente di quanto per Migros sia fondamentale il sostegno alla cultura, che è ancorato addirittura negli statuti e nella sua forma rappresenta un unicum mondiale. Poiché la situazione congiunturale attuale non è particolarmente favorevole, si assiste al disimpegno di molte aziende, ma grazie al suo mandato Migros ha la facoltà di rimanere sempre presente, diventando uno degli attori di primo piano nel panorama culturale ticinese e nazionale.
ne, ma anche nell’innovazione, nel cambiamento. Fondamentalmente la cultura è vita. Quando poi riesce a sorprenderci, la cultura diventa emozione, e devo dire che è proprio questa la parte più bella del mio lavoro.
E il suo rapporto personale con la cultura com’è?
Sono sempre stato legato e attento alle molte proposte offerte del nostro
Cantone, e nel tempo libero mi dedico con interesse alla cultura. Cerco di riconoscere i trend cantonali, ma anche nazionali. Ho constatato come in questi anni siano cambiate profondamente le modalità di scambio culturale, che ora risulta estremamente facilitato. Se un tempo era necessario spostarsi e girare per potere fruire della cultura, ora non è più così, da una parte grazie ai nuovi mezzi tecno-
logici, dall’altra perché disponiamo di un’offerta culturale davvero straordinaria proprio qui da noi. Il rischio che si corre in questi casi è che da qualche parte la qualità debba lasciare il posto alla quantità. È dunque importante mantenere sempre un occhio critico nei confronti delle proposte che ci vengono sottoposte, poiché credo che l’asticella della qualità vada sempre tenuta alta. Annuncio pubblicitario
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In quale modo Migros Ticino struttura il sostegno alle attività culturali?
Da Yvonne Pesenti-Salazar ho ereditato un piccolo gioiello, perfettamente funzionante, che ora mi impegnerò a conservare con cura e a fare crescere. La presenza del Percento culturale di Migros Ticino su tutto il territorio cantonale in modo equilibrato e il mix di target cui si rivolge, rimane senza dubbio un atout. All’interno del programma si trovano da una parte manifestazioni con una tradizione, collaborazioni di lunga data, che rappresentano la base su cui lavorare. Mi riferisco ad esempio alle stagioni teatrali di istituzioni come il Teatro Sociale di Bellinzona, il LAC di Lugano, il Monte Verità di Ascona, il Teatro San Materno, sempre ad Ascona, o il Cinema Teatro a Chiasso. Dall’altra parte però ci sono anche molte cose nuove, sempre più spesso di natura multidisciplinare. Le generazioni più giovani usano le nuove tecnologie, la cultura sta cambiando. Il mio sguardo resta dunque rivolto anche a quella che negli anni Settanta e Ottanta era considerata cultura popolar, pop o alle correnti indipendenti, alternative, urbane e suburbane. È per questo che nel programma ho deciso di inserire progetti di arte visiva e installazioni di multimedia e interaction design. Cerchiamo di mantenere una visione eterogenea delle fasce di pubblico, senza perdere mai di vista la qualità degli eventi. Come è da intendersi la cultura oggigiorno, quando tutti ne parlano?
Secondo me la cultura si trova in ogni cosa: nella storia, nella tradizio-
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Cultura e Spettacoli
La Compagnia Finzi Pasca, un’impresa culturale di prestigio
Cultura Recentemente si è tenuto al LAC un incontro durante il quale è stata illustrata la complessa macchina
organizzativa di una delle più grandi compagnie svizzera
Giorgio Thoeni Una mossa azzeccata. È il meno che si possa dire in merito all’incontro organizzato recentemente nella gran sala del LAC per dare l’opportunità a Daniele Finzi Pasca e a una significativa rappresentanza della sua Compagnia di incontrare il pubblico e di tornare su una serie di temi che hanno contraddistinto l’attività produttiva sull’arco di un anno. Tutto ciò nonostante un paio di settimane prima ci fosse già stata una conferenza stampa molto seguita dai mass-media regionali durante la quale sono state divulgate le stesse informazioni. La differenza fra i due appuntamenti è consistita nella sostanza di un atto proposto in una veste informale, che ha voluto rendere omaggio al pubblico del LAC e a quelle voci (istituzionali e private) che garantiscono un importante sostegno economico. Un evento che possiamo anche considerare preparatorio in vista del 35esimo dalla nascita della Compagnia, a cominciare dal Teatro Sunil. Sul palco abbiamo così rivisto i co-fondatori Daniele Finzi Pasca, Maria Bonzanigo, Hugo Gargiulo e Antonio Vergamini in compagnia di alcuni personaggi-chiave come Tanja Stojanovic (Logistica), Alexis
Bowles (Direzione tecnica) e Rolando Tarquini (Attore). L’attività di Daniele Finzi Pasca nel mondo è ormai diventata una macchina complessa e articolata: segno di un successo sempre crescente. Dagli spettacoli teatrali di sala impegnati in tournées mondiali alle grandi cerimonie olimpiche (Torino, Sochi), dalle regie per il Cirque du Soleil (Corteo, Luzia) e con il Cirque Éloize (Rain, Nomade, Nebbia) a quelle per le opere liriche (L’amour de loin, Aida, Requiem, Pagliacci, Carmen), dalle gigantesche celebrazioni (come il recente Montréal AVUDO) alla prossima «Fêtes des Vignerons» di Vevey (2019). Fino all’attività pubblicistica con dvd e libri come i recenti Il teatro della carezza e Nuda. Un marchio su cui continua a vegliare la sorridente e compianta figura di Julie Hamelin, ricordata e amata come motore affettivo e organizzativo al centro del respiro creativo di Daniele Finzi Pasca e di tutta la sua Compagnia. Un aspetto interessante di questa mole di attività è che all’interno dei suoi ingranaggi si fa strada una sorta di laboratorio per nuovi orizzonti tecnologici. Nello spettacolo canadese creato per il 375esimo anniversario di Montréal, ad esempio, alcune soluzioni scenografiche e luminotecniche per
Una suggestiva scena dello spettacolo Donka. (Keystone)
l’allestimento multimediale di Avudo sono state particolarmente innovative stuzzicando la curiosità di colossi come la Walt Disney Production. Non solo dunque per ila gigantesca facciata eretta sulla riva del fiume San Lorenzo nel Vieux Port: una struttura che ha «battuto» per dimensioni quella della Freitag di Zurigo con 104 containers (superficie totale 1300 mq) per proiettare le immagini filmate in 3D su un’avveniristico schermo d’acqua. Dunque
non solo fontane a specchio sulla Storia (30 fontane con un getto di 30m d’altezza), ma anche invenzioni per risolvere importanti ricadute di costi su allestimenti così faraonici. Una costante di queste produzioni che, con il passare degli anni, hanno creato attorno alla Compagnia un know-how sul quale si sono consolidate esperienze oggi alla base della formazione di giovani professionisti. Nella testimonianza di Tanja Stojano-
vic, ad esempio, non c’è solo il booking per i viaggi (qualcosa come un migliaio di biglietti d’aereo) ma anche la ricerca di come risolvere i problemi generati dalle diverse burocrazie con cui confrontarsi per ottenere permessi, certificati di transito per le scenografie (come le 8 tonnellate di materiale per La Verità) ecc. Un lavoro appassionante ma soprattutto impegnativo. Senza dimenticare gli attori, confrontati continuamente con lunghe trasferte, poco votate al turismo. Ogni spettacolo va infatti rimontato e riprovato. E, a seconda della nazione ospite, ecco che va anche controllata la memoria sul testo. Che deve essere perfetta. Stiamo parlando di spettacoli come Donka, La Verità, Per Te, Bianco su bianco, Icaro… visti e applauditi in italiano, inglese, francese e spagnolo. È il talento degli interpreti, non facile da imitare né da reperire. Qualche cifra? La Compagnia si avvale di circa 500 collaboratori distribuiti su 15 nazionalità, può contare su un budget annuale di 3,4 milioni di franchi dove le spese per le tournées assorbono più del 60 per cento. Ma il nucleo centrale di questa impresa culturale è legato alla sua sede: Lugano, il LAC. I segnali dovranno essere forti e chiari. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
La sfida è stata raccolta
Locarno Festival La settantesima edizione si è rivelata un successo, e in futuro la kermesse sarà sempre più spesso
una piattaforma dinamica per generi artistici diversi e multimediali
Nicola Falcinella Senza scandali e polemiche, una buona edizione che ha consacrato un regista dalle idee chiare e poco glamour come il cinese Wang Bing, Pardo d’oro con Mrs. Fang. Il 70esimo Locarno Festival si è chiuso con un bilancio decisamente positivo, anche se si trova davanti a nuove sfide e forse cambiamenti, come ha lasciato intendere in chiusura il presidente Marco Solari. L’insistenza sull’aggettivo «libero» in ogni occasione pubblica da parte della prima carica del festival significa qualcosa, la difesa strenua di un progetto che funziona bene e solletica diversi appetiti e interessi. Una manifestazione settantenne che si è svecchiata molto nell’immagine negli ultimi anni, al contrario di Cannes e Venezia che sembrano giganti un po’ immobili. Locarno ha cambiato denominazione senza grandi scossoni, ma forse la mancanza delle parole film o cinema nel nome si farà sentire. Nel complesso un 70esimo che ha soddisfatto quasi tutti e guarda già al futuro e a una maggiore «digitalizzazione», come ha affermato sempre Solari. Il programma è stato all’altezza: un buon concorso; una Piazza Grande senza grandi alti o troppi bassi, del resto le pellicole che accontentano tutti sono rare; sezioni parallele interessanti; la retrospettiva Jacques Tourneur si è confermata fiore all’occhiello della rassegna e ha rimesso in evidenza un cineasta importante della storia del cinema; tra i grandi personaggi presenti resterà la determinazione dell’attrice iraniana Golshifteh Farahani con le parole a sostegno delle sue connazionali. La giuria ha limitato i premi a cinque film su 18, compiendo scelte pre-
cise nelle quali si sente l’influenza del presidente Olivier Assayas (e dell’altro regista con un passato da critico, il portoghese Miguel Gomes), molto cinefile e francofile, con due riconoscimenti alla Francia e due a coproduzioni francesi. Completamente ignorati dal verdetto i quattro film statunitensi, un peccato trattandosi di lavori interessanti nella varietà di toni e rappresentativi di un cinema indipendente ancora vivo: solo Lucky di John Carrol Lynch ha ottenuto il premio della giuria ecumenica. Niente premi né per il cinema svizzero né per quello italiano, ma in entrambi i casi era prevedibile. Il cinema ticinese ha avuto anche l’onore della Piazza Grande nella serata di chiusura con il documentario Gotthard – One Life One Soul di Kevin Merz, che ripercorre in modo non nostalgico o celebrativo quasi 30 anni del gruppo rock. Il sogno di un gruppo di giovani musicisti, l’amicizia, la costruzione della band prima di arrivare al successo, le scelte, anche quelle difficili, e le crisi. Il film prodotto da Amka Films usa immagini di repertorio e interviste facendo uscire le personalità dei componenti. Il pronosticatissimo Mrs. Fang merita senza dubbio il premio, è un documentario bello e rispettoso, che racconta l’attesa della morte mentre la vita continua. Non è un prodotto che possa far fortuna al botteghino, ristretto a un circuito di nicchia fin dal tema: gli ultimi giorni di vita di un’anziana malata che abita in un villaggio rurale. Ancora poco noto al grande pubblico, Wang Bing vanta un’intensa produzione e parecchi riconoscimenti internazionali, fin da Il distretto di Tiexi (2002), selezionato più volte a Locarno, è stato
Kevin Merz, regista del film dedicato ai Gotthard, One Life One Soul. (Keystone)
in concorso alla Mostra di Venezia nel 2010 con Le fossé. Quasi scontato anche il Pardo per la miglior interpretazione femminile a
Isabelle Huppert per Madame Hyde di Serge Bozon. Un riconoscimento per la straordinaria attrice, già Excellence Award a Locarno nel 2011, che possiede
una gamma infinita di variazioni e impersona un’altra donna misteriosa che conduce le danze di una riuscita commedia nera, strana e imprevedibile. Il Premio speciale della giuria è andato a As boas maneiras dei brasiliani Juliana Rojas e Marco Dutra, una delle rivelazioni della gara, mentre 9 doigts del francese F.J. Ossang si è aggiudicato il Pardo per la miglior regia. Il Pardo per la miglior interpretazione maschile è stato assegnato a Elliott Crosset Hove per l’islandese Winter Brothers di Hlynur Palmason, un dramma tra fratelli ventenni che ha conquistato anche i giovani e gli esercenti riportando i premi Cinema e gioventù ed Europa Cinema Label. Il pubblico della Piazza Grande ha premiato la commedia americana The Big Sick di Michael Showalter, mentre Drei Zinnen – Tre Cime del tedesco Jan Zabeil ha ottenuto il premio Variety. La Settimana della critica è meritatamente andanta al documentario sloveno The Family – Družina di Rok Biček, che con l’esordio Class Enemy vinse a Castellinaria nel 2013; il Premio miglior opera prima è stato assegnato al georgiano Scary Mother di Ana Urushadze; nei Cineasti del presente Pardo al bulgaro 3/4 di Ilian Metev; per i Pardi di domani premi a Rewind Forward di Justin Stoneham per il concorso svizzero e Antonio e Catarina della portoghese Cristina Hanes tra i cortometraggi internazionali. Le giurie parallele hanno invece deciso così: premio Don Chisciotte al palestinese Wajib di Annemarie Jacir, premio Fipresci della critica all’altro cinese Dragonfly Eyes e Boccalino d’oro al turco Meteorlar di Gurcan Kelter con miglior attore a Nicola Nocella per Easy di Andrea Magnani.
Il regno della Regina di Saba, tra mito e realtà Archeologia In assenza di prove inconfutabili è a volte difficile accertare l’esistenza effettiva
di alcuni grandi personaggi storici appartenenti all’immaginario collettivo Marco Horat Il sud della Penisola araba era un tempo denominato Arabia felix, terra fertile e felice, dove era bello vivere. Il paese della mitica Regina di Saba. La storia viene tramandata sia dalla Bibbia sia dal Corano: Salomone riceve a Gerusalemme la visita della regina venuta dal lontano sud alla testa di una carovana di dromedari carichi di preziosi doni: profumi, oro, pietre preziose quale omaggio per mettere alla prova la saggezza del re attraverso degli enigmi. Di qui probabilmente la nomea di paese potente, ricco e felice affibbiato allo Yemen. Oggi invece, ironia della sorte, lo conosciamo quale paese povero, diviso, teatro di avvenimenti drammatici che certo non ne fanno una terra
felice, seppure la sua straordinaria capitale Sanaa sia protetta quale Patrimonio dell’Umanità. Insomma: realtà storica o invenzione di autori greci e romani che si intrecciano? L’archeologia deve spesso affrontare quesiti simili che trovano risposte da una parte nel lavoro scientifico di scavo e analisi dei reperti e dei documenti, dall’altra nell’interpretazione fantasiosa di alcuni dati sui quali è sempre possibile costruire castelli in aria, pur con esiti talvolta accattivanti. Se parliamo di fiction viene in mente un vecchio film oggi quasi introvabile, interpretato da un cappelluto Yul Brinner e da una giovane Gina Lollobrigida agli esordi della carriera, intitolato appunto Salomone e la regina di Saba.
Il fatto è che non esistono prove storiche inconfutabili che la regina di Saba sia veramente vissuta se non nei testi sacri, che potrebbero averla evocata solo in quanto tributaria della grandezza di Salomone; ma che potrebbero anche aver ripreso leggende tramanda-
Gina Lollobrigida in Salomone e la regina di Saba (1959). (Keystone)
te oralmente e che circolavano nella regione come successo anche per episodi relativi al personaggio di Gilgamesh. È per contro ben documentata la realtà archeologica e storica dello Yemen antico, terra fertile grazie a un sistema diffuso di irrigazione, al centro dei traffici tra Africa orientale, India e bacino mediterraneo, dove transitavano carovane che trasportavano oro, incenso, mirra, pietre preziose, tessuti pregiati e spezie su lunghe distanze, in un periodo compreso tra l’VIII secolo a.C. e il VI d.C. Quindi un paese sicuramente ricco come appunto la tradizione ci ha tramandato. Molti reperti archeologici sono stati recentemente esposti anche in una mostra all’Antikenmuseum di
Basilea: sculture e preziose statuette, testine in alabastro dai tratti raffinati, stele votive con iscrizioni e rilievi con figure antropomorfe e zoomorfe (i dromedari non mancano mai), gioielli in oro, bracciali, collane e incensieri. Poco meno di un centinaio di oggetti provenienti dal British Museum, dal Louvre, dal Museo d’arte orientale di Roma, dal Kunsthistorisches Museum di Vienna e da altre prestigiose istituzioni, raccolti per la prima volta in Svizzera per l’occasione. Con l’intento di indurre il viaggiatore curioso a percorrere, almeno idealmente, l’antica via carovaniera dell’incenso che saliva dal sud, dallo Yemen e dall’attuale Sultanato di Oman e che univa buona parte del mondo allora conosciuto. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta 500, che nostalgia! Un soprassalto di memoria involontaria è l’effetto indotto dalla copertina dell’ultimo numero di «Illustrato», il ricco House Organ della FCA, con l’immagine della mia 500 rossa. È vero, volendo essere pignoli, l’auto qui ha la targa FO 400440 mentre la mia era TO e non ricordo più che numero. Ma è in tutto e per tutto la mia, con il paraurti cromato e il tetto apribile. La copertina lancia il servizio sviluppato nelle pagine interne: la 500 compie 60 anni! È nata il 4 luglio 1957, dalla mente e dalla matita di un uomo tanto geniale quanto modesto, Dante Giacosa. Ora si mobilitano in 5000 per disegnare e progettare una nuova auto ma nessuno riuscirà più a realizzare qualcosa di simile a quel gioiello. Non basta, dopo avere coinvolto così tanti esperti, i progettisti finiscono per affidare il disegno del profilo dell’auto ai computer, che danno sempre la medesima risposta ottimale, sicché da questo punto di vista le auto si somigliano tutte. Ho collaborato in un
ruolo marginale alla mostra celebrativa dei 100 anni della Fiat, nel 1999. Durante una riunione organizzativa alla quale erano presenti i grandi capi della produzione automobilistica mi sono fatto coraggio e ho domandato: «Perché non provate a rifare la 500? I collezionisti, specie i giapponesi, fanno follie per trovare un esemplare ancora funzionante». La risposta è stata lapidaria: «Non è possibile. Con gli attuali sistemi produttivi e la sempre più elevata automazione, un esemplare di 500 verrebbe a costare uno sproposito». Conosco l’obiezione: quella 500 era l’icona dei nostri vent’anni che noi ora, attraverso di essa, rimpiangiamo. Vi ricordate? Il motore posteriore e sospeso mandava rassicuranti vibrazioni e ci sembrava di pilotare un reattore. Per scalare dalla terza alla seconda marcia era necessario fare la doppietta, andare in folle e dare un colpetto di acceleratore prima di ingranare la seconda, una soddisfazione che nessun cambio automatico sarà
mai in grado di darci. Ti faceva sentire un pilota di formula Uno e la tentazione di tagliare le curve in salita sui tornanti era irresistibile. Non c’erano tante autostrade in quegli anni. Quante multe sul Bracco! Fino a quando ho potuto ho conservato sulla patente la mia fotografia in divisa da sottotenente dell’esercito e un paio di volte è servita a farmi amnistiare da agenti rispettosi di una presunta autorità. Restituendomi la patente accennavano persino a un saluto militare. Tornavo da San Remo con un collega cameraman e dopo aver tagliato l’ennesima curva della val Roja siamo finiti in bocca alla pattuglia della Polstrada. Era il 16 agosto, la sera prima avevamo preso parte alle riprese di un incontro di boxe allo stadio. Alfredo, il mio collega, ha tirato fuori il tesserino della Rai spiegando che stavamo portando di corsa la bobina con la registrazione dell’incontro che doveva andare in onda dalla sede di Torino. Con una 500! Ci hanno creduto o
hanno fatto finta. Nel 1966, dopo esserci sposati a Torino, con mia moglie siamo partiti per Roma, dove avevamo casa, viaggiando con armi e bagagli nella 500 rossa per 14 ore. Non sono l’unico a provare nostalgia per quell’auto, come un rabdomante trovo dappertutto le sue tracce. Per esempio in un romanzo francese fra i più belli e coinvolgenti che mi sia capitato di leggere di recente, Il nascondiglio di Christophe Boltanski, edito da Sellerio, storia della sua famiglia di ebrei originari di Odessa e residenti a Parigi, prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale. Nato nel 1962, l’autore la ricorda così: la 500 «somigliava a una boccia di pesci rossi, a un sottomarino tascabile, a un ufo, e io, in quanto passeggero, a un marziano catapultato nel suo paese d’origine (...) I francesi l’avevano soprannominata “il vasetto di yogurt”. Il pianale rasentava il suolo, la lamiera era sottile come un foglio di carta. (...) Rannicchiato in posizione fetale all’interno di quel
cassone ovoidale, in quell’utero su ruote guidato da mia nonna, ero esposto agli sguardi degli altri e stranamente invisibile nel tumulto cittadino». A ogni Natale regalo a tutti, parenti e amici, lo stesso libro, incurante del fatto che alcuni non coltivino il vizio di leggere. Ho deciso che il mio regalo delle prossime festività sarà questo stupendo romanzo famigliare raccontato stanza per stanza, a cominciare dall’auto parcheggiata in cortile. «La Fiat Cinquecento costituisce la prima stanza della casa di rue de Grenelle, il suo prolungamento, il boccaporto, la parte mobile, la camera fuori le mura, i suoi occhi, il suo bulbo oculare. Al pari di un focolare, rappresenta un universo finito, rotondo, liscio, caldo e rassicurante come un angolo del camino. Più che un mezzo di locomozione, è a suo modo un habitat (...)». Il prossimo 9 settembre, al festival di Mantova, dialogherò in pubblico con l’autore. Sarà per me l’occasione di dirgli grazie.
riporta alle «correzioni» di Aristotele, e ci spinge a dire che probabilmente sì, stare con gli amici allieta la vita e la vacanza. Abbiamo trovato un primo ingrediente della felicità. Per il secondo, torniamo ai due bambini. Non basta l’istintiva ricerca della comodità per spiegare tale attaccamento per i cuscini e la posizione spaparanzata in due coetanei nel pieno delle forze e distanti chilometri l’uno dall’altro. I bambini non volevano tutti diventare astronauti, Superman, l’Uomo Ragno? Non c’è nulla di eroico e attraente in salotto, davanti alla televisione. E non possiamo neanche parlare di eccessiva esposizione mediatica, Giorgio ha il permesso di usare l’i-pad per trenta minuti al giorno, Albert ci ha un po’ giocherellato senza passione in viaggio. Spostiamo lo sguardo, andiamo alle madri. La mamma di Giorgio gli sta facendo studiare una terza lingua, praticare un paio di sport, frequentare una scuola a tempo pieno, non italiana. La mamma di Albert, per trovare quello a
lui più adatto, gli ha fatto provare una decina di sport: tennis, calcio, nuoto, pallavolo, pallacanestro… Questi due bambini, in pieno agosto quindi in piena vacanza, sono stanchissimi. Estate e inverno devono imparare, dimostrare, avanzare. Come vorrebbero invece non rendere conto a nessuno, non faticare, farsi i propri comodi così, per farseli. Interessante, tolto quel briciolo di pigrizia ed egoismo che accompagna gli umani – e che nei bambini è ancora ben visibile, nessuna ipocrisia è capace di occultarlo –, tolto quello appare ancora una volta il valore di un’opera gratuita. Poltrire senza scopo sembra rendere felici i due piccoli. Così come amare non per «desiderio forsennato di ciò che ci sfugge» (ancora Montaigne), con lo scopo dunque di esaudirlo e calmarlo, questo è l’amore di amicizia, che è gratuito, senza altri fini che non siano riconoscersi nell’amico come «un altro se stesso» e tuttavia non lo stesso. Che gratuità davvero possa non limitarsi a far rima con felicità?
amici che spezzano la catena. Vi si raccontano parabole superstiziose con finali demenziali, del tipo: «Se non hai bisogno di Dio ignora questo messaggio e non lo diffondere… Il presidente dell’Argentina lo ha ricevuto, lo ha ignorato e dopo 8 giorni è morto suo figlio. Un signore lo ha ricevuto, l’ha moltiplicato e ha vinto alla lotteria». Bugie in forma di minacce da quattro soldi, ricattini repellenti che agiscono sulla scaramanzia al puro scopo di spaventare gli ingenui (1 a chi li invia, 2 a chi ci casca e li diffonde, –1 ai genitori che non puniscono i figli diffusori di scemenze del genere, magari ritirando loro per una giornata, o due o tre…, l’oggetto del desiderio). Tra le numerose idiozie di questa caldissima estate 2017 c’è anche il tormentatone canoro Despacito (4+), parodiato dalla meridionalista Infradito del pugliese Enzuccio (5–): «Ahhh, ho mangiato assai… quest’anno si rimor-
chia solo in infradito… Carlo Conti m’ha invidiato pure il colorito… il Sud è pieno di gnocca… e se vuoi fare il figo mettiti l’infradito…». Ma la vera regina delle idiozie resterà, purtroppo, nella storia: «La follia, l’indecenza di questi mesi», l’ha definita il direttore di Radio Deejay, Linus (5½ all’intuizione). Qual è? Oggettivamente e di gran lunga la più autentica immonda idiozia degli ultimi tempi è la cifra (250 milioni di euro) pagata per un calciatore, Neymar. È moralismo dire che quella cifra è vergognosa in un mondo in cui si discute tutti i giorni della povertà crescente e dell’insostenibilità dei migranti poveri nell’occidente in crisi economica? Moralismo? Moralità civile, piuttosto. Mai confondere la maleducazione con il razzismo, mai confondere il moralismo con quel minimo di moralità civile indispensabile anche in un’estate volgare come questa.
Postille filosofiche di Maria Bettetini La felicità è poltrire Giorgio è un bambino di nove anni perfettamente bilingue. In pizzeria, una sera d’estate, si parla di scuole e università, interviene: «I wan’t go to the college, I’ll go to the divanege». Da grande niente college, voglio starmene sul divano! A poche ore di distanza, in treno di ritorno dal mare, una mamma orgogliosa del suo bimbo di dieci anni parla in sua presenza col vicino: «Andrà in quinta elementare, poi le medie, il liceo, magari scientifico che è bravo in matematica, e poi fisica, no ingegneria». Il piccolo Albert: «Io voglio andare solo sul divano». Il comune interesse di Giorgio e Albert per il mobile più comodo della casa (e meglio posizionato, di solito di fronte a un televisore) credo che sia un ottimo incipit per la seconda puntata della Postilla sulla felicità umana in vacanza. Due settimane fa avevamo filosofeggiato su quanto sia difficile raggiungere quello che sembrerebbe il più ovvio e banale scopo delle vacanze, ossia essere felice come quei bellissimi giovani che reclamizzano creme,
telefoni, gelati, e anche resort e villaggi. Ora, i due bambini sembrano avere idee chiarissime: la felicità massima per loro si raggiunge oziando sul divano, e questo sperano di poter fare per il resto dei loro giorni, beatamente ignari di come la vita, la società, la famiglia, insomma tanti e tante, chiederanno loro di fare, e ancora fare e strafare, felici o no poco importa. Noi siamo invece più consapevoli di come trascorrano le giornate degli adulti, quindi cercando almeno nelle vacanze un po’ di felicità siamo stati spinti a chiederci che cosa sia la felicità, in vacanza o meno, e non ci sono state di grande aiuto le risposte dei primi filosofi interpellati: felicità è contemplare le idee, soprattutto l’idea del bene, secondo Platone; felicità è pensare a ciò che più di tutto è degno di esser pensato, ovvero il pensiero che pensa se stesso. Per fortuna l’autore di questo scioglilingua, Aristotele, aggiunge poi che senza amici, salute e un minimo di benessere la felicità appare ben ardua da raggiungere. C’è
chi poi ha detto che felicità è non provare niente, così da evitare al massimo le sofferenze. Certo, cari Epicurei e Stoici, a prezzo però di enorme fatica, di perdersi le emozioni belle e positive, di rimanere isolati e senza affetti né amori, e allora di quale felicità staremmo parlando? Quale vacanza potrà mai contribuire alla nostra felicità, se non potremo godere di nessuno dei suoi benefici, innanzitutto quello di stare in compagnia delle persone cui siamo legati da liberi legami? Che fare allora? Forse il segreto della felicità è proprio nei lacci d’amore. Montaigne però ci mette in guardia. Scrive nei suoi Saggi che il fuoco dell’amore è «cieco e volubile, ondeggiante e vario, fuoco di febbre, soggetto ad accessi e pause». Un ben cattivo padrone. Meglio, per il filosofo francese, l’amore d’amicizia, «un calore generale e totale, del resto temperato e uguale, un calore costante e calmo, tutto dolcezza e nitore, che non ha nulla di aspro e di pungente». Questa è una buona compagnia, che
Voti d’aria di Paolo Di Stefano Diverse sfumature di idiozia estiva L’estate della volgarità. Due turisti in costume da bagno sono stati fotografati dentro la chiesa della Madonna di Portosalvo a Sapri, nel Cilento. Sempre turisti: a Roma stranieri in villeggiatura bivaccano tranquillamente nelle aree archeologiche o fanno lo shampoo dentro le fontane storiche. A Venezia un gruppo di giovani belgi, all’alba, si lancia dentro il Canal Grande. Una donna di 26 anni circola nuda (solo la borsa a tracolla) per le vie del centro di Bologna. L’estate ci rende peggiori?, si è chiesto lo scrittore Paolo Di Paolo sulla «Repubblica». Forse. Ma confonde alquanto le cose quando a queste evidenti manifestazioni di stupidità e/o maleducazione e/o cafonaggine aggiunge il triplice cartello che nelle toilette di un agriturismo segnala, oltre agli spazi per uomini e donne, anche un gabinetto apposito per i gay. Che è una inequivocabile forma di razzismo. Così come è
razzista il cartello che in un albergo di Arosa esorta gli ebrei (e solo gli ebrei) a farsi la doccia prima di entrare in piscina. Così come è razzista il rifiuto a un concorso canoro di Verona subìto da una ragazza perché nera. A nulla è servito che Dora abbia fatto presente che essendo italiana aveva tutto il diritto di partecipare. Le è stato risposto che «italiani si nasce non si diventa!». Forse involontariamente parafrasando il Totò di «signori si nasce e io lo nacqui…». Mai confondere la volgarità, la maleducazione o la stupidità con il razzismo. Diciamo che se il primo gruppo si merita un 3 nella pagella dei voti d’aria, gli ultimi tre casi non sfuggono a un 1 seguito da parecchi meno. Razzisti si nasce? Non è detto, lo si può sempre diventare. Che cosa resterà dell’estate 2017? Non solo briciole di stupidità. Come quella del sindaco di Viareggio (2–) che, essendo in bermuda, è stato cacciato
da un club velico della sua città dove era previsto un abito da sera. La sua reazione? «Non sono uno straccione: è umiliante essere buttati fuori per un paio di pantaloncini costati 250 euro»… Stupidità cafona: e allora se fossero costati 30 euro, sarebbe stato giusto cacciarlo? Tra le tante tendenze della stagione, Marco Belpoliti segnalava giustamente la crescente dipendenza dal cellulare: la chiamata gratuita (o quasi) ha favorito il telefonino incollato all’orecchio. C’è un proverbio salentino che dice più o meno: quando è gratis ungimi tutto… Si narra che in origine quella frase, riferita all’olio dell’estrema unzione, sia stata rivolta al prete da un avaro disteso sul letto morte. È gratis? Mandiamo catene di Sant’Antonio a gogò. È lo sport preferito dai preadolescenti che smanettano con WhatsApp: mandare delle deliziose chat in cui si augurano anni di sfiga o la morte istantanea agli
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 agosto 2017 • N. 34
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Idee e acquisti per la settimana
shopping Il cetriolo: leggerezza stagionale
Giovanni Barberis
Attualità Rinfresca e arricchisce la nostra tavola con pochissime calorie
Il cetriolo nostrano (a sinistra ) e quello da insalata o tipo olandese.
Sono ben 150 le tonnellate di cetrioli che ogni anno vengono prodotte nel nostro cantone. Le due principali tipologie coltivate sono il cultivar cetriolo da insalata (olandese) e il nostrano. La coltivazione (in pieno campo, in tunnel o in serra) avviene in due cicli, il primo primaverileestivo, seguito dal ciclo estivo-autunnale, mentre il periodo di produzione va da metà maggio a metà ottobre. Il cetriolo
tipo olandese da insalata fu selezionato nei Paesi Bassi verso il 1900 e si distingue per la sua forma allungata, sottile, con buccia liscia di colore verde scuro e per la sua ricchezza d’acqua. Il cetriolo nostrano è invece di dimensioni più ridotte e possiede una buccia rugosa. Viene coltivato anche in piena terra ed è apprezzato per il suo sapore delicato. Il cetriolo è originario dell’India, dove è
conosciuto da oltre 3000 anni. Appartiene alla famiglia delle cucurbitacee, la medesima delle zucche. Essendo composto d’acqua nella misura del 95%, con sole 12 kcal per 100 grammi, è uno degli ortaggi con meno calorie in assoluto, pertanto molto indicato per coloro che desiderano tenere sotto controllo la linea. Altri preziosi componenti come vitamine e sali minerali sono contenuti principalmente
nella buccia, quindi si consiglia di consumarli senza pelarli. Il cetriolo è inoltre un eccellente ingrediente nelle maschere per il viso, grazie alle sue proprietà rinfresca, depura e lenisce la pelle. Una volta acquistati, i cetrioli si conservano in frigorifero alcuni giorni e non dovrebbero essere tenuti vicino ad altra frutta o verdura che rilasci etilene. Cosa ne direste di un gustoso aperitivo
a base di cetrioli? Pelare un cetriolo tipo olandese, dividerlo in due, privarlo dei semi e tagliarlo a pezzettini. Sminuzzare un cipollotto e frullarlo insieme al cetriolo, un quarto di mazzetto di aneto tritato, due cucchiai di succo di limone, un decilitro di panna semigrassa e due decilitri di brodo di verdura. Tenere in frigo per un’oretta, salare, pepare e servire in bicchieri di vetro.
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Idee e acquisti per la settimana
Gusto e benessere con la tisana nostrana Sapore rinfrescante, contenuto di zucchero ridotto e proprietà salutari caratterizzano la Tisana Nustrana che, da giovedì a sabato prossimi, potrete degustare nelle principali filiali Migros. Questa tisana biologica molto apprezzata in estate è preparata dalla Sicas SA di Chiasso, azienda attiva nella produzione delle amatissime gazose nostrane. Per preparare questa deliziosa bevanda vengono messe in infusione cinque erbe officinali a cui sono riconosciute proprietà benefiche sull’intero organismo. Le erbe sono coltivate secondo i criteri dell’agricoltura biologica, lavorate ed essiccate al laboratorio protetto Orto Il Gelso di Melano. Appartenente alla Fondazione San Gottardo, la struttura è attiva nell’accoglienza e l’accompagnamento di persone disabili. La tisana nostrana si contraddistingue per utilizzo di estratti di cinque erbe officinali. La lippia citriodora (o verbena odorosa), già utilizzata da celti e romani per le sue virtù digestive e benefiche per l’apparato gastro-intestinale. Le proprietà antinfiammatorie, digestive e rinfrescanti sono le peculiarità della melissa, pianta aromatica molto antica. Le foglie dal profumo delicato e caratteristico di mentha citrata e piperita vengono riconosciute come toccasana in caso dei più comuni disturbi dello stomaco. Infine, la salvia officinalis (il nome deriva dal latino salvare) è impiegata da secoli anche come pianta medicinale per la sua azione anti traspirante, antisettica, febbrifuga e digestiva.
Illustrazioni Sergio Simona
I benefici delle erbe officinali
Tisana Nustrana Bio 6 x 50 cl Fr. 9.10 invece di 11.40 Azione valida dal 22 al 28.8
Piatti sani ed equilibrati
Attualità Attribuito il marchio «Fourchette
verte» al Ristorante Migros di Grancia
Il ristorante Migros di Grancia riceve la certificazione «Fourchette verte»: da sinistra, Rinaldo Rossi, membro di comitato Fourchette verte Ticino; Christine Massera, responsabile operativa Fourchette verte Ticino; Giuseppe Varvaro, chef di cucina Ristorante Migros Grancia; Franco Sticca, gerente Ristorante Migros Grancia e Simona Gerosa, Marketing Ristorazione Migros Ticino. (Giovanni Barberis)
Dopo i Ristoranti Migros di S. Antonino, Agno e Serfontana, ecco che negli scorsi giorni anche il punto di ristoro di Grancia ha ottenuto il marchio «Fourchette verte» dall’omonima associazione per il fatto di, citiamo, «proporre un menu quotidiano sano ed equilibrato nel rispetto dei criteri della piramide alimentare, offrire pasti in un ambiente sano e senza fumo, effettuando la separazione dei rifiuti». Nata in Ticino nel 2000, «Fourchette verte Ticino» si occupa di promuovere delle corrette abitudini alimentari non solo nel mondo della ristorazione, ma anche nella vita quotidiana dei consu-
matori. Un’alimentazione equilibrata, secondo i criteri richiesti dall’associazione, deve comprendere varietà, verdura e frutta in abbondanza, cereali possibilmente integrali, una giusta parte di alimenti ricchi di proteine e grassi di buona qualità in piccole quantità. L’associazione si impegna nella promozione di modelli di alimentazione e di vita sani nell’ambito della promozione della salute e della prevenzione di alcune malattie. Il marchio è accessibile a tutti i gerenti di locali di ristorazione che propongono piatti del giorno equilibrati. In Ticino le strutture certificate da «Fourchette verte» sono 260. www.fvticino.ch
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Idee e acquisti per la settimana
Pronti in padella in pochi minuti I due nuovi prodotti della linea Campese del noto marchio italiano Amadori sono un autentico piacere gastronomico. Il Campese è un pollo d’eccellenza, accuratamente selezionato tra le migliori razze, viene allevato all’aperto in totale libertà. 100% italiano, la sua alimentazione è costituita integralmente da foraggi vegetali come cereali e soia arricchiti con
sali minerali e vitamine, senza introdurre alimenti OMG. In tutte le fasi di lavorazione del Campese si utilizzano esclusivamente fonti di energia rinnovabile, nella fattispecie eolico, fotovoltaico e biomasse. La saporita e delicata carne di questi polli è soda e consistente: in cucina dà vita a piatti versatili, buoni e di qualità, pronti in padella in poco tempo.
Tagliata di petto di pollo con salsa al pepe rosa e foglie di barbabietola Ingredienti per 4 persone 2 confezioni di tagliata di petto di pollo · 200 g di panna liquida · 20 g di pepe rosa in salamoia · 1 barbabietola cruda · olio · sale e pepe qb Tagliata di petto di pollo Campese 100 g Fr. 2.15
Fettine sottili di pollo Campese 100 g Fr. 2.20
Preparazione Tagliare la barbabietola a dischetti sottili e cuocerli in acqua bollente
salata per 30 secondi. Scolare e lasciar raffreddare. Per la salsa portare ad ebollizione la panna, aggiungere il pepe rosa e un pizzico di sale. Frullare e fare restringere sul fuoco. Cuocere la tagliata in padella con poco olio per 15 minuti, salare e pepare. Impiattare i bocconcini di tagliata, mappare con la salsa e aggiungere i dischetti di barbabietola.
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Idee e acquisti per la settimana
Non può fare a meno degli Zwieback: da 40 anni Ivanca Stojcevic lavora alla produzione di Zwieback presso Midor. Noi firmiamo. Noi garantiamo.
Ivanca, una vita trascorsa tra gli Zwieback
Gli Zwieback vengono prodotti da secoli. Dal 1930 anche dall’industria Migros Midor, dove già da 40 anni è Ivanca Stojcevic che si occupa del popolare e tradizionale biscotto. Con il suo team provvede affinché vengano imballati in modo perfetto Testo Thomas Tobler; Foto Paolo Dutto
Star della settimana
L’inimitabile Gli Zwieback sono un classico dell’assortimento Migros. Prodotti secondo la ricetta tradizionale, forniscono preziose vitamine e minerali, in particolare ferro e vitamina B. Dei soli Zwieback Original, ogni anno in Svizzera Migros vende all’incirca 40 milioni di confezioni.
Indovinello
Le prime ricette degli Zwieback appaiono negli scritti degli antichi greci. Anche nei negozi Migros il tradizionale biscotto secco è presente ormai da qualche tempo: gli Zwieback giunsero infatti sugli scaffali nel 1930, quindi prima che l’azienda producesse per esempio cioccolato o yogurt, due generi alimentari che vennero inseriti nell’assortimento solamente un anno più tardi. Da allora l’azienda dell’industria Migros Midor di Meilen, ZH, si occupa della produzione degli Zwieback. Circa tre volte alla settimana 15 000 confezioni lasciano gli impianti di lavorazione, ciò che corrisponde a circa 1500 pacchetti ogni ora. Ivanca Stojcevic si occupa di un ruolo centrale del processo di produzione, e ciò già da oltre 40 anni. Nata in Croazia, giunse in Svizzera a metà degli anni Settanta e da allora lavora per Midor. «Mio marito trovò un’occupazione qui. Tramite lui, dopo poco tempo approdai anch’io nell’azienda di produzione Migros. Siamo stati colleghi per 30 anni, dieci dei quali trascorsi alla lavorazione degli Zwieback», racconta Ivanca Stojcevic. Lavoro manuale necessario
Nel frattempo suo marito è andato in pensione e Ivanca Stojcevic è diventata responsabile del confezionamento degli Zwieback, posizione che ha raggiunto dopo aver portato a termine numerosi corsi di formazione interna e dopo aver lavorato in diversi reparti. Oggi trasmette le sue molteplici competenze tecniche alle colleghe e ai colleghi più giovani. «In tal modo il mio lavoro è variegato. Grazie alla mia esperienza succede che io venga chiamata a un’altra linea per dare una mano. Di conseguenza le mie giornate di lavoro sono molto diverse l’una dall’altra». Così come in passato, ancora oggi per produrre gli Zwieback il lavoro manuale è in parte necessario. Prima che vengano avvolte nella brillante carta stagnola, Ivanca Stojcevic e i suoi collaboratori posizionano le singole fette biscottate sul nastro alimentatore della macchina imballatrice. Sebbene nel corso degli anni
le apparecchiature tecniche per la produzione degli Zwieback siano cambiate – sono più produttive ed efficienti – la procedura in sé è rimasta la stessa. L’impasto di farina di frumento, lievito, zucchero, olio di girasole, sale, uova e latte viene cotto a 200 gradi. Tutta la farina è di origine svizzera. Dopo una prima cottura il cosiddetto «Einback» (cotto una volta) viene messo a riposare per un giorno intero, per poi essere tagliato a fette sottili, che vengono infine nuovamente infornate per buoni 20 minuti. L’impasto viene cotto due volte e può quindi essere chiamato «Zwieback». Attualmente Midor produce cinque differenti varietà di Zwieback: i famosi Original, disponibili anche in formato mini, oltre agli Zwieback di spelta originale, i Fitness (senza aggiunta di zucchero), così come gli integrali di qualità bio.
Da quando l’impresa Migros Midor produce gli Zwieback? Rispondi alla domanda su www. noi-firmiamo-noi-garantiamo. ch/star-della-settimana e vinci una carta regalo Migros. In palio carte regalo Migros per un valore totale di 150.– franchi.
«Come una grande famiglia»
Ivanca Stojcevic e i suoi sette collaboratori partecipano anche all’ultima tappa di lavorazione dei tradizionali biscotti, quando vengono preparati per essere trasportati nelle filiali. Si assicurano che gli Zwieback giungano nei punti vendita imballati in modo perfetto. Ivanca Stojcevic: «Controlliamo che il grado di cottura e la data di scadenza siano corretti e che le confezioni siano sigillate ermeticamente». Con regolarità, vale a dire una volta ogni ora, vengono effettuati dei controlli di qualità. I pacchetti vengono infine fatti passare da un apposito rivelatore che evidenzia l’eventuale presenza di corpi estranei. «Nel corso degli anni la qualità generale della produzione è migliorata e di conseguenza anche la qualità del prodotto. Nel contempo oggi si produce chiaramente di più e più velocemente», racconta Ivanca Stojcevic. L’anno prossimo in calendario c’è il suo sessantesimo compleanno. «Continuerò a lavorare alla Midor. Qui ci sentiamo come in una grande famiglia e non ho perso la passione per gli Zwieback. A casa ne ho sempre una confezione in dispensa.»
M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche gli Zwieback.
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Idee e acquisti per la settimana
Non può fare a meno degli Zwieback: da 40 anni Ivanca Stojcevic lavora alla produzione di Zwieback presso Midor. Noi firmiamo. Noi garantiamo.
Ivanca, una vita trascorsa tra gli Zwieback
Gli Zwieback vengono prodotti da secoli. Dal 1930 anche dall’industria Migros Midor, dove già da 40 anni è Ivanca Stojcevic che si occupa del popolare e tradizionale biscotto. Con il suo team provvede affinché vengano imballati in modo perfetto Testo Thomas Tobler; Foto Paolo Dutto
Star della settimana
L’inimitabile Gli Zwieback sono un classico dell’assortimento Migros. Prodotti secondo la ricetta tradizionale, forniscono preziose vitamine e minerali, in particolare ferro e vitamina B. Dei soli Zwieback Original, ogni anno in Svizzera Migros vende all’incirca 40 milioni di confezioni.
Indovinello
Le prime ricette degli Zwieback appaiono negli scritti degli antichi greci. Anche nei negozi Migros il tradizionale biscotto secco è presente ormai da qualche tempo: gli Zwieback giunsero infatti sugli scaffali nel 1930, quindi prima che l’azienda producesse per esempio cioccolato o yogurt, due generi alimentari che vennero inseriti nell’assortimento solamente un anno più tardi. Da allora l’azienda dell’industria Migros Midor di Meilen, ZH, si occupa della produzione degli Zwieback. Circa tre volte alla settimana 15 000 confezioni lasciano gli impianti di lavorazione, ciò che corrisponde a circa 1500 pacchetti ogni ora. Ivanca Stojcevic si occupa di un ruolo centrale del processo di produzione, e ciò già da oltre 40 anni. Nata in Croazia, giunse in Svizzera a metà degli anni Settanta e da allora lavora per Midor. «Mio marito trovò un’occupazione qui. Tramite lui, dopo poco tempo approdai anch’io nell’azienda di produzione Migros. Siamo stati colleghi per 30 anni, dieci dei quali trascorsi alla lavorazione degli Zwieback», racconta Ivanca Stojcevic. Lavoro manuale necessario
Nel frattempo suo marito è andato in pensione e Ivanca Stojcevic è diventata responsabile del confezionamento degli Zwieback, posizione che ha raggiunto dopo aver portato a termine numerosi corsi di formazione interna e dopo aver lavorato in diversi reparti. Oggi trasmette le sue molteplici competenze tecniche alle colleghe e ai colleghi più giovani. «In tal modo il mio lavoro è variegato. Grazie alla mia esperienza succede che io venga chiamata a un’altra linea per dare una mano. Di conseguenza le mie giornate di lavoro sono molto diverse l’una dall’altra». Così come in passato, ancora oggi per produrre gli Zwieback il lavoro manuale è in parte necessario. Prima che vengano avvolte nella brillante carta stagnola, Ivanca Stojcevic e i suoi collaboratori posizionano le singole fette biscottate sul nastro alimentatore della macchina imballatrice. Sebbene nel corso degli anni
le apparecchiature tecniche per la produzione degli Zwieback siano cambiate – sono più produttive ed efficienti – la procedura in sé è rimasta la stessa. L’impasto di farina di frumento, lievito, zucchero, olio di girasole, sale, uova e latte viene cotto a 200 gradi. Tutta la farina è di origine svizzera. Dopo una prima cottura il cosiddetto «Einback» (cotto una volta) viene messo a riposare per un giorno intero, per poi essere tagliato a fette sottili, che vengono infine nuovamente infornate per buoni 20 minuti. L’impasto viene cotto due volte e può quindi essere chiamato «Zwieback». Attualmente Midor produce cinque differenti varietà di Zwieback: i famosi Original, disponibili anche in formato mini, oltre agli Zwieback di spelta originale, i Fitness (senza aggiunta di zucchero), così come gli integrali di qualità bio.
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«Come una grande famiglia»
Ivanca Stojcevic e i suoi sette collaboratori partecipano anche all’ultima tappa di lavorazione dei tradizionali biscotti, quando vengono preparati per essere trasportati nelle filiali. Si assicurano che gli Zwieback giungano nei punti vendita imballati in modo perfetto. Ivanca Stojcevic: «Controlliamo che il grado di cottura e la data di scadenza siano corretti e che le confezioni siano sigillate ermeticamente». Con regolarità, vale a dire una volta ogni ora, vengono effettuati dei controlli di qualità. I pacchetti vengono infine fatti passare da un apposito rivelatore che evidenzia l’eventuale presenza di corpi estranei. «Nel corso degli anni la qualità generale della produzione è migliorata e di conseguenza anche la qualità del prodotto. Nel contempo oggi si produce chiaramente di più e più velocemente», racconta Ivanca Stojcevic. L’anno prossimo in calendario c’è il suo sessantesimo compleanno. «Continuerò a lavorare alla Midor. Qui ci sentiamo come in una grande famiglia e non ho perso la passione per gli Zwieback. A casa ne ho sempre una confezione in dispensa.»
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 agosto 2017 • N. 34
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 agosto 2017 • N. 34
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Idee e acquisti per la settimana
TerraSuisse
Nei campi e sulla tavola
I contadini svizzeri che coltivano cereali seguendo le linee guida di IP-Suisse si impegnano a favore di un uso restrittivo di pesticidi e nella promozione della biodiversità. Tutto ciò a beneficio della natura. Anche i panettieri della Migros sanno apprezzare i cereali IP-Suisse, con i quali preparano pani TerraSuisse particolarmente ariosi e gustosi Testo Claudia Schmidt; Foto Mischa Imbach; Styling Irene De Giacomo
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 agosto 2017 • N. 34
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 agosto 2017 • N. 34
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Idee e acquisti per la settimana
Suggerimenti la baguette e il pane ticinese sono ottimi anche se mangiati il giorno dopo l’acquisto. Inumidita con un po’ d’acqua e infornata a 150°C, dopo pochi minuti di cottura una baguette risulta come appena preparata.
TerraSuisse Baguette al forno di pietra 260 g Fr. 2.50
Il mucchio di rami sul campo di Simon Marolfs offre un habitat ideale a numerose specie di uccelli, insetti, rettili e mammiferi.
Le rimanenze di piccoli pezzi di pane possono essere arrostite in padella con olio d’oliva per farne croccanti crostini che accompagnano insalate e zuppe.
Uccelli, farfalle, cavallette e altri piccoli animali trovano un piccolo paradiso nei prati fioriti e ai bordi dei campi. I papaveri attirano molti insetti.
TerraSuisse Pane ticinese 400 g Fr. 2.50
TerraSuisse
Nel segno della biodiversità La fattoria di Simon Marolf (28) a Epsach, BE, è una delle oltre 11 000 aziende agricole che lavorano secondo le direttive IP-Suisse, vale a dire nel rispetto della natura e degli animali. L’agricoltore coltiva una superficie di circa 22 ettari. Oltre ad essere attivo nella produzione ortofrutticola, gestisce un caseificio e coltiva grano IP-Suisse, che viene trasformato in farina TerraSuisse. Marolf coltiva il suo grano con criteri rispettosi dell’ambiente. Rinuncia perciò all’utiliz-
zo di insetticidi, regolatori della crescita e fungicidi. Rispettare la natura significa anche sostenere la varietà delle specie e proteggere gli spazi vitali naturali: misure queste che possono essere riassunte con il termine biodiversità. Per Simon Marolf e la sua fattoria non si tratta però di un argomento utile solamente per ottenere la certificazione IP-Suisse: «Gli insetti per me sono indispensabili. Impollinano gli alberi da frutta. Senza gli insetti non ci sarebbero frutti».
TerraSuisse Happy Bread con noci 350 g Fr. 2.90
I rifugi artificiali per insetti offrono opportunità di nidificazione a molte specie di api selvatiche. Simon Marolf ne trae vantaggio, dal momento che gli insetti impollinano i suoi alberi da frutta.
I cerali TerraSuisse provengono da agricoltura sostenibile svizzera, che promuove la creazione di spazi vitali per la conservazione delle specie selvatiche rare – animali e vegetali – e che rinuncia all’utilizzo di diverse sostanze chimiche ausiliarie. Parte di
TerraSuisse Pane delle alpi 380 g Fr. 2.60
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 agosto 2017 • N. 34
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Idee e acquisti per la settimana
Suggerimenti la baguette e il pane ticinese sono ottimi anche se mangiati il giorno dopo l’acquisto. Inumidita con un po’ d’acqua e infornata a 150°C, dopo pochi minuti di cottura una baguette risulta come appena preparata.
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zo di insetticidi, regolatori della crescita e fungicidi. Rispettare la natura significa anche sostenere la varietà delle specie e proteggere gli spazi vitali naturali: misure queste che possono essere riassunte con il termine biodiversità. Per Simon Marolf e la sua fattoria non si tratta però di un argomento utile solamente per ottenere la certificazione IP-Suisse: «Gli insetti per me sono indispensabili. Impollinano gli alberi da frutta. Senza gli insetti non ci sarebbero frutti».
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Idee e acquisti per la settimana
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 agosto 2017 • N. 34
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Tutto ben annotato Regalo originale oppure da tenere tutto per sé? I nuovi articoli Papeteria sono utilissimi per prendere appunti quotidiani, bellissimi per dedicare messaggi d’amore e comodissimi per stilare liste della spesa creative. Nel ricettario si possono annotare e collezionare le ricette più amate. I blocchetti magnetici sono una soluzione molto pratica perché si possono appendere al frigorifero per essere sempre a portata di mano e non dimenticati in un cassetto. Gli articoli qui illustrati sono disponibili solamente per un breve periodo.
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Consiglio
Il ricettario Papeteria nel pratico formato A5 offre molto spazio per le vostre ricette preferite. Ha pagine perforate a righe, da etichettare o incollare, e il sistema a cartelle e registri permette di tenere tutto perfettamente in ordine.
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