Azione 27 del 30 giugno 2025

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edizione

MONDO MIGROS Pagine 2 / 4

SOCIETÀ Pagina 6

L’ultima produzione della collana «le voci» del Centro di dialettologia è dedicata alla parola «fiore»

Un ritratto di Blaise Metreweli, la prima donna a guidare i servizi segreti britannici o MI6

ATTUALITÀ Pagina 9

Ancora oggi Le Corbusier, nell’omonimo Pavillon zurighese, ci chiama a riflettere sugli spazi

CULTURA Pagina 17

Quando a calciare sono le donne

Dalle alture della Sierra alle acque rubate del lago Mono, un viaggio nella California delle praterie

TEMPO LIBERO Pagina 28-29

Cercando un po’ di refrigerio mentale

Sarà colpa di un’altra estate coi piedi a lasagna, ma il bisogno fisico e mentale di refrigerio va dal tuffo nella fontana per le vacche alla ricerca spasmodica di pozze di fortuna, venissero anche dai canali di scolo di un cementificio, dove immergere membra gonfie e affogare pensieri storti. Soprattutto quelli scottano forte. Dove ci si deve tuffare per sfuggire alle mitragliate dei notiziari di prima mattina, che uno non fa in tempo ad alzarsi e già si chiede se non è finito dentro una serie distopica di Netflix che stanno tirando un po’ troppo per le lunghe? Immaginando una settimana simbolica (i giorni non sono quelli giusti, ma la successione degli eventi sì) lunedì Israele attacca l’Iran, martedì l’Iran contrattacca Israele, mercoledì l’America si prende due settimane di tempo per decidere se dare manforte ad Israele, ma già giovedì sgancia bombe ciclopiche su tre siti nucleari iraniani, venerdì l’Iran sputa

i suoi razzi sulle basi americane in Qatar, sabato Trump proclama la tregua fra i contendenti e domenica non si capisce se i contendenti l’hanno già violata. Mentre scrivo queste righe dicono che la telenovela Israele-Usa-Iran sia finita. Ne siamo proprio sicuri?

La musica è sempre quella anche se declinata su fronti diversi e cangianti: dall’Ucraina a Gaza, dal Libano allo Yemen, dall’India al Pakistan, per tornare probabilmente a Gaza. Perché sommessamente (leggi: mentre i media sono concentrati altrove) le vecchie crisi continuano, anche quando vengono cancellate per un attimo dall’ultima emergenza che invade i teleschermi. Speri sempre nella sorpresa positiva, come sarebbe bello!, ma non arriva mai. Anzi, quando cambiano, le cose si mettono peggio. La diplomazia? Ormai è l’arte di dire che si cerca la pace mentre si prepara in anticipo il prossimo comunica-

to stampa sul fallimento del vertice. Le alleanze? Servono ai più deboli per illudersi di essere sostenuti dai più forti, che però ultimamente hanno la nefanda tendenza ad allearsi fra di loro. La verità dei fatti è ambigua e plurale. Ognuno grida la propria versione sbugiardando quella degli altri e i potenti preferiscono twittarla prima che qualcuno la verifichi. Le inchieste giornalistiche serie sono come certe tribù amazzoniche in via di estinzione e vengono irrise dai tonitruanti giudizi di parte dei signori dell’«Ich journalismus», il giornalismo egocentrico, come l’ha definito in un suo recente saggio il già direttore generale della Società svizzera di radiotelevisione Roger de Weck. O dagli insipidi sondaggi creati dall’algoritmo: secondo te è vero che l’Iran ha la bomba atomica? Si, no, ogni tanto, non so. Secondo te rischiamo la Terza guerra mondiale? Si, no, può darsi, solo se bombardano anche me.

Esci dai tg e non sai a cosa pensare. Perciò riaccendi la tv e punti al sano e decerebrante intrattenimento estivo. Speri, per esempio, nei mondiali di calcio femminile, che se ti impegni, impari pure il nome di qualche talentuosa centravanti e ti appassioni senza sforzo alla Nati che gioca in casa. Una birretta in mano e il ventilatore acceso potrebbero fare miracoli. Nel frattempo, ti conviene evitare le emittenti della vicina penisola, che ribattezzerei «Garlascoland», dal nome dell’anonimo villaggio della Lomellina dove nel 2007 una povera ragazza è stata ritrovata senza vita nella villetta di famiglia, ignorando che 18 anni dopo la sua storia avrebbe ancora occupato ossessivamente ad ogni ora del giorno e della notte i talk show televisivi della nazione. E la mente s’arroventa. Forse è davvero meglio un tuffo nella vasca delle vacche.

Luca Beti Pagina 3
Carlo Silini

Das Zelt, una tenda di comicità… a 9 franchi

100 anni Migros ◆ I comici Flavio Sala, Nathalie Devantay e Charles Nguela saranno fra gli artisti che, per festeggiare il compleanno di Migros, animeranno Das Zelt: prenotate il vostro posto a settembre ad Agno

Nina Huber e Pierre Wuthrich

Nathalie Devantay, Charles Nguela e Flavio Sala si esibiranno insieme ad altri noti artisti della scena comica nell’ambito del grande «Merci Tour» di Migros a «Das Zelt». Migros festeggia così il suo 100esimo anniversario in tutta la Svizzera. Ogni biglietto costa 9 franchi… come cent’anni fa.

Nathalie Devantay (52), autrice e regista, è in scena con il suo quarto programma da solista. Fa parte della compagnia teatrale Revue Vaudoise ed è spesso ospite del programma

RTS Les Dicodeurs

Charles Nguela (35) è un cabarettista. Nato in Zaire, è cresciuto in Sudafrica e in Svizzera e parla numerose lingue. Ha vinto lo Swiss Comedy Award Solo nel 2022 e un Prix Walo nel 2023. È in tournée in Svizzera con Timing

Flavio Sala (50) dal 2014 è direttore della sua compagnia La Compagnia Teatrale. È noto soprattutto per Frontaliers e per le sue commedie dialettali.

Flavio, Nathalie e Charles, secondo voi chi è più divertente: gli svizzero francesi, gli svizzero tedeschi o i ticinesi?

Nathalie Devantay (ND): Per capire l’umorismo, bisogna conoscere la cultura e il background. A parte questo, per me è chiaro che i più divertenti sono i vodesi!

Charles Nguela (CN): Ero sicuro che avresti detto qualcosa del genere. A casa parlavamo francese e inglese, e mi piace la capacità dei romandi di cambiare la melodia della loro lingua a seconda dell’umore. E quando un madrelingua italiano impreca, mi viene sempre da ridere. Noi di lingua tedesca non riusciamo proprio a farlo.

Flavio Sala (FS): Quando ero bambino, avevamo solo i tre canali televisivi nazionali ed ero costretto a guardare la TV in francese e tedesco. È così che ho scoperto Louis de Funès, che mi piace molto.

Vi piace prendere in giro altre parti del Paese?

ND: Naturalmente ci piace pren-

dere in giro gli svizzero tedeschi, soprattutto il loro lato serio e arrogante. Questo funziona sempre nella Romandia.

CN: Nella Svizzera tedesca non facciamo molte battute sui romandi o sui ticinesi. Quando si parla di umorismo, è sempre meglio andare verso l’alto che verso il basso, cioè non contro il gruppo più piccolo.

ND: Sì, perché le minoranze si sentono subito attaccate e si coalizzano contro il comico.

Anche nella Svizzera tedesca esistono cliché sulla Svizzera francese e sui ticinesi?

CN: Sì, diciamo che i romandi bevono molto vino bianco e che in Ticino regna la mafia.

FS: Ehi, qui non c’è la mafia, ma in politica è molto diffuso il clientelismo.

Esiste un comune senso dell’umorismo svizzero?

CN: No, ci sono troppe differenze culturali e linguistiche. In Svizzera, basta viaggiare 20 minuti in treno per trovarsi praticamente in un altro Paese in termini di umorismo. C’è un’enorme varietà di umorismo.

FS: In Ticino credo vi siano meno opportunità di esibirsi. È davvero difficile vivere della propria arte in questa parte del Paese.

Dovete dunque vivere di finanziamenti?

FS: Purtroppo i comici non ricevono alcun finanziamento, o ne ricevono pochissimi, per i loro spettacoli. Sono considerati troppo superficiali. Si sostengono l’arte di strada e il circo, ma non i comici.

ND: Molte persone credono ancora che la cultura non faccia ridere…

CN: In Svizzera la stand-up comedy non è pagata abbastanza. Ci esibiamo comunque, se necessario nella toilette di un bar, accanto all’armadio delle pulizie. Io sono stato fortunato: forse mi avete già visto nello spot con la mucca...

Ci sono argomenti su cui non scherzate?

ND: Sul palco è possibile fare molte cose, ma per me è chiaro che bisogna rimanere rispettosi. L’obiettivo è

far ridere le persone e non ferirle.

FS: Nei miei spettacoli ci sono bambini e persone anziane. Cerco quindi una forma di umorismo che piaccia a tutti e non offenda nessuno. Sul palco non faccio le stesse battute che faccio la sera con gli amici al bar.

CN: Ci sono argomenti di cui non riesco a ridere, per esempio le malattie gravi. Evito anche le battute sulla religione, a seconda della città in cui mi esibisco.

Si può ridere di religione in Ticino?

FS: Sì. I politici sono più problematici, non amano quando li prendiamo in giro. È sempre più difficile fare vera satira in Ticino.

ND: È un peccato. In Svizzera romanda la facciamo molto bene. Ma è vero che è sempre più difficile far ridere la gente senza colpire zone sensibili. Ho anche notato che gli uomini si irrigidiscono di più quando una battuta sugli uomini viene da una donna.

CN: È vero che le donne vengono criticate più spesso…

Ma il numero di comici donna sta aumentando…

ND: È vero, ci sono sempre più donne nella nostra professione e le battute sessiste sono sempre più rare.

Ma credo che le donne sul palco siano diventate più volgari.

FS: Ho notato che anche in Italia le donne si concedono battute più crude, ma non hanno molto successo.

Prima di questa intervista non vi conoscevate, ma ora andate d’accordo. Che ne dite di uno spettacolo comune in tre lingue?

CN: Sarebbe fantastico poterlo fare. Ma sarebbe molto impegnativo per noi e per il pubblico. Non solo per le lingue, ma anche per l’umorismo e gli argomenti.

ND: Gli sketch sulla politica svizzera a livello federale potrebbero funzionare, ma tutto ciò che è al di sotto di questo livello non è più possibile. Forse potrebbe funzionare come formato video con sottotitoli?

FS: Il problema delle traduzioni è che spesso deludono. Quando guardo una commedia in francese, preferisco ascoltare quello che dicono gli attori piuttosto che leggere i sottotitoli. L’originale è sempre più divertente della traduzione.

Charles, hai presentato il tuo spettacolo in francese anche nella Svizzera francese. Com’è andata?

CN: Esattamente, a Friburgo. Mi sono reso conto che bisogna avere una perfetta padronanza del-

Il camioncino acquistato con i punti

100 anni Migros ◆ Un camion vendita molto particolare e, soprattutto, con decenni di vita sulle spalle

Sono numerosi le lettrici e i lettori che in questi mesi spontaneamente prendono contatto con Migros Ticino o con la redazione di «Azione» per congratularsi per i cent’anni dell’azienda e, in alcuni casi, per condividere un ricordo. Abbiamo così celebrato la centenaria di Losone, coetanea di Migros, e chi accompagnò in Ticino il primo camion vendita Migros servisol. Questa settimana tocca alla signora Maria, che con noi ha voluto condividere un ricordo che affonda le radici in anni lontani. Maria, da qualche anno vedova, è stata sposata per una vita con un ticinese nato Oltre San Gottardo, da mamma svizzero tedesca e padre ticinese. Ha sempre avuto otti-

mi rapporti con la suocera, al punto da diventare depositaria di molti suoi ricordi, come quello legato al furgone Migros. «Mia suocera Edith, che era di Winterthur, ha sempre avuto un legame speciale con Migros, anche perché, dopo l’apprendistato, vi lavorò fino al giorno in cui sposò il ticinese di cui si era innamorata – il padre di quello che sarebbe diventato mio marito».

Come racconta Maria, per la famiglia era tradizione quasi scontata quella di fare la spesa nel cosiddetto «negozio viaggiante», dove le offerte «erano sempre migliori rispetto agli altri negozi». Migros premiava la fedeltà della sua clientela già allora, non con un programma fedeltà Cu-

mulus, bensì con dei punti. Quando si raggiungeva un determinato numero di punti, si aveva diritto a un camioncino di legno simile al veicolo Migros che portava beni di uso quotidiano in ogni angolo del Paese negli anni 40. Il furgoncino di legno della lunghezza di venti centimetri, con il suo numero 11 e due pubblicità ormai quasi illeggibili, è ancora oggi custodito da Maria, che ci ha resi partecipi della sua storia. Un’ulteriore testimonianza di quanto Migros sia radicata nella cultura, nella storia e nel cuore delle svizzere e degli svizzeri che, nella M arancione, ritrovano spesso un pezzo della propria vita. Non esitate a scriverci, se anche voi avete una storia speciale legata a Migros!

lo «slang», delle espressioni locali, per essere davvero divertenti. Come spettatore a Montreux, ho visto come persone amino fermarsi dopo lo spettacolo, chiacchierare, bere qualcosa e poi andare a mangiare. Nella Svizzera tedesca, la maggior parte delle persone mangia prima e va subito a casa dopo. Mi piacerebbe cambiare questa situazione: il pubblico dovrebbe rimanere più a lungo. ND: Ha ragione, qui il pubblico si ferma più a lungo. Mi piace mescolarmi con il pubblico al bar dopo lo spettacolo. È sempre un momento di socializzazione.

FS: Mi fai venire voglia di conoscerti meglio e di andare ai tuoi spettacoli, anche se non capisco tutto. ND: È una buona idea. Dovremmo farlo tutti. E anche il pubblico. Guardate le nostre differenze! Sono sicura che sarebbe molto divertente.

Informazioni

Il Merci Tour farà tappa anche in Ticino: dal 4 all’11 settembre ad Agno sono previste otto serate con quattro programmi diversi, presentati ognuno per due sere consecutive: Famiglia Dimitri: 4-5 settembre; Young Artists: 6-7 sett.; Comedy Club: 8-9 sett. e Magic Club: 10 -11 sett. merci.migros.ch/it/merci-tour/

Flavio Sala, Nathalie Devantay e Charles Nguela. (Christian Schnurr)

Salute

Il dono delle cornee regala la vista al destinatario e cambia la storia di chi lo fa, ma spesso ci vuole una telefonata

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Parole

L’ultima produzione della collana «le voci» del Centro di dialettologia è dedicata alla parola «fiore», anche nel suo senso simbolico

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Esperienze

Un approccio speciale tra accompagnatore e accompagnato nelle variopinte rilassanti e pure stimolanti stanze Snoezelen

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Per una donna giocare a calcio è un atto politico

Questioni di genere ◆ Mancano pochi giorni dall’inizio degli Europei femminili che si tengono in Svizzera

Per l’esperta Monika Hofmann l’evento non basterà per innescare un cambiamento

Ti accorgi di quanto il calcio femminile abbia ancora tanta strada da fare quando vedi i volti delle bambine rabbuiarsi mentre quelli dei bambini si illuminano di entusiasmo dopo aver annunciato che negli ultimi quindici minuti della lezione di ginnastica si giocherà a pallone. Su quel campetto immerso nella campagna bernese, ti rendi conto che il calcio è ancora percepito come uno sport «da maschi». Eppure, la storia del calcio femminile in Svizzera ha radici profonde: è iniziata più di un secolo fa, nel 1923, quando a Ginevra la figlia di un facoltoso industriale pubblicò un annuncio su un giornale per trovare altre giovani donne che condividevano la stessa passione. In 101 anni, il calcio femminile in Svizzera ha lottato contro divieti, stereotipi e pregiudizi. Un nuovo libro, «Das Recht zu kicken» (Il diritto di calciare), ripercorre la lunga marcia verso il riconoscimento del diritto per le donne di rincorrere un pallone. A firmarlo sono la storica Marianne Meier e la ricercatrice di studi di genere Monika Hofmann. Il volume, edito da Hier und Jetzt e pubblicato in tedesco e francese, presenta le basi giuridiche e i legami con i movimenti internazionali. Inserisce inoltre la storia del pallone femminile in un contesto sociale e culturale, arricchendola con analisi, testimonianze, foto e ritratti di calciatrici pioniere in Svizzera. «Per una donna, giocare a calcio è sempre stato un atto politico, anche quando non veniva esplicitamente definito così», sottolinea Hofmann. «Lo è ogni volta che si scende in campo perché è un gesto di resistenza sociale contro i divieti, gli ostacoli e le mille barriere culturali e istituzionali».

Signora Hofmann, nel vostro libro scrivete che il calcio è un «microcosmo della società». È possibile parlare di calcio femminile senza toccare il tema della parità di genere?

Monika Hofmann: No, non credo sia possibile. Il calcio maschile è una vera e propria macchina economica, soprattutto nel mondo occidentale. Parlare di calcio femminile significa inevitabilmente confrontarsi con le disparità rispetto al calcio maschile. Il calcio femminile è nato più tardi e deve ancora recuperare terreno. Oggi, ogni discussione sul calcio femminile finisce per essere anche un confronto, più o meno diretto, con il calcio maschile, che domina l’immaginario collettivo. Ecco perché non si può dissociare il calcio femminile da una riflessione più ampia sulle disuguaglianze e sul percorso verso una reale parità.

Ci sono parallelismi tra la storia del calcio femminile e quella della parità di genere in Svizzera?

Sì, ci sono analogie evidenti. Ad esempio, nel 1971 le donne svizzere ottennero il diritto di voto e di elezione. Appena un anno prima, nel 1970, era stata fondata la Schweizerische Damenfussballliga, la Lega svizzera di calcio femminile. Si può dire che alle donne è stato concesso di giocare a calcio prima ancora di poter votare. In quegli anni, c’era un gran fermento che si rifletteva in una crescente mobilitazione per la parità, una lotta sostenuta anche dagli uomini.

Un altro momento chiave arriva decenni più tardi, intorno al 2010, con il movimento #MeToo e le proteste femministe, da cui è emersa una nuova generazione che vuole vedere giocare le calciatrici. Anche i social media hanno avuto un ruolo cruciale, dando la possibilità di condividere contenuti, creare comunità digitali e promuovere modelli femminili.

Anche il termine «calcio femminile» è problematico. Si parla di

Europei femminili, ma per gli uomini non si dice mai «Europei maschili»…

Quando si parla di «calcio», si pensa sempre a quello maschile e ciò deriva dalla tradizione. Solo quello praticato dalle donne viene specificato, e questo è un problema. Si trasmette così l’idea che il calcio femminile sia qualcosa di «diverso», una variante rispetto alla norma. Nel nostro libro proponiamo di usare il cosiddetto gender marking per entrambi: parlare quindi di «calcio maschile» e «calcio femminile», proprio come si fa in altri sport, ad esempio nel tennis o nello sci. Anche il nome «WEURO», scelto dalla UEFA e dalla Federazione elvetica di calcio, evidenzia che non è ancora stata raggiunta una reale parità. Questo nome anomalo sottolinea che questo torneo si discosta dalla norma, dall’EURO maschile.

C’è chi sostiene che il calcio femminile, ancora onesto e genuino, non deve diventare la brutta copia del calcio maschile, fatto di eccessi. Come si può evitare che ciò accada?

È una domanda che mi pongo spesso anch’io. Di sicuro, per far crescere il calcio femminile serve denaro. In Svizzera, la priorità assoluta deve essere rafforzare la lega e garantire alle giocatrici condizioni di lavoro dignitose. Oggi, la maggior parte è costretta a svolgere un secondo lavoro. Se vogliamo affrontare seriamente il problema, bisogna intervenire sul calcio maschile. Gli stipendi di molte star sono spropositati. Il calcio femminile, al contrario, ha ancora bisogno di essere sviluppato, sostenuto e promosso, affinché un giorno riesca ad autofinanziarsi. In questo senso, si potrebbe introdurre un sistema di redistribuzione. In Norvegia, ad esempio, i calciatori della nazionale maschile hanno rinunciato a parte del loro compenso per sostenere economicamente le colleghe della nazionale femminile. In Svizzera, un gesto simile avrebbe un impatto enorme perché rafforzerebbe la lega femminile.

Gli Europei femminili di calcio innescheranno un cambiamento in Svizzera?

Credo che sarà possibile vedere e giudicare gli effetti solo tra dieci anni. Nell’immediato, aumenteranno la visibilità del calcio femminile. Ma per avere un impatto duraturo sarà necessario sostenere finanziariamente il calcio femminile anche dopo gli Europei. La Federazione svizzera di calcio ha lanciato un insieme di progetti e iniziative con obiettivi ambiziosi: raddoppiare entro il 2027 il numero di calciatrici, allenatrici, arbitre e il pubblico che assiste alle partite femminili. Un piano promettente, ma che inevitabilmente rischia di scontrarsi con la realtà. Oggi, in Svizzera ci sono circa 40mila calciatrici. Raddoppiarle significherebbe arrivare a 80mila. Ma dove giocheranno, visto che già ora mancano i campi, anche per i ragazzi? Sono curiosa di vedere cosa succederà davvero. Ma, ad essere sincera, sono un po’ scettica.

Bibliografia

Das Recht zu kicken/Droit au but Die Geschichte des Schweizer Frauenfussballs

Marianne Meier und Monika Hofmann

Le calciatrici della nazionale svizzera si allenano in vista degli Europei nei pressi di San Gallo (Keystone)
Luca Beti

Le albicocche del Vallese

Attualità ◆ Un’estate all’insegna dei frutti coltivati in uno dei più soleggiati Cantoni della Svizzera. Ora disponibili alla tua Migros

Per le loro qualità uniche, le albicocche del Vallese sono molto richieste dai consumatori. Profumate, dal sapore dolce intenso, di dimensioni medio-grandi e dal colore arancione pronunciato, queste perle di bontà sono perfette per il consumo fresco e per la preparazione di una vasta selezione di ricette, sia dolci che salate (vedi QR sotto).

In Vallese le albicocche hanno trovato le condizioni ideali per la loro coltivazione, grazie ad un clima secco e ben soleggiato e a terreni drenati al punto giusto. Una tradizione che rimonta a oltre due secoli fa. Basti pensare che il 95% delle albicocche svizzere può fregiarsi dell’origine vallesana. La varietà più diffusa e famosa è la Luizet, mentre le coltivazioni si estendono perlopiù sulla riva sinistra del Rodano e in pianura, mentre la riva destra è più votata alla viticoltura.

La raccolta principale comincia a partire dagli inizi di luglio e dura fino ai primi di agosto. Le albicocche rappresentano insomma un grande motivo di orgoglio per il Vallese, tanto che ogni due anni a Saxon si tiene una festa in loro onore, dove vengono celebrate a 360 gradi con un grande mercato e molte attività rivolte a grandi e piccini.

Dal punto di vista nutrizionale, le albicocche sono un’ottima fonte di vitamine, sali minerali e fibre alimentari. Inoltre, rappresentano uno spuntino leggero, rinfrescante e povero di calorie.

Aromatica leggerezza

Attualità ◆ La bresaola, oltre al suo sapore delicato, è un alimento nutriente ideale da gustare nei mesi più caldi

Grazie alla sua leggerezza, delicatezza e al basso contenuto di grassi, la bresaola si gusta particolarmente volentieri durante l’estate, per esempio come piatto unico completo servita sotto forma di carpaccio con scaglie di parmigiano, rucola e condita con olio e limone. Tuttavia, grazie alla sua versatilità, si presta bene anche per preparare diverse altre ricette, come involtini ripieni di formaggio o verdure, quale accompagnamento al melone o a una croccante insalata per un piatto fresco e rinfrescante, ma può essere utilizzata anche come aromatico condimento per paste, risotti e altre preparazioni.

Anche se le prime informazioni sulla bresaola risalgono al 1400, si ritiene che venisse prodotta già molto prima. La sua nascita viene collocata nell’arco alpino come metodo di conservazione delle carni, per diffondersi

Beretta

successivamente nelle regioni italiane della Valtellina e Valchiavenna, in Lombardia. I primi laboratori di trasformazione nascono agli inizi del 1900. Il nome deriva dalla parola «Brasa», per il fatto che un tempo il salume veniva asciugato in locali riscaldati con delle braci. Per la produzione di una bresaola di elevata qualità viene utilizzato uno tagli più pregiati del manzo, la punta d’anca, che permette di ottenere un prodotto finale altamente riconoscibile per il suo colore rosso vivo, la fine striatura di grasso, la tipica fragranza e consistenza morbida. La lavorazione richiede che la carne venga lasciata riposare in una speciale miscela di spezie e sale per almeno due settimane, prima di essere insaccata in un budello naturale. Infine, la bresaola viene posta a stagionare per un periodo che può arrivare fino a otto settimane.

Una telefonata che cambia due vite

Salute ◆ La scelta della donazione di cornee in un dialogo empatico e rispettoso per informare, ascoltare e accompagnare

«Dopo anni di ombre, ho potuto finalmente rivedere il volto di mia figlia. Tutto questo grazie alla famiglia di un donatore che ha deciso di donare le cornee. Non conosco chi sia, ma ogni giorno lo ringrazio perché quel gesto mi ha ridato la vista, l’indipendenza e una nuova vita. È un dono silenzioso, ma immenso», sono le parole di Marco (nome noto alla redazione) e la sua testimonianza riporta subito alle famiglie dei donatori che, con quel gesto, riaccendono la luce negli occhi di qualcuno come lui. Lo testimonia la mamma di Luca (nome pure noto alla redazione), donatore di cornee: «Quando Luca se n’è andato, il dolore è stato immenso. Ma ci ha dato un piccolo conforto sapere che, grazie a quel gesto, qualcuno ha potuto tornare a vedere. Anche se Luca non è più con noi, continua a vivere attraverso chi ha ricevuto quel dono». Il trapianto di cornea è l’intervento più praticato al mondo; secondo i dati Swisstransplant, circa 650 interventi annuali sono fatti in Svizzera. «La cornea è come una finestra trasparente posta nella parte anteriore dell’occhio e lascia intravvedere iride e pupilla; funge da protezione dell’occhio e lascia filtrare la luce. Questa lente permette alle immagini di imprimersi sulla retina, e il fatto che non sia irrorata da sangue non comporta la necessità della compatibilità tra donatore e ricevente, con una maggiore probabilità di successo del trapianto e un ridottissimo rischio di rigetto». Così esordisce l’infermiera di terapia intensiva e coordinatrice al dono d’organi dell’Ospedale Regionale di Lugano (EOC) Valentina Silvagni che riassume il ricorso al trapianto di cornee per i seguenti casi: «Patologie degenerative, distrofia di Fuchs (riduzione delle cellule endoteliali), cheratite interstiziale (infiammazione infettiva degli strati intermedi corneali), cicatrici corneali, esiti di processi infettivi batterici o fungini, lesioni traumatiche e ustioni». Il trapianto di cornea è quindi l’intervento chirurgico tramite il quale si pratica la sostituzione totale o parziale della cornea danneggiata, «con l’obiettivo di ripristinare la sua trasparenza e restituendo così all’occhio la capacità di vedere».

Questa finestra trasparente posta nella parte anteriore dell’occhio comporta un ridottissimo rischio di rigetto

La nostra interlocutrice afferma che in molti casi il trapianto è l’unico trattamento curativo per correggere alcune patologie corneali, spiegando che «in Svizzera il numero di cornee disponibili al trapianto sono inferiori al fabbisogno nazionale». Perciò, Swisstransplant sostiene un progetto volto a migliorare l’autosufficienza nazionale nella donazione di cornee, «con gli obiettivi di migliorare il sistema di identificazione del donatore, ottimizzare i processi fino al prelievo, coinvolgendo personale specializzato nel coordinamento delle donazioni di organi e tessuti per raggiungere l’autonomia della Svizzera in materia di trapianto di cornee».

Rispetto alla donazione multiorgani, quella delle cornee è più semplice, meno invasiva e ha tempi più flessibili, ma non dobbiamo dimenticare che può cambiare la vita a chi è al buio, spiega il professor Paolo Merlani, specialista in medicina intensiva, primario e direttore medico area critica EOC e membro della commissione etica di Swisstransplant: «Tutti i pazienti deceduti in ospedale possono diventare potenziali donatori in assenza di alcune controindicazioni e, laddove vi sia il consenso alla donazione, il prelievo è possibile in un lasso di tempo abbastanza agevole (entro le 24, massimo 48 ore dal decesso)». Ciò fa sì che, a partire da novembre 2024, all’Ospedale Civico di Lugano il team di coordinamento locale donazione organi e tessuti si occupa dell’identificazione dei possibili donatori di cornee a partire pure dai pazienti deceduti nei reparti di medicina interna (dunque anche pazienti non in morte cerebrale come per la donazione multiorgano): «È un processo che include l’identificazione dei potenziali donatori, la verifica delle controindicazioni alla donazione, la ricerca della volontà presunta o espressa dai familiari, la richiesta di consenso al prelievo, l’esame della salma e il prelievo delle cornee entro 24 – 48 ore dal decesso, mentre le cornee vengono poi spedite alla Banca delle cornee di Ginevra per i controlli di qualità in previsione del trapianto». Per la loro peculiarità, quindi, il dono delle cornee può essere esteso anche a quei pazienti non deceduti nel reparto di Cure intensive: «Per questo, il colloquio con la famiglia cambia totalmente forma perché non si tratta di pazienti a noi già noti e bisogna contattare la famiglia a posteriori. Allora, proprio la telefonata ai familiari è il momento chiave: è lì che nasce una nuova possibilità di luce».

Quella telefonata ai famigliari è l’unico modo per richiedere la donazione delle cornee ed è un momento estremamente delicato, sia dal punto emotivo che comunicativo: «Premesso che in Svizzera, e soprattutto nel nostro Cantone, la popolazione dimostra da sempre una vera e propria generosità verso la donazione degli organi, siamo coscienti che le criticità di questa richiesta telefonica non

Muoversi all’aperto

Al via i corsi estivi

debbano essere ignorate, senza però diventare un ostacolo nella realizzazione di quel desiderio del deceduto o della sua famiglia di donare la vista a qualcuno che ne ha bisogno. Ciò detto, il nostro team è assolutamente preparato e formato nella procedura di dialogo con la famiglia: il personale che effettua la chiamata è altamente formato in comunicazione empatica, normativa sulla donazione e gestione del lutto. Inoltre, ci avvaliamo dell’uso di script adattabili e personalizzati che lascino spazio all’empatia». Un modo necessario, quello telefonico, che però tiene conto con sensibilità delle criticità, a cominciare da quelle emotive e psicologiche del lutto acuto dei famigliari, dalla mancanza del contatto visivo e dalle difficoltà nella trasmissione della fiducia: «Non possiamo negare che l’assenza di linguaggio non verbale complica l’empatia e la comprensione delle reazioni dell’interlocutore, ed è più difficile trasmettere sicurezza e umanità solo con la voce specialmente se chi chiama non è noto alla famiglia, anche se quando ci presentiamo le persone ci identificano comunque come appartenenti al complesso curante EOC. La comunicazione è dunque gestita con tatto e in genere i famigliari non la percepiscono come una forma di pressione, ma di condivisione verso una decisione che la maggior parte delle volte è quella della donazione. La garanzia non esiste e noi certamente ci ritiriamo con garbo e rispetto se dall’altra parte troviamo disagio o diniego».

Certo, la richiesta di donazione delle cornee in presenza (e non tramite una telefonata) è un’ipotesi che aumenterebbe l’efficacia comunicativa, tanto utile a ridurre l’impatto emotivo quanto non realizzabile per una serie di ragioni pertinenti esposte dallo specialista. Allora, proprio in quella telefonata, fatta con voce calma e parole scelte con cura, si apre uno spiraglio tra il dolore e la speranza: «Chiedere il consenso alla donazione delle cornee non è solo un gesto sanitario: è un atto umano,

può trasformare un momento di perdita in un dono di luce per chi non vede più». Basta un «sì» per cambiare due destini: quello di chi ha perso, e quello di chi può tornare a vedere.

Muoversi all’aperto (proposte per l’estate), è un’iniziativa nata nel 2020 e realizzata grazie al sostegno del Dipartimento della Sanità e della Socialità (Ufficio del medico cantonale) e di Promozione Salute Svizzera. Anche quest’anno Pro Senectute propone una ventina di corsi estivi in diverse località del Ticino con lo scopo di promuovere l’attività fisica tra la popolazione in un periodo in cui numerose attività vengono sospese.

I corsi si svolgono da fine giugno a fine agosto.

Informatevi sui posti ancora disponibili

Iscrizioni tramite: –www.prosenectute.org –Per e-mail: creativ.center@prosenectute.org –Telefonicamente al numero 091 912 17 17

Per maggiori informazioni

Contatto

Pro Senectute Ticino e Moesano Via Chiosso 17, 6948 Porza Tel. 091 912 17 17 – info@prosenectute.org www.prosenectute.org Seguiteci anche su Facebook

che
La telefonata ai famigliari della persona defunta è l’unico modo per richiedere la donazione delle cornee ed è molto importante sia per chi dona che, ovviamente, per chi riceve. (freepik)

Quando fioriscono i rastrelli

Pubblicazioni ◆ L’ultima produzione della collana «le voci» del Centro di dialettologia è dedicata alla parola «fiore» e ai suoi contesti d’uso

È giunta ormai alla ventitreesima puntata, la collana di parole-mondo oggetto di altrettanti volumetti del Centro di dialettologia nella forma dell’estratto dal Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana. I lemmi sono scelti con cura tra i più carichi di valore etnografico; tra quelli, insomma, che richiamano diversi significati e ricorrono in contesti d’uso ampi e pregni di storia, testimoni dei principali sistemi culturali delle comunità paesane. La compagine si arricchisce infatti proprio in questi giorni della pubblicazione di Fiore, curata da Antea Mattei contando su un metodo ormai collaudato. Ecco dunque la parola nel significato nucleare e fondante, ma anche in quelli che fanno capo alla qualità (’la parte migliore di’), con un richiamo anche a evocazioni meno dirette, valutazioni, espressioni di sentimenti positivi e varie bontà, significati simili.

Il fiore è insomma un fiore, ma è anche il bello di qualcosa. Prima di tutto in sé: perché, come dicono a Menzonio e a Sonogno, tutti i fiori sono belli e hanno un buon odore, tanto che in occasione di feste e cerimonie religiose i fiori, anche nella forma artificiale della carta, impreziosivano strade ed edifici.

E poi in senso traslato: la fioretta del vino, «il primo o più raffinato

prodotto di una lavorazione», il grano migliore, la parte più pregiata della farina, la panna, che affiora dal latte. A Viganello, una donna giovane e graziosa è detta butón da fiuu ’bocciolo di fiore’ e a Sigirino si prospetta il nubilato eterno di una signora dicendo che «vuole morire con i fiori». Fioriscono poi paragoni, locuzioni tipiche, detti, canzoni, giochi, modi di dire: a Savosa, «in aprile fiorisce anche il manico del rastrello: è il momento dell’anno migliore per interrare le piante».

Il fiore non è solo espressione colorata del mondo vegetale, ma anche del bello di qualcosa

Non ha bisogno di fiori una persona già avvenente di suo, dicono a Russo, e di nuovo a Viganello si esclama «casa con i fiori, ragazze d’amore», cioè le case abbellite dai fiori non possono che essere dimora di persone gentili. Il fiore ci accompagna fin nei limiti dell’esistenza, e anche oltre, se, come si canta a Rovio, «se muori questa notte ti faremo sotterrare nel cimitero, sotto l’ombra di un bel fiore, tutta la gente che passerà dirà: ’oh che bel fiore’» (proprio come il fiore del partigiano morto per la libertà di Bella ciao). A Medeglia succedono cose te-

nerissime: «Nelle veglie invernali, le ragazze giocavano volentieri al gioco dei fiori, in cui a turno le partecipanti dovevano indicare il nome di un fiore»; a San Vittore gli amori clandestini si indicano cospargendo gli itinerari tra le dimore dei due amanti con i fiori del grano saraceno.

L’origine stessa dei fiori è regolata da immagini sognanti: in Mesolcina le pratoline sono state inventate dalla Madonna, le primule in Malcantone vengono dalle «trombette dorate dimenticate dagli angeli, scesi sulla terra per salutare la primavera» e i bucaneve sono i campanellini delle pecore della notte di Natale, a Betlemme.

Come spesso succede con queste parole rotolate per secoli nella storia anche delle piccole società della Svizzera italiana, sono molti i riferimenti al mondo circostante; e i fiori sono definiti, poi, avvicinandoli a concretezze di vario tipo: il ranuncolo è chiamato fiore giallo a Campo Valle Maggia, i fiori bottone sono le margheritine a Stampa, il mughetto è fiore di pietraia a Broglio e così via per paludi, alture, selve ecc. Ancora, a Lamone chiamano il ranuncolo fiuu di bròss, per la sua proprietà di generare vesciche: sembra che i mendicanti vi ricorressero per conciarsi e «suscitare compassione» nel prossimo. Infinita è come sempre la serie di

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riferimenti religiosi: fiori del Signore, fiori della Madonna, fiori di san Giuseppe, dei santi Giovanni, Pietro, Antonio, fiori del cardinale, della Pasqua, di Pentecoste, fiore del diavolo, come chiamano il dente di leone ad Airolo. Poi fiori della lepre, delle bisce, del cuculo, delle api; e così per malattie, fenomeni atmosferici, vita umana. Insomma, fiori e fiori e fiori; per tutti i gusti. Da ultimo (l’osservazione a proposito dei vestiti grafici della collana delle «voci» non è una novi-

tà), merita una menzione speciale la selezione fotografica e iconografica che arricchisce il testo: come nel caso dell’immagine a pagina 5 con le tre donne che accompagnano la gaiezza dei fiori con espressioni del visto dolenti e fatali, e in quello della successione di riproduzioni disegnate, una specie di erbario, dell’appendice.

Bibliografia

Antea Mattei, Fiore, Bellinzona, Centro di dialettologia e di etnografia, 2025.

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I fiori rimandano a tutto ciò che sa di bello e di buono. Spesso da noi venivano abbinati al mondo della religione: fiori del Signore, della Madonna, dei santi, ecc. (freepik)

Snoezelen, una filosofia di accompagnamento

Benessere ◆ Come stabilire un rapporto speciale con il paziente dentro un contesto accogliente fatto di relax, gioia e gioco

Alessandra Ostini Sutto

È una parola strana, quasi onomatopeica, «Snoezelen», che nasce dalla contrazione di due verbi olandesi, snuffelen (esplorare) e doezelen (sonnecchiare, rilassarsi), e dietro alla quale si cela un mondo fatto di luci soffuse, suoni armoniosi, profumi delicati e, soprattutto, una moltitudine di materiali da esplorare: uno spazio multisensoriale, arricchito di volta in volta da stimoli diversi e pensato per infondere benessere.

Nell’ambiente controllato

L’approccio designato da questo curioso neologismo si deve al lavoro svolto nell’Olanda degli anni 70 da due psicologi, Ad Verheul e Jan Hulsegge, basandosi su mezzi di stimolazione sensoriale già allora considerati come vettori di miglioramento per la condizione di persone affette da malattie mentali nonché di comunicazione per entrare in contatto con loro. Lo Snoezelen è infatti prima di tutto un «approccio alla persona», che prevede la costruzione di una relazione sensibile tra l’«accompagnato» e l’«accompagnatore» in un ambiente controllato in cui vengono offerti vari tipi di stimoli con l’intento di promuovere – come detto – lo star bene e la realizzazione del proprio essere. Negli anni, questo affascinante approccio si è sviluppato e diffuso nel mondo, rivelandosi un efficace strumento in molteplici condizioni umane.

«La cosa che di questo approccio mi ha colpito maggiormente, è l’“effetto wow” che si ha quando si aprono le porte di una sala Snoezelen», afferma Francesca Ferrari, operatrice Snoezelen attiva a Lugano, «che è poi uno degli effetti che vorremmo ottenere ogni volta che allestiamo la stanza per una seduta». Lo Snoezelen si può infatti definire anche una «filosofia di accompagnamento», proprio perché si tratta di un’attività studiata su misura per un determinato paziente. «È un accompagnamento verso il rilassamento, la gioia, il benessere, in un ambiente accogliente lontano dallo stress quotidiano. È immaginazione e gioco, apprendimento, scoperta e divertimento. È stimolare, ritrovare il proprio corpo e conoscersi attraverso i propri sensi in un luogo in cui stare con sé stessi o solidificare le relazioni affettive», continua Francesca Ferrari, la quale ci spiega poi come non sia possibile fare dei paragoni, proprio per il fatto che lo Snoezelen non può essere definito né un metodo, né una tecnica né tantomeno una terapia, ma piuttosto una «filosofia relazionale», un approccio – come detto – alla persona, che si può sì tentare di descrivere a parole ed immagini ma che meglio sarebbe vivere, trattandosi di un’esperienza personale e soggettiva.

Se torniamo ai due termini che sono alla base di questo neologismo, e cioè «esplorare» e «rilassare», essi ci rimandano a loro volta ad un concetto cardine dell’approccio in questione, e cioè quello di entrare in relazione con l’altro attraverso un bilanciamento perfetto di momenti di stimolazione e di rilassamento. «Tendenzialmente mettiamo l’attivazione ad inizio seduta, per mezzo di un’attività primaria orientata alla percezione sensoriale di luci, rumori, cose da toccare e annusare, per poi avvicinarci pian piano ad una fase di rilassamento, più o meno profondo», racconta l’operatrice Snoezelen, che è anche insegnante di massaggio infantile. Vivendo l’esperienza di uno spazio Snoezelen si può arrivare ad un livello emozionale profondo, quello dei ricordi e delle sensazioni, e questo perché l’ambiente creato (i materiali ma anche la relazione) permette un’apertura sensoriale che favorisce l’interiorizzazione.

Come visto in precedenza, le sedute si svolgono all’interno di uno spazio appositamente organizzato. «Prima della seduta bisogna decidere quello che si farà, cosa si utilizzerà, cosa si terrà acceso e cosa spento, i materiali di cui si avrà bisogno», racconta l’operatrice Snoezelen, «una preparazione che può richiedere molto tempo. Io, per fortuna, ho dalla mia il vantaggio di essere molto creativa: apro l’armadio dove tengo i materiali, o guardo quelli che conservo in cantina, mi lascio ispirare, e subito

mi viene in mente un fil rouge lungo il quale costituire l’attività». Oltre alla stanza in sé e per sé, che ha già un grande impatto, dato che ogni elemento in essa contenuto ha la funzione di stimolare uno dei cinque sensi, inducendo ad esplorare ed interagire con ciò che è presente, nell’organizzazione delle singole sedute rientrano dei piccoli materiali e delle micro attività che vengono scelti dall’operatore: «Può trattarsi di materiale iridescente, riflettente, di palline, spugne, pannelli in varie texture, eccetera», continua Francesca Ferrari, «oltre a ciò, possiamo proiettare delle immagini o dei video e pure servirci di un proiettore particolare, il quale crea sulla parete un enorme cerchio all’interno del quale i liquidi colorati dalla consistenza oleosa che esso contiene si muovono in modo lento e molto suggestivo.

Il sottofondo musicale

Per quel che riguarda il sottofondo musicale, utilizziamo esclusivamente le composizioni di Martin Buntrock, un autore che crea brani appositamente per lo Snoezelen». Infine, la diffusione di aromi ed essenze, ma pure la presenza di frutta e fiori freschi, sono altri semplici elementi su cui si punta per creare un’atmosfera piacevole e rassicurante, che permetta alla persona di lasciarsi andare e di sperimentare un’altra realtà, sempre nel ri-

Un bimbo in una una meravigliosa sala Snoezelen. Venire a fare una seduta con il proprio bambino non è però come portarlo in ludoteca o al parco giochi. (Wikimedia Commons)

lizzato da tutti», commenta. Principalmente, ne possono trarre benefici bambini con disabilità, autismo e deficit di apprendimento, soggetti con forte stress per esempio lavorativo o post traumatico, individui con dolore cronico o acuto e pazienti con malattie neurodegenerative. «Recentemente ho lavorato all’OTAF e posso dire che la totalità dei resistenti della struttura può tendenzialmente trarre benefici dallo Snoezelen», afferma Francesca Ferrari, che lavora anche con gruppi di donne in gravidanza, di mamme con bebè, di bambini in tenera età. «Offro inoltre sedute private adatte ad ogni età ed esigenza e mi capita di accogliere adulti in un’ottica di prevenzione del burnout», aggiunge.

Insomma, si tratta di un approccio dagli utilizzi davvero molteplici, che ben si prestano alla società in cui viviamo. «Visto lo stress che caratterizza le nostre giornate, lo Snoezelen è sicuramente utile nel momento in cui si vuole ricreare uno spazio per sé stessi, anche perché all’interno delle attività possono essere inseriti dei piccoli massaggi, dei viaggi guidati, finalizzati sempre al rilassamento», commenta l’operatrice.

Un tema specifico

spetto del suo ritmo e dei suoi tempi. Detto ciò, ogni seduta resta costantemente modulabile: «Questo vuol dire che posso apportare delle modifiche a quanto ho organizzato. Se mi rendo conto che alcuni stimoli sono esagerati, che rischiano di diventare fastidiosi, li posso togliere e viceversa, ne posso aggiungere di nuovi, a dipendenza di quello di cui avverto il bisogno», aggiunge Francesca Ferrari, che si è avvicinata allo Snoezelen grazie alle sue figlie, che oggi hanno 11 e 9 anni. «Entrambe hanno frequentato un asilo montessoriano e questo ha accresciuto in me l’interesse per la figura di Maria Montessori e la sua filosofia. Da qui ho sviluppato una passione verso il gioco educativo – che utilizza a scopi, appunto, educativi, giocattoli in legno, costruiti con estrema cura ed attenzione –dopodiché sono venuta a conoscenza dei giochi sensoriali e lì mi si è aperto un mondo; quello che non acquistavo più perché di plastica, ho scoperto che, se messo, per esempio, su una tavola luminosa, acquisisce una vita ed un senso propri. Mi sono quindi informata su questo mondo e ho deciso di seguire i corsi per diventare operatrice Snoezelen, che si tengono anche nel nostro Cantone», racconta. Attualmente, nella sua attività lavora con un’utenza molto varia, che va dai bambini agli anziani. «Lo Snoezelen è infatti un’attività inclusiva che si adatta ad ogni età e condizione e che può, fondamentalmente, essere uti-

In generale, per gli adulti e i bambini dai circa sette anni in su, le sedute possono essere organizzate attorno ad un tema specifico. «Nel caso invece di un bambino più piccolo, vengono fatte più che altro delle sedute esplorative. Vengono cioè messi nella stanza una serie di stimoli, secondo quelle che sono le sue esigenze, i suoi interessi, e il bambino è libero di esplorarli insieme alla mamma», continua Francesca Ferrari. «A tal riguardo, ci tengo a precisare che venire a fare una seduta con il proprio bambino non è come portarlo in ludoteca o al parco giochi. Si tratta di un contesto in cui la relazione con la mamma (o comunque con la persona adulta presente in quel momento) è determinante. Io – che sono l’altro adulto presente – sono lì con la funzione di accompagnatore, per dare cioè degli spunti, per far vedere delle cose a cui loro magari non pensano, ma l’attività deve avvenire tra la figura di riferimento e il bambino». Più in generale, infatti, è importante non ridurre lo Snoezelen ad un luogo contenente materiali vari ed affascinanti destinati a stimolare i sensi; esso è molto di più, è sì – sintetizzando quanto fin qui visto – uno spazio che mira a far raggiungere rilassamento e benessere attraverso la sensorialità, ma pure un mezzo di stimolazione capace di mettere in atto dei processi di apprendimento ed educazione e, infine, uno strumento relazionale, l’incontro di due esseri umani nel «qui e ora».

alleAccanto terme Leukerbaddi
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ATTUALITÀ

Se il lavoro non basta per vivere

Il tasso di povertà fra le persone attive è del 4,4% mentre si discute di salari minimi e contratti collettivi: a quali dare la precedenza?

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Criptovalute, non solo rose e fiori Torniamo nel mondo delle valute digitali, affrontando i temi legati alla criminalità e al fisco grazie all’aiuto di due esperti

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Chi è la nuova capa delle spie britanniche

Potentissime ◆ Blaise Metreweli sarà la prima donna a guidare i servizi segreti o MI6 in un contesto sempre più complesso

Fino a poco tempo fa Blaise Metreweli si occupava del reparto tecnologia dell’MI6, i servizi segreti esterni di sua maestà britannica. Per gli appassionati di James Bond, era Q, responsabile dei favolosi gadget in grado di origliare, registrare, trasmettere, esplodere in qualunque contesto. Dal 30 settembre Blaise –come il filosofo Pascal, nome maschile, che in francese equivale al nostro Biagio – sarà la prima donna a guidare l’MI6 nel suo secolo e passa di storia, dopo che l’MI5, servizi interni, e il GCHQ, cybersicurezza, hanno già aperto da un po’ alla leadership femminile. Diventerà quindi C, che rimanda al modo in cui il primo capo, Mansfield Smith-Cumming, aveva scelto di firmarsi, usando solo e sempre inchiostro verde per le sue comunicazioni. Ora anche Blaise Metreweli userà solo il verde, anche sul computer, come da tradizione, e come da tradizione sarà l’unica dipendente dell’MI6 con un’identità pubblica e la possibilità di rilasciare dichiarazioni. La prima è stata la seguente: «Sono fiera e onorata di essere stata chiamata a guidare il mio servizio. MI6 gioca un ruolo vitale – con MI5 e GCHQ – nel garantire la sicurezza dei cittadini britannici e promuovere gli interessi britannici all’estero. Non vedo l’ora di continuare questo lavoro insieme ai coraggiosi funzionari e agenti dell’MI6 e ai nostri numerosi partner internazionali». Il lavoro della spia consiste nel «fare cose straordinarie» continuando a «sembrare normale»

Nata il 30 luglio del 1977, di lei si sa pochissimo, se non che ha fatto Westminster, una scuola privata del centro di Londra, che ha studiato antropologia al Pembroke College di Cambridge, che è stata nella squadra di canottaggio e, forse, continua a remare di tanto in tanto, che è entrata nei servizi nel 1999, che ha lavorato come operativa in Medio Oriente e in Europa, che parla arabo, che ha una famiglia e che ha degli amici talmente fedeli che nessuno, ma proprio nessuno ha voluto rivelare qualcosa su di lei. Il suo predecessore, Sir Richard Moore, l’ha definita «una delle nostre menti più avanzate sulla tecnologia». Le lascerà la sua scrivania il 30 settembre. Le poche foto – una ufficiale, recente, e un paio di quando era nella squadra di rowing – mostrano una donna alta e atletica con gli occhi azzurri e i capelli biondi corti, che in alcune interviste date sotto falso nome ha raccontato di aver sempre voluto fare questo mestiere e di aver rubato il manuale della pic-

cola spia al fratello già da bambina. Sir Alex Younger, ex capo dell’MI6, l’ha descritta come «un’agente operativa incredibilmente esperta, credibile ed efficace». Il lavoro della spia consiste nel «fare cose straordinarie» continuando a «sembrare normale», aveva spiegato al «Financial Times» qualche anno fa, quando già era una delle donne più importanti nel grande palazzo di vetro verde sulla riva sud del Tami-

gi. Un’altra volta aveva detto che la bellezza del suo lavoro sta nel cercare «da mattina a sera, di capire dove possiamo fare del nostro meglio per evitare il male». Poi, forte dei suoi studi antropologici – è una geek (ovvero una persona che possiede un estremo interesse e una spiccata inclinazione per le nuove tecnologie) ma non ha una formazione scientifica – si è detta «veramente affascinata dal comportamento umano e dal come e dal perché la gente agisce». Anche perché «non sono gli Stati a farsi certe cose, ma sono gli individui». Gente, persone, esseri umani: questo vale sia per gli avversari che per le vittime, «ed è molto importante vedere le cose da questo punto di vista». Non solo, per Blaise Metreweli è importante sapere cosa si difende: «Per tutta la carriera ho vissuto in Paesi in cui i principi democratici e le libertà talvolta scompaiono da un giorno all’altro o in cui la stampa libera viene schiacciata, e questo ti fa pensare a quanto sia speciale il Regno Unito. È davvero raro e merita di essere protetto». Questo non impedisce che ci siano state «esperienze difficili, sia professionali che personali», o «periodi traumatici» da cui è venuta fuori anche grazie all’aiuto dei servizi.

Lo spionaggio si nutre della diversità di sguardi, e quello femminile negli anni è sempre stato un asset davvero prezioso

Il mondo non è mai stato così pericoloso, così pieno di sfide, come hanno messo in evidenza sia Moore che il premier Keir Starmer. «Facciamo fronte a minacce su una scala senza precedenti», ha commentato quest’ultimo, «e so che Blaise continuerà a fornire l’eccellente guida necessaria per difendere il nostro Paese». Che la priorità sia la Cina, o l’Iran – dall’MI5 hanno fatto sapere che dal 2022 Teheran è stata dietro una ventina di tentativi di uccidere, rapire o prendere di mira oppositori politici – quello di Metreweli si preannuncia come un compito erculeo, e non certo perché è una donna. I tempi sono ormai maturi, le candidate al posto erano tre e Barbara Woodward, ambasciatrice alle Nazioni Unite, non ce l’ha fatta soprattutto perché giudicata troppo tenera verso Pechino. L’MI5 è stato guidato già da Stella Rimington, colei che per prima si mise a scrivere libri sulla sua esperienza da spia e che, dicono, ispirò la fi-

gura di M interpretata da Judi Dench in James Bond, e da Eliza Manningham-Buller tra il 2002 e il 2007. Da un paio d’anni il GCHQ è diretto da Anne Keast-Butler, ex vice direttrice generale dell’MI5. Se da una parte sono organizzazioni tradizionaliste e maschiliste, dall’altra lo spionaggio si nutre della diversità di sguardi, e quello femminile negli anni è sempre stato un asset.

Certo, le donne nei servizi segreti devono vedersela con una serie impressionante di stereotipi, che vanno dalla Mata Hari di turno alla donna geniale ma disturbata, come Carrie Mathison di Homeland. Per creare contatti evitando ogni forma di equivoco, Metreweli ha un trucco: usare paragoni famigliari. «Mi sembra di essere tua sorella», «immagino che tu sia mio fratello», «ti rispetto come un padre» sono frasi che possono fare molto per evitare che l’interlocutore fraintenda una confidenza che, in molti Paesi, continua a essere rara con le donne. Ma non è una debolezza, anzi, essere sottovalutati è sempre un atout. Anche se poi bisogna essere forti, lucide e tessere «relazioni incredibilmente vicine con un numero di agenti che rischiano al loro vita per poter condividere segreti con noi».

La sede dei servizi segreti (MI6) a Londra e, sotto, il ritratto di Blaise Metreweli. (Keystone)
Cristina Marconi

Disturbi intestinali ricorrenti?

Quando

l’intestino condiziona la quotidianità: ecco il

Disturbi intestinali ricorrenti come diarrea, dolori addominali e gonfiore affliggono la vita quotidiana di quasi un milione di svizzeri.1 Tuttavia, la maggior parte di loro non sa che probabilmente soffre della cosiddetta sindrome dell’intestino irritabile. Per molto tempo le cause della sindrome dell’intestino irritabile sono rimaste poco chiare. Ora, però, gli scienziati hanno dimostrato che, di solito, la causa dei disturbi intestinali ricorrenti è una barriera intestinale danneggiata.

Una speranza dalla ricerca

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Quando il lavoro non basta per vivere

Berna ◆ Il tasso di povertà fra le persone attive è del 4,4% mentre si discute di salari minimi e CCL: a quali dare la precedenza?

Lavorare e guadagnarsi da vivere. È un patto sociale che non sempre è mantenuto. Neppure in Svizzera. Oltre 60 mila persone, benché abbiano un impiego fra l’85 e il 100%, sono considerate povere. Sono il 2,3% delle persone attive, secondo l’Ufficio federale di statistica o UST (la soglia di povertà è calcolata sulla base delle direttive della Conferenza svizzera delle istituzioni dell’azione sociale e nel 2023 ammontava a 2315 franchi al mese per una persona sola e 4051 per due adulti con due bambini). Potrebbe sembrare poco, ma immaginate: è come se tutta la città di Bienne fosse in questa condizione. Se poi estendessimo lo sguardo a tutte le persone con un impiego che sono a rischio povertà arriveremmo all’equivalente di Ginevra e Basilea messe assieme, parliamo di 336 mila persone. Vero, in quest’ultimo caso si tiene conto anche di lavoratrici e lavoratori con impieghi a percentuali ridotte, con orari irregolari o ancora con contratti a tempo determinato e che quindi non hanno lavorato continuativamente per l’intero anno.

Paura delle spese straordinarie

Persone come Marie, madre single di una figlia, che ha raccontato la sua storia a «LeTemps». Un impiego all’80% nel Canton Vaud come parrucchiera, un salario di 3000 franchi al mese e la paura di ogni spesa straordinaria, di ogni piccolo incidente: come una visita dal dentista. E per pagare le vacanze, la necessità di fare qualche lavoro domestico in case altrui.

La sua condizione e quella di tanti altri lavoratori è tornata d’attualità nelle scorse settimane in concomi-

tanza con il dibattito in Parlamento sulla modifica di legge la quale sancisce che i contratti collettivi di lavoro (CCL) prevalgono sui salari minimi cantonali. Il fronte di centro-destra è rimasto compatto e il Nazionale ha accettato la modifica (la palla passa ora agli Stati). Lo ha fatto contro il parere del Consiglio federale e di 25 Cantoni su 26, i quali ritengono che un contratto privato (qual è un CCL) non possa e non debba avere la precedenza su una legge votata dal popolo. La questione comunque si pone al momento solo in due Cantoni: Ginevra e Neuchâtel. Negli altri che conoscono lo strumento del salario minimo (Basilea Città, Giura e Ticino), questo non viene applicato laddove c’è un CCL. Il salario minimo, va ricordato, è stato voluto dagli elettori come misura sociale proprio per far fronte proprio alla povertà dei lavoratori e per lottare contro il dumping salariale.

Chi in Parlamento ha sostenuto la modifica della legge non mette certo in dubbio che ci sia la necessità di intervenire in questi ambiti; ritiene però che centrale debba essere il dialogo fra imprenditori e sindacati. Quel partenariato sociale che in quasi cent’anni ha garantito la pace del lavoro, un valore questo che – rileva il Dizionario storico della Svizzera – ha plasmato la nostra identità nazionale. «Conosco le capacità negoziali dei sindacati», ha detto il capogruppo del Centro Mathias Bregy in aula. «Conosco le intense discussioni e confido che tutte le parti coinvolte (datori di lavoro, dipendenti e Governo) troveranno delle buone soluzioni; soluzioni che alla fine aiutino in particolare i dipendenti, ma che non indeboliscano i datori di lavoro al punto da non es-

sere più finanziariamente sostenibili». In gioco non ci sono dunque solo i valori (democrazia e federalismo vs. partenariato sociale e pace del lavoro), per gli imprenditori c’è dell’altro. Qualcosa che è racchiuso nell’affermazione pronunciata nella sua audizione davanti alla commissione dell’economia dal direttore degli imprenditori svizzeri: «Un salario che garantisca la sussistenza non è compito dei datori di lavoro». È l’esplicita rottura del patto sociale, afferma indignata la maggioranza dei lettori del «Blick», il quotidiano che ha pubblicato la dichiarazione. Nei giorni successivi Roland A. Müller ha cercato di spiegare. La realtà – ha detto – è che ci sono delle imprese che proprio non possono pagare i salari minimi imposti da due Cantoni, se lo facessero metterebbero a rischio la loro stessa sopravvivenza. Facciamo un esempio. Il CCL dei parrucchieri prevede per una persona senza formazione e al primo anno

Come risparmia la Svizzera

di impiego un salario di 3650 franchi, quello minimo del Canton Ginevra ammonta a circa 4000. Una bella differenza, ma bisogna tener presente che nei contratti collettivi sono disciplinati anche altri aspetti oltre alla paga: le vacanze, il riposo, la formazione continua o le condizioni di pensionamento. Resta però che, per le autorità ginevrine, con meno di 4000 franchi non si riesce a vivere e questo è un problema anche per le autorità. Sono infatti Cantone e Comuni a dover intervenire laddove il salario non è sufficiente. L’aiuto sociale è a carico loro. Chi ha sostenuto i CCL contro i salari minimi vede la situazione da una prospettiva diversa, Roland A. Müller al «Tages-Anzeiger» afferma che per i lavoratori poco formati e attivi in settori a basso reddito è meglio avere un lavoro che essere disoccupati ed è meglio anche per lo Stato, che altrimenti dovrebbe farsi carico delle loro necessità. Se questi impieghi sparissero, conclude, nessuno ne trarrebbe beneficio. Un argomento che è riecheggiato anche in Parlamento: il PLR Marcel Dobler ha affermato che questi impieghi permettono l’accesso al mondo del lavoro e quindi possono essere l’inizio di una spirale positiva di crescita individuale. D’accordo anche l’UDC Paolo Pamini: «Spesso chi percepisce un salario basso non lo riceve per tutta la vita, ma solo in una fase, per acquisire delle conoscenze. Pensiamo ai casi più estremi, gli stage non remunerati, con un salario minimo zero, che servono tuttavia alla persona per raccogliere esperienza». Formazione, lavoro, esperienza sono fattori determinanti per sfuggire alla povertà, proprio per questo gli sforzi delle autorità si focalizzano da sempre su questi assi per venire in aiuto alle persone in difficoltà. Ed è vero che il tasso di povertà fra le persone con un qualsiasi tipo di attività professionale è del 4,4% (UST), circa la metà di quello della popolazione svizzera generale. Un tasso però che è sostanzialmente rimasto stabile nell’ultimo decennio così come quello del rischio di povertà delle persone con un’occupazione. Per alcuni, purtroppo, non sembrerebbero esserci ascensori sociali. Senza entrare nel dibattito politico in corso, torniamo al dato dal quale siamo partiti: alle tantissime persone che pur lavorando faticano a sbarcare il lunario. Persone poco formate, genitori soli, divorziati, piccoli lavoratori indipendenti, persone con un passato migratorio. La maggior parte non vive né a Ginevra né a Neuchâtel. Magari queste discussioni parlamentari riporteranno un po’ d’attenzione su tutti loro e con essa qualche inattesa soluzione ad un problema annoso e spesso dimenticato.

La consulenza della Banca Migros ◆ Cosa pensa la gente delle criptovalute, come investe il proprio denaro, a quanto ammonta la sua riserva di contanti: ecco i principali risultati di un sondaggio della Banca Migros

Jörg Marquardt

Sei su sette persone intervistate risparmiano o investono e la metà di queste mette da parte fino a 1000 franchi al mese. Nel caso di importi più elevati, la percentuale delle donne diminuisce rispetto agli uomini (il 34% contro il 47%). La fascia d’età in cui si risparmia e investe di più si colloca tra i 30 e i 55 anni.

Il 14 % della popolazione risparmia «senza pensarci troppo», non ha quindi un obiettivo di risparmio specifico.

Il 54 % del gruppo di intervistati indica la previdenza per la vecchiaia come principale obiettivo di risparmio e d’investimento. Al secondo posto si colloca il risparmio come riserva finanziaria per gli imprevisti (49%). «Questo riflette la grande esigenza di sicurezza in tempi incerti», afferma Sacha Marienberg, responsabile Investment Office della Banca Migros. Il risparmio per la proprietà abitativa è invece al terzo posto (31%).

Vince tra i metodi di risparmio più diffusi il conto di risparmio, la soluzione più

menzionata per quasi tutti gli obiettivi di risparmio. «Le persone intervistate desiderano rischiare il meno possibile oppure non conoscono abbastanza gli investimenti», afferma Marienberg. Per quanto riguarda la previdenza per la vecchiaia e il pensionamento anticipato, la preferenza va al pilastro 3a. Quasi la metà lo utilizza anche a scopo di risparmio per la proprietà abitativa.

Il 19 % usa attualmente le criptovalute o vi ha

Quali soluzioni d’investimento privilegiano gli svizzeri?

già investito. La percentuale più elevata (26%) si riscontra tra i giovani di età compresa tra i 18 e i 29 anni. Per le persone di età superiore ai 55 anni, invece, questa è inferiore al 10%. Rispetto alle donne, gli uomini hanno investito con frequenza doppia in criptovalute (27%). «La maggior parte delle persone intervistate attualmente investe nelle criptovalute solo per curiosità», afferma Sacha Marienberg. Nei prossimi anni si vedrà se queste diventeranno parte integrante di una strategia d’investimento.

Il 46 % delle persone di età superiore ai 55 anni si avvale della consulenza di una banca, ricorre alla gestione patrimoniale o si rivolge ad altri specialisti per le questioni finanziarie. La percentuale è solo del 16% nella fascia d’età 18-29 anni e del 19% in quella 30-55 anni. Solo l’8% di tutti gli intervistati preferisce affidarsi alla competenza di amici e familiari.

Per il 26 %

degli intervistati è essenziale rischiare il meno possibile negli investimenti. Solo il 13% dà molta importanza agli utili di capitale elevati. Ciò che salta

all’occhio è che, in media, le donne attribuiscono maggiore importanza al basso rischio, alla sostenibilità e alla consulenza, mentre gli uomini puntano su commissioni basse e utili di capitale elevati.

Il 27 % è molto interessato ai temi che riguardano la finanza e gli investimenti, con una percentuale più alta tra gli uomini (37%) rispetto alle donne (17%).

Vi è inoltre un divario tra le regioni linguistiche: solo il 22% delle persone dichiara di essere molto interessato a questi temi nella Svizzera Romanda; nella Svizzera tedesca è il 28% e in Ticino il 29%.

Il 40 % indica che la propria situazione finanziaria è migliorata negli ultimi due anni. Tuttavia, più di un quinto degli intervistati vede un peggioramento della sua situazione finanziaria. «La vita è diventata più cara, molte persone sono messe a dura prova soprattutto dall’aumento degli affitti e dai premi della cassa malati», osserva Marienberg. Soprattutto le persone con un reddito basso dichiarano di essere finanziariamente al limite.

A 100-500 franchi ammonta la riserva di contanti che un quarto degli intervistati detiene in casa o in una cassetta di sicurezza. Altrettante persone tengono da parte 100 franchi, mentre il 20% dispone di più di 1000 franchi in contanti. Le persone in età avanzata tendono ad avere una maggiore riserva di contanti, e questo vale per entrambi i generi.

Sondaggio rappresentativo Il sondaggio online effettuato su incarico della Banca Migros si basa su 1521 interviste condotte con persone di età superiore ai 18 anni provenienti da tutta la Svizzera.

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Criptovalute: attenzione ai malintenzionati

Intervista a Paolo Attivissimo ◆ L’avvento delle monete digitali ha reso più facile alcuni tipi di estorsione e truffa: come difendersi?

Come funzionano i Bitcoin e le altre «monete» digitali, la loro storia, le politiche di alcuni Stati in materia. Questi gli argomenti di un articolo pubblicato su «Azione» qualche settimana fa (Criptovalute alla conquista del mondo, edizione del 16 giugno 2025). Oggi torniamo nel mondo delle valute digitali da una diversa angolazione, affrontando i temi legati alla criminalità e alle tasse grazie all’aiuto di due esperti. Partiamo da Paolo Attivissimo, giornalista informatico ed esperto di sicurezza: «La Svizzera è stata tra i primi Paesi al mondo a introdurre disposizioni legali sulla tecnologia blockchain (agosto 2021) ma è importante sottolineare che queste “servono” a chi intende operare nella legalità e quindi vuole essere sicuro di camminare nella giusta direzione. Ci sono ovviamente persone a cui le regole non interessano, che possono eludere le leggi e anche ingannare tanti ingenui cittadini e cittadine…».

Ma facciamo un passo indietro. Le criptovalute non sono tutte uguali (come del resto non lo sono le monete tradizionali quali dollari Usa, lire libanesi, euro, rupie indonesiane ecc.), evidenzia il nostro interlocutore. Non tutte hanno lo stesso valore e la stessa solidità. «È importante riconoscere la differenza: i soldi del Monopoli sono diversi dai franchi svizzeri. Scegliete bene, insomma…». Alcune «monete» digitali sono molto volatili – come i Bitcoin – mentre le stablecoin (ancorate a un certo valore patrimoniale) conoscono una discreta stabilità. Le prime sono attualmente usate soprattutto come riserva di valore e strumento speculativo, più che come effettivo sistema di pagamento.

Continua Attivissimo: «Con banconote e strumenti di pagamento tradizionali abbiamo una dimestichezza istintiva, li conosciamo bene. Sappiamo che esiste un sistema complicato che garantisce la loro autenticità e il loro valore. Sappiamo che quando inoltriamo un bonifico entra in gioco una banca (garante), sorvegliata da autorità come la Finma (Autorità federale di vigilanza sui mercati finanziari). Esiste insomma un’infrastruttura consolidata che funziona, anche se non è perfetta. Per contro le criptovalute sono ancora poco conosciute e soprattutto si tratta di soldi immateriali, di oggetti impalpabili che come tali si prestano a certi inganni e truffe».

«Meglio trovare un’istituzione di riferimento solida e reale che garantisca le transazioni»

In particolare all’intervistato capita spesso di essere contattato da persone disperate, «gabbate» da pubblicità di investimenti in criptovalute, pubblicate su Facebook o altri social: «Affidami 200 franchi e ne guadagnerai 400 in un mese, portamene 400 e diventeranno 800 e così via…». Attira-

ti da quella che sembra un’interfaccia di tipo bancario (un’app, un estratto conto ecc.), ci cascano in pieno. I numeri compaiono sullo schermo grazie a un trucco informatico ma i soldi non ci sono. L’unico denaro reale è quello che «si regala» ai truffatori che poi scappano col malloppo. «Non fidatevi delle offerte troppo belle per essere vere trovate magari su Pc o telefonino», consiglia l’esperto. «Non lasciatevi sedurre dal miraggio di profitti facili. Verificate sempre l’af-

Criptovalute e tasse, come funziona in Svizzera? Ci risponde Giordano Macchi, direttore della Divisione delle contribuzioni del Dipartimento delle finanze e dell’economia del Cantone: «Dal profilo fiscale le criptovalute appartengono di principio alla sostanza privata del contribuente e sono da considerare come delle valute estere. Come tali devono figurare nella dichiarazione d’imposta come elementi della sostanza mobiliare, preferibilmente nella rubrica “Elenco dei titoli e di altri collocamenti di capitali” (eccezione se le compro e vendo per lavoro).

Per quanto riguarda le compravendite, normalmente in Svizzera si tratta di utili in capitale esenti da tassazione o di perdite in capitale non deducibili, quando le criptovalute sono detenute nella sostanza privata. Faccio un paio di esempi: alcuni anni fa sono stati comprati 2 Bitcoin a 40’000 franchi l’uno. Se venissero venduti entrambi a 200’000, l’utile di 120’000 franchi sarebbe un utile in capitale esente. Se invece acquisto un Ether a 2500 fran -

fidabilità di chi propone acquisti/ scambi. Meglio trovare un’istituzione di riferimento solida e reale che garantisca le transazioni, magari risparmiando sulle commissioni perché le criptovalute implicano meno intermediari».

E qui si arriva a una sorta di contraddizione: ad esempio Bitcoin, in origine, aveva l’ambizione di diventare un mezzo di pagamento senza intermediari (abbattendo non pochi costi e sganciandosi dalle banche e

chi, e poi lo vendo a 2000, non posso dedurre la perdita di 500 franchi dagli altri redditi».

Le criptovalute aumentano le possibilità di evasione? Come mai?

In Svizzera vige ancora un certo segreto bancario (se ad esempio un residente detiene delle valute digitali in una banca elvetica è tenuto a dichiararle, l’istituto non trasmette automaticamente i dati alle autorità). Inoltre spesso le criptovalute sono conservate al di fuori delle banche, ad esempio tramite app dedicate sui telefoni cellulari. In questi casi, come appare evidente, è difficile per l’autorità fiscale scoprire questi asset. In ogni modo la Svizzera ha aderito al CARF, ossia il Crypto asset reporting framework, che è un’estensione tecnica dello scambio automatico di dati bancari tra i Paesi aderenti (questi ultimi si impegnano insomma a mandare informazioni anche sulle criptovalute).

L’entrata in vigore del CARF è prevista per il 2026, con un primo scambio

dalla politica che spesso fanno i loro interessi e non il bene della società) ma Attivissimo suggerisce in un certo senso il contrario per tentare di evitare esperienze sgradevoli: «Tornando a un sistema più tradizionale – che non è senza pecche intendiamoci! – si hanno delle garanzie, soprattutto in caso di problemi si dispone di canali legali per far valere i propri diritti». Ora torniamo ai criminali. L’avvento delle criptovalute ha reso più facile mettere in pratica anche alcu-

di dati nel 2027. Allora il fisco ticinese potrà ricevere informazioni tramite questo canale. A livello tecnico, disponiamo di interfacce che caricano automaticamente le informazioni ricevute da altri Paesi nel dossier del contribuente.

Sono molte le criptovalute «dichiarate» in Ticino?

Al momento non ci è possibile estrarre dalle banche dati questa informazione. In ogni modo si constata una maggiore presenza di questo tipo di attivi nelle dichiarazioni fiscali. Ci saranno sicuramente anche persone che posseggono monete digitali ma non le dichiarano. Quante non ci è possibile stimarlo, vista la facilità di nasconderle, almeno finché non entra in vigore il CARF. Già dal 2018 la Divisione delle contribuzioni ha pubblicato Trattamento fiscale delle criptovalute, reperibile al link; https://www4.ti.ch/fileadmin/ DFE/DC/DOC-PRASSI/2018_ Trattamento_fiscale_delle_ criptovalute.pdf

ni tipi di estorsione. Il nostro interlocutore ci parla, ad esempio, di attacchi informatici a piccole e grandi aziende. «Il malintenzionato blocca il tuo sistema di contabilità e ti ricatta: se vuoi che funzioni dammi soldi… Oggi questi pagamenti avvengono quasi sempre in criptovalute perché queste sono difficili da tracciare (il contante rimane comunque meno tracciabile in assoluto). Certo, la tecnologia blockchain – alla base delle valute digitali – fa in modo che tutte le transazioni siano pubbliche (è come se ogni banca del mondo rendesse noto un registro con chi ha pagato, cosa, a chi e quando). Il problema è che nel registro non ci sono i dati di chi ha effettuato l’operazione e di chi la riceve, si trova piuttosto l’indicazione dei wallet, ovvero dei portafogli (dal portafoglio A sono usciti dei soldi e sono finiti nel portafoglio B). A chi appartengono i portafogli? È complicatissimo scoprirlo. Ed esistono dei sistemi chiamati mixer che permettono di confondere le acque… Insomma, senza un’indagine complessa e molto approfondita i soldi persi sono praticamente impossibili da recuperare. Magari verranno messi in qualche banca compiacente in un Paese in cui vigono delle regolamentazioni blande in materia...». Se però il criminale non usa la testa è più facile «pizzicarlo» (questo anche se ruba dei soldi materiali in una banca). L’intervistato ricorda un caso che ha seguito tempo fa: una banda di truffatori era riuscita a trafugare un milione di dollari in Bitcoin. Si è tradita perché si è data alla «bella vita» e ai «festini», invitando modelle, regalando gadget, spendendo e spandendo. Ha così attirato l’attenzione dei malavitosi, vogliosi di ricavarci a loro volta qualcosa, e degli inquirenti. Indovinate come si è conclusa la vicenda?

Ma c’è chi è più furbo e, dopo aver intascato illegalmente criptovalute, le ripulisce con una certa facilità. «Un esempio tipico sono i casinò – spiega Attivissimo – i quali possono diventare punti di riciclaggio del denaro rubato o delle criptovalute. Arrivi alla cassa col tuo wallet in Bitcoin, nessuno fa domande, compri fiches: se perdi poco male, mentre se vinci o pareggi porti a casa dei soldi perfettamente puliti».

Infine due parole sulla sostenibilità. «L’apparecchiatura necessaria per generare una quantità significativa di criptovalute costa decine di migliaia di franchi: stiamo parlando di super computer», afferma l’intervistato. «Una macchina di base consuma energia come tre forni domestici accesi tutto il giorno; c’è chi la tiene in casa e la usa come riscaldamento… I calcoli molto complessi che bisogna risolvere per generare criptovalute (mining) portano ad un dispendio energetico molto elevato, con un impatto ambientale notevole. In gran parte dei casi, poi, è più il consumo di corrente del denaro che metti in tasca».

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Sulla terribile Pax trumpiana

Medio Oriente ◆ Cosa c’è dietro la fragile tregua tra Israele e Iran, il ruolo dell’America pronta a rifare «amicizia» con il Pakistan

Ormai è diventata una prassi consolidata, pare. Per la seconda volta in poco più di un mese, Donald Trump annuncia via social media, e senza che le parti ne abbiano dato notizia, la fine di un conflitto armato. Lo scorso 10 maggio era toccato a India e Pakistan, il 24 giugno è stata la volta di Israele e Iran. Dal suo account Truth Social, il presidente americano si scatenava con l’abituale abbondanza di maiuscole: «CONGRATULAZIONI A TUTTI! È stato concordato tra Israele e Iran che ci sarà un cessate-il-fuoco completo e totale…. Partendo dal presupposto che tutto funzionerà come dovrebbe, e così sarà, vorrei congratularmi con entrambi i Paesi, Israele e Iran, per aver dimostrato la forza, il coraggio e l’intelligenza necessari per porre fine a quella che dovrebbe essere definita LA GUERRA DEI 12 GIORNI…».

L’operazione americana, nome in codice Midnight Hammer, ha coinvolto 125 aerei militari e ha preso di mira tre impianti nucleari

Le parole di Trump sono molto simili a quelle adoperate per India e Pakistan e, a guardare bene, non per caso. Pochi giorni dopo il cessate-il-fuoco tra Delhi e Islamabad, veniva fuori che nella base di Nur Khan (vicino a

Trump (nella foto in basso) ha invitato a pranzo alla Casa Bianca il maresciallo di campo Asim Munir (qui una sua immagine ufficiale), capo dell’esercito pakistano. (Keystone)

Rawalpindi) bombardata dall’India si trovavano militari americani invece che pakistani. Gli stessi militari americani che, a quanto pare, erano atterrati un mese prima a Bagram, in Afghanistan: un piccolo contingente,

QUANDO ARRIVATE A VALLE PRIMA DELLA BICI.

Noi vi raggiungiamo rapidamente in tutta la Svizzera.

Jetzt Gönnerin oder Gönner werden Diventare sostenitrice o sostenitore

la cui presenza non è mai stata ufficialmente confermata. Secondo molti analisti, l’unica ragione plausibile della rinnovata presenza americana nell’area era la possibilità di un attacco all’Iran. Qualche settimana dopo,

Trump invitava a pranzo alla Casa Bianca il maresciallo di campo Asim Munir, capo dell’esercito pakistano, accreditandolo di fatto come leader del Paese. Non solo: Munir veniva ricevuto anche al Pentagono, al Dipartimento di Stato e all’United States Central Command. Il giorno dopo il Pakistan candidava ufficialmente Trump al Nobel per la pace e, due giorni dopo, lo stesso Trump decideva di entrare nel conflitto tra Israele e Tehran. La popolazione pakistana reagiva con sdegno, invece il Governo prontamente sigillava il confine con l’Iran. E mentre una serie di finti account iraniani gestiti da Islamabad faceva circolare in Rete la notizia che il Pakistan sarebbe stato pronto a prestare ai fratelli iraniani le proprie armi nucleari contro Israele, i generali erano invece impegnati nel gioco che gli riesce meglio: quello delle tre scimmiette.

L’operazione americana, nome in codice Midnight Hammer, ha coinvolto 125 aerei militari e ha preso di mira tre impianti nucleari: Fordo, Natanz e Isfahan. Secondo le informazioni ufficiali, gli aerei sono decollati dagli Stati Uniti. Alcuni jet sono stati inviati a ovest nel Pacifico come «esca», mentre altri hanno preceduto i bombardieri principali per garantire che lo spazio aereo fosse libero. Due dozzine di missili da crociera sarebbero stati lanciati su Isfahan da un sottomarino. E però, forse le cose non sono andate proprio così: in Pakistan e dintorni circola difatti la voce sempre più insistente che in realtà gli ameri-

cani avrebbero usato, se non le basi, almeno lo spazio aereo pakistano per colpire l’Iran. E che Islamabad abbia, per l’ennesima volta, almeno in apparenza, buttato a mare i fratelli della Ummah di fronte alla prospettiva di diversi miliardi dollari e di una rinnovata «amicizia» con l’America. D’altra parte, i doppi e tripli giochi sono da sempre nel Dna del Pakistan: l’unico Paese islamico dotato di armi nucleari, che con queste ricatta regolarmente il resto del mondo ogni volta che gli viene chiesto conto dei terroristi che alleva e gestisce. Il Pakistan è, se ce ne fosse bisogno, la prova del perché all’Iran, come a qualunque altro Stato che usa il terrorismo come mezzo di politica estera, non deve essere permesso di possedere armi nucleari. Anche se, secondo i post di Trump, gli ayatollah sarebbero in fondo dei bravi ragazzi, se si esclude il vizietto di voler costruire la Bomba. Una «Nazione di commercianti» pronta a fare affari e con una leadership da trattare quindi con tutti i riguardi: anche se il suo più noto contingente militare è un’organizzazione terroristica internazionale. Ma si sa, i terroristi sono amici o nemici, «buoni» o «cattivi» secondo la congiuntura internazionale e la convenienza del momento. Così come i dittatori e i tagliagole travestiti da governanti. In ultima analisi, si può sempre fabbricare un dossier per liberarsene, come successe in Iraq, o invocare d’un tratto il «diritto internazionale» per fermare le armi in nome della «pace» ed evitare che un regime criminale venga eliminato. i terroristi sono amici o nemici, «buoni» o «cattivi» secondo la congiuntura internazionale e la convenienza del momento

Dopo la «guerra dei dodici giorni», gli iraniani tutti ringraziano: specialmente quelli, e sono centinaia, prontamente prelevati dalla polizia all’indomani della «vittoria» celebrata dal regime. Torturati, picchiati, gettati in prigione o appesi per il collo a una gru, contribuiranno al premio Nobel per la pace tanto desiderato da Trump? E che dire delle ragazze iraniane, quelle ridotte a brandelli per aver cantato una canzone o essersi scoperte il capo, quelle accecate dal regime, quelle stuprate, quelle morte e quelle di cui invece non si ha più notizia. Per non parlare di coloro che in Pakistan, dopo la «guerra dei tre giorni», sono scomparsi per mano dello Stato, gli oppositori massacrati, torturati e buttati cadavere per strada. E delle vedove dei turisti ammazzati in India dai terroristi armati da Islamabad. Il fatto è che questa «pace», la decantata Pax trumpiana, non è pace ma, come diceva il filosofo Jiddu Krishnamurti, soltanto assenza di guerra. I conflitti irrisolti, sempre pronti ad essere usati come mezzo per torcere metaforicamente il braccio ad alleati o nemici rimangono, appunto, irrisolti. E pronti a detonarti in faccia quando meno te lo aspetti. Come l’11 settembre, come il 7 ottobre. Lo disse anche Hillary Clinton: «Non puoi allevare serpenti in giardino e aspettarti che mordano soltanto i tuoi vicini». Non puoi sobillare guerre da remoto per poter poi dichiarare la pace. Aver fermato il conflitto in Iran o in Pakistan senza affrontare il problema alla radice, serve a poco. Come la pace, se è soltanto assenza di guerra.

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Il Mercato e la Piazza

La coda è un indice di scarsità

È estate, l’economia va in vacanza. Ma non è sicuramente tranquilla. Infatti, anche a metà anno, le previsioni sono state riviste verso il basso. Per la terza volta. E questo per colpa dell’insicurezza creata dagli ordini e contrordini del testone-Maga della Casa Bianca. Meglio parlar d’altro. Per esempio delle code. Fino all’altro ieri, nelle economie del mondo occidentale, l’aggiustamento della domanda all’offerta veniva effettuato dal mercato attraverso i prezzi. Nei Paesi del blocco comunista invece l’aggiustamento citato si effettuava per mezzo delle code. Era la lunghezza delle code davanti ai negozi, o alle sedi delle aziende fornitrici di servizi, che, più in male che in bene, informava gli esperti della pianificazione su quanto ampia era o poteva essere la domanda per un bene o servizio. Oggi, se trascuriamo la Corea del nord, non c’è più un’economia

Affari Esteri

nella quale la coda serva da indicatore per l’aggiustamento tra la domanda e l’offerta perché anche i Paesi comunisti che ancora sussistono hanno adottato l’economia di mercato. Aspettiamo un momento, però, prima di formulare lodi troppo sperticate sull’efficacia dei prezzi. In effetti dovrebbe essere chiaro, anche al più robinsoniano dei consumatori, che nel corso degli ultimi tre o quattro decenni la coda è stata adottata anche dalle economie di mercato. Ci siamo così abituati a fare le code non solo davanti agli stadi, ai musei o in altri posti dove si organizzano eventi speciali. No, la coda oggi è diventata, per tutti noi, un aspetto poco simpatico ma comune della quotidianità. La facciamo alla posta, nelle farmacie, nelle amministrazioni e davanti alle casse del supermercato. Non parliamo poi di studi medici e specialistici. O delle stazioni ferroviarie, di quelle

dei bus e degli aeroporti. Negli ultimi anni mi è capitato più di una volta, facendo voli continentali, di passare più tempo nelle code degli aeroporti che sugli aerei. E ancora non esistevano i divieti e i controlli introdotti da chi oggi vuole ricominciare a controllare partenze e arrivi. Particolarmente nefasta è la situazione in quei casi in cui l’acquisto del bene desiderato dipende anche dalla fornitura di servizi come avviene alla cassa dei supermercati, appunto nei check-in degli aeroporti e nelle amministrazioni pubbliche.

Delle code sulle autostrade si fa addirittura una statistica annuale: 55’569 ore di coda sulle strade svizzere nel 2024. A 24 franchi per ora (il salario minimo del Canton Ticino) sarebbero ore di lavoro perse dalla nostra economia per un totale di 1,3 milioni di franchi. Osserviamo che la cultura delle code varia da un Paese all’altro.

Donald Trump vince, l’Europa meno

Ha vinto tutto, Donald Trump. La guerra in Medio Oriente, il vertice della Nato all’Aia, la stanza nella reggia olandese, il tributo dei leader europei, il messaggio mellifluo del segretario generale dell’Alleanza atlantica, il padrone di casa (nato e cresciuto all’Aia) Mark Rutte, che aveva come unico, indispensabile obiettivo quello di non vedersi sgretolare davanti agli occhi la Nato. Il presidente Usa ha indossato gongolando l’abito del trionfalismo, dopo che aveva messo a punto la sceneggiata più sorprendente di sempre, quando aveva annunciato una pausa di riflessione di due settimane per valutare il coinvolgimento degli Stati Uniti al fianco di Israele nella guerra contro l’Iran, e poche ore dopo aveva dato il via libera ai bombardieri partiti dal Missouri e arrivati a colpire i siti nucleari iraniani. Siamo l’esercito più forte del mondo, ha scritto Trump sul suo diario-social Truth, abbiamo «obliterato» il programma

atomico della Repubblica islamica d’Iran e poi dopo di nuovo la pretesa di essere il padrone della guerra e della pace: cessate-il-fuoco. S’è innervosito, in partenza per l’Aia, il presidente americano, perché Israele e Iran non gli davano ascolto – «non sanno cosa ca… stanno facendo» – come vi permettete, io sono l’America, si fa quel che dico io. E poi così si è fatto. Gli europei aspettavano timorosi all’Aia, lavoravano a questo vertice da mesi, meticolosi e fantasiosi, per non ritrovarsi a tu per tu con Trump e assistere all’implosione della Nato, abbattuta dal disimpegno americano. Ma nelle due settimane precedenti il mondo si era ribaltato, l’incontro del G7 era stato un mezzo fallimento, con il presidente americano che si era impuntato per non usare toni troppo aggressivi nei confronti della Russia di Vladimir Putin e poi se n’era andato prima del previsto, con il Medio Oriente fisso in testa, un po’ di livo-

re contro il presidente francese Emmanuel Macron (che non ne azzecca mai una, secondo lui), e il subbuglio a Washington degli isolazionisti rafforzati da anni di retorica ritirista e pseudo pacifista che guardavano allibiti alla tentazione interventista che aveva attecchito nell’umore del loro capo. È passata una settimana tra il G7 inconcludente e il vertice all’Aia, e tutti i diplomatici europei ripetevano: facciamo bene i nostri compiti, così Trump non potrà sgridarci. I compiti sono chiari: bisogna spendere di più per la difesa collettiva, l’America non vuole fare tutto da sola come fa da decenni. Ci si è accordati sull’obiettivo del 5% del Pil in spese per la Difesa in dieci anni, con una revisione prevista a metà, nel 2029, per controllare che tutti si stiano mettendo in riga: è un obiettivo smisurato, se si pensa che quello valido fino a oggi, che è il 2% del Pil per la Difesa, è stato stabilito nel 2015 e non è ancora stato

I più disciplinati a fare la coda sono gli inglesi e i giapponesi. Mi ricordo che, prima che introducessero le biglietterie automatiche, non era raro in una stazione inglese, per esempio quella di Vittoria a Londra, di dover chiedere quale fosse la coda giusta perché le code davanti agli sportelli si incrociavano con quelle davanti alle entrate dei binari così da non lasciar capire per quale destinazione si fossero formate. Ciò non toglie che proprio questi Paesi siano stati tra i primi a introdurre misure efficaci per organizzare le code come l’estrazione di un numero, nelle amministrazioni inglesi, o la riservazione obbligatoria con entrate fisse all’altezza del posto riservato sui marciapiedi delle stazioni giapponesi. È giusto poi ricordare che vi sono anche persone che non hanno ancora imparato a fare la coda perché non è nel loro DNA. Nelle economie di

mercato la coda ha un significato diverso che in quelle pianificate. Mentre in queste ultime la coda è indice di scarsità dell’offerta, nelle economie di mercato essa può essere dovuta al tentativo di riversare parte dei costi sui consumatori. Terminiamo ricordando che, in entrambi i casi, la coda è un indice di scarsità. Ma non solo dell’offerta. Può anche indicare scarsità nel potere di acquisto. In una barzelletta che circolava nei primi anni Novanta dello scorso secolo in Polonia si affermava che tra comunismo e capitalismo non c’era differenza: in ambedue i sistemi la scarsità faceva nascere le code. Nei Paesi comunisti si faceva la coda davanti alla porta dei negozi perché scarseggiavano i beni, mentre nel capitalismo la coda si faceva davanti alle vetrine perché, scarseggiando i mezzi finanziari, ci si doveva contentare di ammirare i beni esposti.

raggiunto da molti Paesi membri, ma doveva essere dichiarato, non c’erano alternative. La Spagna ha cercato di defilarsi, dicendo quel che molti pensano e cioè che non si possono convertire le democrazie del welfare europee in economie di guerra, i conti non torneranno mai, non siamo pronti a sacrificare la sanità, l’istruzione, le pensioni per una nuova flotta di droni. Non voleva far crollare tutta la messinscena ossequiosa, la Spagna, così ha detto di non voler mettere un veto all’aumento della spesa, ma ha chiesto un’esenzioncina per sé stessa. Sembrava fatta, ma Trump ha rovinato tutto, dicendo: benissimo, quel che la Spagna non paga in Difesa lo restituirà sotto forma di dazi. E con questa minaccia il presidente americano ha svelato il gioco europeo: c’è anche una guerra commerciale da vincere, è per questo che si è evitato in tutti i modi il frontale con l’America. Per una volta, for-

Il calcio in balia di un algoritmo travestito da arbitro

Almeno mezzo secolo fa su una pagina del «Corriere della Sera» c'era un articolo con la firma di un noto scrittore. Sono quasi certo che fosse quella di Mario Soldati, ma la memoria non mi offre appigli sicuri. Lo scrittore raccontava di essere rientrato in serata dallo stadio e di aver visto sul televisore di casa sua che la partita a cui aveva assistito nel pomeriggio allo stadio stava iniziando. Era una delle prime trasmissioni televisive «in differita» e, dato che allo stadio la partita era finita con la sconfitta della sua squadra del cuore, lo scrittore «giocava» sulla novità tecnica augurandosi per quella che stavano trasmettendo in differita potesse concludersi con un risultato diverso, ovviamente favorevole alla sua squadra. Quell'articolo e la sua surreale conclusione mi sono tornati in mente più volte dopo aver visto partite di calcio

in televisione interrotte da lunghissime attese per la convalida (fatta di immagini rallentate e righe invisibili) di una rete o di un rigore concessi o annullati dal Var che dettava implacabilmente, anche all'arbitro, il giudizio definitivo. Avrete già capito: sono nemico del Video assistant referee, ovvero della stupidissima macchina che il gioco del calcio conosce come «algoritmo travestito da arbitro, moviola con l’autostima di un notaio, torre d’avorio tecnologica». Come minimo avrebbe dovuto essere testato meglio, invece è stato insediato quasi d'ufficio, esattamente come ora si farà con le bodycam degli arbitri sul campo. Un sovrapprezzo c'è già: il limite ai portieri di trattenere con le mani la palla a 8 secondi punito, se oltrepassato, con un corner, vale a dire con aumento esponenziale di balletti indecenti, sceneggiate fasul-

le e arbitri in frenesia in area. Il Var che avrebbe dovuto porre fine alle polemiche, le sta invece decuplicando senza curarsi di distruggere, oltre ai miti legati a epiche contese del passato, anche il ruolo dell'arbitro che, proprio con i suoi errori, «ha insegnato la fede laica nel destino, la capacità di digerire l’ingiusto, il romanticismo dell’inspiegabile» a milioni di giocatori, tifosi e sportivi che vivevano il calcio come una festa pagana e vedono «ogni tentativo di purificarlo con strumenti tecnici come un sacrilegio». Sto rubando i virgolettati a uno dei più implacabili articoli contro l'uso del Var scritto (nell’aprile scorso su «Il Foglio») non da un esperto di calcio, ma da una AI, un'intelligenza artificiale imbottita di memoria calcistica. Anche qui siamo al surreale con il Var della Fifa giudicato da un Var del giornalismo sportivo!

Mi sono sempre chiesto il perché di questa adozione calata dall'alto dai soliti «balivi imperiali» della Fifa. Certo, con il Var il calcio ora potrà essere più giusto. Ma, come sosteneva il citato articolo de «Il Foglio», «la giustizia non è mai stata il cuore del pallone»: basato su algoritmi travestiti da arbitri e da super controllori il Var ora è più che altro «figlio dello stesso spirito che vuole algoritmi per scegliere i libri, intelligenze artificiali per scrivere le poesie (…) Ha rubato al calcio la sua metafisica (…) L’ha fatto diventare un fascicolo, una pratica da archiviare dopo l’ultima revisione». Dobbiamo proprio perdere ogni speranza? Forse no: sta muovendo i primi passi proprio in Svizzera un'iniziativa che, grazie a referendum voluti da un semi-clandestino Partito Pirata, chiede di inserire fra i diritti costi-

se, all’Ucraina bistrattata da un’Amministrazione Usa ostile a Volodymyr Zelensky non è andata male. L’incontro tra i due presidenti è stato cordiale, Trump ha ascoltato Zelensky, ha detto che parlerà presto con Putin e gli farà presente che la sua escalation contro i civili ucraini è intollerabile e durante la conferenza stampa ha avuto un raro momento di umanità con una giornalista ucraina che gli chiedeva se i Patriot preziosi per la difesa del suo Paese saranno infine consegnati. La barra è bassa, certo, ormai l’obiettivo di Zelensky e degli europei è solo quello di non far imbizzarrire Trump, ed è stato raggiunto. I Paesi baltici, che hanno aumentato la spesa per la Difesa non perché lo pretende Trump ma perché conoscono la minaccia russa e sanno che è concreta, sono usciti delusi da quest’operazione di imbonimento quasi ridicola – ma non sono usciti ammaccati, e di questi tempi è già un risultato.

tuzionali anche il rispetto dell'«integrità digitale» dell'individuo. In vigore per ora solo a Ginevra e Neuchâtel, la norma difende il diritto di tutti i cittadini – quindi anche dei calciatori – «a non essere tracciati, misurati o analizzati» e «a non essere giudicati da una macchina». Questo principio di «integrità digitale» in autunno dovrebbe essere sottoposto al voto anche a Zurigo. Strano che il mega presidente Infantino – forse perché troppo impegnato nei maneggi del suo «mondialone» per club, competizione ideale per iniettare milioni alle società e imporre così altri impegni a giocatori sempre più spompati – non se ne sia ancora accorto. Altrimenti avrebbe già sfoderato di nuovo la sua super arma: via la sede della Fifa da Zurigo con progetti di trasloco a Mar-a-Lago, in Florida.

di Angelo Rossi
di Paola Peduzzi
di Ovidio Biffi

Tifo super hot per gli Europei!

CULTURA

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Il volo sopra l’oceano non convince Matteo Porru ha tutto ciò che serve per brillare in un sistema letterario spettacolarizzato, tranne, forse, un romanzo che riesca a distinguersi

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Le Corbusier, ritorno al futuro

Asterix ritrova l’umorismo perduto Animazione fedele e tono leggero: così Il duello dei capi batte i film che si prendevano troppo sul serio

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Mostre – 1 ◆ Al Padiglione di Zurigo un percorso espositivo che invita a riflettere sull’attualità e le potenzialità della sua lezione

Casa-museo? Summa architettonica? Testamento spirituale? Opera d’arte totale? Il Padiglione di Le Corbusier a Zurigo è tutto questo insieme e forse parte del suo fascino risiede in questa sua identità fluida. Da poco riaperto al pubblico dopo la pausa invernale, l’edificio di proprietà della città di Zurigo e gestito dal Museum für Gestaltung è l’ultimo progettato dal grande architetto svizzero; era stata la gallerista e mecenate Heidi Weber a convincerlo a realizzarlo e a finanziarne la costruzione. Ultimato e inaugurato nel 1967, a due anni dalla morte di Le Corbusier, il padiglione sembra progettato ieri.

Già attraversando il parco e osservandolo dall’esterno, si può leggere questa costruzione dalle pareti colorate e dalle ampie vetrate, come segno tangibile di una nuova epoca che ha imposto all’architettura una revisione dei suoi valori; nuove linee, uso funzionale dei colori e dei materiali, la geometria delle forme, i confini labili tra esterni e interni, la leggerezza strutturale e l’armonia delle proporzioni. Accedendo all’interno e girando per le sale, si ha l’impressione di muoversi tra le pagine di un catalogo tridimensionale delle idee più innovative di Le Corbusier che non riguardano soltanto la distribuzione dei volumi, la disposizione delle pareti interne, la posizione e l’ampiezza delle vetrate e delle finestre, la struttura delle scale, ma ogni dettaglio di arredo interno, dalle maniglie delle porte agli spigoli delle strutture portanti. La visita si trasforma anche in un viaggio nel tempo, in bilico tra storia, memoria e un futuro che era già lì, stampato sulle pagine del saggio-manifesto Vers une architecture, saggio-manuale che segna l’avvio di una rivoluzione nell’architettura del XX secolo. Dopo la Prima guerra mondiale il mondo stava rapidamente cambiando: la fisica quantistica, l’industrializzazione, l’ingegneria dei materiali che ricorre al cemento e al ferro, una cultura della costruzione con nuove esigenze abitative per una società regolata da una nuova economia, tanto che la casa diventa un problema di un’epoca, e per LeCorbusier «la maison est une machine à habiter ». I valori assoluti per l’architetto, pittore, scultore e scrittore, sono il volume, la superficie, il piano, che sono i titoli dei capitoli del libro, le cui singole pagine formano una singolare quadreria.

L’architettura avrebbe dovuto nutrirsi dell’estetica dell’ingegneria, rispettando una logica funzionale: ecco perché le sedie «sont des machines à s’asseoir » e l’elettricità serve soltanto a illuminare – con proiettori nascosti e luce diffusa: tutto è pensato nei dettagli per la comodità e la funzionalità, progettato su misura per il corpo

umano. Letteralmente su misura: infatti l’altezza dei soffitti ideale è fissata a 226 cm e l’altezza di un armadio a muro a 183/86 cm e quella di un tavolo a 70 cm, misure ricavate dal sistema di divine proporzioni del suo celebre «Modulor» (nel padiglione ne troviamo una versione su carta), che rappresenta una silhouette di un uomo alto 183 cm con il braccio alzato: la versione modernista dell’uomo vitruviano di Leonardo.

Se «Vers une architecture» resta un libro unico anche per il suo stile, la sua struttura e per le sue scelte iconografiche, diventando in breve tempo una pietra miliare nella storia dell’architettura (come dimostrano le decine di traduzioni ed edizioni del volume in tutte le lingue esposte nel piano seminterrato), l’allestimento nel piano seminterrato del padiglione dimostra quanto la figura di Le Corbusier sia stata sottoposta a una lettura critica con gli anni e quanto la sua lezione resti ancora oggi un punto riferimento imprescindibile in ambito accademico.

Rispondono in videointerviste architetti del presente, come Tom Emerson (co-fondatore di 6a architects e professore al Politecnico di Zurigo) che invita a rileggere quel libro – come un testo retorico, con una sua bellezza, letteraria, grafica e compositiva, ma per altri aspetti sorpassato, in quel suo «proporre di tornare alle pure fonti» della classicità greca, che oggi nessuno forse cerca più, o in quella stretta connessione tra tecnica ingegneristica e architettura. Per An Fonteyne, docente di design, le riserve sono legate agli atteggiamenti misogini di Le Corbusier, ma anche all’idea di un’architettura-tempio e di un formalismo modernista lontani da certi ideali democratici, principi che non si sente più di proporre ai suoi studenti.

Più che di rivoluzione, Tom Emerson preferisce parlare di evoluzione quindi, perché l’architettura dopo Le Corbusier si è sviluppata in molteplici direzioni: le sue idee restano feconde, come dimostrano gli otto progetti selezionati realizzati per la mostra temporanea dedicata a possibili visioni future dell’architettura, alle prese con nuove sfide come la digitalizzazione, la sostenibilità e la giustizia sociale. Se «la maison est une machine à habiter » il Drawing Architecture Studio di Pechino, rovesciando il concetto con piglio ludico e ironico, ha realizzato maquette di veicoli che fungono da case e all’occorrenza da spazio di lavoro ambulanti; un furgone-gelateria, una camionetta-biblioteca, un camper-ambulatorio, moduli multifunzionali adatti alla caotica vita di una metropoli contemporanea.

Se Le Corbusier visualizzava le sue idee attraverso testi, disegni e fo-

tografie, l’architetto parigino Jean Jacques Balzac realizza progetti effimeri grazie a immagini digitali generate dall’intelligenza artificiale; Habitat è una carrellata di ambienti ibridi, abitativi e lavorativi, perfettamente calibrati tra natura e tecnologia, ancestrali e tecnologici allo stesso tempo, dove una scrivania è attorniata da pareti rocciose e da vetrate geometriche di stile modernista o uno spazio living con divano design è adagiato sul letto di un torrente, in una foresta di conifere: luoghi adatti a una vita contemplativa, più che alla frenetica produt-

tività del capitalismo postmoderno. Da citare anche i progetti dello studio newyorchese Limbo Accra specializzato nel rinnovo e riuso di vecchi edifici modernisti abbandonati nell’Africa occidentale, testimoni del fallimento di certi ideali urbanistici. L’architettura e l’ambiente sono plasmati anche dalle infrastrutture dei dati – hardware, strutture per l’archiviazione e la protezione delle informazioni – come dimostra Datapolis il progetto di ricerca dell’università tecnologica di Delft illustrato grazie alle fotografie Paul Swagerman. Progetti

visionari che si intrecciano alle riflessioni sulla storia, che attraverso l’architettura rendono più comprensibile un futuro che già abitiamo.

Dove e quando Vers une architecture: Reflexionen. Pavillon Le Corbusier. Zurigo. Höschgasse; tram 2/4 fermata Höschgasse o 15 min a piedi da Stadelhofen (non ci sono parcheggi auto). Orari: ma-do 12:00-18:00; gio 12:00-20:00; lu chiuso. Fino al 23 novembre 2025. pavillon-le-corbusier.ch

Jean Jacques Balzac, An office with a large window, 2025. (Image: Jean Jacques Balzac)
Emanuela Burgazzoli

Samuele Gabai e la potenza della materia

Mostre – 2 ◆ Lo Spazio Officina di Chiasso omaggia l’artista ticinese con una monografica

Se capita spesso di non riuscire a ricondurre la produzione di un artista entro i confini di una corrente o di un movimento ben precisi, questo è ancor più vero per Samuele Gabai. Vuoi perché il suo linguaggio nasce da profonde riflessioni scaturite dalla commistione di vari ambiti di ricerca e di discipline diverse; vuoi perché, sebbene sia cresciuto nella cultura dell’arte informale da cui si è lasciato influenzare sin dall’inizio del suo percorso, Gabai si è poi distaccato dai dettami di questa stessa tendenza collocandosi in una sorta di zona di frontiera tra figurativo e astratto.

Questa sua non appartenenza a categorie predefinite che possano comodamente incasellarlo e circoscriverne i tratti salienti non ostacola però la percezione della sua arte come qualcosa di estremamente nitido e potente, capace di manifestare appieno la propria ragion d’essere.

È proprio su questo punto che, al di là della difficoltà nel trovare una confortevole definizione da attribuire all’artista, sono difatti tutti unanimemente concordi: nell’esplorare quel territorio in cui forma e informe si mescolano tra loro facendo sì che dalla materia pittorica amorfa si possa intuire il germe di una figura, l’arte di Gabai riesce ad affermarsi come estrinsecazione di una profonda indagine sull’esistenza umana e sulle sue origini.

Nato a Ligornetto nel 1949 e residente dalla metà degli anni Settanta nella Valle di Muggio, Gabai ha sempre considerato l’arte come uno strumento per comunicare ciò che è indefinibile a parole: «pulsione o sensazione», «idea, concetto viscerale, giudizio e confessione», come lui stesso ha dichiarato. E per fare ciò non è mai partito da una visione stabilita a priori bensì si è sempre lasciato condurre dalla rivelazione che si genera e si sviluppa nel momento stesso in cui avviene l’esperienza dell’atto creativo. Artista «evenemenziale», difatti, è

stato definito Gabai dalla critica. Egli si pone e ci pone davanti alle sue opere come davanti a un accadimento in fieri, a un evento che si sta compiendo e che vive in uno stato di espansione e mutevolezza.

La rassegna che lo Spazio Officina di Chiasso dedica all’artista ticinese testimonia, attraverso un centinaio di lavori, il fecondo percorso di Gabai, grande sperimentatore delle potenzialità della materia e delle molteplici possibilità creative che l’arte offre sia sul piano dell’espressione sia su quello del contenuto.

Si scopre dunque che Gabai si è misurato con la pittura, l’incisione (in particolare l’acquaforte, l’acquatinta e la puntasecca), la scultura, la grafica e i libri d’artista, toccando lungo tutto il suo cammino un ristretto novero di tematiche che spesso si contaminano l’una con l’altra, dimostrando come vi si sia consacrato con determinazione per sviscerarne ogni più recondito significato.

Nel corso di mezzo secolo di attività, che vede dapprima Gabai avvicinarsi al naturalismo lombardo per poi nutrirsi delle suggestioni dell’arte informale e infine approdare a una cifra stilistica personale caratterizzata dalla piena liberazione del gesto e dall’essenzialità del segno, l’artista crea un suo universo pittorico in cui far convergere i contenuti che più lo stimolano alla riflessione. Nell’esposizione chiassese, ad esempio, ben si coglie la grande sensibilità di Gabai nei confronti della letteratura, che lo porta a collaborare nel corso degli anni con numerosi scrittori e poeti (basti citare Gilberto Isella, Silvana Lattmann, Giovanni Testori, Sergio Givone e Marco Ceriani) nella realizzazione di calcografie e libri d’artista.

Tra i soggetti cardine di Gabai ci sono le Strane Presenze, tele in cui il corpo umano assurge a spirito immateriale, quasi soprannaturale; le Matres Matutae, che rappresentano figure femminili ieratiche a richiamare la

Grande Madre e simboli ancestrali e religiosi (Omaggio al Lotto – Pietà di Brera, del 1986, è una di queste, ispirata al celebre dipinto del maestro veneto che Gabai ha ammirato molte volte negli anni trascorsi a Milano); le Selve e i Cieli, dipinti intrisi di luce e di colore, o, ancora, le Crape e Grumi, lavori in cui l’artista medita sulla caducità dell’esistenza.

In tutte le opere di Gabai si assiste all’emergere gravoso della forma da una materia ora densa e stratificata, ora diluita e rarefatta. Le tele dell’artista diventano così luoghi pervasi da forti tensioni e da energie contrastanti che compongono e disgregano l’immagine riuscendo però a restituirla nella sua vivida tangibilità e nella promessa di una nuova genesi.

Dove e quando

Samuele Gabai. Un immaginario dipinto. Spazio Officina, Chiasso. Fino al 13 luglio 2024. Orari: martedì-venerdì 14.00-18.00; sabato, domenica e festivi 10.00-12.00/14.00-18.00. www.centroculturalechiasso.ch Per celebrare la mostra monografica, Samuele Gabai ha realizzato una speciale cartella grafica a tiratura limitata, in vendita al bookshop, con tecnica ad acquaforte, acquatinta e puntasecca.

Samuele Gabai, Se il cielo in testa cade, 2024 Olio su tela, 220 x170 cm. (Collezione d’arte m.a.x. museo ©Franco Mattei)
Samuele Gabai, Roccia madre, 1983 Olio su tela, 190 x160 cm.
(Collezione dell’autore ©Franco Mattei)
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Azione

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Il decollo mancato del volo sopra l’oceano

Pubblicazioni ◆ Dal Campiello alla Buchmesse, passando per lo specchio del bagno: perché il secondo romanzo di Matteo Porru convince poco

Da quel che mi sembra di capire, il caso di Matteo Porru è sintomatico della «festivalizzazione della letteratura» (Gianluigi Simonetti, critico letterario) in atto da qualche anno, per cui contano sempre di più la contiguità (tra lettore e libro e tra libro e persona fisica dell’autore) e la contestualità (la capacità di un’opera e di un autore di integrarsi in sistemi esterni al campo letterario). Attingo dal web: Matteo Porru di Roma ha ventiquattro anni, alle spalle una grave malattia che lo ha colpito nella primissima infanzia. È tra i giovani più promettenti, ma il secondo romanzo sembra pensato per consolidare il suo profilo pubblico

Laureato a Ca’ Foscari di Venezia, è giornalista, pubblicista, editorialista. È spesso ospite di trasmissioni televisive (lo ha lanciato Maurizio Costanzo), su di lui è stato girato un documentario. Qualcuno lo ha inserito tra gli under 25 più promettenti al mondo. È stato il più giovane ospite della Buchmesse di Francoforte. Si esprime in modo cortese, fluente, senza esitazioni. Ha scritto libri (tanti), racconti (uno dei quali gli è valso il Premio Campiello sezione Giovani), saggi, drammaturgie. L’auspicio è ovviamente che possa fare grandi cose, come questo inizio sembra suggerire, e che siano soprattutto migliori del suo secondo romanzo garzantiano, Il volo sopra l’oceano Michele (acciaccato dagli anni e dai colpi della vita) e Jonathan (giovane, ma già disilluso) si ritrovano seduti uno accanto all’altro su un aereo, destinazione Gran Canaria. Ci vanno per elaborare un lutto irrisolto (la perdita di un amore giovanile per Michele, la separazione dei genitori per Jonathan). Il finale, dopo quattro ore di volo, rimetterà tutto a posto.

Il confronto tra i due non presenta particolari segni di originalità. Il maestro si rivolge al novizio (dal quale però c’è pur sempre qualcosa da imparare) regalandogli qualche perla («La rabbia che provi è energia: rendila amore») e innescandone il processo di trasformazione, che avviene in bagno, manco a dirlo davanti allo specchio («Non si è mai sentito così tanto sporco»), in dialogo con il tatuaggio del gabbiano cui il giovanotto deve il proprio nome (la cosa va ad ogni modo spiegata: «Per il gabbiano Jonathan Livingston. Era il libro preferito dei miei, quando ancora stavano insieme»).

I capitoli – meccanicamente giustapposti, e che faticano ad andare oltre le tre-quattro paginette dal carattere e dall’interlinea generosi –appaiono spesso costituiti da scene madri, prive quindi della forza centrifuga necessaria per spingere il romanzo verso quei vuoti interstiziali nei quali dovrebbe invece insinuarsi. Anche i rari spunti meritevoli di qualche supplemento di indagine si appiattiscono sul giochino scoperto: l’attacco del libro («Prima di chiudersi la porta alle spalle, Michele Prato aspetta di sentire, per l’ultima volta da dentro casa, il rumore di un tuono»), di per sé promettente, resta sostanzialmente irrelato e si spegne nel parallelismo con la frase di chiusa («Poi gli sorride e arrivano i tuoni»). Ecco, l’impressione è che questo sia un romanzo delle occasioni mancate, come mi pare mostri il fertile tema della ventriloquia – su cui Michele costruirà la propria carriera artistica sin da bambino, orfano prima del padre e poi della madre – la cui trattazione si riduce a un abbozzo di riflessione sulla reticenza del vecchio («Sono evaso per tutta la vita. Il ventriloquo non parla, lo fanno i suoi pupazzi»). Né manca qualche velleitarismo, verificabile ad esempio al ventiduesimo capitolo

Prima di Macondo c’era Ixpetec

Letteratura ◆ In I ricordi dell’avvenire, Elena Garro mescola presente e passato in una narrazione che anticipa il realismo magico

Laura Marzi

nella disproporzione tra il titolo (Lo stato del mondo) e le righe che seguono, in cui il dialogo intergenerazionale tra i due personaggi non va oltre qualche frasetta a effetto («Il mondo è un posto in cui si è abbassato il cielo») e si chiude con i soliti toni pacificanti (Jonathan: «Quindi non è vero che si stava meglio prima?». Michele: «Ma nemmeno per sogno». Jonathan: «E io ti garantisco che non si sta meglio adesso». Battute finali: «Allora non è cambiato niente». «Già, niente. Nemmeno il cielo»).

Otto le pagine di ringraziamenti per quest’opera che fatica a reggersi da sola

La destabilizzazione stanca, si sa. Meglio allora una tramatura costituita da stereotipi ormai indegni persino di essere parodiati (l’infermiera durante il massaggio cardiaco a Michele: «Non lo perdiamo, non lo perdiamo»), slogan spacciati per verità esistenziali («Non conta il quando, mentre esisti. Conta il come, solo il come»; «Il dolore non la merita, una voce; merita solo l’addio»), frasi che non significano nulla («Se l’eterno ha un colore, è un tono di blu»; «È un ottimo momento per rinascere, e altrettanto per morire»), metafore fuori fuoco («Lo ricorda sempre, mentre cammina trascinando le scarpe e i retropensieri»; «L’aria è ferma e ride»). Del resto, se anche i paratesti spesso possono dire la verità, qui le otto pagine di ringraziamenti (su 138 complessive) mostrano che lo sguardo è orientato verso una realtà extratestuale, come se il romanzo non riuscisse a reggersi sulle proprie forze e si subordinasse al contesto in cui è stato creato e in cui verrà recepito.

Bibliografia

Matteo Porru, Il volo sopra

l’oceano, Garzanti , pp. 138.

I ricordi dell’avvenire di Elena Garro, riedito da Sur e tradotto da Francesca Lazzarato, è uno dei pochi romanzi sopravvissuti della scrittrice messicana. Come scrive l’autrice conterranea Guadalupe Nettel nella prefazione, infatti, Garro condivide con altri grandi un destino travagliato: alcuni suoi manoscritti sono andati perduti e altri sono stati distrutti da lei stessa, in preda all’insicurezza. A contribuire alla convinzione di essere pazza o di non essere abbastanza brava c’era suo marito, il poeta messicano premio Nobel Octavio Paz, che ha cercato per anni di dissuadere la moglie dal dedicarsi alla letteratura. I ricordi dell’avvenire, però, quando venne pubblicato nel 1952, suscitò l’entusiasmo della critica e si aggiudicò prestigiosi premi. Oggi, viene considerato il testo che ha ispirato García Marquez per la scrittura di Cent’anni di solitudine Il debito che Marquez ha nei confronti di Garro è riconoscibile, per esempio, nell’importanza del luogo in cui si svolgono le vicende narrate: chiunque abbia letto la storia di Aureliano Buendía e dei suoi discendenti si ricorderà, infatti, di Macondo, la cittadina protagonista del romanzo di Marquez. Nel libro di Garro, il paese in cui avvengono i fatti, è addirittura la voce narrante della storia: Ixpetec. Il romanzo è ambientato in Messico, in un tempo non definito, a cavallo tra l’ennesima rivoluzione e l’ennesima dittatura. All’epoca dei fatti è il generale Francisco Rosas a comandare, o meglio, la sua amante Giulia. L’uomo è infatti perdutamente innamorato di questa ragazza dalla bellezza ammaliante, che però non ricambia il sentimento, subisce più che altro il potere e la violenza di lui. Il generale è consapevole del distacco di Giulia, per questo si ubriaca tutte le sere e riversa sugli abitanti di Ixpetec la rabbia di non riuscire a conquistare il cuore della donna che lo ha stregato.

A osservare le ripetute esecuzioni causate dalle intemperanze di Giulia, oltre al paese di Ixpetec, ci sono i suoi abitanti: la famiglia Moncada, le ragazze dell’hotel Jardín, Doña Matilde e Joaquín, Doña Elvira e sua figlia, il Presidente, Luchi e le altre prostitute del bordello… In particolare, fra tutti loro spicca la figura di Isabel Monca-

da, che incontriamo bambina all’inizio della storia, intenta a giocare coi fratelli Nicolás e Juan e che poi, quando i due vengono mandati a lavorare nelle miniere, perché la famiglia ha bisogno di denaro, resta sola in casa ad aspettare un marito. La ribellione di Isabel a questa traiettoria di vita è l’innesco della conclusione del romanzo, anche se a dirla così si semplificano parecchio le cose. Elena Garro viene considerata la madre di un genere letterario, il realismo magico sudamericano che, come sappiamo, prevede la presenza di elementi irrazionali e inspiegabili nel racconto della realtà. Nel caso di questo romanzo la magia, o meglio l’incantesimo, si manifesta più che altro nell’amore o nell’indifferenza delle donne: quando Giulia, rischiando la sua stessa vita, decide di andare via da Ixpetec, seguendo il misterioso personaggio di Hurtado, la scrittrice sospende il piano di realtà e impedisce che i due amanti muoiano uccisi dalla gelosia del generale. La magia o il maleficio riaccadono quando Isabel decide che c’è un solo uomo a cui può concedersi ed è il più malvagio. Si tratta di un elemento particolarmente interessante: riscoprire nel romanzo di una scrittrice che viene considerata vittima del potere maschile, l’idea che ogni malìa ha origine nelle donne. Ovviamente, la figura di Isabel è stata definita femminista, ma è bene non diventare preda di queste letture anacronistiche: Giulia, Isabel, tutte le ragazze descritte nel romanzo vivono in una condizione di cattività, che è diversa dalla mancanza di libertà che connota la vita degli altri abitanti. In questa condizione sviluppano un rapporto con il tempo e con la morte del tutto eccezionale: Isabel è nel presente e nel passato allo stesso momento e Garro, che si cimenta nella prova durissima di raccontare tale compresenza quantica, in questo è davvero visionaria: «Una generazione succede all’altra e ognuna ripete le azioni della precedente. Solo un istante prima di morire scoprono che è possibile sognare e disegnare il mondo a modo proprio».

Bibliografia

Elena Garro, I ricordi dell’avvenire Sur, 2024, pp. 348.

Immagine di copertina.

L’immagine usata per la copertina de Il volo sopra l’oceano di Matteo Porru. (Garzanti)

Le difficoltà del fumetto francese sullo schermo

Netflix ◆ La nuova miniserie animata di Astérix sottolinea il grande problema di molti adattamenti delle bande dessinée transalpine

Da qualche settimana è disponibile su Netflix la miniserie Astérix e il duello dei capi, riuscita trasposizione in sei episodi dell’omonimo albo a fumetti scritto da René Goscinny e illustrato da Albert Uderzo. Miniserie animata, che riprende – ma con maggiore aderenza allo stile grafico del periodo in cui uscì l’originale cartaceo (1964) – l’estetica digitale tridimensionale dei due più recenti lungometraggi d’animazione dedicati al guerriero gallico, Il regno degli dei e Il segreto della pozione magica. Ed è la seconda volta che dietro le quinte, come principale forza creativa, c’è l’attore, sceneggiatore e regista Alain Chabat (che doppia in francese il protagonista), già autore di Astérix e Obélix –Missione Cleopatra nel 2002 (dove interpretava anche Giulio Cesare).

Con Il duello dei capi, Netflix ritrova lo spirito del fumetto, evitando l’iperrealismo che dimentica l’umorismo

Film, quest’ultimo, che ha la particolarità di essere l’unico dei cinque adattamenti live-action usciti finora ad aver riscontrato un apprezzamento generale da parte di critica e pubblico, probabilmente perché Chabat, più di tutti, ha saputo cogliere e sfruttare pienamente la dimensione surreale

del fumetto, trattando essenzialmente l’avventura egiziana come se fosse un prodotto animato sotto mentite spoglie (strategia applicata anche per la sua altra incursione nel mondo della bande dessinée franco-belga, Marsupilami, uscito nel 2012).

Difatti, l’accostamento tra le due versioni a firma dello stesso autore non fa che mettere ulteriormente in evidenza il principale difetto di quello che in Francia è un vero e proprio filone di adattamenti vari di fumetti di successo: l’incompatibilità visiva tra la materia di base e la trasposizione con attori in carne e ossa. Questo perché quasi tutti i titoli di punta sul mercato, specie se destinati a un pubblico di tutte le età, tendono a seguire il modello della cosiddetta «scuola di Marcinelle», nome derivato dalla località belga dove Jean Dupuis ha dato il via, nel 1938, al settimanale «Spirou», ancora oggi punto di riferimento nell’editoria fumettistica francofona (nonché titolo di una serie d’avventura con protagonista l’omonimo personaggio).

Il termine «scuola» si riferisce ai disegnatori discepoli dell’allora nome di punta della rivista, Joseph Gillain alias Jijé, che teorizzava un tratto dinamico, naïf e rotondo, ideale per storie dalla natura umoristica e/o caricaturale. Tra i suoi allievi ci sono stati alcuni dei più grandi autori del settore, come André Franquin (Ga-

ston Lagaffe, Marsupilami), Jean Roba (Boule et Bill ), Maurice de Bevère detto Morris (Lucky Luke) e Pierre Culliford alias Peyo (I puffi ). A questo si aggiunge l’altra linea di pensiero, quella portata avanti da Georges Rémi, ossia Hergé, con le avventure di Tintin, la ligne claire, che prevede un tratto semplice e regolare, senza giochi d’ombre e sfumature (questo anche per tenere conto dei limiti tecnici della colorazione all’epoca).

In pratica, anche quando abbiamo a che fare con personaggi dalle sembianze umane, essi hanno comunque dei connotati non del tutto realistici, e si muovono in mondi con una propria logica interna, non sempre compatibile con la nostra. Capitano dei casi ibridi, come ad esempio la serie Le giacche azzurre (Les tuniques bleues), ambientata durante la Guerra Civile Americana. Lì il disegnatore Willy Lambil restituisce con grande verosi-

miglianza ambienti e personaggi (tra cui figure storiche come il generale Ulysses Grant), fatta eccezione per i due protagonisti, il sergente Chesterfield e il caporale Blutch, le cui fattezze si rifanno allo stile di Marcinelle. Di conseguenza, quando produttori e registi cercano di portare queste storie sullo schermo in live-action, senza tenere conto dello scarto estetico e dello spirito stralunato, il risultato tendenzialmente è dal mediocre in giù e non piace nemmeno ai fan duri e puri, al punto che gli incassi disastrosi di film come quelli di Spirou e Gaston Lagaffe (usciti a un mese di distanza nel 2018) hanno portato all’effettiva cancellazione di alcuni progetti e probabilmente influito sull’esito commerciale negativo del recentissimo Natacha, ( presque) hôtesse de l’air. Che in realtà è uno degli esempi più felici di questo filone, poiché consapevole del suo essere un po’ fuori dal mondo (e, in quanto commedia ambientata qualche decennio fa, fuori tempo massimo). Ma è una rara eccezione, esempio lampante del paradosso di questi tentativi maldestri di portare al cinema o sulle piattaforme i successi cartacei: la fonte letteraria ha un’impostazione apertamente umoristica, ma chi si occupa dell’adattamento tende a prendere il tutto un po’ troppo sul serio.

Come direbbe il buon Obélix, sono pazzi questi cineasti…

La locandina della miniserie Astérix e il duello dei capi. (Netflix)
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GUSTO

Finger food al fischio d’inizio…

Quando arrivano i calciatori, ci riuniamo comodamente davanti alla TV – snack freschi e salsicce alla griglia in abbondanza

Stick di verdura e frutta con dip

Aperitivo, per 4 persone

ca. 1,5 kg di verdura mista, ad es. cetriolo, peperoni a punta, sedano, carote, cavolo rapa, zucchine, rafano

ca. 500 g di frutta, ad es. mela, pera, melone, ananas, mango

1. Prepara la verdura e la frutta: a seconda della varietà pela ed estrai i semini oppure snocciola. Taglia tutto a bastoncini lunghi e sottili con un coltello o un tagliaverdure ondulato. Per evitare che i bastoncini si secchino, copri con carta da cucina umida fino al momento di servire.

Dip cremoso con uova e senape

1 uovo sodo

2 cucchiai di senape granulosa

2 cucchiai di maionese

Dip piccante allo yogurt

2. Servire i bastoncini di frutta e verdura insieme ai Dips.

100 g di crème fraîche sale pepe

Riduci finemente in purea con il frullatore a immersione uova, senape e maionese. Mescola con la crème fraîche. Condisci con sale e pepe.

1 vasetto di yogurt greco al naturale da 180 g ca. 1 cucchiaio d’aglio, olio e peperoncino (aglio e peperoncino sott’olio) sale pepe

Riduci finemente in purea lo yogurt e gli ingredienti sott’olio con il frullatore a immersione. Condisci con sale e pepe.

Dip al cottage cheese con ravanelli ½ mazzetto di ravanelli

4 rametti d’erbe aromatiche, ad es. aneto o prezzemolo

100 g di creamy cottage cheese sale pepe paprica dolce

Grattugia finemente i ravanelli o sminuzzali nel tritatutto. Trita finemente le erbe. Mescola il tutto con il creamy cottage cheese. Condisci con sale, pepe e paprica.

Pesto menta e miele per carote e frutta

2 limette

2 rametti di menta

40 g di miele liquido

70 g di noci di macadamia

1 cucchiaino di zucchero vanigliato

4 cucchiai d’acqua

Grattugia finemente poca scorza di limetta, poi spremi i frutti. Strappa dai rametti le foglie di menta. Riduci il tutto finemente in purea assieme agli ingredienti restanti con il frullatore a immersione.

Dip 1
Dip 3
Dip 2
Dip 4
PREZZO BASSO

GUSTO

Football-Food

...dopo la pausa qualcosa di più sostanzioso

Luganighetta arrotolata con salsa al basilico

Piatto principale, per 4 persone

1 cucchiaio di senape granulosa

1 cucchiaino di miele liquido

200 g di formaggio fresco, ad es. Philadelphia

1 mazzetto di basilico pepe sale

4 luganighette arrotolate da grigliare di ca. 90 g ciascuna

1. Per la salsa, mescolate la senape con il miele e il formaggio.

Sfogliate il basilico, aggiungete le foglie al formaggio e frullate con il frullatore a immersione. Regolate di sale e pepe.

2. Scaldate il grill a 180 °C. Grigliate le luganighette arrotolate da entrambi i lati per ca. 10 minuti.

3. Servitele con la salsa al basilico. Ideali con un’insalata di patate.

Toast di patate dolci con cottage cheese variopinto

Piccolo pasto, per 4 persone

4 piccole patate dolci di ca. 200 g 1/2 mazzetto d’erbe aromatiche, ad es. aneto o erba cipollina

1 peperone

1 vasetto di cottage cheese da 200 g sale, pepe

Taglia le patate dolci per il lungo a fette spesse ca. 5 mm. Tostale nel tostapane. Saranno necessari 2-3 passaggi perché siano cotte. Nel frattempo trita le erbe, sminuzza i peperoni e mescola entrambi con il cottage cheese. Insaporisci con sale e pepe e servilo sulle fette di patata dolce.

Insalata di cetrioli con lenticchie e yogurt

Piccolo pasto, per 4 persone

100 g di lenticchie rosse 1/2 cucchiaino di pepe di Cayenna frantumato

4 cucchiai d’olio d’oliva

2 vasetti di yogurt greco da 180 g sale, ad es. Fleur de sel

1 mazzetto d’erbe aromatiche miste, ad es. aneto e prezzemolo

1 1/2 cetrioli

1. Copri le lenticchie d’acqua e falle sobbollire per 10 minuti, devono essere tenere ma non troppo. Scolale e passale sotto l’acqua fredda, poi falle sgocciolare bene.

2. Mescola il pepe di Cayenna con l’olio. Versa lo yogurt in una scodella e aggiungici l’aglio spremuto. Condisci con un filo d’olio e un po’ di sale. Trita la metà delle erbe e incorporale allo yogurt. Distribuisci la salsa allo yogurt sui piatti.

3. Taglia il cetriolo a lingue sottili senza pelarlo, ad es. con un pelapatate, e distribuiscile sui piatti.

4. Cospargi di lenticchie e guarnisci con le erbe rimaste, poi irrora con l’olio al pepe di Cayenna rimasto e sala.

Ricetta
Ricetta
Ricetta

GUSTO

Football-Food

Ricetta Wrap con Pastrami

Piatto principale

Per 1 persona

2 tortillas di farina integrale

40 g di crema di ceci e zenzero, in vendita nei supermercati Alnatura o hummus

20 g d’insalata, ad es. baby leaf 60 g di Pastrami

1 pomodoro carnoso

Spalma le tortillas con la crema di ceci e zenzero. Distribuisci l’insalata e le fette di Pastrami, lasciando liberi i bordi. Taglia il pomodoro a fette sottili e adagiale sopra. Arrotola le tortillas.

Consiglio utile Questa ricetta è ideale da preparare in anticipo a casa.

Salsiccia alla griglia con salsa al curry

Piccolo pasto Per 4 persone

1 cipolla

2 cucchiai d’olio d’oliva

3 cucchiai di curry dolce o piccante

1 dl di succo d’arancia

2 cucchiai di confettura d’albicocche

5 cucchiai di ketchup sale

4 salsicce di maiale

1. Trita la cipolla e falla appassire brevemente in una padella unta d’olio. Aggiungi il curry e soffriggilo brevemente. Sfuma con il succo d’arancia, poi unisci la confettura e il ketchup. Fai ridurre la salsa per ca. 3 minuti, mescolando di continuo. Regola di sale.

2. Scalda il grill a 180 °C. Griglia le salsicce per ca. 12 minuti.

3. Taglia a pezzetti le salsicce e servile con la salsa al curry. Spolverizza con un po’ di curry e gusta subito. Ottimo con patatine fritte.

Ricetta
PREZZO BASSO

Nuovo? No, lavato con Perwoll.

Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli già ridotti.
Da

Animali marini su fondali dipinti a mano Spugne, plastilina, sagome, texture, pellicole adesive ed elementi raccolti all’aperto per un laboratorio sensoriale ed educativo adatto anche ai più piccoli

Identità, nostalgia e bisogno di appartenenza Dalla tristezza calcistica alla gioia per Sinner, passando per l’ombra lunga di Federer: un’analisi delle emozioni che proiettiamo sullo sport, e del loro potere consolatorio

Il posto delle mele, laddove scorreva il fiume

Reportage ◆ La natura maestosa e una storia antica mantengono inalterato il fascino della California, anche al di là delle sue splendide spiagge

Sinonimo di sole, surf e bella vita, a lungo sulla cresta dell’onda per le sue eccellenze culturali ed economiche, dalla Silicon alla Napa Valley, e le università blasonate, oggi il Golden State appare sempre più spesso come triste protagonista delle cronache, vittima di incendi devastanti, condizioni meteo (e proteste di strada) virulente. E nonostante sviluppi una delle economie trainanti non solo a livello americano, ma mondiale (sarebbe la quinta del pianeta), voci di una crisi incipiente si moltiplicano. Eppure il sogno perdura: la California resta la terra di frontiera, di abbondanza, il paradiso a portata di mano. La mia prima volta nello Stato del Sole fu nel 2009. Un viaggio in moto tra i deserti della Death Valley e del Mojave National Park, luoghi che appartengono più all’immaginario surreale dei fratelli Cohen, che non al patinato mondo dei Beach Boys, o dei film di Hollywood. Poi,

recentemente, mi sono imbattuta nei libri di John Muir, considerato il padre dei parchi nazionali a stelle e strisce, oltre che ambientalista ante litteram: «Anche oggi tempo splendido, una di quelle gloriose giornate della Sierra in cui ci si sente come dissolti, assorbiti, trascinati pulsanti di vita […]. Non ci si preoccupa di risparmiare tempo o di affrettarsi più di quanto facciano alberi e stelle. Questa è la vera libertà, un buon surrogato mortale dell’immortalità».

La natura nel suo stato originario

Ho deciso così di tornare in California, spinta dall’entusiasmo quasi naïf dei suoi racconti, e questa volta proprio sulla Sierra Orientale. Con in testa le fotografie di Ansel Adams, che ha tradotto in immagini la meraviglia espressa da Muir, sono andata a

cercare quel che rimane della wilderness da loro tanto celebrata. La nostra (europea) idea di «natura», di selvatico, appare alquanto ridimensionata e addomesticata al paragone: l’azione

dell’uomo e la sua presenza qui si diluiscono. Non parlo del carattere estetico dei paesaggi, ma della sensazione di essere in una dimensione dove l’individuo, l’umano, ha un peso spe-

cifico diverso, più rarefatto e, quindi, minoritario. Eppure i danni fatti sono tanti.

Come per il viaggio precedente a colpirmi non sono tanto la grande città e le sue spiagge chilometriche, i musei ricchissimi di opere e attività, le ville sfacciate o gli effetti speciali degli Studios, ma (una volta sfuggiti al traffico di Los Angeles, si intende) l’incanto delle strade che si lanciano, dritte, infinite, verso l’orizzonte, incredibilmente vuote. Le nuvole che galleggiano sopra la testa, il calore che sale dall’asfalto, qualche animale selvatico che in lontananza si dà alla fuga. Il paesaggio cambia nel giro di pochi chilometri, il deserto cede il passo alle montagne, la pianura ospita il chaparral (vegetazione tipica della California, simile alla macchia mediterranea) colorato dalle fioriture in primavera, mentre gli enormi pini della Sierra crescono avvinghiati alle rocce, senza terra, ma non sembrano

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Amanda Ronzoni, testo e foto

preoccuparsene. E poi le vette innevate, le colline gibbose dei film con indiani e cowboy, i laghi agonizzanti, privati dell’acqua per rifornire la grande città a oltre 500 km di distanza, i campi di lava.

Le alture della Sierra

Il paesaggio è prevalentemente desertico, ma mai monotono. Lungo la 14 ci sono le cattedrali di argilla bianca e arenaria del Red Rock Canyon State Park, vecchie di 3 milioni di anni; poi, quando più a nord la strada si congiunge con la 395, si susseguono i neri e i marroni del Salt Lake Cinder Cone, memoria di un’eruzione antica. Intanto cominciano a vedersi, innevate, le alture della Sierra, a sinistra, con i 4421 metri di granitica imponenza del monte Whitney. La strada costeggia poi le sponde maltrattate del lago Owen, un bacino fondamentale per uomini e animali, conteso, sfruttato, sull’orlo della desertificazione tanto che oggi è la fonte principale di polveri sottili degli Stati Uniti. A destra, più basse, ma non meno spettacolari si stagliano prima le Inyo e poi le White Mountains, famose per la loro vegetazione e per Methuselah, un Bristlecone Pine (pino dai coni setolosi, Pinus longaeva), che con i suoi 4856 anni è una delle creature più vecchie del pianeta.

Lungo la strada ci sono solo piccoli centri. Le case appaiono quando c’è un creek (torrente) nei dintorni. La storia di questa regione, come un po’ ovunque nel mondo, del resto, è scritta dall’acqua. La sua abbondanza, mancanza, intermittenza, il suo scorrere sotterraneo, il farsi neve o ghiaccio… l’uomo si è sempre adattato alle sue forme. Nel mio viaggio seguo allora questo filo liquido, che mi porta più a nord fino a Mono Lake.

Il lago Mono

Il lago Mono ha l’esatto aspetto surreale che trasuda dalla celebre foto interno di copertina dell’album Wish You Were Here dei Pink Floyd, scattata da Storm Thorgerson. Un misto di immobilità e silenzio. Eppure di vita, ce n’è, eccome: si tratta di uno dei

luoghi più ricchi di biodiversità della regione: dai due milioni di uccelli migratori che nidificano sulle sue sponde (alcuni, come i falchi pescatori, in bilico sui camini di tufo calcareo), alle numerose specie di rettili, alle minuscole scimmie di mare (l’Artemia salina, piccolo crostaceo d’acqua salata), fino a una mosca, l’Ephydra hians, fonte di lauti pasti non solo per l’avifauna, ma anche, in un tempo lontano, per una popolazione locale, i Kucadi-kadi- (che vuol dire proprio «mangiatori di pupe di mosca»). Alcalino, con tre coni vulcanici al suo centro, dal 1941 metà del suo volume è stato sacrificato per rifornire l’acquedotto di Los Angeles, responsabile della desertificazione anche del fiume Owens.

La Sierra Orientale è una terra di frontiera che popola l’immaginario di viaggiatori e turisti fin dalla sua apparizione sulle carte geografiche del Vecchio Mondo

Le comunità sono piccole: Lone Pine, Bishop, Mono City, c’è persino Zurich (!). Non manca mai il visitor center con ragguagli sul territorio e sulla «storia prima della Storia». Tenute ai margini delle epopee dei coloni bianchi, con le loro carovane e le corse all’oro, emergono sempre più le vicende di popoli che in queste terre vivevano da millenni, ben prima dell’arrivo di agricoltori e cercatori di fortune varie.

Lungo i sentieri dei nativi

Confutata la narrativa hollywoodiana dei buoni, i cowboy, contro i cattivi, gli indiani, la storia dei nativi è scritta dappertutto in valle, nella viva roccia. Ci sono magnifici petroglifi ovunque, alcuni visitabili, altri tenuti segreti dalle comunità locali perché ritenuti sacri (e per preservarli dai vandali ignoranti). I resoconti dei primi esploratori parlano raramente dei Paiute, una delle popolazioni del Grande Bacino, ma prima che scoppiasse «la questione indiana», alcuni annotarono di come le valli fossero verdi

e irrigate secondo un sistema antico. I numerosi fiumi e torrenti che scendono dalla Sierra venivano captati e le acque di fusione distribuite secondo un sistema comunitario stagionale, a rotazione, per prevenire l’impoverimento degli appezzamenti. Ne trovo traccia risalendo tra le curve che mi portano alle Alabama Hills, uno scenario da film: a ogni svolta mi aspetto di veder saltar fuori qualcuno a cavallo, ma anche qui faccio chilometri prima di riuscire a incontrare anima viva. Trovo giusto qualche fotografo vicino all’arco detto «occhio delle Alabama Hills», da dove si può incorniciare la vetta del monte Whitney, e proseguo sempre in auto fino all’attacco del John Muir Trail, o, in omaggio ai sentieri di caccia dei nativi, Nüümü Poyo, Paiute Trail. Il panorama cambia radicalmente: alta montagna, alberi maestosi, granito ovunque e a sprazzi neve. Qual-

che cartello segnala la presenza di orsi, ma non è ancora stagione. La sera trovo il luogo perfetto per passare la notte: Keough’s Hot Springs, una sorgente di acqua che sgorga a 50 gradi carica di ben 27 diversi minerali. La piscina è stata costruita un secolo fa e intorno c’è un campeggio e qualche casa, oltre a un centro di recupero per la fauna selvatica (Wildcare Eastern Sierra, www.eswildcare.org), dove purtroppo non hanno potuto fare nulla per uno sfortunato leone di montagna che, malconcio, era sceso a Bishop in cerca di cibo.

Sulla via del ritorno

Mi fermo poi a Manzanar, letteralmente il «posto delle mele», nome evocativo per un luogo terribile. Un tempo terreno fertile grazie alla gestione delle acque dei locali, fu requi-

sito dai coloni che avviarono coltivazioni di alberi da frutto. Quando il Governo regionale prese ad acquisire i diritti sulla terra lungo l’Owens per la costruzione del famigerato acquedotto, molti vendettero e i meli morirono. Durante la Seconda guerra mondiale venne costruito un campo di concentramento per i giapponesi che vivevano in California, compresi quelli di seconda generazione che avevano nomi americani e si ritenevano cittadini USA. Ironia della sorte, costruirono lì gli ultimi giardini, alla giapponese, per ingannare il tempo e sopravvivere all’ingiustizia. Ora è solo deserto. L’acqua nella valle, sempre meno. La polvere si alza, i venti di Santa Ana prendono a soffiare e a Los Angeles trattengono il fiato.

Informazioni

Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.

Un mare da animare con la plastilina

Crea con noi ◆ Un’attività per bambini dai quattro anni in su che unisce manipolazione, disegno e materiali naturali

In questo progetto vedremo come realizzare delle basi illustrate a tema mare. Le basi saranno plastificate in modo che i bambini possano stendere sopra la plastilina per modellare gli animali e il loro habitat.

L’attività può essere arricchita con elementi naturali come conchiglie, legnetti e pietre, ideali per creare texture e stimolare la creatività. È un’attività adatta per bambini a partire dai 4 anni e per i più picco-

li si possono usare plastiline edibili, fatte in casa con ingredienti naturali e sicuri.

Preparazione

Stampate e ritagliate i cartamodelli. Usate le sagome ottenute per riportare i disegni sui cartoncini colorati e, una volta tracciati, ritagliate i profili con cura in modo da ottenere le quattro sagome degli animali marini.

Giochi e passatempi

Cruciverba Il peperoncino è diffuso in tutto il mondo grazie ai volatili che ne mangiano e spargono i semi ovunque vadano, questo perché sono... Trova il resto della frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 11, 4, 4, 11)

ORIZZONTALI

1. Pianta curativa orientale

7. Tradizioni folkloristiche

8. Prefisso che vuol dire vita

9. Nota... attiva

10. Un finestrino tondo

11. Campo in inglese

12. Antica città macedone teatro di una famosa battaglia

13. Pronome

17. Antiche navi da guerra

18. Disinfettante per piscine

19. Gas e nome maschile

20. Pasta fresca toscana

21. Lo si mena per l’aia

22. Prodi

23. Le prime in italiano

24. Andate alla latina

25. Piccola cavità d’acqua stagnante

VERTICALI

1. Hanno il becco ricurvo

2. Isabella per gli amici

3. Simbolo chimico del nichelio

4. Una congiunzione

5. L’indimenticabile Pizzi cantante

6. È buono a Londra

10. Suffisso di aggettivi derivante da «oide»

11. Il ragioniere amico di Fantozzi

12. Arnese da fornaio

13. Altro nome del leccio

14. Legge francese

15. Le iniziali dell’attrice

16. Porta il sangue a tutto il nostro corpo

17. Un

18. Uno scoiattolo di Walt

20. Le iniziali del noto Ruffini

22. Esse senza

23. Le iniziali della

Invitate i bambini a dipingere dei fogli bianchi utilizzando tonalità blu per l’acqua e beige per la sabbia, lasciando libera scelta sulla tecnica da usare. Possono, ad esempio, sperimentare con una spugnetta per creare texture e movimento sul fondo. Lasciate asciugare.

Una volta che i fondi saranno asciutti, ritagliateli e incollateli su un foglio bianco utilizzando la colla. Potete divertirvi a creare, ad esempio, delle strisce ondulate per coprire solo alcune parti del foglio, dando così l’idea del movimento dell’acqua o della sabbia.

Ora incollate anche le sagome degli animali marini che avete preparato in precedenza, posizionandole sullo sfondo.

Come ultimo passaggio, plastificate i vostri fondi per renderli riutilizzabili e facili da pulire. Potete utilizzare una plastificatrice per un risultato più resistente oppure, in alternativa, applicare una pellicola adesiva trasparente, preferibilmente su entrambi i lati, per proteggere bene la superficie.

Ora potete dare il via al gioco! Fate scegliere ai bambini uno degli animali marini e consegnate loro della plastilina. In base alla loro età, mettete a disposizione anche elementi naturali come conchiglie, sassi o legnetti. Questi materiali permetteranno di imprimere texture diverse

Materiale

• C artoncini colorati A4

• C arta bianca A4

• Acquarelli, pennello piatto largo e spugnetta

• Colla stick o vinilica

• Plastificatrice o pellicola adesiva trasparente

• Plastilina (acquistata o fatta in casa, anche edibile)

• Elementi naturali: conchiglie, sassi, sabbia, legnetti, stelle marine essiccate

(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

sulla plastilina e di arricchire il disegno in modo creativo e sensoriale. Buon divertimento!

Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

Soluzione della settimana precedente Caro come mai hai tutta la schiena sporca di sugo? Risposta risultante: «PERCHÉ

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku cliccando sull’icona «Concorsi», homepage in alto a destra Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano . Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.

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Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku

Viaggiatori d’Occidente

Same same but different: l’illusione del viaggio su misura

Non ne abbiamo ancora capito molto. Sentiamo confusamente (e ripetiamo meccanicamente) che l’intelligenza artificiale cambierà in profondità la nostra vita quotidiana, ma spesso non sapremmo dire esattamente quando e come ciò avverrà. Proviamo allora a considerare un campo particolare: i viaggi. Naturalmente l’intelligenza artificiale viene già utilizzata dalle aziende turistiche, al pari di molte altre, e lo sarà sempre di più in futuro. Certo, il turismo è un’attività di servizio, con una forte componente di contatto umano, e dunque è più difficile standardizzare le operazioni. Ma anche qui, attività come la gestione dei fornitori o della contabilità, per fare qualche esempio, saranno presto affidate all’AI.

Più interessante è esplorare il punto di vista del cliente, turista o viaggiatore. Un anno fa vennero pubblicate

le prime guide turistiche scritte da sistemi intelligenti e vendute online. In qualche caso – e lo abbiamo segnalato – si trattava quasi di una truffa: un’accozzaglia di informazioni raccolte in rete e impaginate in formato accattivante. Ma i progressi sono stati rapidi e nuovi prodotti editoriali più curati stanno già modificando il mercato. Infatti, dopo una lunga fase di stabilità, le vendite delle guide turistiche cartacee hanno ricominciato a calare. Per reazione, le guide scritte da autori umani sono e saranno sempre più personalizzate: con consigli soggettivi, punti di vista originali, inserti narrativi. Nella preparazione del viaggio l’intelligenza artificiale è già utilizzata come un agente di viaggio virtuale. Può gestire facilmente le prenotazioni, seguire l’andamento dei prezzi dei voli, aggiornare i punti fedeltà. Ma non si limita a semplifi-

Cammino per Milano

care le transazioni. Invece di navigare all’infinito tra hotel o leggere centinaia di recensioni contrastanti, i viaggiatori possono affidarsi a un consulente virtuale capace di creare itinerari su misura, ricordando alla perfezione le scelte precedenti. E la realtà virtuale o aumentata consentirà di vedere in anteprima condizioni meteo, stanze d’albergo, musei o altre esperienze, ancora prima della partenza. L’AI è particolarmente efficace per progettare viaggi con un focus specifico, per esempio la sostenibilità ambientale: può selezionare hotel ecologici, percorsi a basse emissioni, luoghi meno affollati. Secondo la società di ricerca Kantar, il 40% dei viaggiatori ha già utilizzato strumenti di questo tipo e il 62% è disposto a farlo in futuro. Il 55% di chi non usa l’AI dichiara di non fidarsi abbastanza: teme (non senza motivo) informazioni errate o un

Il giardino all’inglese di Cinisello Balsamo

Pinnacoli piramidali, confusi da lontano con coni gelato capovolti, annunciano l’entrata principale del parco di Villa Ghirlanda Silva. Però è l’odore delicato della Magnolia grandiflora plurisecolare nell’aria, preda di un precoce caldo sahariano a metà giugno, il mio vero prologo a questo pezzo inaugurale nell’hinterland milanese. Cinisello Balsamo, settantacinquemila anime circa a nord di Milano, l’ho sempre associato a tabagismo e bibliofilia. Un quarto di secolo fa un mio amico sardo pittore mancato, lettore di talento, mezzo genio vivente con nevrosi varie perso di vista, mi aveva portato lì a trovare un suo ex professore di Brera rintanato in un appartamento oppresso dai libri e dal fumo di tre pacchetti di Merit al giorno. Mai avrei pensato di tornarci, a Cinisello Balsamo, tanto meno per un giardino all’inglese basilare. Quello di Er-

cole Silva (1756–1840): precursore-teorico dei giardini all’inglese in Italia incontrato due settimane fa nel giardino Belgiojoso che qui sfoga tutte le sue più puntigliose fantasie e conoscenze sfrenate. Perdipiù, coinvolge nella sua opera, databile al 1797, come supervisore-regista, un pittore di rovine e professore di prospettiva a Brera: Giuseppe Levati (1739–1828). Prima percezione, appena vedo l’effetto prospettico del pratone in fuga, affiancato ai bordi da chiome come nuvole di diverse tonalità di verde e costellato da statue solitarie smangiate da tempo e intemperie, forse un po’ per il caldo un po’ per il troppo studio sul tema, è di essere dentro un quadro. Esserci dentro come un personaggio dipinto, un passeggiatore minuscolo di un’incisione in un libro di giardini all’inglese. Ma è solo con il movimento, iniziando a passeggiare piano, di pomeriggio,

Sport in Azione

lungo uno dei sentieri serpeggianti che si addentra tra macchie decadentiste di tassi dove scopro seminati qua e là curiosi reperti antichi – con squarci-flash come di boschi e successive scene di studiata irregolarità – che incomincia sul serio il coinvolgimento. Un giovane lettore è seduto su una panchina. Il pensiero corre al passaggio Dell’arte dei giardini inglesi (1801) di Ercole Silva letto l’altra notte nella seconda edizione accresciuta del 1813, dove si descrive, all’ombra di un bosco di pini e ginepri come questo, il posto per la lettura. Un monumento consacrato «al modesto, all’obbliato, al mal corrisposto inventore della stampa» si trovava qui. Un’accorata iscrizione, scolpita sulla lapide-schienale in marmo nero, invocava di ricordarsi di Gutenberg e versare una lacrima pensando alla sua sventura. Il destino non ha sorriso nemmeno al suo monumento sparito.

Su e giù tra entusiasmi e nostalgie

La prima pagina della «Gazzetta dello Sport», sabato 7 giugno, apre con un eloquente Meno male c’è Sinner Poco sotto, a caratteri cubitali, si legge «Basta», riferito alla nazionale azzurra, strapazzata in Norvegia per 3 a 0, e già costretta a rivedere i suoi progetti di qualificazione alla Coppa del Mondo del 2026. A piè di pagina, Luigi Garlando, editorialista, scrittore e narratore, inventa la storia di un ragazzino di nome Pietro. Ha 15 anni. Non ha potuto gioire della presenza della sua nazionale alle due ultime edizioni del Mondiale. Rischia di rimanere a bocca asciutta anche al prossimo appuntamento. Se andrà bene, potrà tifare Italia nel 2030. Avrà 20 anni. «Vent’anni passati senza mai vedere azzurro in una Coppa del mondo. Pietro cambia canale. Al posto della ripresa, vede Jannik Sinner: talento, cuore, volontà, sacrificio. Datemene undici così, per favore». Al termine della lettura ho avuto

due tentazioni. Suggerire all’autore che si disputano Coppe del Mondo anche in altre discipline sportive. Contattare Pietro per dirgli che l’azzurro lo potrà vedere. Quello dei Francesi, anche se loro si considerano «les bleus ». La mia «vis polemica» è stata tuttavia stemperata da una botta di nostalgia. Dopo aver assaporato lo spettacolo offerto nel pomeriggio da Lorenzo Musetti e Carlos Alcaraz, e dopo aver appurato in serata che Sinner (pure io, come Pietro, ero sintonizzato sul tennis) aveva dato la picconata definitiva al regno di Novak Djokovic, ho ripensato alle ore di trepidazione trascorse quando in campo c’era Roger Federer. Mi sono consolato aggrappandomi all’idea che King Roger è considerato un modello da parte dei due talenti italiani. Una consolazione pallida, schiacciata dalla consapevolezza che le emozioni che ci ha regalato il Genio basilese,

uso improprio dei dati personali. Ma questa diffidenza potrebbe attenuarsi con l’introduzione di regole chiare e trasparenti. Infine tenete conto che il servizio sarà tanto migliore se invece di mettere alla prova l’intelligenza artificiale come se fosse un esame, le fornirete informazioni dettagliate sulle vostre esperienze e preferenze. L’unico limite di questo approccio è che la macchina tenderà a proporvi infinite variazioni dello stesso tema: Same same but different, come si dice nel Sud-est asiatico. L’AI ha il suo pregio e il suo limite nel tentativo costante di compiacere l’interlocutore umano. Raramente vi sorprenderà con una proposta di viaggio fuori dagli schemi, semmai potrà rivelare connessioni nascoste. Ad esempio: quali altri viaggi ha fatto chi frequenta regolarmente la vostra meta preferita? Questa semplice domanda

può aprire prospettive inaspettate. Detto questo, è bene ricordare che sulla carta tutto funziona, ma nella realtà le cose possono essere molto più complicate. L’esperienza turistica si svolge in spazi pubblici, spesso all’estero, a contatto con persone di altre lingue e culture. Inoltre il sistema turistico mondiale sta attraversando una fase di crescita disordinata e spesso qualcosa non funziona come dovrebbe. Per questo il dialogo con un agente di viaggio digitale non esclude il ricorso a un interlocutore in carne e ossa, specie se si tratta di una figura affidabile e già sperimentata. Nulla vieta, infine, di lasciare spazio a impulsi più profondi e irrazionali nella scelta di una meta. Almeno una volta all’anno, concediamoci la libertà di seguire la curiosità, l’intuizione, il colpo di fulmine. Lasciamo al viaggio il suo potere di farci e disfarci.

Spuntano qua e là come funghi, capitelli sparsi come a caso e mezze colonne buttate lì in stile false rovine. Sotto una catalpa, vivono dei pinnacoli a forma di ananas che dovrebbero però essere pigne ma in realtà mi ricordano, con precisione ed emozione, l’ananas d’oro in cima alla coppa alzata dal vincitore di Wimbledon. Mi inerpico sulla collinetta dove c’era una volta il tempietto della Fortuna Avita, richiamo, pare, per le ninfe locali. La folgore del cielo non piombi mai su questo tugurio né la sventura colpisca quelli che v’entrano si legge sullo chalet nascosto. Ai piedi della collinetta, catturata con il laghetto scomparso da Levati in una fiabesca acquaforte tra le pagine del trattato citato prima, c’è un sarcofago in pietra. Il sarcofago di Poussin. Le parole scolpite: Et in arcadia ego. Ed in Arcardia anch’io: titolo di un dipinto di Poussin con tre pastori e una sibilla attorno la

stessa iscrizione tombale. Camminando incontro l’ex lodge scozzese ed ex tempio di Giano divenuto catapecchia per uno pseudo pastore vivente foraggiato dal Silva. Un sentiero tra tigli profumati porta in una radura dove la luce colpisce un obelisco che svetta a fianco di un bagolaro monumentale. Nel pratone risalta il verde argenteo del cedro atlantico. Mentre nel punto di fuga, in direzione della seicentesca villa di delizie, avvisto tra le fronde, l’Esedra della Salute. La più grande sorpresa: nicchie vuote, pezzi di templi nell’erba, statue di divinità scomparse tranne una splendida Ebe che versa da bere a Giove in forma di aquila. È il nettare dell’eterna giovinezza. La porta del cancello si apre con mio stupore. Entro nell’esedra, magnifica anche perché spoglia e provata. Mi siedo sulla panca di pietra chiara e non vorrei più partire.

ora ce le offrono tennisti che difendono altri colori. L’azzurro in primis. Non a caso, in Italia, in più di un’occasione, il tennis ha sottratto al calcio le prime pagine dei media sportivi e non solo. In Svizzera, stiamo vivendo una tendenza opposta. L’interesse nei confronti del tennis sta scemando, nonostante la qualità eccelsa del gioco proposto dagli attuali leader mondiali. È un fenomeno strano, insondabile, quello che regola le relazioni tra discipline sportive, campioni e pubblico. In passato, in Svizzera, ci siamo scoperti appassionati, e persino esperti, di vela. Ciclicamente, ogni 4 anni, togliamo dal baule il regolamento delle partite di curling, per poterci sistemare in poltrona per 3 o 4 ore, a palpitare, con cognizione di causa, per le imprese di atleti e atlete in maglia rossocrociata che fanno scivolare delle pietre sul ghiaccio, oppure che, il ghiaccio lo spazzolano. Se lo

facciano per frenare o per accelerare l’incedere della pietra, non l’ho ancora capito. Non voglio né snobbare, né sminuire nessuno sport. Ma questo attaccamento ondivago alle varie discipline, a dipendenza della presenza di atleti di punta del nostro Paese, mi fa venire il sospetto fondato che noi spettatori abbiamo un bisogno quasi disperato di identificazione. In un colore, una bandiera, una cultura. Tendenzialmente, almeno stando a quanto si legge sui social media, siamo sempre più propensi a negare questa facoltà alla politica e all’economia. Queste, ci dispensano piuttosto dei grattacapi. Lo sport, invece, ci fa vibrare, ci fa sentire uniti, figli di uno stesso territorio, adepti di un’unica religione. Federer, i tecno-marinai di Alinghi, Marco Odermatt, Nino Schurter, i ragazzi di Patrick Fischer, la skip Silvana Tirinzoni, sono stati – alcuni lo sono ancora – i nostri sa-

cerdoti e le nostre sacerdotesse. Sulle loro spalle grava una responsabilità enorme. Oggi più che mai. In un’epoca di incertezze, paure e fragilità dettate da guerre, massacri, e costante calo del potere d’acquisto, un buon risultato sportivo può essere consolatorio.

«Avanti, Pietro, con giudizio», direbbe il Ferrer dei Promessi Sposi. Continuiamo a investire nello sport, che si tratti di grandi eventi d’élite o di strutture per il cosiddetto «Breitensport», lo sport di massa. Ma non dimentichiamo che la vita prosegue, nel bene e nel male, anche dopo il triplice fischio finale. In questo senso, credo che tutti i mass media dovrebbero responsabilmente modulare il focus tra esaltazione e relativizzazione. Affinché noi appassionati si possa godere di ogni evento, senza correre il rischio di finire fuori giri per eccesso di attaccamento ai colori. L’eccesso che dalla passione conduce al fanatismo.

di Giancarlo Dionisio
di Oliver Scharpf
di Claudio Visentin

Settimana Migros

9.95

invece di 15.–

Filetti di salmone con pelle M-Classic, ASC d'allevamento, Norvegia, 4 pezzi, 500 g, in self-service, (100 g = 1.99)

2.10

Scaloppine di lonza di maiale IP-SUISSE per 100 g, in self-service

Da tutte le
sono

Un tripudio vitaminico di bacche e verdure

Migros Ticino
Cuore di lattuga

Tagli prelibati per piatti da chef

1.80

9.55

3.95

Migros

Cari saluti da Poseidone

Prezzo basso

2.05

Orata reale M-Classic, ASC d'allevamento, Croazia, per 100 g, in self-service

Prezzo basso

4.50 Salmone selvatico Sockeye M-Classic, MSC

pesca, Pacifico nordorientale, per 100 g, in self-service

Suggerimento: cuocere i filetti brevemente per farli restare succosi

24%

7.95 invece di 10.50

Filetti di merluzzo M-Classic, MSC pesca, Atlantico nordorientale, 375 g, in self-service, (100 g = 2.12)

Prezzo basso

3.95

Filetti di pangasio in pastella Anna's Best, ASC d'allevamento, Vietnam, 250 g, in self-service, (100 g = 1.58)

42%

9.95 invece di 17.35

25%

Salmone affumicato islandese Migros, ASC d'allevamento, Islanda, 250 g, in self-service, (100 g = 3.98)

30%

3.45

3.30 invece di 4.42

Gamberi crudi e sgusciati M-Classic, ASC allevamento, Vietnam, per 100 g, in self-service

invece di 4.95

Filetti di tonno pinna gialla M-Classic, MSC pesca, Pacifico occidentale, per 100 g, in self-service

Piccole opere d’arte

tutte da mordere

Diverse torte in offerta

Tutte le torte non refrigerate per es. torta di Linz Petit Bonheur, 400 g, 3.04 invece di 3.80, prodotto confezionato, (100 g = 0.76) 20%

Torta Foresta Nera Ø 16 cm, 500 g, prodotto confezionato, (100 g = 1.22) 23%

conf. da 3 20%

Biscotti freschi Petit Bonheur discoletti, nidi alle nocciole o biscotti al cocco, per es. Discoletti, 3 x 207 g, 7.90 invece di 9.90, (100 g = 1.27)

Tutti i donut in vendita al pezzo per es. al cacao, 68 g, –.96 invece di 1.20, (100 g = 1.41) a partire da 2 pezzi 20%

Tutti i cornetti precotti per es. cornetti al burro M-Classic, IP-SUISSE, 5 pezzi, 200 g, 2.64 invece di 3.30, (100 g = 1.32) a partire da 2 pezzi 20% 6.10 invece di 7.95

al 7.7.2025, fino a

Dal più piccante al più dolce

Vasta gamma di prodotti puramente vegetali

15.30 invece di 18.–Latte Drink UHT Valflora, IP-SUISSE 12 x 1 litro, (1 l = 1.30)

Tutti i formaggi da grigliare o rosolare in self-service per es. Halloumi Taverna, 250 g, 3.84 invece di 4.80, (100 g = 1.54) a partire da 2 pezzi 20% Mozzarella Galbani sferica o mini, in confezioni multiple, per es. mozzarella sferica, 3 x 150 g, 5.75 invece di 7.20, (100 g = 1.28)

Migros Ticino

1.85 invece di 2.35

Appenzellerin elegant circa 250 g, per 100 g, prodotto confezionato 21%

2.40

invece di 3.–Canaria Caseificio per 100 g, prodotto confezionato 20%

1.65

invece di 2.10

Le Gruyère surchoix AOP per 100 g, prodotto confezionato 21%

Appenzeller surchoix per 100 g, prodotto confezionato 15%

1.65 invece di 1.95

7.05 invece di 8.85 Le Gruyère grattugiato AOP 3 x 130 g, (100 g = 1.81)

2.05 invece di 2.60 Fontal Italiano per 100 g, prodotto confezionato 21%

5.20

Caprice des Dieux in conf. speciale, 330 g, (100 g = 1.58) 20%

invece di 6.55

Tutti i Caprice des Dieux e i Caprice des Anges (formato maxi escluso), per es. Caprice des Dieux, 300 g, 4.76 invece di 5.95, (100 g = 1.59)

Migros Ticino

Una super scorta senza spender troppo

a partire da 2 pezzi 20%

Tutto l'assortimento bio Mister Rice per es. Wild Rice Mix, 1 kg, 4.76 invece di 5.95, (100 g = 0.48)

conf. da 3 33%

5.60 invece di 8.40

Affettato vegano Rügenwalder Schinken Spicker o Mühlen Velami, classico, 3 x 80 g, (100 g = 2.33)

Frutta e verdura dalla Svizzera

conf. da 3 20%

Pasta Anna's Best, refrigerata ravioli di manzo d'Hérens del Vallese o gnocchi capresi, in confezioni multiple, per es. ravioli, 3 x 250 g, 11.75 invece di 14.85, (100 g = 1.57)

conf. da 4 20%

Conserve di verdura svizzera o purea di mele svizzere M-Classic disponibili in diverse varietà, per es. piselli e carote, fini, 4 x 260 g, 5.40 invece di 6.80, (100 g = 0.52)

conf. da 2 33%

Pizze Da Emilio Quattro stagioni o Margherita, per es. Quattro stagioni, 2 x 440 g, 11.95 invece di 17.90, (100 g = 1.36)

3.25 invece di 6.57 Chips M-Classic, in conf. XL alla paprica o al naturale, in conf. speciale, 400 g, (100 g = 0.81) 50%

Fichi Migros Bio essiccati, 400 g, (100 g = 1.35) 22%

5.40 invece di 6.95

Tutti i tipi di olio e aceto, Migros Bio (articoli Alnatura esclusi), per es. olio d'oliva greco, 500 ml, 9.56 invece di 11.95, (100 ml = 1.91) 20%

partire da 2 pezzi –.60 di riduzione

Tutto l'assortimento Blévita (confezioni singole escluse), per es. Gruyère AOP, 6 x 38 g, 3.35 invece di 3.95, (100 g = 1.47)

invece di 6.95 Tutti i Gazpacho Alvalle per es. Original, 1 litro 20%

Ora disponibile anche in confezioni singole

semplice, sapore delizioso –.95

Tutte le miscele per dolci e i dessert in polvere, Homemade (Cup Lovers esclusi), per es. Brownies, 490 g, 4.96 invece di 6.20, (100 g = 1.01)

Tutti i tipi di caffè Caruso, in chicchi e macinato per es. Crema Oro in chicchi, 500 g, 6.65 invece di 9.50, (100 g = 1.33)

Blévita al Gruyère AOP 38 g, (100 g = 2.50)

invece di 23.80

Capsule Nescafé Dolce Gusto lungo, espresso, café au lait o cappuccino, 2 x 30 pezzi, (100 g = 4.96)

Dolci e cioccolato

Tutto per il buon umore

da 3 20%

Tavolette di cioccolato Excellence o Les Grandes, Lindt per es. Excellence Orange Intense, 3 x 100 g, 11.50 invece di 14.40, (100 g = 3.83)

al latte Lindor Lindt in conf. speciale, 800 g, (100 g = 3.24) 37% 7.40 invece di 9.30

Classique, Blond o Noir, 3 x 100 g, (100 g = 2.47)

i biscotti Tradition per es. Petit Gâteau al limone, 150 g, 3.80 invece di 4.40, (100 g = 2.53) –.60 di riduzione

25.95 invece di 41.52

da 3 30%

6.90 invece di 9.90

rotondi Chocky M-Classic al cioccolato o al latte, 3 x 250 g, (100 g = 0.92)

Palline
Tutti
Biscotti

20x CUMULUS Novità

5.95 Gomme da masticare Stimorol Infinity spearmint o strawberry, 88 g, in vendita nelle maggiori filiali, (100 g = 6.76)

20x CUMULUS

1.55 Katjes

Wunderland o Grün-Ohr Hase, per es. Wunderland, 100 g, in vendita nelle maggiori filiali

20x CUMULUS Novità

2.– Kinder Joy 20 g, (100 g = 10.00), in vendita nelle maggiori filiali

Caramelle frizzanti al gusto di frutta Con tante fibre

20x CUMULUS

1.95 Pez Fizzers 60 g, (100 g = 3.25), in vendita nelle maggiori filiali

20x CUMULUS Novità

2.50

Haribo Rainbow acide 160 g, (100 g = 1.56)

20x CUMULUS Novità

Barrette Farmer

Soft Lampone e Nuts Pistacchio, dattero e mandorla, per es. Soft Lampone, 20 g, 1.20, (100 g = 6.00), in vendita nelle maggiori filiali

1.70 Trolli sacchetto da 100 g, per es. Sour Glowworms

Freschezza da leccarsi i baffi

7.35

invece di 9.20

Coppette di gelato M-Classic prodotto surgelato, Ice Coffee, Vacherin o Bananasplit, per es. Ice Coffee, 4 x 165 ml, (100 ml = 1.11)

10.95

invece di 21.90

5.55

6 x 70 ml, (100 ml = 1.32)

7.50

Cornetti Fun alla vaniglia e alla fragola prodotto surgelato, in conf. speciale, 16 pezzi, 16 x 145 ml, (100 ml = 0.47) 50%

8 x 82 ml, (100 ml = 1.14)

Gelato su stecco Rainbow Tropical prodotto surgelato,
Gelato su stecco pralinato Choquello prodotto surgelato,
Gelato
Mini Exotic

Bevande L’estate in un bicchiere

LO SAPEVI?

Il fabbisogno medio giornaliero di liquidi di un adulto sano è compreso tra 1,5 e 2,5 litri di acqua o tè non zuccherato.   Una regola generale comune per calcolare la quantità da bere è: 26 ml per kg di peso corporeo. La quantità esatta può variare a seconda dell'età, del peso corporeo o del livello di attività.

Cura potente per tipi pieni di energia

25%

Tutto l'assortimento di prodotti per la cura del viso L'Oréal Paris (prodotti Men e confezioni multiple esclusi), per es. crema da giorno antirughe Revitalift, 50 ml, 12.71 invece di 16.95, (10 ml = 2.54)

Tutto l'assortimento Bulldog (confezioni multiple escluse), per es. crema idratante, 100 ml, 6.71 invece di 8.95 25%

Lame di ricambio Gillette in confezioni speciali, per es. Fusion 5, 14 pezzi, 41.90 invece di 52.41, (1 pz. = 2.99) 20%

Gel o schiuma da barba, Gillette per es. gel, 2 x 200 ml, 5.95 invece di 7.50, (100 ml = 1.49) conf. da 2 20%

Rasoi usa e getta Gillette Blue II o Blue 3, in confezioni speciali, per es. Blue II, 20 pezzi, 8.95 invece di 11.20, (1 pz. = 0.45) 20%

a partire da 2 pezzi 25%

Prodotti per la doccia e lozioni per il corpo, Kneipp (confezioni multiple e da viaggio escluse), per es. balsamo doccia cura-pelle ai fiori di mandorlo, 200 ml, 3.71 invece di 4.95, (100 ml = 1.86)

a partire da 2 pezzi 25%

Tutto l'assortimento Garnier Ambre Solaire (confezioni multiple escluse), per es. Sensitive Expert+ IP 50+, 175 ml, 12.71 invece di 16.95, (100 ml = 7.26)

a partire da 2 pezzi 25%

Tutto l'assortimento Lavera (confezioni multiple e da viaggio escluse), per es. dentifricio Complete Care senza fluoro, bio, 75 ml, 3.71 invece di 4.95, (100 ml = 4.95)

a partire da 2 pezzi

Tutti i detergenti Ariel (confezioni multiple e speciali escluse), per

l'assortimento

Piastra per grill di alta qualità in metallo pressofuso con antiaderenterivestimento

7.50

invece di 13.80

Salviettine umide Hakle freschezza e sensibilità, freschezza assoluta o freschezza e cura, 4 x 42 pezzi, per es. freschezza e sensibilità

17.50

invece di 29.20

Carta igienica Hakle, FSC® pulizia delicata o pulizia morbida, in confezione speciale, 24 rotoli, per es. pulizia delicata

Sacchetti multiuso o fogli di carta da forno, Kitchen & Co. per es. sacchetti multiuso N°13, 2 x 100 pezzi, 2.85 invece di 3.60 conf. da 2

3.95 invece di 4.95

invece di 14.95

Phalaenopsis, 3 steli disponibile in diversi colori, Ø 12 cm, il vaso

Prezzi imbattibili del weekend

31%

5.30

invece di 7.70

33%

Filetto di manzo Black Angus M-Classic, al pezzo Uruguay, per 100 g, in self-service, offerta valida dal 3.7 al 6.7.2025

3.95

invece di 5.95

Pesche a polpa bianca Extra Spagna/Italia/Francia, al kg, offerta valida dal 3.7 al 6.7.2025

50%

Pipe, penne o trivelli, M-Classic in conf. speciale, 1 kg, per es. pipe, 1.75 invece di 3.50, (100 g = 0.18), offerta valida dal 3.7 al 6.7.2025

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