Azione 32 del 3 agosto 2020

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio Intervista allo psicologo Nicola Ghezzani autore del libro La specie malata

Ambiente e Benessere La biobanca dell’Epatocentro Ticino archivia materiale biologico di pazienti ricoverati con il Covid-19, sarà utile per una maggior comprensione del virus e per la ricerca di farmaci

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 3 agosto 2020

Azione 32 Politica e Economia La Turchia si allarga verso il Mediterraneo orientale

Cultura e Spettacoli È uscita per i tipi di Dadò la raccolta di saggi di Starobinski su Jean-Jacques Rousseau

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Maturi per il voto, a 16 anni?

Keystone

di Fabio Dozio pagina 3

Covid-19, una convivenza complicata di Peter Schiesser Bisogna riconoscerlo: questo Coronavirus non fa sconti. I nodi vengono al pettine. La presunzione viene punita. Tradotto in politica, quei grandi capi armati di carisma populista che hanno incantato le masse e per conservare l’aura di superuomini hanno negato il virus, un potere più grande del loro, stanno pagando, stanno facendo pagare lo scotto alle popolazioni sottoposte. Trump, Bolsonaro, Putin, Johnson, tutti i molti capi di Stato populisti e/o autoritari si mostrano per quel che sono: incompetenti, cinici, impotenti (il cinese Jinping è un’altra cosa ancora). Le conseguenze sono terrificanti. Il potere dà l’illusione del controllo totale, resta però solo un’illusione. Le parole che hanno stregato le masse non incantano il virus, inanimato, senza emozioni. La messa in scena del proprio ego, spesso spropositato, si rivela per quel che è: spettacolo patetico, purtroppo anche tragico. La politica non è qualcosa di lontano, un duello fra Dei dell’Olimpo: una politica sbagliata costa vite umane, crea danni economici, nel sud del mondo miseria e un passo indietro nella storia. E la pandemia è anche l’occasione per liquidare oppositori politici, all’ombra delle

dittature e degli autoritarismi. Siccome viviamo in un mondo globalizzato, pagheremo tutti per gli errori degli incompetenti al potere. Se gli Stati Uniti sono costretti a tenere in vita l’economia al prezzo di crescenti contagi, significa che il motore dell’economia mondiale resta infetto e infettivo. Pericoloso per tutti. Anche perché in gran parte del mondo le cose non vanno molto meglio. Contraddizioni e incoerenze su come affrontare la pandemia dopo il lockdown possiamo vederne ovunque, più o meno gravi. Anche in Svizzera. Per esempio: ha senso che possano riunirsi fino a cento persone in club e discoteche, sapendo che proprio i luoghi chiusi e affollati sono più a rischio di altri? Ma anche fra la popolazione regna una certa confusione e, siamo onesti, si vede ormai molto meno quel distanziamento sociale/fisico richiesto con fermezza nella prima fase della pandemia. Secondo il presidente dell’Accademia svizzera delle scienze e membro della Task Force scientifica nazionale sul Covid-19 Marcel Tanner «a molte persone non è chiaro che adesso tutto dipende dall’ottimale interazione tra le diverse misure» e l’Ufficio federale della sanità non è riuscito a comunicarlo adeguatamente alla popolazione (ma ora lancerà una nuova campagna). Anche l’importanza

della Swiss Covid APP, che permette di rintracciare chi ha avuto contatti stretti con una persona infetta, non sembra essere riconosciuta dalla maggioranza della popolazione: finora è stata scaricata solo da poco più di un milione di persone e oltre la metà degli intervistati nei sondaggi non la vuole, o per timori legati alla privacy o perché non la considera una priorità. Troppo poco per essere efficace. L’evidenza che in questa nuova fase ci sono poche ospedalizzazioni e ancor meno decessi fa abbassare la guardia. Si osa, si rischia sempre un po’ di più, e in effetti arriviamo di nuovo a 200 contagi al giorno. Il risultato è che si naviga a vista, la convivenza con il virus si rivela difficile da gestire, un po’ si rimuove il pericolo, un po’ lo si sottovaluta. Ma questa incertezza fa male alla società nel suo insieme: non sappiamo come sarà la scuola da settembre, diversi settori economici sono in difficoltà o possono ricascarci (il Ticino, più della media svizzera forte nell’export, pagherà più di altri). E siccome molte persone convivono malamente col dubbio, hanno bisogno di certezze, c’è chi si destabilizza psichicamente. Il Coronavirus ha messo in evidenza il meglio dell’umanità (la solidarietà fra persone e fra governanti e cittadini), ma anche i lati oscuri.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 agosto 2020 • N. 32

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Società e Territorio Finestre sull’immaginario Il gruppo di illustratori ticinesi Fokus Illustration ha presentato una mostra virtuale intitolata «Camera con vista» sull’esperienza del lockdown

A due passi Oliver Scharpf ci accompagna in Bregaglia alla scoperta della torre Belvedere a Maloja, ultima testimonianza del castello panoramico voluto dal conte Camille de Renesse

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Federica Camerini

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La specie malata

Intervista Nicola Ghezzani è psicologo

clinico e psicoterapeuta. Nel suo ultimo libro analizza come gli esseri umani vengano condizionati dai miti dell’individualismo. Per cambiare rotta propone la geopsicologia

Stefania Prandi Nicola Ghezzani è psicologo clinico, psicoterapeuta e autore di saggi su ansia, narcisismo, depressione e relazioni d’amore. Nel suo ultimo libro, La specie malata (Franco Angeli), analizza come gli esseri umani vengano condizionati dai miti dell’individualismo. Nelle società contemporanee prevalgono egoismo e competitività e dilaga la disperazione solitaria di chi non si adatta. Ghezzani propone un modello terapeutico adeguato alla complessità dei tempi, risultato di decenni di osservazione diretta sui pazienti: la geopsicologia. Nicola Ghezzani, lei spiega che l’umanità è in bilico fra generosità ed egoismo, speranza e disperazione, con tendenza all’individualismo. Può spiegarci la sua visione?

La natura umana è dotata di due bisogni biologici fondamentali, di origine organica ma che vengono codificati socialmente. Il primo è il bisogno di appartenenza, la tendenza a sentire e vivere insieme agli altri. Fin da piccoli siamo predisposti ad essere sociali. Il secondo bisogno è di individuazione, cioè di autonomia e autorealizzazione: oltre a sentirci connessi con le persone intorno a noi, dobbiamo sviluppare al meglio la nostra unicità. L’individuazione è la capacità di dare il meglio di sé interagendo con chi si ama di più, nel contesto della vita di relazione. Tra il 1400 e il 1500, con il Rinascimento, quando ha iniziato a svilupparsi la cultura borghese, l’individuazione è deviata verso l’individualismo, che consiste nell’esprimere il meglio di sé in competizione con gli altri, contro gli altri. Una delle conseguenze di questa perversione del bisogno di individuazione è l’invidia. Ai giorni nostri la situazione è esasperata. La vediamo sui social network, ad esempio, incentrati su una morale fortemente egoistica e invidiosa, con lo spiare gli altri, in un confronto continuo su chi ha più successo, ha la casa più bella, ha il vestito migliore.

Pur focalizzandoci su noi stessi e sforzandoci di dare sempre il meglio, tendiamo a sentirci inadeguati. Quali sono le cause di questa condizione?

La realtà sociale ci propone modelli basati sul raggiungimento di certi standard. Ad esempio, da bambini non si deve strillare, da ragazzi bisogna andare bene a scuola, da adulti è importante guadagnare una certa quantità di soldi per essere rispettati. Questi modelli fanno tutti capo all’individualismo, cioè ci misurano per la capacità che abbiamo di dare il massimo da soli. Anche quando lavoriamo in gruppo, lo facciamo in funzione della produzione di valore. Di fronte a modelli così omologati, ci sentiamo sempre inadeguati, perché il loro perseguimento implica la cancellazione sistematica dei sentimenti umani, ci fa sentire disumani. Qualcosa dentro di noi si oppone e fa resistenza: non vogliamo raggiungere certi standard e contemporaneamente ci sentiamo inadeguati perché non li raggiungiamo.

Nelle società occidentali c’è un diffuso senso di solitudine. Perché ci sentiamo soli? Come possiamo uscirne?

Il senso di solitudine è connaturato alla dimensione individualistica. Più cerchiamo di adeguarci a certi standard, e quindi tendere verso la perfezione impossibile, più ci sentiamo soli. La vita umana non è fatta per essere perfetta: siamo imperfetti proprio per poterci relazionare agli altri, perché con le nostre imperfezioni ci completiamo a vicenda. Se non fossimo imperfetti non saremmo socievoli. Possiamo sentirci felici solo se accettiamo che è la relazione con gli esseri umani a darci senso e completezza. Il fatto di essere competitivi ci rende soli, perché gli altri diventano nemici, rivali e ostacoli. Un’altra conseguenza dell’individualismo è il narcisismo, l’elogio smodato di sé. Per uscirne dobbiamo essere onesti e metterci in ascolto della nostra sofferenza. Se c’è della sofferenza significa che in qualche modo l’abbiamo prodotta e dobbiamo guardarla, senza vittimizzazioni né

Una delle conseguenze dell’attuale individualismo è il narcisismo . (publicdomainpictures.net)

colpevolizzazioni, per capire da dove arriva. Per superare l’individualismo, abbiamo bisogno di modificare il sistema di valori emozionali che lo genera. Possiamo riuscirci da soli oppure con l’aiuto di un terapeuta.

Dalla sua analisi emerge che l’ansia è in parte connaturata agli esseri umani e in parte risultato di pressioni sociali.

L’ansia ha come base emozionale la paura di essere esclusi, dipende dal giudizio che crediamo che gli altri abbiano di noi, del continuo sentirci sotto esame. Ha origine dai modelli che ci diamo, contrari alla nostra natura. Non tutte le persone ne soffrono allo stesso modo, colpisce soprattutto le più sensibili, quelle che cercano aiuto da noi psicoterapeuti. C’è una buona parte di popolazione che non percepisce il

conflitto tra i modelli esterni e la natura interna e vive senza particolari ansie, se non quelle collettive dovute a eventi come, ad esempio, la pandemia causata dal Covid-19. Per affrontare la complessità del mondo contemporaneo lei suggerisce un approccio chiamato geopsicologia. Ce ne parla?

Geopsicologia è un termine che ho coniato io e che ho spiegato, per la prima volta, in maniera completa ne La specie malata. La geopsicologia instaura un parallelo tra la vita umana e quella del pianeta, considerando la mente alla stregua della terra: entrambe sono ecosistemi che si autoregolano. Considerati in questo contesto, i sintomi del malessere degli esseri umani diventano i segnali di qualcosa che non funziona come dovrebbe. Se una notte siamo

insonni, magari è perché il giorno dopo dobbiamo fare qualcosa che non vogliamo. Il mio obiettivo terapeutico non è eliminare il sintomo, perdendo la possibilità di capirlo, non subito almeno. Lo scopo della terapia è di ascoltarlo e modificare lo squilibrio che lo ha provocato. Ad esempio, un’idea ossessiva è un tentativo della mente per arginare degli impulsi aggressivi; una fobia sociale un tentativo di sottrarsi a modelli performativi tirannici, e così via. Il sintomo in sé non è brutto né cattivo. L’eccesso moralistico di un tempo generava fantasie trasgressive e sensi di colpa mentre oggi l’eccesso individualistico genera ansie performative e depressioni catastrofiche. In entrambi i casi i sintomi regolano il sistema e impediscono di aderire agli odiati codici individualisti.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 agosto 2020 • N. 32

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Voto ai giovani

Dibattiti Torna d’attualità la proposta di abbassare a sedici anni l’età per concedere il diritto di voto e di eleggibilità.

Se ne discute a Berna e a Bellinzona Fabio Dozio «Penso che si debba abbassare il diritto di voto a 16 anni. Il futuro è nostro! Gli adulti di oggi non hanno le idee chiare, tanti giovani stanno diventando degli attivisti sui social. La nostra generazione lotta per diritti, uguaglianza e parità». È il pensiero di una ragazza che fra poco compirà sedici anni. Dovrà attendere ancora due anni per poter partecipare attivamente alla vita politica istituzionale in Ticino e in Svizzera. Abbassare il diritto di voto e di eleggibilità dei giovani è un tema ricorrente e in queste ultime settimane è tornato di stretta attualità nel nostro Paese. A Berna, la Commissione delle istituzioni politiche del Consiglio nazionale ha respinto a fine maggio l’idea di abbassare da 18 a 16 anni il diritto di voto a livello federale, come chiede l’iniziativa parlamentare della verde basilese Sibel Arslan. Un voto misurato, 12 contro 12, ed è stato il presidente, con il suo voto determinante, a spostare l’equilibrio in senso sfavorevole all’iniziativa. Nel canton Uri, lo scorso 18 maggio, il Parlamento ha invece accettato, 45 voti contro 15, una mozione che propone di concedere il diritto di voto, ma non l’eleggibilità, ai sedicenni. A Neuchâtel, lo scorso febbraio, una proposta analoga è stata affossata in votazione popolare dal 58,5 % dei votanti. Per ora, l’unico cantone che concede il voto ai sedicenni è Glarona, dove la Landsgemeinde lo ha approvato nel maggio del 2007. «Si tratta di un segnale di fiducia nei confronti dei giovani – dichiarò allora la direttrice del dipartimento cantonale dell’interno, Marianne Dürst. – Molti giovani intraprendono un’attività lavorativa a 16 anni. Ora potranno anche esprimere la loro opinione su temi che li concernono, come la scuola o il tirocinio».

Per ora l’unico cantone che concede il voto ai sedicenni è Glarona ma la questione è aperta anche perché in Svizzera l’età media dei votanti è di 57 anni Anche in Ticino le acque si muovono a favore di un abbassamento dell’età del diritto di voto e di eleggibilità. A fine febbraio i deputati del Movimento per il socialismo hanno inoltrato un’iniziativa parlamentare elaborata in tal senso. «Vi sarebbero molte ragioni – afferma l’iniziativa – che potrebbero essere citate a sostegno di questa rivendicazione: di ordine sociale, economico, psicologico, ecc.: ci limiteremo, tuttavia, all’attualità politica e sociale. Non sarà sfuggito a nessuno, nemmeno ai più distratti, come la gioventù sia stata, in questi ultimi due anni, una delle protagoniste principali dell’attualità poli-

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Si è tentato già nel 2007 ma senza fortuna. (Keystone)

tica e sociale in molti paesi, Svizzera e Ticino compresi». L’MPS ritiene che, a 22 anni dall’ultima discussione su questo tema, sia importante riproporlo. Ecco un’altra ricaduta dell’effetto Greta Thunberg. La giovane attivista ambientale svedese ha cominciato a 15 anni a manifestare contro il cambiamento climatico e per uno sviluppo sostenibile. Il movimento sciopero per il clima ha coinvolto anche in Svizzera, in particolare lo scorso anno, decine di migliaia di giovani che sono scesi nelle piazze, anche nelle ore di scuola. La storia del diritto di voto in Svizzera è un lungo cammino, iniziato nel 1848. A quel tempo solo il 23% della popolazione poteva votare, erano escluse le donne, chi aveva meno di venti anni, ma anche chi non pagava le imposte. Come ben sappiamo, i maschi svizzeri hanno accordato il diritto di voto e di eleggibilità alle donne solo nel 1971. E nel 1991, i cittadini svizzeri hanno accettato di abbassare la cosiddetta maggiore età da 20 a 18 anni. Oggi è il 65% della popolazione che vanta i diritti politici. Negli ultimi anni c’è stato più di un tentativo di dare il voto ai sedicenni. Nel 2007 la socialista Evi Allemann ha inoltrato un’iniziativa parlamentare con questa richiesta: «a 16 anni i giovani devono prendere decisioni fondamentali per le quali è importante sapere distinguere i propri interessi da quelli degli altri. A 16 anni i giovani hanno la responsabilità di come organizzare la propria vita, hanno terminato la scuola dell’obbligo e sono politicamente

consapevoli. Il diritto di voto a 16 anni rafforza il processo democratico e tiene conto degli sviluppi demografici. L’interesse dei giovani cresce con l’opportunità di influenzare direttamente gli sviluppi politici e sociali». La proposta non ha avuto successo, il Nazionale l’ha bocciata sonoramente con 107 voti contro 61. Ora c’è un gruppo di giovani svizzero tedeschi che si sta attivando per rilanciare il dibattito sul voto a 16 anni e che intende promuovere un’iniziativa popolare in questo senso. È appena stato aperto un sito, Stimmrechtsalter16. ch, dove si rivendica il coinvolgimento delle nuove generazioni, dando loro la parola, permettendo così di migliorare l’equilibrio democratico perché, come alcuni studi prevedono, nel 2035 l’età media dei votanti salirà a 60 anni. «Vorrei dare una voce ai giovani del nostro paese – afferma Laurin Hoppler – perché possano portare nuove idee e forgiare il loro futuro». Ma non tutti i giovani sono favorevoli: «Vedendo i sedicenni di adesso mi chiedo se anch’io ero così: – ci dice una ventenne universitaria – mi sembrano ancora più superficiali e disinteressati di come lo eravamo noi, o forse li vedo così perché sono cresciuta e ho più esperienza di loro. Però mi ricordo che a 16 anni non ci interessava molto la politica e non ne capivamo neanche granché, anche perché a scuola non se ne parlava. C’erano alcune eccezioni, ovviamente, ma io e i miei amici non eravamo tra quelle. La politica sembrava terribilmente noiosa e piena di

paroloni altisonanti che non capivamo. Non ci sentivamo pronti per votare, per avere questa responsabilità, e ancora adesso, per tanti, sembra che votare sia più un obbligo, un peso, piuttosto che un diritto». Un aspetto non secondario relativo alla formazione politica dei giovani è il ruolo che riveste la scuola. In Ticino se ne è discusso a lungo recentemente in merito alla proposta di introdurre le lezioni di educazione civica. Sta di fatto che l’insegnamento della civica o dell’educazione alla cittadinanza, a dipendenza del grado scolastico, è indubbiamente utile. Anche, e forse di più, in un momento come questo, in cui fra i giovani la fanno da padroni le reti sociali, con molte informazioni che possono essere infondate e che sono, a volte, difficilmente verificabili. E a maggior ragione se l’età di voto si abbassa, perché molti sedicenni sono ancora studenti. In un documento pubblicato in maggio, la Commissione federale per l’infanzia e la gioventù, organo consultivo del Governo svizzero, si è espressa in modo vigoroso a favore del voto ai sedicenni. Sostiene in particolare il diritto di voto, e non di eleggibilità, a tutti i livelli: comunale, cantonale e federale. Assunzione di maggiori responsabilità e possibilità di coinvolgere i giovani come protagonisti della vita sociale sono fra i motivi addotti dalla Commissione. Un’altra voce autorevole a favore della riforma è quella del politologo Claude Longchamp che in un recente

intervento a Basilea ha messo in evidenza l’importanza di abbassare l’età media dei votanti svizzeri. Il Paese sta diventando una gerontocrazia, basata sul potere degli anziani, afferma Longchamp, i cittadini attivi politicamente in Svizzera hanno oggi in media 57 anni. Abbassare a 16 anni il diritto di voto corregge di poco questa media, ma porta un po’ di «aria fresca alle urne». Chi ritiene che i giovani non siano pronti o abbiano poco interesse a partecipare, deve ammettere che questa osservazione vale anche per chi è meno giovane. Longchamp nega che l’abbassamento dell’età favorisca la sinistra. «Secondo i nostri barometri elettorali – afferma il politologo – i giovani che voterebbero per la prima volta sceglierebbero soprattutto i giovani liberali e in secondo piano i giovani UDC e i giovani socialisti». In effetti, anche guardando a quanto è accaduto nel 1991 con il voto ai diciottenni e nel 1971 con il voto alle donne, non ci sono stati scombussolamenti fra gli schieramenti politici. Il sistema elvetico è piuttosto rigido e non sembra dipendere dall’età dei votanti. Piuttosto, recentemente, sono aspetti di politica globale, come l’ecologia e il cambiamento climatico, che determinano variazioni fra la ripartizione delle forze partitiche. Concedere il voto ai sedicenni è un segno di apertura e di fiducia nei confronti dei giovani e, in ogni caso, si tratta di un diritto, non di un dovere, quindi chi non vuole o non se la sente, può scegliere di non esercitarlo.

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La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 agosto 2020 • N. 32

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Idee e acquisti per la settimana

Il prosciutto crudo nostrano

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Attualità L’acqua minerale Aquaciara

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Angelo Valsangiacomo è titolare della Salumi del Pin, azienda a conduzione familiare fondata nel 1996, ed elabora per Migros diversi prodotti nostrani tipici della tradizione ticinese: «Nel nostro assortimento presente nei supermercati Migros i consumatori possono trovare alcuni tagli di carne suina fresca e differenti salumi quali luganighetta, luganighe, cotechino, mortadella di fegato, salame, salametti, lardo, pancetta, prosciutto cotto e crudo». Ed è proprio di quest’ultimo che vi parliamo questa settimana, visto che potrete anche approfittare della promozione speciale di cui è oggetto. «Il nostro crudo è ottenuto da cosce selezionate di maiali allevati in Ticino e lavorato in modo artigianale e secondo la tradizione locale», ci spiega Angelo. «Una volta accuratamente disossate dai nostri esperti macellai salumieri, le cosce vengono sottoposte


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Idee e acquisti per la settimana

Una scelta raffinata anche in estate

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ai saporiti lamponi della varietà Willamette per un dessert da sogno; l’Aceto Balsamico di Modena IGP invecchiato almeno 3 anni, realizzato con mosti pregiati e ideale per condire a crudo verdure, carni e formaggi; le Chips sale-pepe nero selezionate a mano, fritte in olio di girasole e insaporite con una corposa miscela di spezie. Oppure che ne direste di servire per l’aperitivo dei

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Società e Territorio

Finestre sul fantastico Incontri Il gruppo di illustratori ticinesi Fokus Illustration presenta

Letizia Bolzani Illustratore: una professione meravigliosa, ma solitaria. L’illustratore di solito interagisce con le parole, più raramente con le persone. È quindi fondamentale creare una rete tra colleghi, per supportarsi nel lavoro e per scambiare idee. E se la solitudine è sempre una dimensione abituale per chi illustra, a maggior ragione lo è stata nel periodo del recente distanziamento sociale conseguente alla pandemia. Ecco quindi scaturire l’esigenza di un progetto creativo comune: «Camera con vista, riflessioni illustrate sul periodo di chiusura in Svizzera», che il gruppo Fokus Illustration Ticino ha recentemente presentato in una mostra virtuale, visitabile su Facebook (www.facebook.com/Fokus_Ticino) e su Instagram (www.instagram.com/fokusticino). Ma cos’è Fokus Illustration? Lo chiediamo al coordinatore della sezione ticinese, Micha Dalcol: « È un gruppo di illustratori che coinvolge tutta la Svizzera, nato sulla scia del BoloKlub, un progetto che era stato creato in occasione della Bologna Children’s Book Fair dello scorso anno, dove la Svizzera era il Paese ospite». Infatti il BoloKlub si occupa in particolare di sostenere i giovani illustratori, grazie anche a professionisti affermati che supervisionano il lavoro dei colleghi emergenti, sostenendoli nella produzione di un albo illustrato. Mentre il Fokus Illustration ha un intento più associativo, per assicurare una rete di contatti, e per condi-

videre progetti ed esperienze. «Sì, inoltre Fokus Illustration coinvolge tutti i professionisti, non solo i giovani emergenti. E mentre il BoloKlub si occupava specificamente di illustrazione per l’infanzia, gli artisti associati in Fokus fanno illustrazioni a tutto campo». Veniamo al progetto «Camera con vista», come è nato? «Il progetto si è sviluppato dopo uno scambio di messaggi con alcuni componenti del gruppo, volevamo fare qualcosa che potesse riassumere dal punto di vista personale il periodo di chiusura. Ho condiviso la proposta con tutti e c’è stato un ottimo riscontro, diciannove risposte su una trentina di partecipanti. Ci siamo dati un mese di tempo e poi ognuno ha inviato il proprio lavoro, da pubblicare su Instagram e Facebook. Nessuno aveva idea di cosa gli altri stessero facendo, e quindi il risultato finale è stato una sorpresa per tutti». Una sorpresa che per Micha Dalcol assume i tratti di «un mosaico di 19 tasselli che compongono il variegato volto di quel particolare periodo, una rappresentazione molto intima di un dialogo con l’anima. Ogni tassello racconta un piccolo aspetto di quello che tutti noi abbiamo vissuto durante il periodo di chiusura. Dai momenti di ansie, a quelli più spensierati, fino a quelli più riflessivi. Con le paure, le emozioni che ci guidano quotidianamente in ciò che facciamo, ogni singola illustrazione diventa una conversazione tra il possibile e l’impossibile. Ad esempio quando vediamo le nostre stesse paure affacciarsi alla finestra, o quando raggiungiamo la

luna con una finestra volante, si dà una forma concreta all’impossibile». Un tema che indubbiamente ricorre, è quello della finestra: «Già il titolo, Camera con vista, suggerisce la finestra come un portale tra il dentro e il fuori, tra il qui e l’altrove, tra il rassicurante e l’ignoto. Ci sono finestre viste dall’interno e finestre viste dall’esterno, finestre prese d’assalto dalla natura, finestre più introspettive e finestre oltre le quali accadono cose fantastiche. Mentre un tema che è stato toccato marginalmente è quello della morte e della perdita. Forse è un aspetto che ancora non è stato elaborato perché è ancora impresso nella realtà, lasciandoci il grido lancinante di questo periodo dove i morti venivano conteggiati quotidianamente». Micha Dalcol è il coordinatore del gruppo, ma naturalmente ha anche partecipato alla mostra con una sua illustrazione, che ci mostra un interno domestico, con un papà e un bambino in dialogo, e un esterno fantastico, oltre la finestra: «La finestra in realtà è un balloon, un fumetto che rappresenta l’immaginario del padre, un mondo fantastico di mare, vascelli, pirati e sirene, da narrare al bambino». Padre e figlio sono in casa, immersi in colori caldi, sui toni dell’ocra, a cui fanno da contraltare i blu, complementari e più freddi, del mondo fuori. «La mia idea era proprio quella del portale tra il “qui”, reale, dell’appartamento, e i viaggi immaginari nell’“altrove fantastico” delle storie, che sono sempre finestre simboliche. È interessante però che ognuno

Illustrazione Micha Dalcol

«Camera con vista», una mostra virtuale sull’esperienza del lockdown

l’abbia interpretata a suo modo, una signora ad esempio mi ha detto che nel mondo fantastico fuori dalla finestra vedeva rappresentato simbolicamente il Virus. In fondo, ognuno proietta se stesso nelle immagini, così come nelle storie». Storie narrate e illustrate, che nel lockdown hanno modo di fiorire: «Il mio periodo di chiusura si è caratterizzato nell’entrare nel ruolo di genitore al 100%. Non lavorando ho potuto concentrarmi nei viaggi con la fantasia insieme a mio figlio, vivendo avventure tra gli alberi e volando con aeroplani di carta. Un percorso che ha letteralmente creato uno spartiacque tra quello che era la vita precedente al lockdown e la vita attuale, perché tuttora lavoro da casa,

con nuovi ritmi e più attenzione al mondo interiore». Avete altri progetti per il futuro? «Ci stiamo organizzando per poter fare una mostra “reale” e non solo virtuale, ma stiamo ancora valutando la fattibilità. Poi speriamo vivamente di fare altri progetti che non comprendano futuri lockdown!». Hanno partecipato al progetto Camera con vista: Lara Bizzarri, Jasmine Bonicelli, Federica Camerini, Paloma Canonica, Filippo Colombo, Micha Dalcol, Antoine Déprez, Daniel Drabek, Raffaella Ferloni, Sara Guerra, Lilou, Claudio Lucchini, Bruno Machado, Anthony Neuenschwander, Officina 103, Alessia Passoni, Laura Pellegrinelli, Sara Stefanini, Debora Torriani. Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio Rubriche

Approdi e derive di Lina Bertola Dar voce all’inattuale Uno dei miti del nostro tempo riguarda senz’altro il grande valore attribuito all’attualità. L’esigenza di stare al passo con i tempi, di essere sempre à la page, risuona come un imperativo categorico un po’ in tutti gli ambiti della nostra vita. Nella scuola, ad esempio, dove l’introduzione e lo sviluppo di strumenti tecnologici sempre più performanti sta diventando la preoccupazione principale, la priorità assoluta (salvo poi, durante il confinamento, rendersi conto dell’importanza della fisicità nella relazione educativa). Bisogna stare al passo con i tempi, anche se questi tempi non si sa bene quali siano, quasi fossero un’entità metafisica che ci chiede una fede incondizionata. Dal mantra così pervasivo di un’attualità che vuole imporsi ad ogni costo nasce una percezione di urgenza e di velocità, di un’inarrestabile quanto ineludibile rincorsa verso qualcosa che rischia sempre di sfuggirci. Si tratta però di

una percezione ingannevole perché di fatto questo tempo che ci costringe ad inseguirlo non sta andando da nessuna parte. Non ha una meta da raggiungere fuori di sé. Al contrario, è soltanto un agitarsi, un allegro rinnovarsi in modo autoreferenziale, come mostra la serie infinita di aggiornamenti e di sempre nuove versioni degli strumenti tecnologici. E questo agitarsi dell’innovazione è la miglior strategia per non passare, per non diventare passato, per rimanere sempre attuali. In questo clima culturale il termine inattuale sembra suonare quasi come una parolaccia, o perlomeno sembra indicare una cosa senza alcun valore. Inattuale, si legge nei migliori dizionari, significa ciò che non corrisponde alla situazione, alle esigenze del momento: anacronistico, antiquato, datato, obsoleto, fuori dal tempo. Non è difficile riconoscere anche in queste definizioni la presenza di una vera e propria mitolo-

gia dell’attualità. Prova ne sia che la moda, massima esaltazione dell’amore incondizionato per l’attualità, ha inventato il concetto di vintage con cui, come per magia, ciò che potrebbe evocare la triste idea di démodé si trasforma in qualcosa di straordinariamente trendy, very cool. Ma il fatto di voler sempre essere trendy non riguarda solo il nostro look e le parole dell’apparire e dell’esibirsi. Questa rincorsa all’attualità agisce in profondità su molti dei nostri comportamenti e rischia di farci navigare a vista, senza una meta, in un tempo bloccato che continua a ripetere sé stesso. Sarebbe invece auspicabile riconoscere ed accogliere anche il valore di ciò che viene considerato inattuale, e proprio perché inattuale, ovvero fuori dal presente. Sarebbe auspicabile accogliere l’inattualità di gesti, pensieri e sogni come apertura, come spinta creativa a guardare fuori dal presente, a saper scorgere

altre temporalità, ad immaginare un altrove sempre possibile verso cui orientare il nostro sguardo. Una preziosa esperienza di trascendenza, insomma, che questo presente sembra voler soffocare. Dar voce a ciò che è considerato inattuale è anche una forma di resistenza all’omologazione, ovvero al rischio di consegnare il senso e il valore delle cose a ciò che esiste per il solo motivo che esiste. Ciò che si offre a noi come inattuale può essere inoltre un potente antidoto anche al disincanto, sentimento triste di chi si sente prigioniero di un presente ineluttabile su cui percepisce di non aver alcuna presa. Inattuale è ogni gesto e ogni pensiero che riesce ad eludere i linguaggi dei dati di fatto, con le loro derive spesso dogmatiche che spengono lo spirito critico e l’immaginazione. Come sappiamo tutti per esperienza diretta, stare un po’ da un’altra parte, prendere le distanze da ciò che ci avvolge e qualche volta ci travolge,

è importante per capire meglio, per rimanere in dialogo con sé stessi, e con i tempi dell’anima. Questo valore di ciò che è considerato inattuale non ha nulla a che vedere con il desiderio di un ritorno al passato. Non è un modo per esprimere un possibile malessere nei confronti del presente evocando tempi migliori che furono. No, non è questo, al contrario è una straordinaria occasione di apertura sull’inatteso. Di questo valore è testimonianza ed espressione la storia che, rovesciando l’idea di obsoleto e fuori dal tempo, ci sa raccontare il divenire dell’umanità nelle sue scelte, mettendo in scena la realtà di altri presenti. L’inattualità custodita nella storia sa parlarci di una realtà in divenire che in ogni epoca avrebbe potuto essere anche altra. Una grande occasione per riuscire a intravvedere, a pensare e ad accogliere la complessità del reale e del suo continuo imprevedibile movimento.

alcune cartoline di una volta chiamato Schloss Renesse, dal 1953 in mano a Pro Natura. M’incammino così lungo la strada sterrata che sale tra i cembri. Catturo, oltre la merlatura della torre che spunta un paio di volte, il violetto della cicerbita alpina in fiore. In una decina di minuti mi trovo davanti la torre Belvedere (1861 m) a Maloja o Maloggia o Malögia. Luogo ibrido: bregagliotto sulla carta – frazione dell’ex comune di Stampa – ma già engadinese per posizione, anzi, l’En nasce proprio qui. Lassù in alto eccolo l’En neonato scendere giù a rotta di collo. Nasce al lago Lunghin dove a poca distanza c’è il Passo Lunghin che è l’unico triplice spartiacque europeo: oltre al Mar Nero destinazione finale dell’En, attraverso la Maira si arriva all’Adriatico e con la Gelgia o Julia le acque giungono al Mare del Nord. La torre pseudomedievale, aperta di solito per mostre tematiche di Pro Natura è ancora chiusa per coronavirus, con le sue dodici finestre a feritoia nella luce cruda di un primo pomeriggio caldo di fine luglio, trasmette un po’ di desolazione.

In piedi, a fianco, è sopravvissuto il basamento in pietra con tanto di arcate della parte saltata in aria durante una esercitazione militare nel 1955. Il sogno turrito naufragato – ispirato al conte de Renesse quasi di sicuro da Palazzo Castelmur in località Coltura – sfuggito anche a Segantini per la sua morte anzitempo, nel 1904 diventa dépendance del Maloja Palace. Il nuovo Hotel Castello Belvédère viene menzionato dall’«Engadin Express & Alpine Post» che lo descrive «ristrutturato in modo originale». In certe foto sbiadite appare con l’aggiunta sorprendente di uno chalet accanto alla torre. Il destino si accanisce di nuovo con un incendio nel 1913. Salgo, con la tristezza leggera della visita distratta alle rovine, sulla terrazza rimasta. Specie di gronde di granito sono sparpagliate qua e là come massi cuppellari con l’acqua piovana negli incavi. Mi siedo su una bella panchina verde di legno vista montagne aguzze della Bregaglia. Picnic di oggi: mezzo avocado snocciolato la cui cavità è riempita di gamberetti. Per qualche anno, verso il 1918, la residenza-castel-

lo disegnata in origine probabilmente da Jules Rau (1854-1919), architetto belga che si è occupato dei piani del Maloja Palace, viene data in affitto a un certo Zucker che gestiva un collegio femminile. Scendo giù e passo sotto le arcate dove si coglie al volo il lilla pallido delle campanule barbate. Sbuco dove l’alta Engadina si tuffa per trecento metri di baratro nella Val Bregaglia. Alcune voci, ai tempi, quando il conte non si vedeva più in giro, dicevano che dopo aver scolato una cassa di champagne, una notte è caduto giù dalla torre nel precipizio. Una coppia anziana si gode, come me prima, il picnic e il panorama su un’altra panchina a ridosso del baratro. Un’altra attrazione, oltre alla torre Belvedere, sono le marmitte dei giganti. Scoperte nel 1882 proprio durante i lavori di costruzione della torre, le trentasei marmitte dei giganti – pozzi profondi nella roccia levigati dai ghiacciai – rappresentano, pare, le più numerose marmitte dei giganti d’Europa. Al posto di visitare le marmitte dei giganti però, preferisco dedicarmi a raccogliere mirtilli enormi.

e famoso quando i giornali ancora tiravano e pagavano bene. Ci sono anche i seguiti dei suoi romanzi, aggiornamenti sulle riprese del film che il regista André Schäfer sta girando su di lui, oppure le immagini dei luoghi dove ama andare il famoso detective Allmen «tipico personaggio che vive marinando la vita». Il rapporto diretto e libero con i suoi lettori in questo nuovo spazio diverte enormemente Martin Suter che non si risparmia e si diletta ogni volta in forme e contenuti nuovi. Non male per un uomo di settantadue anni. C’è anche una newsletter che annuncia puntualmente tutte le novità. Unico autore svizzero a puntare sul Web tentando di capirne dinamiche e potenzialità, la sua iniziativa volta a cercare l’attenzione dei lettori mi ha portato a fare una riflessione sulla grande offerta informativa e di intrattenimento sul Web e la gestione del nostro tempo. Cosa leg-

giamo sui nostri dispositivi mobili? Quanto dedichiamo ogni giorno alla lettura? A quante newsletter siamo abbonati? Le leggiamo tutte? L’offerta è talmente ampia e diversificata, soprattutto se leggiamo in più lingue, che è difficile scegliere cosa seguire. Si parla tanto di cosa i giornali o le case editrici dovrebbero fare per andare incontro alle nuove esigenze dei lettori ma i lettori e le lettrici avranno anche loro qualche responsabilità in quanto cittadini e cittadine? Hegel diceva che la lettura del giornale era la preghiera del mattino dell’uomo moderno, qual è la nostra preghiera? Cosa e quanto leggiamo, quanto tempo ritagliamo per la lettura e quanto siamo disposti a spendere per situarci quotidianamente nel nostro mondo storico? Soprattutto, quale valore diamo alla lettura dei giornali e dei libri? Pensateci, torneremo a parlarne nella prossima puntata.

A due passi di Oliver Scharpf La torre Belvedere a Maloja Un castello neogotico mai esistito, in cima a un promontorio boschivo, si trova sullo sfondo di un quadro dipinto da Giovanni Giacometti nel 1899 per immortalare, al centro del paesaggio, abbastanza straordinario da queste parti, il Maloja Palace. Inaugurato il primo luglio 1884, in un alpeggio della Bregaglia affacciato sull’Engadina che avrebbe dovuto rivaleggiare con la nascente St. Moritz, il più grande hotel svizzero dell’epoca – titanico, a tre ali in stile neorinascimentale, fronte lago – è un’idea del conte belga Camille de Renesse (1836-1904). In bancarotta quattro mesi dopo l’apertura. L’Hôtel Kursaal de la Maloja, ribattezzato in seguito Maloja Palace, disponeva, oltre a una fonte d’acqua curativa cercata a tutti i costi, di golf, tennis, tiro al piccione. A sue spese anche due chiese. Un castello medievaleggiante mai terminato, in mezzo al bosco a precipizio sulla Bregaglia, come dimora personale, è forse l’apice delle manie di grandezza di Camille Maximilien Frédéric, conte di Renesse-Breidbach, autore tra l’altro di due libri. Uno su Gesù Cristo

e i suoi apostoli e discepoli nel ventesimo secolo, l’altro su due mesi in yacht lungo la costa di Spagna, Portogallo, Marocco. Fuori dai giochi a Nizza, distrutto dal dolore per la prematura morte della moglie Malvina nata de Kerchove de Denterghem lo stesso autunno del suo fallimento, sul castello del conte caduto in rovina aveva messo gli occhi Segantini. Il castello neogotico immaginario, raffigurato in lontananza da Giovanni Giacometti nel quadro commissionato dal direttore del Maloja Palace, era infatti tratto da un disegno in matita di Segantini che favoleggiava di trasformare il castello, nella sua futura abitazione esuberante tipo i castelli di Ludwig II di Baviera. Accanto alla vera casa di Segantini, lo chalet Kuoni abitato ancora dalla famiglia dove fuori in giardino bene in vista c’è il famoso atelier di Segantini – un caratteristico pavillon circolare in legno previsto per lavorare al panorama engadinese mai realizzato da esporre a Parigi – parte la passeggiata per la torre Belvedere. È quello che rimane del castello panoramico incompiuto, in

La società connessa di Natascha Fioretti Le responsabilità dei lettori e delle lettrici Fino a due anni fa Martin Suter al Web nemmeno ci pensava. Poi, un giorno, un po’ per gioco, ha fatto il suo debutto in rima su Twitter e la sua casa editrice, il Diogenes Verlag, ha segnalato l’account pensando fosse un fake. L’autore, d’altra parte, non aveva mai espresso il desiderio di andare online. Le cose cambiano e oggi Martin Suter con il suo universo di personaggi e di testi lo trovate, per così dire, ad ogni angolo del Web: all’indirizzo www.martin-suter.com, su Twitter o su Instagram. In altre parole, se prima il Web non gli interessava ora non lo ferma più nessuno perché non solo sembra credere nel suo progetto ma anche divertirsi. La verità è che lo scrittore svizzero più venduto e tradotto all’estero, vuole essere letto, vuole essere seguito, vuole intrattenere i suoi lettori. Quei lettori che sul mercato librario sembrano diminuire. Scrittore da bestseller con

il suo ultimo romanzo Allmen und der Koi è subito schizzato al primo posto della lista dei bestseller del settimanale «der Spiegel». Ma oggi i bestseller per essere tali non devono più vendere le copie di una volta, il mercato è cambiato. Basti pensare che nel 2010 Il talento del cuoco in Germania vendette subito 300.000 copie, Montecristo, cinque anni dopo, soltanto la metà. Dove vanno i lettori? Cosa leggono con quello sguardo sempre chino sugli schermi dei loro cellulari e tablet, si è chiesto l’elegante scrittore zurighese amante delle terre calde ed esotiche che soltanto sopra i 30 gradi rinuncia al completo scuro e si concede un pantalone di cotone e una camicia bianca. Anch’io voglio esserci, si è detto, se i lettori cambiano abitudine devo raggiungerli in quegli spazi e in quei luoghi che amano frequentare. Per questo un anno e mezzo fa ha lanciato il suo sito, sulle

prime graficamente abbastanza deludente ma si intuiva che per l’autore si trattava di un test, di una prima fase nella quale capire come muoversi. Ora, dopo un restyling niente male che meglio esprime la personalità e la vena pubblicitaria e creativa dell’autore, vale la pena farci un giro. Ci si può abbonare per cinque franchi al mese, il costo di un latte macchiato a Zurigo, o per 50 franchi all’anno. Per essere sostenibile deve raggiungere quota mille abbonamenti entro novembre altrimenti per Martin Suter il gioco non vale la candela. Attualmente, con qualche preoccupazione da parte del suo editore, investe metà della settimana lavorativa nel suo progetto e l’altra metà la dedica al suo nuovo libro. Sul sito troviamo poesie, testi di canzoni scritte per il suo amico chansonnier Stephan Eicher, le nuove puntate delle rubriche Business Class e Geri Weibel che lo hanno reso ricco


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Ambiente e Benessere Un turismo diverso Il Coronavirus ha velocizzato un cambiamento già necessario e inevitabile

La panzanella Un’insalata di pane arricchita secondo i gusti, con peperoni, cetrioli, pomodori e basilico

Forze in campo che si modificano I più sfavoriti sembrano puntare al podio ma è forte il rischio di perdere lo slancio a un soffio dalla vittoria

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Il virus finisce in banca Covid-19 Creato un registro di materiale

biologico e dati per la ricerca

Maria Grazia Buletti «Un grandissimo armadio di circa due metri di altezza e uno di profondità, un classico congelatore (solo più grande del solito) strutturato in cassetti la cui temperatura è di meno 80 gradi centigradi, al cui interno stanno tante scatoline: le criobox (contenitori per la conservazione criogenica)», così la direttrice operativa Maurizia Bissig descrive la Biobanca creata dalla fondazione Epatocentro Ticino che serve alla conservazione di tutti i campioni di materiale biologico dei pazienti ricoverati alla Clinica Luganese di Moncucco dall’inizio della pandemia. Oggi il Coronavirus lo si mette pure in banca: «Un atto di generosità da parte dei pazienti ai quali viene richiesto di poter conservare e catalogare i campioni di tamponi nasali e orofaringei, ma non solo: insieme ai loro dati clinici preleviamo, registriamo e conserviamo pure altro materiale biologico come plasma, urine, feci e via dicendo». La farmacista puntualizza che, prima di essere operativo, il progetto è stato sottoposto allo sfoglio del comitato etico cantonale che ne ha riconosciuto la validità scientifica e l’assoluto rispetto di dati e pazienti: «Prima di poter procedere al prelievo di campioni è imperativo avere la firma del consenso informato del paziente a cui vengono preventivamente spiegati nel dettaglio gli obiettivi scientifici e di ricerca della Biobanca». È un’iniziativa che vuole standardizzare il materiale prelevato per metterlo al servizio della ricerca condivisa, spiega il professor Andreas Cerny, direttore della Fondazione Epatocentro Ticino che ha fortemente creduto nella sua creazione: «Abbiamo chiesto a tutti i pazienti ricoverati (in buona sostanza i casi più severi) di aderire al progetto, orientandoli sui seri e strutturati obiettivi di ricerca che la loro generosità potrà permettere di realizzare; poi abbiamo chiesto la firma del consenso informato a cui tutti hanno aderito con grande generosità». Ne potranno derivare seri progetti di studio e ricerca, gli fa eco la signora Bissig: «Informiamo i pazienti dal 22 aprile (data in cui questo progetto ha preso avvio); coloro che aderiscono sono sottoposti a un totale di 11 controlli con relativi prelievi di materiale

biologico che viene poi lavorato e aliquotato, producendo sei o sette porzioni per ogni campione. Ad oggi ne abbiamo catalogati circa 1500 e, nell’arco di un paio d’anni (la durata del progetto stesso), contiamo di poter mettere a disposizione di studi seri ed etici decine di migliaia di campioni». All’origine, dicevamo, sta la Fondazione Epatocentro Ticino, e Cerny racconta quale sia il legame dell’unità di ricerca con la Biobanca Covid-19: «Sebbene la Fondazione Epatocentro sia focalizzata sul fegato e sulle relative patologie, nel corso degli anni abbiamo sviluppato una certa esperienza nella gestione di biobanche e registri; abbiamo collaborato ad altri studi e maturato contatti e know how». La signora Bissig ricorda che l’obiettivo rimane quello di sostenere e promuovere la ricerca, facendosi promotori di ricerche e partecipando a studi clinici: «Abbiamo potuto osservare che la malattia da Covid-19 presenta non solo manifestazioni respiratorie, come inizialmente ipotizzato, ma effetti e sintomi che interessano vari altri ambiti medici: la Biobanca ha lo scopo di unire sotto tutti gli aspetti i singoli intenti e le ipotesi di ricerca». Il professor Cerny conferma come lo studio delle manifestazioni del Coronavirus abbia dimostrato un’ampia casistica che a questo punto la ricerca deve approfondire: «Tra i pazienti positivi si è notata, ad esempio, una relativa frequenza di rialzo di alcuni valori epatici e su questo aspetto in futuro potrebbero essere rivolte delle ricerche della Fondazione Epatocentro che faranno capo alla Biobanca per il materiale necessario». La lungimiranza: altro aspetto imprescindibile di questa iniziativa che rimane una primizia a livello nazionale: «Con lo stoccaggio capillare del materiale raccolto, potremo coprire spunti a breve termine e pure quelli meno immediati, in un’ottica che potrà aprire parecchi orizzonti condivisi». Insindacabile e comprensibile l’importanza della ricerca e del fatto che essa possa attingere a una raccolta dati standardizzata per tutti. Ciò soprattutto in un campo come questo del Coronavirus, un virus inatteso che si sta imparando a conoscere gradualmente: «Studiare la malattia sarà meno complicato, dato che quasi tutti i centri hanno ricevuto una massa di pazienti in un brevissi-

L’infettivologo e direttore dell’Epatocentro Ticino professor Andreas Cerny e Maurizia Bissig, direttrice operativa della Biobanca creata dalla stessa fondazione. (Stefano Spinelli)

mo lasso di tempo; questa Biobanca avviata repentinamente ci permette di disporre di materiale immediato, ancor prima che siano stanziati i fondi necessari», osserva l’epatologo, certo di poter mettere il materiale biologico raccolto a disposizione di ricerca e studi (sempre che siano preventivamente approvati dalle varie istanze garanti ed etiche), perché un giorno si riesca a capire di più e, di conseguenza, a trovare farmaci e cure adeguate. «È essenziale avere subito un follow-up dei pazienti per poter far fronte alle tante domande che ruotano attorno al Covid. Potremo saperne di più, ad esempio, sull’alterazione dei sistemi creata dalla malattia virale, sulla durata dell’immunità e su tanti altri aspetti

per ora ancora poco comprensibili». Non è certo poco, pure favorito dal fatto che il canton Ticino era fra i più colpiti durante la prima ondata: «Dalla Svizzera interna ci hanno contattati anche altri nostri colleghi interessati a un certo tipo di campioni che oggi possiamo mettere loro a disposizione: attingere a una Biobanca condivisa permette di risparmiare un sacco di tempo e soldi». Anche l’aspetto economico di una tale operazione non va sottovalutato, spiega Cerny: «Abbiamo allestito un budget di 280mila franchi per lo stoccaggio dei campioni di circa duecento pazienti; i tempi d’attesa per riceverli dal fondo nazionale sarebbero stati troppo lunghi e ci siamo quindi rivolti a più fondazioni private ticinesi, tra le

quali la Metis Fondazione Sergio Mantegazza e la Fondazione Leonardo, che hanno risposto positivamente, coprendo generosamente due terzi del budget e permettendoci di non perdere il treno». Maurizia Bissig, infine, ci dà un assaggio della fase operativa entrata nel vivo: «I campioni aliquotati vengono depositati nella Biobanca secondo un preciso ordine a noi noto; quando un’ipotesi di ricerca ottiene il via libera dal comitato scientifico e da quello etico cantonale, allora può richiederci i campioni necessari che preleviamo fisicamente e spediamo ai ricercatori interessati». Tutto a dimostrazione, se mai ve ne fosse ancora bisogno, dell’importanza della ricerca nell’ambito della salute, oggi più che mai.


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Ritorno al futuro

Viaggiatori d’Occidente Dopo l’epidemia si apriranno spazi per un turismo diverso?

La città dei grattacieli sulla sabbia Bussole Inviti a

letture per viaggiare

Claudio Visentin Il turismo se la passa male, lo sappiamo, pur con qualche timido segno di ripresa. Nei Paesi dove l’epidemia sta arretrando, come il nostro, si ricomincia lentamente a viaggiare, ma attraversare un confine resta un sogno, anche solo per timore di incappare in una quarantena. Sono probabilmente timori eccessivi (e forse stiamo perdendo qualche buona occasione, per esempio visitare gli Uffizi senza troppi turisti) ma è difficile cambiare gli orientamenti profondi dell’opinione pubblica. Il Tour Operator Kuoni ha scavato proprio dentro questi desideri, analizzando le ricerche più frequenti su Google per capire dove gli abitanti di ciascun Paese vorrebbero andare in vacanza all’estero il prossimo anno. Su scala mondiale vince Dubai, al secondo posto troviamo insieme Qatar, Canada e Stati Uniti, segue l’Egitto. Limitandoci all’Europa, i meno pretenziosi sono senza dubbio i francesi, attratti dal confinante Belgio. Gli inglesi, che di viaggi se ne intendono, pensano invece alle Maldive; al viaggio vorrebbero unirsi italiani, polacchi, rumeni e bulgari. E i Maldiviani, che già ci vivono tutto l’anno? Loro andrebbero alle Mauritius. Anche Bali è molto gettonata (per esempio da olandesi, serbi e croati) e gli abitanti dell’isola ne sono ben lieti. Con sei milioni di turisti internazionali nel 2019, e dieci dall’Indonesia, l’economia dell’isola è fortemente dipendente dal turismo. O sarebbe meglio dire era? Da quando a marzo il turismo balinese si è completamente bloccato, i lavoratori dei resort sono tornati nei loro villaggi d’origine, riprendendo a malincuore le tradizionali attività nella pesca e nell’agricoltura, per sostenere le loro famiglie. Ni Nyoman Ayu Sutaryani, quarant’anni, madre di tre figli, per due decenni ha lavorato come massaggiatrice e istruttrice di yoga negli hotel e nelle spa di lusso di Bali. Ora raccoglie chiodi di garofano in cima a un’alta scala di bambù. Ma aldilà della gioia di passare più tempo con la sua famiglia, c’è poco altro di cui rallegrarsi: «Questa è

«Welcome to the happiest city in the world. Il viaggiatore che atterra viene accolto da questa scritta, sui pavimenti che portano alla metro. Dubai è città ricca, cosmopolita, audace (…) Una metropoli avveniristica, un prodigio di grattacieli costruiti sulla sabbia…».

Magaluf, luogo di bagordi e ubriacature delle Baleari. (Pxhere.com)

la prima volta che sono senza lavoro e, a volte, mi viene da piangere. Siamo tornati indietro ai vecchi tempi, quando si lavorava per non morire di fame» ha raccontato al «New York Times». Qui nessun rimpianto per il passato, nessun desiderio di novità, solo la preghiera che tutto torni com’era. A Maiorca, la principale isola delle Baleari, la pandemia ha lasciato un segno profondo. Le spiagge sono vuote, così come gli hotel imbiancati fronte mare. Nel 2019 sono passati di qui dodici milioni di visitatori, in un’isola con meno di un milione di abitanti. Due milioni sono arrivati su cinquecento navi da crociera, gli altri in aereo: in un giorno di luglio 2017 si è contato un atterraggio ogni minuto e mezzo. Grazie al turismo, l’isola è uscita dalla sua endemica povertà, ma il prezzo è stato elevato: le scorte d’acqua sono allo stremo, l’aria è inquinata dagli scarichi di migliaia di auto e motorette a nolo, il costo della vita è schizzato alle stelle. Ubriachezza e altri eccessi sono parte della vacanza alle Baleari, Magaluf è tristemente nota

per questo. Ma ora che club e discoteche sono chiusi, gli abitanti stanno riappropriandosi dell’isola in tutta la sua bellezza. Gli animali selvatici sono tornati e in spiaggia si può sentire il rumore del vento e del mare. La babele delle lingue si è spenta, lasciando voce al rassicurante dialetto locale. Non sarebbe meglio vivere così – si sono chiesti in molti – accettando anche un minor guadagno per accogliere famiglie e amanti della natura invece che inglesi ubriachi? Anche nelle grandi città, sino a pochi mesi fa minacciate dall’iperturismo (Overtourism), come Amsterdam o Barcellona, è tempo di nuovi pensieri. Il vecchio modello mostrava già i suoi limiti prima dell’epidemia e anche solo l’emergenza climatica sconsiglia repliche del passato. Potrebbe essere la fine del turismo, per come l’abbiamo pensato sin qui. Nel frattempo, a Venezia, pur nell’occhio del ciclone, tra disdette e mancati arrivi, si sperimenta una nuova, gradevole quotidianità. Sino a pochi mesi fa tutto congiurava per al-

lontanare i residenti dalla loro città: in settant’anni sono passati da 180mila a 50mila. Le cause si sommano: gli affitti troppo elevati, gli appartamenti affidati ad Airbnb, i negozi di quartiere trasformati in rivendite di souvenir dozzinali o pizzerie al taglio… Poi nel tempo dell’epidemia è cominciata una graduale riconquista della città da parte dei veneziani. Senza le onde provocate dalle grandi navi da crociera le acque dei canali sono più pulite e piacevolmente navigabili per le piccole barche. E dopo averla abbandonata per anni ai turisti, i residenti si sono spinti sino in Piazza San Marco. Certo il turismo vecchio modello portava oltre tre miliardi di dollari l’anno, ma anche trenta milioni di presenze, almeno venti milioni di troppo secondo le stime. Per questo molti sognano un diverso modello di sviluppo: una città popolata di studenti universitari, creativi, artigiani, artisti, designer… «Potrebbe essere una città normale» sintetizza Andrea Zorzi, un attivista. «Niente cambia se non cominci a cambiare qualcosa».

Come abbiamo letto nell’articolo qui a fianco, Dubai è la meta più sognata dai viaggiatori internazionali. A prima vista le ragioni di questo successo possono sembrare misteriose. La volontà visionaria dei suoi emiri ha creato una città dal nulla in mezzo al deserto. E forse proprio perché ha deboli legami con la storia o la geografia, Dubai insegue sempre nuovi primati, risvegliando nel turista uno stupore infantile caratteristico del nostro tempo. Gli alberghi sono smisurati, a cominciare dal celebre Burj al-Arab, a forma di vela: nell’eliporto in cima all’edifico, nel 2005, Federer e Agassi giocarono una memorabile partita a tennis. Buri Khalifa, anch’esso con un hotel di lusso disegnato da Armani, è l’edificio più alto del mondo. Tra le altre attrazioni, giganteschi centri commerciali, come Mall of the Emirates, con la sua pista da sci e i pinguini nel mezzo del deserto. E ancora Palm Jumeirah, il più grande complesso artificiale del pianeta, una laguna a forma di palma. Dubai è cresciuta velocemente in pochi anni, senza accontentarsi mai. Nel 1990 accoglieva seicentomila visitatori, nel 2008 erano già sette milioni; il tempo di superare la crisi economica e dieci anni dopo è arrivata a sedici milioni, la quarta città più visitata al mondo dopo Bangkok, Londra e Parigi. Il 2020, con l’Expo, avrebbe dovuto essere l’anno della sua definitiva consacrazione ma ci si è messo di mezzo Covid-19 e per adesso tutto è rinviato al 2021. Dubai si propone come la città del futuro: ma è un sogno o un incubo? / CV Bibliografia

Emanuele Felice, Dubai, l’ultima utopia, Il Mulino, 2020, pp. 224, € 15.–.

Un mondo senza violenza grazie al cibo?

La nutrizionista In una recente conferenza, le teorie di Adrian Raine sull’influenza dell’alimentazione nei primi anni

di un bambino in relazione a possibili disturbi comportamentali da adolescenti Laura Botticelli Gentile Laura, tramite l’Associazione Brain Circle, Lugano (www.braincirclelugano.ch) il 25 maggio 2020, Adrian Raine, psichiatra e criminologo, ha tenuto una conferenza che purtroppo non ho potuto seguire. Sulla rivista «Extra» 7 del 22 maggio, si trova un riassunto: Adrian Raine avrebbe illustrato come un’alimentazione scorretta durante la gravidanza e le prime fasi della vita possa contribuire allo sviluppo di una personalità aggressiva e di come, sempre attraverso la dieta, sia possibile aiutare i bambini a contenere i comportamenti violenti. (Per me che ho già 88 anni forse non si può più correggere!). Questa teoria mi incuriosisce molto; sarebbe possibile creare un mondo migliore, anzi perfetto, tramite un’alimentazione adeguata? / Franco S.

Egregio signor Franco, ammiro molto la sua curiosità e la ringrazio per avermi fatto conoscere la succitata associazione. Ho preso visione della conferenza online e, per permettere anche ai lettori di seguire meglio il discorso, sul sito internet www.azione.ch mi permetto di riportare parte del contenuto, oggetto delle mie considerazioni che si trovano qui di seguito. Raine è giunto a formulare il seguente pensiero: «Se potenziamo l’alimentazione e anche altri mediatori di salute possiamo migliorare la funzione cerebrale e ridurre i comportamenti di tipo criminali». Non solo, quindi, la quantità alimentare ma pure la qualità incide sullo sviluppo cerebrale. Una prima riflessione, puramente personale, riguardo alle osservazioni di Raine concerne lo studio in sé. Mi spiego. Non bisognerebbe semmai chiedersi perché un bimbo, magari ancora nel-

la fase prenatale, sia stato malnutrito? Non bisognerebbe integrare il concetto di malnutrizione con quello sociofamiliare? Secondo me, ma lascio la parola agli studiosi del ramo, è più prudente considerare l’individuo nella sua complessità preferendo, ma complicando sicuramente le cose, l’interazione simultanea di più fattori, tra cui – in questo caso – anche l’alimentazione. Come sappiamo, per esempio, che il bimbo malnutrito durante il secondo conflitto mondiale non abbia non solo non ricevuto gli adeguati alimenti, ma che magari l’ambiente stesso in cui è nato e cresciuto gli sia stato, suo malgrado, ostile? Non è possibile pensare che questo aspetto, piuttosto che la carenza di determinate sostanze nutritive, abbia poi influito sullo sviluppo di comportamenti antisociali o aggressivi? A rigore, in una famiglia senza (apparenti) difficoltà ma che offra

solo comfort-food (che suona meglio di cibo-spazzatura) e cibi non di qualità, dovremmo assistere allo sviluppo dei comportamenti citati. Ripeto però che questo è il mio modo d’interpretare la questione che mi sottopone, gentile Franco, anche se in maniera romantica mi piace pensare che sì, modificando il modo di nutrirsi si potrebbe ambire a un mondo privo di cattiveria. Mai smettere di sognare un mondo migliore! Come genitori possiamo aiutare i nostri figli garantendogli una sana alimentazione già a partire dalla gravidanza assieme a tanto amore e movimento. Possiamo cucinare assieme, portarli al parco con gli amici, piccole azioni ma con grandi potenzialità. Immagino come per un bambino mettere le mani nei pochi e semplici ingredienti per fare i biscotti con la mamma abbia una valenza immensamente più grande del tipo di farina o burro usati.

È dunque importante l’aspetto nutrizionale ma purtroppo da solo non credo sia sufficiente a migliorare il nostro mondo e quello dei nostri figli. Come genitori e nonni abbiamo il dovere di garantire ai nostri figli un’alimentazione sana, perché Raine sottolinea (e in questo mi trova assolutamente d’accordo) come pure una cattiva alimentazione, eccessiva e ricca di cibi «spazzatura» comporti un cattivo sviluppo del cervello, oltre a un ambiente famigliare amorevole, sicuro e sano, ricco di sport e di stimoli. Informazioni

Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch Le precedenti puntate si trovano sul sito: www.azione.ch


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 agosto 2020 • N. 32

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Ambiente e Benessere

Panzanella con cetrioli e peperoni

Migusto La ricetta della settimana

Antipasto Ingredienti per 4 persone: 1250 g di pane bianco raffermo · 1 cipolla · 1 peperone

verde · 1 cetriolo · 100 g di pomodori cherry gialli · 3 c d’aceto di vino rosso · 6 c d’olio d’oliva · 1 spicchio d’aglio · sale · pepe · 1 mazzetto di basilico.

migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.

1. Riducete il pane a bocconi e tostatelo in una padella senza aggiungere grassi, finché diventa croccante. Lasciate intiepidire. 2. Tagliate la cipolla e il peperone a pezzettini. Dimezzate il cetriolo per il lungo, privatelo dei semi e tagliatelo a pezzettini. Dimezzate i pomodori. 3. Emulsionate l’aceto con l’olio, unite l’aglio spremuto e condite con sale e pepe. 4. Unite al condimento la cipolla, il peperone, il cetriolo e i pomodori. Poco prima di servire, incorporate i pezzetti di pane e le foglie di basilico. Preparazione: circa 30 minuti. Per persona: circa 8 g di proteine, 15 g di grassi, 35 g di carboidrati, 320 kcal/

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Ambiente e Benessere

Maledetto braccino

Sport Sovente, nel mondo agonistico, gli outsider che giungono a un passo da un clamoroso successo,

crollano sul più bello

Nel linguaggio comune, quando si parla di «braccino», si pensa a coloro che fanno fatica ad allungarlo per raggiungere la tasca posteriore dei pantaloni, quella che cela il portafogli. Insomma, «braccino corto» sta per spilorcio, taccagno. Nello sport, la prima disciplina a utilizzare questo termine è stato il tennis. Quante volte abbiamo assistito a dei crolli eclatanti? Giocatori che sembravano avere il match nelle loro sapienti mani, e che d’un tratto non riescono più a fare entrare la prima di servizio, spediscono sistematicamente il diritto in corridoio, e vedono rovesci e volées infrangersi sulla rete. È uno sport democratico il tennis. Queste situazioni capitano a tutti, anche ai fenomeni. Non si contano le volte in cui abbiamo visto Roger Federer sottomettere Rafael Nadal e Novak Djokovic alla sua sublime legge, e poi arrancare nel finale quando la vittoria era lì a due passi. Nel momento in cui mi accingo a scrivere, non so ancora chi vincerà il campionato di calcio in Svizzera e in Italia. Tempo fa, avevo ipotizzato che alla ripresa dei vari tornei, dopo oltre cento giorni di stop, avrebbero trionfato le squadre capaci di gestire meglio la pressione psicologica, quelle con una guida in grado di amministrare saggiamente le risorse mentali dei singoli e del gruppo. Quindi, non necessariamente la più forte sul piano tecnico. In Svizzera e in Italia stiamo, o forse è più opportuno dire stavamo, per

Pxhere.com

Giancarlo Dionisio

assistere a una sorta di rivoluzione. San Gallo e Lazio sembravano in grado di infrangere l’egemonia dei club storici, quelli più ricchi. La squadra romana proponeva un gioco arioso, piacevole, spettacolare. Tutto sembrava riuscirle per incanto, a fronte di una Juventus priva di idee e di brillantezza, che reggeva il passo grazie alla classe e all’esperienza di alcune sue individualità. Il dopo Covid-19, per la squadra allenata da Simone Inzaghi, è stata un calvario. La recente sconfitta di Torino, nello scontro diretto, ha praticamente sancito l’abbandono di qualsiasi velleità.

La Lazio è scivolata al quarto posto, scavalcata anche dalla magica Atalanta e dall’Inter, mentre la Juventus si è avviata verso la conquista del nono scudetto consecutivo. L’ultimo successo al di fuori dell’asse Milano-Torino risale agli anni 1999-2001, quando a imporsi furono nell’ordine, Lazio e Roma, che sono pur sempre la due squadre di «Caput mundi». Per ritrovare l’ultima provinciale nell’albo d’oro bisogna risalire a trent’anni or sono quando a imporsi fu la Sampdoria di Vialli e Mancini, con Gianluca Pagliuca fra i pali e il grani-

tico Pietro Vierchowod al centro della difesa. Anche in Svizzera pareva di essere vicinissimi a un ribaltone. Dopo 19 anni di dominio assoluto del Basilea (12 titoli), Zurigo (3), Grasshoppers (2) e Young Boys (2), il San Gallo di Peter Zeidler era a un passo dalla mega sorpresa. Matematicamente tutto è ancora possibile, tuttavia i risultati più recenti ci hanno fatto pensare al cosiddetto «braccino». Pochi giorni fa la squadra della Svizzera orientale è stata strapazzata per 5 a 0 dal Basilea, e nel turno precedente era stata sconfitta dal Thun, che

lotta per non retrocedere. Se aggiungiamo, a fine giugno, il tracollo casalingo, 0 a 4, contro lo Zurigo, vediamo una delle più esaltanti cavalcate del recente passato rischiare di infrangersi contro il solito e solido muro delle grandi. Proprio il San Gallo, a cavallo fra il secondo e il terzo millennio, era stata l’ultima «piccola» a sgretolare la grande muraglia che circonda il triangolo Basilea-Zurigo-Berna. È difficile analizzare le ragioni di queste inopinate battute d’arresto. Possiamo ipotizzare che guidare una classifica, guardare il resto del mondo dall’alto, possa provocare vertigini, quindi perdita dell’equilibrio e rischio di cadute. La malattia ha cause fisiche, legate prevalentemente all’apparato uditivo, ma cela anche disturbi della sfera psicologica. Mi viene da pensare a quanto possa aver influito sui risultati calcistici l’assenza del pubblico, con i suoi canti, i suoi slogan, i suoi rumori. Tuttavia il pensiero corre anche alla perduta e sorprendente normalità, alle rare situazioni in cui l’egemonia delle grandi è stata infranta dal coraggio e dalla spavalderia di una piccola. Come non ricordare il trionfo del provincialissimo Leicester City di Claudio Ranieri nella Premier League del 2016, con le squadre di Londra, Manchester e Liverpool tutte lì, a osservare da lontano il ballo della Cenerentola. Sono queste le storie che danno sapore al calcio e allo sport in genere. Per questa ragione, per dirla con Jovanotti, un eventuale titolo del San Gallo o una rimonta dell’Atalanta sulla Juventus, sarebbero «una libidine, una rivoluzione».

Giochi

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

Cruciverba Come veniva chiamato Beethoven da giovane e perché? Scoprilo a cruciverba risolto, leggendo nelle caselle evidenziate. (Frase: 2, 8, 3, 2, 3, 10, 5)

ORIZZONTALI 1. Una losca sentinella 4. La cantante Ivana 9. Possono essere essenziali... 10. Nonno tedesco 11. Atmosfera poetica 12. Le iniziali dello scrittore Settembrini 13. Corrisponde a 100 metri quadrati 14. Gabbia per polli 15. Misura lineare inglese 17. È buono in Germania 18. Una di famiglia 19. Amabili, graziose 20. L’attrice Farrow 21. In molti cocktail 22. Nella poesia e nel romanzo 23. Punto cardinale 24. Un anagramma di set 25. Un Antonio scrittore VERTICALI 1. Prefisso indicante molteplicità 2. Regione storica della Francia 3. Città natale di Amedeo Modigliani (Sigla) 4. Società per Azioni 5. Le iniziali del regista Avati 6. Quarantaquattro in una nota canzone per bambini 7. Vezzi settecenteschi 8. Verbo per agricoltori 10. Avverbio di tempo 13. La scrittrice Negri 14. Sopra in Francia 16. Lo è a volte la sorte 17. Noto politico e filosofo indiano 19. Pari nella schiera 20. Titolo di prelati (abbrev.) 21. Tra la bocca e l’orecchio 23. Dispari in nostro 24. Un terzo di Europa

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch 1 11

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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto la corretta 6 pervenire 7 8 soluzione 9 10 entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. 13

P O L I

Sudoku Soluzione:

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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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A L O S P A G N A 8 7 L I O P A A E R 9 3 8 2 S A R A S T I A Soluzione della settimana precedente AMICI – «Una volta ho lanciato il giavellotto a cinquanta metri di distanza Umedaglia?!» T Commento R risultante: «CASPITA CHE MIRA!» A R D A TRA e hoG preso una G U ES 4 1 9 5 3 8 7 6 2 Z I A CC EAD RRO IR A N P I A G A P O A V I 8 2 6 9 1 7 4 3 5 5 3 7 6 4 2 9 1 8 M I A G I OI ONC AL RE TI ET O I NI OE SR 9 8 2 7 5 6 3 4 1 C I N A O R N A T O O A N O R G RDE C I A E T N A 1 4 5 2 9 3 8 7 6 6 7 3 1 8 4 2 5 9 R I C E T I G R E H N E S T H 7 6 8 3 2 5 1 9 4 B E L G A G U A N A 3 9 4 8 6 1 5 2 7 S C U R A T MO I I C SA GI NE A AI G RL AI OG 2 5 1 4 7 9 6 8 3

Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


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Politica e Economia Sbarchi in Calabria Un vascello di pakistani raggiunge la costa italiana: malati di Covid e sospettati di terrorismo

L’Iran nel mirino Nelle ultime settimane diverse infrastrutture sensibili della Repubblica islamica sono state attaccate: si tratta di sabotaggi, opera forse di Israele pagina 17

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Non solo egoisti Uno studio in Svizzera mette in evidenza che le nostre decisioni in materia economica non sono solo dettate da interessi personali

Lauber getta la spugna Il procuratore generale della Confederazione dimissiona, dopo mesi trascorsi nell’occhio del ciclone pagina 19

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Turchia, ragionando in grande

Un uomo avvolto nella bandiera turca visita, in occasione dalla prima preghiera musulmana, la basilica di Santa Sofia a Istanbul tornata alla funzione di moschea . (AFP)

Mire espansionistiche L’obiettivo di Ankara è quello di controllare i tre mari di prossimità (fra cui il Mediterraneo

centro-orientale) per fini strategici ed energetici. Oltre che curare i sentimenti di inferiorità verso europei e americani Lucio Caracciolo È il momento degli Stati revisionisti. Ovvero dei soggetti geopolitici che non sono soddisfatti dei propri confini attuali e pensano di allargarsi in terre altrui o di nessuno. Fra questi, il più disinibito, almeno alle nostre latitudini, è la Turchia. Le frontiere strappate da Atatürk dopo la vittoria nella guerra contro la Grecia, sigillate nel 1923 a Losanna, vanno ormai strette alla Repubblica turca marca Erdoğan. Dopo la «riconquista» di Santa Sofia, la basilica già museo oggi riportata trionfalmente alla funzione di moschea, i segnali che vengono da Ankara confermano che la proiezione di potenza turca sarà sempre più ampia. L’idea è quella di una «Grande Turchia», con una sfera d’influenza tricontinentale (Europa, Asia, Africa) e uno spazio marittimo adeguato a tanta ambizione. Nelle parole del presidente sultano, si tratta di ripor-

tare la Turchia alla sua «grandezza reale», per dare inizio a una «nuova epoca» imperiale. Fin dove vogliono spingersi i turchi? Fin dove possono? Unica certezza: un abisso separa la volontà di potenza dalla potenza disponibile. I vettori di potenza sono quelli classici: il neoottomano, sulle orme dei sultani; il panturanico, memore delle radici etniche in Asia Centrale, fino al Turkestan Orientale, nome turco del Xinjiang cinese oggi minacciato di sinizzazione totale; e il neocaliffale, con il presidente sultano che indossa anche le vesti di capo della comunità musulmana, almeno dei sunniti, a prescindere da ogni confine nazionale. La piattaforma neo-ottomana riguarda da vicino noi europei, e si sposa in prospettiva con la califfale. Essa riesuma l’asse europeo di Costantinopoli per penetrare i Balcani adriatici. Manovra inscritta nell’ambizioso schema che coltiva la verticale Budapest-Bagh-

dad. Capolinea dei sogni la Penisola arabica, con l’occhio della mente e il battito del cuore sincronizzati sulle frequenze dei muezzin che invitano al rito nelle sacre moschee di Mecca e Medina. Ma la vera novità è la proiezione marittima. Si chiama Patria Blu (Mavi Vatan). Strategia volutamente vaga perché pragmatica che investe rotte, interessi e diritti marittimi dal Mar Nero al Mediterraneo orientale e di qui via Suez e Bab al-Mandeb all’Oceano Indiano. Penetra dunque nelle acque decisive per i nostri commerci e la nostra sicurezza. Le due direttrici turche disegnano una L rovesciata che dal Golfo di Venezia a Capo Teulada via Lampedusa e Pantelleria avvolge l’Italia. Mari agitati al grado strategico dal duello UsaCina, che nel quadrante regionale variamente coinvolge gli affacci europei, nordafricani e levantini sullo specchio d’acqua mediterraneo. La Patria blu, al netto dei fumi tattici, è la tardiva scoperta della gerar-

chia delle onde da parte di un Paese in crescita demografica (82 milioni oggi, 90 nel 2030) di eccezionale ambizione e di robusta caratura militare, ma terribilmente a corto d’energia indigena. Flagellato dalla crisi economica e monetaria aggravata dal Covid-19. Perennemente turbato per la propria sicurezza. Lo slogan dell’ammiraglio Cem Gürdeniz, inventore della Patria Blu poi elevata a dottrina di Stato, evoca l’obiettivo di controllare i tre mari di prossimità (Nero, Egeo, Mediterraneo centro-orientale) e relativi stretti, per fini strategici ed energetici. Soprattutto, di pura gloria. Medicina che negli ultimi due secoli ha curato i lancinanti sentimenti d’inferiorità verso europei e americani, potenze contro cui Gürdeniz e seguaci, educati alla proiezione geopolitica eurasista, filorussa e antiamericana, condiscono il piatto forte della Patria blu: l’avvento turco nel cuore del Mediterraneo, e di qui assai oltre. Quanto a Erdoğan, speditivamen-

te identificato dai media mainstream con il suo Paese, è troppo scaltro per impigliarsi in una teoria geopolitica, per quanto lasca. Per lui, come per quasi tutta la classe dirigente turca, non importa di quale orientamento, la Turchia deve stare al centro del gioco, servendosi delle risorse altrui senza preconcetti: americani, cinesi, russi, arabi, ebrei, persiani o europei poco importa. Conta l’utilità alla patria – e a se stesso, stante la dimensione imprenditoriale della larga famiglia sultan-presidenziale. Obiettivo 2023, per Erdoğan anno della non scontata rielezione alla presidenza della Repubblica, ma soprattutto centenario di Losanna. Quel vestito cucito dagli europei addosso alla Repubblica di Turchia in fasce è camicia di forza. Fra tre anni Ankara conta di celebrarne il funerale di prima classe, tra monumentali fuochi d’artificio che illumineranno l’ascesa della Repubblica turca ai destini che sente consoni.


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Politica e Economia

Vascelli fantasma

Mare Nostrum La presidente della regione Calabria Iole Santelli commenta lo sbarco clandestino di una barca a vela

con a bordo circa 60 uomini di nazionalità pakistana oltre la metà affetti da Covid e in odore di Jihad

litica, ha più volte dichiarato che «gli estremisti islamici che mese dopo mese vengono arrestati in Italia mostrano con chiarezza sempre maggiore una interazione tra il terrorismo islamico e le organizzazioni mafiose presenti sul nostro territorio. Camorra, Cosa Nostra e ’Ndrangheta hanno ormai da moltissimi anni instaurato un legame di connivenza integrato con i terroristi, dove vi è uno scambio costante e continuo di armi, droga e documenti falsi». E, secondo Gianluca Ansalone che insegna geopolitica alla SIOI di Napoli: «L’Italia è un hub logistico strategico sia per i terroristi che vogliono transitare da e per il resto d’Europa che per le organizzazioni criminali che sfruttano questi soggetti per implementare il traffico di droga, armi, sigarette e prostituzione. Non è un caso che le rotte più vantaggiose per la mafia corrispondano a quelle dei terroristi. La prima rotta è indubbiamente quella dei Balcani, che consente ai terroristi

di trafficare in droga e armi attraverso la Turchia e la Grecia». E mentre tutta l’Europa, lo scorso aprile, era alle prese con i lockdown da Covid, il ministro della Sicurezza bosniaco Fahrudin Radoncic entrava in polemica con il locale ambasciatore pakistano, fino a sfiorare l’incidente diplomatico, a causa della mancata identificazione di tremila pakistani arrivati illegalmente in Bosnia. Secondo Radoncic: «L’ambasciatore ha rifiutato di rivelare la loro identità basandosi su fotografie e dati (raccolti dagli investigatori). E dirò di più: sulla base delle impronte digitali, abbiamo scoperto tra quei migranti due terroristi. Le loro impronte erano state trovate su delle armi, in un caso di traffico d’armi, in un paese straniero». Lo scorso anno, tanto per citare un caso clamoroso, la polizia di Brescia effettuava un’operazione che ha coperto diverse città del nord Italia e ha rivelato un ammontare di transazioni illegali, a opera di cittadini pakistani e afghani

(veri o presunti, perché spesso si tratta in realtà di pakistani) dell’ammontare di circa otto milioni di euro. A finire nel mirino degli inquirenti, per l’ennesima volta, anche la famigerata Medina Trading Agency di Brescia, che appartiene a due pakistani e da cui sono partiti soldi serviti a finanziare in parte sia l’attacco di Mumbai del 2008 che, qualche anno dopo, l’attacco di Uri nel Kashmir indiano. Per qualche incredibile stortura burocratica, i due fratelli che gestiscono il call center, i fratelli Janjua, sono ancora in libertà e l’agenzia non è mai stata chiusa. A Roma, la situazione non è certamente più rosea. La zona dell’Esquilino è difatti tutto un fiorire di agenzie che trasferiscono denaro illegalmente, occultate dietro piccole attività commerciali gestite da pakistani. E le agenzie di intelligence trovano particolarmente curioso il fatto che, a Roma in particolare, i cittadini pakistani che arrivano senza un soldo con il cosiddetto «asilo umanitario» e senza un solido background economico, diventano imprenditori nello spazio di un mattino. Ancora più curioso il fatto che la comunità non gestisca in proprio alcuna organizzazione, centro islamico o moschea ma mantenga sempre un profilo bassissimo adoperando le strutture gestite da bangladeshi. Lo stesso avviene in Calabria. Diverso il discorso nel nord, dove nell’indagine di cui sopra è finita nel mirino degli investigatori anche la moschea della Tabligh Eddawa, il braccio missionario di un’organizzazione pakistana chiamata Tablighi Jamaat. Non soltanto per la moschea di Brescia sono passati notori terroristi, tra cui quel Hafiz Muhhamad Zulfikal considerato l’ideologo del massacro in una scuola di Peshawar nel 2009. Secondo gli inquirenti, la Tablighi Eddawa e i suoi esponenti, così come una manciata di altre organizzazioni islamiche, sarebbero responsabili di inviare denaro a organizzazioni terroristiche in Pakistan e in Afghanistan e di reclutare manodopera per la jihad. Fatto confermato lo scorso febbraio dall’intelligence russa, che ha messo al bando l’organizzazione. E secondo qualcuno il caso di quelli definiti da Iole Santelli «vascelli fantasma» potrebbe essere la punta di un altro iceberg, pericoloso quanto e più del Covid.

nico e il disincantato, Caruso ci ricorda a tratti il taglio argomentativo tipico di Montanelli, autore peraltro citato in alcuni passaggi del volume. Per dirlo meglio, il lavoro di Caruso si distingue da altri libri sull’argomento perché utilizza fonti storiche dell’epoca poco conosciute, come il resoconto di Giuseppe Buttà, cappellano militare borbonico e testimone in prima persona delle vicende. Pubblicato nel 1875, il suo Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta è una fonte preziosa e anche impietosa, perché mette a fuoco, nel narrare la sorprendente sconfitta dell’esercito di Francesco II, quanto pigrizia, incapacità, vigliaccheria e anche semplice corruzione abbiano contribuito a una disfatta per molti versi incomprensibile. Come ha potuto un manipolo disorganizzato di volontari (su cui Caruso scherza, affibbiando loro l’epiteto di «Mille non più mille») farsi largo nella storia d’Italia, raggiungendo obiettivi insperati e di fatto costringendo Vittorio Emanuele II ad assecondare un disegno militare di annessione che il suo

Primo ministro Cavour non approvava? La risposta è complessa e articolata e va cercata, secondo Caruso in vari fattori concomitanti, tra cui, non ultima, la debole personalità dell’ultimo re Borbone di Napoli. Francesco II (e la sua eroica moglie Maria Sofia di Baviera, sorella di Sissi, l’Imperatrice d’Austria), circondato da ufficiali e ministri su alcuni dei quali pesa il sospetto di essere stati comprati dal nemico, non ha brillato certamente per coraggio e determinazione. Ma avrebbe potuto comportarsi diversamente? Le radici della sua sconfitta non stavano già propagandosi nel Regno, a Palermo e a Napoli, durante gli ultimi periodi della sua reggenza? Mentre Garibaldi si avvicina alla capitale si assiste infatti a un progressivo modificarsi negli atteggiamenti dell’opinione pubblica: «Le botteghe di Napoli si sono portate avanti: accanto ai ritratti di San Gennaro hanno già messo in vendita quelli di Garibaldi. Da tutti settori, anche da quelli che per decenni hanno strisciato dinanzi al Borbone, è stata

avviata una micidiale campagna di delegittimazione di Francesco, del padre, del nonno, dei fratelli, che non si astiene dagli insulti più pesanti, dalle allusioni più becere» (p. 204). Tanti sono i quesiti interessanti, a cui Caruso cerca di suggerire qualche risposta, ma che naturalmente sono impossibili da sciogliere. La figura di Franceschiello rimane però in qualche modo simpatica al lettore, così come succede ad esempio nel bel film di Luigi Magni, O’ Re (se vi capita: si può vedere integralmente su Youtube). E comunque, più in generale, la sconfitta dei Borboni e la vittoria di Garibaldi sembrano la prefigurazione di un futuro che conosciamo benissimo: secondo Caruso il Risorgimento è «un groviglio di sotterfugi, di opportunismi, di retropensieri. (...) Se volete, l’annuncio del pasticcio italiano, di uno Stato costretto a galleggiare su troppe contraddizioni, naturalmente portato alla concertazione, che spesso si è rivelata una marmellata indigeribile, non una sintesi felice di interessi contrapposti». (p.219).

Francesca Marino «Parliamo dei cosiddetti “vascelli fantasmi”, quindi di sbarco non controllato. Di questo vascello facevano parte una sessantina di persone. Mi ha incuriosito non poco il fatto che erano tutti su un vascello, tutti uomini e tutti provenienti dal Pakistan, mentre invece abbiamo imparato a conoscere che le navi di migranti spesso sono fatti da famiglie, donne e bambini; rimetto questo alla vostra valutazione». Così, davanti alla Commissione Schengen, il presidente della Regione Calabria Iole Santelli commentava lo sbarco sulle coste calabresi di una barca a vela con a bordo circa sessanta individui di nazionalità pakistana. Il fatto ha suscitato scalpore ed è finito sulla stampa nazionale invece di essere relegato tra la cronaca locale soltanto perché metà degli uomini a bordo sono risultati positivi al Covid-19, e tutti erano affetti da scabbia.

L’anno scorso la polizia di Brescia in un’operazione che ha coperto diverse città del nord Italia aveva rivelato un ammontare di transazioni illegali, a opera di cittadini pakistani e afghani Le popolazioni dei paesini in cui gli uomini sono stati messi in isolamento hanno bloccato per protesta le strade e Iole Santelli ha minacciato di impedire gli sbarchi per tutelare la salute di una regione che ha avuto, anche durante l’emergenza, un bassissimo numero di contagi. Mentre però i riflettori erano puntati sull’emergenza sanitaria, a un più attento esame emergevano particolari altrettanto inquietanti. Non si tratta infatti di un episodio isolato. Secondo fonti locali, in giugno era arrivato in Calabria un altro vascello: con una sessantina di persone a bordo, tutti pakistani, tutti uomini. E ancora prima, sempre con una barca a vela, un carico di afghani che poi, a un più attento scrutinio, si rivelarono per

Iole Santelli, presidente della regione Calabria, ha parlato di «sbarchi non controllati». (AFP)

metà pakistani. Le stesse fonti locali sostengono che tutti gli uomini a bordo delle barche a vela suddette provenissero dalla provincia del Punjab, la più ricca del Pakistan. E difatti, il «passaggio» dal Pakistan all’Italia, via terra fino in Turchia e poi via mare, organizzato da pakistani e turchi, costa tra i sette e gli ottomila euro. Una montagna di soldi, in Pakistan. Difficile pensare, secondo gli inquirenti, che chi dispone di una somma simile si avventuri a entrare in Italia illegalmente per svolgere lavori saltuari e mal pagati. Gli scafisti, e non è un particolare secondario, provenivano tutti da varie ex-province dell’Unione Sovietica. Secondo fonti dell’intelligence italiana, che sta monitorando gli sbarchi, è ancora «troppo presto» per trarre conclusioni. E però, ci sono alcune tessere da mettere insieme. Non è un segreto per nessuno, ormai, lo stretto e a volte strettissimo legame tra mafia e jihad. Margherita Paolini, esperta di geopo-

Fra i libri di Alessandro Zanoli ALFIO CARUSO, Garibaldi, corruzione e tradimento, Neri Pozza 2020 Un libro che sarebbe piaciuto al nostro Comandante Aldo Fraccaroli, qualcuno dei lettori lo ricorderà, fervente simpatizzante della dinastia borbonica (in ricordo, è probabile, della sua efficientissima flotta). Il piacevole e scorrevole racconto di Alfio Caruso, apprezzato collaboratore di «Azione» e originale autore di vari volumi storici, guarda infatti con un taglio originale e in qualche modo borbone-centrico alla «conquista delle due Sicilie» compiuta da Giuseppe Garibaldi nel 1860-61. Nella marea di rievocazioni della folle impresa dei Mille pubblicata negli ultimi centosessant’anni di storia italiana ha ancora senso parlare di queste vicende lontane? La risposta è sicuramente un «sì», soprattutto se, come nel lavoro di Caruso, questa rievocazione storica ci permette di capire meglio dinamiche e atteggiamenti che ritroviamo ancora oggi nella quotidianità della vicina Repubblica. Caruso li sottolinea con

il suo consueto argomentare vivace e arguto: gli riesce ad esempio di trovare delle analogie tra lo sbarco dei garibaldini a Marsala e l’arrivo delle truppe americane in Sicilia nel 1943, oppure tra il sistema di corruzione instaurato nel Meridione italiano dopo la sconfitta dei Borboni e quello attuale. In questo atteggiamento storiografico, tra l’iro-


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 agosto 2020 • N. 32

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Politica e Economia

Iran sotto attacco

Campagna di sabotaggi Negli ultimi tempi diverse infrastrutture sensibili tra cui l’impianto nucleare di Natanz

sono state fatte saltare in aria: perché proprio ora? E ad opera di chi? Secondo molti dietro c’è il Mossad Daniele Raineri Per ora la campagna di sabotaggi in Iran si è fermata e da due settimane non ci sono nuove notizie di esplosioni e di incendi. A essere precisi, non sappiamo ancora adesso quanto fosse estesa questa campagna di sabotaggi e se si è davvero fermata del tutto: sappiamo soltanto che il primo luglio un centro di ricerca del programma nucleare a Natanz è stato danneggiato da un’esplosione fortissima e che nello stesso periodo una sequenza di disgrazie senza spiegazione ha colpito con precisione alcuni luoghi di importanza strategica. Centrali elettriche. Porti. Basi militari dei Guardiani della rivoluzione. Industrie. Impianti petrolchimici. Qualcuno in Iran tra la fine di giugno e le prime due settimane di luglio ha danneggiato lo stesso tipo di siti che in una guerra convenzionale sarebbero centrati dai bombardieri durante la prima settimana. Con una grande, ovvia differenza: è stato tutto molto più discreto e l’opinione pubblica mondiale se ne è a malapena accorta.

Teheran oggi è nel mezzo di una guerra non dichiarata, vale tutto – operazioni clandestine, campagne mediatiche ostili, scontri per procura in altri paesi, attacchi informatici – basta non arrivare a un conflitto aperto Il 26 giugno è saltata in aria una base vicino Teheran dove i militari iraniani fanno ricerche sul propellente liquido dei missili – il propellente liquido allunga il raggio d’azione dei missili e sarebbe un vantaggio importante in caso di guerra contro nemici come Israele. Il primo giorno di luglio c’è stata l’esplosione già citata all’interno del centro del programma nucleare a Natanz – che è strategico per motivi ovvi – e persino il governo iraniano che di solito tende a coprire queste notizie ha ammesso che si tratta di un attacco e fermerà le ricerche per molti mesi. Il 3 e il 4 luglio due

L’esplosione avvenuta il 1. luglio dentro il centro di Natanz dove si fanno le nuove centrifughe per arricchire l’uranio. (AFP)

centrali elettriche hanno preso fuoco. Il 7 luglio ha preso fuoco una fabbrica di alluminio. Il 10 luglio gli abitanti della capitale Teheran hanno sentito un’altra serie di esplosioni fortissime, dopo che il 26 giugno avevano visto il cielo notturno illuminarsi per l’esplosione nella base dei missili. Anche in questo caso il suono delle esplosioni veniva da un’area militare. Il 12 luglio ha preso fuoco un impianto petrolchimico nel Khuzestan e c’è stata almeno un’altra esplosione a Teheran. Il 15 luglio hanno preso fuoco sette navi alla fonda nel porto di Busher. Possiamo sforzarci di trovare una spiegazione accidentale. L’Iran è un paese che soffre un gap tecnologico e di manutenzione per colpa delle sanzioni internazionali, l’estate è torrida e il regime ha già dimostrato di non sapere gestire le cose che ha – basta ricordare l’aereo di linea con centinaia di passeggeri a bordo buttato giù per errore con due missili a gennaio. È il contesto ideale per incendi e malfunzionamenti. Gli incidenti succedono e parliamo di infrastrutture vecchie e tenute male.

E tuttavia ci sono ragioni solide per credere il contrario, quindi a una campagna di sabotaggio. Mettiamole in fila. Le prove fattuali: l’esplosione del centro di Natanz è stata rivendicata in anticipo da un gruppo che si fa chiamare «I ghepardi della patria». È un nome che non è mai stato sentito prima, ma è qualcosa di più di una fantasia, hanno mandato a un giornalista della Bbc la notizia dell’attacco in anticipo e le immagini dal sito provano che in effetti qualcuno aveva messo una bomba dentro l’edificio. Il movente: l’Iran in questo momento è il bersaglio naturale di una campagna di sabotaggi. Da quando l’Amministrazione Trump si è ritirata dal patto del luglio 2015 – che garantiva il congelamento del programma di ricerca atomica – il regime non si sente più vincolato e ha annunciato la ripresa dell’arricchimento dell’uranio. Ma ci sono molti governi pronti a tutto per impedire che l’Iran arrivi a produrre un’arma atomica e cambi per sempre gli equilibri nella regione. Il primo è quello di Israele,

ma anche altri – come gli Stati Uniti e i regni del Golfo – sono della partita. E quindi Teheran oggi è nel mezzo di una guerra non dichiarata, vale tutto – operazioni clandestine, campagne mediatiche ostili, scontri per procura in altri paesi, attacchi informatici – basta non arrivare a un conflitto aperto. L’opportunità materiale: il regime iraniano in questi anni si è fatto molti nemici interni, tra le minoranze represse (come i curdi e gli arabi) e tra chi vuole la fine del potere dei predicatori sciiti che dal 1979 hanno il controllo del Paese. Con questo livello di malcontento, arruolare sabotatori che colpiscano le infrastrutture non è quello che si direbbe un compito impossibile. Se queste considerazioni non bastassero, c’è da contare il senso generale di debolezza che logora la teocrazia iraniana. Il regime ha ignorato le dimensioni dell’epidemia da Covid-19, salvo poi ammettere che più di un terzo della popolazione è stato contagiato. Non ha più risorse a causa delle sanzioni, ma si intestardisce nel finanziamento di cam-

pagne militari all’estero, dalla Siria allo Yemen, che i cittadini vedono malissimo. È alle prese con una crisi durissima dell’economia, la valuta nazionale perde valore di mese in mese e distrugge il potere d’acquisto degli iraniani. È plausibile che questa debolezza incoraggi i nemici, esterni e interni. Infine, ci sono da considerare i precedenti. Questa non sarebbe la prima campagna di sabotaggio che avviene in Iran in tempi recenti. Tutti ricordano gli effetti devastanti del virus Stuxnet, che gli israeliani riuscirono a installare nel 2010 dentro i laboratori di ricerca iraniani che portavano avanti il programma atomico. Il virus faceva impazzire le centrifughe che arricchiscono l’uranio e le faceva girare a un ritmo che non potevano reggere. Il risultato, per lo sbigottimento dei tecnici iraniani, era che le centrifughe si autodistruggevano. E c’era anche una parallela campagna di omicidi mirati contro gli scienziati che lavoravano al programma e che talvolta erano assassinati con azioni spregiudicate in pieno giorno – per esempio da sicari in motocicletta che accostavano nel traffico e applicavano alla portiera della loro automobile una bomba magnetica, che esplodeva qualche secondo più tardi. Senza andare così indietro, a maggio secondo gli esperti il blocco disastroso del porto di Shahid Rajaee, un terminal nuovo sullo Stretto di Hormuz, è stato causato da un attacco informatico che ha mandato in tilt tutti i sistemi che regolavano il traffico. Le immagini satellitari tre giorni dopo mostravano ancora una lunga fila di navi in coda, in attesa di entrare nel porto. Secondo il «Washington Post», si è trattato della rappresaglia israeliana per un attacco che gli hacker iraniani avevano tentato il mese prima al sistema computerizzato che regola l’irrigazione delle zone rurali in Israele. È possibile che chiunque sia dietro a questa campagna di sabotaggi faccia attenzione anche al calendario politico americano. Siamo agli sgoccioli del mandato di Donald Trump. Se a novembre ci fosse un cambio di presidente, è possibile che il neoeletto Joe Biden non vedrebbe di buon occhio questa campagna clandestina per fare pressione sull’Iran – soprattutto se volesse ricucire il patto del 2015 con molta diplomazia. Quest’estate c’era una finestra di opportunità, è stata sfruttata. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

Oltre l’homo economicus

Behavioural economics I nostri comportamenti e le nostre scelte non sono dettati solo dall’interesse personale:

uno studio fa luce sul comportamento sociale degli svizzeri Stefano Castelanelli Per centinaia di anni gli economisti hanno creduto che l’uomo agisca in modo perfettamente razionale e massimizzi esclusivamente i propri interessi personali. Gli economisti hanno chiamato questo individuo egoista e razionale «homo economicus» e hanno strutturato attorno a questa nozione intere teorie. Molte importanti scoperte in economia si basano proprio su questo semplice presupposto. Ma negli ultimi anni un nuovo ramo dell’economia ha messo in discussione questo aspetto. L’economia comportamentale (behavioural economics) che include concetti di altre scienze sociali come la psicologia e la sociologia, cerca proprio di spiegare i comportamenti delle persone che non seguono la teoria economica classica. Essa guarda a come le emozioni, i bias cognitivi e altri fattori come l’altruismo, la disuguaglianza o l’equità influenzano il processo decisionale delle persone. Uno di questi economisti è Julien Senn, ricercatore all’Università di Zurigo. Senn è interessato a capire come il comportamento umano è influenzato dall’ambiente esterno e viceversa come le decisioni individuali influenzano le istituzioni e le politiche. A gennaio Senn, insieme al Prof. Fehr dell’Università di Zurigo e al Prof. Epper dell’Università di San Gallo, ha pubblicato un articolo che fa luce sul comportamento sociale degli svizzeri. E i loro risultati sono confortanti. «Negli ultimi decenni una grande quantità di studi (condotti prevalentemente con esperimenti di laboratorio con studenti universitari) ha indicato che alcune persone non sono solo egoiste, ma che si preoccupano anche degli altri. Queste persone manifestano ciò che noi chiamiamo «preferenze sociali» - dice Senn. - Con il nostro studio, eravamo interessati a scoprire se questa caratteristica è presente anche nella

Tenere tutto per sé? Molte persone preferiscono che le ricchezze vengano ridistribuite. (Keystone)

popolazione, e se possa spiegare perché le persone votano a favore di politiche volte a ridurre le disuguaglianze di ricchezza e di reddito». La democrazia diretta svizzera offre un’opportunità unica per studiare il comportamento di voto delle persone. Negli ultimi 10 anni, gli svizzeri hanno dovuto votare su diverse iniziative popolari legate a politiche di ridistribuzione, tra cui l’iniziativa 1:12 che voleva limitare il salario dei dirigenti di un’azienda a un massimo di 12 volte il salario dei dipendenti, l’iniziativa per imposte eque che mirava ad aumentare le tasse per i cittadini ricchi, l’iniziativa per il salario minimo e l’iniziativa per introdurre un reddito di base incondizionato. «Sebbene queste iniziative non siano passate, hanno ricevuto un sostegno non trascurabile dalla popolazione, anche da individui relativamente benestanti che non avrebbero

beneficiato direttamente di queste iniziative - dice Senn. - Questo è contrario ai modelli economici standard: se gli elettori sono puramente egoisti e non beneficiano direttamente della ridistribuzione, dovrebbero votare contro queste politiche. Tuttavia, anche alcuni elettori benestanti hanno sostenuto le politiche ridistributive; questo comportamento è abbastanza difficile da spiegare se si suppone che le persone siano motivate solo da interessi personali. Noi volevamo capire se le preferenze sociali possono spiegare questi comportamenti». Per studiare le preferenze sociali nella popolazione e comprenderne il legame con le votazioni, hanno condotto un esperimento online nelle regioni svizzere di lingua tedesca e francese. «Abbiamo reclutato circa 800 persone che rappresentano bene la popolazione svizzera. A loro è stato chiesto di

prendere molte decisioni in cui il loro compito era quello di ripartire i soldi tra loro e un’altra persona dello studio» dice Senn. In ogni situazione, i partecipanti potevano assegnare il denaro in modo più egoistico a sé stessi, oppure in alternativa fare scelte che portassero a una minore disuguaglianza. «Se un partecipante ad esempio deve decidere come dividere 100 franchi tra sé e un’altra persona, può decidere di essere molto egoista e tenere tutti i 100 franchi per sé - dice Senn. - In alternativa, può decidere di dividere equamente i soldi e dare 50 franchi a testa oppure può anche essere altruista e decidere di dare di più all’altra persona per esempio 70 franchi e tenerne solo 30 per sé. Per tutte le diverse situazioni - continua Senn - abbiamo variato molti parametri importanti. Per motivare i partecipanti a rispondere correttamente, li abbiamo pagati in base alle loro decisioni. Inol-

tre, abbiamo anche chiesto loro se sono a favore di politiche ridistributive come il salario minimo o le imposte eque.» Ma cosa hanno scoperto? «Abbiamo analizzato come i partecipanti hanno ripartito il denaro per tutte le diverse situazioni e siamo stati in grado di raggrupparli in diverse categorie, in base alle loro decisioni – dice Senn. Abbiamo così scoperto che la maggior parte dei partecipanti non si preoccupa solo di massimizzare il proprio guadagno, ma tiene conto anche di quanto ricevono gli altri - continua Senn. - La maggior parte dei partecipanti era infatti disposta a rinunciare a un po’ di soldi per ridurre le disuguaglianze. Ciò indica che la maggioranza della popolazione svizzera non è del tutto egoista, ma che si preoccupa anche degli altri. Solo una piccola minoranza (circa 1 persona su 7) – conclude Senn – sembra motivata esclusivamente da interessi personali». Lo studio mostra inoltre che le preferenze sociali giocano un ruolo importante nello spiegare perché le persone sostengono una maggiore ridistribuzione. «Gli individui che hanno preferenze sociali hanno più probabilità di votare per una maggiore ridistribuzione rispetto agli individui che sono prevalentemente egoisti - dice Senn – Questa correlazione diventa particolarmente forte tra i cittadini benestanti che non traggono direttamente profitto dalle politiche di ridistribuzione». Quindi i risultati indicano che gli svizzeri si discostano dallo stereotipo classico dell’homo economicus? «Lo studio mostra che l’homo economicus non sembra essere la norma. Ma ciò non significa che gli interessi personali non abbiano importanza. Significa che la maggioranza degli svizzeri non è interessata solo ai propri interessi personali, ma si preoccupa anche delle disuguaglianze o ha un atteggiamento altruista».

Stime economiche: il regno dell’incertezza? Analisi I rischi per l’economia globale sono sempre più complessi, le stime sempre meno affidabili Edoardo Beretta I rischi globali dalla crisi economicofinanziaria globale in poi hanno registrato un’evoluzione tale da renderli sempre più difficilmente prevedibili. Fra tutti, però, si sarebbe fino a febbraio 2020 ipotizzato che fosse il fattore di rischio geopolitico ad avere acquisito vigore, se raffrontato a quanto limitato esso era al verificarsi dello tsunami da titoli tossici di un decennio fa. Un esempio su tutti? Le «sorprese», a cui l’amministrazione federale americana ha abituato fra aperture stop and go alla Nordcorea ed inaspettati inasprimenti dei rapporti con l’Iran ad inizio del 2020. Inutile ricordare anche le molteplici scadenze elettorali dell’anno in corso – non da ultime, proprio quelle americane di novembre 2020 – seguite dal potenziale ricambio di leadership storiche come quella tedesca. Se si fosse avuta una «sfera di cristallo» o – è il caso di aggiungerlo – si fosse potuto contare su maggiore chiarezza da parte del Paese membro dell’OMS in cui la pandemia pare essere originata, il monito di cui sopra sarebbe parso largamente incompleto non includendo il Coronavirus SARSCoV-2, che ha sconvolto in poche settimane il mondo ed ha comportato (oltre alle perdite umane) l’arresto parziale dell’attività produttiva in tutta l’ economia mondiale. Ancora una volta, prima che gli eventi travolgessero l’umani-

Previsioni di crescita del PIL reale (in termini di variazione percentuali su base annua)2 WEO (gen. 2020)

WEO (apr. 2020)

2020

2021

2020

Mondo

+ 3,3

+ 3,4

Paesi avanzati

+ 1,6

+ 1,6

Stati Uniti d’America

+ 2,0

Eurozona Germania Italia

WEO (giu. 2020)

2021

2020

- 3,0

+ 5,8

- 6,1

+ 4,5

+ 1,7

- 5,9

+ 1,3

+ 1,4

+ 1,1

+ 1,4

+ 0,5

+ 0,7

Variazione (gen. - giu. 2020)

Aumento (+) / Perdita (-) di benessere fra il 2020 e 2021 sulla base di WEO (giu. 2020)

2021

2020

2021

- 4,9

+ 5,4

- 8,2

+ 2,0

+ 0,5

- 8,0

+ 4,8

- 9,6

+ 3,2

-3,2

+ 4,7

- 8,0

+ 4,5

- 10,0

+ 2,8

-3,5

- 7,5

+ 4,7

- 10,2

+ 6,0

- 11,5

+ 4,6

-4,2

- 7,0

+ 5,2

- 7,8

+ 5,4

- 8,9

+ 4,0

-2,4

- 9,1

+ 4,8

- 12,8

+ 6,3

- 13,3

+ 5,6

-6,5

Spagna

+ 1,6

+ 1,6

- 8,0

+ 4,3

- 12,8

+ 6,3

- 14,6

+ 4,7

-6,5

Regno Unito

+ 1,4

+ 1,5

- 6,5

+ 4,0

- 10,2

+ 6,3

- 11,6

+ 4,8

-3,9

Paesi emergenti / in via di sviluppo

+ 4,4

+ 4,6

- 1,0

+ 6,6

- 3,0

+ 5,9

- 7,4

+ 1,3

+2,9

Elaborazione propria sulla base di: https://www.imf.org/en/Publications/WEO/Issues/2020/01/20/weo-update-january2020; https://www.imf.org/en/Publications/WEO/Issues/2020/04/14/weo-april-2020 ; https://www.imf.org/en/Publications/WEO/Issues/2020/06/24/WEOUpdateJune2020 2

tà, questi non soltanto non sono stati previsti, ma sono stati persino ritenuti altamente improbabili: tutto ciò ricorda, però, vividamente proprio la crisi economico-finanziaria globale quando analisti ed economisti vennero colti di sorpresa. È sufficiente guardare la mappa dell’evoluzione dei principali rischi globali dal 2007 al 2020 riportata nel Global Risk Report del Word Economic Forum, che indica (sebbene pubblicata ad inizio d’anno) quale fattore di mag-

giore probabilità per l’anno corrente le sole sfide climatiche (cfr. «eventi meteorologici estremi», «fallimento d’azione climatica», «disastri naturali», «perdita di biodiversità» e «disastri ambientali per mano dell’uomo»)1 . Sebbene non sussistano dubbi che la comunità internazionale debba agire e che ognuno possa contribuire con semplici azioni a salvaguardare il pianeta Terra, si è forse peccato di ciò che nell’Antica Grecia veniva definito hỳbris, cioè di

sopravvalutazione delle proprie forze, quando è proprio l’individuo a dimostrarsi così fragile. E che dire del Fondo Monetario Internazionale (FMI), che ha dovuto repentinamente prima e più volte poi stravolgere le stime di crescita mondiale come riportate nel World Economic Outlook (WEO)? Proprio questo è stato il caso, se si raffronta la discrepanza fra previsioni per il 2020 e 2021 come rilevabile fra il WEO di gennaio e quello di giugno 2020. E, sen-

za ergersi a «cassandre», è altamente probabile che il crollo della produzione reale nel 2020 sia ben maggiore e la ripresa nel 2021 ben più flebile: molti Paesi sono destinati, quindi, a subire una perdita di benessere non colmabile in tempi rapidi. Note

1) http://www3.weforum.org/docs/ WEF_Global_Risk_Report_2020.pdf


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 agosto 2020 • N. 32

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Politica e Economia

Un addio inglorioso

Politica e giustizia Michael Lauber trae le conseguenze dalla sentenza del Tribunale federale amministrativo

e dà formalmente le dimissioni da Procuratore generale della Confederazione Marzio Rigonalli Dalle dimissioni offerte alle dimissioni presentate formalmente. Il Procuratore generale della Confederazione, Michael Lauber, ha gettato la spugna. Si conclude così quella fase d’incertezze e di dubbi che era sorta alcuni giorni or sono, subito dopo l’offerta delle dimissioni presentata dal Procuratore generale. Lauber se ne andrà entro sei mesi, ma a causa delle vacanze accumulate lascerà il suo incarico già il prossimo 31 agosto. Al suo posto, ed in attesa delle nuove decisioni che verranno prese dalle autorità competenti, subentreranno gli attuali due viceprocuratori.

Dopo Lauber, urge riformare struttura, competenze e funzionamento del Ministero pubblico La partenza del Procuratore generale è stata accolta con soddisfazione dalla maggioranza dei parlamentari federali. Alcuni l’hanno vissuta come l’attesa fine di un feuilleton che aveva durato troppo a lungo. Altri si sono proiettati subito nel futuro, avanzando proposte di riforme del Ministero pubblico della Confederazione. Altri ancora non hanno nascosto la loro irritazione per il modo con il quale Lauber tentò dapprima di uscire di scena, ossia offrendo le sue dimissioni. Il consigliere agli Stati ginevrino Carlo Sommaruga, tanto per citare un esempio, scrisse subito in una nota: «L’arroganza del personaggio non ha limiti… da un lato continua a negare di aver mentito… e adesso scrive la sua lettera di dimissioni in modo da poter ottenere condizioni per la sua partenza». La svolta nella vicenda Lauber è arrivata grazie ad una recente sentenza del Tribunale amministrativo federale. Il

tribunale, che ha la sua sede a San Gallo, ha respinto in buona parte il ricorso che Lauber aveva inoltrato contro l’autorità di vigilanza sul Ministero pubblico della Confederazione, che l’aveva accusato di violare in modo grave i suoi doveri d’ufficio e gli aveva inflitto il taglio dello stipendio dell’8% per un anno. Al centro del conflitto c’erano l’inchiesta sulla FIFA e gli ormai celebri tre incontri segreti del procuratore generale con il presidente della FIFA Gianni Infantino. I primi due incontri avvennero nel 2016, a Zurigo ed a Berna, il terzo nel 2017, nell’albergo Schweizerhof della capitale. Ai tre incontri, che non vennero verbalizzati, parteciparono oltre a Lauber ed a Infantino anche André Marty, responsabile della comunicazione del Ministero pubblico federale, e Rinaldo Arnold, procuratore vallesano ed amico d’infanzia d’Infantino. Del terzo ed ultimo incontro Lauber e gli altri partecipanti hanno sempre affermato di non ricordarsi più niente. I giudici di San Gallo hanno confermato le violazioni dei doveri d’ufficio commesse da Lauber durante questi incontri e il taglio dello stipendio annuale inflittogli dall’autorità di sorveglianza. La riduzione dello stipendio è comunque stata ridotta dall’8% al 5%, in virtù di alcuni errori procedurali commessi dall’autorità di sorveglianza. Posto di fronte alla sentenza del Tribunale amministrativo federale, Lauber si è ritrovato con le spalle al muro, con poche possibilità d’azione e con la prospettiva di una fine ingloriosa. Gli rimaneva ancora la possibilità di ricorrere al Tribunale federale, ma le possibilità di successo di un ultimo ricorso erano ben poche. La sentenza, invece, ha rafforzato la posizione della commissione giudiziaria dell’Assemblea federale che, il 20 maggio scorso, aveva avviato contro Lauber un procedimento di destituzione. Per il Procuratore generale, la possibilità di essere destituito con una decisione dell’Assemblea federale

Fatali i tre incontri non protocollati con il presidente della FIFA Infantino. (Keystone)

stava diventando una realtà possibile, addirittura probabile. Sarebbe stata la prima volta nella storia del nostro paese. Lauber correva il rischio di ritrovarsi, entro pochi mesi, davanti ad uno sbocco molto umiliante per lui, sia sul piano personale che su quello professionale. Da questa prospettiva e da queste considerazioni, alla fine è emersa la sua decisione di rassegnare le dimissioni. Che cosa succederà ora in vista della successione di Michael Lauber. Vi sono due varianti. La prima consiste nel designare un successore, sperando di trovare un candidato con le qualità necessarie per dirigere le inchieste federali che concernono il riciclaggio di denaro, la criminalità ed il terrorismo. La seconda variante prevede di ridefinire il ruolo ed i compiti del Ministero pubblico federale prima di designare il suo responsabile. La maggior parte delle dichiarazioni dei politici che saranno chiamati a prendere decisioni in merito e le prime prese di posizione delle commissioni parlamentari interessate si orientano verso la seconda variante. Gli ultimi tre

procuratori generali della Confederazione hanno concluso con anticipo il loro mandato e non hanno lasciato un grande ricordo. Sono stati tutti svizzero tedeschi. Valentin Roschacher diresse il Ministero pubblico della Confederazione dal 2000 al 2006. Si dimise perché si ritrovò al centro di una tempesta di critiche e di un alto numero di conflitti. Erwin Beyeler subentrò al suo posto e resse per cinque anni. Anche lui si ritrovò al centro delle critiche e nel 2011 non venne rieletto dal parlamento. Michael Lauber, infine, eletto nel 2011 e rieletto nel 2015, con pieni voti, ha commesso errori durante il suo secondo mandato, errori che hanno fatto perdere credibilità alla sua persona ed all’operato della procura federale. Non si tratta quindi soltanto di persone, bensì anche e forse soprattutto di problemi legati all’istituzione stessa, che probabilmente converrebbe riformare nella sua struttura, nelle sue competenze e nel suo funzionamento. Le commissioni della gestione delle Camere federali hanno già avviato il processo di revisione ed hanno incarica-

to un gruppo di esperti esterni di studiare il problema e di elaborare delle proposte. Dalle prime informazioni che sono emerse tre sono gli sbocchi possibili. Il primo consiste nel mantenere l’attuale struttura, come entità autonoma, introducendo quelle riforme che verranno ritenute appropriate sia all’interno del Ministero pubblico, sia per quanto concerne la sua autorità di sorveglianza. Il secondo sbocco potrebbe prevedere il ritorno al sistema che era in vigore prima del 2011, quando il Ministero pubblico della Confederazione faceva parte dell’amministrazione federale ed il suo titolare era subordinato al capo del Dipartimento federale di giustizia e di polizia. Il procuratore generale veniva allora nominato dal Consiglio federale. Nel 2011 si è voluto attribuire la nomina all’Assemblea federale. Il cambiamento aveva le sue buone ragioni democratiche, ma ha palesato i suoi limiti quando, nel settembre scorso, l’Assemblea federale ha eletto per un terzo mandato Michael Lauber, pur essendo al corrente dei tre incontri segreti che il procuratore generale aveva avuto con Infantino e dell’inchiesta disciplinare che l’autorità di sorveglianza stava svolgendo nei suoi confronti. Il terzo ed ultimo sbocco potrebbe essere di dare le attuali competenze della procura pubblica federale ai Cantoni e di assegnare al Ministero pubblico un ruolo di coordinamento. I rapporti degli esperti sono attesi all’inizio del 2021. Si apre quindi un periodo di transizione che potrebbe durare parecchi mesi, e durante il quale potrebbe essere ragionevole nominare un procuratore generale ad interim, con il compito di agevolare le riforme che saranno state decise ed intraprese. È in gioco la credibilità del Ministero pubblico della Confederazione sia sul piano interno che su quello internazionale. Il fuoco delle critiche non dovrebbe più poter trovare spunti nel cattivo funzionamento di questa istituzione e nei modesti risultati delle sue azioni.

La tassazione dei coniugi penalizza la donna

Fiscalità Avenir Suisse la ritiene una delle cause del numero limitato di donne sposate che lavorano e suggerisce

di passare al sistema della tassazione individuale modificata. Ignazio Bonoli Ancora una volta – e questa volta nell’ambito della discussione sugli effetti del Coronavirus e sui provvedimenti per attenuarli – il Consiglio Nazionale ha affrontato il tema degli aspetti finanziari della politica famigliare. Ha così deciso di aumentare la deduzione per figli per tener conto, in particolare, di chi necessita di un aiuto esterno alla famiglia. Si è trattato però di una misura parziale che ha evitato di affrontare il tema di fondo della tassazione dei coniugi. Si è, quindi, rimasti al principio della tassazione dell’unità famigliare, con vari accorgimenti quali appunto le deduzioni per figli, ma anche gli assegni per figli, la deduzione per i doppi redditi, con correzioni fiscali a livello cantonale. Si è però evitato di prendere atto che il red-

dito del coniuge (di solito la moglie) fa aumentare l’aliquota di tassazione delle famiglie e quindi delle donne sposate. Mentre, da un lato, si cerca di favorire la partecipazione delle donne al mondo del lavoro, dall’altro si pratica una politica che la disincentiva, inducendo le donne a non avere un’occupazione piena, ma a cercare piuttosto di praticare un lavoro ridotto per non gravare troppo sul bilancio famigliare. Anche perché un lavoro esterno implica una spesa per la sorveglianza dei figli, e perché – un po’ paradossalmente – un reddito più elevato implica una riduzione dei sussidi per asili-nido e simili. Del tema si è occupata recentemente anche Avenir Suisse, il gruppo di riflessione degli imprenditori svizzeri che considera questo aspetto un’ulteriore penalizzazione delle donne. Essa teme

Per le donne con figli a carico, a volte conviene non lavorare o solo a tempo parziale. (Keystone)

però perfino un effetto contrario: la distribuzione di sussidi, sotto varie forme, potrebbe indurre alcune mamme a ridurre il loro tempo di lavoro. Non raggiunge quindi l’obiettivo di portare un maggior numero di donne sul mercato del lavoro. Infatti, il progetto, contro il quale è stato annunciato un referendum, fa aumentare comunque il reddito delle famiglie, indipendentemente da chi produce questo reddito. È qui che lo studio intravede una discriminazione delle donne, benché il tema sia stato presente nelle discussioni in Parlamento. Si è parlato molto del miglioramento dell’assistenza esterna ai bambini e del suo finanziamento, perfino delle condizioni di lavoro, degli aiuti famigliari, nonché di altre misure per motivare le donne ad entrare nel mercato del lavoro. Ma per quanto attiene agli strumenti per la parificazione dei sessi in questo campo non è cambiato nulla. Da anni si discute della revisione della tassazione delle famiglie, ma ci si limita ancora a piccoli correttivi, come gli assegni per figli, le deduzioni per figli a carico, la riduzione della tassazione dei due coniugi che lavorano, correttivi apportati dai Cantoni, ma non di superare finalmente il groviglio di misure fiscali e sussidiate senza affrontare il problema di fondo. Il sistema attuale di tassazione dei coniugi fa in modo che, in sostanza, il

reddito della moglie venga tassato con un’aliquota superiore a quello di un’eventuale tassazione separata. E questo può essere considerato come un’ulteriore discriminazione nei confronti delle donne, poiché resta ancorato al principio della tassazione della famiglia, con un’aliquota marginale superiore a quella dei redditi singoli. Questa è una delle cause che provocano assenze delle donne dal lavoro o una partecipazione parziale. Si devono poi aggiungere gli alti costi della cura dei figli da parte di terze persone, pure condizionati dal livello del reddito, il cui aumento provoca una riduzione dei

Modelli di tassazione Contrariamente alla tassazione individuale pura, quella modificata tassa separatamente i coniugi, ma applica l’aliquota di favore solo a uno dei due coniugi. Lo splitting somma i redditi e li divide per metà, quello parziale divide per una cifra inferiore a 2. Il modello «vodese» tassa invece per unità di consumo. Il divisore utilizzato è calcolato sul numero dei componenti della famiglia, con limiti per gli alti redditi.

sussidi. La situazione è tale per cui, secondo Avenir Suisse, una revisione della tassazione delle famiglie è quanto mai urgente. Tanto più che oggi la situazione è lontana dal modello del padre che provvede al reddito della famiglia. Circa l’80% delle donne sposate esercita una professione, ma molto spesso a tempo parziale. Basandosi su uno studio di Ecoplan si è potuto constatare che il modello dello «splitting» parziale non porta alcun aumento dell’occupazione femminile, ma provoca un calo di entrate da imposte. Secondo Avenir Suisse l’effetto migliore sull’occupazione di donne è dato dalla tassazione individuale modificata: provocherebbe un aumento di 19’000 impieghi a tempo pieno. Applicato anche a livello cantonale, si otterrebbe un aumento fra i 40’000 e i 60’000 impieghi a tempo pieno, soprattutto di donne qualificate. La pura tassazione individuale provocherebbe un gettito d’imposta diminuito in media di 8’900 franchi per un nuovo posto di lavoro a tempo pieno. Le famiglie con figli verrebbero penalizzate in parte perché cadrebbe la deduzione per famiglie. Il modello della tassazione individuale modificata è quello che tiene meglio conto delle famiglie (sopprime la cosiddetta «penalizzazione del matrimonio») e provoca il miglior aumento dell’occupazione.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 agosto 2020 • N. 32

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Rafforzare la centralità per combattere lo spopolamento Qualche settimana fa è stato pubblicato, con notevole ritardo rispetto agli anni precedenti, l’annuario statistico ticinese 2020. Come per tutte le altre pubblicazioni in forma di libro, uscite dalle nostre tipografie quest’anno, il ritardo è dovuto alla pandemia di Coronavirus. Finalmente però l’annuario è arrivato e ci consente di seguire l’evoluzione di fenomeni importanti, anche nel lungo termine. Per esempio l’evoluzione demografica. Tutti i nostri lettori sanno che il Cantone Ticino

sta conoscendo l’inizio di una crisi demografica, nel senso che, da tre anni, la popolazione residente nel Cantone è in diminuzione. Questo andamento appare in netto contrasto con quanto si era manifestato fino a pochi anni fa. Dal 1990 al 2018, infatti, la popolazione residente nel Cantone era aumentata del 25%, ovverossia a un tasso annuale dello 0.74% . All’interno del Cantone, come dimostrano le variazioni per distretto riprodotti nel grafico in calce, si sono manifestate grandi differenze

40

30

20

10

0

Mendrisio

Lugano

Locarno

Vallemaggia Bellinzona

-10

-20

Riviera

Blenio

Leventina

■ Variazione percentuale della popolazione per distretto, 1990-2018

nell’andamento demografico. Mentre i distretti urbani delle tre maggiori città, ossia Bellinzona, Lugano e Locarno, hanno conosciuto un aumento della popolazione superiore al 20% (con il distretto della Turrita largamente in testa), nei distretti della Regione Tre Valli la variazione della popolazione è stata molto più contenuta. In coda alla classifica viene il distretto di Leventina la cui popolazione diminuisce lentamente, oramai da 50 anni. Osserviamo infine che il distretto di Mendrisio e quello di Vallemaggia occupano posizioni intermedie, con tassi di variazione della popolazione tra il 15 e il 20% perché profittano, grazie alle qualità residenziali di alcuni loro comuni, a ridosso delle città, del fenomeno della suburbanizzazione .Di questo fenomeno pare non traggano profitto invece i comuni della Riviera che pur confinano con il distretto di Bellinzona. Verso gli agglomerati urbani delle città la popolazione è attratta sia dall’offerta di posti di lavoro, sia da quella di servizi centrali, in particolare dalle infrastrutture pubbliche e para-pubbliche per il tempo

libero (attrezzature sportive e culturali). Ovviamente anche la campagna e le valli possiedono la loro attrattiva. Così nelle inchieste su dove la popolazione residente in Svizzera vorrebbe andare ad abitare sono sempre localizzazioni fuori dagli agglomerati urbani che ricevono la maggior parte delle preferenze. Di fatto però la popolazione del Ticino, nel corso degli ultimi decenni, ha sempre di più preferito abitare in città, o nelle immediate vicinanze, anche se i costi dell’alloggio in ambiente urbano continuano ad aumentare. Avenir Suisse si è occupata di recente di questo problema e ha suggerito di leggere la realtà territoriale del nostro paese in modo un po’ diverso da quanto abbiamo fatto sin qui. Invece di parlare di regioni alpine, per indicare le regioni in cui la popolazione cresce lentamente o, addirittura, diminuisce, Avenir Suisse considera le grandi vallate che solcano il fianco delle Alpi e trova che sono territori che ospitano potenziali di popolazione molto interessanti. Così la vallata del Rodano, dal lago alla valle di Goms conta 422’000 abitanti e 213’000

posti di lavoro, la vallata del Reno fino al lago di Costanza, 334’000 persone e 187’000 posti di lavoro e l’asse del San Gottardo, da Flüelen al Piano di Magadino, 189’000 abitanti e 98’000 posti di lavoro. Il potenziale demografico e economico di queste regioni è quindi interessante e equiparabile a quello di agglomerati urbani della stessa dimensione. Tuttavia esse si sviluppano su decine di chilometri e non producono perciò né economie di scala, né economie di agglomerazione che sono i tipici vantaggi economici di cui godono le località urbane. In più la loro dotazione di servizi centrali è carente. Di conseguenza sono meno attrattive degli agglomerati urbani. Avenir Suisse raccomanda di studiare il problema al livello dell’intera regione, tra l’altro rafforzandone i centri con nuove funzioni. Viste le tendenze in corso, in Ticino, il banco di prova di questo orientamento potrebbe essere un programma di rilancio delle Tre Valli oppure, seguendo piste che già sono state aperte, addirittura un programma di rilancio della Regione del San Gottardo.

sosteneva che chiunque potesse vestirsi come gli pareva (dopo di lui è venuto Geert Wilders, che è un’altra cosa). Gli italiani dovrebbero provare a mettersi nei panni di un contribuente olandese, il quale sa che l’Italia ha il record dell’evasione fiscale – cento miliardi di euro - e del risparmio privato – che a ogni crisi aumenta -, e quindi pensa: perché devo mettere io i soldi che gli italiani non versano al fisco e non sono disposti a investire nel loro Paese? Inoltre già oggi l’Italia non riesce a spendere tutti i fondi europei, che non finanziano sussidi e stipendi facili ma cantieri e progetti, che all’evidenza mancano. Ovviamente anche gli italiani hanno le loro buone ragioni. Potrebbero rispondere al contribuente olandese che il suo governo non dovrebbe fare concorrenza sleale agli altri europei, attirando la sede delle aziende straniere con condizioni fiscali di vantaggio. Inoltre, è assurdo pensare di spendere centinaia di miliardi solo nel digita-

le e nella transizione ecologica; una parte deve servire a ristorare i danni da lockdown, ad esempio aiutando chi ha perso il lavoro. Tuttavia sarebbe assurdo anche agire solo sul versante dell’assistenza. Blocco dei licenziamenti, proroga della cassa integrazione, reddito d’emergenza: tutto giusto. Ma un grande Paese industriale non può vivere di sussidi aspettando che passi la nottata. Occorrono sia una visione, sia misure concrete. L’Europa deve fare in fretta, e non deve limitarsi a controllare come i singoli Paesi intendono spendere le risorse del Recovery Fund. L’Europa deve farsi promotrice di grandi investimenti, pubblici e privati. Molti Paesi, però, si sono rifugiati più nelle formule che nei provvedimenti operativi. Emmanuel Macron ha rivendicato «l’indipendenza industriale, agricola, tecnologica» della Francia e dell’Europa; obiettivo senz’altro condivisibile, ma tutto da raggiungere. Anche il piano firmato da

Pedro Sanchez con gli imprenditori e i sindacati disegna una serie di obiettivi a lunga scadenza, più che misure concrete. Tutti noi europei siamo stati presi di sorpresa da un’epidemia che ha cambiato le nostre vite e i meccanismi economici; e l’Italia non ha l’autonomia monetaria che ha consentito agli Usa e al Regno Unito di dare una risposta immediata. A Londra ad esempio l’Iva su alberghi e ristoranti è passata dal 20 al 5%; in Italia la diminuzione delle imposte indirette è rimasta sulla carta. Meglio così, forse; una seria riforma fiscale dovrebbe partire dalle tasse sul lavoro; ma - anche qui – si è ancora fermi agli annunci, per quanto reiterati; nel frattempo le aliquote Irpef restano le stesse. Il gettito fiscale non può essere abbattuto; deve essere dosato in modo equo, anziché gravare quasi tutto su lavoratori dipendenti e pensionati. Insomma, l’Italia per convincere gli alleati europei deve prima fare le riforme in casa propria.

articolazioni e mutevolezze spaziali e temporali, è l’abito che il territorio indossa nella sua evoluzione storica. Scrutarlo da vicino – e qui soccorre l’occhio del geografo – permette di coglierne la forza evocativa, quell’energia primordiale che lo rende abitabile e, si spera, gradevole. Il paesaggio, avverte Ferrata, non è sinonimo di natura, ossia di universo incontaminato, rimasto ai margini dell’attività umana, ma luogo di contaminazioni continue, con esiti anche opposti, sfocianti nella preservazione oppure nella devastazione. Ferrata, con questo mini-trattato edito da Meltemi, ha voluto celebrare un anniversario, i vent’anni della Convenzione europea del paesaggio, documento poco noto e sicuramente sfuggito ai più, il quale statuisce che il paesaggio «designa una determinata parte del territorio, così come è percepita dalle popolazioni il cui carattere deriva

dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni». Lo snodochiave è la «percezione», ovvero quanto filtra attraverso la retina e dunque nel sistema neuronale, condizionando lo stato emotivo di ciascuno di noi. Nell’interazione delle percezioni positive o negative traiamo gioia o dolore, piacere per una prospettiva che consideriamo armoniosa, oppure rigetto per un habitat inquinato e invaso da rifiuti. Se questo è vero, ossia se il paesaggio è frutto dell’intreccio tra natura e cultura, occorre darsi una coscienza del limite: qual è il confine oltre al quale non è saggio spingersi, pena lo squilibrio irrimediabile del rapporto tra i due fattori? Dove, lungo quale orlo arrestarsi nella corsa allo sfruttamento delle risorse naturali, del suolo e delle acque? Ecco il senso delle Convenzioni come quella europea sul paesaggio, oppure quella pre-

cedente del 1991 riguardante la difesa delle Alpi, sottoscritta sotto il patrocinio dell’Ue e da sette paesi interessati alla salvaguardia dell’arco alpino: Austria, Confederazione elvetica, Francia, Germania, Italia, Slovenia e Liechtenstein. Chissà se il Covid farà maturare una nuova consapevolezza, vera e non di comodo, nei confronti del mondo alpino e della sua biodiversità. C’è da augurarselo, perché iniziative e accordi non hanno finora impedito l’assalto alle catene montuose, prima con dighe, tralicci, elettrodotti, strade e gallerie, e ora con gigantesche pale eoliche. A conferma di quanto si diceva sopra, ovvero che la natura rimane viva soprattutto nella nostra mente, come visione consolatrice in caso di «malizia dei tempi», ma non più come esperienza reale. L’occhio del geografo può aiutarci ad aguzzare la vista, a rivedere le nostre categorie mentali e soprattutto i nostri comportamenti.

In&outlet di Aldo Cazzullo Come convincere gli alleati In Italia si sono vissuti giorni di autentico furore popolare nei confronti dei Paesi definiti «frugali», o meglio ancora «tirchi», accusati di essere incapaci di solidarietà neppure nel momento più drammatico della storia recente, con decine di migliaia di morti e centinaia di migliaia di posti di lavoro bruciati a causa della pandemia. Ci sono però alcune cose da far notare. Alcuni tra i governi più condizionati dal rigore non sono guidati da sovranisti, bensì da socialdemocratici: è così in Svezia, in Danimarca, in Finlandia. Ma il vero grande nemico è stato identificato in Mark Rutte, il primo ministro olandese, cui è stato contrapposto Giuseppe Conte. In realtà, il vero scontro non è stato tra Italia e Olanda, tanto meno tra Conte e Rutte. È stato ed è tra due visioni dell’Europa e dell’economia. Tra due diverse idee dell’etica della responsabilità. Quando c’è da sostenere un confronto, occorre darsi due regole. La prima: ave-

re dietro un Paese unito, almeno nella tutela dell’interesse nazionale; Matteo Salvini che in pieno vertice europeo ha chiesto le dimissioni del presidente del Consiglio non ha certo fatto l’interesse nazionale. La seconda: mettersi nei panni dell’interlocutore, tentare di capire come ragiona, per comprendere le sue mosse e magari prevenirle, fino a trovare un punto di accordo. L’Olanda è un Paese importante, al di là dei suoi abitanti e del suo Prodotto interno lordo. È il Paese di Erasmo da Rotterdam e di Baruch Spinoza (oltre che di Rembrandt e Van Gogh, di Vermeer e Mondrian). È il posto dove si stampavano i libri proibiti dall’Inquisizione. Ancora oggi, è un Paese liberale, in cui pure l’estrema destra è estremamente liberale: il suo fondatore, Pim Fortuyn, era un omosessuale dichiarato, che ce l’aveva con gli arabi perché «mi considerano un cane», e fu assassinato non da un arabo bensì da un animalista, perché girava in pelliccia e

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti L’occhio del geografo Montagne, laghetti alpini, torrenti spumeggianti, orridi… la pandemia ha sospinto molti a cercar rifugio e sollievo nelle alte quote, in luoghi poco frequentati dall’uomo e quindi anche dal virus. I media sociali rigurgitano di fotografie ritraenti comitive di gitanti in cammino verso alpeggi e baite. Ogni cantone ha colto l’occasione per reclamizzare le proprie bellezze e i propri itinerari. Niente vacanze all’estero, riscopriamo la Svizzera: questo il messaggio che operatori turistici ed albergatori si sono incaricati di diffondere, accompagnando l’appello con afflati patriottici. Dopo mesi di chiusura, anzi di clausura, il virus ha come azzerato la voglia di salire su un aereo o su una nave da crociera, e questo nonostante i governi abbiano allentato i provvedimenti restrittivi. Tale riscoperta è indubbiamente benefica, al netto degli interessi e delle convenienze contingenti. Dopo

tanto discorrere di tutela, di rispetto del territorio, di turismo sostenibile, forse qualcosa cambierà nel modo di osservare l’ambiente circostante, l’ecosistema fragile in cui ci ha gettato l’ipermodernità degli ultimi decenni: un vortice in cui sembrava impensabile fermarsi e coltivare atteggiamenti contemplativi. L’obiettivo era raggiungere gli angoli più remoti ed esotici del pianeta, nell’incuranza totale delle conseguenze. Il virus, insomma, ha costretto tutti a rivedere programmi e viaggi. Ci ha obbligato ad accorciare lo sguardo, riportandolo nella cerchia del nostro vivere quotidiano. In questo orizzonte visivo è tornato a vivere il «paesaggio», concetto non facile da definire ed afferrare – come spiega Claudio Ferrata nel suo ultimo saggio, Nelle pieghe del mondo – ma comunque sempre presente nell’immaginario individuale e collettivo. Il paesaggio, nelle sue


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Cultura e Spettacoli La danza e il vino Un ritratto dell’eclettica Berthe Trümpy, ballerina innamorata del Ticino pagina 24

Quando le donne ironizzano Da anni Pat Carra osserva e commenta il mondo e le sue ingiustizie, restituendocelo ammantato di grazia e di ironia

E il Festival di Locarno? Un’edizione particolare anche per il Festival del cinema più importante del Paese

Con Beethoven nel mondo Un Quartetto speciale porta le note del compositore tedesco nei luoghi più inattesi del globo

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Un destino solidale e comune

Pubblicazioni Gli ultimi saggi di Starobinski

su Jean-Jacques Rousseau

Pietro Montorfani Non ho mai avuto tanta consapevolezza di cosa significhi una vita di letture, di studio matto e disperatissimo, come quando, un pomeriggio di dicembre di alcuni anni or sono, mi fu concesso di passeggiare (letteralmente) tra le decine e decine di metri lineari del Fondo Jean Starobinski, nei sotterranei della Biblioteca nazionale di Berna e dell’Archivio svizzero di letteratura. Scatole di documenti e libri a perdita d’occhio, mentre già si annunciava un nuovo carico in arrivo da Ginevra... Per mole e varietà decisamente una collezione fuori del comune, specchio ideale del patrimonio di erudizione di un simile gigante del pensiero. Scomparso quasi centenario nel marzo dello scorso anno, Starobinski fece a tempo a vedere raccolti i suoi ultimi scritti su Jean-Jacques Rousseau (un amore di lunghissima data), pubblicati da Gallimard nel 2012 e ora proposti in versione italiana nella traduzione di Christine Fornera Wuthier. L’editore Dadò fa quello che bisognerebbe fare in questi casi: partendo dal presupposto che chi si interessa sul serio di Rousseau − o di Starobinski − abbia tutti i mezzi linguistici per attingere direttamente alla fonte, costruisce un libro in parte nuovo a maggiore beneficio dei lettori italofoni. Le 300 e più pagine della monografia sono così introdotte da un’accorata prefazione di Carlo Ossola, che fu collega dell’autore all’Università di Ginevra, seguita da un’intervista un po’ datata ma preziosa di Bruno Quaranta, mentre all’altra estremità del libro – dopo un’utilissima bibliografia − campeggia un inedito dossier incentrato sull’intervento

pronunciato da Starobinski per il Settecentesimo della Confederazione, il 10 gennaio 1991 nella tenda di Castelgrande a Bellinzona. Che la giustapposizione di questi pezzi non sia del tutto arbitraria è cosa evidente a chi entri con caparbietà (un po’ di sforzo è necessario) nei primi saggi del libro, dedicati al giovane Rousseau e alla costruzione del suo ruolo di intellettuale nella società del tempo. Tra i due poli antitetici e complementari dell’accusare e del sedurre si delinea infatti una nuova idea di «opera letteraria come azione», concepita essenzialmente allo scopo di smuovere le coscienze addormentate, in una prospettiva che si fa presto morale e politica. Animato da una sacra indignazione e da un irrefrenabile «slancio negatore», l’ingresso di Rousseau nella letteratura ha per Starobinski «l’andamento di un’entrata in guerra», se è vero che l’intuizione positiva «della bontà originaria dell’uomo viene evocata solo dopo aver identificato le contraddizioni e gli abusi». Ciò che più interessa Starobinski non è tanto l’elogio del predicatore, quanto capire in che modo la parola accusatrice abbia potuto trasformarsi in un richiamo seducente capace di mobilitare gli animi (è il polo del sedurre), come cioè si sia passati da opere quali il Discorso sulle scienze e le arti (1750) o il Discorso sulla diseguaglianza (1755) a testi più normativi – e in fondo positivi − come l’Emilio e il Contratto sociale (entrambi del 1762). Forte di questa consapevolezza lo studioso può rispondere, in due paginette memorabili per rigore filologico e apertura mentale, alle tarde obiezioni di un Constant, che al di là dello spartiacque

Georges-Frédéric Meyer, Rousseau herborisant, et vue de son pavillon et du pont d’Ermenonville. (© Bibliothèque de Genève)

del Terrore guardava con preoccupazione agli scritti di Rousseau più favorevoli al governo popolare. In realtà Rousseau – ricorda Starobinski – fissò in molte opere i limiti del potere sovrano (cioè del popolo) e associò con convinzione la difesa delle libertà dell’individuo ai suoi diritti politici, garanzia del buon funzionamento della società anche in presenza di un governo forte (non però autoritario né dispotico). È a questa altezza concettuale che si congiungono, nel libro, le pagine su Rousseau e l’intervento per il Settecentesimo, in cui Starobinski invitava senza mezzi termini – lo sottolinea Moreno Bernasconi nella presentazione – a risalire alle fonti «della cultura politica elvetica per diventarne nuovamente consapevoli». In un’epoca in cui i più celebri polemisti svizzeri, da Dür-

renmatt a Frisch a Jean Ziegler, erano intenti a smontare pezzo per pezzo l’immagine stereotipata della Confederazione, nel suo discorso di Bellinzona Starobinski ebbe il coraggio di rileggere i due testi fondanti del Patto federale e della Grande Preghiera senza alcun eccesso di mitologia né di nazionalismo, limitandosi a evidenziarne i valori. Ciò che portano alla luce questi testi sono infatti, ancora oggi, il richiamo a essere responsabili e solidali, ad aprire strade verso gli altri e ad avere il coraggio di percorrerle con fiducia. Nient’altro che questo è il lascito morale di sette secoli di democrazia elvetica. Se Starobinski fu «un cittadino del mondo che non vedeva frontiere se non quelle che noi stessi ci diamo», come scrive Carlo Ossola nella sua prefazione, lo fu anche per aver appreso dalla

tradizione ginevrina (così impregnata del pensiero di Rousseau) un modello di convivenza civile che ha precise connotazioni storiche e sociali. «Sapere (e noi in Svizzera ci siamo già un po’ allenati) che abbiamo il diritto di essere diversi, ma che non abbiamo il diritto di essere diversi a scapito di altri» − scriveva in La maschera e l’uomo (1990) – è il principale insegnamento che si possa trarre da questa esperienza, una condizione che ci stimola «a stringere dei legami, a creare quella più ampia unità che contiene le differenze». Bibliografia

Jean Starobinski, Accusare e sedurre. Saggi su Jean-Jacques Rousseau, prefazione di Carlo Ossola. Armando Dadò, 2020.


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Cultura e Spettacoli

Istinto e passione

Personaggi Il talento dimenticato dell’eccentrica Berthe Trümpy

e la sua passione per la terra ticinese (e la coltivazione del Merlot) Benedicta Froelich Quando si pensa all’innegabile contributo dato dal Ticino all’universo culturale svizzero e mitteleuropeo, non si può fare a meno di notare come, nel corso di quasi duecento anni, «l’innamoramento» istintivo quanto duraturo per il nostro territorio abbia condotto molti tra i più intriganti pensatori e artisti occidentali a eleggere questo cantone a propria patria d’elezione – facendone un autentico luogo dell’anima, nonché, spesso, il depositario del lascito artistico di una vita. Purtroppo, a parte alcune felici eccezioni, molte di queste personalità sono state quasi del tutto dimenticate, specie nel caso di figure particolarmente anticonvenzionali o in anticipo sui tempi; e tra queste si annovera anche la vulcanica (e a tutt’oggi piuttosto misteriosa) danzatrice Berthe Trümpy. Personaggio sfaccettato e complesso, profondamente legato alla rivoluzione che la scuola del Monte Verità portò nel mondo della danza, la Trümpy (vero nome Berthe Bartholomé-Trumpis) era nata nel 1895 a Zurigo, all’interno di una ricca famiglia glaronese, e, prima di votarsi all’arte, aveva vissuto due esperienze fortemente traumatiche: dappima la morte prematura dell’amato padre (1906), e poi, nel ’15, il grave attacco di peritonite che, per un anno intero, la vide sospesa tra la vita e la morte; una situazione che, tuttavia, la condusse a St.Moritz, dove avrebbe instaurato

un’intensa amicizia con il poeta Rainer Maria Rilke, il quale la iniziò alle gioie della letteratura. Un amore più duraturo era però destinato a impossessarsi dell’anima della giovane: si trattava della danza. Infatti, nonostante gli inizi tardivi, sarebbe presto divenuta assistente della geniale Mary Wigman, frequentando la Scuola d’Arte del Monte Verità diretta dal suo insegnante Rudolf von Laban; e proprio insieme alla Wigman, dal 1919 in poi Berthe avrebbe vissuto molte delle esperienze professionali più importanti, accompagnandola in tournée sia in Svizzera che all’estero. Non solo: quando, nel 1920, Mary decise di fondare la propria scuola di danza personale, fu proprio la Trümpy a finanziare l’acquisto dell’edificio di Dresda che ne avrebbe ospitato la sede. Il Mary Wigman-Tanzgruppe avrebbe così costituito per Berthe l’ambiente ideale in cui esprimere il proprio talento, per poi divenire lei stessa coreografa e solista – soprattutto dopo la morte improvvisa della carismatica Vera Skoronel (pioniera della danza astratta), con cui per anni diresse la Trümpy-Schule, fondata a Berlino nel 1924 e destinata a chiudere i battenti nel 1938, dopo una fusione con le scuole presiedute dalle colleghe Wigman e Palucca. Ciononostante, a tutt’oggi l’attività di istruttrice costituisce il lascito più significativo di Berthe Trümpy al mondo della danza; ella seppe infatti affiancare all’evidente talento per l’inse-

gnamento anche un’attenta ricerca pedagogica e lo sviluppo di un innovativo metodo personale, nonché un profondo interesse per l’educazione fisica (prima di lasciare la Germania, fu anche docente presso la Deutsche Hochschule für Leibesübungen di Berlino). Nel frattempo, però, il debito nei confronti delle comunità artistiche elvetiche rimaneva il «filo rosso» nella vita dell’artista: e dopo un biennio trascorso in Italia, nel ’41 Berthe decise infine di fare ritorno in patria, dove si sarebbe occupata anche di fisioterapia. Pochi anni dopo, proprio in Svizzera avrebbe avuto inizio la fase più inaspettata del percorso personale della Trümpy, incarnata dalla persona del lontano parente Roberto Streiff, giovane intellettuale di buona famiglia a cui lei si riavvicinò durante un’escursione in montagna – quando, nel ruolo di soccorritrice alpina, lo salvò da morte certa, per poi assisterlo amorevolmente nella lunga convalescenza seguita alla caduta. Oggi, per l’aspirante biografo è difficile ricostruire gli intimi e reconditi motivi che spinsero la danzatrice a decidere di adottare un uomo già adulto, così da prendersi cura di lui; e poiché le leggi del canton Glarona precludevano la possibilità di un’adozione ufficiale per Roberto, nel 1953 la Trümpy decise di trasferirsi in Ticino, facendo così, in un certo senso, «ritorno a casa» – ovvero, alle atmosfere incantate e soffuse già conosciute nel corso delle lunghe estati al Monte Verità, da sempre fonte di gran-

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Berthe Trümpy insieme al suo gatto. (© Deutsches Tanzarchiv Köln)

de ispirazione per sé e per la Wigman. Tuttavia, l’elemento più sorprendente dell’esperienza di Berthe in Ticino risiede nella decisione di abbandonare completamente il mondo della danza per tentare insieme a Roberto (ormai divenuto Roberto StreiffTrümpy) la strada della viticoltura e della ristorazione, scegliendo di stabilirsi definitivamente nel piccolo comune di Brione, a pochi passi da Minusio. Lì, i due avrebbero iniziato una nuova vita come produttori di Merlot e gestori del ristorante «Los Gatos/Due Gatti», che offriva al pubblico una sofisticata combinazione tra cucina locale e sapori spagnoli, e la cui eccellenza avrebbe attratto ospiti internazionali del calibro di Robert Neumann e dell’Aga Khan. A Brione, Berthe e Roberto acquistarono inoltre la splendida Casa Laurò (oggi parte della Residenza Castello Rocca), antica villa vista lago con tanto di giar-

Venti stagioni e non sentirle

Da vedere L’incredibile successo

della trasmissione Faites entrer l’accusé Vent’anni di crimini efferati, o di «affaires», come li chiamano i francesi. È questo il succo della fortunatissima trasmissione francese Faites entrer l’accusé o FELA, in onda dal 2000, per un totale di oltre 250 puntate, trasmessa fino a febbraio da France2 e ora su RMC Story. Chi si fosse perso qualche episodio, o non fosse ancora incappato nella serie, ma facesse parte della folta schiera di amanti del giallo/noir, anche duro, spesso fatto di quella squallida e autentica provincia francese dimenticata dalla Capitale e di personaggi borderline, può ora recuperare. Su YouTube basta scegliere una puntata per venire catapultati con dovizia giornalistica e serietà su scene del crimine sempre diverse, ma non di rado accomunate dalla disperazione. Come nel caso, tanto per fare un esempio, dell’«Affaire Sylviane Fabre», del 2011, in cui la donna del titolo, alle spalle un’infanzia devastante e due figli da crescere, abituata a lavorare fino allo sfinimento perfino come boscaiola, decide di eliminare l’ex cognata per motivi economici. Il caso è piuttosto semplice, quasi lineare. Siamo nella regione del Var e i protagonisti di questo brutto giallo (in cui un ruolo ce l’ha anche il figlio

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dino botanico popolato da statue, nel quale avrebbero trascorso anni di grande pace e serenità. Purtroppo, quest’idillio bucolico sarebbe stato di colpo interrotto nel 1979, quando una caduta dal balcone di casa minò irrimediabilmente la salute di Berthe, obbligandola a trasferirsi in una clinica di Orselina, dove sarebbe spirata nel 1983. Tuttavia, il suo amato figlioccio avrebbe continuato a occupare Casa Laurò fino alla propria morte, nel 2007, e c’è da supporre che tale presenza abbia costituito un elemento quantomeno esotico all’interno del panorama locale; motivo di più per cui oggi, al pensiero che la vita di Berthe Trümpy si sia perlopiù perduta nelle nebbie del tempo, una delle maggiori consolazioni risiede proprio nel nascosto e soffuso (e, anche per questo, inestimabile) ricordo che di lei il Ticino ancora custodisce.

Una trasmissione che nel mondo francofono è cult.

dell’assassina, reo di aiutare la madre nell’occultamento del cadavere) conducono quelle che vengono chiamate delle «piccole vite», quotidianità semplici, qualche frase non detta, pochi discorsi. Eppure, ed è forse proprio questa una delle chiavi del successo ventennale della trasmissione, a volte sono le pieghe di quel quotidiano (che in molti hanno saputo elevare ad alta letteratura, Simenon in primis) a nascondere le pulsioni più torbide e le passioni più ingiustificabili. Attraverso la testimonianza di parenti diretti, ma anche di avvocati, poliziotti e amici, e con il supporto di materiali investigativi originali, i casi vengono ricostruiti passo dopo passo seguendo uno schema di alta tensione narrativa, senza per questo mai omettere o relegare in secondo piano la dimensione umana di quelli che comunque sono drammi capaci di stravolgere famiglie intere anche per generazioni. Una scelta probabilmente consapevole della redazione, da una parte per il rispetto che è doveroso nei confronti dei parenti delle vittime, dall’altra perché la mera e fredda rappresentazione della cronaca non basterebbe a fare di Faites entrer l’accusé il campione di share che si ritrova ad essere. / S.


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Cultura e Spettacoli

Filosofia, poesia e follia

Incontri A colloquio con la brava fumettista italiana Pat Carra, da sempre attenta

(con grande ironia) alle differenze e alle discriminazioni di genere

«W Veronica», al tempo in cui decise di parlare e svelò i segretucci del marito. Ho collaborato anche per «Il Corriere della Sera» con una striscia settimanale e per «la Repubblica». Da quattro anni sono la vignettista ufficiale del sindacato ANAAO dei dirigenti medici e in questo momento lavorare su questo tema, sulla medicina e sull’emergenza Covid, è davvero molto interessante.

Laura Marzi Abbiamo incontrato Pat Carra, fumettista. Vincitrice del Premio per la Satira nel 2006, ha collaborato per le maggiori testate giornalistiche italiane e ha al suo attivo diverse pubblicazioni e mostre personali, tra le quali ricordiamo quella al Teatro La Fenice nel 2015, al Complesso del Vittoriano nel 2010, al museo della Centrale Montemartini nel 2008.

Circa un anno fa in Svizzera si è svolto uno sciopero femminista che ha visto la partecipazione di mezzo milione di persone che hanno protestato contro la disparità di diritti, di salari, contro le discriminazioni subite dalle donne. Cosa ne pensi?

Se dovessi scegliere un aneddoto o un’immagine per raccontarci il tuo approdo al disegno umoristico, quale sarebbe?

L’immagine è una vignetta disegnata quando avevo nove anni e ritrovata quarant’anni dopo. Era il racconto di una burla a una sorella maggiore. Le avevo fatto uno scherzo telefonico fingendo che la casa andasse a fuoco, lei era col suo fidanzato, un uomo che già da allora avevo fotografato come violento. Volevo che tornasse a casa, che scegliesse noi sorelle e sé stessa invece di ricamare un’inutile dote, raccontandosi delle bugie. Lui fu molto minaccioso con me, ma io e le altre due sorelle ci eravamo divertite e la striscia, certo con un tratto infantile, lo racconta. Immagino che il mio lavoro di fumettista sulla violenza maschile e sulla sorellanza parta da lì.

Il primo rapporto col femminismo svizzero per me fu negli anni ’90 con Franca Cleis che mi coinvolse in un progetto per le scuole superiori del Canton Ticino, si trattava di laboratori e mostre sui rapporti familiari. Del resto, è sempre esistita una relazione forte tra il femminismo ticinese e quello lombardo. Mi è piaciuta molto l’invenzione così svizzera del movimento delle femministe durante lo sciopero: interrompere il lavoro a una certa ora, utilizzare gli orologi per significare la discriminazione. Questa è creatività! Mi sarebbe piaciuto per l’occasione disegnare grandi orologi dentro il simbolo di Venere o usare il simbolo come lancetta. Sono disponibile per il prossimo sciopero, a me piace disegnare vignette che poi circoleranno all’aperto!

Hai lavorato molto per riviste femministe, come «Aspirina» e adesso «Erbacce».

Sì, ma oltre che per le riviste del femminismo come Noi donne e oggi ingenere. it mi è piaciuto lavorare per giornali femminili popolari, perché il fumetto è un mezzo per dire cose anche forti e radicali in modo molto accessibile e semplice. Il fumetto mi tiene lontana dal rischio ideologico. Ho lavorato per quindici anni per un giornale femminile a larga diffusione e c’era chi si chiedeva se l’editore Mondadori, in epoca berlusconiana, fosse consapevole del messaggio che i miei disegni veicolavano. Si trattava, infatti, di contenuti sulla

Una tipica vignetta di Pat Carra. (Pat Carra)

libertà femminile, di satira sui rapporti tra i sessi e la mia vignetta apriva un giornale che al suo interno conteneva invece molte mediazioni e compromessi sul tema.

Nella tua carriera hai disegnato molto anche per giornali e riviste non esclusivamente femminili.

Le mie collaborazioni sono state molte, ho attraversato decenni di giorna-

lismo, con le sue stratificazioni. Ne posso ricordare alcune su cui ho tenuto una regolarità intensa: sicuramente Cuore, soprattutto quando era dentro l’«Unità», cioè dalle origini, per svariati anni. E poi ho disegnato per «Il manifesto» dove avevo una rubrica settimanale di satira politica e sociale. Di questa collaborazione ricordo le strisce che dedicai a Veronica Lario, era il mio

Il poeta latino Lucrezio scrive di aver scelto di scrivere in versi perché la poesia era come il miele necessario a veicolare il messaggio amaro della sua filosofia. Con la satira succede qualcosa di simile. Cosa ne pensi?

A volte penso che sarei rimasta una poeta come ero da bambina se alcuni eventi della mia vita non avessero reso necessario scegliere la satira e l’umorismo. Rispetto alla citazione da Lucrezio credo che dentro l’umorismo ci sia un po’ di filosofia, di poesia e molta follia.

Le cose da ricordare

Pubblicazioni Il libro assoluto e ineccepibile di Judith Schalansky, che raccoglie insieme

racconti di stile rigoroso e un supporto di pregio Stefano Vassere «Forse è ancora da imputare solo alla mia scarsa immaginazione il fatto che il libro mi sembri ancora il migliore di tutti i mezzi di comunicazione, nonostante la carta utilizzata da alcuni secoli non sia resistente come il papiro, la pergamena, la pietra, la ceramica o il quarzo, e nemmeno il corpus degli scritti biblici, il più stampato e tradotto nel maggior numero di lingue, ci sia stato trasmesso nella sua interezza». L’oggetto libro in senso vecchio, quello con carta, cartone e rilegatura a filo, sostanzia anche con questo Inventario di alcune cose perdute un suo pregio autonomo e insostituibile. Prendendolo in mano dalla parte del bordo, si noterà che ogni sedicesimo è come fasciato da un foglio buio, che separa i singoli racconti e riporta, con gioco di neri, riproduzioni legate allo spunto di ognuna delle vicende. Ciò comporta una scelta di tipo artigianale ma anche testuale; essendo di carattere e corpo e interlinea uniforme, i singoli testi hanno anche estensione uguale, restando ognuno nelle sedici pagine del fascicolo. Se aggiungiamo, poi, la bella immagine di copertina, la trama all’interno dei risvolti che chiama quei neri e, almeno sembra, un profumo partico-

lare che emana dalla carta fin dai primi istanti in libreria, allora il capolavoro tipografico è supremamente realizzato. Le cose perdute continuano un canone al quale Judith Schalansky, scrittrice, designer e appassionata di arte tipografica, sembra essere da tempo fedele: quello dell’elenco di inusualità passate in rassegna in una sorta di repertorio sistematico. Molti ricorderanno il sofisticato Atlante delle isole remote, pubblicato qualche anno fa in edizione italiana da Bompiani. Qui cose

è termine adatto, perché nel numero rientrano palazzi, monumenti, animali estinti, persone, studiosi, individui bislacchi, copie di lungometraggi tanto mitici quanto introvabili ecc. Ognuna di queste rarità è introdotta da breve scheda e fornisce lo spunto per una narrazione che più o meno ne riprende il carattere. Tra le perdite, la tigre del Caspio, estinta da una sessantina di anni; i frammenti delle poesie di Saffo (ne sopravvivono circa il 7% dell’intera opera); la villa romana della famiglia nobile dei Sacchetti, costruita nel Seicento e demolita alla fine dell’Ottocento; la curiosa attività di Armand Schultess, una sorta di operoso e ostinato neorurale zurighese trasferitosi negli anni Cinquanta nella valle Onsernone, dove ebbe una pratica ossessiva di enciclopedizzazione del mondo affidata agli alberi. Al lettore è richiesta una sorta di ginnastica interpretativa, che consiste nel trovare nel testo le tracce dei memorabilia via via chiamati a raccolta; non sempre il legame è esplicito, e l’oggetto-spunto fa talora anche solo un timido capolino in mezzo a tutt’altra sostanza. Ora, si sa che la ricchezza di uno storytelling sta nella forma più che nella vicenda; la storia può essere anche banale ma uno stile all’altezza ne può sol-

levare i destini verso valori smisurati. Non è difficile isolare nella letteratura anche contemporanea qualche saggio di questa abilità. Un po’ a caso: fatta salva la mediazione della traduzione (che è però di Raul Montanari), l’entrata del branco di cani all’inizio di Child of God di Cormac McCarthy; taluni passi degli ultimi due romanzi di Colson Whitehead; l’incedere storico del libro di Antonio Scurati su Mussolini; alcune altre cose. In questo libro e in questa linea si iscrivono parecchie prove della nostra Judith: certamente il combattimento delle fiere nel capitolo sulla tigre del Caspio o la descrizione di Roma all’inizio delle pagine dedicate a villa Sacchetti («Come ogni sovrano, questa città ha due corpi…») e ancora, di quel testo, il finale. Insomma, Judith Schalansky riesce nella non facile operazione di confezionare un libro che è notevole in tutti i suoi aspetti: la tecnica, la forma stilistica, il vestito tipografico. Infine, l’oggetto in sé è prezioso; da non portare in spiaggia. Bibliografia

Judith Schalansky, Inventario di alcune cose perdute, Milano, Nottetempo, 2020.

Caro diario, vorrei dirti che... La lingua batte

Il diario come un’utile palestra Laila Meroni Petrantoni

Ingredienti: carta e penna, quanto basta; tempo, in dosi piuttosto consistenti, dosi da prevedere prima di eseguire la ricetta per non correre il rischio di restarne privi proprio sul più bello. E poi, costanza e tenacia, in quantità abbondanti. Infine è raccomandata una presa di sincerità, affinché la pietanza che ci si accinge a cucinare risponda ai canoni dell’arte. Perché è così: se si vuole tenere un diario è vietato dire bugie. Almeno con il nostro diario – con il nostro amico immaginario – non ci è permesso fingere di essere qualcun altro. «Caro diario». Nel classico incipit c’è sempre molto affetto, e la richiesta di custodire ogni parola che gli viene affidata e sulla quale viaggiano esperienze, pensieri, emozioni di vita. Carta, penna, tempo, costanza, sincerità: ingredienti forse un po’ démodé. Se non fosse arrivato il lockdown, vero? Ci sarà certo qualcuno che, insieme al pane, ha provato il desiderio di (re)imparare a impastare pensieri e scrittura, emozioni e parole. Formulando quella richiesta di attenzione: «caro diario». Un diario è lo scrigno di una vita, è anzitutto una forma di resistenza al tempo che passa e all’oblio. Come è accaduto a quel Giovanni Anastasia di Breno, classe 1797, che al suo diario ha affidato il compito di custodire i ricordi, ogni santo giorno per quasi mezzo secolo. Un contadino che oggi, ritrovate le oltre duemila pagine del suo memoriale, ci racconta di un passato lontano a noi così sconosciuto da parerci fantastico. In esse non sono stati annotati unicamente i compiti quotidiani, condizionati dall’imprevedibilità della natura e dalle bizze delle stagioni; ci sono anche le gioie ma soprattutto i dolori, quei lutti che rodono dentro oggi così come accadeva nel 1800. Le emozioni non cambiano e nemmeno la natura umana. Quanti diari hanno custodito i secoli: diari di grandi personalità entrate nella storia, ma pure di gente comune, le cui memorie magari sono sopravvissute anche a una lapide. Ci sono diari che ancora oggi ci parlano e sanno insegnarci qualcosa, come quello lasciato da una tredicenne costretta a confinare la sua vita in un alloggio segreto per sfuggire alle leggi razziali di Hitler, e ad affidare a un libricino ricevuto in dono per il suo compleanno tutte le emozioni di adolescente. Iniziava le sue annotazioni con «Cara Kitty», regalando al suo diario una coscienza umana, e chiudeva con «La tua Anna», i fondamentali dell’amicizia. Una delle caratteristiche naturali di un diario è il fatto di rappresentare una sorta di giardino segreto che può contenere le emozioni più recondite, magari inconfessabili, che lo scrivente desidera mantenere per sé. A ben pensarci, che fantastica palestra è un diario! Combina esercizi di lingua (e magari di calligrafia) con la pratica dell’introspezione. Va bene. Domani ci provo anch’io.


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Cultura e Spettacoli

La prima esperienza digitale

Locarno Festival 2020 Dal 5 al 15 agosto si terrà l’edizione più anomala della storia, ce la racconta Simona Gamba

Sara Rossi Guidicelli La tendenza a diventare più digitali c’era già, ma quest’anno, in primavera, nel momento di incertezza dettata dal Covid-19, il Locarno Film Festival ha dovuto fare un passo avanti: il suo cuore è diventato digitale. A spiegarci le differenze tra un festival fisico e un festival in gran parte sul web è Simona Gamba, vicedirettrice operativa e responsabile della comunicazione: «Sono eventi molto diversi, non si possono paragonare. Fino a oggi, ogni anno il Festival si è svolto così: le persone arrivano a Locarno, prendono un catalogo, si muovono, per strada incontrano persone, vedono film nelle sale e in Piazza Grande, ricevono molte informazioni visive. Appena sarà possibile vogliamo tornare a questa modalità, vogliamo tornare alle sale cinematografiche e al festival come momento culturale di condivisione. Quest’anno però abbiamo vissuto un’emergenza sanitaria e allora abbiamo fatto di necessità virtù. Abbiamo dunque costruito un’esperienza di festival digitale che deve dialogare con molte nuove esigenze e con pubblici diversi e distanti». Quest’anno, infatti, pur rimanendo anche fisicamente presenti, se ne è mutata l’essenza; non è più solo la gente che va al Festival, ma anche il Festival va dalla gente. Potenzialmente il pubblico sarà ovunque, in ogni paese, e potrebbe essere molto più vasto: anche chi non potrà spostarsi a Locarno in agosto quest’anno potrà vivere il pardo gratuitamente da casa propria o da dove vorrà. Anche se non tutti i film potranno essere visualizzati anche all’estero per questioni di diritti, mol-

Simona Gamba, vicedirettrice operativa e responsabile comunicazione del festival, Luca Rimediotti, del team Webmaster. (Stefano Spinelli)

to sarà accessibile in ogni angolo del mondo. E quali cambiamenti comporta questa trasposizione? Moltissimi. Si modifica il modo di comunicare, perché non è la stessa cosa preparare un catalogo da stampare o una presentazione dell’offerta sullo schermo. Cambia la tecnologia utilizzata, che è stata potenziata: alla squadra del Festival si

Da sinistra, Elena Gugliuzza, Amanda Caprara e Simona Gamba. (Stefano Spinelli)

sono aggiunte nuove figure con competenze digitali, è stato rinforzato il team editoriale digitale ed è aumentato il numero di webmaster. Cambia il modo di proporre l’esplorazione del mondo del Cinema, perché bisogna avvicinarsi a più pubblici, non solo a quello dei festivalieri che ogni anno vengono a Locarno. Cambia l’assetto del settore Image and Sound, le cui responsabili Patricia Boillat e Elena Gugliuzza oltre che con le proiezioni fisiche sono anche alle prese con la gestione di webinar live, piattaforme di streaming di Video on Demand, e conversazioni in diretta con registi dall’altra parte del mondo. E poi l’offerta: qualcosa resta simile, qualcos’altro invece si aggiunge o va a cadere. Tre sale saranno attive a Locarno dal 5 al 15 agosto dove si potranno vedere film e cortometraggi (Concorso Pardi di Domani, 10 dei 20 lungometraggi di «Un viaggio nella storia del Festival», 10 lungometraggi che ripercorrono la storia della sezione Open Doors chiamata «Through the Open Doors», i Secret Screenings, ovvero proiezioni a sorpresa scelte dalla

direttrice artistica Lili Hinstin dove il pubblico conosce solo l’orario di proiezione ma non i titoli); in Piazza Grande si potranno rivivere momenti che hanno segnato la storia della Piazza, attraverso la lente dei fotografi che da anni seguono e documentano la manifestazione. «Online ci sono contenuti sia per i grandi che per i bambini; la sezione Pardi di Domani proporrà nuovi cortometraggi anche sul web, e anche la selezione di Open Doors viene mantenuta. Verrà proposto anche un viaggio nella storia del Festival con 20 lungometraggi scelti da registi selezionati per l’iniziativa “The Films After Tomorrow”», illustra Simona Gamba. «Il Concorso internazionale e gli altri concorsi (Concorso Cineasti del presente, Moving Ahead), infatti, non hanno potuto essere preparati; abbiamo preferito tutelare i registi e i loro film – ai quali non avremmo potuto offrire le condizioni ottimali che invece offre un Festival, con la sua presenza di stampa, di professionisti e di pubblico. E così abbiamo lanciato, su iniziativa della direttrice e del comitato artistico, l’i-

niziativa «The Films After Tomorrow», che pone l’attenzione su film sospesi, non finiti perché hanno dovuto fare una pausa nella loro produzione a causa del Covid-19. Ai progetti giudicati migliori verranno riconosciuti diversi premi finanziari, un aiuto in più per realizzarsi». Tra lo staff è in corso un grosso lavoro di catalogazione e messa online degli archivi; al pubblico digitale sarà proposto un interessante viaggio attraverso 73 anni di storia e storie del Cinema. Per questioni di diritti purtroppo non si possono pubblicare sul web i film passati a Locarno in questi tre quarti di secolo, ma saranno resi disponibili gli incontri con gli autori, gli attori e i professionisti del Cinema (Conversations, Masterclasses e così via), così come saranno creati contenuti editoriali nuovi per raccontare il Festival non solo nei prossimi giorni, ma durante tutto l’arco dell’anno. L’offerta didattica sarà trasposta online, modificando però il suo modo di essere: i bambini potranno imparare a fare film in stop motion sul computer con Claude Barras (regista di Ma vie de Courgette) e molti altri animatori. Per i più grandi l’attesa Academy non si ferma, e ci saranno Masterclasses che saranno curate e gestite dalla Locarno Academy sul sito del Festival. Oltre a guardare e commentare film, i ragazzi avranno la possibilità di conoscere critici, registi e di avvicinarsi ai meccanismi dell’industria cinematografica, anche quest’anno. Già, l’industria. Le proiezioni e gli incontri, a Locarno, servono anche per fare contatto tra i professionisti del Cinema, affinché il Cinema indipendente possa continuare a esistere. «Questa è una parte difficile da sviluppare senza la presenza fisica delle persone», commenta Simona Gamba. «È quindi molto importante ripristinare al più presto i momenti di incontro e confronto dei professionisti che avvengono ogni anno a Locarno». La rivoluzione digitale di quest’anno, tuttavia, sembra essere l’inizio di un grande capitolo di quello che in futuro potrebbe essere una parte di Locarno Film Festival; alcuni progetti sviluppati a causa del Coronavirus saranno infatti probabilmente mantenuti in aggiunta al festival come lo conosciamo. Aggiungendo quindi a un pubblico internazionale presente a Locarno anche un pubblico molto più vasto e più internazionale ancora, seduto e partecipe dal salotto di casa.

Movida all’acqua di rose

Netflix Con Sotto il sole di Riccione si è cercato di realizzare

un prodotto che non scontentasse nessuno Nicola Falcinella Il film italiano dell’estate di Netflix è una commedia che sembra arrivare dagli anni ’80. Sotto il Sole di Riccione, diretto dall’esordiente duo YouNuts! partendo da un soggetto di Enrico Vanzina, è un omaggio dichiarato a un titolo che ha segnato quel decennio, ossia Sapore di mare (1983). Anche qui si parte da una canzone tormentone estivo, quella dei The Giornalisti con lo stesso titolo, per raccontare una stagione e una vacanza al mare. Siamo nella nota località romagnola, che prende il posto della toscana Forte dei Marmi, del resto i tempi e le mode sono cambiate. Là eravamo negli anni ’60, stavolta al giorno d’oggi, ma l’ambientazione è abbastanza atemporale e, se non fosse per gli onnipresenti telefoni, potremmo benissimo credere

di essere tornati negli ’80, cui occhieggiano le scenografie e i costumi. Non è una scelta dettata da una nostalgia per un’epoca, come lo era per il film di Carlo Vanzina, quanto di mero gusto estetico. Del resto in Sotto il Sole di Riccione non c’è il minimo riferimento all’attualità, è tutto molto neutro, la realtà non irrompe mai, è come se i personaggi vivessero in una bolla. Va bene che la vacanza è per definizione un momento di distacco, ma forse qui è troppo, non appare una notizia da un telegiornale, un problema reale, un contatto con il mondo di oggi o, quantomeno, dell’anno scorso. È la storia corale di diversi giovani arrivati in Romagna per qualche settimana all’insegna del divertimento, compreso il cantante Ciro, giunto per partecipare a un concorso canoro, che si ritrova a fare il bagnino. Non c’è un filo

principale a reggere la trama, che è un alternarsi e susseguirsi di episodi che coinvolgono i tanti personaggi, fino a culminare in un concerto di Tommaso Paradiso. Gli interpreti sono in prevalenza esponenti dello star system emergente italiano, protagonisti di film o di serie come Skam o Baby. C’è anche Isabella Ferrari, altro esplicito richiamo al modello di cui sopra, nella parte dell’apprensiva madre di un ragazzo cieco, Vincenzo, protagonista di una vicenda amorosa attraverso i social. Questa della complementarietà tra vita affettiva reale e digitale dei protagonisti è una delle cose più curate e riuscite. Tutto sommato è un film senza troppi lampi, forse piatto, dalla regia anonima e che si limita a una ricerca estetica superficiale un po’ videoclippara. Nonostante la presenza di Andrea Ron-

La locandina della nuova produzione Netflix.

cati, noto per i suoi ruoli leggermente trash e qui ben calato nei panni del vecchio dongiovanni di provincia, Sotto il sole di Riccione è un film pudico e casto, ripulito da ogni possibile eccesso. Si tratta di una scelta precisa della committenza Netflix, in parte per ab-

bassare il target di spettatori, in parte per non avere alcun tipo di censura o limitazione nei 190 Paesi nei quali è disponibile. L’effetto del mercato globale porta a prodotti uniformi e a un nuovo conformismo, come neanche la Hollywood dei momenti più bigotti.


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Cultura e Spettacoli

Alberti, un nuovo ruolo per la pittura Trattati/6 Leon Battista Alberti, letterato, filosofo, architetto e teorico

detta piramide visiva, si avvale di un congegno, molto usato successivamente, chiamato velo. «Egli è un velo sottilissimo, scrive, tessuto raro, tinto di quale a te piace colore, distinto con fili più grossi in quanti a te piace paraleli, qual velo pongo tra l’occhio e la cosa veduta, tale che la pirramide visiva penetra per la rarità del velo».

Gianluigi Bellei Leon Battista Alberti nasce a Genova il 18 febbraio 1404 proveniente da una delle famiglie di mercanti e banchieri più autorevoli di Firenze. La sua vita è un continuo peregrinare: prima a Venezia nel 1414 poi a Bologna nel 1421 dove all’Università studia diritto canonico. Qui si laurea nel 1428 e passa al servizio del cardinale Albergati. Prende quindi gli ordini sacri e diventa inizialmente priore di San Martino a Gangalati vicino a Firenze e in seguito nel 1448 pievano del Borgo di San Lorenzo. È sempre al servizio della Chiesa in un continuo andirivieni tra Roma e Firenze dettato da assedi, territori persi e riconquistati. Scrive parecchio e su vari argomenti. Nel 1433 Della Famiglia poi, tra gli altri, De Religione e De Iciarchia con i suoi pensieri sul governo e sullo Stato. La frequentazione di artisti come Donatello e Brunelleschi lo avvicinano all’arte. Nel 1435 scrive De Pictura, forse prima De Statua per finire con i dieci libri della grande opera De re aedificatoria portata a termine nel 1452. Negli ultimi anni si dedica quasi esclusivamente all’architettura. Alberti non dirige l’esecuzione delle proprie opere ma si limita all’ideazione e al disegno. Per questo viene da più parti criticato, citando sempre come esempio virtuoso Brunelleschi il quale, al contrario, si occupa anche dei cantieri. Ma per l’Alberti, sottolinea Giulio Carlo Argan, «l’arte non è più un’attività manuale, o mechanica, sia pure d’alto livello, ma intellettuale o liberalis». Tra i suoi lavori maggiormente importanti ricordiamo la facciata della chiesa di San Francesco e il tempio Malatestiano a Rimini, la facciata di Santa Maria Novella a Firenze, e a Mantova le chiese di San Sebastiano e Sant’Andrea. Opere «che sono fra le più alte del Rinascimento italiano, chiosa sempre l’Argan. Muore a Roma nel 1472.

Grazie ad Alberti il pittore passa dalla «semplice» condizione di artigiano a quella più elevata al servizio di papi e di principi

Leon Battista Alberti in un’incisione su rame del XVIII secolo. (Keystone)

De pictura è sicuramente la magna charta della pittura toscana del Quattrocento. Ne esistono due versioni: una in latino e una in volgare. Luigi Mallé con Cecil Grayson ritengono che la versione in latino sia stata finita il 26 settembre 1435 e quella in volgare il 17 luglio 1436. Di quest’ultima stesura esistono tre codici: uno alla Bibliote-

ca Nazionale Centrale di Firenze, uno alla Bibliothèque nationale de France di Parigi e l’ultimo alla Biblioteca Capitolare di Verona. Alberti scrive quasi esclusivamente in latino, è una persona eclettica e notevolmente colta, e la seconda versione in volgare è stata redatta ad uso dei pittori e delle botteghe fiorentine poco avvezze al latino. Di

diverso avviso Lucia Bertolini e Rocco Sinisgalli i quali contestano questa versione con motivazioni linguistiche. La versione in latino consiste in una ventina di codici, nessuno autografo e nessuno con correzioni d’autore. De pictura è un testo basilare, soprattutto riguardo alla prospettiva. L’Alberti, dopo aver spiegato la cosid-

Divide la pittura in tre parti: il contorno lineare, circonscriptione, la composizione dei piano, compositione, e la modellatura dei corpi nei colori, receptione di lumi. Descrive poi una pratica in uso nel Rinascimento per disegnare le figure che debbono essere prima fatte con le ossa, poi con i muscoli per passare a disegnare la figura nuda e in fine ricoprirla di vestiti: «come a vestire l’uomo prima si disegna ignudo poi il circondiamo di panni così dipingendo il nudo, prima pogniamo sue ossa e muscoli quali poi così copriamo con sue carni…». Infine rifiuta l’oro, amato dal Cennini, e preferisce il chiaroscuro. Con Alberti il pittore passa dalla condizione di artigiano, tipica del Medioevo, a una più elevata che lo porta ad essere amico e favorito da papi e principi, anche perché «non come Plinio recitiamo storie ma di nuovo fabbrichiamo un’arte di pittura». Bibliografia

Edizione di riferimento (dalla mia biblioteca): Leon Battista Alberti, De pictura, Roma-Bari, Laterza, 1975

Beethoven globetrotter

Musica Il ciclo completo dei quartetti di Beethoven gira il mondo raccogliendone lo spirito Giovanni Gavazzeni Il globo sembra respirare aria meno inquinata. Spiagge e mari tornati a colori primordiali. Polveri sottili in ritirata. L’emergenza pandemica ha compensato gli sforzi degli inquilini della Casa Bianca e del Palacio de l’Alvorada? Intanto un’autentica boccata d’ossigeno rigenerante viene dal meraviglioso Quartetto Ébène, formato dai violinisti Pierre Colombet e Gabriel La Magadure, dalla violista Marie Chilemme e dal violoncellista Raphaël Merlin. Il loro nome (ebano) è un omaggio agli adorati musicisti jazz e alla materia prima con la quale venivano costruiti gli archetti più preziosi dai mastri archettai francesi (il reattivo, elastico, resistente pau-brasil, il legno di pernambuco). Invitati a eseguire l’integrale dei quartetti di Beethoven nel sancta sanctorum della Carnegie Hall di New York per il 250esimo compleanno del sommo compositore tedesco («suonare o ascoltare il ciclo completo dei quartetti di Beethoven è un assoluto, la più completa esperienza musicale che ci possa essere»), i quattro artisti hanno realizzato il progetto «Beethoven Around The World» dopo essersi accordati con Air France perché venisse compensato in riforestazione quanto consumato dai loro spostamenti aerei. Potrebbe sembrare una

trovata da ecologisti politicamente corretti; invece il movente profondo che anima questo quartetto di fuoriclasse è il desiderio di realizzare l’integrale più difficile nel vivo di città dove il fare musica si intreccia con la storia e con i problemi di tutti i giorni: Philadelphia, Vienna, Tokyo, Sao Paulo, Melbourne, Nairobi e Parigi. Un viaggio fissato in un diario che accompagna l’edizione in 7 cd (pubblicata da Warner Erato), dove l’esegesi musicale si alterna alle esperienze con uditori non meno ammirevoli di quanto viene eseguito. Giovani strappati alle favelas dall’Istituto Baccarelli di San Paolo cantano per gli ospiti con commovente semplicità e senso ritmico; voci penetranti al Kapiti College di Wellington lanciano il grido d’orgoglio della cultura Maori; serenate degli uccelli cullano le notti dei quartettisti fra le colline di Adelaide; un’organizzazione encomiabile, Ghetto Classics, educa alla musica giovani kenioti fra violenze e privazioni quotidiane nella bidonville di Korogocho; la Cina smisurata non è più quella del Loto blu di Tintin. In mezzo a tutte queste esperienze, le interpretazioni dei sedici quartetti beethoveniani sbocciano con una freschezza difficile da accostare anche alle migliori formazioni del presente e del passato. Spontanea comunicativa offerta senza alcuna sofisticazione intellettuale, senza la pesantezza di

I membri del Quartetto, da sin. Marie Chilemme, Pierre Colombet, Raphaël Merlin e Gabriel Le Magadure. (quatuorebene. com)

tanti, anche insigni, quartetti di scuola teutonica. Forse è proprio l’attitudine mentale aperta degli Ébène, i quali prima di far musica si domandano «perché», si pongono il problema di evitare di diventare mere macchine da concerti, impilando scritture dopo scritture, e cercano di capire, proprio attraverso quell’unicum che sono i quartetti nell’opera di Beethoven e nella storia della musica, cosa significhi essere musicisti oggi.

Per spiegare come funziona lo strumento-quartetto agli ascoltatori impiegano una metafora pertinente e quanto meno attuale: «l’interprete deve avventurarsi in un’Amazzonia di note, potare con le forbici o usare il machete per arrivare al senso profondo di questa o di quell’opera, per poi restituirla». Il loro lavoro su Beethoven è cominciato ben prima dell’invito integrale. «Nel caso della foresta dei quartetti di Beethoven, quando si cre-

de di aver fatto un cammino logico, è come se la vegetazione ti respingesse istantaneamente: bisogna riprendere più volte il cammino. È un lavoro che si rivela ogni giorno più necessario, più giustificato, perché questa musica dai poteri soprannaturali si attualizza costantemente, agendo sul musicista e sull’ascoltatore di tutte le epoche, privilegio dello spirito moderno di una musica eternamente contemporanea».


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