Azione 29 del 19 luglio 2021

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Cooperativa Migros Ticino

società e Territorio Anziani vittime di violenza domestica: l’esperienza di Pro Senectute e l’impegno della piattaforma nazionale «Vecchiaia senza violenza»

ambiente e Benessere Un nuovo centro faciliterà le prognosi e migliorerà la qualità di vita dei pazienti colpiti da malattie rare; ce ne parlano Claudio Del Don e Alain Kaelin

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIV 19 luglio 2021

azione 29 Politica e economia Razzismo, una nuova contesa valoriale e culturale divide gli Stati uniti

cultura e spettacoli Una mostra a Ronco Sopra Ascona ricorda il bicentenario del pittore Antonio Ciseri

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london goodbye

Keystone

di Cristina Marconi pagina 30

il clima chiama, Bruxelles risponde di Peter Schiesser Fra tutti gli eventi e le catastrofi naturali di questa estate, con le inondazioni che hanno colpito l’Europa dalla Svizzera fino all’Olanda con decine di vittime, uno spicca su tutti: i 49,5 gradi registrati nell’ovest del Canada, come l’ovest degli Stati Uniti colpito da un’ondata di caldo che ha infranto tutti i primati, e il fatto che il precedente record è stato superato di 5 gradi. Nessuno avrebbe osato predirlo. Neppure Friederike Otto, che con Geert Jan van Oldenborgh guida a Londra il World Weather Attribution, un gruppo di lavoro di cui vien detto che con il suo modo di correlare eventi e periodicità ha rivoluzionato il modo di capire gli eventi atmosferici: intervistata dalla Nzz ha detto che un simile primato se lo sarebbe aspettato fra qualche decennio; e aggiunge che temperature attorno ai 50 gradi non si possono escludere neppure in Europa e in Svizzera nei prossimi anni. Nel caso specifico delle ondate di caldo, la correlazione con i mutamenti climatici è un’ipotesi plausibile, secondo questi studiosi, ma vanno condotti studi più approfonditi. Se la risposta fosse affermativa, le conseguenze sarebbero gravi: significhereb-

be che i cambiamenti climatici che portano alle ondate di caldo modificano lo stato dell’atmosfera, quindi anche le correnti d’aria, che a loro volta influenzano le stagioni nel pianeta. E se da una parte del mondo abbiamo temperature torride e incendi, in altre abbiamo piogge torrenziali, che avvengono con sempre maggiore frequenza. Singolarmente è difficile, a volte impossibile, attribuirli con certezza ai mutamenti climatici in atto, la scienza riesce ancora troppo poco a comprendere le correlazioni fra gli eventi e le condizioni esistenti in un preciso contesto per stabilire le cause, ma il dato di fatto è che il clima non è più come lo abbiamo conosciuto mezzo secolo fa. Spesso sentiamo dire che siamo vicini al punto di non ritorno, superata una certa soglia di aumento della temperatura terrestre ci sarà l’abisso. Friedrike Otto contesta questa visione: i problemi seri li abbiamo già ora, propagandare l’idea della catastrofe irrimediabile può indurre le persone ha reagire con fatalismo, poiché tanto non c’è più nulla da fare, mentre in realtà si può e si deve intervenire, per mitigare gli effetti e per contrastare i cambiamenti climatici. In questa direzione va il piano annunciato mercoledì scorso dalla Commissione europea di voler ridurre del 55 per cento rispetto al

1990 le emissioni di CO2 entro la fine del decennio, con misure che toccheranno tutti i settori. Spiccano il divieto di vendere automobili a benzina e diesel dal 2035 (in realtà quasi tutte le case automobilistiche hanno già lo stesso obiettivo), i «dazi sul clima» su cemento, alluminio, acciaio, fertilizzanti, l’aumento della quota di consumo di energie rinnovabili. In pratica, Bruxelles intende scendere ai livelli del 1950, quando nell’atmosfera venivano immessi all’anno circa 2000 milioni di tonnellate (rispetto ai 4-5500 milioni di oggi), per poi diventare CO2-neutrale dal 2050. Tramite norme a carattere europeo e il commercio di certificati d’emissione (decadranno quelli gratuiti e aumenteranno i prezzi degli altri) Bruxelles ha delle leve a disposizione, ma molto dovranno fare i Paesi membri, in pochissimo tempo inoltre. Consapevole che per i cittadini europei ci saranno importanti aggravi di spesa, la Commissione ha deciso di istituire un Fondo sociale per il clima, dotato di 144 miliardi di euro, per aiutare le fasce meno abbienti: c’è la consapevolezza che la lotta per il clima passa per la «giustizia ambientale», altrimenti la popolazione non sarà mai d’accordo. Ora sarà da vedere se e quanto le visioni di Bruxelles verranno concretizzate dai singoli Paesi membri.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 luglio 2021 • N. 29

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società e Territorio nella natura senza barriere Nei boschi del Monte San Giorgio è stato creato un percorso circolare adatto anche a speciali bike a tre ruote, ce ne parla Murat Pelit

lungo la ramina Al Museo delle dogane di Gandria un’esposizione racconta la storia del contrabbando sul confine italo-svizzero in particolare nel periodo della Seconda guerra mondiale

all’ombra del ceneri L’ultimo saggio di Orazio Martinetti ci invita a riflettere sulle divisioni che hanno caratterizzato la storia del nostro Cantone pagina 9

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Saper esprimere un sentimento di gratitudine con i gesti e con le parole è una grande conquista. (Shutterstock)

Dite grazie, per favore

il caffè delle mamme Un libro ci aiuta a spiegare ai nostri figli che un semplice grazie a cuore aperto è prezioso

per chi lo riceve ma anche per chi lo dice e che può essere un buon antidoto contro la perenne insoddisfazione Simona Ravizza Alleniamoli a dire grazie! Anche, e forse soprattutto, in quest’estate di riconquistata (ma ancora precaria) libertà possiamo riflettere sull’importanza di insegnare ai nostri figli a ringraziare. Non come strategia per evitare figuracce con parenti, amici e docenti, ma come attitudine del cuore. L’occasione per discuterne a Il caffè delle mamme è l’ultima pubblicazione di Lodovica Cima, firma della letteratura per ragazzi con oltre 200 titoli, autrice adesso de Il libro dei grazie (ed. DeAgostini, marzo 2021). Gesto d’educazione per eccellenza, suono che abbiamo imparato fin da piccole a dovere emettere in modo (quasi) automatico pena uno scappellotto, parola che incalziamo i nostri bimbi a dire nelle occasioni più disparate. In realtà il grazie è qualcosa di più. Insegnare ai nostri figli a dirlo è allevarli alla gratitudine, come sottolinea Cima nel sottotitolo. Il che vuole dire: non dare tutto per scontato e apprezzare le piccole gioie quotidiane. Un modo, parafrasando la Lettera sulla felicità del filosofo greco Epicuro, per godere con più dolcezza anche dell’abbondanza. Insomma, un

potente antidoto contro la perenne insoddisfazione di chi va a crescere pensando che tutto sia dovuto e non basta mai. In modo timido o urlato, emozionato o commosso, con il cuore che batte oppure accompagnato dalle braccia che ti stringono forte, con un sorriso o con uno sguardo: la gratitudine può essere manifestata in mille modi, quel che conta è che il grazie non sia a comando, a denti stretti oppure con indifferenza. «Porta a risultati strambi», avverte Cima. Ecco, allora, alcuni consigli tratti da Il libro dei grazie per aiutare i nostri bimbi a dirlo a cuore aperto. Innanzitutto, ricordiamone l’etimologia. «Si tratta del plurale di grazia, che indica uno stato, una situazione che troviamo molto gradevole, appunto. Hai presente quando la domenica mattina ti infili nel lettone di mamma e papà e ti fai coccolare? – spiega Cima –. Ecco, quella sensazione quasi perfetta è proprio la grazia. La grazia è la qualità di tutto ciò che fa piacere agli occhi e al cuore. Perciò dire grazie significa augurare a qualcuno tanti momenti (perché è plurale) di grazia». Può essere utile, poi, stimolare i nostri figli a: Uno. Notare i gesti gentili di chi li cir-

conda come porgere un bicchier d’acqua, fare passare qualcuno da una porta, raccogliere qualcosa che è caduto per terra. Per l’autrice elencare questi gesti ogni giorno per una settimana è un esercizio prezioso per capire quando dire grazie. Due. Rendersi conto quando qualcuno fa quello che dovrebbero fare loro: il fratello più piccolo al quale vengono chiesti più favori del dovuto, un compagno di scuola più bravo che gentilmente li aiuta, un adulto che li adora e non sa dire mai di no. Tre. Capire che è bello dare una mano a chi è in difficoltà e sentirsi ringraziare (senza aspettarselo troppo). Così come è possibile chiedere aiuto e dire grazie e basta (senza vergognarsi mai). Il grazie è bello riceverlo, ma anche dirlo! Quattro. Apprezzare il valore delle cose preparate con le proprie mani che possono essere un ringraziamento meraviglioso. Qualche biscotto, un disegno, un bigliettino: tutto ciò che è fatto con amore può essere un grazie perfetto! Cinque. Riconoscere un grazie anche se non è stato pronunciato. A volte uno sguardo intenso o un sorriso possono essere come le parole. Sottolinea Cima: «Può succedere anche a te quando sei

così sorpreso che le parole non ti vengono; sei commosso e preferisci stare in silenzio; non riesci a parlare ma gli occhi lo fanno per te». Sei. Essere capaci di condividere con gli altri un bel momento, come una tanto attesa vittoria in una gara sportiva, ringraziando anche i compagni di squadra con cui si è ottenuto il successo. Sette. Cercare di capire le ragioni che, alcune volte, rendono difficile ringraziare: «Quando non si riesce proprio a dire grazie da soli, serve capire subito come mai – scrive Cima –. I motivi possono essere tanti ma si basano quasi sempre sulla mancanza di fiducia negli altri (non considerati in grado di poter fare qualcosa per noi, ndr)». Otto. Fermarsi un attimo prima di ringraziare e tirare un lungo sospiro antiimbarazzo: «È il trucco più semplice del mondo per controllare il nervosismo e limitare le risatine imbarazzate che ci fanno sembrare un po’ sciocchi. Funziona sempre, anche quando dobbiamo riconquistare la calma. Non c’è da preoccuparsi: nessuno si accorge che ci stiamo prendendo una pausa di qualche secondo per respirare prima di ringraziare. Per respirazione profonda si intende un respiro che riempie i pol-

moni e gonfia anche la pancia (quindi va più giù dei polmoni). Possiamo allenarci da soli per vedere fino a quale profondità attiva il nostro respiro!». Riflette Cima: «Potremmo migliorare nel riuscire a dire grazie, ma la cosa importante è che sappiamo lasciar uscire la parola, saper esprimere un sentimento è una grande conquista». Quando la mamma capisce al volo di cosa c’è bisogno, la compagna di banco presta il libro dimenticato, il fratello maggiore gioca invece di volersi fare i fatti propri: sono tutti momenti che i nostri figli devono imparare ad apprezzare. Sia ben chiaro: a Il caffè delle mamme siamo tutte d’accordo con il noto scrittore esistenzialista Franz Kafka quando dice che «i genitori che si aspettano riconoscenza dai figli (e ce ne sono che addirittura la pretendono) sono come quegli usurai che rischiano volentieri il capitale per incassare gli interessi». Non li vogliamo riconoscenti (anche se la speranza è sempre l’ultima a morire), ma con il cuore aperto alla gratitudine. Per capire che il grazie è una parola magica che fa sorridere chi lo riceve, ma fa bene anche a chi lo dice!


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 luglio 2021 • N. 29

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anziani e violenza domestica

svizzera Aumenta la sensibilità nei confronti del maltrattamento degli anziani, un tema ritenuto di salute pubblica

al quale lo scorso settembre il Consiglio federale ha dedicato un rapporto. La piattaforma nazionale «Vecchiaia senza violenza» chiede di migliorare la prevenzione nei confronti di questo fenomeno, rimasto per anni in ombra Fabio Dozio Gli anziani vittime di violenza domestica non vanno dimenticati. È quanto chiede, a gran voce, «Vecchiaia senza violenza», la piattaforma nazionale per le persone anziane vittime di abusi, nata nel 2019 dalla stretta collaborazione di tre organizzazioni: alter ego nella Svizzera romanda, Pro Senectute, Ticino e Moesano e Unabhängige Beschwerdestelle für das Alter. La nostra società è molto sensibilizzata nei confronti della violenza sulle donne e sui bambini, a giusta ragione, ma l’attenzione nei confronti degli anziani maltrattati è minore. Nella maggior parte dei casi gli atti di violenza o i maltrattamenti avvengono in casa, nella stretta cerchia famigliare. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), «Sono maltrattamenti gli atti commessi o omessi, i comportamenti e gli atteggiamenti che ledono l’integrità della persona, siano essi intenzionali o involontari. I maltrattamenti generano un torto o una ferita e costituiscono un attacco ai diritti fondamentali e alla dignità della persona». Da parte sua, la Commissione del Consiglio d’Europa sostiene che «Il maltrattamento degli anziani è un insieme di comportamenti o di atteggiamenti, singoli o ripetuti che riguardano la persona anziana all’interno di un contesto di confidenza o di dipendenza che può causare l’esaurimento o delle ferite a queste persone. Il maltrattamento può essere di tipo fisico, morale, finanziario, sessuale o più semplicemente negligenza». Il Consiglio federale afferma che le dimensioni del problema sono difficili da stimare, ma sostiene che «In Svizzera sarebbero tra i 300 e i 500 mila gli ultrasessantenni toccati da almeno una forma di maltrattamento nel corso di un determinato anno». In Ticino Pro Senectute si occupa da anni della prevenzione nei confronti del maltrattamento degli anziani. Un servizio specifico raccoglie le denunce. Nel 2020 Pro Senectute ha seguito 45 situazioni. Il 95% dei casi è avvenuto a domicilio, il 5% in case per anziani. La maggioranza delle segnalazioni arriva dagli operatori di aiuto domiciliare o simili, il 15% dai parenti e conoscenti e il 5% dai vicini di casa. Nessuna segnalazione da parte delle vittime, che in genere sono donne di circa 80 anni affette da demenza o fragilità psichiche. Il 90% degli atti è perpetrato dai famigliari. «Le forme di maltrattamento – ci spiega Franceca Ravera, psicologa di Pro Senectute – avvengono spesso in situazioni di fragilità psico sociale o economica sia dell’anziano che del proprio famigliare. Le motivazioni di questi comportamenti vanno ricercate in difficoltà nella cura del proprio famigliare legate allo stress fisico ed emotivo della presa a carico, al non riconoscimento sociale del proprio ruolo, a situazioni

azione

settimanale edito da migros Ticino Fondato nel 1938 redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

In Svizzera sarebbero tra i 300 e i 500mila all’anno gli anziani toccati da almeno una forma di maltrattamento. (Keystone)

specifiche di disagio psichiatrico e a una incapacità nel comprendere le patologie dementigene oltre che al non saper prendersi cura in modo adeguato dei bisogni della persona anziana». Sabrina Alippi è l’assistente sociale di Pro Senectute che si occupa dei maltrattamenti. Ci descrive un caso concreto utile per far capire che non si può generalizzare di fronte a violenza, maltrattamento o atteggiamenti frutto di disperazione. «Un caso interessante – racconta Alippi – riguarda madre e figlia, quest’ultima di 70 anni, che vivono insieme. Le due hanno sempre avuto una relazione conflittuale e ora, con l’avvento della malattia della madre e l’aumentare del suo grado di dipendenza e gli anni che passano anche per la figlia, le difficoltà relazionali e di convivenza si fanno sempre più sentire. La madre, con declino cognitivo, svilisce e incolpa la figlia dei suoi malanni e si lamenta di continuo per il suo stato di dipendenza, ma desidera fortemente rimanere a casa propria. La figlia, dal canto suo, a volte le urla contro e la tratta in maniera rude, fino a strattonarla, ma senza particolari conseguenze sul piano fisico. Non abbiamo mai riscontrato lividi o altri segni di sorta. Questi comportamenti sono capitati due o tre volte di fronte al personale Spitex, che ha subito chiesto una consulenza e un intervento di presa a carico al nostro servizio. La figlia è stata resa attenta da parte del servizio Spitex e da parte nostra della gravità dei suoi gesti, soprattutto sul piano fisico; sono stati aumentati gli aiuti presenti a casa, regolarmente la rete di professionisti (spitex, centro diurno, medico curante e geriatra) si incontra per una valutazione e monitoraggio della situa-

zione e alla figlia è stato offerto sostegno e accompagnamento sul piano psicologico, mentre la coppia viene regolarmente incontrata a domicilio per vedere come va. La figlia ha accettato questa particolare attenzione da parte della rete e si dimostra abbastanza disponibile e sufficientemente consapevole della necessità di fare un lavoro su di sé per affrontare al meglio le difficoltà insite nella cura della madre e, quindi, poter reagire alle provocazioni di quest’ultima in maniera maggiormente adeguata. Per il momento, visto il forte attaccamento delle due, malgrado la relazione conflittuale, e il desiderio dell’anziana di rimanere a domicilio, abbiamo deciso di sostenere il mantenimento a domicilio con i correttivi sopra descritti. La qualità di vita di entrambe è valutata buona e la situazione attuale abbastanza stabile, anche se sicuramente non ottimale e nel complesso fragile, motivo per cui occorre costante attenzione e monitoraggio, favorendo un rapporto di fiducia e stima con tutte le persone coinvolte». Questa testimonianza permette di capire le difficoltà con cui sono confrontati gli operatori che lavorano con gli anziani e la delicatezza del loro intervento. Il maltrattamento della figlia nei confronti della madre rientra in una dinamica accettabile se monitorata da vicino dai vari operatori. «Mai potrebbe essere tollerato – precisa Sabrina Alippi – che un anziano venga picchiato a casa propria dalla figlia». Ci sono casi anche particolarmente gravi? «A volte, ma per fortuna raramente, – precisa l’assistente sociale di Pro Senectute – vengono segnalati casi gravi, ripetute percosse, umiliazioni e insulti, gravi negligenze con conseguenze importanti sulla qualità di vita

della persona. In questi casi è necessario un intervento tempestivo e di autorità e quindi non è di nostra pertinenza. Noi entriamo in causa solo in quei casi dove è possibile un intervento di sostegno e mediazione, vi è da parte dei diretti interessati e della rete un minimo di apertura a collaborare e non vi sono sospetti di maltrattamento imputabili a reati gravi, perseguibili d’ufficio». Le autorità cantonali si sono recentemente attivate per migliorare la vigilanza nei confronti dei maltrattamenti degli anziani. Due anni fa, l’Ufficio del medico cantonale e l’Ufficio degli anziani e delle cure a domicilio del Dipartimento della sanità e della socialità (DSS) hanno allestito delle linee guida e un protocollo di gestione per valutare sospetti maltrattamenti: «Il problema del maltrattamento della persona anziana (e non solo) – si legge nel documento – è riconosciuto come un problema di salute pubblica, il DSS si fa promotore e garante, unitamente a tutti i partner, per l’introduzione, l’applicazione e la verifica di un programma specifico relativo al tema del maltrattamento che integri: formazione e sviluppo della cultura, prevenzione, depistaggio e vigilanza». Anche il Consiglio federale ha cominciato a preoccuparsi di quello che viene considerato un tema di salute pubblica. Nel settembre scorso ha pubblicato un rapporto: «Impedire la violenza sulle persone anziane». Dopo aver valutato la situazione nel nostro Paese, il Governo elenca una serie di raccomandazioni: diffondere conoscenze sul maltrattamento, coordinare gli attori coinvolti e potenziare l’offerta esistente, migliorare la qualità degli interventi e «lanciare un piano di azione nazionale,

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volto al contempo a incidere sull’immagine della vecchiaia e sul dibattito pubblico in materia di invecchiamento». «Nella sua sfera di competenza, la Confederazione si impegna a rafforzare la prevenzione e la lotta contro il maltrattamento, in particolare mediante il sostegno alle organizzazioni di assistenza alle persone anziane. Settori d’importanza capitale come le cure in ambito stazionario, gli istituti di cura nonché l’assistenza e la cura a domicilio rientrano nella sfera di competenza dei cantoni. Il Consiglio federale incarica pertanto il Dipartimento federale dell’interno di accordarsi con i Cantoni e di valutare la necessità di un programma d’incentivazione di durata limitata per dare maggiore visibilità e coerenza alla prevenzione in materia di maltrattamento delle persone anziane». Da parte sua, «Vecchiaia senza violenza» sottolinea l’urgenza di un programma d’incentivazione per prevenire la violenza nei confronti degli anziani: «Parallelamente alla costruzione di strutture specializzate – afferma – le autorità possono affinare la loro consapevolezza circa questi temi, approfondire le informazioni già disponibili e, di concerto con gli altri attori sulla scena, avviare attività e progetti concreti per migliorare la situazione delle persone anziane vittime di violenza». Pro Senectute Ticino e Moesano si occupa di prevenzione da molto tempo, come ci spiega Sabrina Alippi: «Interveniamo con dei percorsi di sensibilizzazione e formazione presso le case per anziani e i servizi Spitex interessati. Ci rivolgiamo alle direzioni e a tutto il personale offrendo percorsi di prevenzione al maltrattamento e fornendo strumenti concreti e stimoli per poter costruire, favorire e mantenere una filosofia orientata al buon trattamento fruibile da tutti. Oltre a ciò siamo presenti anche nelle scuole socio-sanitarie ticinesi per formare alla tematica gli allievi, futuri professionisti del settore. Da qualche tempo a questa parte abbiamo deciso di incontrare anche le persone anziane e per il momento ci stiamo concentrando, attraverso degli incontri sul tema della qualità di vita e autodeterminazione, sulle persone che frequentano i centri diurni socio-assistenziali presenti sul territorio, in maniera da chiedere, coinvolgere e attivare anche loro sul tema del rispetto della dignità e perché conoscano l’esistenza del nostro servizio». Per anni il maltrattamento degli anziani è rimasto in ombra, forse perché le vittime non prendono la parola e perché l’anzianità viene volentieri emarginata e dimenticata. Ora, finalmente, autorità cantonali e federali, come abbiamo visto, assieme a organizzazioni della società civile stanno reagendo per contrastare questo fenomeno che si esprime in varie forme e che, sempre, lede i diritti umani. abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 luglio 2021 • N. 29

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idee e acquisti per la settimana

genuine tradizioni dalle terre dei walser

attualità La Bresaola «Casa Walser» è un’aromatica prelibatezza realizzata con cura e pazienza inVal d’Ossola

Un carpaccio di Bresaola è un gustoso piatto perfetto per l’estate.

azione 15% Bresaola casa walser Italia, affettata in vaschetta da 100 g Fr. 5.35 invece di 6.35 dal 20 al 26.7

Impossibile resistere a questa delizia gastronomica dal gusto e profumo inimitabili che si ispira a secolari tradizioni culinarie. La Bresaola «Casa Walser» nasce in Val d’Ossola, alle pendici del Monte Rosa, tra il lago d’Orta e il Lago Maggiore, territorio ricco di bellezze naturali e ideale per la produzione di salumi di elevata qualità grazie ad un clima particolarmente dolce e mite. Condizioni uniche che da secoli hanno stimolato e favorito l’insediamento di comunità agricole dedite alla coltivazione e all’allevamento del bestiame, come i Walser. Questo popolo di origini germaniche, che ha rappresentato uno dei più significativi fenomeni di colonizzazione alpina a partire dal XII secolo, ha saputo ideare originali tecniche di conservazione delle carni attraverso procedimenti quali la salatura, l’essiccazione all’aria aperta, l’affumicatura e l’utilizzo di spezie e aromi per tenere lontano gli insetti durante la maturazione. Ed è proprio a queste antiche usanze che si rifà la

ricetta della bresaola di manzo del Salumificio Nino Galli, azienda attiva da quattro generazioni nella produzione di salumi di eccellenza. Grazie ad una selezione, lavorazione e salatura eseguite completamente a mano, una

lenta stagionatura di almeno dieci settimane, nonché alla grande attenzione che viene posta in tutte le fasi della lavorazione da parte dei mastri salumieri, si ottiene un prodotto molto uniforme, povero di grasso e

dall’inconfondibile e caratteristico sapore. La bresaola non può mancare all’appuntamento con l’antipasto in un tagliere di affettati misti della tradizione italiana; è ottima da sola sotto forma di carpaccio per un invitante e

leggero piatto unico con l’aggiunta di qualche fogliolina di rucola, pinoli e condita con succo di limone e olio di oliva; oppure ancora è ideale per realizzare degli sfiziosi involtini farciti con del formaggio fresco.

Piatti sani e veloci tutti da gustare

attualità I cous cous biologici del Molino Filippini permettono

di dare libero sfogo alla propria fantasia in cucina

cous cous 100% grano saraceno Biologico 250 g Fr. 3.30

cous cous 4 legumi Biologico 250 g Fr. 3.30

cous cous mais e riso Biologico 250 g Fr. 3.30 In vendita nelle maggiori filiali fino ad esaurimento dello stock

Nel cuore della Valtellina, da oltre tre generazioni il Molino Filippini produce un’ampia gamma di prodotti genuini dedicati a tutti coloro che amano mangiare sano e con gusto, buona parte dei quali senza glutine e biologici. Quest’ultimi sono ottenuti da materie prime provenienti da coltivazioni che ammettono solo l’uso di sostanze naturali. Da oltre 30 anni Filippini sostiene metodi di produzione biologica per assicurare ai consumatori dei prodotti nati da un’agricoltura consapevole. Tra questi figurano anche alcuni cous

cous. Questo alimento conviviale, tipico della tradizione nordafricana, rappresenta un ingrediente ideale per la preparazione di molte ricette sane e veloci da cucinare, dagli aromatici contorni alle insalate, dagli sformati alle zuppe fino ai piatti completi. I cous cous bio Filippini non sono solo pietanze gustose, ad alta digeribilità e ricche di principi nutritivi, ma sono anche indicati per chi ha esigenze alimentari specifiche, come bambini e anziani. Inoltre, non contengono glutine, e pertanto sono adatti anche ai ce-

liaci. La gamma biologica attualmente disponibile nei supermercati Migros per un periodo limitato comprende tre invitanti specialità. Il Cous Cous 100% Saraceno, un grano ricco di fosforo, calcio, ferro, rame, magnesio e potassio, nonché di importanti vitamine del gruppo B; il Cous Cous 4 legumi composto da alimenti nutrienti e ricchi di proprietà benefiche quali ceci, piselli verdi, lenticchie rosse e gialle e il Cous Cous Mais e Riso, un gustoso mix che assicura un buon apporto di fibre al nostro organismo.

cous cous valtellinese 100% saraceno

Preparazione e cottura 15 min.

ingredienti per 2 persone di cous cous di grano 125 g saraceno biologico 50 g di bresaola tagliata spessa 50 g di Bitto o Casera stagionato (peso netto senza crosta) 40 g di pistacchi sgusciati 1 grossa pera soda succo di 1 limone qualche rametto di timo 4 cucchiai di olio extra vergine di oliva sale e pepe nero di mulinello

Preparazione Preparate il cous cous secondo le indicazioni riportate sulla confezione e conditelo con 2 cucchiai di olio. Dopo averlo sgranato trasferitelo in una ciotola. Tagliate la bresaola a listarelle e il formaggio a scaglie. Lavate la pera, tagliatela a spicchietti, immergetela nel succo di limone per non farla ossidare e scolatela; tritate grossolanamente i pistacchi e sfogliate il timo. Unite al cous cous tutti gli ingredienti preparati e mescolate bene; condite con l’olio rimasto e una generosa macinata di pepe e servitelo a temperatura ambiente.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 luglio 2021 • N. 29

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società e Territorio

escursioni e sport senza barriere

Disabilità Nei boschi del Monte San Giorgio è stato creato un percorso circolare adatto anche a speciali bike

a tre ruote, ne abbiamo parlato con l’atleta paralimpico Murat Pelit fondatore dell’associazione Ti-Rex Sport

Guido Grilli Se c’è qualcuno che si prodiga quotidianamente per abbattere barriere e avvicinare alla natura le persone con disabilità motorie, questi è senz’altro Murat Pelit, sciatore paralimpico, 39 anni, nato e cresciuto a Stabio, costretto in carrozzella dal 2006 dopo un tumore maligno, ma che non si è mai dato per vinto. «Ero di carattere positivo prima della malattia e lo sono anche oggi» – sorride inneggiando alla vita l’atleta. Nel 2018 ha fondato Ti-Rex Sport, associazione che ha fra i suoi scopi quello di «stimolare il maggior numero di persone con disabilità motorie alla pratica di sport impensabili». Lo scorso 30 aprile gli è stato intitolato il percorso circolare che parte e ritorna a Serpiano, sul monte San Giorgio, della lunghezza di 3,7 chilometri dedicato alla mountain-bike e adatto ai disabili, nonché percorribile con delle bike a tre ruote – una prima a livello svizzero. Il sentiero è stato realizzato dall’Organizzazione turistica regionale (Otr) del Mendrisiotto e Basso Ceresio in sinergia con l’Hotel Serpiano, dove da due mesi a questa parte affluisce un buon numero di turisti e di ticinesi alla scoperta del sentiero e dove è possibile noleggiare gli enormi «tricicli» pedalabili con la forza delle braccia, grazie alla fondazione Carozza che ha finanziato l’acquisto di 4 bike a tre ruote e 2 bici elettriche disponibili sul posto. Partiamo da qui. Come nasce questa iniziativa e quali peculiarità possiede il percorso? «L’idea – spiega Murat Pelit – è quella di far rinascere la montagna, in situazioni di condivisione fra amici, familiari e persone disabili. Finora non era mai esistito nulla del genere. Così con l’associazione Ti-Rex Sport abbiamo iniziato a cercare e creare per-

corsi adatti a soddisfare questa esigenza – perché si tratta proprio di un’esigenza – e con l’intento di conferire al progetto del Serpiano sin da subito una vocazione turistica accessibile per tutti. Di qui è nata la collaborazione con l’Otr del Mendrisiotto e Basso Ceresio, che grazie alla sua direttrice Nadia FontanaLupi ha da subito sposato l’iniziativa, che si concilia bene oltretutto con il loro motto “Una regione da scoprire” e quindi con il coinvolgimento dell’Hotel Serpiano. La persona con disabilità può cimentarsi in una attività sportiva con le bike a tre ruote e addentrarsi in un sentiero boschivo allargato, del quale è stato conservato il suo manto naturale – sassi, radici, alberi – e le sue difficoltà – discese e tornanti per renderlo un percorso semplice ma “molto grintoso” come amo definirlo, dove sono stati pure posati dei cartelli-guida». L’Otr ha inoltre in cantiere un nuovo sviluppo del sentiero di recente inaugurazione che si allargherà prossimamente a un percorso circolare tra Capolago, Rancate, Serpiano, Alpe di Brusino, Riva San Vitale e ritorno a Serpiano, anche se occorrerà dapprima superare alcuni ricorsi tuttora pendenti. Ma quante barriere sono ancora di intralcio in ambito escursionistico e ricreativo? A suo avviso si potrebbe fare di più per abbatterle? «Senz’altro. Ad oggi un disabile non ha ancora grandi possibilità di usufruire della montagna. Andrebbe proprio favorito un maggiore sviluppo: tutte le Organizzazioni turistiche regionali dovrebbero prendere esempio da Mendrisio e creare dei loro percorsi adatti alla mountain-bike, a carrozzine con sentieri sterrati e con meno pericoli. Manca – anche a livello nazionale – proprio questa accessibilità alla montagna. Sono stati realizzati tanti progetti – penso ad esempio, sul

Sentieri senza barriere sono proposti da Svizzera mobile. (www.schweizmobil.ch)

Murat Pelit lungo il percorso semplice ma «molto grintoso» a lui intitolato. (Ti-Press)

fiume Vedeggio, le piazzuole per i pescatori in carrozzina o all’idea analoga al Laghetto del Ghitello di Morbio Inferiore o ai percorsi per le carrozzine promossi da Svizzera Mobile – ma non c’è veramente la volontà di realizzare progetti in sinergia tra normodotati e disabilità. Il problema è che si pensa di dover fare qualcosa di adatto ai disabili, in realtà non è così: bisognerebbe proprio abbandonare questa mentalità e riuscire a rendere semplicemente frequentabili i luoghi pensando alla dovuta accessibilità per tutti». La sua associazione Ti-Rex Sport si prefigge proprio di abbattere le barriere. «Sì, di spingere per creare percorsi accessibili in Ticino. Ad Airolo, un altro esempio riuscito, sono stati allargati quest’anno i sentieri delle piste dove possono passare anche le nostre mountain bike a tre ruote, grazie alla buona risposta della stazione sciistica, che ha fra l’altro in progetto di marcare il percorso con i cartelli come al sentiero di Serpiano, il quale sta riscontrando un ampio successo da parte di tutto il pubblico amante delle mountain-bike, sia da parte delle persone con disabilità sia dei normodotati. Il percorso è stato testato attraverso un corso anche dalla Fondazione svizzera per paraplegici». Il sentiero di Serpiano rientra fra le proposte degli sport «impensabili»

promossi dalla sua associazione? «Sì, è uno di questi, di facile uso e in sicurezza contrariamente a quanto si potrebbe pensare. D’inverno invece ad Airolo c’è una buona proposta di sci per disabili e lo stesso vale per l’estate. Con Ti-Rex Sport, sodalizio che tengo ad evidenziare è attivo a titolo di volontariato, senza scopo di lucro e di pubblica utilità, abbiamo inoltre in progetto di realizzare una scuola di sci nautico sul lago di Lugano. L’idea è ancora allo stadio embrionale e richiederà ancora tempo. Ma non è niente d’impossibile» – assicura con l’ottimismo che lo contraddistingue l’atleta paralimpico. Appena oltre confine, un’altra iniziativa di inclusione è stata inaugurata a Verbania, nel comune di Caprezzo, il cui significato si riassume sin dal suo titolo: «Sentiero per tutti». Si tratta di un itinerario di un chilometro immerso nella natura all’interno di un bosco misto di conifere e latifoglie e in assoluta sicurezza all’interno del Parco nazionale della Val Grande. Ma in tema di accessibilità per tutti, tornando alle nostre latitudini, gli Uffici turistici ticinesi, in collaborazione con inclusione andicap Ticino, hanno fra l’altro reso disponibile sul proprio sito Internet (alla voce, turismo accessibile) la cartina «paramap» con le strutture praticabili con la carrozzella, consigli di itine-

rari, manifestazioni, musei e strutture alberghiere presenti in Svizzera. Bellinzona e Valli propone dal canto suo due sentieri senza barriere: si tratta dei circuiti, Dongio-Satro e Dongio-Motto. Inclusione andicap Ticino è attiva da anni per abbattere antichi e nuovi ostacoli architettonici, per garantire accesso, mobilità e utilizzo di servizi e infrastrutture da parte di tutte le persone con andicap. Molte le battaglie: dal grado di accessibilità degli edifici ai posteggi per disabili, dalle fermate dei bus ai trasporti pubblici, fino appunto ai sentieri senza barriere, con l’identificazione di nuovi percorsi, per i quali basterebbero semplici interventi di miglioria per renderli frequentabili a tutti. Un altro esempio, creato nel 2018 dall’Ente regionale di sviluppo del Bellinzonese e Valli, riguarda il circuito di Acquarossa, itinerario turistico, didattico e culturale dedicato principalmente alla mobilità lenta. «Svizzera mobile» promuove invece sul proprio portale Internet 76 proposte che si inseriscono nell’ambito dei sentieri senza barriere. Con indicati i chilometri, i tempi di percorrenza e il grado di difficoltà dei diversi percorsi. E ancora: le immagini e le peculiarità di ogni escursione descritte in brevi e schede che invitano al viaggio e a nuove scoperte. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 luglio 2021 • N. 29

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società e Territorio

storie di spalloni, profughi e ramina mostre Al Museo delle dogane un’esposizione racconta la storia del contrabbando sul confine italo-svizzero

indagando in particolare il periodo della Seconda guerra mondiale

Barbara Manzoni Il 2020 è stato un anno fuori dall’ordinario. Tutti siamo stati confrontati con cambiamenti repentini che hanno rivoluzionato il nostro modo di lavorare, di vivere, di relazionarci con gli altri. In prima linea si sono trovati i sanitari ma anche altri settori hanno vissuto momenti che possiamo già fin d’ora definire storici, come le dogane e le guardie di confine. È da questa consapevolezza, spiega la responsabile del Museo delle dogane di Gandria Maria Moser, che è nata fin da subito l’idea di raccogliere e archiviare alcune testimonianze del momento più grave della pandemia di Covid-19, materiale organizzato in una mostra online intitolata proprio «StraOrdinario» (www.stra-ordinario.ch) e che ora ha anche una veste grafica in una sala del museo affacciato sul Ceresio. Chiudere i valichi doganali è un avvenimento che ha pochi precedenti in Svizzera. Dopo il 16 marzo 2020 l’Amministrazione federale delle dogane ha dovuto mettere in atto una serie di misure per garantire che solo le persone autorizzate entrassero in Svizzera: valichi secondari, strade e sentieri sono stati sbarrati, alle guardie di confine si è affiancato l’esercito. Una situazione che non poteva non evocare altri tempi, tempi in cui a fare paura non era un virus ma potenze straniere in guerra e soprattutto la Wehrmacht che occupava l’Italia. L’analogia nasce spontanea nella mente di chi visita la bella mostra

attualmente in corso al Museo delle dogane e intitolata «Un confine tra povertà e persecuzioni. Contrabbandieri e profughi tra Italia e Svizzera durante la Seconda guerra mondiale». L’esposizione, curata da Adriano Bazzocco con la collaborazione di Stefania Bianchi, occupa tre sale, le prime due dedicate alla storia del contrabbando, la terza invece racconta dei profughi che a Cantine di Gandria hanno cercato rifugio dalle persecuzioni. Dietro ai nomi che scorrono su una delle pareti della sala (ma che non rimarranno scolpiti come quelli sui muri della Sinagoga Pinkas di Praga) si nascondono vicende drammatiche, avventurose, dolorose, commoventi, non sempre purtroppo a lieto fine. Il registro dei profughi accolti e respinti al posto di confine di Cantine di Gandria è un documento prezioso, l’unico del genere conservato in Svizzera. Nell’elenco si contano in tutto 250 profughi accolti a Caprino (di cui 97 ebrei) e 173 respinti (di cui 53 ebrei, 71 disertori e 49 civili). Dei 53 ebrei respinti si sa che 21 sono stati poi accettati in altri posti di confine mentre 11 sono stati arrestati e deportati ad Auschwitz, da dove soltanto due faranno ritorno. Uno di loro è il medico torinese Leonardo De Benedetti che nel lager stringerà un’intensa amicizia con Primo Levi insieme al quale subito dopo la liberazione redigerà il primo rapporto sullo stato sanitario all’interno del campo. I due italiani riveleranno al mondo l’abominio di

Nella foto i preparativi degli spalloni, Valle di Muggio, 1948 ca. (Archivio di Stato del Canton Ticino, Ch. Schiefer)

Auschwitz. Questa e altre storie si possono leggere al Museo delle dogane in una sala che non vuole certo analizzare la politica di asilo della Svizzera durante il secondo conflitto mondiale ma che, scrivono i curatori, ci invita a riflettere sull’asilo in genere e sulla Shoah in particolare. Ma il confine in Ticino è stato molto altro e ben prima della seconda guerra mondiale. La stessa costruzione della famosa rete di confine ad opera delle autorità italiane risale agli anni 80 dell’800 ed era pensata, con i suoi campanelli, per contrastare il passaggio delle merci di contrabbando. La storia della «ramina» arriva da lontano

e scorre nel nostro dna in modo a volte piuttosto inconsapevole. Nelle due sale dedicate al contrabbando viene raccontata ed egregiamente riassunta con l’aiuto anche dell’efficace allestimento. «Il confine con l’Italia è di gran lunga quello in cui in passato il contrabbando è stato esercitato con la maggiore intensità. Nella vicina penisola alcuni beni, come il tabacco, il caffè e lo zucchero, erano sottoposti a monopolio o gravati di ingenti tributi e pertanto molto cari. Il dislivello dei prezzi provocò intensi flussi di merci di contrabbando dalla Svizzera verso l’Italia. Per la Svizzera questi traffici non erano illegali perché danneggiavano soltanto il fisco italia-

no», questa è l’estrema sintesi di ciò che era un vero e proprio mondo, una tradizione di contrabbandieri e spalloni, con i loro «attrezzi» del mestiere, la loro minuziosa conoscenza del territorio, le loro fatiche e a volte la loro genialità (nel 1948 le guardie di finanza scoprirono addirittura un sommergibile artigianale nel Ceresio!). In alcuni casi nacquero vere e proprie figure leggendarie come quella di Clemente Malacrida soprannominato «il duca della montagna» spallone dell’alta Valle d’Intelvi attivo negli anni Trenta. La mostra pone poi l’accento sulla stagione più epica della storia del contrabbando: gli anni della Seconda guerra mondiale. Erano allora tantissimi gli uomini, le donne e addirittura i ragazzini dei villaggi italiani di confine che vedevano nel contrabbando l’unica opportunità per alleviare le loro precarie condizioni economiche. Sono gli «anni del riso», quando non mancarono episodi di violenza nei quali spalloni ma anche alcune guardie rimasero feriti o uccisi e si consumarono drammi famigliari come quello di Ovidio e Nives giovani sposi di Cabbio. Vicende da riscoprire sulle ormai placide rive del Ceresio. Dove e quando

Un confine tra povertà e persecuzioni, Museo delle dogane, Cantine di Gandria, orari: ma-do 12.00-17.00, fino al 17 ottobre 2021, www.museodelledogane.admin.ch Annuncio pubblicitario

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società e Territorio

Quell’umile altura che spaccò il Ticino

i fumetti dedicati ai matematici web Continuano

le avventure di Ellie

monte ceneri L’ultimo saggio di Martinetti ci invita a riflettere

sulle divisioni che hanno caratterizzato la storia del nostro Cantone Romina Borla Chi scrive è nata all’ombra del Monte Ceneri. Quante volte ha attraversato senza porsi tante domande quell’«umile altura – come lo ha definito Stefano Franscini – rinomata solo come punto di passaggio, già malsicuro dai ladroni»? Da Rivera, trasformatosi in quartiere nel 2010, si sale subito su quello che pare poco più di un colle, superati da vetture impazienti di arrivare chissà dove. Boschi intorno, l’autostrada rumorosa inghiottita dalla galleria, camionette verde militare e, sempre sulla destra, la statua di Carlo Borromeo che nel Cinquecento visitò le «nostre» terre, allora parte della sua Diocesi. Si arriva in cima facilmente, una cima senza infamia e senza lode. Almeno all’apparenza. Due stazioni di servizio, la caserma e un campeggio nascosto dalla vegetazione. Poi comincia la discesa, con le sue curve serpentine, e la serie di postriboli decadenti da un pezzo e abbandonati da poco sotto i colpi della pandemia. Uno spiazzo dedicato ad Agostino Bernasconi, consigliere di Stato dal 1947, morto proprio qui dopo un incidente stradale. Una discesa che ad un certo punto ti spalanca lo sguardo su tutto il Piano di Magadino, da Bellinzona a Locarno. Sensazione di libertà. Quel senso di liberazione che devono aver provato i viandanti di un tempo, scampati ai famosi briganti della zona, una volta

tornati a casa dopo un viaggio molto più lungo e tormentato del mio. Già, perché il Monte Ceneri – come dice Orazio Martinetti nel suo Il Ticino sottosopra, unioni e divisioni all’ombra del Ceneri (Armando Dadò editore) – «è stato per secoli un ostacolo coriaceo (…) attraversato da strade malagevoli e infide, e un fattore di divisione interna». Il saggio parte proprio da lì – da quell’ingombro fisico che separa – ed è un tuffo nel passato di quello che ora si chiama Ticino, dal moto tettonico avvenuto milioni di anni fa, all’origine delle catene montuose alpine, fino ai giorni nostri con Alptransit che cancella le distanze e, con tutte le sue gallerie, la visione del paesaggio. L’occhio dello storico Martinetti rimane focalizzato sulle tante divisioni collegate a quell’umile altura, le quali covano ancora sotto le ceneri. Crepe geologiche e naturalistiche ma anche economiche, politiche, culturali ecc. L’autore suggerisce un’infinità di immagini preziose e spunti su cui riflettere. Dalle due liturgie «parzialmente diverse» che si diffusero sul nostro territorio (rito romano prevalente nel Sottoceneri e quello ambrosiano, più diffuso nel Locarnese e nelle valli superiori) al ruolo dei castelli eretti dai «signori milanesi», prima i Visconti e poi gli Sforza, nella divisione della nostra regione in due parti: «l’una difendibile, l’altra indifendibile, e quindi cedibile agli svizzeri». Passando

per la «rovinosa gara» fra Bellinzona e Lugano per la capitale stabile, la lotta tra liberali e conservatori (nell’800 la palma del radicalismo spettò al Sottoceneri) e quella che vede l’italiano confrontarsi col dialetto (il quale resiste meglio nell’alto Ticino). L’autore evidenzia poi l’ancora attuale divisione del lavoro tra il centro dei funzionari, dei politici (Bellinzona) e il fulcro della finanza, dell’economia (Lugano). Senza dimenticare il declino delle periferie a favore delle città e delle professioni nel terziario. Diverse pagine sono dedicate al tema dell’emigrazione, con gli espatriati delle valli superiori che predilessero gli Stati uniti, in particolare la California coi suoi ranch, e l’attrazione dei sottocenerini per Cile, Paraguay, Uruguay e soprattutto Argentina. Interessante il capitolo dedicato alle donne ticinesi, fino a pochi decenni fa considerate «solo come grembo riproduttivo e forza-lavoro», «mezze persone, se non delle nonpersone: animali da basto condannati ad una decadenza fisica precoce». La loro condizione cominciò a migliorare a partire dai centri: Lugano, Mendrisio, Bellinzona e Locarno. Che dire poi del «conflitto principale», «la madre di tutte le rivalità, l’epico scontro hockeistico Ambrì-Lugano»? Non vi resta che tuffarvi nella lettura per scoprire i dettagli riguardanti le terre tra Airolo e Chiasso che,

almeno fino alla costituzione del Ticino in Cantone per volontà napoleonica (1803), «non riusciranno a darsi un’identità comune, una cornice cui riconoscersi come comunità». I capitoletti del saggio sono nati come articoli pubblicati su «Azione» nel 2004 e sono stati aggiornati per l’occasione. Rimandano a una grande quantità di opere di approfondimento, dalla Storia del Ticino promossa dallo Stato alle opere di autori nostrani e stranieri che questo lembo di terra lo hanno vissuto e descritto: Pietro Bianconi, Johann Rudolf Schinz, Karl Viktor von Bonstetten, Emilio Motta, Guido Calgari, Stefano Franscini ecc. Terminiamo con le parole di quest’ultimo che suggerì di fondare proprio sul Mons Ceneris, simbolo della disunione dei ticinesi, la capitale cantonale e di darle il nome di Concordia: «sarebbe causa del dissodamento e della coltura di molto suolo, e sicurtà di un passaggio assai frequentato, già infame e tuttora non scevro di sospetti».

Sul nostro sito è online da oggi la nuova puntata dei fumetti creati nell’ambito del progetto Matematicando del Centro competenze didattica della matematica del Dipartimento formazione e apprendimento della Supsi. Si tratta dei viaggi nel tempo che la giovane Ellie compie grazie agli occhiali virtuali costruiti in laboratorio dal geniale zio Angelo. Ellie incontra così i personaggi che nel passato hanno fatto la storia della matematica. Questa nuova puntata è dedicata a Al-Khwarizmi. I fumetti si trovano sul sito www.azione.ch/societa, sezione «Vivere oggi» (oppure inserendo la parola «matematicando» nel campo di ricerca del sito).

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società e Territorio Rubriche

approdi e derive di Lina Bertola l’uomo è un animale culturale Due giovani turisti stanno assaporando un gelato sul Lungolago dopo aver visitato la bella mostra Capolavori della fotografia moderna allestita al LAC. Mostra visitata anche da un’elegante coppia agée, ora seduta in un altrettanto elegante ristorante del cosiddetto Salotto di Lugano per una bella cena accompagnata da vino d’annata. E sì, la cultura crea un indotto non indifferente! I ristoratori possono esserne contenti, soprattutto in tempi difficili per l’economia. Soddisfatti per questi effetti positivi lo sono anche albergatori, commercianti e molti altri servizi. Queste benefiche ricadute economiche della cultura sono state puntualmente descritte e quantificate in un recente studio commissionato dal Cantone. L’effetto positivo della cultura sull’economia era facilmente immaginabile, ma ora abbiamo i dati oggettivi: disponiamo di evidenza scientifica, recita il comunicato stampa. Forse era un gesto politico necessario quello di dimostra-

re, agli scettici e più in generale a chi criticasse le troppe spese per la cultura, che in realtà si tratta di un buon investimento economico. Ogni franco erogato genera più del doppio di valore aggiunto. Considerare la spesa pubblica come un investimento è un’ottima giustificazione che aiuta a garantire l’approvazione delle scelte politiche. E questo sembra valere anche per opere che non esibiscono un’utilità immediatamente misurabile, come invece accade per le strade o per gli ospedali. L’esercizio di quantificare la qualità è una prassi molto diffusa. Anche nella scuola, purtroppo. Basti pensare al valore dell’esperienza della conoscenza, alla sua qualità intrinseca, non misurabile, tradotta e ridotta a competenze che pretendono di misurarla in comportamenti osservabili. Anche il fatto di motivare la spesa pubblica per la cultura con l’unico scopo di arricchire la qualità di vita delle persone non basta. Giustificarla come pura

finalità, che con i suoi valori etici ed estetici contribuisce a nutrire di senso l’esistenza di chi ne fruisce, significherebbe restare dentro il linguaggio della gratuità, un linguaggio non misurabile con criteri economici. Significherebbe mettere in primo piano lo spirito e la logica del dono e questo, lo sappiamo bene, non è adeguato al registro comunicativo pragmatico e utilitaristico che domina le nostre forme di convivenza. Per questo motivo l’idea di spesa come atto gratuito, orientato al puro benessere dei cittadini, anche se spesso sottolineata e valorizzata, non potrebbe mai bastare per giustificare scelte politiche. Le ricadute economiche della cultura, sia chiaro, sono un’ottima cosa, ci mancherebbe. Ma come accade a tutti i rimedi efficaci, anche in questo caso c’è un effetto secondario, secondario ma non troppo. Questo sguardo utilitaristico rivolto all’economia della cultura sottolinea e a volte perfino enfatizza l’importanza di

tutto ciò che le ruota intorno lasciando in ombra, sullo sfondo delle nostre parole e dei nostri pensieri, il suo valore intrinseco per l’umanità. L’uomo è un animale culturale: la cultura, per così dire, appartiene alla sua natura. Ce lo ricorda, fin dall’antichità, un mito narrato da Platone. Epimeteo si incarica di distribuire le diverse qualità naturali agli animali ma alla fine non gliene restano più per l’uomo che rimane così mancante di qualità fisiche che gli garantiscano la sopravvivenza. A correggere l’errore del fratello interviene Prometeo donando agli uomini il fuoco e in seguito, poiché questo non bastava per una convivenza pacifica, anche rispetto e giustizia. Tecnica e valori dunque, per poter trasformare la natura e per abitarla insieme. E libertà anche, rispetto alle condizioni naturali, come sottolinea anche Pico della Mirandola quando parla della dignità umana come scelta: avvicinarsi a Dio o regredire a bestia.

Espressione e fruizione della cultura, nelle molteplici forme artistiche, si inseriscono in questo contesto antropologico. Sono intelligenza del mondo che sa accogliere il sentire con le sue ragioni, il bisogno di riflettere sul senso della vita e di farla risuonare in noi. Il contatto con il valore e con la bellezza non è tanto in ciò che è visibile in un’immagine, o in ciò che sta dentro i suoni di un concerto e nelle parole recitate in scena, ma piuttosto nelle atmosfere, nei paesaggi dell’anima a cui immagini parole e suoni alludono, offrendo al nostro vissuto un invito a navigare oltre, in libertà. Lasciare sullo sfondo questi aspetti costitutivi della nostra umanità non significa certo ridurne il valore. Mantenerlo perlopiù sottinteso significa però non dare spazio e parole a ciò che fa di questa umanità la nostra casa, lasciando gentilmente sull’uscio tutto ciò che vuole misurarla.

di epigrafi, numismatica e archeologia, sul «Bulletin de la société préhistorique française» apparso nel luglio 1915, sostiene che le Pierres du Niton, chiamate anche «à Nyton o Neyton», hanno servito come altare alla divinità celtica Neithe, equiparata in seguito al Nettuno romano. Tra l’altro, attraccata tra i due erratici lacuali, distanti settantacinque metri, c’è la Neptune. Una barca a vela latina costruita da ingegneri nizzardi in un cantiere navale a Meillerie, in Alta Savoia, nel 1904. A poche bracciate dalla Neptune, spunta la Pierre Dyolin che è quasi più sacrificale e balenesca. A fatica, attaccandomi a un anello arrugginito, conquisto la vetta piatta dell’isolotto e mi sdraio sopra pancia all’aria. Qualcuno dice che sia stata lasciata qui da un ghiacciaio diciottomila anni fa circa. Giocando a rimbalzello sul Lemano, secondo una leggenda, il gigante Gargantua sarebbe invece all’origine delle «Pierres du nichon». Così le chiamava involontariamente, per confusione, il mio ex vicino di casa – un sedicente cantautore

folk inglese rovinato da alcol, droghe, psicofarmaci, poker e lasagne surgelate – quando abitavo non lontano da qui, là in fondo a rue du 31 Décembre. Eppure nichon, tette in italiano, non è così fuori luogo e qualcuno potrebbe immaginarsi una dea gigante sommersa. Il loro vero ruolo magico, emozionale, però, per me, rimane quello svolto apparendo nella Pesca miracolosa (1444) di Konrad Witz: pietra miliare della storia dell’arte. Dipinto come pala d’altare per la cattedrale Saint Pierre, salvatosi miracolosamente dall’iconoclastia calvinista e conservato al Musée d’art e d’histoire qui di Ginevra, la Pesca miracolosa è considerata la prima rappresentazione di un paesaggio riconoscibile. Proprio le Pierres du Niton – oltre al Monte Bianco eternamente innevato che giganteggia come miraggio sullo sfondo – inquadrate da riva, verso la fine del Jardin Anglais e l’inizio del quai Gustave-Ador che percorro ora piano piano, sono un indizio chiave per localizzare con esattezza il posto dov’è ambientata la scena.

fiducia» racconta e un esempio è l’abate del monastero buddista theravāda in Luang Prapang. Qui nella capitale del Regno del Laos, the learning photographer, così è stato soprannominato, si è concentrato nel riprendere e ritrarre feste, riti, antichi culti ancestrali preservati nei secoli. Una volta stampate ha appeso le immagini per mostrarle e discuterne insieme agli altri. Ed è qui, in questo confronto tra culture, punti di vista, credi religiosi e visioni del mondo che si sviluppano il dialogo intimo e il confronto costruttivo cari all’arte di Berger che a partire dal 1944 nel corso di molti anni si è avvicinato agli oltre quaranta monasteri della città fotografando un universo fragile e antico, partecipando con la gente del luogo ogni scatto per renderlo memoria condivisa. Dai monasteri buddisiti alle Madrase femminili e maschili in Iran, l’arte di Berger traccia un percorso spirituale e intellettuale e

trasmette a chi guarda il percorso che le persone ritratte hanno compiuto. «Non è una questione tecnica, ci sono forze misteriose che vanno al di là della nostra capacità». Mentre sentivo the learning photographer raccontare le sue esperienze e mi interrogavo sulle forze misteriose, all’improvviso sono stata assalita da un senso di inquietudine. Ho messo a fuoco quanto l’approccio di Berger rappresenti un’eccezione non soltanto in campo artistico ma in campo umano. Pensate, facendo un confronto, di come siamo riusciti a svuotare di senso la parola condivisione, una tra le più abusate del nostro tempo. Oggi, senza condivisione, non si può stare sui social ma i presupposti, i tempi, la cura che mettiamo nella condivisione e nelle nostre relazioni, la sostanza del nostro interagire sono lontani anni luce dal lavoro di Berger. Cosa stiamo perdendo? Ecco, questo mi preoccupa.

Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf le Pierres du niton a ginevra Passeggiando sul lungolago, all’altezza del Jardin Anglais, avvisto la prima delle due Pierres du Niton (373,6 m), tre gabbiani sono posati sopra, sullo sfondo il Jet d’eau schizza alto nel cielo a pecorelle. Le Pierres du Niton sono due massi erratici che emergono nella rada di Ginevra: quello più al largo, appena avvistato, tuttora ben visibile mentre cammino e un tempo utilizzato come altare sacrificale, è il punto di origine di tutte le misurazioni altimetriche della Svizzera. Chiamati comunemente entrambi con lo stesso nome, i due blocchi di granito provenienti dal Monte Bianco che da lontano potrebbero sembrare cetacei risaliti a galla, in realtà hanno nomi diversi. Quello più verso riva, dalla forma trapezoidale che si vede adesso benissimo, dal molo di EauxVives, si chiama Pierre Dyolin. Mentre solo l’altra laggiù è la Pierre du Niton, punto di partenza di tutta la cartografia svizzera. Scelta nel 1820 da Guillaume Henri Dufour (1787-1875), ingegnere cantonale ginevrino e generale dell’esercito al quale ogni città o cittadina

elvetica ha dedicato una strada. In un primo tempo come riferimento riguardo alle misurazioni del livello del lago per via di alcune diatribe con il canton Vaud, poi come orizzonte per la famosa carta in scala 1:100 000 che prende il suo nome. La carta Dufour, prima opera cartografica ufficiale elvetica iniziata verso il 1832, incisa su rame, è esposta persino a Palazzo federale. In verità, in barba a tutta la topografia nazionale e al suo punto di riferimento geodetico, un vecchio lupo di lago, seduto in fondo al Café du Jura, bistrò-biotopo sopravvissuto alla moria di tutti gli altri postacci memorabili di Eaux-Vives, una sera mi raccontò che le Pierres du Niton galleggiano. «Îles flottantes» mi disse, riprendendo, al plurale, il nome del famoso dessert demodé dichiarandone perciò la loro più totale inaffidabilità, quantomeno nel ramo dell’altimetria. Una storia, certo, ma l’unica è toccare con mano. E appoggiando la mano alla superficie ruvida di granito porfirico foliato, a tratti scivolosa per via del guano inumidito dei loro ospiti fissi volatili, la

Pierre du Niton non si muove. Mi sono tuffato dall’imbarcadero delle mouettes, le barchette che fanno la spola con la sponda opposta e passano, ogni dieci minuti, proprio accanto alle Pierres du Niton. Già che ci sono, dopo aver verificato che il masso erratico lungo ventotto piedi tocchi sul serio il fondo del lago, aggrappandomi a una catena mi ci arrampico su. Per accarezzare, così, tanto per, un tardo pomeriggio verso metà luglio, il sigillo di bronzo ottocentesco sul quale qualcuno ha scarabocchiato, graffiandola, la parola cacahuetes. Un disco largo due pollici legato alla prima misurazione ipsometrica, 376,6 metri sul livello del mare, poi mutata nel 1902 in quella attuale, stabilita con il mareografo di Marsiglia, di tre metri di meno. Trovo anche la coppella e percorro, così per sport, con i polpastrelli, il perimetro rettangolare di questo bacino profondo venti centimetri. Qui sotto, nel 1660, sono stati riportati a galla, due asce di rame, usate, dicono, per i sacrifici umani in onore delle divinità lacustri. Burkhard Reber, farmacista specialista

la società connessa di Natascha Fioretti The learning photographer L’altro giorno è stata la giornata dei musei. Di uno, della sua meravigliosa mostra, mi ha raccontato entusiasta un’amica di ritorno da Zurigo. L’esposizione personale al Kunsthaus dedicata a Gerhard Richter l’ha letteralmente folgorata, si è portata persino a casa il poster di Nuvole, il dipinto olio su tela e l’ha appeso sopra il letto. Io invece avevo appena finito di leggere le ultime notizie sulla variante Delta nei giorni degli affollatissimi europei di calcio. Pensiero abbandonato subito per concentrarmi sulla semplice magia di un caffè preso sulla piazza del LAC con vista lago a parlare di vapori sospesi, letteratura e cose belle da fare prossimamente. Poco lontano e solo qualche ora dopo, ho avuto anch’io un folgorante incontro, questa volta con la fotografia di Hans Georg Berger a Villa Malpensata che ospita la retrospettiva a lui dedicata La disciplina dei sensi curata da

Paolo Campione. L’occasione era data dalla presentazione del catalogo ma il piacere è stato poter incontrare e ascoltare l’artista dal vivo. Mi ha colpito sin da subito per la sua umiltà e una certa timidezza nel raccontarsi. Questo straordinario protagonista della fotografia contemporanea ha subito sottolineato la sua curiosità e la sua voglia di imparare così vive ancora all’alba dei settant’anni. «Sono una persona curiosa che vuole imparare. Imparare significa avere meno paura del mondo e delle cose strane. Nella fotografia ho scoperto il mezzo per accedere ad una cosa molto semplice: dimenticare tutto quello che c’è attorno e mi disturba per vedere il mondo più ordinato». Nel catalogo Campione ci dice che per Berger la fotografia è un rimedio esistenziale, uno strumento per esplorare il proprio universo sensoriale e dare corpo alla propria identità. La sua è una ricerca che lo ha portato a crede-

re nella condivisione come strategia fondamentale, sia a livello personale, sia a livello socioculturale promuovendo un processo in cui l’altro diventa parte integrante e attore di un progetto condiviso. Berger mi stupisce ancora, quasi mi commuove, quando spiega la scelta della fotografia in bianco e nero dicendo che si tratta di una forma di astrazione che permette di concentrare maggiormente il nostro sguardo, di andare più in profondità. «Il colore può essere superficiale, bello ma raramente mi colpisce». Come si evince dalla mostra e dal racconto esistenziale, Berger è un profondo conoscitore dell’Asia dove ha vissuto per diverso tempo. Qui con la sua Hasselblad ha portato un nuovo modo di fotografare fatto di lentezza e attenzione per sviluppare un processo di apprendimento e un atto conoscitivo graduali, dilatati nello spazio temporale. «Cerco persone con le quali instaurare un rapporto di


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 luglio 2021 • N. 29

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ambiente e Benessere Jeep wrangler 4xe ibrida È arrivato un vero fuoristrada ibrido plug-in munito di doppia propulsione: elettrica e termica

calore rinnovabile e sussidi vari Molti i sostegni comunali, cantonali e federali per incentivare la sostituzione dei combustibili fossili con sistemi di riscaldamento più efficaci

la venaria reale Il restauro non fine a se stesso, ma come via per aprirsi alla cultura e alla conoscenza

viticoltura emiliana Il viaggio di Bacco lungo lo stivale italiano si ferma a un passo dalla Romagna pagina 20

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Quando la malattia è «rara»

medicina È nato un nuovo centro per il

coordinamento della presa a carico sanitaria e sociale di pazienti non comuni

Maria Grazia Buletti In Svizzera il 7 per cento della popolazione deve fare i conti con una malattia rara. A livello nazionale parliamo di 500mila persone, delle quali 25mila sono nel nostro Cantone. Si stima che a livello mondiale il ventaglio delle malattie rare ne comprenda tra le 6mila e le 8mila: «Sono malattie non comuni (ndr: 5 casi ogni 10mila persone) che portano a un’invalidità cronica o addirittura a un rischio di morte», esordisce il professor Alain Kaelin, direttore medico e scientifico del Neurocentro della Svizzera italiana, che spiega: «Le malattie rare comprendono un tipo estremamente eterogeneo di sintomatologie che spesso le rende difficilmente riconoscibili perché presentano sintomi inabituali, sovente diversi e non sempre subito chiari». Siamo nell’ambito di malattie croniche con una lunga storia e una diagnosi difficile da raggiungere, che inoltre meritano una differenziazione fra adulto e bambino: «Il bambino sviluppa malattie neuromuscolari e metaboliche, disturbi renali, neuropatie e malattie rare di origine genetica. Mentre nell’adulto siamo spesso di fronte a malattie infiammatorie autoimmuni o degenerative che non hanno origine genetica chiara, malattie metaboliche (che sebbene di origine genetica possono manifestarsi ad esempio con un ictus, malattia di Fabbri o altro) o malattie oncologiche. Queste ultime già sono indirizzate verso una presa a carico specifica oncologica». Kaelin sottolinea dunque la grande differenza fra adulto e bambino, determinante per una corretta presa in carico dell’uno o dell’altro, e la relativa difficoltà di un percorso ottimale, che va a pesare sulla sofferenza del paziente e della sua famiglia: «Una malattia rara coinvolge spesso la vita di tutto il nucleo famigliare e ancora oggi può andare a gravare anche a livello sociale-assicurativo in quanto, malgrado il sospetto dell’origine genetica di una di queste malattie, non è permesso effettuare l’analisi genetica adeguata senza il permesso dell’assicuratore malattia. Malgrado il risparmio economico che l’indagine genetica favorirebbe, quest’ultimo spesso ne rifiuta il pagamento perché il legislatore obbliga a privilegiare altri criteri diagnostici o

terapeutici che a priori non possiamo definire adeguati come un’indagine genetica». Proprio riguardo a queste complicate e rare patologie, è nato il Centro per le Malattie Rare per i pazienti della Svizzera italiana presentato ufficialmente lo scorso mese di giugno da EOC e associazione Malattie Genetiche Rare Svizzera Italiana (MGRSI) che, nell’occasione, hanno sottolineato come purtroppo il percorso delle persone per ottenere una diagnosi appropriata sia «spesso lungo e difficoltoso». «Il nuovo Centro Malattie Rare della Svizzera italiana ha l’obiettivo di accogliere, seguire e coordinare le cure dei pazienti con sospetto di malattia rara, per mezzo di un approccio multidisciplinare e una presa in carico centralizzata e coordinata che permetta di confermare (o escluderne) definitivamente la presenza». A parlare è Claudio Del Don, presidente dell’associazione MGRSI e copresidente della Piattaforma sulle malattie rare della Svizzera italiana che, a proposito del funzionamento di questo neonato Centro (fondato in gennaio e operativo da aprile), spiega: «Accogliamo persone con un sospetto di malattia rara e le accompagniamo nel cammino per stabilire una diagnosi corretta nel più breve tempo possibile; in tal modo vogliamo favorire da un lato la messa in atto dell’approccio terapeutico adeguato, e d’altro canto un’immediata presa in carico sociale». Egli ribadisce come questo modo di agire, e la relativa coordinazione personalizzata, condurrà a migliori prognosi e qualità di vita dei pazienti colpiti da una di queste malattie non sempre facilmente individuabili o curabili con un percorso lineare privo di difficoltà. Considerati i criteri di efficacia e le differenze di presa in carico fra adulto e bambino, il Centro patrocinato da EOC mette in rete il Neurocentro della Svizzera italiana a Lugano (NSI) («porta d’ingresso per i pazienti adulti») con l’Istituto pediatrico della Svizzera italiana a Bellinzona (IPSI) («punto d’ingresso per i pazienti più piccoli»). «La struttura pensata sui due istituti permette la migliore presa in carico dei pazienti, con costi supplementari minimi in quanto il Centro si affida a organizzazione e competenze già esistenti: volevamo da subito fare affidamento solo sulle nostre forze, e ciò assume an-

Il professor Alain Kaelin, direttore medico e scientifico del Neurocentro della Svizzera italiana (a destra), e il presidente dell’associazione Malattie Genetiche Rare Svizzera Italiana, Claudio Del Don. (Stefano Spinelli)

cora più valenza in un momento in cui questa pandemia sta gravando pesantemente sulla spesa sanitaria», afferma Kaelin che ha guidato il progetto del CMRSI insieme a Gian Paolo Ramelli dell’IPSI. Per quanto attiene ai riconoscimenti, alla voce di Kaelin si allinea quella di Del Don che ha partecipato al gruppo di lavoro per l’elaborazione del progetto e alla sua messa in pratica, facendo poi parte dell’Advisory board (che ha il compito di supervisionarne il funzionamento): «Il Centro è sostenuto anche dal Dipartimento della Sanità e della Socialità (DSS), è inserito nella strategia nazionale sulle malattie rare della Confederazione ed è stato riconosciuto a livello nazionale dal Coordinamento nazionale malattie rare

(KOSEK) come uno dei nove centri certificati in Svizzera». Per la Svizzera italiana si apre dunque l’opportunità di disporre di una struttura multidisciplinare per i pazienti con un sospetto di malattia rara, e il professor Kaelin sottolinea l’occasione anche per i medici curanti di famiglia e altri specialisti di potervi fare capo: «Essi potranno contare su un centro di competenza che permette la presa a carico rapida ed efficace di questi pazienti; poi, al di là dell’aspetto clinico, non dimentichiamo che queste persone hanno bisogno di lavoro, mezzi finanziari, aiuti domestici e quant’altro». Situazioni che, spiega Del Don, «possono essere affrontate nel Centro grazie alla multidisciplinarietà, con la

collaborazione ed esperienza degli assistenti sociali dell’associazione Malattie Genetiche Rare Svizzera Italiana». Un Centro per accedere al quale ci si può rivolgere direttamente al proprio medico, all’associazione Malattie Genetiche Rare Svizzera Italiana o al Centro stesso passando per EOC. Un passo fondamentale per queste persone su cui spesso grava una situazione sociosanitaria complessa e personale che inevitabilmente coinvolge pure la famiglia. Un’ultima soddisfatta riflessione del professor Kaelin sul percorso che ha portato alla nascita del Centro Malattie Rare della Svizzera Italiana: «Quando il terreno è fertile, si cresce malgrado la meteo non sia sempre favorevole, e così è stato».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 luglio 2021 • N. 29

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ambiente e Benessere

Un fuori strada puro

motori Si chiama Jeep Wrangler 4xe ed è un ibrido plug-in potente, sicuro e preciso

Mario Alberto Cucchi Non azzardatevi a chiamarlo SUV. Jeep Wrangler è indubbiamente un fuoristrada vero. Da sempre costruito negli Stati Uniti d’America, è caratterizzato stilisticamente dalle sette feritoie frontali. Un’automobile che pur rimanendo fedele a se stessa si è evoluta negli anni sino ad oggi con la 4xe ovvero la sua versione più tecnologica di sempre.

Oltre a due motori elettrici si aggiunge un efficiente motore turbocompresso a quattro cilindri Una vera ibrida plug-in munita di doppia propulsione: elettrica e termica. I motori in realtà sono addirittura tre. Dei due elettrici uno è dedicato a fornire potenza e l’altro alla gestione dei servizi, ma all’occorrenza può anche diventare un generatore di tensione. Ad alimentarli, un pacco batteria agli ioni di litio da 96 celle, 17 kWh e 400 volt. Gli accumulatori si trovano insieme ai dispositivi di controllo sotto i sedili posteriori, al riparo dagli agenti esterni in un contenitore stagno. Per ricaricarle sono necessarie meno di tre ore con una colonnina da 7,4 kW di potenza, che diventano 7 ore e mezza se collegati a una normale utenza domestica. Discreta l’autonomia: viaggiando a zero emissioni si possono arrivare a

percorrere poco più di cinquanta chilometri. Ai due motori elettrici si aggiunge un efficiente motore turbocompresso a quattro cilindri alimentato a benzina. Il tutto è abbinato a un cambio automatico ZF a otto marce TorqueFlite. Resta invariata la linea di trasmissione, dato che il motore elettrico si trova proprio a monte del cambio. La

trazione è di norma posteriore, mentre le quattro ruote motrici sono inseribili a richiesta. Ma come funziona? La cosa più semplice è far gestire tutto all’elettronica e a quel punto la Wrangler si muove in configurazione ibrida. A bassa andatura, ad esempio nel traffico urbano ma anche in fuoristrada, viene spesso

utilizzata solo l’unità elettrica che con i suoi 143 cavalli sposta silenziosamente i 2300 chilogrammi della 4xe. Quando si abbassa il livello di carica o quando è richiesta maggior potenza si inserisce il motore a benzina. Le prestazioni sono fin esagerate per un fuoristrada puro. Jeep Wrangler 4xe accelera da 0 a 100 km/h in soli 6,4

secondi ed eroga fino a 380 cavalli di potenza sistema. La coppia massima combinata è pari a 637 Newtonmetro sempre disponibili. Inutile? Quando si mettono le ruote fuori dall’asfalto la potenza appare senz’altro eccessiva ma va detto che si può guidare anche con un filo di gas. Ecco allora che l’erogazione della coppia rende davvero unica la precisione nei passaggi più difficili in fuoristrada. L’ibrido plug-in non snatura il mezzo e le sue caratteristiche, ma anzi rende Wrangler 4xe (ndr: si legge «quattro per e») più controllabile ai bassi regimi. Il salto tecnologico è davvero notevole rispetto al passato anche sul fronte della sicurezza. Disponibili i più avanzati sistemi ADAS come il controllo della velocità adattativa e la frenata automatica. E se da una parte la trazione elettrica consente di apprezzare tutti i suoni della natura, dall’altra Wrangler può essere utilizzata anche come discoteca itinerante grazie all’impianto audio Alpine a nove altoparlanti con subwoofer da 552 Watt di potenza massima. Chissà cosa ne avrebbero pensato nel 1941 quando la leggendaria Jeep Willys portava nel mondo il concetto di trazione 4x4 e l’idea che qualunque terreno può essere affrontato con il mezzo giusto. Forse troppa tecnologia? Wrangler ha raccolto il suo testimone incarnandone i valori, primo fra tutti la libertà. Da oggi anche quella di viaggiare elettrici seppure a prezzi non propriamente popolari. Jeep Wrangler phev 4xe parte da 76’490 franchi svizzeri. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 luglio 2021 • N. 29

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ambiente e Benessere

sostegno al calore rinnovabile Politica ambientale Incentivi comunali, cantonali e federali per produrre e distribuire energia termica «verde»

Elia Stampanoni Presentato a fine 2020, il nuovo decreto governativo sugli incentivi alla popolazione per il miglioramento energetico dei propri stabili è stato accettato a inizio anno e il 12 luglio 2021 è entrato in vigore il nuovo Programma promozionale per il periodo 20212025. Per questo quinquennio il Dipartimento del territorio ha previsto un credito quadro netto di 50 milioni di franchi e l’autorizzazione alla spesa di 130 milioni di franchi a favore di nuovi impianti o della conversione di quelli esistenti. Incentivi che rientrano nel «Pacchetto ambiente», il quale contempla pure il Fondo per le energie rinnovabili e la modifica della legge cantonale sull’energia (vedi boxino).

La promozione del programma Calore rinnovabile viene gestita a livello nazionale da SvizzeraEnergia Il credito con la relativa spesa lorda permette la continuazione del programma d’incentivi avviato nel 2011 e concernente l’efficacia ed efficienza energetica, la produzione e la distribuzione di energia termica da fonti indigene rinnovabili e la conversione delle energie d’origine fossile. Accanto alla conferma degli incentivi, sono pure state introdotte alcune novità rispetto alla disposizione precedente, come i contributi per la sostituzione delle pompe di calore esistenti e installate prima del 2000, la possibilità di beneficare di un incentivo per l’installazione di un impianto a pellet, oppure per diversi servizi di consulenza e per la certificazione. Lo scopo del programma cantonale d’incentivi consiste infatti anche nell’orientare il cittadino verso scelte più sostenibili dal profilo energetico e climatico e più rispettose dell’ambiente, oltre che nell’eliminare le barriere conoscitive sia a livello di domanda (proprietari di edifici) sia di offerta (imprese, artigiani o architetti). Le quattro tecniche attualmente più efficaci e applicabili per la sostituzione dei combustibili fossili sono le pompe di calore, gli impianti solari termici, il teleriscaldamento (alimentato con energia rinnovabile) o i sistemi a legna. Le pompe di calore traggono la loro energia dall’aria, dal sottosuolo, dalla falda freatica, da acque di scarico o superficiali come i laghi. «Di regola sono contraddistinte da costi d’investimento più elevati rispetto a una tra-

dizionale soluzione a nafta o gas, ma producono spese d’esercizio inferiori. Se si considerano i costi complessivi dell’impianto sulla sua durata di vita (investimento, funzionamento, manutenzione) risultano quindi più convenienti», spiega Michela Sormani, responsabile del Centro di coordinamento di SvizzeraEnergia per la Svizzera di lingua italiana. Un grande potenziale c’è nell’energia solare, come già emerso per il fotovoltaico (vedi «Azione» no. 8 del 22.2.2021 e no. 21 del 24.5.2021). Nel solare termico non si produce però elettricità, ma si fornisce acqua calda all’edificio tramite collettori solari dotati di un corpo metallico nero attraversato da canaline in cui circola acqua addizionata con un antigelo ecologico. Il calore solare viene così trasportato attraverso uno scambiatore di calore. Le reti di teleriscaldamento sono spesso alimentate con centrali termiche a legna o con pompe di calore. Anche il calore residuo dagli impianti di incenerimento dei rifiuti può essere sfruttato con il teleriscaldamento, e la Teris, valorizzando l’energia prodotta dalla termovalorizzazione dei rifiuti dell’Impianto Cantonale di Termovalorizzazione dei Rifiuti di Giubiasco, ne è un esempio («Azione» no. 03 del 13 gennaio 2014). Nel teleriscaldamento, l’acqua calda, o quella «fredda», viene trasportata agli utenti attraverso una rete di condotte isolate e interrate, poste a circuito chiuso. Una volta raggiunto lo stabile, il calore viene ceduto attraverso uno scambiatore, che sostituisce la caldaia, all’impianto di distribuzione interna. Il legname è una risorsa ampiamente presente sul nostro territorio e può essere sfruttata in pezzi oppure sotto forma di truciolato o pellet. Il pellet è prodotto da scarti di legno (segatura, trucioli e scarti non trattati), provenienti principalmente dall’industria della lavorazione del legno che, una volta secchi vengono sottoposti a un’elevata pressione per creare dei piccoli cilindri. Tutte queste fonti rinnovabili provenienti dal legname sono adatte per usi diretti tramite stufe e caldaie e in generale, come indica il sito del programma Calore rinnovabile di SvizzeraEnergia, «i riscaldamenti a ceppi di legna sono l’ideale per le case monofamiliari, quelli a pellet sono adatti anche alle piccole case plurifamiliari e agli insediamenti, mentre i riscaldamenti a truciolato sono più indicati per gli edifici di medie e grandi dimensioni». Anche per alimentare una rete di teleriscaldamento si predilige solita-

mente il cippato (truciolato) e sono molti gli esempi che l’Associazione per l’energia del legno della Svizzera italiana (AELSI) riporta sul suo portale (www.aelsi.ch): Airolo, Tesserete, Quinto, Caslano, Intragna, Poschiavo, Madonna del Piano, Gordola, Coldrerio, Prato Sornico, Poschiavo, oppure la centrale termica di Losone, presentata su «Azione» no. 49 del 3.12.2018. Il programma «Calore rinnovabile» di SvizzeraEnergia vuole dare il suo contributo nel ridurre le emissioni di CO2 del nostro Paese. «Il parco edifici svizzero genera un terzo di tutte le emissioni di CO2 in Svizzera e, a lungo termine, i sistemi di riscaldamento a energia rinnovabile sono più convenienti», citava il lancio del programma

il Dipartimento del Territorio in sede di presentazione del Pacchetto ambiente, «mirano a mettere a disposizione dei cittadini maggiori risorse per accelerare il cambiamento necessario per raggiungere una società al 100% rinnovabile. L’intento è anche di favorire l’indotto economico locale e dare un ulteriore impulso allo sviluppo di un’economia verde, con tecnologie sostenibili, innovative dal profilo energetico, climatico e ambientale». Ulteriori sostegni per far fronte alle sfide energetiche sono poi previsti in alcuni settori legati al risanamento degli edifici, alle energie rinnovabili e all’efficienza energetica con misure a livello federale, cantonale o comunale.

vuole sostenere con misure concrete la politica energetica cantonale, operando negli ambiti dell’efficienza energetica, delle energie rinnovabili e della mobilità sostenibile, in collaborazione con gli attori sul territorio. I proprietari immobiliari che richiederanno una prima consulenza «Calore rinnovabile» potranno ora beneficiare di un sostegno finanziario grazie al Programma promozionale in ambito energetico, come ci conferma Luca Pampuri, responsabile del settore Consulenza per l’Associazione TicinoEnergia: «Per quanto riguarda gli incentivi legati alla consulenza in ambito residenziale – aggiunge Luca Pampuri – il programma prevede l’incentivazione dell’etichetta CECE e del rapporto di consulenza CECE, della certificazione Minergie e dei relativi prodotti SQM Costruzione e SQM Esercizio. È inoltre programmata l’incentivazione di due recentissimi prodotti, la già citata “prima consulenza” del programma Calore rinnovabile e la Bussola Energia, uno strumento sviluppato dalla nostra Associazione e sostenuto sia dal Cantone sia da SvizzeraEnergia». link

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Pacchetto ambiente I tre messaggi messi in consultazione il 1° ottobre 2020 e parte del «Pacchetto ambiente» aggiornano e applicano la politica energetica e climatica cantonale. Oltre al credito netto di 50 milioni, con la relativa spesa lorda di 130 milioni di franchi per il periodo 2021-2025 di cui sopra, gli altri messaggi approvati a inizio maggio e ad esso strettamente correlati sono quello concernente la modifica della legge cantonale sull’energia dell’8 febbraio 1994 (Len) e quello per il rinnovo dei prelievi sulla produzione e consumo di energia elettrica a favore del Fondo per le energie rinnovabili (FER), incluso lo stanziamento di un credito straordinario di 5 milioni, pure destinato ad alimentare il fondo. I messaggi, come indicava in una nota

Calore rinnovabile sul sito di SvizzeraEnergia. Promosso a partire dal 2020 dall’Ufficio federale dell’energia, dai Cantoni e da numerose associazioni del settore, «Calore rinnovabile» si rivolge principalmente ai proprietari privati di immobili ma anche a installatori e consulenti, come spiega Michela Sormani: «Ai primi si dà la possibilità di richiedere una consulenza specifica per la sostituzione degli impianti di riscaldamento, ma anche di trovare altre indicazioni utili, tra cui il calcolatore dei costi di riscaldamento con paragone fra le diverse tecnologie, i sette passi per sostituire il riscaldamento e anche diversi “buoni esempi”. Ai tecnici e ai consulenti si offre la possibilità di diventare collaboratori attivi del programma accreditandosi attraverso specifici corsi di formazione gratuiti (organizzati in Ticino dall’Associazione TicinoEnergia in collaborazione con suissetec), per svolgere la “prima consulenza” e quindi apparire sulla mappa online disponibile sul sito del programma». La promozione del programma «Calore rinnovabile» viene gestita a livello nazionale da SvizzeraEnergia, coinvolgendo le varie antenne cantonali. TicinoEnergia, un’associazione neutrale e senza scopo di lucro fondata nel 2008 su iniziativa della Repubblica e Cantone Ticino, si occupa invece di formare i futuri consulenti «Calore rinnovabile». L’Associazione

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 luglio 2021 • N. 29

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ambiente e Benessere

i «cenerentoli» del restauro

reportage Un viaggio culturale per osservare chi lavora nei laboratori del Centro Conservazione Restauro

La Venaria Reale

Luigi Baldelli, testo e fotografie Si definiscono i «cenerentoli» del restauro. Li hanno chiamati parvenu, giovani che vogliono cambiare i metodi del restauro. Ma invece non sono altro che ottimi professionisti, eccellenze nel loro campo, appassionati, che dedicano tempo, energie e amore a quella scienza che è il restauro, ridando vita e riportando alla loro bellezza opere d’arte dal valore inestimabile, che il tempo o l’incuria ha rovinato. Sono i docenti, i restauratori, lo staff tecnico, gli storici dell’arte e gli studenti del Centro Conservazione Restauro La Venaria Reale, piccolo storico comune alle porte di Torino. Lo spazio che occupano è imponente e bellissimo: le ex Scuderie e il Maneggio settecenteschi all’interno del complesso della Reggia di Venaria, dove tutto l’anno ci sono mostre ed eventi culturali. Un luogo ideale dove lavorare e dove sono stati raggiunti importanti successi nel campo del restauro seguiti da riconoscimenti nazionali e internazionali. Anche se giovane, questo Centro è una vera eccellenza italiana. «Sì, siamo davvero un Centro giovane, siamo nati nel 2005, – mi racconta Michela Cardinali, Direttrice Laboratori Restauro e Scuola Alta Formazione – ma con l’idea molto chiara di quello che sarebbe stato il percorso: portare valore alla con-

servazione, essere un nodo strategico e un luogo d’incontro. Ma soprattutto far capire che il restauro non è solo il restauro fine a se stesso, ma una strada per aprirsi alla cultura e alla conoscenza, un modo per trasmettere e ricevere insegnamenti e sapere». L’architettura del Centro è caratterizzata da imponenti spazi, lunghi e alti corridoi, grandi sale. Ma è quando si entra nei veri e propri laboratori di restauro che si rimane ancora più affascinati. Sono il cuore del centro, i luoghi dove le idee, le esperienze e le intuizioni si muovono tra professionisti, docenti e studenti. «Ogni anno accogliamo dai 20 ai 25 studenti al nostro Corso di laurea magistrale, – continua a dirmi la Direttrice – e se le università mettono la teoria, noi mettiamo la pratica, le opere. I docenti e i vari professionisti di ogni settore, oltre a lavorare direttamente sulle opere d’arte, seguono passo passo gli studenti, per migliorare e aumentare la loro crescita conoscitiva. Ma non è una strada a senso unico, perché anche gli studenti portano valore e innovazione». Su un tavolo, un grande stendardo decorato su entrambe le facciate: arriva dalla Pinacoteca di Brera. È messo abbastanza maluccio, ci sarà da lavorare. «Questo stendardo è stato oggetto di tesi di una nostra studentessa, poi, noi come Centro ci siamo mossi e abbiamo trovato i fondi per finanziare il restauro e il Getty Institute ha deciso

di sostenerci. Perché per noi – mi spiega ancora Michela Cardinali – seguire gli studenti è un obiettivo strategico. Non ci interessa solo far lavorare gli studenti nei vari laboratori, per noi è importante aiutarli, seguirli e sostenerli nei loro progetti». Poco lontano una ragazza, con dei grandi occhiali con la lente d’ingrandimento, accarezza delicatamente con il pennello un disegno su tavola, con pazienza certosina, lentamente. Alza appena la testa per salutarci, per poi tuffarsi di nuovo nella tavolozza dei colori e sul disegno. All’interno del Centro ci sono cinque percorsi formativi (Dipinti su tela e tavola, sculture, arredi arte contemporanea; Manufatti e derivati; Manufatti in tessuto e in pelle, manufatti in metallo, ceramica e vetro; Carta, Manufatti fotografici, cinematografici e digitali). Il rapporto studenti-docenti è di 5-1. «Si ma poi ci sono i tutor, i restauratori, i tecnici. Insomma non sono mai soli. E aggiungo anche, – lo dice con orgoglio la Direttrice – che la percentuale di studenti che escono dal Centro e che poi trovano lavoro è molto alta, altissima». Un’altra prerogativa del centro è quella di avere grandi spazi. I soffitti dei laboratori sono alti più di dieci metri, le pareti lunghe anche venti. Questo permette di avere opere che non troverebbero spazio in altri posti. Entriamo nel laboratorio delle

sculture in legno dove sono «in cura» statue del Museo Egizio di Torino, e anche qui sono tutti concentrati sul loro lavoro. I «clienti» del Centro sono non solo musei italiani, ma anche francesi, spagnoli, tedeschi, solo per citarne alcuni. E anche i musei vaticani o l’Area archeologica di Pompei. Si sono rivolti alle cure del Restauro della Venaria anche le regioni del Centro Italia e dell’Emilia Romagna per le loro opere d’arte danneggiate dal terremoto. Il Centro Conservazione Restauro la Venaria Reale è una fondazione pubblica e privata, dove i soggetti principali sono il Ministero della Cultura, quello della Ricerca, ma anche la Regione Piemonte, la Provincia e Fondazioni private. Nel 2019 ha restaurato più di 13mila opere. «All’inizio – continua la Direttrice – ci siamo mossi sul territorio, per poi spostarci a livello nazionale e infine siamo arrivati al livello internazionale. Adesso, ad esempio, siamo a Gerusalemme dove ci è stato affidato l’incarico dai Custodi della Terra Santa per la conservazione e il restauro di diversi settori della Basilica del Santo Sepolcro» dice ancora con una punta di orgoglio. Continuo a entrare e a uscire dai vari laboratori e quando entro in quello degli arredi lignei, vedo una ragazza stesa a terra che sistema gli ultimi dettagli di una vecchia carrozza, adesso completamente rimessa a nuovo, appartenuta a Re Umberto I e ora di pro-

prietà del Quirinale. Al piano superiore, docenti e studenti lavorano su una grande vetrata del 1600, «aggiustando» vetri colorati e metalli rovinati. Nel salone accanto, un immenso arazzo sdraiato su un tavolo viene controllato, studiato e analizzato, per poi procedere al restauro. Il Centro la Venaria non è però solamente un luogo per «cose antiche», ma anche l’arte moderna è di casa: dai capolavori di Kiefer a quelli di Casorati, di Barkat o di Garelli, oppure Kandinskij, solo per citarne alcuni, sono finiti sotto le attente e diligenti cure del Centro. A cui non manca nulla, neanche i laboratori scientifici, dove chimici, biologi, tecnici di laboratorio, esperti di informatica si confrontano quotidianamente con i restauratori su temi legati alla conservazione e al restauro. Solo nel 2020 sono state fatte più di 17mila analisi chimiche. Ciò che permette di avere sempre diagnosi e analisi delle opere da restaurare, ma anche di poter fare monitoraggi per la conservazione preventiva delle opere. «Il fiore all’occhiello dei laboratori è questo macchinario – dice la Cardinali, aprendo una grande porta scorrevole dietro la quale si trova… una innovativa macchina per l’esecuzione di radiografie digitali e TAC su oggetti di grandi dimensioni – . È unica al mondo». Per spiegarmi ancora meglio il valore di questo apparecchio, interviene il tecnico che mi dice: «Per capire le dimensioni, se gli altri apparecchi possono fare una TAC a una mummia, noi la facciamo con tutto il sarcofago». Ecco, chiarissimo. Allora domando: «Siete giovani e in così pochi anni avete raggiunto questo livello di eccellenza, dove volete arrivare?». Ride, la Direttrice e risponde: «Vogliamo arrivare a fare i restauri su Marte», poi diventa di nuovo seria e continua: «Ora riapriamo il Centro anche alle visite, con approfondimenti su varie tematiche a cura di professionisti. Perché il restauro ha un grande fascino, piace al pubblico. Ma il nostro obiettivo è creare consapevolezza nelle persone: non solo restauro, ma conservazione. Questa è la nostra missione educativa».


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ambiente e Benessere

andar per vini in emilia

scelto per voi

Bacco giramondo Continua il viaggio nelle regioni d’Italia, dividendo in due la terra

delle città medioevali e della Riviera adriatica – Prima parte Davide Comoli Regione cerniera tra l’Italia continentale e quella peninsulare, l’Emilia Romagna si apre a nord verso la «Bassa» Padana e accompagna il fiume Po verso la sua foce: la via Emilia divide questa parte dal versante sud e più orientale, dove la Romagna viene bagnata dal Mare Adriatico. Nata nel 1860 sulle ceneri dei ducati di Parma e Piacenza, di Modena e Reggio, di Ferrara e delle terre che lo Stato Pontificio possedeva a nord di Roma, questa regione vanta zone molto differenti tra loro, tipologie e vitigni diversi, tradizioni che alle volte sembrano molto distanti l’una dall’altra, tutte sfumature mantenute grazie anche al fatto che sia gli emiliani sia i romagnoli tengono molto alla loro identità. In rispetto, dunque, a queste differenze, il dividere la regione in due articoli separati ci sembra cosa logica, e partiremo dall’Emilia solo per scelta casuale. L’archeologia colloca la coltura della vite in questa regione molto indietro nel tempo: reperti dell’età del bronzo (1700 a.C.) rimandano gli albori della viticoltura a quell’epoca. Ma come testimonia lo scrittore latino Varrone, furono gli Etruschi a far compiere un salto di qualità alla coltivazione delle viti in questa zona, portando nuovi vitigni nonché adeguate tecniche produttive. Sta di fatto che quando il console romano Marco Emilio Lepido nel 187 a.C.

fece costruire la via consolare Emilia, di certo constatò con ammirazione la successione di vigne e l’abbondanza di vino. Non per nulla, autori latini scrivevano di questa regione lodandone l’eccezionale produzione fino a 312 hl/ha! Sebbene nessuna fonte si domandi se tanta abbondanza corrispondesse ad altrettanta qualità. Tra il XIII e il XIV secolo, compaiono il Trebbiano, che a detta di Pier de’ Crescenzi «fa nobile vino e ben serbatojo» e la Malvasia; nel XVII secolo compare anche il Lambrusco, come figlio delle viti menzionate da Catone, il quale avrà un successo strepitoso. Il XIX secolo vede invece la crisi fillosserica che distruggerà il 90 per cento dei vitigni della regione. Lungo la direttrice della Via Emilia, scendendo verso sud, si attraversano le provincie emiliane – con l’eccezione della provincia di Ferrara, situata poco più a nord-est: ebbene il vigneto emiliano si estende per circa 28mila ettari. La parte nord-occidentale è quella dei Colli Piacentini e, percorrendo la Strada dei Vini, sembra di entrare in una fiaba fra castelli, borghi e pievi, sulle valli Tidone, Trebbia, Nure e Arda. Qui il vino più rappresentativo è senz’altro il Gutturnio (Barbera e Croatina), un rosso di buon corpo, simile ai rossi dell’Oltrepò Pavese, d’abbinare con tipici Pisarei e fasò. Accanto a lui troviamo un bianco leggero e talvolta frizzante, l’Ortrugo, prodotto da uve omonime, da

Vigneti sui colli parmensi di Langhirano. (pixabay.com)

provare con i ravioli burro e salvia, senza dimenticare i profumati e gustosi salumi piacentini. Proseguendo il nostro itinerario incontriamo l’incantevole Castellarquato, castelli da sogno e dolci colline ricoperte di vigneti, ci fermiamo in Val Trebbia per un ristoro dell’anima nell’Abbazia di San Colombano a Bobbio. Gustiamo qui il Trebbiano e a Monterosso Val d’Arda una profumatissima Malvasia di Candia, Moscato, Trebbiano e Ortrugo. Scendendo verso Parma, fate una sosta a Vigoleno, dove si produce una chicca enologica come il Vin Santo di Vigoleno, in cui entrano pure vitigni come il Sauvignon e la Marsanne. Proseguendo per Parma, la viticoltura si concentra nelle zone pedecollinari, dove il Sauvignon è il vitigno più rappresentativo e i vitigni coltivati fanno pendant con quelli sopraccitati. Abbiamo poi apprezzato molto lo Spumante Metodo Classico prodotto con uve Pinot Nero, Chardonnay e Pinot Bianco, gradevolissimo aperitivo, quando ci siamo fermati nel Parco Regionale nell’area compresa tra i fiumi Taro e Ceno, dove paesaggi rurali incoronano prodotti agroalimentari di assoluta eccellenza (prosciutto di Parma, salame felino, tartufo nero di Fragno e naturalmente il parmigiano reggiano). Varcando il confine della provincia di Reggio Emilia si entra nel regno dei vini frizzanti: qualche chilometro prima del capoluogo inizia l’area del Lambrusco, tra Montecchio, Gualtieri, Cavriago e comuni limitrofi, si produce il Reggiano Lambrusco Salamino, gradevole e fresco, forse il più leggero e beverino fra tutti gli altri Lambruschi. Salendo lungo le pendici dell’Appennino troviamo Bibbiano e raggiungiamo Canossa, con i ruderi del castello di Matilde. Bagnati da un frizzante e leggero Bianco di Scandiano, prodotto con uve Sauvignon (qui chiamato Spergola), abbiamo gustato il «Gnocco fritto» e «l’Erbazzone», una torta salata a base di Parmigiano Reggiano DOP ed erbette. Il nostro viaggio ci porta a visitare le acetaie dell’aceto balsamico tradizionale di Modena DOP e a entrare nelle cantine dove si vinificano le diverse varietà di Lambrusco. Il più famoso è molto probabilmente il Lambrusco di Sorbara,

ma quelli con più corpo e violacei sono il Lambrusco Salamino di Santa Croce e il Lambrusco di Castelvetro, sono questi dei vini semplici che affondano le radici nella più autentica tradizione popolare della provincia di Modena. Poco prima di Bologna facciamo una deviazione verso nord-est in direzione della provincia di Ferrara, verso la fascia di costa tra il delta del Po e la foce del Reno, unica zona della provincia a vantare una produzione vitivinicola, caratterizzata dalla coltivazione di vitigni che crescono bene sui terreni sabbiosi. Il vitigno più famoso è il Fortana, le cui origini potrebbero risalire alla civiltà etrusca che aveva fondato la civiltà di Spina. I vigneti di costa, allevati su dossi sabbiosi, tra i boschi di lecci con viti basse, hanno resistito al flagello della fillossera, e sono infatti a «pied franc», senza portainnesto americano. La DOC Bosco Eliceo Bianco e Bosco Eliceo Rosso, è prodotta con uve Fortana, Merlot, Trebbiano e Sauvignon. Sono vini unici nel loro genere; assolutamente da provare in una delle tante trattorie della valle di Comacchio, è il Bosco Eliceo Rosso con «l’anguilla alla brace». Chiude il panorama della vitivinicoltura dell’Emilia una zona completamente diversa da quelle precedenti. Il nostro viaggio continua, infatti, in provincia di Bologna, percorrendo la strada dei Colli Bolognesi. L’inizio dei vigneti di Sangiovese ci fa capire che siamo vicini alla Romagna: piccoli gioiellini enologici si trovano cammin facendo tra i crinali e le vallate appena fuori Bologna, fino ai confini della Toscana. Tra i vitigni cosiddetti internazionali ritroviamo anche il Barbera e un Bianco prodotto con uve Albana, sebbene il più caratteristico sia senza dubbio quello prodotto con le uve Pignoletto, utilizzato anche per la produzione di vini frizzanti e spumanti, leggeri e particolarmente piacevoli. Consigliamo comunque di provare il Pignoletto Classico DOCG, vino morbido e sapido, per accompagnare un piatto di «Tagliatelle di castagne con pancetta e pecorino». Il nostro viaggio continuerà sul prossimo numero dedicato alla rubrica «Bacco giramondo» verso la Romagna, regione che dal punto di vista vitivinicolo non ha nulla da spartire con l’Emilia.

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Con il suo colore violaceo, una sostenuta acidità e tannini abbastanza leggeri, morbido che quasi vi strega, il Gamay della maison Gilliard di Sion dona un vino dalla stupefacente intensità olfattiva, dove predominano il cassis, la ciliegia e, tra i profumi floreali, la violetta. Vitigno di origine borgognona, il Gamay ha subito trovato il suo habitat ideale sui terreni granitici del Vallese, dove la natura s’avvicina molto ai terreni del Beaujolais-Villages e trova i suoi terroirs ideali tra Martigny e Saillon. Facile da bere, per il suo tasso alcolico ragionevole, il Gamay va bevuto giovane e, per la sua natura fruttata, lo raccomandiamo con piatti di salumeria, carni bianche cucinate in modi diversi e piatti di formaggio. Nella stagione fredda lo abbiamo provato con una fondue chinoise: una meraviglia. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 14.90. Annuncio pubblicitario

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ambiente e Benessere

la bontà delle sfogliatelle Dire quale sia il dolce più buono, non ha senso. Però ce ne sono una manciata di quelli più amati, per ciascuno di noi. Nella mia manciata trova un posto d’onore la sfogliatella, un mitico dolce napoletano. Lo so, è difficile da fare, e ci vuole tanta perizia. Però poi…

È un mitico dolce napoletano molto complicato da preparare, ma il risultato può davvero valere la fatica E dunque, se volete provarci, ecco come procedere. Setacciate 1 kg di farina tipo Manitoba nella ciotola del robot per impastare, quindi unite 5 g di sale e amalgamatela con circa 3 dl di acqua (unitela poca alla volta perché la pasta deve risultare dura). Appena la pasta comincerà a raggrupparsi in gnocchetti, trasferitela sulla spianatoia e schiacciatela con la mano formando un impasto omogeneo; lavoratela per 30’, premendola con i palmi delle mani e battendola col matterello senza tirarla o stracciarla. Quando sarà liscia ed elastica formate una palla, avvolgetela nella pellicola per alimenti e lasciatela riposare per 1 ora. Alla fine del riposo, riprendete la pasta dividendola in vari pezzi che in seguito farete passare uno alla volta, più volte, tra i rulli della macchina per la pasta aperti al massimo, fino a ottenere delle strisce strette, lunghe, lisce e ben compatte spesse 2 cm; queste liste andranno unite tra loro fino a ottenere un nastro stretto e lungo parecchi metri: durante questa operazione dovrete fare attenzione che non si allarghi e che la pasta non si rompa. A questo punto passate la sfoglia, stringendo man mano i rulli, fino a renderla dello spessore di circa 2 mm, quindi ripiegatela su sé stessa a fisarmonica in un angolo della spianatoia.

Stendetene circa mezzo metro, spianate la sfoglia allo spessore di 1 mm, facendo sempre attenzione che non si allarghi, spennellatela con un velo di strutto sciolto e arrotolatela strettamente su sé stessa. Senza tagliare la parte unta e arrotolata, spianatene un altro mezzo metro, spennellatelo di strutto e arrotolatelo. Proseguite così fino a esaurimento della pasta che, alla fine, avrà formato un rotolo di circa 30 cm di lunghezza e 7 o 8 di diametro: ungetelo esternamente di strutto, arrotolatelo nella pellicola e mettetelo in frigorifero per almeno 24 ore. Nel frattempo, portate a bollore in una casseruola 7,5 dl di acqua con un pizzico di sale, versate a pioggia 250 g di semolino e cuocete per circa 5’, mescolando di continuo. Fatelo raffreddare, poi amalgamateci 250 g di ricotta setacciata, 250 g di zucchero, mezza bustina di vaniglia, un pizzico di cannella e, una alla volta, 2 uova; a parte tritate 60 g di cedro e scorze di arancio canditi e uniteli al composto. Tagliate il rotolo di pasta a fette dello spessore di 1 cm, ungete ogni fetta con lo strutto, appoggiatela nel palmo della mano e premete delicatamente il centro facendo scivolare le spire del nastro su sé stesse, dal centro verso il bordo, in maniera che si accavallino leggermente l’una sull’altra: ogni fetta risulterà leggermente incavata. Schiacciate le striscioline con delicatezza in modo da sigillarle una sull’altra e, premendo il centro con il pollice, date a ogni fetta la forma di un cono; mettetevi all’interno un cucchiaio di ripieno, riavvicinate i bordi senza sigillarli e adagiate ogni sfoglia su una placca foderata con carta da forno. Cuocete le sfogliatelle in forno alla massima temperatura per 5’ poi sfornatele, tenetele all’aria per 2’ scolando l’eventuale grasso che si potrebbe formare sul fondo della placca, poi proseguite la cottura per 10’ (la cottura è ultimata quando le sfogliatelle sono di colore dorato). Toglietele dal forno, spolverizzatele di zucchero a velo e servitele, meglio se calde.

csF (come si fa)

Pxhere.com

Allan Bay

Stu Spivack

gastronomia Ore e ore di lavorazione e una spolveratina di zucchero al velo prima di assaggiarle

Anche io non li mangio da tanto tempo: sostanzialmente perché per farli servono 2 casseruole e una pentola! Parlo degli gnocchi cosiddetti soffiati, che sono diversi dagli onnipresenti, e molto amati da tutti, gnocchi di patate. Vediamo come si fanno. Gnocchi soffiati con ragù. L’accostamento con un ragù è classico, ma qualsiasi sugo di qualsiasi tradizione va bene.

Ingredienti per 4 persone: 400 g di ragù a piacere, soffritto di cipolle, carote, sedano e altro a piacere, concentrato di pomodoro, aglio, peperoncino secco, vino bianco, sale. Per gli gnocchi, 125 g di latte, 125 g di acqua, 150 g di farina 00, 100 g di burro, 60 g di grana grattugiato, 4 uova, olio di oliva, sale. Fate un ragù di carne, di pesce o vegetale, a piacer vostro, ma ricco di soffritto, quindi usando almeno 2 cipolle, 2 gambi di sedano e 1 grossa carota, tagliate a dadini e stufate per 20 minuti con poca acqua, da aggiungere al ragù fin da inizio cottura. In una casseruola, fate soffriggere uno spicchio di aglio e un peperoncino secco sbriciolato in un filo di olio, unite il ragù, sfumate con 4 cucchiai di vino bianco, aggiungete 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro stemperato in poca ac-

qua e fate cuocere per pochi minuti a fuoco basso. Regolate di sale. In un’altra casseruola portare a ebollizione il latte e l’acqua con il burro tagliato a pezzettini e mezzo cucchiaino di sale. Quando tutto bollirà e il burro sarà sciolto, levate la casseruola dal fuoco e unite la farina in un sol colpo. Rimettete sul fuoco e mescolate con un cucchiaio. Cuocete per 4 minuti poi fate raffreddare il composto e unite le uova una alla volta, sempre mescolando. Con l’aiuto di un sac-a-poche versate l’impasto a tocchetti, tagliandoli con una forbice, in una pentola con abbondante acqua bollente salata. Appena vengono a galla, scolateli con una schiumarola e tuffateli nella casseruola con il ragù. Saltate per amalgamare unendo acqua di cottura se servisse. Regolate di sale.

Ballando coi gusti Oggi due ricette a base di cioccolato, che resta il Re degli ingredienti per i dolci.

coppa foresta nera

Bavaresi al cioccolato bianco e lamponi

ingredienti per 6 coppe: 200 g di ciliegie sotto sciroppo denocciolate · 4 cucchiai di kirsch · 200 g di pan di Spagna al cacao · 400 g di panna · 40 g di zucchero · scaglie di cioccolato o riccioli.

ingredienti per 6 bavaresi: 200 dl latte · 2 tuorli d’uovo · ½ cucchiaino di vaniglia

Mettete le ciliegie nel kirsch, mescolatele con le mani e lasciatele macerare per 30 minuti. Ricavate dal pan di spagna con un coppapasta dei dischetti rotondi e inseriteli nelle coppette. Scolate le ciliegie e asciugatele con carta da cucina. Sistematele sopra i dischetti. Montate la panna ben fredda unendo lo zucchero e trasferitela in una sac-a-poche. Formate uno strato abbondate di panna montata sopra le ciliegie. Copritelo con le scaglie di cioccolato. Terminate le coppe con un ciuffo di panna e una ciliegina.

in polvere · 100 g di zucchero · 1 cucchiaino di maizena · ½ bacca di vaniglia · 4 g di gelatina · 170 g di cioccolato bianco · 250 g di panna · 1 pizzico di sale · 125 g di lamponi. In una casseruola portate in ebollizione il latte, unitevi il sale e la bacca di vaniglia e lasciate infondere per 30 minuti fuori dal fuoco. Mettete la gelatina in acqua fredda. Montate i tuorli con lo zucchero e unitevi la maizena. Unite alla montata di tuorli il latte caldo. Portate a cottura dall’ebollizione per 1 minuto. Fuori dal fuoco unite il cioccolato bianco spezzettato e la gelatina. Mescolate per amalgamare. Lasciate raffreddare, mescolando spesso. Montate la panna ben fredda e unitela alla miscela di uova e cioccolato. Infine, aggiungete 125 g di lamponi e mescolate con delicatezza. Riempite degli stampini monoporzione meglio se in silicone. Fate raffreddare a temperatura ambiente, poi mette la crema in frigorifero e lasciate solidificare per almeno 4 ore. Accompagnate con altri lamponi.


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DOPPIAMENTE SOSTENIBILE

Fa bene sia alla nostra pelle che al nostro pianeta: Nivea Naturally Good Anti Age è il primo trattamento per il viso a impatto climatico zero. Grazie alla sua formula biologica estremamente efficace. Effetto duraturo contro le rughe A scoprire per primo l’effetto dell’estratto di bardana è stato un ricercatore di piante e agricoltore biologico tedesco. All’epoca un giornale lo aveva soprannominato «l’uomo che sussurra alle piante»: «Gert Horn aveva scritto una lettera all’industria cosmetica Beiersdorf descrivendo i suoi progetti con l’estratto di bardana Arctiina. Ne aveva già dimostrato scientificamente il principio attivo antirughe. “Ma avevo capito subito che non avrei potuto sollecitarli già qualche giorno dopo”, racconta Horn. Così ha imparato in fretta ad aver pazienza». La varietà locale di Arctium Lappa Nuda contiene una percentuale di Arctiina particolarmente alta. Questa sostanza stimola nettamente la formazione di collagene nelle cellule cutanee. Di conseguenza, la pelle ritrova la sua elasticità e le rughe risultano visibilmente attenuate già dopo due settimane.

Ci vollero sei mesi prima che la casa di cosmetici ricontattasse il ricercatore per confermargli i suoi risultati sul principio attivo naturale antirughe. Dopo altri anni di test e analisi nei suoi laboratori di ricerca sulla pelle, Beiersdorf ha lanciato un trattamento anti-età ad alta efficacia a base di bardana biologica: le creme da giorno e da notte Nivea Naturally Good Anti Age. La loro formula è composta al 99% di ingredienti naturali e vegani ed è priva di microplastiche. Così, la linea di trattamento ha ottenuto anche l’etichetta CodeCheck Green, un riconoscimento indipendente che contrassegna una percentuale massima di ingredienti naturali e innocui. Climaticamente neutro anche grazie alle plastiche rinnovabili Gran parte delle piante di bardana per la linea Naturally Good proviene dalla coltivazione

biologica dello scopritore dell’Arctiina nello stato federale tedesco di Sassonia-Anhalt. La linea è prodotta in Europa secondo standard di qualità molto severi. Il gruppo cosmetico è riuscito a fare un gigantesco balzo in avanti nella riduzione di CO2 grazie a un’innovazione dell’imballaggio: anziché essere di plastica nuova a base di petrolio, i vasetti e i coperchi delle creme sono realizzati con una plastica rinnovabile certificata a base di tallolio, un sottoprodotto della silvicoltura. «Inoltre, per i prodotti la cui impronta ecologica è già notevolmente bassa, compensiamo anche le emissioni inevitabili tramite progetti di riforestazione», indica Jean-François Pascal, vice-presidente Corporate Sustainability di Beiersdorf. «Ciò rende Nivea Naturally Good Anti Age la prima linea sul mercato di prodotti per la cura del viso a impatto climatico zero».

NIVEA Naturally Good Anti Age crema giorno 50 ml Fr. 13.95

Fonte della citazione: da «Welt», Sezione economia, «Der Pflanzenflusterer», pubblicato il 20.2.2011


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ambiente e Benessere

Bionda aurora e cielo azzurro

sport L’Europeo nomade consegna il titolo all’Italia e una nuova consapevolezza alla Nazionale svizzera

Giancarlo Dionsio Qualcuno ricorderà Nino Manfredi in Pane e cioccolata, meraviglioso e commovente film-commedia girato da Franco Brusati nel 1974. L’attore laziale, nei panni di un meridionale emigrato in Svizzera, si tinge i capelli di biondo per forzare i limiti del suo processo di integrazione nel ruvido ed impenetrabile tessuto sociale elvetico di quei tempi. Salvo poi farsi sbattere fuori a calci da un bistrot, per non essere riuscito a trattenere l’esultanza davanti al teleschermo, quando Fabio Capello segna, nel vecchio e leggendario stadio di Wembley (1973), la rete che regala all’Italia la prima vittoria su suolo inglese. In fondo perché non interpretare in quest’ottica la scelta cromatica di Granit Xhaka e Manuel Akanji durante gli Europei? I due, al pari degli altri rossocrociati non ritenuti degli svizzeri purosangue, sono stati crocefissi da buona parte dell’opinione pubblica e anche da parte di qualche testata giornalistica. Per la tintura, i tatuaggi, per le loro origini, e per altro, non da ultimo, per il mutismo manifestato mentre nell’aria risuonavano le note del Salmo svizzero. Dopo la deludente prestazione contro l’Italia, hanno però reagito con i fatti, sul campo. Completando la demolizione della Turchia, eliminando i Francesi, Campioni del Mondo in carica, con una prova superlativa, tutta cuore-gambe-testa, infine perdendo ai rigori contro la Spagna, dopo aver resistito in 10 contro 11 per oltre 40’, a causa della più che discutibile espulsione di Remo Freuler.

Ci sono, a mio modo di vedere, tre immagini forti che hanno segnato il cambiamento di rotta. Uno: la mano sul cuore durante il Salmo, quasi a voler sostituire con un gesto d’amore, un testo religioso, anacronistico e selettivo (come la mettiamo con atei, agnostici, musulmani, buddisti, eccetera?). Due: la disposizione in cerchio, abbracciati, prima dei supplementari con Xhaka che arringa i suoi con furore agonistico. Lo fa da capitano-giocatore contro la Francia, lo rifa da leader-squalificato contro la Spagna. Tre: Ian Sommer, in formato comandante della Patrouille Suisse, che corre verso i tifosi, seguito dagli altri piloti in assetto di grande parata. In quel momento molti avranno pensato: se anche il nostro cammino si concludesse qui, per noi sarebbe come vincere l’Europeo. Avevamo ritrovato gioco, fuoco, grinta, sudore, gioia e spirito di gruppo. Tantissima roba. Un capitale che ci ha poi consentito di sfiorare la semifinale. L’Europeo della Svizzera si è concluso a Bucarest attorno alle 20.30 di venerdì 2 luglio. Ciò non ha impedito ai nostri di essere accolti come degli eroi da una folla festante al loro rientro in patria. Sono tornati sorrisi e ottimismo. Lo sguardo è già proiettato verso la Coppa del mondo che si disputerà il prossimo anno in Qatar. I Rossocrociati ci credono. Forse, se non li attaccheremo di nuovo con le solite sterili polemiche su inni/salmi, tatuaggi e tinture, riusciranno a crescere ulteriormente. Più lungo del nostro è stato il cammino di Italia e Inghilterra, che domenica 11 luglio si sono affrontate nella fi-

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cese, e Jorginho, che milita in Premier League, c’erano giocatori della Serie A italiana, appartenenti quindi a squadre che da anni arrancano in Europa. L’Italia si è imposta ai rigori. Questo potrebbe lasciar supporre un sostanziale equilibrio fra le rivali. In realtà, dopo un primo tempo fatto di dubbi e timori, gli Azzurri hanno colonizzato Wembley e hanno impartito agli Ingle-

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regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «azione» e sul sito web www.azione.ch

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sudoku soluzione:

Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

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1. In alcune navi orna l’estremità

superiore del tagliamare 2. A volte precede il... fatto! 3. Si tolgono col laser 4. Il... trasteverino 5. Priva di attitudini 8. Essenziale... sulla pelle 10. Muore cadendo nel lago dove si specchiava 12. Il cacchione lo è dell’ape 13. C’era prima della fondazione del mondo 14. La casa più fredda 15. Un capitolo della geologia 16. 101 romani 17. Moneta del Perù 19. Pendono dai pozzi 21. Un famoso West 22. Signora dell’Olimpo 24. Le iniziali dell’attrice Autieri 26. Le iniziali dell’attrice Rocca

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oriZZonTali

1. Parenti e alimentari... 6. Aspro in latino 7. Delude chi sperava 9. Al contrario è un’incognita... 10. Preposizione articolata 11. Li... seguono in bilico 12. Elementi del poligono 13. Lo era Ray Charles 17. È un anagramma di «astro» 18. Aspri, acidi 19. Arnese manuale per rimuovere il fieno 20. Onda all’asciutto... 21. Biondi tendenti al rosso 23. Suona se manca una... 24. Fiume polacco 25. C’è anche quella da stiro 27. Parte inferiore del pistillo 28. Importante quella «X»

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nalissima giocata nel prestigioso stadio londinese di Wembley. Da una parte i rappresentanti della Premier League, il campionato più ricco e prestigioso, quello che negli ultimi anni ha sospinto più volte le sue squadre a imporsi nelle Coppe europee. Sul fronte opposto, al servizio di Roberto Mancini, fatti salvi un paio di innesti fondamentali come Verratti, proveniente dalla Ligue1 fran-

vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

Cruciverba Secondo alcuni studiosi, la città più antica del mondo sarebbe… Scopri il resto della frase leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere evidenziate. (Frase: 6, 5, 12)

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Nonostante tutto si è tornati a casa con la stima e l’abbraccio dei tifosi. (Keystone)

si una lezione, di carattere, di tattica, e soprattutto di fraseggio. Sembravano loro gli alfieri del campionato ritenuto più forte e prestigioso. Il CT Roberto Mancini ha vissuto una sorta di nemesi storica. Ottimo calciatore negli anni 80-90, bandiera della Sampdoria con Gianluca Vialli, il tecnico marchigiano aveva vissuto un rapporto conflittuale con la Nazionale. Solo 4 reti nelle sue 36 apparizioni. Il suo percorso da allenatore degli Azzurri si sta invece rivelando una marcia trionfale. Imbattuto da 34 partite, record assoluto, molte reti fatte e poche incassate. Il tutto spesso condito con dell’ottimo calcio. Cosa chiedere di più? Forse un quinto Titolo mondiale. Obiettivo tutt’altro che velleitario. Il Mancio ha le carte in regola per indicare la via ai suoi ragazzi. Loro, per contro, sanno di avere in lui un’eccellente guida. La finale l’hanno vinta insieme. I ragazzi mettendo in campo cuore, corsa e coraggio, lui contribuendo con un coaching d’una lucidità spietata. Peccato per i fischi che hanno tentato di coprire l’inno di Mameli. Purtroppo è un malvezzo da estirpare, diffuso non solo in Inghilterra. L’aver ritrovato sul teleschermo, volti, sorrisi, lacrime, abbracci, canti, mi porta però a guardare con un pizzico di indulgenza queste manifestazioni di maleducazione collettiva, purché siano figlie dell’euforia transitoria per ciò che abbiamo ritrovato. Se gli Europei si fossero svolti un anno fa, in piena pandemia, senza pubblico, questo non sarebbe accaduto. E tutto sarebbe stato più triste.

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soluzione della settimana precedente

L’AFORISMA – Jim Morrison coniò questo aforisma: «La vita è come uno specchio…». Resto della frase: «…TI SORRIDE SE LA GUARDI SORRIDENDO». T

I S I O R R V I L E A I S E L S A G T A R E O D I O D O R E A D R I I O D E D E C A E M O T

I D O U S S A M T I N A I V

A M N I O T I C O

luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

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Politica e economia il calcio come panacea La vittoria italiana ai campionati europei ha riunito e rincuorato un popolo in ginocchio

leopoli e la tragedia del Donbass Anche nel raffinato capoluogo dell’ovest ucraino arrivano gli echi della guerra a bassa intensità scoppiata nel 2014

Fuga da londra La Brexit e il Coronavirus spingono molti ex espatriati a ritornare a casa

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vaccini in ordine sparso Problemi logistici, lacune finanziarie, incapacità gestionali hanno influito pesantemente sulla campagna di vaccinazione mondiale contro il Coronavirus pagina 31

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È battaglia sul razzismo americano

l’analisi Cosa sono la Critical race theory

e il 1619 project? Una nuova contesa valoriale e culturale divide gli Stati uniti

Federico Rampini Critical race theory (Teoria critica della razza), 1619 project: sotto queste bandiere si combattono le nuove «guerre di religione» che lacerano gli Stati uniti. Molto più che sulle riforme di Joe Biden, l’America si divide sulla nuova contesa valoriale e culturale. Chi ha il diritto di riscrivere i manuali di storia e come? La crociata di Black lives matter contro il razzismo ha potenti alleati nelle università, nei licei, nei giornali e nelle case editrici, dove avanza l’operazione di revisionismo storico. Dalle origini ai nostri giorni, la storia degli Stati uniti viene reinterpretata alla luce del razzismo «sistemico, intrinseco», dal quale sarebbe segnata questa pseudodemocrazia fin dalla nascita. La Critical race theory è la visione di un razzismo scolpito dentro le istituzioni. Il 1619 project fu lanciato dal «New York Times» per «rieducare» la Nazione, correggere il modo in cui si insegna la storia, far risalire tutta la vicenda americana all’anno in cui arrivò la prima nave carica di schiavi. Dalla cultura alla politica: diversi Stati del sud o del midwest governati dai repubblicani stanno cercando di bloccare con leggi locali questa riscrittura dei programmi scolastici e universitari. La sinistra grida alla censura; la destra denuncia l’indottrinamento e il lavaggio del cervello. È una battaglia che mobilita forze poderose da ambo le parti. Non è escluso che finisca davanti alla Corte suprema. E già Donald Trump ha cominciato a impadronirsene per i suoi progetti di riscossa. La Critical race theory, abbreviata Crt, non è recente. Le sue origini risalgono agli anni Settanta, è l’erede di frange ultra-radicali della comunità afroamericana come il Black power. Gli intellettuali che l’hanno diffusa rivendicano di avere adattato la lezione di Antonio Gramsci sull’egemonia culturale. La Crt esamina leggi e istituzioni, rapporti sociali e culture sotto l’angolatura esclusiva del razzismo. Quest’idea di un razzismo sistemico, scolpito nel sistema politico-legale, travalica l’individuo e le sue scelte. Conquistare l’eguaglianza formale per gli afroamericani davanti alla legge – come fece il

movimento per i diritti civili guidato dal reverendo Martin Luther King negli anni Sessanta – è inutile, perfino ipocrita. Riaffiorano temi familiari all’estremismo di sinistra di mezzo secolo fa: la critica alla «democrazia borghese» come fasulla. Tra i seguaci della Crt c’è il movimento che si batte per le «reparations», cioè risarcimenti economici da versare ai discendenti degli afroamericani che arrivarono negli Stati uniti come schiavi. Almeno una città della California ha già approvato quei pagamenti. L’Amministrazione Biden è stata accusata da destra di fare qualcosa di simile, quando ha predisposto che alcuni sussidi anti-Covid per l’agricoltura siano riservati in precedenza ai coltivatori neri. Il 1619 Project è molto più recente, anche se la sua affinità con la Crt è dichiarata. È un progetto di giornalismo long-form lanciato dal «New York Times» nel 2019, nel 400.esimo anniversario dallo sbarco in Virginia della prima nave carica di schiavi dall’Africa. Il progetto giornalistico punta a riscrivere tutta la storia degli Stati uniti mettendo al suo centro lo schiavismo come l’evento dominante, capace di segnare tutto il resto. A guidare l’impresa è stata la giornalista afroamericana Nikole Hannah-Jones. Vincitrice di un Pulitzer, è stata attaccata da diversi storici che l’accusano di forzature e inesattezze. Lo stesso «New York Times», dopo averla difesa strenuamente, è stato costretto a ritrattare almeno un punto: la tesi secondo cui la guerra d’indipendenza dall’impero britannico sarebbe stata motivata dalla volontà di preservare lo schiavismo. Nonostante le controversie, o forse proprio a causa di quelle, Hannah-Jones è riuscita a ottenere «a furor di media» una cattedra alla Howard University. La rivolta contro la Teoria critica della razza e il Progetto 1619 è diventata legge in Texas, Tennessee, Idaho, Iowa e Oklahoma. Le maggioranze repubblicane nei Parlamenti locali vogliono fermare l’introduzione di quelle dottrine nei programmi delle scuole. I think tank di destra come la Heritage Foundation, gli opinionisti conservatori del «Wall Street Journal», denunciano il tentativo di colpevoliz-

Attivista del Live black matters: «Il razzismo è la vera pandemia». (Shutterstock)

zare collettivamente i bambini bianchi come «eredi di un peccato originario, portatori di una colpa razziale congenita». Ma anche in campo democratico affiora il dissenso. Andrew Sullivan, ex direttore di «The New Republic» e fondatore della newsletter «The Weekly Dish», è stato uno dei primi ad accusare il 1619 project di «presentare come obiettiva una versione faziosa della storia». Commentatori progressisti del «New York Times» come Bret Stephens e Ross Douhtat hanno preso le distanze dal «nuovo razzismo» che vuole istigare i ragazzi bianchi al pentimento e all’espiazione in nome di una colpa «etnica» collettiva. L’egemonia delle frange più estremiste sul movimento anti-razzista scatena contro-reazioni anche nella base della sinistra. Un primo campa-

nello d’allarme è suonato in California nel novembre 2020. Mentre una vasta maggioranza di californiani votava per mandare Biden alla Casa bianca, veniva bocciato invece il referendum per reintrodurre la affirmative action cioè le corsie preferenziali per gli afroamericani nelle iscrizioni alle università. A New York, altra roccaforte di sinistra, gli elettori democratici hanno scelto come candidato sindaco l’ex capitano di polizia afroamericano Eric Adams. Votato soprattutto nei quartieri popolari, Adams è l’antitesi di Black lives matter, promette di riportare la polizia nelle zone dove la sua presenza era stata indebolita in nome dell’antirazzismo. È sintomatico che l’ex poliziotto Adams con la sua campagna sulla sicurezza dei cittadini sia arrivato primo là dove i neri sono in maggioran-

za, nel Bronx, Staten Island, Brooklyn e Queens. Proprio nella comunità afroamericana il radicalismo di Black lives matter ha fatto danni gravi. In nome dell’anti-razzismo, la parola d’ordine «tagliamo i fondi alla polizia» ha coinciso con un crescendo di crimini violenti e omicidi, specie nei quartieri poveri. Un ritorno delle forze dell’ordine viene auspicato dai neri, vittime di una criminalità che ha lo stesso colore della pelle, e uccide più del razzismo della polizia. Altrove in America, là dove i bianchi sono ancora una maggioranza, il fanatismo della Crt e del 1619 project conferma i peggiori sospetti: che la sinistra radicale voglia trasformare gli Stati uniti in una società dove «gli altri» comandano e i bianchi sono soggetti a un processo permanente per le colpe loro o dei loro antenati.


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Politica e economia

Un modello per un Paese in ginocchio Prospettive La vittoria degli azzurri ai campionati europei di calcio ridesta lo spirito di appartenenza di un popolo

duramente colpito dalla pandemia. Non è la prima volta che questo sport lenisce le piaghe della società italiana Alfredo Venturi Tradizionalmente incline alla retorica, la stampa sportiva non lesina iperboli e superlativi nei suoi commenti al successo della squadra nazionale italiana nel campionato europeo di calcio. Si sparano titoli magniloquenti: «Eroici», «Un’Italia d’oro», «Siamo solo noi». E anche: «L’ora che fa la storia». Ma c’è anche chi ricorre al sarcasmo e all’ironia, per esempio prendendosi gioco dell’ostentata sicurezza inglese: it’s coming home, dicevano oltre Manica riferendosi al trofeo continentale, verrà a casa. Ma nell’irridente interpretazione italiana home è diventata Rome.

Festa grande anche in Ticino, dove i vincoli linguistici, culturali e non solo con l’Italia sono più tenaci dei pregiudizi Eppure oltre l’enfasi c’è qualcosa di nuovo e di diverso in quello che il quotidiano parigino «Le Figaro» chiama «il capolavoro della rinascita italiana». Una sorta di mutazione antropologica: che cosa ne è della vecchia tradizione difensivista, degli «abatini» che, secondo Gianni Brera, le diete ipocaloriche e ipoproteiche dei loro antenati e dunque la loro insufficiente consistenza fisica condannavano a trincerarsi dietro il «catenaccio»? Quella messa in campo dal selezionatore Roberto Mancini è una squadra tonica, assertiva, potente. E proprio questo la rende un’icona e un modello per una società così duramente provata dalla pandemia. In qualche modo questa squadra rappresenta l’unità nazionale in positivo contrasto con quella esperienza così divisiva. «Avete rafforzato il senso di appartenenza all’Italia»: così ha detto ai vincitori il presidente del consiglio Mario Draghi, felice per l’evento che fra l’altro non mancherà, assicurano i

commentatori delle patrie vicende, di accrescere ulteriormente il suo prestigio in Europa. Ci voleva proprio, per il Paese che aspetta trepidante il suo rilancio, l’esemplare comportamento di questo gruppo di giovanissimi, a parte i due più attempati guerrieri posti di sentinella davanti al prodigioso portiere ventiduenne, che ha vinto l’uno dopo l’altro i sette incontri della fase finale del torneo. Ci voleva, dopo la prova ingrata della pandemia e della sua gestione incerta e caotica, questo esempio di accurata organizzazione, di collaudato lavoro d’équipe. Ha fatto ricomparire i tricolori nelle strade e nelle piazze, a rappresentare plasticamente l’unità del Paese miracolosamente ritrovata. La stampa di solito politicamente ostile rende omaggio al presidente Sergio Mattarella, al composto entusiasmo che il primo tifoso d’Italia, presente a Wembley, ha saputo esprimere quando la squadra ha annullato il vantaggio degli avversari proiettando la gara verso i tempi supplementari e i calci di rigore. Dopo il tripudio londinese abbiamo dunque rivisto le stesse bandiere che sventolavano un anno e mezzo fa sui balconi dell’Italia sequestrata in casa, prima che il maldestro pilotaggio dell’emergenza sanitaria provocasse una crisi di rigetto. Ogni diffusa emozione popolare tende a riproporre le grandi questioni politiche e sociali. Per questo abbiamo visto sventolare i tricolori non soltanto nelle piazze italiane, ma anche in Scozia e a Bruxelles. Il tifo scozzese, non tanto filo-italiano quanto anti-inglese, così efficacemente espresso dal quotidiano indipendentista «The National», che alla vigilia della finale ha rappresentato in prima pagina Mancini nelle vesti di un highlander: salvaci tu dalla tracotanza inglese! E i tricolori che hanno invaso Bruxelles, il quartiere europeo compatto a celebrare la vittoria italiana su chi ha voltato le spalle all’Europa, una vittoria che ha realizzato una sorta di nemesi storica della Bre-

Sergio Mattarella ha incontrato al Quirinale la nazionale italiana di calcio e il tennista Matteo Berrettini. (Shutterstock)

xit. Festa grande anche nel Canton Ticino, dove i vincoli linguistici, culturali e non solo con l’Italia sono più tenaci di certi pregiudizi. Eppure Belgio e Svizzera sono fra gli ostacoli che la squadra azzurra ha dovuto superare nel suo percorso verso la prova finale. Del resto non è la prima volta che il calcio lenisce le piaghe della società italiana. Accadde già nel 1982, quando la squadra azzurra vinse i mondiali in Spagna, e ancora nel 2006, quando trionfò in quelli di Germania. Nel primo caso il Paese stava cercando faticosamente di uscire dagli anni di piombo del terrorismo, nel secondo era alla vigilia di gravi emergenze economiche e finanziarie. Ogni volta sono stati pre-

senti alla gara finale, a rappresentare il Paese stretto attorno ai suoi campioni, i presidenti della Repubblica di turno: nel 1982 Sandro Pertini, nel 2006 Giorgio Napolitano e ora Mattarella, che come i suoi predecessori all’indomani di Wembley ha ricevuto i vincitori al Quirinale assieme al tennista Matteo Berrettini, il primo italiano a disputare la finale del prestigiosissimo torneo di Wimbledon, ancora a Londra! Dopo il trionfo calcistico di quindici anni fa c’è stato un lungo periodo di declino, la blasonatissima nazionale dei quattro titoli mondiali è scivolata sempre più in basso fino alla mancata qualificazione del 2018. E finalmente, grazie al talento organizzativo di Man-

cini, alla sua capacità di persuasione psicologica, all’intatta energia dei suoi ragazzi, la fantastica risalita culminata nella vittoria europea, che nel sentire comune dovrebbe insieme simboleggiare e stimolare la risalita del Paese. Speriamo che il simbolo e lo stimolo producano i loro effetti, tutto questo non può limitarsi a durare lo spazio di un mattino, è un’occasione che l’Italia non può permettersi di perdere. In fondo, se scriviamo con l’iniziale maiuscola la renaissance di cui parla «Le Figaro», la rinascita, diventa Rinascimento. E se questa è un’illusione, perché non lasciarsene cullare finché è ancora possibile, sull’onda del fresco ricordo dell’impresa di Wembley?

cuba, un mix di paura e speranza

Disordini Il regime in crisi reagisce attaccando i manifestanti che chiedono cibo, medicine e anche libertà.

Era dal 1994 che gli abitanti dell’isola caraibica non scendevano in piazza per mostrare il loro dissenso Angela Nocioni

Destacamentos de respuesta rapida. Questo è l’asso nella manica del regime cubano (il bastone più che l’asso) contro le proteste scoppiate a sorpresa l’11 luglio nel municipio popolare di San Antonio de los Baños, subito fuori dall’Avana, ed estesesi da allora a catena qua e là nell’isola. Si protesta per penurie varie, di cibo e medicine, ma si grida: «libertà» e «basta dittatura!». Un inedito a Cuba. Gli agenti dei Destacamentos de respuesta rapida garantiscono botte da orbi date con perizia. Si tratta di professionisti che sanno picchiare senza lasciare segni, volendo, o esibire un metodo di repressione violenta che serva da deterrente a ulteriori manifestazioni anti-regime. A dipendenza degli ordini. Fidel Castro li usò in abbondanza durante la «crisi del Maleconazo» nel 1994, l’unica grande protesta popolare precedente a quella di oggi (inferiore all’attuale per diffusione sul territorio e per capacità di propagarsi via social), gestita dal «líder máximo» con grande capacità politica in un abile ed efficacissimo braccio di ferro con gli Stati uniti e sfociata poi nell’esodo dei 30 mila cu-

bani scappati per mare verso la Florida. La famosa «crisi dei balseros». Allora il coinvolgimento all’Avana degli agenti dei Destacamentos non fu nascosto, fu anzi esibito. Stavolta invece i picchiatori professionisti ufficialmente non sarebbero stati chiamati. Ma chi era per strada in vari punti dell’isola conferma al telefono di averli visti in azione. Inconfondibili. Anche ad Arroyo de Naranjo, sobborgo dell’Avana dove lunedì 12 il regime ha fatto il suo primo morto tra i manifestanti (Diubis Laurencio Tejeda di 36 anni), raccontano di aver visto quelli dei Destacamentos in azione. La versione ufficiale sui fatti di Arroyo de Naranjo l’ha data così l’agenzia governativa Acn: «Un gruppo ha cercato di dirigersi verso una stazione di polizia con l’intenzione di danneggiare l’edificio e di aggredire gli effettivi». Non una parola per spiegare come e perché ci sia stata una vittima. Si sa solo che è accaduto lunedì 12 e che in quell’occasione molti manifestanti sono stati feriti e arrestati. Il regime è in difficoltà, sta rispondendo con ferocia silenziosa, ma con cautela. Per questa ragione tace sull’utilizzo dei Destacamentos. La protesta a singhiozzo non se l’aspettava

e teme lo scoppio di nuovi focolai. Ha reso subito inaccessibile il collegamento a internet tramite cellulare, ben consapevole che «il nemico» da anni non è più la Cia ma il 3G. Ha talmente chiara la dimensione del problema che non ha nascosto la riunione d’emergenza del Buró politico del Partito comunista cubano, con partecipazione del vecchio Raul Castro, che non comanda direttamente né fa più parte del Buró, ma non essendo morto rimane il vero leader.

Anche nel 1994 ci furono proteste, gestite con abilità da Castro. (Keystone)

Gli affari economici e le forze armate sono e restano nelle sue mani, nonostante alla presidenza sieda Miguel Díaz-Canel, il quale si limita a frasi di rito: «la rivoluzione cubana non porge l’altra guancia» o «i contro-rivoluzionari sognano una guerra tra cubani, non daremo loro il piacere». La prospettiva è cupa. Esattamente come altri Governi della regione alle prese con proteste popolari di massa, il regime conta sulla sua possibilità di disincentivare nuove manifestazioni facendo pagare carissima l’alzata di testa a tutti i manifestanti detenuti, a quelli fermati, a quelli identificati e anche a quelli che in strada non sono scesi ma sono considerati capaci di farlo dai Comitati di difesa della rivoluzione (Cdr), gli odiosi gruppi di spie civili che a Cuba controllano ogni mossa dei vicini. Ce n’è almeno uno in ogni strada, in città e in campagna. Impossibile sfuggirli. L’efficacia dei Cdr è basata, in pieno stile sovietico, nel far sentire ciascuno vigilato anche quando non lo è. Successi perversi dell’imbattibile scuola di Mosca. La stessa che ha insegnato ai cubani il doppio passo nella repressione. Da una parte si nega l’utilizzo dei

reparti d’élite, dall’altra si crea il caso clamoroso: si arresta un famoso artista mostrando di poter serenamente ignorare la mobilitazione di tutti i suoi influenti amici artisti all’estero, si va a prendere la youtuber Dina Stars mentre viene intervistata in diretta da una televisione spagnola così che sia chiara la determinazione della polizia a fare piazza pulita. La tensione a Cuba sta crescendo. La speranza anche. Dall’Avana raccontano che ovunque, a casa e fuori, non si parla d’altro. E che lo si fa con toni spaventati, ma entusiastici. E poiché a Cuba tutti sanno che anche i muri hanno le orecchie, se nei bar e in strada l’entusiasmo per l’esplosione sociale non è nascosto significa che il regime fa bene a temere. Vuol dire che vacilla il suo essenziale pilastro: la solidità dell’ipocrisia inculcata, la scuola socialista del mentire e dissimulare per timore, per convenienza, per rassegnazione, del non alzare mai la testa. Se il regime sente vacillare il suo architrave, se teme di non poter più contare sulla paura di ciascuno di dire ciò che pensa, può temere di potere perdere tutto. E risponderà con lentezza, nel tempo, molto duramente.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 luglio 2021 • N. 29

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Politica e economia

gli echi della guerra

leopoli Il conflitto del Donbass si avverte anche nel raffinato capoluogo dell’ovest ucraino.

Una ferita aperta che si potrà verosimilmente risolvere solo con un cambio ai vertici di Mosca

Anna Zafesova «Un saluto ai musicisti, agli eroi che ci hanno curato nei nostri ospedali e agli eroi che ci difendono a est», grida il sindaco Andriy Sadovyi e la platea risponde con un applauso fragoroso. Il festival del jazz di Leopoli torna dopo due anni di pausa. La città è stata per mesi la zona rossa più colpita dell’Ucraina e l’euforia di trovarsi a un concerto dal vivo contagia gli spettatori quanto i musicisti, con star del calibro di Wynton Marsalis e Kamasi Washington a confessare di essere saliti sul palco per la prima volta dall’inizio della pandemia. Il Coronavirus sembra battere in ritirata, un momento da festeggiare, ma quando il cantante ucraino Dmitry Shurov – che ha scritto, tra l’altro, la sigla della serie televisiva «Servo del popolo», diventata di fatto lo spot elettorale che ha trasformato l’attore comico Volodymyr Zelensky in presidente – intona la canzone «Patria», il pubblico canta insieme a lui, «come se io fossi un soldato catturato prigioniero dai nemici». Leopoli è la capitale dell’ovest ucraino, la frontiera con la Polonia e l’Europa è a un’ora d’auto, il Donbass e il confine con la Russia sono dal lato opposto del Paese. Ma il respiro della «guerra a bassa intensità», come il linguaggio diplomatico dell’Onu definisce un conflitto che dal 2014 è costato la vita a più di 13 mila persone, di cui un quarto civili, si avverte in questa città raffinata, dove per le vie costeggiate da splendidi palazzi in perfetto stile Secessione viennese si possono vedere marciare soldati armati.

Per le vie costeggiate da splendidi palazzi in stile Secessione viennese si possono vedere marciare soldati armati Leopoli, oggi la Lviv ucraina, è stata anche la Lwow polacca e la Lemberg austro-ungarica, e il sindaco Sadovyi, seduto nel suo spettacolare ufficio con terrazzo affacciato sulla Piazza del mercato, una gemma rinascimentale piena di turisti a ogni ora, racconta il suo progetto di far ripartire la città dalla cultura, «perché abbatte i confini», ma ricorda anche che la regione circostante è «il campo di addestramento più grande d’Europa». Un’eredità dei tempi sovietici, quando Leopoli, la capitale della Galizia, annessa nel 1939 da Stalin grazie alla spartizione dell’Europa dell’est stipulata con Hitler (il famoso protocollo segreto del patto Molotov-Ribbentrop di cui Mosca per decenni aveva negato l’esistenza), era l’avamposto sovietico di un’ipotetica invasione da Occidente. Oggi la guerra è a Oriente, e la frontiera ucraina viene sfondata sul fronte russo, ma Leopoli è anche la capitale dell’identità nazionale, qui la resistenza partigiana all’invasione sovietica è durata fino alla fine degli anni Cinquanta, e molti volontari nel Donbass si sono arruolati qui. La città ha mandato aiuti, sovvenzionato combattenti e accolto profughi: contrariamente alla propaganda russa, che dipinge Leopoli come una roccaforte del nazionalismo più agguerrito, per le strade si sente parlare russo e ucraino indifferentemente, forse perfino più di qualche anno fa, proprio grazie agli sfollati da Donetsk. La guerra dimenticata nel cuore dell’Europa ha prodotto 2,5 milioni di profughi, di cui quasi un milione emigrati – principalmente in Polonia e in Russia – e un milione e mezzo fuggiti in altre regioni ucraine. Zelensky ha vinto le elezioni nel 2019 in buona parte sul-

Leopoli torna alla vita. Nell’immagine via Doroshenka. (Keystone)

la promessa della pace, ed è riuscito a riavviare un negoziato con Vladimir Putin, che però subito dopo un importante scambio di prigionieri si è arenato sullo stesso scoglio di sempre. Il Cremlino chiede uno status speciale per le zone separatiste che ha di fatto occupato, Kiev vorrebbe prima il ritiro delle truppe e la chiusura della frontiera con la Russia. Il conflitto è una ferita aperta che non solo ipoteca la crescita economica e la prospettiva di adesione a Nato e Ue, ma che infonde nella giovane Nazione un senso di incompiutezza. Negli ambienti politici di Kiev circola da qualche anno in sordina un inconfessabile piano B, lasciar perdere il Donbass, consegnare i territori occupati a Putin e voltare le spalle all’est per andare avanti verso l’ovest. «Impensabile», taglia corto una giovane diplomatica ucraina, originaria di Donetsk: «Significherebbe una rivolta in piazza, di quelli originari del Donbass e di tutti gli altri ucraini. Abbiamo famiglie divise, abbiamo lasciato lì le nostre case e i nostri cari, non possiamo abbandonarli». Maidan, la piazza delle rivoluzioni, è l’incubo perenne di tutti i Governi ucraini, ma un altro profugo da Donetsk, oggi un altolocato dirigente di una grossa società (molti esuli del Donbass hanno fatto ottime carriere a Kiev), è invece a favore del muro: «Noi

abbiamo scelto di restare ucraini, laggiù sono rimasti solo vecchi nostalgici». Secondo questo ragionamento, scaricare un territorio devastato dalla guerra, con un’industria obsoleta e distrutta e un welfare insostenibile, al nemico significherebbe forse infliggergli un colpo fatale, dopo il prezzo pagato – in sanzioni estere e sovvenzioni interne – per l’annessione della Crimea. Putin ha appena dichiarato di non voler più parlare con Zelensky – «è inutile, ha consegnato il suo Paese agli americani» – e il conflitto appare congelato in uno stallo che verosimilmente si potrà risolvere soltanto con un cambio del regime a Mosca. Nell’attesa l’obiettivo ucraino è quello di evitare che il Cremlino espanda le sue mire al resto del sud e dell’est ucraino, soprattutto dopo che Putin in un saggio ha teorizzato che russi e ucraini «sono lo stesso popolo», diviso dalle trame prima polacche e poi americane, e che Kiev si è appropriata di territori «storicamente russi». «In realtà è la Russia un Paese dai confini discutibili», ribatte ironicamente il governatore della regione di Leopoli Maksym Kozytsky, alludendo al sud della Federazione russa, quello dei cosacchi e del placido Don. Leopoli è stata storicamente sempre un melting pot. Un intero quartiere è intitolato agli arme-

ni, le due sinagoghe sono state distrutte dai nazisti, che hanno fucilato anche tutta l’intellighenzia polacca che non era ancora finita in Siberia, e lo stesso festival del jazz è sponsorizzato da una banca che fa capo a un banchiere moscovita di origine ebrea nato a Leopoli. I nazionalisti duri e puri sono ormai una specie abbastanza rara, e gli unici a rimproverare quelli che parlano russo sono i camerieri del ristorante Kryivka, che sono vestiti da guerriglieri di Bandera (dell’Esercito insurrezionale ucraino formatosi negli anni Ottanta del Novecento) e minacciano in modo teatrale i divertiti turisti russofoni, prima di servire il dessert. La guerra ha contribuito a risolvere problemi identitari. «Bisogna voltare le spalle alla Russia. L’ucraino è quello che combatte per la sua terra, non importa che lingua parla», dice il governatore Kozytsky, che pone altri problemi: far crescere l’economia, combattere la corruzione, ridurre la povertà creando posti di lavoro. Il conflitto nel Donbass non è certo di aiuto ma l’ex ministro dell’Economia ed ex ambasciatore all’Ue Roman Shpek dice che la guerra fa meno danni della corruzione: «La fragilità delle istituzioni e il peso eccessivo degli oligarchi nell’economia e nella politica, sono questi gli ostacoli sulla strada verso l’Europa».

Fra i libri di Paolo a. Dossena andrew Wilson, Belarus: the last european dictatorship new edition, Yale University Press, marzo 2021 Il 7 luglio la Svizzera ha ampliato le sanzioni nei confronti della Bielorussia, aggiungendo 78 persone e 7 entità alla «lista nera» (provvedimenti nei confronti di Minsk erano già stati adottati nel 2006 e nel 2020). Le misure includono il divieto di fornire materiale d’armamento, il blocco degli averi e delle risorse economiche. La Confederazione ha così preso posizione dopo le decisioni di Ue, Usa, Regno unito e Canada che in giugno hanno lanciato una nuova ondata di sanzioni contro la Bielorussia. Il motivo? I Mig-29 di Minsk hanno costretto un aereo di linea di Ryanair sul quale viaggiava un dissidente del regime, Roman Protasevich, ad atterrare nel territorio della «Russia bianca». Queste sanzioni si aggiungono a quelle dell’autunno scorso che avevano colpito la Bielorussia a causa delle elezioni presidenziali fraudolente e della violenza con cui sono state represse le manifestazioni che le avevano seguite. La stampa internazionale parla di un tentativo di mandare un messaggio forte a Minsk e Mosca. Per chi volesse farsi un’opinione e approfondire l’argomento, torna utile il libro di Andrew Wilson, uno storico britannico specializzato nello studio dell’Europa orientale, in particolare di quella post-sovietica. Vedremo tuttavia che questo saggio va letto criticamente. Il libro si apre con una descrizione di Alexander Lukashenko, il presidente della Bielorussia, che l’Ue si rifiuta di riconoscere come tale. Fin dal 2005 il capo della «Russia bianca» viene definito in Occidente come «l’ultimo dittatore», cosa della quale Lukashenko ha deciso di farsi un vanto fin dal 2012. Comunque sia, il presidente bielorusso in una famosa intervista riportata da Wilson ha dichiarato: «Sono il solo e ultimo dittatore dell’Europa. Certamente non ce ne sono altri in tutto il mondo. Siete venuti qua e avete visto un dittatore vivente. Dove altro potreste vederne uno? (...) Dicono che anche la cattiva pubblicità è pur sempre pubblicità». Il libro di Wilson è consigliatissimo ma, come detto, si raccomanda di leggerlo criticamente: non si limita infatti a una descrizione del fenomeno Lukashenko, sposando la definizione di dittatore che avanzano figure come Condoleeza Rice, quella ex segretaria di Stato americana che appoggiava la dottrina della «esportazione della democrazia», una dottrina che ha colpito duramente il Medio Oriente. Wilson è chiaramente russofobo e giustifica la marcia verso est della Nato, una pericolosa crociata che mette l’Europa in una posizione difficile (l’autore vorrebbe che l’Ue vi partecipasse attivamente). A parte questo, Wilson è una fonte di informazioni straordinaria. Tutti i suoi libri sull’Europa orientale, Belarus: the last european dictatorship new edition incluso, sono riccamente illustrati e, nella migliore tradizione della storiografia anglosassone, non danno niente per scontato. Ad esempio per contestualizzare il fenomeno dell’ultima dittatura dell’Europa Wilson parte dal principio, descrivendo le origini storiche della popolazione slava della Bielorussia e del suo Stato. Preparatissimo, il professore cita una vasta bibliografia. Da non dimenticare infine che il suo saggio, pubblicato dalla prestigiosa Yale University Press, è uscito per la prima volta nel 2011 e da allora è stato aggiornato fino ai drammatici eventi dell’anno scorso, con la famosa apparizione di Lukashenko armato di mitra davanti alle proteste contro le sue «elezioni rubate».


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Politica e economia

«lascio londra, l’aria è cambiata»

Tendenze La Brexit e il Coronavirus spingono molti ex espatriati ad abbandonare la capitale del Regno unito

per tornare nel Paese di origine. Fra loro anche una nostra collaboratrice che ci racconta la sua esperienza Cristina Marconi «Mi dai il numero della ditta di traslochi?» è una domanda che da quando abbiamo annunciato il nostro rientro in Italia ci sentiamo rivolgere spesso, solitamente come appendice pratica di un lungo monologo in cui l’amico di turno spiega esattamente perché ha deciso di non lasciare Londra, almeno per il momento. A 11 anni dal nostro arrivo l’aria è cambiata e si sente: la Brexit ora è una realtà, il Coronavirus ha reso il Continente ancora più lontano, il cielo del 2021 è stato costantemente plumbeo e i lockdown, tra passi falsi e confusioni varie, sono stati più lunghi e pesanti che in altri Paesi europei. Elementi che, se messi insieme, hanno incoraggiato molta gente a chiedersi se fare o meno un altro giro sulla grande giostra britannica. Londra non smetterà mai di essere un posto straordinario, ma è innegabile che la vita dell’espatriato europeo ha assunto contorni acrobatici. Tutto è più complicato: non è certo la prima volta che la mia casa si riempie di scatoloni, ma prima d’oggi non avevo mai dovuto compilare un foglio Excel con il contenuto esatto di ogni pacco, regalare le piante alle amiche per evitare di dover procurare un passaporto fitosanitario alla kenzia, fotocopiare infinite volte i nostri contratti di lavoro per garantire ai doganieri che non stiamo contrabbandando piatti, bicchieri e lenzuola usate nell’Unione europea. C’è un muro di diffidenza reciproca tra i due blocchi, la burocrazia si è moltiplicata e ogni viaggio, tra quarantene, certificati e situazioni mutanti, è diventata un’esperienza ansiogena e imprevedibile anche per chi era abituato a prendere quattro voli a settimana. La Brexit, d’altra parte, questo era: una riaffermazione delle frontiere, un voto contro l’immigrazione. Non solo quella non qualificata e magari dipendente dai sussidi statali, ma anche quella di una classe media che ha messo un po’ in crisi un sistema sociale rigido, in cui la missione di istruire e formare i giovani provenienti da ambienti e regioni depresse è stata abbandonata da tempo. Quell’elettorato, come sappiamo,

Vie quasi deserte a Londra durante i lockdown. (Shutterstock)

è stato risvegliato e conquistato dalla retorica efficace e populista di Nigel Farage, ripresa in una versione appena più istituzionale dal premier Boris Johnson. Ma ora, in attesa che cresca una generazione di medici, infermieri, ma anche pizzaioli e baristi britannici, manca del tutto il personale e in molti settori dell’economia il problema è serio: nessuno raccoglie la verdura nei campi, nessuno è capace di servire ai tavoli. Spesso nel mirino della working class britannica che ha votato Brexit c’erano i polacchi, competitivi nei prezzi e nella qualità dei lavori nell’edilizia. Dopo il referendum del 23 giugno del 2016 furono loro a subire più insulti, aggressioni, commenti odiosi. Ora che la sterlina è lontana dai livelli di sei anni fa, per molti è giunto il momento di cambiare strada e la Germania, più vicina a casa e al momento più dinamica, è diventata molto attraente, così come lo sono Austria, Olanda, Danimarca, ma anche l’Italia. La qualità della vita tutt’a un tratto è diventata un fattore

decisivo, proprio nell’anno in cui la vita ha rischiato di sfuggirci di mano. E quindi i polacchi, arrivati nel 2004 e giunti a quota 922 mila nel 2017, ora dovrebbero essere intorno ai 700 mila, con una comunità in continua decrescita. Ma non sono solo loro ad aver cambiato i piani per il futuro. Nel settore finanziario anche c’è molto movimento e in tanti stanno convergendo verso Parigi, Amsterdam e Milano e altri lidi, complice anche la decisione di molte banche di non far tornare il personale in ufficio. Sui numeri ufficiali il grande esodo per ora non si vede, anche perché il primo istinto è quello di regolarizzare la propria posizione nel Regno unito per non perdere anni di tasse e di radici ormai salde. Se al momento della Brexit si pensava che ci fossero 3 milioni di cittadini europei, il numero di richieste di settled status, ossia il documento che permette di restare nel Regno unito con gli stessi diritti di un cittadino britannico, è stato esorbitante: 5,6 milioni.

Solo che il settled status decade dopo cinque anni di assenza dal Regno unito, il che vuol dire che in molti stanno preferendo la via costosa e laboriosa della cittadinanza a tutti gli effetti per poter gestire i prossimi anni nella massima indipendenza. Negli ultimi cinque anni sarebbero comunque già 1,3 milioni le persone nate fuori dal Regno unito che hanno lasciato il Paese. Tante persone hanno trascorso il lungo inverno della Covid insieme alla famiglia d’origine, anche per risparmiare sugli affitti mostruosi: per loro trasferirsi significa ufficializzare una condizione che già esiste di fatto. Per tante altre, come forse per noi, proprio la fissità degli ultimi mesi ha rappresentato una spinta verso il cambiamento, il desiderio di affrontare qualcosa di nuovo. Milano, con la sua ritrovata fiducia e il suo conclamato dinamismo, è subito apparsa come la meta perfetta. D’altra parte sono anni che l’Amministrazione locale si impegna a promuoverla e il passaparola tra ex espatriati ha fatto

crescere il mito di un luogo in cui è possibile vivere bene, senza perdere il sapore della grande città. Io credo che la generazione che sta rientrando insieme a noi abbia solo una vera grande esigenza, ossia avere davanti a sé un luogo abbastanza reattivo al cambiamento. Quello che temiamo di più è la paralisi. Londra non è la città più bella, né la più simpatica, né forse la più interessante, ma è sicuramente quella in cui tutto ci è stato possibile per chi ci ha messo piede negli anni fortunati e insostituibili in cui era ancora europea. La lezione britannica riguarda la fiducia, la capacità di adattarsi, di riformarsi, di puntare sempre molto in alto, anche quando appare ridicolo e a costo di sembrare sbruffoni. Come si è visto con gli europei di calcio, è un atteggiamento che non sempre funziona e in questi anni è proprio irritante, ma nel piccolo, nel quotidiano, nella vita privata e in una società, l’ottimismo della volontà è una grandissima virtù. Di quelle da portare via nello scatolone più grande. Annuncio pubblicitario

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Politica e economia

la sfida di gestire le vaccinazioni

analisi La campagna di immunizzazione della popolazione mondiale dal SARS-CoV-2 fra priorità d’accesso,

sospensioni dei brevetti e attese

Edoardo Beretta Tra metà dicembre 2020 e le prime settimane di gennaio 2021 la campagna vaccinale contro la pandemia da SARSCoV-2 ha preso il via in tutti i Paesi del mondo. Di fronte allo straordinario successo dei ricercatori di diverse aziende farmaceutiche, che nell’arco di pochi mesi (nonostante l’evidente perplessità manifestata da quanti − tanti! −, sostenevano che fosse impossibile realizzare vaccini in meno di più anni) sono riusciti a sviluppare, testare e far commercializzare più preparati vaccinali sicuri ed efficaci, ne sono anche derivate altrettanto grandi aspettative. Certamente, è da sempre stata anche diffusa la consapevolezza per cui le prime forniture sarebbero state insufficienti a campagne vaccinali di massa, fatto che ha imposto di suddividere la popolazione in categorie di rischio. Si è operata, pertanto, una categorizzazione di individui e/o fasce d’età ritenute fisiologicamente e/o anagraficamente più a rischio di grave decorso in caso di malattia. Al trascorrere dei mesi, si è fatto largo una tendenza assimilabile al dirigismo (o all’iperinterventismo pubblico). Sebbene gli Stati abbiano avocato a loro stessi il «diritto-dovere» di garantire equo accesso ai vaccini in quanto considerati «beni pubblici» sostenendone anche le relative spese, la somministrazione delle dosi vaccinali agli utenti non è diffusamente avvenu-

eterogeneità di processi d’omologazione, ritmi di fornitura disomogenei così come difficoltà di iniziale coordinamento fra diversi livelli amministrativi (cioè centrali, regionali e locali). Ne sono, quindi, risultati approcci vaccinali sì dettagliati, ma altrettanto differenti fra Paesi − ad esempio, in alcuni si è deciso di vaccinare specifiche categorie lavorative (non necessariamente mediche) o si è previsto di somministrare liberamente negli studi medici alcuni preparati vaccinali − e la presa d’atto che in troppe economie avanzate la popolazione più giovane (che spesso contribuisce sotto il profilo economico-fiscale parimenti al benessere delle stesse) non abbia avuto accesso alla preadesione se non diversi mesi dopo inizio delle campagne vaccinali. Sebbene la mano pubblica abbia

ta con quella celerità che l’eccezionalità degli eventi ha richiesto. E non può solo la mancanza di dosi ad essere addotta a giustificazione: non si spiegherebbe, infatti, perché alcuni Paesi (piccoli e grandi, sedi di aziende farmaceutiche

La somministrazione dei vaccini non è avvenuta con la celerità che l’eccezionalità degli eventi ha richiesto e non) abbiano raggiunto da tempo livelli vaccinali ben oltre ogni media internazionale. Piuttosto, hanno influito contrattazioni non sempre tempestive oppure orientate a ribassi di prezzo,

Dati vaccinali in diverse nazioni* vaccinati con almeno una dose (% di popolazione) europa Francia germania israele italia mondo regno Unito san marino stati Uniti d’america svizzera Unione europea

44,4 52,6 58,2 66,2 59,5 25,4 67,6 67,2 55,1 52,1 54,3

voluto assumersi il difficile compito di gestire una situazione dai tanti «focolai» con un approccio caratterizzato da grande complessità organizzativa per via del principio del «don’t call us, we call you!», la gestione è stata inizialmente subottimale: ancor più, a fronte del fatto che siano diverse le voci a sostenere che si stia entrando in un’«era di pandemie» (sebbene sulle origini della presente siano ancora aperti diversi interrogativi). Nel bel mezzo di ciò, ecco oltretutto aggiungersi l’ipotesi di sospendere (anche solo temporaneamente) i brevetti dei vaccini. Fondamentalmente, la ratio economica sottostante è che rappresentino «beni pubblici» − quindi, spettanti per erogazione al policymaker pubblico e poco demandabili a soggetti privati. Se di primo acchito può

vaccinati completi (% di popolazione)

Dosi somministrate

32,2 36,8 42,7 60,0 38,9 12,3 51,4 67,2 47,7 39,6 39,6

563,4 mln. 0 59,8 mln. 0 82,5 mln. 0 10,9 mln. 0 58,2 mln. 0 0 3,5 mld. 0 80,8 mln. 0 45,1 mln. 334,6 mln. 0 0 7,9 mln. 407,6 mln.

apparire approccio ragionevole e dal facile consenso, non si deve dimenticare come lo sviluppo di più vaccini sia innanzitutto avvenuto grazie ai ricercatori operanti per big pharma, oltre ad avere fortunamente registrato tempi più veloci della somministrazione stessa. È come se la semina, coltura e raccolta di un prodotto agricolo abbisognasse di meno tempo del suo smercio. Se di «bene pubblico» solo e sempre si trattasse, non si sarebbe forse dovuto affidare al settore privato e si sarebbe invece dovuto già nel 2020 optare per una task force internazionale di scienziati sotto l’egida delle istituzioni sovranazionali competenti, il cui compito sarebbe appunto dovuto essere quello di sviluppare «monopolisticamente» il vaccino: in caso contrario, un esproprio (anche temporaneo) dei brevetti diviene difficilmente giustificabile e d’incentivo futuro. Non è una questione di numeri di dosi e tassi di vaccinazione − soprattutto, se raggiunti estendendo i tempi di richiamo oltre a quanto suggerito dalle case farmaceutiche produttrici: è, piuttosto, di trarne gli insegnamenti necessari anche in vista di eventuali richiami già paventati da diverse fonti scientifiche internazionali. nota

* Elaborazione propria sulla base di: https://ourworldindata.org/covidvaccinations (dati come reperibili il 13 luglio 2021). Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 luglio 2021 • N. 29

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Politica e economia

ripensare la mobilità la consulenza della Banca migros Urs Aeberli

Urs Aeberli Comunicazione aziendale di Banca Migros

La maggior parte delle auto private viene utilizzata solo da una a due ore al giorno. Ciò comporta oneri notevoli: i proprietari di un’automobile devono occuparsi del finanziamento, della manutenzione, dell’assicurazione, del cambio degli pneumatici e delle imposte. È più facile quando l’elemento essenziale è l’utilizzo dell’automobile anziché il suo possesso. Questa idea è alla base del leasing e degli abbonamenti per auto con tutto incluso. Il più grande negozio online di leasing e abbonamenti per auto è gowago. ch, partner della Banca Migros. Ecco come funziona: si sceglie una vettura online e di tutto il resto se ne occupa gowago.ch – inclusa la consegna a domicilio dell’auto. Basta mettere in moto e partire. Ad eccezione del rifornimento o della ricarica, tutti i costi sono inclusi nel prezzo fisso mensile «all in one»: finanziamento, manutenzione/servizio, assicurazione, cambio degli pneumatici, tasse, vignetta autostradale. Tutti i costi sono riportati in modo trasparente. Spesso, questa trasparenza manca ai proprietari di automobili. E, soprattutto, si devono accollare il rischio di spese per delle riparazioni inaspettate. Chi acquista un’auto ha la responsabilità, ma anche la piena libertà di disporre del veicolo. Mentre nel caso del leasing e dell’abbonamento si applicano durate contrattuali rispettivamente più lunghe e più brevi, i proprietari di automo-

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bili possono teoricamente vendere il proprio veicolo in qualsiasi momento. Chi può permettersi di pagare un’auto in contanti, solitamente beneficia anche di sconti vantaggiosi. Chi non ha abbastanza liquidità, può acquistare l’automobile accendendo un credito.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 luglio 2021 • N. 29

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Politica e economia Rubriche

il mercato e la Piazza di Angelo Rossi Purtroppo c’è poco da fare! Che due istituzioni responsabili del buon andamento della nostra economia come il Dipartimento delle Finanze e dell’economia e la Camera di commercio e dell’industria prendano posizione, il medesimo giorno, sulle sue possibilità di rilancio è un fatto raro. È successo all’inizio del luglio di quest’anno. La prima a farsi viva è stata la Camera di commercio e dell’industria sulla pagina che ogni tanto fa apparire sul «Corriere del Ticino.» Martedì 6 luglio il suo Direttore vi ha pubblicato un lungo articolo per parlare dapprima delle imposte e poi dell’economia in generale. Per quanto riguarda le imposte egli ha praticamente invitato i lettori a congratularsi con sé stessi perché, approvando, nel 2020, la riforma tributaria, hanno di fatto anticipato l’introduzione del minimo di tassazione per le persone giuridiche proposto, a livello inter-

nazionale, all’inizio di questo mese, dall’OCSE. Questa organizzazione ha concluso, a fine giugno, i suoi lavori sulla tassazione delle grandi aziende raccomandando una tassazione minima globale del 15%. La stessa aliquota è stata in seguito accettata anche nella riunione del G20 di due settimane fa a Venezia. Si tratta, come sottolineava il Direttore della CCI nel suo intervento, né più, né meno, che dell’aliquota che verrà probabilmente introdotta in Ticino con la riforma tributaria di cui sopra. Una buona ragione, secondo lui, per non indugiare a introdurla. Quanto all’economia egli precisava soprattutto cosa avrebbe dovuto fare lo Stato oltre alla riforma fiscale per migliorare le condizioni quadro, ossia quelle condizioni che definiscono l’attrattiva di una regione per i capitali che vengono da fuori. Nel pomeriggio dello stesso giorno, e questa non è si-

curamente una coincidenza, il Dipartimento dell’economia e delle finanze convocava una conferenza stampa per comunicare le prime conclusioni raggiunte dal suo Gruppo strategico per il rilancio del Paese. Nelle loro raccomandazioni i membri di questo gruppo si sono concentrati su 4 ambiti di intervento: primo, la ricerca e l’innovazione; secondo, la formazione; terzo, le amministrazioni pubbliche e l’infrastruttura (quella digitale in particolare) e, quarto, la responsabilità sociale delle imprese. Non possiamo affermare che le raccomandazioni fatte dal gruppo di lavoro dipartimentale siano una copia-carbone di quelle fatte dal Direttore della CCI. Possiamo però sostenere che tra le due liste di raccomandazioni, quella della CCI e quella del gruppo dipartimentale, c’è molto in comune. E questo non è sicuramente un male. Favorire

la ricerca e l’innovazione, migliorare la formazione professionale, digitalizzare l’operato dell’amministrazione pubblica e rendere la stessa più «leggera», aggiornare l’infrastruttura digitale, sono tutte raccomandazioni che possono essere sostenute a occhi chiusi. Questo anche perché fanno parte di un patrimonio di consigli che è oggi condiviso da tutte le istituzioni che si interessano dello sviluppo economico, in tutti i paesi del mondo. Qualcuno, di recente, con riferimento ai problemi di rilancio di altre regioni sviluppate del globo, li chiamava gli «evergreens» del discorso strategico delle amministrazioni pubbliche. Anche le raccomandazioni del quarto ambito di intervento proposto dal gruppo di lavoro dipartimentale, riguardanti la responsabilità sociale delle imprese, possono essere condivise ed è forse un peccato che nel testo

del Direttore della CCI questo tema non trovi nessun accenno. Secondo noi, però, prima di fare delle raccomandazioni, bisognerebbe poter capire quali sono le ragioni per le quali l’economia ticinese ha oggi bisogno di essere rilanciata. Il rilancio è necessario perché l’economia ticinese sembra in declino. A partire dal 2015, le chiusure e i trasferimenti di aziende – in particolare del terziario – sono aumentati in misura significativa e, in secondo luogo, la popolazione del Cantone (in particolare quella della città di Lugano) è in diminuzione. E se Lugano claudica, il Ticino rischia la paralisi. La causa principale di questa involuzione è rappresentata dalla rivalutazione del franco. E contro l’influenza negativa di questo fenomeno sulle condizioni quadro delle loro economie per i Cantoni, purtroppo, non c’è nulla da fare!

C’è un film, Acab, in cui un poliziotto interpretato da Marco Giallini parlando della Diaz dice in romanesco: «La peggior c... della vita nostra». Ma, per quanto si sforzi di guardare le cose dal punto di vista degli agenti, quel film è comunque stato scritto su qualche terrazza romana. Perché i poliziotti quelli veri non la pensano così (certo non tutti, ma molti). Mi ha colpito leggere le dichiarazioni di un agente, il quale rifarebbe mille volte l’incursione in quella scuola e, quando gli si chiese di scusarsi, rispose: «Alla Diaz io non ho visto violenze». Anche io ero alla Diaz. Ed era impossibile non vedere i segni delle violenze. Sono entrato, con altri colleghi, subito dopo che erano usciti i poliziotti e le barelle con i feriti più gravi. C’era sangue dappertutto, sui muri, per terra. C’erano ragazzine straniere che urlavano e piangevano di paura. C’erano ovunque i segni di un comportamento privo di giustificazioni. Certo, l’irruzione nella scuola accadde alla fine di giornate drammatiche, in cui gli estremisti avevano cercato e trovato lo scontro. Ricordo che con Gian Antonio

Stella, giornalista e scrittore, andammo in giro in moto (guidava lui) tra le barricate per sentire il punto di vista dei poliziotti, e raccogliemmo lo sfogo di un 50.enne, padre di famiglia, affranto per la fatica e lo sgomento, che ci diceva: «Perché ci odiano così?». Il comportamento di alcuni uomini di Casarini fu irresponsabile. Ma tutto questo non giustifica la mattanza della Diaz, né le torture di Bolzaneto, rivelate per primo da Giuliano Pisapia in un’intervista che mi concesse per «La Stampa». La memoria di quei giorni è divisa. Siamo alle solite: perché la sinistra deve stare in automatico con i manifestanti e la destra in automatico con chi li manganella? Perché tutto deve sempre finire nell’ideologia? Perché non riconoscere che la Diaz fu una vergogna nazionale? A pagare furono soprattutto i manifestanti pacifici. Ma molti erano venuti a Genova per provocare e menare le mani, lo fecero, e fu in quelle circostanze che maturò la morte di Carlo Giuliani. Né va dimenticato che al G8 furono impegnati migliaia di poliziotti, e quelli che entrarono alla

Diaz non furono più di 300. Per questo non si può e non si deve generalizzare. Mi piace ricordare che poco più di un anno dopo, al Social forum di Firenze, tutto si svolse pacificamente, anche se qualche irresponsabile sperò e si mosse sino alla fine perché si ripetessero i fatti di Genova. Per fortuna al Viminale era arrivato un politico d’esperienza che sapeva fare il suo mestiere: Giuseppe Pisanu. E il servizio d’ordine della Cgil quella volta fece la sua parte. Resta il fatto che i pestaggi indiscriminati, le manganellate a pensionati, giornalisti stranieri, ragazze con le braccia alzate, le umiliazioni in caserma, la costruzione delle prove – a cominciare dalle molotov introdotte alla Diaz dalla polizia – sono avvenuti. E sono stati in buona parte rimossi. Ricordarli fa bene alla democrazia e, se l’onestà intellettuale prevarrà sullo spirito di corporazione, farà bene pure alle donne e agli uomini delle forze dell’ordine. Che troppo spesso sono indicati come «sbirri» mentre rappresentano il volto dello Stato. Sono pagati poco, ma fanno molto per la sicurezza degli italiani.

plificazione, giacché ha determinato le sorti di questo triangolo incuneato in Lombardia fin dal basso Medioevo, prima come baliaggio (strappato dalla Lega confederata al Ducato di Milano) e poi come cantone autonomo, «repubblica e Stato». I dazi doganali, che l’amministrazione cantonale avrebbe voluto trattenere per sé, furono all’origine del rifiuto delle prime due Costituzioni federali dell’Ottocento, quella del 1848 e quella del 1874; seguirono poi altre dispute, di natura economica principalmente (la controversia delle soprattasse ferroviarie si protrassero per decenni), ma anche d’ordine politico (libertà di domicilio) e cultural-linguistico (il temuto «intedescamento» della regione, soprattutto delle sponde lacustri). Piero Bianconi confessava che scendendo verso sud, nel Sottoceneri, con lo sguardo alle colline che digradavano dolcemente verso la val Padana, la matassa s’ingarbugliava: «A sud del lago [Ceresio]

il Mendrisiotto, che si direbbe appeso al Ticino dall’esile filo del ponte-diga di Melide, presenta una idrografia minima come volume ma complicatissima, manda la sua poca acqua in parte al Ceresio, in parte al lago di Como, in parte all’Olona…». Frastagliati, serpeggianti, aperti o ermetici, luce di speranza per chi fugge dalla miseria, varchi per merci e capitali d’incerta provenienza, i confini continuano insomma a segnare il destino delle comunità che abitano di qua e di là: vicende e peripezie ben illustrate da due esposizioni attualmente in corso, la prima al Museo doganale di Gandria (Un confine tra povertà e persecuzioni, vedi articolo a pagina 7), la seconda al Museo etnografico della Valle di Muggio (Pezzi di frontiera. Geografie e immaginario del confine). Occorre poi aggiungere i confini mentali, introiettati e sedimentati nel tempo dalle esperienze personali, positive o negative, intrise di pregiudizi ideologici e religiosi,

oppure di animosità gonfiate ad arte. In quest’operazione lo schieramento di centro-destra (Lega-Udc) ha saputo ricavare insperati successi elettorali, sottolineando solo le ripercussioni negative dell’afflusso dei frontalieri (mai così numerosi nella storia del Ticino). In realtà, come la radiografia dei settori d’attività rivela, senza questo apporto l’economia cantonale franerebbe: si pensi all’edilizia, alla pavimentazione delle strade, alla ristorazione, agli ospedali e alle case per anziani, al lavoro di cura, assistenza e pulizia. Volutamente la propaganda distorce il quadro, riproponendo il tradizionale schema «ticinesi-stranieri». Sappiamo invece che legami parentali e affettivi, matrimoni misti, doppie cittadinanze rendono vana ogni categorizzazione fondata su una presunta «purezza» del sangue. I confini contano, ma non srotoliamoci attorno il filo spinato. Non trasformiamoli in confinamento per chi li abita.

in&outlet di Aldo Cazzullo ricordare fa bene alla democrazia Vent’anni fa, in questi giorni, partivo alla volta di Genova per il G8, il vertice degli otto Paesi (allora) più industrializzati del mondo. Organizzava l’Italia. Il precedente di Seattle, con scontri durissimi, avrebbe dovuto mettere tutti in allarme. Genova, tutta viuzze, non era la città giusta. Silvio Berlusconi aveva appena vinto le elezioni. Presidente della Repubblica era Carlo Azeglio Ciampi, che dopo la morte di Carlo Giuliani apparve in televisione

Durante il G8 di Genova si scatenò un’ondata di violenza. (Keystone)

per tentare generosamente di salvare il summit. Il ministro dell’Interno Claudio Scajola rimase a Roma e non fece una gran figura. In questura a Genova c’era Gianfranco Fini, allora aspirante uomo forte. Fu un disastro. Città militarizzata. Barriere dappertutto. Elicotteri. Passai una giornata e una notte con i «capi» della rivolta, Vittorio Agnoletto e Luca Casarini. Si capiva che non ne sarebbe venuto nulla di buono. Fausto Bertinotti, già segretario di Rifondazione comunista, e altri trattarono con Gianni De Gennaro, allora capo della polizia, una violazione simbolica della «zona rossa» che proteggeva gli otto leader, ma qualcosa andò storto. Prima gli scontri di piazza, durissimi. Poi la spedizione notturna alla scuola elementare Diaz, dove non dormivano i violenti che avevano devastato Genova ma ragazzi venuti da ogni parte del mondo, quasi tutti con spirito pacifico. Quanto ai black bloc, non si è mai capito bene chi fossero, da dove venissero, se siano stati scientemente lasciati agire indisturbati, se siano quindi stati usati come alibi per la repressione successiva.

cantoni e spigoli di Orazio Martinetti vecchi e nuovi confini «I confini contano», sostiene Frank Furedi, sociologo inglese, nel suo ultimo saggio il cui sottotitolo recita: «perché l’umanità deve riscoprire l’arte di tracciare frontiere». Contano, come no, i confini; anzi, sembra proprio che negli ultimi anni si siano estesi e moltiplicati come fossero teste dell’Idra. Anziché sparire, come promettevano i trattati internazionali, sono risorti sia come barriere fisiche (muri, cancelli, reti, sbarre, guardie), sia come ostacolo amministrativo (visti, passaporti, formulari di ogni tipo e lunghezza). A questo inasprimento ha contribuito in modo determinante la pandemia, interrompendo di fatto la corsa alla completa libertà di circolazione delle persone (perlomeno nell’area Schengen). Il virus ha insomma sospeso la tendenza alla semplificazione, se non proprio all’annullamento di ogni impedimento alla mobilità. Un contraccolpo che ha riportato in auge i tradizionali steccati, sull’onda di un diffuso appello

alla sicurezza (per frenare il contagio, ma anche per arrestare flussi considerati pericolosi, come quelli riguardanti i profughi e gli stranieri in generale). Può darsi che il ritorno all’agognata «normalità» sciolga le catene imposte dalle restrizioni introdotte dai governi in regime di Covid-19. Ma intanto la politica ha potuto mettere in campo provvedimenti e dispositivi che l’Unione europea, passo dopo passo, intendeva affidare agli archivi. I confini contano perché esistono i territori, con il loro bagaglio ereditato dal passato, materiale e immateriale. Ogni territorio è solcato da linee di demarcazione, una trama che è frutto della morfologia ma soprattutto dell’evoluzione storica, dei rapporti di forza, di conquiste e cessioni, di guerre e negoziati. Spesso solo risalendo addietro nei secoli è possibile comprendere lo snodarsi di determinate linee, a prima vista bizzarre o casuali. Il caso ticinese si presta bene allo studio e all’esem-


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idee e acquisti per la settimana

Un tagliere vegano 5

Ingredienti fatti in casa come crema da spalmare alle bacche, il dip alle erbe, il müesli ai mirtilli, Plant-Based Carpaccio e Cappuccino danno forma a un vassoio da Brunch vegano.

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Preparazione Affetta la treccia e accomodala su un vassoio bello grande con il müesli, la crema spalmabile e il dip. Aggiungi in seguito l’affettato vegano, l’alternativa al formaggio e il carpaccio sul vassoio. A piacimento, forma dei riccioli con la margarina e disponila sul tavolo con l’alternativa al miele Wild Meadow. Taglia frutta e verdura a pezzettini e accomodali negli spazi vuoti. Trucchi: müesli ai mirtilli vegano Con il frullatore a immersione mescola il Vegurt con due terzi dei mirtilli e lo sciroppo di agave, poi versa il tutto in una scodellina. Servi con la granola e il resto delle bacche. La ricetta di questo piatto con tutti gli ingredienti si trova grazie al QR-Code pubblicato a pagina 38.

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La più giovane delle linee di prodotti di Migros compie il suo primo anno di vita. Un buon motivo per festeggiare! Ti sottoponiamo tre proposte per provare quanto piacevole e variata può essere l’alimentazione vegetariana: uno per la colazione, uno per la merenda e uno per lo spuntino serale. Anche se ne provi solo uno… V-Love you! Testo: Dinah Leuenberger – Foto: Claudia Linsi Styling: Esther Egli – Ricette: Andrea Pistorius, Migusto Continua a pagina 38

Vassoio di brunch vegano

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cultura e spettacoli la voce del violoncello Mattia Zappa si è esibito di recente in Ticino con un originale repertorio solistico pagina 39

correre è come scrivere Nel suo ultimo libro lo scrittore Mauro Covacich racconta della sua passione sportiva, vista dall’interno

Dopo cannes Una valutazione complessiva sull’edizione 2021 della rassegna cinematografica francese

sciascia e la pittura Un’antologia ripropone gli scritti che l’intellettuale siciliano ha dedicato alle arti figurative

pagina 41

pagina 45

pagina 47 Casa Ciseri a Ronco Sopra Ascona. (Ti-Press)

Un’osmosi tra ronco e Firenze

ricorrenza Nel bicentenario della nascita del pittore Antonio Ciseri riscopriamo la dimora e l’antico casato Elena Robert In questi mesi estivi che precedono il bicentenario della nascita di Antonio Ciseri (Ronco, 25 ottobre 1821 – Firenze, 8 marzo 1891) la sua casa natale a Ronco sopra Ascona ci regala un’opportunità imperdibile di scoprire le origini dell’artista diventato a Firenze una celebrità. La dimora di fronte a San Martino si qualifica tra le più ricche e meglio conservate in paese, insieme a poche altre pure appartenute alla famiglia. Un casato già nella città fiorentina a fine Cinquecento (un Andrea I vi è registrato nel 1603), molto ampio sia in Toscana, con discendenti diretti a Siena (proprietari della casa ronchese), sia in Ticino dove, per via matrimoniale, diventa un tutt’uno con la quindicina di famiglie patrizie del luogo. Ci accompagnano nella ri-scoperta dei Ciseri, l’architetto e urbanista Sabrina Németh e lo storico Marino Viganò, rispettivamente presidente dell’Associazione Ronco sopra Ascona Cultura e Tradizioni (ARCT) e membro del comitato. Nella casa natale hanno curato una piccola preziosa mostra di documenti d’archivio, frutto di una duplice

ricerca, storico-artistica-architettonica e genealogica, perlopiù inedita perché su tematiche meno indagate rispetto agli studi sulla fortuna artistica, critica e professionale del pittore. Confluiranno quest’ultima nella pubblicazione curata da Marino Viganò Antonio Ciseri – Il protagonista e gli avi nella migrazione artistica ticinese – XVI-XIX secolo, e la prima in un opuscolo illustrato attestante la campagna fotografica e il rilievo dell’edificio promossi dall’associazione. Come si spiega il rigoglioso sviluppo edilizio del paese tra il XVI e il XVII secolo? «La Ronco rurale e lacuale si emancipa con la trasformazione della collina in campi, vigneti e uliveti. Diventa così sempre più importante per l’economia lombarda e gli scambi regionali e transalpini – ci racconta Sabrina Németh – poi si sviluppa da inizio Seicento la migrazione artistica di imbiancatori, pittori d’ornato, quadraturisti di architetture illusionistiche e paesaggi, verso Firenze e Viterbo. Da una parte Casa Ciseri, ma anche Casa Suter e Ca’ di Pitur, sfuggite solo in parte a pesanti deturpazioni, dall’altra i palazzi fiorentini in cui lavorano i Cise-

ri rivelano contaminazioni culturali tra città e campagna, a cavallo tra quadraturismo barocco e vedute paesaggistiche romantiche. In questi edifici a Ronco si respira manifestamente il gusto fiorentino dei tempi». La famiglia del pittore è alto borghese e la dimora in Ticino non può essere da meno, con pareti e soffitti affrescati, camini decorati, pavimenti anche pregiati, una grande cassaforte a muro, percorsi indipendenti per la servitù, particolari tecnici all’avanguardia. L’edificio è tutelato da Cantone e Comune. È probabilmente il risultato della sovrapposizione di parti secentesche diverse, restaurate e perlopiù riedificate attorno al 1830 dai due fratelli Francesco e Giuseppe Ciseri, che avrebbero dipinto anche gli interni, rispettivamente padre e zio di Antonio, forse su disegno dell’architetto Francesco Meschini (1762-1840). Il bel cortile d’accesso, attribuibile invece all’architetto milanese Giacomo Moraglia (1791-1861), sul quale si affacciano le due ali principali dell’edificio, finisce per diventare l’elemento unificatore del complesso. Viene da chiedersi da dove venga Antonio Ciseri, artista noto internazio-

nalmente, per poterlo collocare correttamente tra la sua ascendenza ronchese e la nuova patria d’elezione, Firenze. Al di là dei suoi legami affettivi e professionali in Ticino, il pittore rimane comunque profondamente ancorato alle origini. «Documenti ora esposti a Ronco attestano l’incarico accettato dall’artista, in accordo col Municipio di Brissago e la legazione di Svizzera a Firenze, di occuparsi dal 1865-66 del reddito di una casa in città, di proprietà della Parrocchia di Brissago dal 1676. Gli esiti della ricerca tuttora oggetto di verifiche – conferma Marino Viganò – forniscono risposte sull’osmosi continua tra Italia e Svizzera vissuta dal nostro protagonista e sui suoi fitti rapporti con la Parrocchia e il Patriziato a Ronco o con la Diocesi di Como. L’arrivo giovanissimo a Firenze, dal nonno Antonio, nel 1833, accompagnato dal padre Francesco, la successiva iscrizione all’Accademia di belle arti e poi il matrimonio a Firenze con Cesira Bianchini sono una consuetudine in famiglia o frutto di strategie. Il pittore Antonio spicca per importanza e notorietà nel casato dei Ciseri, distintosi perlopiù in un artigianato di alto livel-

lo. Nelle dodici generazioni individuate finora non mancano però – aggiunge lo studioso – personalità di rilievo che diventano famose e si arricchiscono: oltre venti suoi avi si affermano tra la corte dei Medici e quella degli AbsburgoLorena, come Andrea II (1612-1678), celebre pittore d’ornato che lavora con lo scenografo fiorentino Jacopo Chiavistelli, e Pietro V (1749-1805) pittore di architetture, noto per le sue decorazioni alla Galleria degli Uffizi». Come dire, nulla è casuale o deve sorprendere. Dove e quando

A cura di Marino Viganò e di Sabrina Németh Antonio Ciseri e gli antenati da Ronco a Firenze, mostra a Casa Ciseri, Ronco sopra Ascona, fino al 3 ottobre 2021, sa e do 14.00-17.00. Visite guidate a mostra, Casa Ciseri (solo pt) e altre dimore il 31 luglio in italiano, il 1. e 7 agosto in tedesco, oltre che su richiesta. Viaggio di studio a Firenze nel 2022. Info e iscrizioni su www.arct.ch e s.nemeth@arct.ch (078 679 61 26). Per le manifestazioni ciseriane in altre località del Cantone consultare www.antoniociseri.ch


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idee e acquisti per la settimana

Grigliata mista vegana Salsicce vegetali, burger senza carne, spiedini, verdure Snack, chips, pani pita, insalate e una ricca scelta di salse, questa grigliata vegana è una bomba. Preparazione Accomoda su un vassoio ben grande le verdure miste Snack, le chips e i cracker. Griglia brevemente da entrambi i lati i pani pita e accomodali sul vassoio. Accomoda l’insalata di carote e il taboulé nelle foglie d’insalata e distribuiscile sul vassoio insieme con la salsa guacamole, la maionese vegana, le salse e lo tzatziki. Griglia gli ortaggi marinati, le salsicce e i burger, gli spiedini e accomodali sul vassoio. Servi la margarina alle erbe. Decora il vassoio con erbe fresche. Taglia i limoni o le limette a spicchi e distribuiscili sul vassoio. Trucchi: Tzatziki vegano Grattugia il cetriolo con la grattugia per bircher. Mescolalo con il sale e lascialo riposare per 5 minuti. Versalo in un colino e strizzalo bene poi mescolalo con il Vegurt. Aggiungi l’aglio spremuto, l’aneto sminuzzato e pepe. La ricetta di questo piatto con tutti gli ingredienti si trova grazie al QR-Code.

Tutte le ricette e i prodotti sono raggiungibili tramite il QR-Code oppure su migusto.ch/boards Continua a pagina 40

sempre più vEgETalE Migros ha ampliato il suo assortimento di prodotti certificati come vegani o vegetariani. Sostituti dei latticini della New Roots e di Wilmensburger, gelati Coco Ice-Land o pasticcini Raw Cake completano le proposte V-Love!

1 Bio V-Love Veganaise 170 g Fr. 1.95 2 V-Love Plant-Based Macinata 300 g Fr. 5.50 3 V-Love Plant-Based Burger 220 g Fr. 5.50 4 V-Love Plant-Based Salsiccia da grigliare 200 g Fr. 4.20 5 V-Love Plant-Based Bratwurst 200 g Fr. 4.50


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cultura e spettacoli

Un uomo e un violoncello

giovani attori alla prova

in varie località del nostro cantone e poi della Svizzera interna

dell’Accademia si misurano con il Variété

classica Il musicista ticinese ha tenuto alcuni concerti «in solo»

Enrico Parola «Torno spesso in Ticino, porto i miei tre figli dai nonni, vedo gli amici e i colleghi musicisti; non di rado sono venuto per dei concerti, ma questa volta, dopo il lungo e duro lockdown subìto anche da teatri e concertisti, ha un sapore tutto speciale». Non nasconde l’emozione e neppure i sentimenti con cui ha attraversato l’anno segnato dalla pandemia, Mattia Zappa, violoncellista, compositore e responsabile artistico dei Solisti della Svizzera Italiana; a inizio luglio ha tenuto alcuni recital nella sua regione d’origine: il 4 nella chiesa di San Carlo a Barbengo, il giorno dopo in San Giorgio a Morbio Inferiore, il 7 nella chiesa Nuova di Locarno, per poi proseguire il tour a Lucerna e in altri luoghi della Svizzera Interna. «L’ho intitolato “One –Cello” non solo perché ho suonato da solo col mio strumento, ma perché dopo la terza Suite di Bach ho proposto tre trascrizioni da brani non pensati per violoncello, donatemi personalmente da alcuni amici musicisti. Johann Sebastian Paetsch, primo violoncello dell’Orchestra della Svizzera Italiana, ha curato quelle della celeberrima Ciaccona dalla seconda Partita per violino solo di Bach e della forse ancor più popolare Toccata e fuga in re minore per organo, sempre del sommo Johann Sebastian; invece l’Adagio di Samuel Barber, altra pagina che soprattutto grazie al cinema ha avuto una diffusione planetaria, è stato trascritto da Sandro Laffranchini, primo violoncello della Scala di Milano, con cui tra l’altro ero compagno di classe quando studiavamo – erano gli anni 1996-98 – con Thomas Demenga alla Musikakademie di Basilea». La trascrizione non è una mera ripetizione delle note su uno strumento diverso da quello, originariamente pensato dal compositore: «Anche perché, pensiamo ad esempio alla Toccata e Fuga, non è possibile eseguire tutte le note scritte da Bach per i tasti e la pedaliera di un organo, e quindi Laffranchini ha già dovuto scegliere come ren-

Giorgio Thoeni

Nato nel 1973 a Locarno, Mattia Zappa è responsabile artistico dei Solisti della Svizzera italiana. (CdT.ch)

dere l’effetto polifonico rinunciando ad alcune note, ma mantenendo armonie e andamenti contrappuntistici. E comunque trattare il violoncello come uno strumento polifonico è tutt’altro che facile, e anzi prima di Bach non era letteralmente pensabile. Fu lui a lanciarlo in questa nuova dimensione, così come fece col violino, come testimonia questa mirabile cattedrale di note, armonie e contrappunti che è la Ciaccona». Una vertigine sublime e misteriosa, in cui l’acribia dei musicologi ha scoperto un riverbero commovente della biografia bachiana: Johann Sebastian dovette seguire il nobile presso cui lavorava in un soggiorno di cure; sarebbe dovuto durare solo poche settimane, invece si protrasse e quando Bach fece ritorno scoprì che la moglie era morta e le era già stato officiato il funerale; e lui non era stato neppure av-

vertito! Come omaggio postumo, Bach inserì in questa Ciaccona alcuni Corali usati in altre sue opere che trattano della Passione, Morte e Resurrezione di Cristo, in tal modo dedicando alla consorte una liturgia musicale, dal dolore per la morte alla speranza, da sincero cristiano qual era, nella vita eterna, criptata in questo capolavoro violinistico. «Già, e alle notevoli difficoltà tecniche – un conto sono le corde e l’archetto di un violino, un altro quelle di un violoncello, ben più grandi – e interpretative, subentrano anche quelle timbriche: Bach aveva pensato l’opera per un violino, quindi ho dovuto dedicare un grande lavoro alla resa sonora, così come per la Toccata e Fuga, ad esempio eliminando completamente il vibrato, già nell’accordo che dà il La all’opera, per avvicinarmi al suono dell’organo». Considerando anche l’effetto «cameristico» (l’originale sarebbe per

quartetto d’archi) dell’Adagio di Barber, suona quasi come un’intrusa la terza Suite: «Splendida, un Do maggiore luminoso che rifulge anche più del Re maggiore della Sesta. Vuole essere un messaggio di gioia per riprendere a suonare davanti al pubblico; nonostante abbia avuto tanto tempo per studiare, ad esempio queste splendide ma difficili trascrizioni o repertori desueti come le musiche tradizionali georgiane e le opere di Schulhoff, questi mesi sono stati durissimi: prima senza musica, che è il nostro pane quotidiano, poi senza pubblico, con i teatri vuoti o in questi ultimi tempi con cinquanta persone, quasi imbarazzate ad applaudire nella vastità della Tonhalle (Zappa suona nell’orchestra zurighese, ndr.). I cento spettatori che hanno potuto assistere a questi recital hanno provato un gusto incredibile, dimenticato, tutto da riassaporare».

Una personalissima cifra sonora

analisi musicale L’Also sprach Zarathustra di Strauss, nella sua vivacità espressiva,

esercita un grande impatto emotivo e ancora oggi è molto apprezzato dal pubblico Carlo Piccardi A tutti è capitato, magari senza conoscerne l’origine, di ascoltare l’apertura del poema sinfonico Also sprach Zarathustra di Richard Strauss (riferito a Così parlò Zarathustra di Friedrich Nietzsche). Da quando Stanley Kubrick lo impiegò in 2001, Odissea nello spazio (1965), il rombante suono informe che cresce dal caos verso una luce abbagliante si è impresso talmente nell’immaginario contemporaneo che assistiamo quasi quotidianamente alla sua replica come luogo comune cinematografico e negli spot pubblicitari, per attirare l’attenzione degli acquirenti sul senso di mistero che si vorrebbe celato dietro il più innocuo profilo di un’automobile ultimo modello e persino dell’utensile più domestico. È un fenomeno di annessione di una cifra sonora vecchia di oltre cent’anni e a sua volta risultato di un concetto musicale che attraversa un altro secolo. All’origine troviamo infatti la rappresentazione musicale dei Campi Elisi come viene proposta nella «Danza degli spiriti beati» nell’Orfeo e Euridice (1762) di Christoph Willibald Gluck, dalla sospesa soavità melodica

verscio Gli allievi

Richard Strauss in un ritratto del 1888. (Wikimedia)

discretamente sostenuta da armonie eufoniche. È il vagheggiato mondo mitologico che la musica ha tentato di rappresentare, ma settecentescamente (illuministicamente) è anche una proiezione ideale in quel mondo a venire che gli intellettuali del tempo si attendevano dopo la Rivoluzione francese. Non per niente tale visione paradisiaca di stampo gluckiano è riconoscibile nell’innodia rivoluzionaria di

François-Joseph Gossec e compagni (Hymne à l’Être suprème, ecc.). A dire il vero, settecentescamente (e voltairianamente) assistiamo subito alla sua caustica rappresentazione di segno opposto. Lo constatiamo nell’opera teatrale Il mondo della luna di Joseph Haydn, dove il protagonista Buonafede è trascinato con l’inganno in una presunta condizione lunare, dove il cristallino suono dei vegetali e l’armonio-

sità del canto degli uccelli sono ormai una caricatura. Ci penserà Mozart col Flauto magico a rimettere le cose a posto, a umanizzare la spinta delle utopie fantasiose attraverso un equilibrio dell’espressione musicale mantenuta nei termini dell’immediato sentire. Ma già nel finale della Nona sinfonia di Beethoven, quando il testo di Schiller allude al cielo stellato, la musica rincorre l’ineffabilità del suono e raggiunge lo stato di incantamento che sarà fatto proprio da Wagner nei suoi luoghi drammatici della trascendenza e dai compositori di estetica simbolistica (da Debussy a Skryabin). In verità Strauss ne rimase ai margini, accomodandosi all’intuizione sonora celestiale solo nello Zarathustra, sicuramente recependo l’aspirazione della borghesia del tempo a elevarsi, stregata dal fascino del superuomo nietzschiano. Moda più che cultura in quel caso, o forse semplicemente contraccolpo spiritualistico nel contesto degli eccessi dell’epoca positivistica? Si spiegherebbe così oggi la sua tenuta, in un mondo fortemente impregnato di materialismo, ma certamente non abbastanza appagato e quindi disponibile alla fuga nelle incognite dell’esoterismo.

Oltre agli esami di fine ciclo, l’Accademia di Verscio ogni anno affronta una sfida pari al preludio per molte aspettative artistiche, giro di boa per docenti, allievi e, ovviamente, per il pubblico che se l’aspetta. È il Variété, importante passaggio di un rituale di iniziazione ormai entrato a far parte di una liturgia che mette alla prova non solo le capacità dei giovani artisti ma anche la creatività dei docenti che, a turno, sono chiamati a creare uno spettacolo. Questa volta è toccato a Nancy Fürst con Baradhoc, spettacolo in due tempi da poco assurto agli onori della scena. Attrice, cantante e regista, Nancy è uno dei classici esempi di artista che, dopo aver conseguito il diploma a Verscio, ha aggiunto una formazione collaborando a diversi progetti, creando una sua compagnia Le Théâtre de Minuit, realizzando diverse creazioni e saldando il legame con l’Accademia dove insegna drammatizzazione del movimento e teatro senza parole. Lo spettacolo, ideato con la collaborazione di Raul Vargas Torres (coreografie), Alessandro La Rocca (musiche) e Emanuel Pouilly (assistente alla regia), è un concentrato di scenette collegate dal tenue filo di un pretesto drammaturgico come il popolo del bar (da cui il titolo, Baradhoc), dove l’ambientazione, i personaggi e le situazioni devono lasciar emergere le caratteristiche di ogni attore. Così, nella prima parte, si assiste a un viavai di numeri, dalla clownerie ad acrobazie in solitaria o a più mani fino a slanci cantati sul genere della commedia musicale. Un insieme di specialità su cui la regia ha puntato per dare un bel ritmo, veloce, accattivante e gioioso. E qualche punta di suggestione. Come per l’inizio del secondo tempo con stracci che svolazzano in scena fra luci e ombre creando una giostra ad effetto che strappa meritati applausi lasciando ben sperare sul resto, che però si rivela essere invece la parte più fragile dello spettacolo, in altri termini quella che meriterebbe di essere rivista. Sia per dare maggiore centralità ad alcuni personaggi sia per consolidare certi siparietti musicali ancora deboli. Baradhoc è tuttavia godibile, ben concepito per una verifica di fattori determinanti per un attore come la presenza scenica, l’abilità e la precisione, l’empatia, il gioco di squadra, la ricerca del personaggio. Insomma, quella quadratura del cerchio che sarà sinonimo di professionalità e successo. Applausi a scena aperta alla prima per Jérémie Bielmann, Laura Bruneteaux, Andrea Cannarozzo, Steeven Chakroun, Valeria Estrella, Salomé Fischer, Simon Huggler, Eva Felicitas Krause, Martha Mutapay, Georgia Paliogianni, Juan Bautista Poniz e Baptiste Vurlod.

Un momento dello spettacolo Baradhoc.


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cultura e spettacoli

la corsa è un romanzo libri 1 L’ultimo libro di Mauro Covacich racconta la storia

di una passione capace di diventare una mania

Angelo Ferracuti La maratona, e comunque la corsa in genere, è lo sport più individualistico e interiore, una lotta contro il tempo e lo spazio dove si misurano le forze, ma anche quello più olimpico in assoluto e il più classico ed economico di tutti. Basta indossare un buon paio di scarpe, una tuta, e mettersi su strada, correre nei boschi o lungo il bagnasciuga, nei prati o nei campi sportivi, spingersi in luoghi abituali che alla fine si conoscono a memoria. Ma presto quella che è da tutti considerata un’attività salutare per eccellenza, usata per fare cure dimagranti o per abbassare drasticamente i valori del colesterolo, rimediare all’invecchiamento delle cellule, si trasforma in qualcosa d’altro, di più introspettivo e profondo, una vertigine che diventa anche «una scelta estetica». Almeno a detta di Mauro Covacich, romanziere di lungo corso e tra i migliori della sua generazione, autore di un piccolo intrigante libro, Sulla corsa (La nave di Teseo, 2021) che mette insieme momenti, pezzi di memoria tra il 1976 e il 2019, un racconto di formazione di quarant’anni di autobiografia atletica vissuti sulle strade del mondo. Una memoria che ha già prodotto un romanzo tra i migliori dello scrittore triestino, di rara calibratura e forza espressiva, A perdifiato (sempre La nave di Teseo, i delfini) di ambientazione ungherese, dal quale è partito per il video-romanzo L’umiliazione delle stelle, una performance dove Covacich ha corso su un tapis roulant la distanza classica della maratona, 42 chilometri e 192 metri, un video dove per tre ore ripete gli stessi gesti atletici. La sua è soprattutto una riflessione di un intellettuale su una pratica sportiva ormai

diventata di massa, una attività che somiglia «più a un arte marziale che a uno sport», confessa l’autore, oppure «la cosa più bella che una mente umana possa produrre», o ancora «il più alto grado di bellezza nella corsa» che il corpo possa raggiungere. Lui la scopre ragazzino in un sabato di dicembre a Trieste a una gara del dopolavoro, la città dove è nato, e mentre corre pensa di morire «in mezzo alla strada sgombrata per la corsa, davanti a pochi curiosi infreddoliti». Alla fine, arriverà solo terzo, vincendo un panettone e L’allegro chirurgo. Ma ha già incubato quella che considera una malattia o addirittura una «intossicazione», una assoluta dipendenza, la vertigine introspettiva che gli farà trovare dentro in sé stesso il proprio avversario da superare, e poi «i limiti del corpo, i limiti della mente, è questo che intende forzare, qualunque sia il suo livello». Una esperienza (che l’autore vive la prima volta da ragazzo in una «pulsione di morte») che il maratoneta tenderà a ripetere come una ricerca di estasi, «una forza irresistibile che produce quella condizione di annullamento simile all’orgasmo in cui la coscienza si scioglie nell’indistinto, così come le molecole di glucosio si scindono nella produzione di energia e gli acidi grassi si ossidano», la petite morte dell’atto sessuale, il suo erotismo panico. Anche Filippide, ci ricorda, il primo di tutti, corre ad Atene da Maratona dopo la battaglia e muore subito dopo l’annuncio, «una missione estrema» la sua, «e in effetti mortale, compiuta in uno stato di esaltazione». Con una lingua colloquiale, e molto spesso in presa diretta, la lingua del reportage o del racconto intimo, Covacich ci porta dentro il mondo comples-

musica, come in un film

libri 2 Vivaldi e le sue figlie, un bestseller

in Germania

so dell’uomo che corre, disegnandone anche la fisionomia simbolica e antropologica, ma anche sociologica di certi rituali uguali per tutti, come quelli esilaranti e massificati dei partecipanti alla maratona di New York, le «tre ore di fila al marathon expo per ritirare il pacco gara», oppure la piccola gita in pullman prima di essere scaricati sul ponte di Verrazzano «tre ore prima della partenza, insieme agli altri cinquantamila concorrenti». Covacich racconta la sua New York, corsa nel 1999, la «disperazione del benessere» di una popolazione occidentale abbiente, «quei tizi che sembrano miserabili moribondi e sono consumatori di amminoacidi ramificati a un euro a pillola», così come alcuni alcuni campioni come Merlene Ottey, che vede come «una Venere callipigia uscita da un poema di Derek Walcott. Omerica e nera», oppure Haile Gebreselassie, campione olimpico etiope che incontra ad Addis Abeba, un moderno Abebe Bikila. Naturalmente nel libro rimette in circolo anche la memoria di alcuni libri, Correre di Echenoz, biografia letteraria del più grande maratoneta di tutti i tempi, Emil Zatopek, «la locomotiva», che per tutta la vita «non smetterà mai di misurarsi con sé stesso», e L’arte di correre di Murakami Haruki, che però lo lascia insoddisfatto, sente che «non è riuscito a interrogare fino in fondo la sua passione prediletta». Ma lo scrittore giapponese coglie, comunque, una cosa che apparenta, come in Covacich, letteratura e corsa: «Scrivere un libro» afferma, «è un po’ come correre una maratona, la motivazione in sostanza è della stessa natura: uno stimolo interiore silenzioso e preciso, che non cerca conferma in un giudizio esterno».

L’autore. (storiecorrenti.it)

Stefano Vastano Della sua opera più nota – Le quattro stagioni – si contano centinaia di registrazioni. Nessun’altra composizione, né una sinfonia di Beethoven né un concerto di Mozart, è così pop quanto questa fantastica opera di Vivaldi. In letteratura poi i romanzi sul «prete rosso» non sono più una novità. Concierto barroco, il romanzo di Alejo Carpentier è del 1974; e con Stabat mater Tiziano Scarpa ha spuntato, nel 2009, il premio Strega. Come mai allora Vivaldi und seine Töchtern, «Vivaldi e le sue figlie», l’ultimo romanzo di Peter Schneider è rimasto per mesi in Germania fra i bestseller? Quale plot ha mai intrecciato lo scrittore berlinese intorno alla musica e vicende del compositore veneziano? Una prospettiva molto personale, visto che suo padre – Horst Schneider – era musicista e direttore d’orchestra a Friburgo. E Peter da ragazzo ha studiato violino suonando, sotto la bacchetta del padre, le opere di Vivaldi. «Il romanzo è un omaggio a mio padre, che mi ha insegnato la passione per la musica e la disciplina per suonarla», spiega Schneider. Come Giovanni Battista Vivaldi, (barbiere) e violinista a San Marco, che al primogenito Antonio insegnò tutti i trucchi del mestiere. Per la generazione del ’68, Schneider è stato un protagonista della rivolta studentesca a Berlino, soprattutto l’autore di Lenz e Il saltatore del Muro, testi-Kult degli anni di protesta. Al di là di musica, letteratura e politica, è il cinema l’altra passione di Peter Schneider. Il romanzo su Vivaldi nasce come sceneggiatura a cui stava lavorando per un film con Michael Ballhaus, il cameraman che ha girato i film più belli di Fassbinder e Martin Scorsese. Insieme ai ricordi personali è quindi il fattore-cinema a imprimere al testo sound e colori così vivaci. Come le scene in cui Schneider descrive l’atmosfera della Serenissima all’epoca di Vivaldi: «Venezia – si legge – era la metropoli del divertimento in Europa del 17° e 18° secolo, la Las Vegas del tempo». Costretto, dalla madre Camilla, a vestire la tunica, è all’insegnamento della musica alle orfanelle dell’ospedale della Pietà che Vivaldi dedica il suo estro musicale. «Anche per questa sua orchestra femminile, commenta Schneider, Vivaldi fu un vero pioniere». Nel romanzo però scopriamo anche «l’altro volto» di Vivaldi, astuto impresario e traffichino manager d’opera. «Vivaldi, ricorda Schneider, fu un grande impresario, ma non sempre ebbe successo, anzi». Non era certo l’unico sulla scena teatrale di Venezia, e tante le gelosie che «il prete rosso» ispira nella concorrenza. Soprattutto in

La biografia del «Prete rosso» è opera di Peter Schneider. (Wikipedia)

Benedetto Marcello, altra Star dell’era barocca, che compone libretti anonimi contro Vivaldi e la sua giovanissima mezzosoprano Anna Girò. Da allieva alla Pietà, Anna muterà nella «primadonna assoluta», a cui Vivaldi darà il ruolo di protagonista in tante opere e arie. Tra il Maestro, tanto celebrato alle corti di Mantova, tedesche o persino a Roma, e l’avvenente Annina la differenza è di 32 anni. Ma qual è il vero rapporto fra Vivaldi, la giovane cantante e la sua sorellastra Paolina? All’intrigante e creativa costellazione fra l’artista e le Girò, Schneider dedica pagine di tenera bellezza, senza mai scivolare nel kitsch. Se la relazione fra Antonio e Anna resterà per sempre avvolta nel mistero, la musica di Vivaldi attraverserà i secoli, facendo tremare i polsi persino a papi e imperatori. In una delle scene più suggestive del romanzo, accolto al Vaticano da Benedetto XIII, Vivaldi intona al violino La follia, l’irruenta musica già suonata dal grande Corelli. E il papa batte il ritmo con le sue pantofole rosse. A Trieste poi l’imperatore Carlo VI lo nominerà persino «Ritter», Cavaliere, il geniale musicista. Peccato che a questo mondo ogni gloria è effimera, anche quella di un Vivaldi. Intorno al 1740, perso l’incarico alla Pietà, costretto dai debiti a vendersi gli spartiti, eccolo lasciare la Laguna per rifugiarsi a Vienna. La stella della «sua» Annina brillerà ancora per altri Maestri della feconda industria barocca. Anche Ballhaus, il famoso cameraman di Scorsese, passerà gli ultimi anni afflitto da cecità, come Schneider racconta nelle ultime pagine insieme alla parabola di Vivaldi, le cui opere saranno dimenticate per secoli, prima di essere riscoperte agli inizi del 20° secolo. «Un comeback come quello di Vivaldi, conclude l’autore, non si era mai visto nella storia della musica». Un romanzo tutto da leggere questo di Schneider per capire i miracoli, le tragedie e tutte le casualità nella vita di uno dei più grandi artisti della storia.

rendere la germania in italiano

libri 3 Esce per Finis Terrae un volumetto di racconti tradotti dagli allievi

del corso tenuto da Anna Ruchat Un compito insostituibile, per quanto tra i più complicati in assoluto, è affidato ai traduttori. Solo attraverso il loro lavoro alla gran parte di noi è possibile accedere al grande patrimonio della storia della letteratura (per limitarci a questo campo dell’attività umana). Tieni vivo il ricordo del volo è una raccolta di racconti della scrittrice iraniano-tedesca Sudabeh Mohafez, di cui i lettori italiani hanno potuto fino ad oggi conoscere solo il romanzo Cielo di sabbia, tradotto nel 2012 dalla nostra Anna Ruchat.

La stessa Ruchat, scrittrice e traduttrice a sua volta , ha proposto ai suoi allievi del Corso di master della Civica scuola interpreti e traduttori Altiero Spinelli di Milano di «voltare in italiano» alcuni racconti della Mohafez. Il volumetto edito da Finis Terrae contiene quindi i frutti di un lavoro di elaborazione essenzialmente scolastico, caratteristica che comunque non ne influenza in alcun modo la validità. Anzi, per certi versi la lettura ne è resa più intrigante: il lettore è infatti incuriosi-

to da queste traduzioni eterogenee che alla fine però sembrano aver trovato un loro tono omogeneo e corale. I testi della Mohafez sono del resto affascinanti nella loro minuziosa descrizione di un reale a volte crudo ma tenuto sempre sotto una luce sommessa, quasi favolistica. La stessa Mohafez si è detta sorpresa dalla scelta, che raccoglie sia testi a lei commissionati sul problema della multiculturalità, sia brani più affini alla sua poetica, legata al temi della violenza famigliare

nella società tedesca. Il risultato è un libro disincantato e attuale che lascia intravvedere l’impegno degli studenti, volto a convertire il tedesco moderno della Mohafez in un italiano altrettanto presente e incisivo. Lavoro difficile e affascinante quello del traduttore: a chi interessasse segnaliamo che la Casa della letteratura di Lugano ne proporrà prossimamente un corso specifico. Informazioni qui: www.casadellaletteratura.ch/corso-di-traduzione-editoriale.html. /AZ

Nata nel 1963 a Teheran, la Mohafez vive in Germania dal 1979.


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cultura e spettacoli

antropologia lirica

Poesia I nuovi versi di Guido Mattia Gallerani indagano il passato alla ricerca dell’essenza

e delle caratteristiche fondamentali della razza umana

Guido Monti «Si credeva la creatura più speciale, / ma era solo il più giovane / tra gli abitanti effimeri del mondo. / … / fuggiva dietro le sue frecce / l’orso bruno, il Grizzly. // … / Da cacciatore a vittima, / dietro le teche di un museo / raffermo nelle sue requie / di cera e tende di cartone / … / con la sua cena ancor lì / … / imbalsamata nella formalina». Ecco uno stralcio della poesia Uomo di Neanderthal presente nella nuova raccolta di Guido Mattia Gallerani, intitolata I popoli scomparsi (peQuod editore, euro 15) che già ci dice molto sul senso e la direzione di questo libro, prefato da Mimmo Cangiano. Tra le pagine difatti rintoccano chiare, talvolta cupe, le campane del tempo di ogni popolo, ad ogni battito un’etnia appare sulla terra, vi soggiorna e poi scompare e certamente si è presi nei versi, da questa itinerante evoluzione dell’umano, che talvolta trasborda in involuzione e che dal quaternario come una formichina testarda, si arrampica sui rami dei giorni. Ecco allora risuonare il pensiero del grande antropologo francese Claude Levi Strauss, il quale affermava che «l’etnologo registra un battito mai lo spiega» e Gallerani questo fa: un resoconto antropologico, che cammina però non solo sulla tavola delle scienze esatte ma su quella propriamente estetica del verso, che con la sua scossa di senso riempie di significazioni ulteriori il cammino

L’autore è ricercatore all’Università di Bologna. (poesiafestival.it)

dell’Homo sapiens: «… / scesero in profondità, / seguendo l’odore delle falde / … / imbastendo cisterne d’acqua / e grotte sepolcrali, antri / in cui nei secoli futuri / tra la rete dei cunicoli sommersi / sarebbero entrati i poveri / scacciati da ogni letto, / … / i perseguitati dalle leggi successive, / … / ma anche dopo le bombe, / i piedi e le mani, i crani / di persone moltiplicatesi / sottoterra, in specie diverse /». Tanti popoli si muovono nelle pagine, dai Sumeri ai Cimmeri, dai Piceni ai Vichinghi, alcuni sembrano con le

loro complesse culture, proiettarsi verso un punto indistinto del futuro, altri invece muoversi più in una circolarità sempre uguale a se stessa. Dalle prime grandi civiltà della Mesopotamia, dell’Indo, dell’Egitto, Gallerani risale all’epoca romana, sino al basso medioevo e ancora a quelle popolazioni delle Americhe centrali e del sud che nel loro isolamento tengono ancora traccia del neolitico che fu; molte sterminate già nel secolo scorso, attraverso repentini e predatori interventi sui territori. Il poeta ci fa intendere quindi, che

gli atti di coazione verso i deboli o le minoranze, sono variegati e attuati non solo dalle comunità che ci hanno preceduto ma anche da quelle moderne che si dicono portatrici di diritti di eguaglianza e libertà. E difatti in esse fioriscono, come reazione alle nuove sottese linee guida imposte dalle tecnologie di massa, gruppi di protesta che utilizzando codici comportamentali ben precisi, sottolineano una propria lontananza irreversibile ai nuovi modelli di sviluppo ritenuti insostenibili. Ecco allora nella pagina legarsi per paradosso gruppi identitari così lontani anche geograficamente, come gli Yanomami abitanti dell’Amazzonia e i punk, ma così vicini nella strenua resistenza alle economie e culture dominanti: «… // Accorpati alla classe dei nemici / a uno a uno li cacciarono / dal teatro urbano, molti ne dilaniarono / i dobermann dell’unità cinofila. // Furono fatti esplodere / in bulbi di luce venosa / dai pugni e dai calci / di Ken il guerriero. / …». Ma Gallerani altresì, accompagnando sulla soglia poetica le tante civiltà, ha preso per mano anche i loro miti che in verità non sono mai impermeabili l’uno l’altro, anzi sembrano parlarsi in una metastoria che davvero ci riguarda, illuminando le tenebre di quelle caverne da cui tutti veniamo. Ecco la storia del mito è anche quindi la storia raccontata da questo libro: cos’è il mito? Quale il suo significato? sembra domandarsi il risvolto di ogni verso;

in fin dei conti quando ci avviciniamo ad esso, anche se proveniente da un popolo lontanissimo dalla nostra cultura, ecco che ci commoviamo. Il sentimento estetico che ci viene, leggendo un mito, è appunto questo: un accesso immediato a una intelligibilità delle cose del mondo, non ragionata ma provocata appunto da una scossa emotiva. Ed ecco allora camminare sottotraccia nel libro, l’ulteriore e risolutivo corollario: cos’è il bello? problema che la filosofia discute da secoli e che sembra non aver risolto: «… // Qualcosa di loro sopravvisse, / tra le avanzate e ritirate nel disordine, / nei cerchi disegnati… / dagli inseguimenti cavallereschi / dei biplani,… / nelle picchiate e nei tuffi nel vuoto / con cui precipitarono in fiamme / quei primi eroici aviatori /». Ed allora il poeta iniziando dal Neanderthal, immesso anch’esso oramai in un più ampio mito, si congeda con una immagine visionaria, pensando anche noi lettori, imbalsamati nella teca del museo che verrà, innanzi a spettatori il cui sguardo però non ci sarà dato scrutare. E il titolo di questo libro, I popoli scomparsi, ci lascia il brivido di un ultimo interrogativo: il significato, inteso nel senso più ampio, è interno all’uomo o l’uomo è dentro un significato? Laicamente Guido Mattia Gallerani sembra sposare la prima opzione: la nozione di significato va di pari passo con l’uomo, alla sua scomparsa, anche tal nozione svanirà. Annuncio pubblicitario


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cultura e spettacoli

la croisette è tornata

cannes 2021 Dopo un anno di pausa dovuto alla pandemia, una ricca selezione di film

festeggia la 74ma edizione della celebre rassegna cinematografica francese

Nicola Falcinella Tantissimi film in una selezione extra large per celebrare il ritorno dei grandi festival di cinema ma anche per affermare la capacità attrattiva di Cannes, che vuole restare la maggiore vetrina internazionale. Il bilancio, mentre scriviamo a pochi giorni dalla chiusura e dalla consegna dei premi, è positivo: è già stato un successo realizzare la 74° edizione della manifestazione sulla Croisette dopo la rinuncia nel 2020. La pandemia si è fatta sentire, con meno accreditati e pubblico, mascherine obbligatorie alle proiezioni e negli spazi al chiuso, anche se non sono mancati affollamenti e resse, per esempio per la proiezione di The French Dispatch di Wes Anderson. La pellicola del regista texano era una delle più attese, per via dell’autore, della presenza di tante star (Bill Murray, Tilda Swinton e tanti altri), ma anche per essere stata tenuta ferma un anno per venire a Cannes, stessa scelta compiuta da Tre piani di Nanni Moretti e Benedetta di Paul Verhoeven. A dispetto della quantità, non sono molti i titoli parsi memorabili in questi giorni. Tra i 24 del concorso è difficile che non figurino nel palmares finale tre opere: Drive My Car di Ryusuke Hamaguchi, lanciato da Locarno con Happy Hour e premiato a marzo a Berlino per The Wheel of Fortune and Fantasy; A Hero dell’iraniano Asghar Farhadi, noto per il premio Oscar Una separazione; il francese Les Olympiades di Jacques Audiard, che già vinse la Palma d’oro con Deephan.

Diminuiti gli osservatori accreditati e il pubblico, mascherine obbligatorie, ma le aspettative sono state alte come sempre Farhadi è tornato a lavorare in patria dopo la deludente trasferta spagnola per Tutti lo sanno con Penelope Cruz e Javier Bardem, ritrovando l’ispirazione dei suoi momenti migliori. L’eroe del titolo è Rahim, detenuto per debiti, che vuole sfruttare una breve licenza premio per restituire la somma dovuta e farsi liberare. L’occasione sembra arrivare quando la sua nuova fidanzata trova alla fermata dell’autobus una borsa contenente preziosi. Accantonata la tentazione di impossessarsene e rivenderli, l’uomo decide di mettere un annuncio per ritrovare la proprietaria dei beni. Dopo che questa si è presentata, Rahim diventa un modello di onestà ed è intervistato dalla televisione diventando una celebrità. Un’associazione che aiuta i detenuti raccoglie, tramite una colletta, parte della cifra necessaria, ma il creditore non si accontenta e non si fida del protagonista. È l’inizio di una catena di sospetti e dubbi su quanto accaduto. Farhadi, ispirandosi ancora al neorealismo e con una grande capacità di scrittura e di ribaltare le situazioni, procede per piccoli smottamenti progressivi, smontando le certezze che si creano e mostrando sempre nuove facce della realtà. A Hero è un racconto morale di piccoli e grandi dilemmi che coinvolgono tutti i personaggi, giacché ciascuno incide con le proprie azioni e le proprie parole. Si conferma Audiard, che cambia ancora stile per mostrare un altro lato della Francia multiculturale. Siamo nel quartiere di Les Olympiades nel XIII° arrondissement di una Parigi che il regista guarda spesso dall’alto (come già in Deephan, ma esteticamente più curato), ma in maniera poco canonica, evitando i luoghi turistici e riconoscibili. Camille è un insegnante di origi-

Tra i più attesi, The French Dispatch di Wes Anderson. (Youtube)

ne africana che risponde all’annuncio per un coinquilino da parte di Emile, una giovane cinese che lavora in un call center nonostante la laurea. Dopo una breve e intensa relazione, l’uomo lascia la casa e prende in gestione un’agenzia immobiliare. Qui arriva Nora, che ha lasciato l’università dopo che a una festa è stata scambiata con un’attrice porno dai compagni e fatta oggetto di cyberbullismo. È un film sulle relazioni, sulla precarietà esistenziale e lavorativa, sulle scelte, sull’appropriarsi della propria vita. Audiard sceglie un bianco e nero morbido ed elegante con il solo inserto a colori del video hard che causa lo scandalo. Il film funziona, mantiene una leggerezza di fondo e ha una marcia in più nella bellissima colonna sonora di musica elettronica di Rone. È un buon film Bergman Island di Mia Hansen-Love, la francese nota per Il padre dei miei figli e Le cose che verranno, oltre che per la sua lunga relazione con il collega Olivier Assayas. La coppia formata dal regista Anthony (Tim Roth) e la sceneggiatrice Chris (Vicky Krieps) arriva sull’isola svedese di Faro, il rifugio di Ingmar Bergman che vi ambientò molti dei suoi lavori, in cerca di ispirazione, alloggiando nella casa che fu set di Scene da un matrimonio (1973), che «ha fatto divorziare milioni di persone», come spiega la guida. L’autore di Persona e Il settimo sigillo è la grande attrazione dell’isola e i due partecipano al Bergman Safari in mezzo ai turisti, mentre gli abitanti del luogo non conoscono o non apprezzano il loro connazionale. Quando Chris supera il blocco creativo e trova l’idea, inizia il film nel film, che mostra le vicende amorose della cineasta Amy che ritrova un ex fidanzato a una festa di matrimonio. Una situazione che ricorda l’ultimo Woody Allen, non a caso un altro bergmaniano di ferro, senza il suo nichilismo. La Hansen-Love trova la giusta leggerezza per trattare la materia amorosa e cinefile, senza appesantire con troppe citazioni. Non manca di fascino The Story of My Wife dell’ungherese Ildiko Enyedi, che a Cannes vinse la Caméra d’or con il suo primo film Il mio XX secolo nel 1989 e nel 2017 ha vinto l’Orso d’oro di Berlino con Corpo e anima. Stavolta, partendo dal romanzo di Milán Füst, siamo negli anni 20 del 900 e il capitano di navi olandese Jacob Störr scommette con l’amico imprenditore Kodor

(Sergio Rubini) che sposerà la prima donna che entra in un caffè. L’affascinante e misteriosa Lizzy (Léa Seydoux) incredibilmente accetta, e i due iniziano una relazione interrotta dalle fre-

quenti assenze per lavoro del marito e contrassegnata dai reciproci sospetti di tradimento, che però contribuiscono anche a ravvivare un legame sul punto di andare in crisi.

La Seydoux, che aveva ben quattro film in selezione (gli altri sono France di Bruno Dumont e il buon Tromperie di Arnaud Desplechin dal romanzo di Philip Roth, uno dei miglior adattamenti dello scrittore americano), era anche nel cast di The French Dispatch. Veste, e non sempre, i panni di una secondina che diventa musa di un assassino che scopre in carcere una vocazione artistica. È uno dei tre capitoli in cui si divide il film di Wes Anderson, un omaggio al giornalismo del passato che sapeva trovare e raccontare storie. Arthur Howitzer jr, figlio di un editore del Kansas, convinse il padre nel 1925 a pubblicare un inserto redatto in Francia per giustificare il suo soggiorno europeo. Nella città immaginaria di Ennui-sur-Blasé, che ricorda un po’ i luoghi di Jacques Tati, si costituisce una redazione che negli anni racconta le proteste studentesche del ’68 e altri fatti. Il regista sceglie un’immagine quadrata retrò e passa in continuazione dal colore al bianco e nero, per un film stilizzato e con tocchi assurdi, che alterna momenti molto belli ad altri un po’ di maniera ed è piacevole senza aggiungere molto a quanto già fatto da Anderson. Tra i film più ambiziosi del concorso il barocco Petrov’s Flu di Kirill Serebrennikov, mostrando violenza e confusione nella Russia della transizione post-comunista, con piani sequenza vertiginosi e belle canzoni rockeggianti in colonna sonora. Annuncio pubblicitario

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cultura e spettacoli Leonardo Sciascia durante una conferenza luganese degli anni 80. (Archivio Azione)

suoni fuori dal coro cD Due recenti uscite offrono volti inusuali

e validissimi della musica di casa nostra

Alessandro Zanoli Dice che è stata colpa del Covid, Peo Mazza. Esce con questo disco solista, questa antologia di una carriera di oltre trent’anni, e lui la promuove con il suo usuale understatement: «Qualcosa bisogna pur fare, se non si può andare in giro a suonare». Eppure... Basta guardare la lista delle occasioni che hanno fatto nascere ognuno dei dieci pezzi contenuti in questo Danze per trovare la stratigrafia di un’attività musicale ricca, multiforme, piena di entusiasmo e sincero coinvolgimento personale. Peo Mazza è una delle personalità più solide e anche solari del panorama musicale ticinese, e stupisce, pensandoci, che un suo disco «così» non sia uscito prima.

caleidoscopico sciascia

anniversari Un saggio di Giuseppe Cipolla indaga l’interesse

per l’arte dello scrittore siciliano a cento anni dalla nascita

Emanuela Burgazzoli «Mi piacciono i pittori che nel loro immediato rapporto con la realtà, le forme, i colori, la luce, sottendono la ricerca di una mediazione intellettuale, culturale, letteraria. I pittori di memoria. I pittori riflessivi. I pittori speculativi. Un sistema di conoscenza che va dalla realtà alla surrealtà, dal fisico al metafisico». Parole di Leonardo Sciascia, lo scrittore siciliano che è stato anche critico d’arte e intellettuale militante a difesa dei beni culturali; il suo rapporto con le arti visive è condensato in una serie di numerosi scritti che spaziano per temi e cronologia, ora «ordinati» e analizzati da Giuseppe Cipolla nel saggio Ai pochi felici. Leonardo Sciascia e le arti visive. Un caleidoscopio critico (ed. Caracol 2021).

Amava i maestri antichi, i moderni francesi e irrideva un po’ i movimenti d’avanguardia Lo scrittore di Racalmuto nutriva un interesse per i maestri antichi, fra i quali molti esponenti della civiltà siciliana; scrive molto su Antonello da Messina, a cui dedica un primo scritto già nel 1967, affermando la centralità per i siciliani del rapporto tra la roba e l’anima, per finire nel 1983 con la recensione al noto romanzo di Vincenzo Consolo, Il ritratto dell’ignoto marinaio. Senza dimenticare Caravaggio, i caravaggeschi, Francesco Laurana e Giacomo Serpotta. E poi i moderni francesi, Courbet e Degas, per arrivare agli artisti di primo e secondo Novecento, da Salvador Dalì a Renato Guttuso, a Emilio Greco, ma anche ai fratelli Alberto Savinio e Giorgio De Chirico, senza dimenticare gli scritti

dedicati ai fotografi Ferdinando Scianna e Robert Capa. In questo «caleidoscopio» mancano invece i movimenti d’avanguardia che Sciascia liquida così: «Qualcosa di Bouvard e Pècuchet (gli sfortunati personaggi di Gustave Flaubert) sempre traspare nei gruppi che promuovono movimenti d’avanguardia. I singoli possono essere dei geni o dei cialtroni (qualche genio, molti cialtroni) ma il gruppo ha sempre un fondo di stupidità – di rivalsa della stupidità – che presto o tardi ne traluce». Un interesse trasversale a poetiche e linguaggi, a epoche e generi, che si riflette anche nell’impostazione della rivista d’arte interdisciplinare «Galleria», a cui prima collabora e poi dirige fino al 1959. La sua è una scrittura letteraria colta, ricca di spunti teorici e rimandi letterari; ne sono un esempio gli scritti dedicati all’architettura e all’urbanistica, con le descrizioni di Noto, definita l’ingegnosa, per la sua dimensione teatrale e fiabesca, con un rimando a Cervantes. Ma significative sono anche le descrizioni di Palermo, dove la città vecchia – scrive Sciascia – è come un punto che indica una decomposizione organica «da cui si è generata l’enorme e insana efflorescenza della città nuova». Il testo si riferisce al fenomeno della speculazione edilizia, un fenomeno che insieme a quello dell’incuria in cui versa il patrimonio culturale siciliano (e nazionale) diventa l’oggetto della verve polemica dello scrittore; prendendo esempio dalle politiche dell’allora ministro della cultura francese Malraux, l’autore de Il giorno della Civetta, invita a ripulire anche le facciate delle chiese e dei palazzi italiani, perché «storicizzare la polvere (…) è una balordaggine». La polemica raggiunge l’apice dopo il terremoto del Belice e il furto della Natività di Caravaggio, avvenuto a Palermo nel 1969, grave esempio di

incuria e malagestione del patrimonio artistico, tanto che l’episodio sarà il motore narrativo – anche se mai citato esplicitamente – di uno dei suoi ultimi romanzi, dall’ironico titolo Una storia semplice (1989). Negli anni Ottanta aveva del resto approfondito anche il suo interesse storico-culturale per il caravaggismo in Sicilia, recensendo esposizioni importanti come quella di Siracusa (Caravaggio in Sicilia), non senza risparmiare critiche a quelle che si andavano affermando già come mostre di «massa». Fra i tanti spunti, da segnalare l’interessante paragrafo sui rapporti fra la Sicilia e la Spagna considerate «due nazioni sorelle, con le stesse origini e le stesse dominazioni». In ambito artistico si trova la suggestiva intuizione che accosta il Trionfo della morte di palazzo Abatellis, un unicum nella Palermo del Quattrocento, a Guernica di Picasso; il maestro spagnolo conosceva l’affresco da illustrazioni e forse – annota Sciascia – ne aveva studiato lo schema compositivo. Al centro della sua scrittura di narratore d’arte l’immagine visiva, «la fonte interna di tutte la arti», secondo le parole del critico e storico dell’arte Cesare Brandi; dal fondatore dell’Istituto centrale del restauro di Roma Sciascia riprende anche l’importanza della tecnica e della materia, che si esprime anche nella sua passione per la scultura e l’incisione, di cui è raffinato collezionista; una tecnica figurativa – secondo gli illuministi francesi e inglesi – che ha «facilitato i progressi dell’intendimento umano». E se la descrizione verbale delle opere d’arte ha il suo immediato precendente nel filone ecfrastico dell’écriture d’artiste di secondo Ottocento, nella sua scrittura d’arte Leonardo Sciascia – scrive Gianni Carlo Sciolla nella bella prefazione – «domina la chiarezza, la luminosa capacità definitoria di una forma e di una sensazione, l’uso sorvegliato della metafora».

In epoca di pandemia i musicisti hanno scelto modalità creative diverse, chi guardando indietro e chi avanti Leggendo le date di incisione e i nomi dei musicisti coinvolti nei vari brani, ci si rende conto di quanta musica è passata attraverso la consolle del suo studio «La sü in Scima», a Certara, propaggine estrema della Val Colla. Peo infatti è uno che sta spesso dietro le quinte. La sua sala di incisione ha promosso musica senza pregiudizi e senza snobismi; dal folk più popolare e anche un po’ variopinto dei Tacalà, dalla world music goliardica della Tribù di Moreno, per passare al sofisticato pop dei Diaspro, con la bravissima Michela Domenici alla voce, e alla canzone d’autore raffinata di Giorgio Conte. Ora, questo album, nato per colpa del Covid, va davvero accolto con grande rispetto ed attenzione perché è la testimonianza di un amore per la musica vissuto con un’intensità, un’umiltà e una sincerità che meritano anche enorme affetto. Come lui stesso ci ha confermato, i brani sono una sorta di antologia che traccia un filo attraverso tutta la sua carriera. Alcuni sono risorti da vecchi nastri ormai impossibili da rielaborare; brani del 1991 e 1996 che vanno presi così come sono. Altri, i più recenti, registrati in digitale, sono stati rimaneggiati. Nella progressione

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Il disco può essere richiesto scrivendo a peomazza@hotmail.com.

cronologica si arriva proprio fino al fatidico 2020. Il tema conduttore dell’album è quello della danza: ogni brano, ogni danza dunque, ha una sua precisa connotazione metrica, dispari o pari. Vanno gustate anche per l’inevitabile patina d’epoca che si portano dietro. Ognuna ci richiama in qualche modo al sound di un periodo e ciò rende questo disco ancora più interessante. Per averlo basta scrivergli: sarà l’occasione per conoscere una persona davvero speciale, di un’umanità e una simpatia che rendono merito alla nostra scena musicale. Un musicista che non sembra invece essere stato intimidito dalla pandemia è Peter Zemp, che proprio lo scorso anno ha dato il via a un progetto ambizioso e originale. Unendo la sua passione per il folk d’avanguardia (che ha caratterizzato ad esempio il suo impegno con il gruppo Pierino e i Lupi) all’interesse per la tradizione tutta ticinese della musica per bandella, ha riunito attorno a sé un nutrito gruppo di musici di esperienza e capacità e ha confezionato un altro concept. L’album, e il gruppo, Bandella vista mare sono il risultato di questo impegno. L’ascolto dell’album è piacevolissimo e, come succede per gli altri lavori di Zemp, si tratta di un ascolto del tutto «visivo». Melodie e situazioni musicali riportano infatti alla mente stimoli visuali tratti magari da certa cinematografia, oppure, perché no, da scene di vita vissuta. Il sound della musica bandistica (o meglio «bandellistica») che abbiamo imparato a conoscere nelle nostre feste popolari, infatti, è garantito nel repertorio dall’apporto della bandella Chilometro Zero, guidata da Emanuele Delucchi. Per il resto, proprio le composizioni di Zemp con la loro cantabilità mediterranea sono una chiave di volta che garantisce la complessiva piacevolezza. Da segnalare nella band, oltre al batterista Peo Mazza di cui abbiamo parlato più sopra, la presenza di uno dei più conosciuti organettisti svizzeri, il lucernese Albin Brun, di cui, potremmo dire, Zemp è un po’ la controparte ticinese. Brun firma, tra l’altro, due brani del repertorio. Il disco è stato registrato negli studi RSI e coprodotto dalla stessa emittente, ciò che, diciamo, ce lo rende ancora più vicino e meritevole di attenzione. Annuncio pubblicitario

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210 g, in vendita nelle maggiori filiali

(prodotti Alnatura esclusi), per es. Lenticchie rosse, 500 g, 2.– invece di 2.50


Bevande

28% Tutte le bevande Migros Bio non refrigerate (prodotti Alnatura, Alnavit, Biotta e Aproz esclusi), per es. Ice Tea alle erbe alpine, 1 l, 1.– invece di 1.45

Se nza alc ol e al g ust o di ze nze ro

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40% Pasta ripiena M-Classic tortelloni ricotta e spinaci o tortellini tre colori al basilico, per es. tortelloni ricotta e spinaci, 2 x 500 g, 6.90 invece di 11.60

conf. da 6

50% Ravioli M-Classic alla napoletana o alla bolognese, per es. alla napoletana, 6 x 870 g, 8.85 invece di 17.70

25% 2.90 invece di 3.90

Bundaberg Ginger Beer 375 ml

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30% Confetture Extra alle fragole, ai lamponi o alle arance amare, per es. alle fragole, 2 x 500 g, 3.35 invece di 4.80

e do l c i r a r a p e r Pe r p olc ific are e pe r d z a r e c i b i iz e aromat ni t ipo di og

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25% 13.50 invece di 18.–

Red Bull Energy Drink o Sugarfree, 12 x 250 ml, per es. Energy Drink

20x PUNTI

20% Tutti i cereali e i semi per la colazione bio (prodotti Alnatura esclusi), per es. fiocchi d'avena integrali, 500 g, –.95 invece di 1.20

Novità

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Dolcificante ai datteri Regina bio, 300 g

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Vittel 6 x 1,5 l

invece di 5.70

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Offerte valide solo dal 20.7 al 26.7.2021, fino a esaurimento dello stock


Dolce e salato

Benvenuti nell’angolo dello spuntino

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33% 5.–

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25% Biscotti Walkers

invece di 7.50

disponibili in diverse varietà, per es. Chocolate Chip Shortbread, 3 x 175 g, 11.– invece di 14.85

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Tutti i Torino

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(prodotti da forno esclusi), per es. al latte, 5 x 23 g, 2.80 invece di 3.50

Kägi Fret Classic

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M-Classic Piemont 100 g

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al latte o fondente, per es. al latte, 3 x 150 g

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Petit Beurre con cioccolato

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Biscotti Boccia 172 g

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Biscotti Bamboo Choco Loco o Lemony Pecan, 120 g, per es. Choco Loco


LO SAPEVI? 20x PUNTI

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Biberli d'Appenzello 6 x 75 g

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Vasetto cocco e cannella 75 g

20% Coaties e Crunchy Clouds Frey disponibili in diverse varietà e in conf. speciali, per es. Coaties Original, 1 kg, 10.55 invece di 13.20

I Blévita sono in vendita alla Migros già dal 1969. Attualmente in assortimento ve ne sono 34 tipi, tutti prodotti a Meilen sul lago di Zurigo. Vengono creati sempre nuovi gusti, come per esempio i dolci Blévita Start up al cioccolato o i Sandwich Caffè Latte in edizione limitata.

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Sandwich Blévita Caffè Latte 216 g

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a partire da 2 pezzi

–.30 di riduzione

Tutti i salatini da aperitivo Party per es. cracker salati, 210 g, 1.55 invece di 1.85

Migros Ticino

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Biscotti Blévita Start up cioccolato, müesli o sandwich cioccolato-latte, per es. al cioccolato, 170 g, 3.80

Offerte valide solo dal 20.7 al 26.7.2021, fino a esaurimento dello stock


Bellezza e cura del corpo

Risparmio e cura

25% Shampoo Head & Shoulders per es. Classic Clean, edizione Europei, 2 x 300 ml, 7.– invece di 9.40

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Prodotti Head & Shoulders Deep Clean per cuoio capelluto grasso o irritato, per es. cuoio capelluto grasso, 250 ml, 6.95

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Shampoo Head & Shoulders Classic Clean, sistema refill flacone o busta di ricarica, per es. busta di ricarica, 480 ml, 6.95

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50% Prodotti per la doccia Le Petit Marseillais

Tutti i rasoi usa e getta da donna e da uomo BiC

per es. latte di mandorla dolce, 3 x 250 ml

(confezioni multiple escluse), per es. Soleil Lady, 4 pezzi, 2.30 invece di 4.60

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Shampoo Repair Sante Family 250 ml, in vendita nelle maggiori filiali

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Prodotti solidi Basis Sensitiv Lavera gel doccia o shampoo, per es. gel solido 2 in 1 per la doccia, 50 g, 5.75, in vendita nelle maggiori filiali

Gliss Kur Anti-Spliss Wunder shampoo, balsamo express o siero, per es. shampoo, 250 ml, 3.50

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Shampoo Pantene Pro-V Repair & Care, sistema refill flacone o busta di ricarica, per es. busta di ricarica, 480 ml, 6.20


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Tutto l'assortimento per la depilazione Veet e I am

Tutto l'assortimento Secure e Secure Discreet

(prodotti per la rasatura e confezioni multiple esclusi), per es. crema depilatoria I am Sensitive, 150 ml, 5.30 invece di 6.60

(confezioni multiple e sacchetti igienici esclusi), per es. Secure Ultra Normal, FSC, conf. da 10, 2.35 invece di 2.95

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Test di ovulazione safe & easy conf. da 5

C o n a nt i o ss e fat t ore idant i prot e zio di ne 2 0

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Crema Daytox Hyaluron 50 ml

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Nivea Care & Hold Soft Touch spray per capelli o mousse, per es. spray per capelli, 250 ml, 3.95

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Cerotti per vesciche Compeed Medium, Mix o Small, per es. Medium, 6 pezzi

Pe r pe lle molt o se cc a

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Gel per lo styling got2b Ultra Glued 150 ml

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Nivea Natural Balance Body Lotion Organic Hemp Oil

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bio, 350 ml

Crema da giorno Nivea Naturally Good all'olio di canapa bio, 50 ml

Un salone per le unghie a casa tua!

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Novità

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Deodoranti Lavera

Lime per unghie Ardell Nail Addict

(esclusi roll-on Men Sensitiv), per es. deodorante spray Basis Sensitiv, 75 ml, 8.60, in vendita nelle maggiori filiali

per es. lima in acrilico, 2 pezzi, 5.90

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Colla per unghie Ardell Nail Addict per es. brush-on, il pezzo

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Varie

Dagli ammorbidenti ai pannolini

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50% Tutto l'assortimento Handymatic Supreme (sale rigeneratore escluso), per es. All in 1 in polvere, 1 kg, 3.95 invece di 7.90

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Calgon Power Gel 2 x 750 ml

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Ammorbidenti Exelia in busta di ricarica per es. Florence, 2 x 1,5 l

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Vanish Oxi Action in polvere pink o bianco, in conf. speciale, per es. pink, 2,25 kg

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Vanish Gel 2 x 200 ml

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Se nza lozioni, lattice né prof umo, pe r la pe lle de lic ata de l be bè

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Tutti i detersivi per capi delicati Yvette

Tutti i pannolini Rascal Friends Pants

(confezioni multiple e speciali escluse), per es. Care in conf. di ricarica, 2 l, 9.– invece di 11.50

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Vanish Gold Pink, White Gold ed Extra Hygiene, in conf. speciali, per es. Gold Pink, 1,89 kg

Tutti i tipi di latte di proseguimento e Junior Aptamil (latte Pre, latte di tipo 1 e Confort esclusi), per es. Junior 12+, 800 g, 16.– invece di 19.95


Fiori e giardino

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Da produzione equosolidale

Calzini antiscivolo da donna Ellen Amber disponibili in nero o bianco e in diversi numeri, per es. bianchi, n. 37-38

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Fantasmini da uomo John Adams bio disponibili in nero, bianco o antracite, n. 39–42 e 43–46, per es. neri, n. 43–46

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Spago per pacchi Papeteria 4 x 100 m

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Radio Internet/DAB+, Media Player, Spotify Connect, suono stereo, funzione orologio e sveglia, prese: AUX e cuffie, il pezzo

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Minirose M-Classic, Fairtrade mazzo da 20 pezzi, lunghezza dello stelo 40 cm, disponibili in diversi colori, per es. rosa, il mazzo

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Dual Radio Internet/ DAB+ IR 6 S Plus

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Carta per fotocopie A4 Papeteria, FSC

Tutto l'assortimento di alimenti per gatti Sheba

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