Azione 28 del 9 luglio 2018

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXI 9 luglio 2018

Azione 28 ping M shop ne 33-34 / 47 i alle pag

Società e Territorio Beni culturali: l’anno del Patrimonio è l’occasione per riflettere sulla cura del territorio e sul concetto di protezione

Ambiente e Benessere Il gastroenterologo dottor Simone Vannini spiega l’efficacia del riconoscimento precoce del tumore al colon-retto

Politica e Economia La cancelliera tedesca Merkel è sulla via del tramonto, per l’UE una cattiva notizia in più

Cultura e Spettacoli Intervista al chitarrista Nguyên Lê, con l’OSI e Markus Poschner sul palco di Estival a Lugano

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Supereroi... a Bellinzona

di Alessandra Ostini Sutto pagina 3

© Matteo Aroldi

Messico, desiderio di revolución di Peter Schiesser Al terzo tentativo, Andrés Manuel López Obrador, soprannominato AMLO, ce l’ha fatta: sarà il prossimo presidente messicano. E avrà un solo mandato di sei anni per cambiare il Messico, restituirgli un po’ di sicurezza, di eguaglianza, per combattere una corruzione stimata in 25 miliardi di dollari all’anno. Le aspettative che convergono su questo populista-nazionalista di sinistra, già sindaco di Città del Messico (2000-2005), e sul suo movimento Morena che ha conquistato la maggioranza in entrambi i rami del parlamento e diversi governatorati, sono enormi. Ma proprio la sua esperienza di sindaco della capitale, durante la quale dimostrò di saper coniugare una politica sociale (rendita per tutti gli anziani in primis) e una gestione sana delle finanze pubbliche, trovando accordi e alleanze nel mondo economico, lasciano ben sperare. Decenni di connubio fra governanti e criminalità organizzata, di violenze, di corruzione, di ineguaglianze, di conseguenze negative di una politica liberalizzatrice (sfociata in quel Nafta che Trump combatte perché lo ritiene troppo favorevole a Messico e Canada),

in un paese in cui la metà della popolazione è tuttora in povertà, hanno spinto la maggioranza dei messicani a voltare le spalle al Partito rivoluzionario istituzionale e al suo contraente Pan, il Partito di azione nazionale, per affidarsi ad un uomo che rappresenta l’anti-establishment e allo stesso tempo una speranza di salvezza per la democrazia. Il voto messicano si iscrive perfettamente nella tendenza in atto nell’America Latina, di una volontà di cambiamento di un frustrante status quo (con il Cile e la Colombia che virano a destra, mentre il Messico va a sinistra). Ma non è tanto uno scontro ideologico, quello in corso nell’America Latina, piuttosto una richiesta disperata di un modo di governare pulito (e AMLO è da tutti considerato persona onestissima), che restituisca fiducia alle istituzioni pubbliche, o finalmente la conceda. Leggo sul «New York Times» che, secondo l’organizzazione Latinobarometro, l’anno scorso la fiducia nella democrazia in America Latina è scesa al 53 per cento, da un 61 per cento nel 2010 – in Messico al 18 per cento, ancora meno che in Venezuela (22 per cento). Vi ha certamente contribuito lo scandalo Odebrecht, dal nome della compagnia brasiliana che ha ammesso di aver pagato tangenti a politici in tutta l’Ame-

rica Latina, fatto che in Messico non ha portato a incriminazioni. Nel caso del Messico, si deve in realtà parlare di democrazia incompleta. O come potremmo definire una democrazia che conosce un grado di violenza tanto alto? Soltanto durante la presidenza del secondo presidente del Pan Felipe Calderón (2006-2012), che dichiarò guerra ai cartelli della droga, si contarono oltre 120mila morti, oggi la violenza continua, la metà del paese è sotto il controllo delle varie mafie, 35 mila persone sono certificate come desaparecidos (più di quante ve ne furono durante la dittatura militare argentina), e non si sa quante per mano della criminalità e quante per mano del potere statale. Allo stesso tempo, il Messico è un paese in cui la classe media è cresciuta, gli investimenti esteri sono importanti, c’è il diffuso desiderio di avere uno Stato efficiente e non corrotto, maggiore sicurezza, meno diseguaglianze. López Obrador saprà creare le condizioni per un cambiamento radicale della cultura politica? Avrà abbastanza personale politico e tecnico a disposizione per rinnovare le istituzioni? Saprà coniugare politiche sociali e libertà economiche? Come si porrà di fronte alla criminalità organizzata? AMLO è ancora un’incognita, ma alternative non ce n’erano davvero più.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 luglio 2018 • N. 28

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Attualità Migros

M Migros è il dettagliante più sostenibile al mondo Ecologia L ’azienda svizzera si aggiudica il titolo di campione del mondo:

nessun’altra azienda del settore dimostra più impegno nei confronti della sostenibilità La rinomata agenzia di rating ISSOekom ha analizzato l’impegno in ambito sociale ed ecologico di 150 imprese commerciali di tutto il mondo e il Gruppo Migros ha ottenuto il risultato migliore. L’analisi esaustiva del rating ISSOekom valuta oltre 100 criteri sociali ed ecologici. Il Gruppo Migros ha ottenuto il voto B (buono). Questo risultato lo catapulta chiaramente in testa a tutti gli altri commercianti al dettaglio in Svizzera e a livello mondiale. Già quattro anni fa Migros era riuscita ad aggiudicarsi il primo posto. Sarah Kreienbühl, membro della Direzione generale della Federazione delle Cooperative Migros e massima responsabile per la sostenibilità di Migros dichiara: «L’impegno per la natura e la società fa parte del DNA di Migros. Questo riconoscimento ricevuto a livello internazionale è un apprezzamento prezioso per il nostro ampio impegno e ci spinge a seguire la direzione intrapresa». ISS-Oekom attribuisce un giudizio particolarmente positivo ai seguenti impegni del Gruppo Migros: ■ Gestione ambientale: le imprese Migros si sono poste obiettivi molto ambiziosi per quel che riguarda il consumo energetico e idrico. Le filiali investono in energie rinnovabili e nel trasporto ecologico della merce.

■ Assortimento: Migros, insieme a LeShop.ch e Tegut, offre un assortimento particolarmente vasto di prodotti sostenibili e investe nell’informazione alla clientela. ■ Fornitori: il Gruppo Migros ha ob-

pleti che vi siano nel campo della sostenibilità. Per i dettaglianti, il fattore più importante è rappresentato dai criteri sociali, che assumono un peso del 60 per cento. Nello studio «Rate the raters», il think tank SustainAbility considera i rating della ISS-Oekom molto credibili e fondati su un severo giudizio.

bligato tutti i suoi fornitori a livello mondiale a rispettare requisiti minimi in ambito sociale. Migros dà il buon esempio anche per quel che riguarda i rispettivi processi di attuazione. ■ Collaboratori: Migros figura tra i pionieri svizzeri che hanno introdotto un programma di gestione della salute aziendale. Due terzi delle aziende del Gruppo Migros sono attualmente certificati con il marchio «Friendly Work Space». ■ Etica economica: Migros ha introdotto un codice di condotta valido per i collaboratori di tutto il Gruppo. Il relativo processo di attuazione con formazioni per i collaboratori è stato elogiato. Accanto a questo engagement, Migros s’impegna con promesse vincolanti, nel quadro del programma di sostenibilità Generazione M, per salvaguardare

l’ambiente, agire in maniera socialmente responsabile ed esemplare nei confronti della società e dei collaboratori e promuovere uno stile di vita sano.

Prospettive L ’organo direttivo e strategico di Migros riorganizza il proprio settore

operativo orientandosi verso i mercati con maggiori prospettive di sviluppo Nella Federazione delle cooperative Migros è in corso un processo di trasformazione per far fronte allo spostamento dal settore delle vendite stazionarie a quello online nonché alla crescente concorrenza internazionale. «Vogliamo convincere anche in futuro i nostri clienti con il miglior rapporto prezzo – prestazione e desideriamo proseguire senza limitazioni l’impegno sociale e culturale della Migros a favore della popolazione svizzera», spiega Fabrice Zumbrunnen (nella foto), presidente della Direzione generale della FCM. «Al fine di sviluppare ulteriormente queste conquiste dobbiamo impiegare in modo ancora più mirato le nostre risorse». Ecco perché la FCM semplifica la sua organizzazione attuale nei diversi settori ammini-

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Continua la serie di manifestazioni per l’anniversario della SFG Biasca

Il cantautore ticinese Sebalter è l’invitato speciale nella serata di sabato 14 luglio.

La FCM si prepara per il futuro

Azione

Sponsoring

Nel prossimo finesettimana la SFG Biasca invita la popolazione del Borgo a uno dei momenti di maggiore richiamo nel ciclo di festeggiamenti per il centenario del sodalizio biaschese. Sono previste infatti nel nucleo del paese, sul piazzale del Municipio, due giornate di animazione. Venerdì 13 luglio e sabato

Informazioni sul rating ISS-Oekom ISS-Oekom, società con sede a Monaco, in Germania, è una delle agenzie di rating leader nel campo degli investimenti sostenibili. Analizza periodicamente oltre 3500 imprese, tra cui dettaglianti del mondo intero, effettuando una valutazione del loro impegno in ambito sociale ed ecologico. I rating di ISS-Oekom sono i più com-

Un secolo festeggiato tra la gente

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

strativi centrali e si concentra sui compiti principali per il futuro. La realizzazione di un’organizzazione più snella comporta nei prossimi tre anni la riduzione di circa 290 posti di lavoro a tempo pieno in seno alla FCM. Nel contempo verranno creati nuovi posti di lavoro nei settori del futuro. Dall’inizio dell’anno sono già stati ridotti mediante fluttuazioni naturali 70 posti. Una parte importante dei tagli potrà inoltre essere assorbita grazie ai pensionamenti anticipati e alla riduzione dei gradi di occupazione. Purtroppo non sarà possibile evitare licenziamenti nell’ordine di 70 posti di lavoro. «Sono consapevole che questa misura sarà particolarmente pesante per i collaboratori colpiti. Per loro inizia

un periodo difficile. È pertanto importante che ricevano da parte nostra un’assistenza professionale», spiega Fabrice Zumbrunnen. Nel caso di licenziamenti, la FCM e i partner sociali interni ed esterni hanno elaborato in comune un piano sociale al fine di smorzare gli effetti che questi tagli avranno sulle persone coinvolte. L’obiettivo consiste nel trovare possibilmente per questi collaboratori un nuovo impiego all’interno del Gruppo Migros. Il piano sociale prevede inoltre, se necessario, delle misure di sostegno di ampia portata. «In una situazione come questa, la Migros continua ad assumersi la propria responsabilità sociale nei confronti dei collaboratori coinvolti», prosegue Fabrice Zumbrunnen.

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

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14 sarà creato un vero e proprio «Villaggio del centenario» con palco, stand espositivi, tendine, grigliate, zona lounge e molto altro. Ecco il programma dettagliato: ■ Venerdì 13 luglio (Piazzale comunale): 18.00 Aperitivo in musica con Domenico Ceresa group; Mostra fotografica: un tuffo tra le emozioni del passato; Dimostrazioni ginniche dei gruppi della Federale, BiascaBugs; 19.30 Discorsi ufficiali; 20.00 Maccheronata offerta; 22.30 Concerto con Sebalter; Dj Nik Evans fino alle ore 3.00. ■ Sabato 14 luglio (Piazzale comunale): 10.00 Gara podistica «Giro attraverso Biasca»; 12.00 «Cagna un bocon»; 14.00 Divertiamoci con l’atletica; Dimostrazioni ginniche dei gruppi della Federale e BiascaBugs; 18.00 concerto di Nicola Cioce; 20.00 film Over the limits; dalle 22.00 Dj MrATj. L’entrata a tutti gli eventi, compreso il concerto serale di Sebalter, sarà gratuita. A pagamento unicamente la gara podistica (iscrizioni dalle 8.30), le bibite e la cucina. Il programma dei festeggiamenti per il centenario proseguirà poi nei prossimi mesi con i Campionati Svizzeri di attrezzistica maschile, previsti per sabato 10 e domenica 11 novembre, alla Palestra SPAI di Biasca. Vi prenderanno parte i migliori interpreti della ginnastica attrezzistica nazionale, che si contenderanno il titolo di campione svizzero a livello individuale e a squadre. A conclusione dell’intenso anno celebrativo, poi, il 24 novembre è prevista la cena di Gala su invito, nella location delle ex Officine FFS, sotto la magnifica cascata di Santa Petronilla. Informazioni: www.sfg-biasca.ch. In collaborazione con

Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 luglio 2018 • N. 28

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Società e Territorio Le neuroscienze e la storia Il professor Daniel Lord Smail dell’Università di Harvard nel suo ultimo libro spiega il concetto di «neurostoria», nato da decenni di ricerche sul cervello pagina 4

Un bleniese di multiforme ingegno Il libro di Valentina Cima dedicato alla storia di Ferdinando Gianella, ingegnere dell’Ottocento a cui si devono ponti, ferrovie, ville, scuole e alcune delle prime fotografie del nostro Cantone

© Matteo Aroldi

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Il mondo dei cosplayer Tempi moderni Il cosplay è un hobby che si sta diffondendo in Ticino, anche grazie al Festival Japan Matsuri Alessandra Ostini Sutto Dai termini inglesi «costume» (costume) e «play» (giocare/interpretare) nasce la parola «cosplay», la quale designa l’hobby di vestirsi come il proprio personaggio preferito ed interpretarne il modo di agire. Poiché il fenomeno ha avuto origine in Giappone, il personaggio rappresentato proviene generalmente dai manga (fumetti) o dagli anime (cartoni animati); il campo di scelta può però estendersi ai videogiochi, alle band musicali, ai giochi di ruolo, ai film, ai libri e persino alla pubblicità. In Giappone il cosplay è un fenomeno di grande portata. Molte sono le occasioni in cui è possibile praticarlo, come le mostre-mercato di fumetti, i Comic Market. Non è nemmeno inusuale che gli adolescenti si radunino semplicemente per fare del cosplay. Su internet sono numerosi i forum e, nelle principali città, non mancano i bar in cui i camerieri indossano costumi da cosplay, sono nate catene di negozi specializzati e siti web che vendono costumi e accessori. Il fenomeno è arrivato anche in Occidente, dove nelle principali manifestazioni dedicate al fumetto e all’animazione si svolgono gare di cosplay. E la Svizzera non fa eccezione. «Quando abbiamo cominciato ad organizzare il Festival Japan Matsuri, i cosplayer in Ticino erano pochissimi, direi 4 o 5; negli anni sono aumentati, tanto che oggi se ne contano un’ottantina» afferma Sheila Muggiasca, ideatrice e organizzatrice della manifestazione,

che, da sette anni, si svolge a Bellinzona in primavera. Crescita imputabile in parte proprio al festival giapponese della Svizzera italiana, che all’area espositiva e agli spazi gastronomici e ludici, affianca workshop, live show, concerti e, appunto, il Cosplay Contest. Oltre ad un’impronta culturale, l’Associazione Japan Matsuri, composta da giovani volontari, ha una vocazione no profit e benefica; essa è infatti nata nel 2011, in seguito allo tsunami che ha colpito il Giappone: «Conoscendo molto bene una famiglia che abita nelle zone toccate e che ha perso tutto, ho vissuto, seppur a distanza, il loro dramma», spiega Sheila Muggiasca, attratta dal Giappone fin da bambina, quando guardava i cartoni animati, tanto che professionalmente fa da collegamento tra le case discografiche e gli artisti del Paese del Sol levante ed eventi in Europa. «Ho quindi contattato il Camelia Club Giapponese con l’idea di organizzare una raccolta fondi e abbiamo deciso di costruire dei centri di accoglienza per i bambini rimasti orfani; così è nata la prima edizione del Japan Matsuri», continua. Ancora oggi Japan Matsuri sostiene il progetto Sendai Rainbow House dell’associazione Ashinaga, oltre a donare fondi a progetti benefici del Cantone. Tra i volontari c’è la 23enne Karine Jam, una dei primi cosplayer in Ticino, che ha partecipato alla creazione del Gruppo Cosplayer ticinesi. «Nell’estate del 2011, mentre io ero in Canada, due miei amici hanno iniziato ad organiz-

zare degli incontri tra appassionati del genere ai castelli di Bellinzona. Inizialmente vi partecipavano cinque o sei persone, che nel corso dell’estate sono diventate una ventina – spiega Karine, che studia comunicazione visiva alla SUPSI di Trevano – così è nato il Gruppo Cosplayer ticinesi. Grazie a Japan Matsuri ogni anno riceviamo una ventina di richieste di ammissione. Caratteristica del gruppo è però quella di restare chiuso, per riuscire a mantenere un rapporto approfondito tra i cosplayer che ne fanno parte. Sulla pagina Facebook Cosplay Ticino può invece interagire chiunque». Il fatto che il gruppo sia chiuso è pure una forma di tutela nei confronti dei membri più giovani, ancora minorenni. «In genere ci si avvicina a questo hobby all’età delle scuole superiori, ma ci sono pure cosplayer di trent’anni e oltre», commenta Sheila Muggiasca. Karine si è avvicinata al cosplay nel 2009, quando ha cominciato la Csia: «Già durante le medie frequentavo su internet dei forum di appassionati di manga, fumetti e del mondo nerd in generale; ho conosciuto così diversi ragazzi in Italia che partecipavano a delle convention, come Lucca Comics & Games». Per il suo primo cosplay Karine ha deciso di cominciare con Arane Norimaki del manga Dr. Slump & Arale: «mi sono “limitata” a trovare i pezzi del look simili a quelli del personaggio che ho scelto sia per la semplicità nei tratti e nei materiali sia perché rispecchia alcuni lati del mio carattere e del mio aspetto». Ovviamen-

te c’è anche chi opta per la strategia opposta, scegliendo di vestire i panni di un personaggio diametralmente opposto a come è in realtà; il cosplay è un mondo di grande libertà. Libertà che si ritrova nel modo in cui il look del personaggio scelto viene realizzato: «c’è chi compra un costume, a cui apporta magari dei ritocchi, e chi realizza da sé vestito e accessori», commenta Karine. «Passo successivo, ci si esercita ad imitare gesti e comportamenti, per un’identificazione totale». Questa grande cura nel dettaglio fa capire che il cosplay non ha nulla a che vedere con il carnevale o le feste in maschera. «A carnevale ci si traveste per andare a divertirsi, quando fai cosplay vuoi invece apparire bello, nel senso che ci tieni a fare una bella impressione su chi ti vede, su chi interagisce con te, e vuoi trovare il tuo modo di essere il più possibile affine al personaggio», spiega Karine Jam. Effettivamente c’è ancora un po’ di confusione attorno a questo fenomeno non a tutti noto. Come quando, lo scorso mese di maggio, due cosplayer di Lugano sono stati fermati dalla polizia mentre si stavano recando alla prima di Deadpool 2, attesissimo film dedicato a uno dei supereroi del grande schermo, alla quale erano stati invitati. Il ragazzo tra i due che era già in costume è stato multato per infrazione alla legge sulla dissimulazione del volto. «Quando c’è stato questo episodio purtroppo ho letto su internet diverse reazioni spiacevoli», afferma Sheila Muggiasca, «il

cosplay non è nulla di negativo; anzi, è un modo per socializzare e può essere d’aiuto per i ragazzi timidi che riescono a diventare estroversi grazie all’interpretazione di un ruolo». Una parte significativa della sottocultura cosplay sono infatti le scenette in cui i cosplayer reinterpretano dei passaggi del film, fumetto o serie TV del loro personaggio o al contrario ne forniscono un’interpretazione personale. Le esibizioni – come pure il costume, le eventuali armi e gli accessori – vengono poi valutate da una giuria. Per il secondo anno consecutivo, a giudicare i cosplayer ticinesi – una trentina durante la passata edizione – erano i Prizmatec, una famiglia italiana di cosmakers e cosplayers specializzata nella realizzazione di spettacolari armature. I giudici, abituati ad eventi ben più grandi, hanno apprezzato l’atmosfera familiare che si respira alla fiera di Bellinzona, dove si instaurano dei bei rapporti tra gli organizzatori e i ragazzi che partecipano alla competizione. «Durante le fiere si incontrano molte persone con le quali si scambiano opinioni, commenti e critiche costruttive; è molto inclusivo», commenta Karine Jam che in occasione della gara tenutasi ad aprile nella capitale ha scelto di interpretare Shouko Nishimiya, personaggio di A Silent Voice: «Per motivi personali, mi sono affezionata a questo lungometraggio giapponese, che parla di un fatto di bullismo accaduto ad una bambina di sei anni nata sorda. Una storia bella e profonda, che consiglio vivamente».


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Società e Territorio

La neurostoria per ripartire dall’Africa Ricerca Decenni di indagini sul cervello ci permettono di studiare la storia umana in una prospettiva diversa Lorenzo De Carli Nonostante sia spesso oggetto di critica, la psicologia evoluzionistica, che studia le nostre attuali reazioni emotive o le nostre scelte ipotizzando quale forma di adattamento esse fossero nel Pleistocene, ha avuto il merito di attirare l’attenzione su un fatto tanto imbarazzante quanto ricco di conseguenze per la nostra vita individuale e per le nostre interazioni sociali: abbiamo la spiccata inclinazione non solo a cercare rapporti di causa-effetto in tutte le manifestazioni della natura, ma tendiamo anche ad attribuire una solida intenzionalità sia alle azioni individuali, sia alle scelte collettive.

Daniel Lord Smail nel suo libro Storia profonda indaga il rapporto tra il cervello umano e l’origine della storia Troppo a disagio di fronte alla possibilità che tanti eventi naturali accadano senza alcun disegno preordinato, sopraffatti da un sentimento d’insensatezza al sospetto che le persone possano agire anch’esse per caso, cerchiamo «intenzionalità» in tutto: non solo nelle azioni umane, ma anche negli eventi naturali perché ipotizzare la presenza di un soggetto agente dietro ogni manifestazione della natura è stato un adattamento particolarmente efficace nella maggior parte della nostra storia evolutiva, evitandoci di essere predati. Lo psicologo cognitivo inglese Nicholas Humphrey ha portato questo tipo di considerazioni fin dentro il funzionamento stesso della nostra mente e, studiando la coscienza in un’ottica darwiniana, è giunto a sostenere che la nostra stessa intenzionalità è solo un’illusione cognitiva selezionata dall’evoluzione. Ma che cosa succede quando uno storico di professione mette in dubbio il primato dell’intenzionalità? Che ne è di tutti quei libri di storia che ci spiegano le vicende umane attraverso i piani e le azioni dei grandi condottieri? Docente all’Università di Harvard, Daniel Lord Smail, scrivendo Storia profonda, ha provato a mettersi in questa prospettiva, indagando il rapporto tra il cervello umano e l’origine della storia. Si tratta di un programma di ricerca che gli sta assegnando una posizione controversa nella comunità degli storici, i quali gli rimproverano d’introdurre nel dibattito elementi di ricerche pertinenti con la biologia evoluzionistica o le neuroscienze, ritenuti ancora inadeguati a far parte del corre-

La spirale del tempo geologico è una delle possibili visualizzazioni del passato della Terra. (United States Geological Survey, Wikimedia)

do disciplinare degli studiosi di storia. D’altra parte, Lord Smail si propone un obbiettivo chiaro: scrivere una storia precedente quella delle epoche che ci hanno lasciato «documenti», estendendo il concetto di «documento» non solo a tutte le «tracce» lasciate dalla nostra presenza sul pianeta, ma anche al codice che costituisce il nostro DNA. Secondo Lord Smail, ponendo l’inizio della «Storia» a circa 3500 anni fa, sebbene tragga credito dal fatto che vere e proprie «fonti» documentarie sono state rese disponibili solo con l’adozione della scrittura, in realtà nasconde il fatto che questa periodizzazione prese forma nell’Ottocento, quando «il sacro venne abilmente tradotto in chiave secolare: il Giardino dell’Eden mutò nei campi irrigati della Mesopotamia e la creazione dell’uomo fu riconfigurata come la nascita della civiltà». A giudizio di Lord Smail, sarebbe ormai tempo che anche gli storici riconoscessero l’Africa come vera nostra madrepatria perché la loro convinzione che debba esserci un vero

e proprio punto d’inizio della «Storia» – la scrittura per alcuni, il fatto di essere consapevoli agenti delle proprie vicende per altri – è un retaggio della convinzione secondo la quale il Diluvio universale produsse una sorta di reset, dal quale prese avvio la storia vera e proprio del genere umano. Criticata una periodizzazione che divide la Preistoria dalla Storia, Lord Smail introduce la nozione di «neurostoria»: «una prospettiva neurostorica sulla storia umana è costituita intorno alla plasticità delle sinapsi che legano un’emozione universale, come il disgusto, a un oggetto particolare o a uno stimolo, una plasticità che permette alla cultura di radicarsi nella fisiologia». Secondo lo storico americano, dunque, è tempo di prestare attenzione alla nostra «continuità emotiva» nella storia, a tutta quella serie di neurotrasmettitori che modulano universalmente le nostre emozioni e che, nel corso del tempo, hanno orientato le nostre scelte. Assumendo la prospettiva neurostorica, Lord Smail giunge a sostenere che

dobbiamo considerare la storia anche in quanto storia delle pratiche di «teletropia», vale a dire storia di quelle azioni deliberatamente compiute per indurre specifiche emozioni causate dal rilascio di altrettanto specifici neurotrasmettitori. Si tratta di un programma di ricerca che non mancherà di rendere perplessi molti storici di professione perché, se pure potrebbe essere accettabile l’ipotesi che le «pratiche culturali umane alterano o influenzano la chimica corpo-cervello», disporre di «fonti» incontrovertibili per documentare queste pratiche è assai arduo. Tra gli esempi che porta Lord Smail spiccano le pratiche di gestione del potere. Le gerarchie di dominanza sono profondamente radicate nella nostra specie e le condividiamo con altri primati: «gli ormoni dello stress che plasmano la società dei babbuini sono presenti anche nei corpi umani e hanno effetti simili, anche se non identici». Secondo Lord Smail, le società postlitiche videro un aumento della gamma e della densità dei mezzi e dei meccanismi che

la stessa quantità di CO2 di un auto che percorre 1000 km, se poi aggiungiamo altre attività come il download di serie e video la quota sale velocemente. Internet produce tanto CO2 quanto il traffico aereo globale e cioè il 2% dell’effetto serra mondiale. E se fosse un paese, per i livelli di consumo di elettricità che comporta sarebbe il quinto maggiore consumatore a livello mondiale dietro a paesi come Stati Uniti e Cina. Sbagliamo quando pensando a internet ci immaginiamo una serie di connessioni fluttuanti nelle quali siamo immersi. In verità internet scorre sotto i nostri piedi, anzi, 20’000 leghe sotto i mari direbbe Jules Verne. I grandi colossi digitali investono sempre di più in cavi marini e fibra ottica sul fondo del mare, proprio in queste settimane sta per essere ultimata la posa di un cavo di

13’000 km che connetterà Hong Kong a Los Angeles. A cosa servono i cavi sottomarini? Trasportano le informazioni ai data center che custodiscono tutti i nostri dati, lavorano senza sosta e devono essere costantemente alimentati. La più grande concentrazione di data center si trova in Virginia e ottiene un terzo dell’elettricità da energia nucleare, un terzo da carbone e solo l’uno per cento da energie rinnovabili. Fortunatamente, tra i giganti digitali e il settore IT, si sta facendo largo una sempre maggiore consapevolezza dell’urgenza di puntare sulle energie rinnovabili. Per molti però, come dimostra l’ultimo rapporto di Greenpeace Clicking Clean: chi vince la gara per costruire una Rete verde?, la meta è ancora lontana. Nella classifica, tra le aziende peggiori, troviamo Netflix, che per il 26% utilizza energia

producono ormoni legati allo stress nei corpi dei subordinati. In un contesto nuovo, dato dall’invenzione dell’agropastorizia, la quale produsse, sì, società più complesse, ma creò povertà e incertezza, le élite religioso-politiche si costituirono cooptando quei soggetti che erano in grado coi loro gesti e con le loro parole di produrre, alternativamente, stati di stress attraverso l’incremento di neurotrasmettitori come il cortisolo, oppure di benessere stimolando la produzione di ossitocina o di dopamina con musica, balli e riti religiosi. Non spetta allo storico indicare programmi per il futuro; tuttavia Lord Smail non perde mai occasione di sottolineare la natura sociale dei comportamenti che influiscono sulla chimica corpo-cervello. Proprio la loro natura sociale permette di sostenere che la chimica delle emozioni può essere orientata dalle nostre pratiche sociali; possiamo per esempio scegliere di diffondere sentimenti di paura o sentimenti di fiducia, aprendoci o chiudendoci a comunità sociali diverse dalla nostra.

La società connessa di Natascha Fioretti Connessi ma sostenibili Inquinamento e riscaldamento globale sono ormai questioni, realtà con le quali ci confrontiamo quotidianamente quando guidiamo l’auto, apriamo e buttiamo il sacchetto di plastica dell’insalata, cerchiamo di essere precisi nel fare la differenziata, non è sempre facile, mi capita spesso di rimanere impalata di fronte ai miei tre contenitori con una confezione in mano prima di ricordarmi se va a destra, a sinistra o al centro... Sempre nel dubbio se basti per fare la differenza in un mondo, ma soprattutto in una società, che sempre di più mostra i suoi limiti. Non so voi cari lettori, io provo una certa ansia quando leggo dell’isola di plastica di 1,6 milioni di km quadrati, grande insomma tre volte la Francia, che galleggia al largo delle coste delle Hawaii. È come se qualcuno ci

mettesse davanti uno specchio per dirci: «così non va». E se l’isola di plastica rappresenta in modo chiaro e palpabile le conseguenze di un modello di vita umano non sostenibile che portiamo avanti da decenni nell’illusione che la terra sia infinitamente capiente, estesa e ricca, ci sono forme e cause di inquinamento che sfuggono all’occhio e alla percezione ma sono altrettanto importanti e pericolose. Tanto più in una società sempre più definita e plasmata dalle connessioni. Parlo dell’inquinamento digitale, quello che ognuno di noi produce usando internet via cellulare, tablet o pc. Sapete, ad esempio, che una ricerca su Google equivale a 5-7 grammi di CO2 e un’email è pari a 20 grammi di CO2? Dunque se ogni giorno, per un anno, inviamo 30 mail produciamo

nucleare e per il 30% carbone, Twitter, che utilizza per il 14% energia nucleare, per il 21% carbone e Amazon, che usa per il 26% energie nucleari e per il 30% carbone. Le aziende green sono Google, alimentata per il 56% da energie rinnovabili, Facebook per il 67% e Apple per l’83%. Non solo: per raffreddare i propri data center Facebook ne ha costruito uno a 100 km dal Polo Nord, Google uno in Finlandia nella cittadina di Hamina. È un progetto particolarmente interessante perché è stato realizzato convertendo un vecchio mulino a vento che un tempo serviva da cartiera. Grazie al suo sistema di raffreddamento high tech che utilizza l’acqua di mare della baia finlandese e riduce i consumi di energia, si tratta di uno dei più efficienti e avanzati data center sul mercato.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 luglio 2018 • N. 28

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Società e Territorio Il Palazzo del Cinema di Locarno: della vecchia scuola è rimasta solo la muratura perimetrale. (Ti-Press)

Un ingegnere dell’Ottocento Pubblicazioni Ferdinando Gianella,

bleniese, ha disegnato e costruito ferrovie, ponti, ville, scuole e ha scattato alcune delle prime fotografie del Canton Ticino Sara Rossi-Guidicelli

Per una protezione «non protezionistica» Beni culturali Nell’anno dedicato al Patrimonio, è necessario

mettere in discussione molte convinzioni consolidate, per promuovere la cura integrale del territorio

Alberto Caruso La crescente consapevolezza della necessità di un uso più parsimonioso del territorio, ed i recenti provvedimenti legislativi che limitano fortemente lo spreco di suolo, spostano finalmente l’attenzione sulla qualità degli interventi di riuso e trasformazione degli edifici esistenti. In tutti i paesi del centro e del sud del continente è avvenuto e sta avvenendo una conversione della cultura progettuale che si rivolge ai criteri di salvaguardia e alle tecniche di intervento sul patrimonio edilizio, al quale l’Unione Europea ha solennemente dedicato questo anno.

Un uso parsimonioso del territorio invita a una nuova riflessione sulla salvaguardia del patrimonio edilizio È l’occasione appropriata per riflettere sui criteri e sulle tecniche, per verificare la loro efficacia, soprattutto nelle regioni dove la «modernità» è stata interpretata come capacità di rappresentare la cultura contemporanea quasi esclusivamente attraverso la costruzione di edifici nuovi e dove la cultura della trasformazione è meno praticata. È soprattutto in questi paesi che è rilevante il tema della «protezione» del patrimonio, delle misure per individuare gli edifici da escludere dal libero mercato delle sostituzioni e da sottoporre ai vincoli necessari per salvaguardarne, in modi e livelli diversi, la permanenza. Il patrimonio edilizio è stato selezionato dalla storia, che ci ha tramandato i manufatti ancora validi per il loro valore d’uso o per significati collettivi ancora attivi e condivisi, ma sappiamo che questo meccanismo di selezione non funziona più, almeno da quando l’attività edilizia è diventata un’attività finanziaria che produce alti profitti. È per resistere alla pressione aggressiva di questa attività che è stato inventato il concetto di protezione, e la classificazione di alcuni edifici come «beni culturali». Ma il sistema è «difensivo», costringe a continui aggiornamenti degli elenchi, a resistenze e a rigidità. A volte, infatti, si conducono strenue battaglie per difendere edifici, che poi il progetto di riuso stravolge con usi e interventi inappropriati, annullando le ragioni

stesse che hanno motivato la protezione. Gli edifici che è culturalmente doveroso proteggere integralmente – gli edifici-museo – sono pochi. Per tutti gli altri, la protezione si realizza nell’esame attento e colto del progetto di riuso e trasformazione del manufatto, affinché non comprometta le ragioni della sua architettura. C’è un’alternativa a questo sistema? L’alternativa è una protezione «non protezionistica», è spostare l’attenzione dai criteri da adottare per scegliere gli edifici da vincolare, alla valutazione del progetto di riuso e trasformazione. Spostare l’attenzione dal vincolo difensivo alla cultura del progetto, dal passato del manufatto al suo futuro. Questo punto di vista sposta la questione dalla protezione della parte di territorio occupata dagli edifici preesistenti – mentre, contemporaneamente, succede che non si interviene nella libera licenza di edificare il paesaggio ancora inedificato – alla cura di tutto il territorio. Questo punto di vista, portato alle estreme conseguenze logiche, comporta di sottoporre a protezione tutto il territorio, tutti gli edifici preesistenti, antichi o vecchi che siano, e tutti gli spazi liberi dall’edificazione. L’interezza del paesaggio deve essere oggetto della medesima cura progettuale. In Ticino c’è un esempio particolarmente eloquente di come non funziona la protezione intesa in modo «protezionistico» e quindi acriticamente conservatore: il Palazzo del Cinema di Locarno. Intendiamoci, la costruzione del Palazzo è un successo di quel Municipio e va difesa contro coloro che si oppongono agli investimenti nella cultura: finalmente il Festival Internazionale ha la sua sede. La storia, in breve, di questo importante edificio pubblico inizia quando il Municipio individua il sedime di una vecchia scuola come sede per il nuovo edificio, e bandisce un concorso internazionale per la sua progettazione, lasciando ai concorrenti la libertà di sostituire completamente o trasformare l’edificio. Infatti, la vecchia scuola novecentesca ha un valore architettonico davvero scarso, mentre la sua posizione è strategica, a conclusione dell’antico nucleo, come una cerniera verso la Rotonda e la città nuova. A questo punto, la STAN (Società Ticinese per l’Arte e la Natura) sostiene che la vecchia scuola va protetta, e minaccia ricorsi nel caso di aggiudicazione ad un progetto che ne preveda la demolizione. La presa di posizione della STAN del luglio 2012 paventava addirittura il rischio della

previsione di ospitare nel vecchio edificio anche una sala cinematografica, denunciando la sua incompatibilità con la tipologia dell’edificio. Poiché il privato che contribuiva al finanziamento dell’opera aveva posto condizioni rigide sui tempi della sua costruzione, la giurìa ha comprensibilmente interpretato l’atmosfera cittadina – allarmata dalla minaccia che avrebbe messo a rischio l’attesa della nuova sede del Festival – scegliendo l’unico progetto, tra le diverse decine di progetti presentati, che prevedeva il mantenimento integrale dell’involucro edilizio. L’esito è da vedere. Per ospitare le attività previste dal programma, sovrabbondanti rispetto all’involucro a disposizione, l’edificio è stato completamente abbattuto (salvo la muratura perimetrale) e sopralzato con il grande volume necessario per contenere quanto previsto. Così la città non ha un’architettura nuova, espressione della cultura contemporanea che rappresenti nel mondo il Festival del Cinema di Locarno. E non ha neanche un’opera di riuso e trasformazione eccellente, che segnali in modo esemplare come si interviene su un edificio storico. Perfino la motivazione nostalgica – ammesso che debba essere presa in considerazione – di chi in gioventù ha frequentato quella ex scuola, è rimasta insoddisfatta, dato che dell’edificio è rimasta solo la sua maschera vuota. È stata cancellata la sua (debole) sostanza architettonica, che non è stata sostituita da una nuova e attuale. È stata la resa della cultura architettonica. Gli esiti dei concorsi e i verdetti delle giurie vanno rispettati, ma l’esercizio della critica è indispensabile alla conoscenza, e alimenta la democrazia. Dobbiamo prendere atto che oggi la situazione culturale è caratterizzata da una grande debolezza della critica – in generale, non solo della critica architettonica – spesso sostituita da nuovi ed efficaci media pubblicitari finanziati dagli interessi immobiliari. Chi è convinto che il territorio debba essere oggetto di un governo responsabile e colto, e non solo di un libero mercato, deve ripensare ai modi fino ad oggi praticati, alle conoscenze che consideriamo consolidate e indiscutibili, rimettendo in gioco numerose convinzioni. La STAN, le altre associazioni e i movimenti che si battono per la difesa del patrimonio dalla speculazione, possono diventare più forti se, oltre all’azione di denuncia, promuovono la cultura del progetto.

A Comprovasco, Malvaglia, Ponto Valentino, in Valle di Blenio, ci sono alcune belle ville il cui progetto (e a volte anche la realizzazione) è firmato Ferdinando Gianella: Villa Oxford, voluta da un emigrante che tornava dall’Inghilterra nel 1897, Villa du bon laboureur, per il figlio di Gianella, Villa Baggi, per un cameriere a New-York che non la vide mai ma vi fece vivere i suoi genitori, Villa Giosia Luis, che con i proventi della sua fabbrica di cioccolato in Cile voleva costruirsi la casa al paese. E poi, naturalmente, a Comprovasco c’è Villa Gianella, dove vissero l’ingegnere Ferdinando e la sua numerosissima famiglia. Ma l’elenco delle costruzioni di cui si è occupato personalmente non finisce qui: c’è l’albergo Posta di Olivone, l’Ospedale Bleniese di Acquarossa, la Chiesa dei Maccabei di Villa Bedretto, la Scuola Normale Femminile di Locarno (oggi Centro professionale commerciale) e molti altri edifici. Inoltre, questo eclettico personaggio nato a Leontica è anche uno dei maggiori sostenitori delle ferrovie regionali; dopo la linea del Gottardo ha insistito, in qualità di professionista, di consigliere di Stato (dal 1884 al 1892) e di capo del Dipartimento Pubbliche Costruzioni per ampliare la rete e collegare le zone periferiche, occupandosi per esempio della ferrovia Locarno-Bignasco e della Biasca-Acquarossa. Ha promosso anche altre iniziative per lo sviluppo infrastrutturale del Cantone: dalla bonifica del piano di Magadino, all’incanalamento del Ticino e della Maggia fino alla costruzione della strada delle Centovalli. Questi lavori e molti altri, ognuno con dovizia di particolari e gusto per l’aneddoto, sono raccolti in un volume uscito poco tempo fa per Impronte bleniesi della Fondazione Voce di Blenio. Si intitola Ferdinando Gianella (18371917). Bleniese di multiforme ingegno e parte dalle ricerche di una giovane architetta, Valentina Cima, originaria di Dangio ma cresciuta a Bellinzona. «Mi ha affascinata prima di tutto per le sue opere che conoscevo, come le ville di Comprovasco, su cui ho fatto un lavoro di ricerca mentre ancora studiavo al Politecnico di Zurigo. Poi mi ha sorpresa come personalità e quantità di materiale che ha lasciato e che si poteva ancora studiare: Gianella è stato ingegnere, architetto, consigliere di Stato, fotografo amatoriale oltre che padre di dodici figli... scriveva un diario quasi ogni giorno e io ho passato più di un anno a leggere quella quarantina di agende nei miei ritagli di tempo dopo il lavoro...». Doveva scrivere un articolo, ne è uscito un libro, ma Valentina Cima si è anche avvalsa della collaborazione di

Ferdinando Gianella. (Per gentile concessione della famiglia Gianella)

tre storici che hanno curato ognuno un aspetto diverso di Ferdinando Gianella: Gianmarco Talamona si è occupato dell’uomo e del suo archivio; Fabrizio Mena del suo impegno politico e Letizia Fontana della sua passione per la fotografia. Valentina Cima ha continuato ad approfondire lo studio del Gianella ingegnere e architetto. «Non so se sia stato unico nel suo genere», mi spiega. «All’epoca molti professionisti si interessavano di ambiti diversi e il mondo dell’edilizia civile era molto ricco: ci sarebbero sicuramente altri personaggi da studiare per capire come funzionava la trasformazione del territorio nell’Ottocento. Tuttavia Ferdinando Gianella offre una quantità rara di materiale consultabile, donato dai discendenti all’archivio di Stato. Prima di tutto le sue agendine su cui annotava di tutto, dal prezzo di un biglietto a teatro ai suoi viaggi in treno e a piedi (quanto si camminava all’epoca!), dai commenti pungenti sui suoi colleghi alle medicine che prendevano lui o i suoi figli. Si sono inoltre conservate molte lettere: essendo una famiglia numerosa e anche un po’ dispersa per il mondo, si mandavano notizie e fotografie per mantenere i legami. La seconda moglie di Gianella, Giulia, si occupava anche di questioni amministrative insieme al marito, così lui la rendeva partecipe dei suoi progetti professionali entrando nei dettagli. All’Archivio di Stato sono inoltre presenti piani, disegni, appunti utilissimi per capire il suo modo di lavorare». Nelle agendine e nelle lettere si leggono per esempio vari racconti in cui Gianella va a compiere rilievi o studi trigonometrici per redigere le carte geografiche: bisognava salire sulle cime delle montagne a piedi, con la scorta di chi portava in spalla gli strumenti e accamparsi a volte per settimane e in condizioni meteorologiche anche pessime. Chi compiva questi calcoli doveva infatti apporre un segnale visibile su cime prescelte, che venivano poi inserite in una rete di triangoli per calcolarne la distanza sfruttando le proprietà trigonometriche . A cento anni dalla morte di Gianella dunque arriva questa piacevole lettura, che mischia la storia di un individuo con la Storia di tutti noi. Racconta di un uomo forte e determinato, entusiasta dei progressi tecnici a lui contemporanei, ironico e capace di giocosa tenerezza in famiglia; ma parla anche delle nostre radici e del nostro territorio, che, secondo le parole di Valentina Cima, «è doveroso conoscere, per noi che lo stiamo trasformando ogni giorno». Il tutto è correlato da magnifiche foto della famiglia Gianella e immagini delle opere che Ferdinando contribuì a realizzare, la maggior parte scattate da lui stesso.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 luglio 2018 • N. 28

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Società e Territorio Rubriche

Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Un’arte sconcertante Devo ammetterlo: faccio fatica a seguire i progressi che in molti campi si succedono, sempre più veloci. Uno di questi campi è l’arte, con opere che mi risultano spesso enigmatiche: mi capita, a volte, di contemplare un groviglio di ferraglie posto su una strada e mi viene da pensare che, invece di scaricarlo per rottamazione in un deposito dei rifiuti, si è preferito promuoverlo a «scultura». Questa difficoltà di comprensione – s’intende – è dovuta a un mio limite, non a un difetto dell’artista; e tuttavia questo carattere ermetico di tanta arte contemporanea è pur sempre un eloquente segno dei tempi. Il fatto è che da un artista – soprattutto oggi, dopo il tramonto dei canoni estetici tradizionali – ci si attende originalità, capacità di innovazione, inventiva; ma dopo millenni di produzione artistica è difficile trovare qualcosa di originale. Occorre dunque inventarsi nuovi linguaggi: infatti, abbandonan-

do progressivamente l’arte figurativa, si è passati dal cubismo al dadaismo, dall’astrattismo al kitsch, all’informale… Ma ogni nuovo linguaggio va appreso, come una lingua straniera, e, soprattutto, dev’essere condiviso da una comunità che lo comprende. Però le mode passano troppo in fretta perché un nuovo codice estetico possa affermarsi durevolmente; così l’artista che sul momento non trovi forme originali può sempre ricorrere alla «stramberia»: esempi famosi non mancano. Nel 1917 Marcel Duchamp acquistò un orinatoio prodotto in serie da un’industria, lo battezzò Fontana, vi appose una firma, lo dichiarò opera d’arte e lo espose a una mostra di New York (ovviamente, non nella toilette!). Ebbe successo: oggi – volendo – si possono ammirare parecchie repliche del capolavoro di Duchamp (l’originale purtroppo è andato perduto) nel Museum of Modern Art di San Fran-

cisco, nella Tate Gallery di Londra, nel Centre Pompidou di Parigi e in vari altri importanti musei. In questo caso, direi che originale non è l’oggetto d’arte, ma l’idea che ne è all’origine: l’assurdità di elevare a dignità artistica un prodotto industriale di basso impiego ebbe un effetto sconcertante. Fu appunto lo sconcerto a determinare la sorpresa e il successo dell’opera. Il fatto poi che chiunque possa acquistare un esemplare identico al capolavoro e metterselo in casa per farlo ammirare agli amici non inficia il valore dell’opera: sarebbe solo una copia, priva di originalità. E poi, costerebbe troppo poco. Già nel Seicento, infatti, La Fontaine scriveva in una delle sue Favole: «Si stima l’arte che si fa pagare». Quando sul mercato un nome, una firma, vedono salire le loro quotazioni, allora il valore estetico dell’opera è garantito e l’autore è un artista consacrato.

La Fontana di Duchamp è dunque un buon esempio di come siano cambiati i canoni estetici. Un artista, in passato, era apprezzato in primo luogo per la padronanza della tecnica pittorica o scultorea; Duchamp non ne ha avuto bisogno (o forse ha avuto un bisogno d’altro genere…). Ha solo inventato un’assurdità sconcertante e su questo sconcerto ha fondato il suo successo. Forse stiamo tornando al Barocco: «È del poeta il fin la meraviglia: – cantava il Marino – [...] chi non sa far stupir, vada alla striglia!». Però quella «meraviglia» secentesca il poeta d’allora sapeva evocarla con splendidi versi raffinati e perfettamente comprensibili. C’è comunque un’altra ragione, e magari anche più rilevante, alla radice di queste virate verso lo sconcerto suscitato da un’apparente insensatezza che stupisce. L’arte figurativa di un tempo parlava, appunto, un linguaggio condiviso fondato su una tradizione comune;

le scene religiose negli affreschi delle chiese richiamavano immediatamente al visitatore il corrispondente passo evangelico, o i miracoli e la vita del santo raffigurato; i ritratti di personaggi storici erano ben noti a chi avesse un po’ di cultura; i paesaggi di Friedrich, di Monet, di Segantini, evocavano emozioni sublimi al solitario abituato a percorrere sentieri sui monti, a vagare sulla riva del mare o nei campi. Tutte cose che si vanno perdendo insieme alla tradizione: senza più una cultura e un’esperienza condivisa queste immagini risultano estranee, ammutoliscono perché non hanno più chi le intenda. L’arte d’oggi deve parlare il linguaggio d’oggi – ossia, la cacofonia dei rumori, l’invadenza degli oggetti di consumo, la stravaganza degli individualismi sfrenati. Deve dunque esaudire la preghiera di Gillo Dorfles a proposito del Kitsch: «Dacci oggi il nostro brutto quotidiano».

proviene invece dal Monte Cristallo, le notti di luna piena. Per cercare l’origine misteriosa di questa luce mistica, molti giovani del paese arrampicandosi sul Monte Cristallo – realmente collocato a nord est di Cortina d’Ampezzo ma nel film è il Monte Crozzon nelle Dolomiti del Brenta – muoiono cadendo. L’unica che sale su come uno stambecco per raggiungere la grotta segreta tempestata di cristalli dove si origina la luce blu, è Junta: considerata come una strega dalle donne del villaggio e bramata dagli uomini per la sua bellezza selvatica. Ex ballerina di talento infortunatasi al ginocchio e poi star di film montani, Leni Riefenstahl esordendo come regista avrà la sua parte di gloria, finendo nel febbraio 1936 sulla copertina del «Times» in costume da bagno sugli sci. Ma l’amicizia con Hitler e il Terzo Reich la ingoieranno in un baratro, la cui ombra sembra seguirla ancora. Oltre il ponte, dal 1928, c’è un’osteria che prende il nome dalla cascata. L’osteria La Froda, gestita per trentacinque anni da Lidia

e Nino Bertoli, dal 1994 viene presa in mano dalla figlia Sara con il marito Martino Giovanettina, oggi aiutati dai figli. Un tavolo di granito con gazosa al mandarino vista Froda, corona la camminata ai primi di luglio. Oltre a un’ottima polenta con brasato qui si scopre, a quanto pare, la vera altezza della cascata. In Una guida alla terra e allo spirito di Foroglio (2009) a cura dell’oste e suo figlio, si trova scritto che qualcosa non quadrava con l’ottantina di metri dell’altezza ufficiale: «è bastato un consulto con Luigi Martini, vecchio capomastro con il teodolite sempre pronto, ed ecco la nuova misura: 110 metri». Panna cotta con salsa tiepida ai mirtilli e via, in mezzo al paese, per salire al cospetto del riale Calnegia che cadendo, prima di essere il maggior tributario della Bavona, è la Froda. Inseparabile, per chi ha visto il film, da quel volto volpino in allarme come una Madonna. Ma dal vivo supera l’intreccio cinematografico del suo destino, ipnotica ti cattura nella sua caduta asso-

luta e fragorosa, cadi nel suo incanto che qui da vicino sembra concentrare tutto il carattere «dionisiaco» percepito in queste valli dal mitologo ungherese Karl Kerényi. La definizione «luogo di forza» in uso oggi, non solo è riduttiva ma viene spazzata via con forza in questo luogo. Né il cinema né le parole possono tenere il passo con questa potenza rigeneratrice. Una furia sublime che toglie il fiato, bellezza senza tregua, da temere sennò sei morto. Vorresti andare sempre più vicino per fonderti con la Froda ma verresti macellato tra i massi, credo. Già solo a una ventina di passi mi prendo un’allegra lavata da capo a piedi. In realtà il sentiero ideale, forse, è quello più semplice che parte appena sotto la terrazza dell’osteria. In un amen si arriva sotto la Froda e la si abbraccia con lo sguardo inquadrandola in tutta la sua maestà. Il masso che copre pudicamente lo schianto sembra un enorme altare. Mi siedo su un sasso e mi libero dai sogni infranti, una rinascita spirituale qui è possibile, la frescura estiva garantita.

Katzentisch, il tavolino in disparte, che spetta a un personaggio, diventato simbolico. È il tizio perseguitato dai disguidi e dalle umiliazioni, tipici della vacanza non riuscita, situazione grottesca che ha ispirato commedie e film spassosi. Fra cui un vero capolavoro del genere: Les vacances de Monsieur Hulot, diretto e interpretato da Jacques Tati, nel 1953. Per nulla invecchiato, sempre godibile, tanto più nell’era delle ferie che, da conquista, si sono trasformate in obbligo, in altre parole si godono e si subiscono. L’aveva preconizzato lo storico americano Paul Fussell, parlando di «post-turismo», in cui si manifestano «sentimenti di noia, delusione irritazione, persino rabbia», provocati dalla «standardizzazione». L’argomento, del resto, non è nuovo. Appartiene al repertorio delle denunce dei disagi e delle incongruenze dell’epoca, ma rimane un monito senza seguito. Si continua, infatti, a partire verso mete determinate dagli eventi politici e che, poi,

fanno moda. È il caso dell’Islanda, della Norvegia, del Canada, della Siberia, il nord in generale, o, invece, il sud estremo, Terra del fuoco, Patagonia, o, a est, la Mongolia. Si tratta di spostamenti, affidati ad agenzie, specializzate nel genere «avventura tutelata», che aprono orizzonti insoliti a gruppi di viaggiatori curiosi, ma non intrepidi. D’altronde, già il fatto di essere in gruppo assicura protezione. Ma non mancano, infine, i viaggiatori che rifiutano questi servizi e partono per conto proprio, mettendo alla prova la loro autonomia a contatto diretto con realtà anche ostili. Si potrebbero considerare gli eredi dei giovani aristocratici inglesi che, nell’800, compivano il Grand Tour, in Europa sulle tracce delle civiltà classiche. O i successori dei geografi e degli etnologi, impegnati nella scoperta e nell’identificazione di terre ancora ignote. Ma, oggi, in un mondo, tutto svelato e accessibile, la scoperta concerne strettamente il proprio io.

A due passi di Oliver Scharpf La cascata di Foroglio Das blaue Licht (1932) si apre con la cascata di Foroglio. La prima inquadratura del primo film di Leni Riefenstahl (1902-2003) la ritrae in lontananza, per dieci secondi, assieme al paesino di pietra. Alle dieci e quaranta a Bignasco, mi metto in cammino sul sentiero della transumanza, al fianco destro della Bavona. La grande sorpresa è il rosa estroso del giglio martagone mai incontrato prima d’ora. Nel bosco, tra Fontana e Sabbione, uno spiraglio mostra lassù, il biancore acqueo che cade. Bisogna macinare ancora un paio di chilometri tra i massi ciclopici, un paio dei quali utilizzati una volta come giardini pensili, per vederla meglio, sbucando sulla strada. Si vede come si deve appena dopo una cappelletta di spalle, sopra un prato appena falciato, proprio prima del cartello che annuncia Foroglio. Il fragore da qui è più che un prologo. Incanta il pulviscolo biancastro che s’innalza dopo lo schianto invisibile. La stessa scena la vediamo in primo piano quando la storia di Junta –

innescata dalla curiosità di una coppia di forestieri appena arrivati all’osteria e rapiti da quel ritratto ovale ornato di cristalli – parte in flashback, attraverso una dissolvenza incrociata sotto la cascata. Dove appare il volto spaventato e bello di Leni Riefenstahl, incorniciato dallo schiantarsi impetuoso della cascata che attrae e ritrae al contempo lo sguardo. Raccoglie un grosso cristallo e scappa via, balzando felina da un sasso all’altro. Al ponte c’è posteggiato un pullman di turisti. Molte macchine nel posteggio, un andirivieni di piedistalli e maxiobiettivi o quant’altro serva per immortalare la cascata di Foroglio (684 m) che dal ponte mette tutti in secondo piano e s’impone imperiosa e sacrale. Se le altre due famose cascate ticinesi prendono il nome una dal riale e l’altra da una santa, la Froda deriva il suo nome da come si dice cascata in dialetto. La luce blu del film – persa nel titolo italiano tradotto da cani con La bella maledetta – la cui trama è tratta da una leggenda delle Dolomiti,

Mode e modi di Luciana Caglio In vacanza da solo, non da solitario Adesso si chiamano single. Il termine inglese ha cancellato quella connotazione negativa, di perdenti e rifiutati, che le vecchie definizioni di scapolo, scapolone, zitella sottintendevano. Ma non è un eufemismo. Rispecchia una condizione anagrafica reale che, ormai, appartiene al nostro costume. Dal suo osservatorio linguistico, Ottavio Lurati aveva registrato la parola, per la prima volta, sulle pagine di «Repubblica», nel giugno dell’87: da casi isolati i single stavano, allora, diventando una presenza sempre più numerosa e visibile, di cui tener conto sul piano economico. E proprio quello turistico ha saputo captare le esigenze di una fascia di clienti promettenti, una nuova risorsa. Liberi da legami familiari vincolanti, indipendenti, spesso con buone disponibilità finanziarie, i single si sono, infatti, rivelati consumatori assidui, addirittura patiti di vacanze e viaggi. Le agenzie si sono date da fare creando un settore ad hoc: mete, itinerari, programmi di attività,

destinati a chi parte da solo, soprattutto alle donne che, nella categoria, sono in maggioranza, e con richieste specifiche. A cominciare dalla sicurezza, che non va intesa come un bisogno di protezione, ma di libertà. Da qui il successo, negli ultimi decenni, di un settore dell’ospitalità turistica cosiddetto women-friendly. Propo-

Una scena del film Les vacances de Monsieur Hulot. (Wikipedia)

ne alberghi, b&b, ristoranti, centri sportivi, indica nazioni, città, quartieri di metropoli, tutti luoghi dove le vacanziere sole possono muoversi in un ambiente accogliente, al riparo da incontri indesiderati. Addirittura, in hotel vietati ai maschi. Con ciò, le single non vanno scambiate per misantrope, asociali o scorbutiche. Per molte di loro, tuttavia, l’obiettivo non è far conoscenze, incontrare un possibile compagno della vita. Hanno la precedenza lo sport, il wellness, le escursioni e, dopo i 40, le visite alle città d’arte e ai musei. Non escludono, in assoluto, la vacanza di gruppo organizzata, però cercano di adattarla a loro uso e consumo. Da condividere, insomma, con altri pari, cioè persone sole, evitando di diventare minoranza, in un gruppo tutto coppie e famiglie con bambini. Perché, allora, il rischio solitudine si concretizza: nella sala da pranzo, affollata di rumorose famiglie, la single, o il single, finisce in un angolo. I tedeschi lo chiamano


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 luglio 2018 • N. 28

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Ambiente e Benessere In cerca delle patrie ideali Esiste un tipo di viaggiatore che viene chiamato expat ma non è il tipico immigrato

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Prevenzione del tumore colon rettale

Medicina Incoraggiante, la mobilitazione

a cinque anni dall’introduzione nella LAMal del riconoscimento precoce del tumore colon-retto

Maria Grazia Buletti È una malattia subdola perché si sviluppa nell’arco di una decina d’anni con decorso perlopiù asintomatico. Infatti, deve spesso trascorrere parecchio tempo prima che si manifestino le prime avvisaglie: parliamo del tumore maligno del colon-retto che in Svizzera ogni anno colpisce all’incirca 4300 persone delle quali muoiono 1700. In Ticino si presentano circa 220 nuovi casi annui con 90 decessi. «Il tumore dell’intestino è uno dei cancri maligni più frequenti in Svizzera ed è definito il “terzo big killer” fra i tumori. Si sviluppa prevalentemente negli ultimi tratti dell’intestino crasso (retto e colon sigmoideo). Nell’uomo è al terzo posto per frequenza e al secondo posto, dopo quello polmonare, per mortalità. Nella donna è secondo solo al tumore al seno», così esordisce il gastroenterologo dottor Simone Vannini, il quale afferma pure che «in linea di principio può colpire tutti, con un rischio di circa il cinque percento; rischio che aumenta quando vi sono genitori o fratelli affetti da cancro o polipi intestinali. Attenzione anche se si osserva una comparsa precoce di polipi intestinali o se si è soggetti a malattie infiammatorie croniche dell’intestino. Tutti coloro che si riconoscono in una di queste situazioni dovrebbero parlarne con il proprio medico per stabilire quando sarebbe opportuno iniziare a effettuare esami di prevenzione del cancro intestinale». Si tratta dunque a tutt’oggi di un tumore infausto, contro il quale si può però agire efficacemente attraverso una prevenzione specifica: un’analisi delle feci alla ricerca di sangue occulto (ogni due anni) o una colonscopia (ogni 10 anni) effettuata nella fascia d’età che va dai 50 ai 69 anni permette di ridurre la mortalità legata a questa patologia. La campagna di prevenzione del tumore colonrettale è, di fatto, uno dei punti cardine della strategia «Sanità 2020» quando, dal primo luglio 2013 il Dipartimento federale dell’interno (DFI) ha deciso di inserire gli esami di riconoscimento precoce di questo tumore nel catalogo delle prestazioni dell’assicurazione obbligatoria delle cure medico sanitarie (LA-

Mal) per le persone dai 50 ai 69 anni di età. «Decisione accolta con soddisfazione dalla Lega svizzera contro il cancro, e nel 2014 pure dalla Lega ticinese contro il cancro, attraverso la creazione di un gruppo di lavoro operante attraverso figure professionali di diverse estrazioni (AGASI, oncologi, medici di famiglia e farmacisti) del settore pubblico e privato, con l’obiettivo di creare una cultura di prevenzione e promuovere lo screening del cancro colon-retto», disse a suo tempo la direttrice della Lega ticinese contro il cancro Alba Masullo. Del tutto allineato il dottor Vannini che, nell’analisi di quanto è successo durante questi primi cinque anni di campagna di prevenzione, ne sottolinea l’importanza non solo dal profilo medico (atto a prevenire uno dei tumori più infausti), ma pure a beneficio dei costi sanitari: «L’esame di screening colonscopico costa attorno ai 500 franchi, a fronte della cura di un tumore al colon che comporta costi superiori ai 100mila franchi all’anno». Sottoporsi preventivamente a una colonscopia nel range di età indicato risulta dunque essere la chiave di svolta per un tumore dalla prognosi infausta. Prevenzione che, attraverso una semplice colonscopia (che oggi è un esame sempre meno fastidioso per il paziente), permette di riconoscerne l’insorgenza ancora prima che diventi maligno: «Chi si sottoporrà a questo esame deve sapere che oggi, con le nuove tecniche, sediamo il paziente con un farmaco sicuro e ben tollerato e le cannule con la telecamera sono sempre più sottili e flessibili per un migliore confort». La colonscopia di prevenzione permette di vedere chiaramente le pareti intestinali e individuare i tumori in fase iniziale e asintomatica; per questo, il gastroenterologo invita la popolazione a superare la resistenza verso il tema dell’analisi colonscopica («ancora un po’ tabù»): «Questo esame è un modello di prevenzione perfetto, perché permette di individuare la presenza di polipi (escrescenze non tumorali che nell’arco di 10 anni potrebbero diventare un tumore maligno) che si possono rimuovere facilmente durante la colonscopia stessa. Se, per contro, dovessimo trovarci di fronte a un tumore

Il gastroenterologo dottor Simone Vannini. (Vinc enzo Cammarata)

in fase già avanzata, il nostro compito non sarà più preventivo ma preleveremo campioni per effettuare una biopsia e marcheremo la zona del tumore per aiutarne la localizzazione al chirurgo che dovrà rimuoverlo. Dopo l’intervento, secondo lo stadio tumorale, potrebbe poi essere indicata dall’oncologo una chemioterapia». Se pensiamo che dall’insorgenza dei polipi al tumore passano circa 10 anni, comprendiamo che se un esame colonscopico risulta negativo, la persona non dovrà preoccuparsene per almeno tutto questo lasso di tempo. Nel nostro Cantone, dal 2014 tanto si è fatto a proposito di informazione e prevenzione e diversi sono gli attori scesi in campo: «I medici curanti sempre più attenti ai temi della prevenzione, la Lega contro il cancro, le farmacie che offrono volantini e poster esplicativi, insieme al test del sangue occulto nelle feci, i gastroenterologi e i media

che danno sempre maggiore risalto al tema». Ma secondo il dottor Vannini non bisogna abbassare la guardia, ricordando alle persone che un esame di prevenzione può davvero salvare loro la vita: «Le evidenze scientifiche e le linee guida nazionali raccomandano le due metodiche di screening standard: la ricerca di sangue occulto nelle feci ogni due anni, e la colonscopia ogni 10». Secondo lo specialista varrebbe la pena che ancora più persone aderissero e partecipassero a questa campagna preventiva: «Già oggi i decessi dovuti al tumore al colon mostrano una tendenza alla diminuzione, specialmente negli Stati Uniti dove lo screening viene praticato da oramai 30 anni». Un esame di colonscopia salva la vita: «A patto che le persone vi si sottopongano: il test del sangue occulto fecale riduceva già da solo del 20 percento la mortalità per il tumore al colon. Oggi in Ticino non abbiamo ancora numeri scientifica-

mente apprezzabili sulla colonscopia, ma nel canton Uri (modello di studio con bacino utile), si osservava una diminuzione di nuovi tumori al colon del 70 percento, e una diminuzione di mortalità dell’80 percento». Numeri che dimostrano l’assoluta efficacia salva vita dello screening colon rettale.

Video intervista Sul canale Youtube di «Azione» e su www.azione.ch la videointervista al dr. Simone Vannini.



Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 luglio 2018 • N. 28

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Ambiente e Benessere

Dalla terra degli Expat

Diventare altro

Viaggiatori d’Occidente Da qualche tempo questi viaggiatori sono accusati di razzismo

Bussole I nviti a

Claudio Visentin

«Più di settecento anni fa, a Dan-noura, nello stretto di Shimonoséki, si combatteva la battaglia decisiva del lungo conflitto tra gli Heiké, o clan di Taira, e i Genji, o clan di Minamoto. In essa perirono tutti gli Heiké, con le donne e i bambini, nonché lo stesso infante imperatore, oggi ricordato come Antoku Tennō. E da settecento anni gli spiriti infestano quel mare e quelle prode…».

Expat, la fortunata abbreviazione di expatriate / espatriato, indica una persona che risiede temporaneamente in un altro Paese, di solito per lavoro o dopo il pensionamento. Molti di loro sono strapagati professionisti e manager, ma sono ben rappresentati anche giornalisti, scrittori, artisti. È un termine usato soprattutto in Asia ma nel mondo globale è sempre più diffuso; persino il prestigioso «Wall Street Journal» ha un blog interamente dedicato alle diverse forme di questa condizione umana (https://blogs.wsj.com/expat). Alcuni Paesi come la Thailandia sono prediletti dagli expat perché lo straniero è ben accolto e non deve rendere conto a nessuno delle sue scelte. In Giappone invece – sostiene chi ci ha vissuto – gli stranieri non sono sempre ben visti se, pur vivendoci a lungo, non si inseriscono rapidamente nella società; è invece apprezzato chi studia la lingua, mangia cibo giapponese, condivide valori e abitudini, compra casa e si sposa. Da qualche tempo però questo termine expat è anche molto discusso. Per esempio lo scrittore e fotografo canadese Christopher DeWolf vive a Hong Kong dal 2008 e si è chiesto che senso abbia immaginarsi e raccontarsi come uno straniero in una città dove tutti sembrano venire da qualche altra parte del mondo; in una città costruita da immigrati sotto lo sguardo compiacente della potenza coloniale inglese e tuttora protetta da uno statuto speciale dopo il suo ritorno alla Repubblica popolare cinese. «La città tra i mondi» l’ha definita lo scrittore Leo Ou-fan Lee, a sua volta nato in Cina, cresciuto a Taiwan, studi universitari negli Stati Uniti prima di stabilirsi a Hong Kong. Solo con il tempo e la fatica Leo Ou-fan Lee riesce a gettare lo sguardo dietro la superficie scintillante dei centri commerciali, i super condomini e le insegne al neon dei grattacieli dove vivono i cinesi per ritrovare i mercati sull’acqua, le librerie familiari di Mong Kok, i villaggi di pescatori, i templi di montagna, le bancarelle di noodle, l’opera cantonese… Ma la città più nascosta non è necessariamente più vera; forse è solo più difficile vederla. In ogni caso, a Hong Kong come altrove il termine expat sembra applicarsi soltanto agli agiati occidentali bianchi. Tutti gli altri – arabi, filippini o

Molti benestanti hanno trovato il loro secondo Paese in un altrove lontano, dove scelgono di vivere. (Pxhere)

sudamericani – sono considerati invece immigrati. Sono sfumature linguistiche cariche di significato. Come ha osservato Mawuna Remarque Koutonin, attivista di Africa Renaissance, lo stesso avviene anche tra Africa ed Europa. I professionisti africani attivi nell’Unione europea non sono expat, sono «immigrati di alto profilo» nel migliore dei casi. L’uso del termine expat insomma potrebbe avere una nascosta, forse involontaria componente di razzismo, ma certo esprime soprattutto differenze di classe e di status del Paese di provenienza. Infatti, anche Polacchi, Lituani e Lettoni, per fare un esempio, quando vanno a lavorare in un altro Paese europeo sono considerati immigrati, sebbene siano bianchi. In queste critiche ci sono senza dubbio elementi di verità e per questo molti propongono di abolire semplicemente il termine expat e di usare per tutti immigrato. Ma potrebbe essere una soluzione troppo radicale, perché restano tra i due termini differenze di significato.

Per cominciare l’immigrato spesso è costretto a partire dalla povertà, mentre l’expat è chi vive in un Paese straniero per scelta, non solo lavorativa, ma anche perché ne apprezza il clima, la cultura, la vita quotidiana. Molti strada facendo hanno trovato il loro secondo Paese, quello dove avrebbero voluto nascere, se fosse possibile scegliere. Tra loro c’era anche Gustave Flaubert, l’autore di Madame Bovary. Flaubert viveva nella provinciale Rouen, dove si annoiava a morte; pensava di essere un seme che il vento aveva portato nel posto sbagliato e sosteneva che dovresti avere la cittadinanza del posto che ti attrae, nel suo caso l’Egitto (e alla fine riuscì a coronare il suo sogno di viaggiare lungo il Nilo). In ogni tempo poi sono esistite patrie ideali. Nel Rinascimento tutti volevano viaggiare in Italia e si sforzavano di parlare italiano; negli anni Trenta del Novecento Joséphine Baker cantava «J’ai deux amours / Mon pays et Paris» e nel 1937 ottenne infine la cittadinanza francese. Anche quando scopre il suo se-

condo Paese, di solito l’expat non si trasferisce definitivamente: conserva la nazionalità e il passaporto della terra d’origine, dove trascorre comunque lunghi periodi. E anche all’estero passa molto tempo con i connazionali, a volte formando piccole società chiuse. Gli expat sono quasi esclusivamente occidentali perché possono permetterselo, perché hanno lavori migliori e quindi maggiori risorse economiche. Inoltre i loro passaporti sono accettati ovunque (oltre centocinquanta Paesi nel mondo accolgono i nostri viaggiatori senza visto, sono solo una cinquantina nel caso di chi viene dal Nord Africa); possono tornare a casa quando lo desiderano, per loro tutte le porte restano aperte. Ma non si tratta soltanto di condizioni materiali più favorevoli. Eredi di generazioni mobili e inquiete, i Viaggiatori d’Occidente conoscono e apprezzano il sottile piacere di vivere, lavorare, amare sul confine tra due mondi e in due lingue diverse, senza appartenere interamente a nessuno dei due.

letture per viaggiare

Se mai ci fu un uomo che volle fondersi con un altro popolo e un’altra cultura, sino quasi a rinascere con una nuova identità, questo fu Lafcadio Hearn. Nato in Grecia, cresciuto in Irlanda, Francia e Inghilterra, per vent’anni lavorò come giornalista negli Stati Uniti, facendosi notare per la sua eccentricità e per alcuni pregevoli reportage sugli emarginati. Quando giunse in Oriente nel 1889, il Giappone già da alcuni decenni aveva dovuto riaprire i suoi porti ai commerci occidentali, dopo la comparsa sulla linea dell’orizzonte delle minacciose «navi nere» del Commodoro Perry. E tuttavia il Paese era ancora largamente sconosciuto al vasto pubblico. Catturare la bellezza del Giappone tradizionale prima delle trasformazioni portate dalla modernità era il compito riservato dal destino a Lafcadio Hearn. I suoi lunghi studi, raccolti in questo volume, e la capacità di entrare in sintonia con il «mondo fluttuante» fecero di lui il traduttore perfetto della cultura giapponese in Occidente. Poi ancora un passo: Lafcadio sposa la figlia di un samurai, viene naturalizzato e si fa chiamare Koizumi Yakumo, abbandonando la vecchia identità come un guscio vuoto. Quando morì improvvisamente nel 1904 nessuno avrebbe potuto riconoscere il lui il fanciullo che un tempo aveva preso il nome dalla natia Lefkàda, una delle isole Ionie della Grecia. Bibliografia

Lafcadio Hearn, Ombre giapponesi, Adelphi, 2018, pp. 316, € 15.–.

Il gatto che si morde la coda Giochi di parole Ovvero il cruciverba a tema linguistico 3

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Ennio Peres

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Orizzontali: 1. Il concetto contenuto in una parola o in una frase – 11. Carattere grafico che corrisponde a una sola parola – 12. Risposta negativa – 13. Chiocciolina inglese – 14. Anche in forma tronca – 16. Insieme di vocaboli e locuzioni – 19. Le prime lettere – 21. Un po’ di pensierini – 22. La prima lettera dell’alfabeto ebraico – 23. Nome di tre diverse lettere dell’alfabeto arabo – 24. Primi elementi di sociolinguistica – 25. Sigla del Linguaggio Americano dei Segni – 26. Esposizioni, dissertazioni – 29. La realtà virtuale, nel gergo di Internet – 30. Unità di misura dell’intensità sonora soggettiva – 31. Caratterizza un’esposizione capziosa e pedante – 36. I giudizi che si esprimono, parlando o scrivendo – 37. Congiunzione latina – 38. Brani di elevata tensione spirituale – 39. Utilizzo, impiego.

Verticali: 1. Attinente alle regole di formazione delle frasi – 2. Lingua artificiale, derivata dall’esperanto – 3. Famiglia etnolinguistica del Brasile orientale – 4. Parte del discorso che varia nel genere e nel numero – 5. Principio di ignoranza – 6. Espressione linguistica – 7. Coppie di vocali che non formano dittongo – 8. Il Novecento romano – 9. Lo sono gli stili di scrittura cerimoniosi e magniloquenti – 10. La diciannovesima lettera dell’alfabeto greco e l’ultima di quello ebraico – 15.

Lo è uno stile di scrittura piuttosto ricercato – 16. Luce senza pari – 17. Breve comunicato pubblicitario – 18. Sono sei nelle declinazioni latine – 20. Il posto dove si fanno volentieri due chiacchiere – 24. L’inglese parlato in Australia – 25. La indica un verbo – 27. La parte iniziale di un discorso – 28. Blocco per appunti – 32. Appendice stringata – 33. Sigla della Lingua Italiana dei Segni – 34. Franco, autore del saggio La lingua della poesia (1995) – 35. Fine dei discorsi.

Soluzione

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Orizzontali: 1. SIGNIFICATO – 11. IDEOGRAMMA – 12. NO – 13. AT – 14. PUR – 16. LESSICO – 19. ABC – 21. PE – 22. ALEF – 23. TA – 24. SO – 25. ASL – 26. TRATTAZIONI – 29. VR – 30. SON – 31. CAVILLOSITÀ – 36. OPINIONE – 37. ET – 38. POESIE – 39. USO. Verticali: 1. SINTATTICO – 2. IDO – 3. GE – 4. NOME – 5. IG – 6. FRASE – 7. IATI – 8. CM – 9. AMPOLLOSI – 10. TAU – 15. RAFFINATO – 16. LC – 17. SPOT – 18. CASI – 20. BAR – 24. STRINE – 25. AZIONE – 27. AVVIO – 28. NOTES – 32. APP – 33. LIS – 34. LOI – 35. SI.

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Ambiente e Benessere

Il trifoglio, simbolo poetico irlandese ma anche molto altro Botanica Arricchisce la vegetazione prativa soprattutto delle zone mediterranee

ed è preziosa miniera di azoto per i seminativi Alessandro Focarile Non hanno l’esuberante e spesso stravagante bellezza delle 20mila orchidee, che popolano boschi e foreste con clima temperato e tropicale, e che necessitano dell’ausilio di un fungo per vivere e prosperare, sia in terra, sia sui tronchi degli alberi nelle regioni calde. E neppure hanno i conturbanti e singolari costumi delle piante carnivore, che si cibano di insetti per ottenere le loro indispensabili proteine. Sono i ben noti trifogli, piante erbacee che, con le loro 300 specie finora conosciute, sono diffuse nelle pianure, sui colli, a 3000 metri (con il trifoglio alpino) fino sull’alta montagna, a creare le più elevate testimonianze della prateria alto-alpina. E resistono validamente fino alle latitudini boreali, ben oltre il circolo polare artico. «Sono un simbolo poetico, soprattutto se immaginiamo le loro verdissime foglioline alla luce gelata dell’Artico» Così scriveva Gianni Riotta («La Stampa», 3.1.2018) comunicando il nome «Trifoglio del Nord» dato dai Russi alle loro nuove basi militari sulle rive dell’Oceano Artico. Prati magri e prati grassi. Prati naturali e quelli seminati dall’uomo, spesso in rotazione con altri vegetali, per arricchire la produttività dei suoli.

La zona più ricca è quella Mediterranea: 94 specie fanno parte della flora italiana, 30 di quella elvetica Sono preziose piante foraggere, che seguono il naturale avvicendamento stagionale della vegetazione erbacea spontanea nelle regioni con clima temperato. E sono parte del dominio delle leguminose nella regione mediterranea, dove hanno il loro centro di origine e di diffusione. Ben 94 specie fanno parte della flora italiana, contro le 30 della flora elvetica. Nel quadro della vegetazione pra-

tiva, i trifogli resistono molto efficacemente alla brucatura degli erbivori, e dopo il primaverile imperio delle graminacee nei prati, prendono il sopravvento a seguito del primo taglio di fieno. Dalle lande britanniche, irlandesi e tedesche ricoperte di cloves, shamrock (l’emblema dell’Irlanda) e klees, alle pianure russe di kliévir, ai colli francesi di trèfles. I trifogli sono conosciuti da vecchia data, fin dai primordi dell’agricoltura neolitica (8mila anni or sono) quando in Mesopotamia, tra Tigri ed Eufrate, il nostro antenato cominciò a domesticare capre, pecore e bovini. Sono piante rustiche, largamente coltivate e ricercate dalle api che ne assicurano l’impollinazione. Il trifoglio è un foraggio privilegiato grazie al suo elevato contenuto di azoto, in quanto provvisto di particolari noduli (all’apparenza galle) originati da un batterio sulle radici, che hanno la funzione di fissare l’azoto contenuto nell’atmosfera. Le specie più frequenti di trifogli sono: il pratense (con il fiore rosso scarlatto), il ladino (fiore bianco avorio), l’alpino (fiore rosso e vistoso) gradito dai camosci, dagli stambecchi, dalle marmotte, e da tutti gli erbivori domesticati. Infine il trifoglio ibrido, resistente alle basse temperature, e perciò diffuso soprattutto nel Nord-Europa ove raggiunge il 75° parallelo Nord sulle rive dell’Oceano Artico, 1500 chilometri a Nord del Circolo polare (Hulten, 1950). I trifogli sono eclettici per quanto riguarda i suoli ove crescono. A seconda delle differenti e numerose specie, essi scelgono terreni freschi, profondi e con apporto d’acqua, ove formano prati irrigui da avvicendamento, su terreni silicei e argillosi, acidi oppure basici (preferenti il calcare). Tuttavia non tollerano la salsedine, e sono quindi assenti sui litorali marini. La biologia dei trifogli è molto significativa: essi si diffondono a catena nel suolo per mezzo di stoloni (radici con sviluppo orizzontale), e questa particolarità offre loro un grande vantaggio competitivo sugli altri vegetali presenti in un prato. I trifogli hanno le foglie composte

Il trifoglio è anche l’emblema dell’Irlanda. (Pxhere)

di tre foglioline ovali, colore verde opaco spesso macchiato di bianco. I piccoli fiori (foto) sono raggruppati in capolini globosi, oppure piramidali, strettamente stipati gli uni agli altri. Come tutti i vegetali anche i trifogli sono ricercati da una ricca fauna di insetti, in parecchi casi (monofagia) legati, per la loro nutrizione, esclusivamente a queste piante. Un caso molto evidente di monofagia è dimostrato dagli Apion. Insetti coleotteri appartenenti alla numerosa famiglia degli apionidi (450 specie nella regione euro-asiatica con clima temperato). Questi coleotteri sono minuscoli esseri, le cui dimensioni non superano qualche millimetro, si nutrono di numerosi vegetali erbacei con una spiccata specializzazione alimentare: ben trenta specie sono esclusive dei trifogli. Sono dei coleotteri con un’origine

molto antica, già presenti 35-40 milioni di anni or sono, come documentato nell’ambra del Mare Baltico, celeberrima per la spesso fedele conservazione di innumerevoli inclusioni di insetti appartenenti a quasi tutti gli ordini viventi in epoca attuale. Interi gruppi di specie sono dipendenti unicamente da un solo vegetale, nel nostro caso sono esclusivi sui trifogli di differenti specie. Gli adulti e le loro larve rosicchiano i capolini dei fiori, spesso arrecando gravi danni ai trifoglieti coltivati. In conclusione i Trifogli sono piante leguminose come i fagioli e i piselli, come le robinie e i maggiociondoli, accomunati tutti nel carattere di avere la loro semenza racchiusa in funzionali baccelli, astucci porta-semi. Talvolta la Natura si permette qualche fantasia. Molto raramente po-

trete incontrare un «quadrifoglio» in un tappeto di «trifogli». Le credenze popolari affermano si tratti di un ritrovamento che porta fortuna. Bibliografia

Valerio Giacomini e Luigi Fenaroli, La Flora, Conosci l’Italia, volume II, Touring Club Italiano (Milano), 1958, 272 pp. Hans Ernst Hess, Elias Landolt, Rosmarie Hirzel, Flora der Schweiz, Band 2 (506-526), Birkhäuser (Basel) 1997, 956 pp. Klaus Koch, Die Käfer Mitteleuropas, Oekologie, Band 3. Goecke & Evers (Krefeld), 1992, 389 pp. M.G. Morris, Orthocerous Weevils (Coleoptera Curculionidae), Royal Entomological Society of London, volume 5, part 16, 1990, 108 pp.

La sconosciuta Pseudocydonia sinensis

Mondoverde Il cotogno cinese, presente sulle rive del Lago Maggiore, ha guadagnato popolarità solo di recente Anita Negretti Se cercate su un’enciclopedia del giardinaggio informazioni riguardanti questo alberello di origine asiatica, troverete ben poche informazioni, o, in molti casi, addirittura nessuna. Questo perché, sebbene sia una pianta molto bella, facile da coltivare e in grado di produrre grossi frutti dorati, risulta essere ancora poco conosciuta e quindi anche poco utilizzata da un punto di vista decorativo. Il suo arrivo in Europa è legato alla vita del Capitano Neil Boyd Mc Eacharn, rampollo di una facoltosa famiglia scozzese con vasti possedimenti in Australia. Nel 1892, a soli otto anni, visitò l’Italia innamorandosene. Anni dopo, nel 1930 riuscì ad acquistare un vasto terreno sul promontorio chiamato «La Crocetta», a Pallanza, nel comune di Verbania, in Piemonte, dove l’affaccio sul lago Maggiore è magnifico. Nasceva così Villa Taranto, dove nel corso dei decenni – grazie alla passione botanica di Mc Eacharn e dei suoi collaboratori – si sviluppò uno dei più

Il frutto, profumato di mela, può arrivare fino a 20 centimetri. (Abrahami)

importanti giardini botanici d’Europa. Tra le piante ospiti trovò il suo angolo di terra anche il cotogno cinese (Pseudocydonia sinensis), che ritornò per la seconda volta in Europa: la prima

volta nell’Ottocento, all’interno di ville prestigiose, poi passò di moda e con la morte per vecchiaia dei primi alberi piantati, non vi fu un rinnovo di questa specie.

Grazie agli esemplari portati dal Capitano anni dopo, alcuni collezionisti se ne innamorarono e negli ultimi anni giardinieri e paesaggisti incominciano a utilizzarli non solo in giardini privati ma anche in parchi e strutture pubbliche. Pseudocydonia sinensis ha una corteccia che si squama in larghe placche, assumendo un caratteristico aspetto maculato, mostrando il tessuto sottostante con sfumature color nocciola, ocra o giallo tenue, come avviene per il platano. Alto sei-sette metri, con chioma rotonda, questo albero appartiene alla famiglie delle Rosacee ed è simile a un melo da fiore. Deciduo, ha foglie ovali e finemente dentate, di un bel verde brillante sulla pagina superiore, mentre presentano una peluria marrone sulla pagina inferiore. Da settembre in avanti le foglie si tingono di arancio e rosso mattone prima di cadere. In primavera tra marzo e aprile sbocciano i fiori color rosa tenue, con il centro più scuro; singoli e con cinque petali, hanno un diametro che rag-

giunge i cinque centimetri. Nello stesso periodo fioriscono piante dalle caratteristiche simili, come l’Amelanchier (pero corvino), peri e ciliegi da fiore, bellissimi coltivati accanto a un esemplare di cotogno cinese. Amante del pieno sole, in alcuni casi si adatta anche alla mezz’ombra, prediligendo posizioni vicino a pareti soleggiate ed esposte a sud o a sudovest. Non gradisce terreni eccessivamente calcarei e messo a dimora tra settembre e febbraio con un buon drenaggio nella buca e terreno mescolato a letame maturo, produrrà in pochi anni dei frutti molto particolari. Gialli, dalla forma allungata, colpiscono per le loro dimensioni: si tratta infatti di frutti lunghi fino a venti centimetri, che arrivano a pesare intorno al mezzo chilo e hanno un profumo di mela molto marcato. Duraturi, i frutti decorano il giardino con il loro colore oro durante l’autunno e buona parte dell’inverno, oppure se raccolti e conservati in casa vi regaleranno una deliziosa fragranza.


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Ambiente e Benessere

Verdure grigliate sott’olio

Migusto La ricetta della settimana

Conserva Ingredienti per 2 vasi da 1 litro: 2 melanzane di ca. 350 g · sale · 2 zucchine di ca. 300 g · 3 peperoni di ca. 200 g · 1 peperoncino · 2 spicchi d’aglio · 1 rametto di timo · 2 rametti di rosmarino · pepe macinato · 8 dl circa d’olio d’oliva.

migusto.migros.ch/it/ricette

1. Tagliate le melanzane a fette di circa 7 mm, disponetele su un piatto e cospargetele di sale. Fate riposare finché si formano delle gocce d’acqua. Tamponate con carta da cucina, girate e cospargete di sale l’altro lato. Lasciate riposare e tamponate nuovamente. Riscaldate il grill a circa 160 °C.

Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.

2. Nel frattempo, tagliate le zucchine a fette di 7 mm. Dividete in quattro i peperoni e privateli dei semi. Tagliate il peperoncino ad anelli. Schiacciate l’aglio sulle fette di verdura. Tritate finemente le erbe e aggiungetele. Pepate leggermente tutti gli ortaggi e conditeli con poco olio. Grigliateli da ambo i lati per ca. 1 minuto. 3. Disponete a strati in vasetti risciacquati con acqua bollente. Riempite con olio in modo da coprire completamente le verdure grigliate. Richiudete subito ermeticamente. Al buio e al fresco, le verdure grigliate si conservano per alcuni mesi. Preparazione: circa 40 minuti. Per persona: circa 13 g di proteine, 93 g di grassi, 28 g di carboidrati, 1040

kcal/4300 kJ.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 luglio 2018 • N. 28

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E ora? Chi ci ferma più?

Sport Il (fanta)calcio che veleggia al di sopra dei confini e delle bandiere

Giancarlo Dionisio Ve lo ricordate il lungo e frustrante periodo delle sconfitte autorevoli? Quello di una nazionale targata CH, una squadra che, nonostante giocatori di qualità come Kuhn, Blättler, Odermatt, in seguito Geiger e Heinz Herrmann, dovette attendere 28 anni per poter partecipare di nuovo alla fase finale della Coppa del Mondo? Eh sì, correva l’anno 1966 e la Nati disputava il suo ultimo Mondiale prima di una lunga latitanza. Si trovava in Inghilterra e vi parteciparono anche i ticinesi Prosperi e Gottardo. Riuscimmo a rimettere piede in un mondiale nel 1994, negli USA, e due anni più tardi, di nuovo in Inghilterra, i nostri ragazzi disputarono il loro primo Europeo. Quella di Roy Hodgson, e in seguito di Artur Jorge, era una squadra in cui i secondo cominciavano ad avere un ruolo determinante. Nel vecchio stadio londinese di Wembley l’asse VegaSforza-Kubi ci fece sognare. Fu l’inizio di un processo che si sviluppò e si ingigantì col passare degli anni. La Svizzera, in seguito, è riuscita persino a vincere un Mondiale, nell’autunno del 1999: quello della categoria U17, con una selezione che comprendeva anche i ticinesi Martignoni e Tosetti, ma le cui stelle si chiamavano Rodriguez, Mehmedi, Ben Khalifa, Seferovic e Xhaka. Bravi ragazzi, pieni di motivazione e talento, ma con il malaugurato difetto di non cantare il salmo svizzero prima delle partite. Una vergogna? E allora immaginate una guerra mitteleuropea in cui le nazioni a nord minaccino la nostra neutralità. Una guerra cruenta, combattuta con mezzi

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Alla fine si può giocare a calcio anche senza maglia… (Pxhere)

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convenzionali, ma anche con micidiali marchingegni tecnologici. Veniamo schiacciati. Siamo a terra. Il nostro territorio ci fornisce anfratti in cui darci alla macchia, ma non ci dispensa sufficienti mezzi di sussistenza. L’invasore è spietato. Molti di noi fuggono e trovano accoglienza nel profondo sud dell’Europa, in Grecia, Sicilia e Portogallo. Passano gli anni, la situazione in Europa si è normalizzata troppo lentamente e i nostri emigranti hanno messo radici laggiù. Avrebbero voluto tornare, ma la vecchia e florida Svizzera di un tempo è solo un’immagine scolpita nel cuore e nella mente di coloro che hanno avuto il privilegio di vivere l’equilibrio, la stabilità e il benessere di uno dei paesi più accoglienti della storia. I loro figli crescono, ad Atene, Salonicco, Paler-

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mo, Lisbona, Porto. La passione per to contrario di ciò che si appresta a fare. l’hockey su ghiaccio si stempera e lascia Davanti, la prima punta, è il gigantesco spazio al calcio. Molti di loro giocano, Milatic: 196 cm, due spalle da Schwinparecchi sono bravini, alcuni sono dei gkönig (oppure re della lotta svizzera), fenomeni, al punto da approdare nelle ma con passo corto e rapido e il senso selezioni nazionali dei paesi in cui i loro del gol scolpito sulla pelle come i suoi genitori hanno ottenuto ospitalità e cit- novantanove tatuaggi. La selezione tadinanza. Il 19 novembre del 2037, alla azzurra si oppone alla forte Svizzera Azzurra Home di Roma, va in scena la con la sua tradizionale solidità, e con sfida che stabilirà chi, tra Italia e Sviz- una capacità di fraseggio, figlia della zera, si qualificherà per la fase finale svolta voluta dalla Federazione dopo della Coppa del Mondo. Sul fronte ros- la drammatica esclusione dalla Coppa socrociato il portiere Grabcic sembra del mondo del 2018 in Russia. In questo un incantatore di serpenti, nove partite contesto collettivo due stelle. Giochi per “Azione” - Giugnobrillano 2018 Sargentini giocate nel girone, una sola rete incas- Stefania Walter Müller, figlio di esuli argoviesata. centrale Abdellah è un maglio si, è un ragazzo dotato di intelligenza (N. 21Il- “Delle patate con il salame”) che, se necessario, lascia segni indele- tattica straordinaria e forza fisica da N D EGiulio L EBernasconi ha origini bili su caviglie e polpacci avversari. Il C A decatleta. numero 10 è Hoxa, due piedi da Oscar, A del L Mendrisiotto. A R E A I suoi genitori erano con la dote innata di far credere l’esat- P A fuggiti quando il ragazziS da TLigornetto A

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1 - Luglio 2018 9 Giochi per “Azione” O T Stefania I T E C Sargentini

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N I C O L A

Vinci una delle 3 carte A regalo O S T Ida C 50 A O L 6franchi 8con5 il cruciverba 1 4 SUDOKU PER AZIONE - GIUGNO 2018 N C A R 50 C A franchi O R A con il sudoku e una delle 2 carte regalo da (N. 25 - “Molti ci lasciano le penne”) NN.U21OFACILE R A L A S E R 8 3 O R M E C A T E N E Schema Soluzione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 (N. 22 - Nome proprio di luogo geogra co) 6 Sudoku E 9R 4E M O C6 2L 7 9I 8 M 4 3 A 5 5 20

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(N. 26 - ... acqua, aceto e bicarbonato) 28

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27. Per, a Parigi 28. Un famoso Silvestro 29. Tre di Abramo 3023 . Iniziali di un noto imperatore francesedi nonDEVE RICORDARE DI NON STARE SCALZO. semina spine deve ricordare stare scalzo) N. 23 DIFFICILE 5 (N. 6- Chi 31. Due di spade 1 2 3 4 5 6 7 8 9 26

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U N T O S E T A T 2 5 8 E N T V A N E T A 9 2 I O N I O R I N G 7 A 5D E N T E R 3 B E 4 8 I E R I S7 O T 7R E 1 T2 O T 3 7 5 1 2 8 3 9 T O 8 Z E L T6 2 8 4 1 9 6 5 O S Soluzione S A R della I O settimana precedente 4 NASCOSTO2– Proverbio risultante: 6 CHI 9 3 7 4 SPINE 5 8 IL PROVERBIO SEMINA

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30. Morta su molti quadri 32. Anomalo, insolito VERTICALI 1. Filosofia morale 1 2 2. Evolvere senza volere 3 3. Possessivo 4. Colore giallo-rossiccio 7 8 6. Le iniziali di Jovanotti 7. È ricco di petrolio 10 11 8. Pianta aromatica 9. D’altri tempi 11. Un 13 anagramma di sorte 14. Articolo spagnolo 16. Fu cacciata dall’Olimpo 15 19. Si leggono in viso... 21. Importante accadimento 21iniziali del noto 22 Elkann 23 25. Le

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1 3 O7 M I 9N N Soluzione: Scoprire i A 5 3 3 P I S numeri corretti I 8 6 P R5 O3 da inserire nelle P A M O 9 1colorate. caselle L A U R A C A L O 3 R 7G 5E T O1 G A L 7 E 3O 2 G E R8 I N A N 4F A N 9 A D A C C 1 I S3 A 2A

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T V RI O7 C O R 16 17 D I R I L A E B 21 C O I 1I 4I 3A 23 24 D 3I A S S 1O I O 26 27 4L N. 22 MEDIO (N. 23 - Duecentosettanta gradi sotto zero) 5 3 6 8 28 29 D 9U O M O5 1 T E C H E E 11

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

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no era già un mito nel Raggruppamen1 3 nonostante2fosse poco più to regionale, alto di un metro. Giulio non è cresciuto molto, ma tutti sostengono che sia forte almeno quanto la Pulce atomica, Leo Messi, il calciatore che aveva illuminato i primi anni del millennio. Due piedi, velocità, resistenza, senso tattico, fiuto del gol e persino colpo di testa: ha tutto! In Champions ha già segnato nove reti nelle cinque partite della fase a gironi. Sono le 20.40. Risuonano le note del salmo svizzero. Le telecamere si muovono tra la curva, dove una moltitudine di fans rossocrociati, mano sul cuore, scandisce le parole in tre o forse quattro lingue, e il campo dove abbracciati e muti, gli undici eroi cercano ispirazione, energia e solidarietà. 20.42 tocca all’inno di Mameli. L’Azzurra Home è una bolgia. I ragazzi cantano, stonando simpaticamente davanti ai microfoni della TV. Si respira furore bellico: «Mo quelli li facciamo a pezzi!». Solo da due bocche non esce il motivante «Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta...». Giulio e Walter, abbracciati ai compagni, tacciono. Uno scandalo? Una vergogna? Dalla curva si eleva un coro: Berna-sco-ni///ta-ta-ta-ta-ta! Il ragazzo risponde salutando con la mano. Tutto normale. Il calcio veleggia al di sopra dei confini e delle bandiere. Ci sono calciatori di origine africana che fanno grande la Francia: Balcanici che sospingono la Svizzera e Svizzeri che fanno volare l’Italia. A proposito, nonostante la doppietta di Bernasconi, l’Italia è stata costretta allo spareggio. La Svizzera, per la nona volta consecutiva, è approdata direttamente alla fase finale della Coppa del Mondo, grazie alle reti di Abdellah e Milatic e al calcio di rigore di Hoxa. E ora chi ci ferma più?

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ORIZZONTALI 1. Luogo per anacoreti 5. L’insieme delle condizioni atmosferiche 10. In luogo di... 12. Radice piccante 13. 49 romani 15. La lingua dell’assetato 17. Formica inglese 18. Preposizione articolata 20. Vigili, accorti 22. Una carta da gioco 23. Abbreviazione ecclesiastica 24. Le iniziali dello scrittore Camilleri 25. Un articolo 26. Le iniziali del conduttore Papi 28. Ostenta atteggiamenti aristocratici

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Cruciverba Nino Frassica ci racconta una conversazione tra compagni: «Ma tu lo sai che gli astucci sono pericolosi?» «Davvero?! E perché?» Trova la risposta a cruciverba risolto, leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 5, 2, 8, 2, 5)

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 luglio 2018 • N. 28

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Politica e Economia Disuniti contro le fake news I colossi della Silicon Valley e l’Amministrazione Trump non trovano una via comune per contrastare le ingerenze russe pagina 18

Il trionfo di AMLO Definito un populista di sinistra, Andrés Manuel LÓpez Obrador stravince le presidenziali messicane, promettendo lotta alla corruzione, più giustizia e aiuti ai poveri

Tutto rinviato a settembre Misure accompagnatorie: il Governo vuole prima consultare cantoni e partner sociali

AVS, si riparte Il Governo presenta la nuova riforma, anch’essa prevede per le donne la pensione a 65 anni

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Una visibilmente affaticata Angela Merkel ascolta il suo ministro degli interni ed avversario Horst Seehofer. (Keystone)

Angela Merkel sulla via del tramonto

Germania La cancelliera, logorata da anni al potere, ha superato solo a fatica e provvisoriamente una crisi di governo,

nella CDU è già cominciata la lotta per la successione. Per l’Unione Europea si tratta di una cattiva notizia in più Lucio Caracciolo C’era una volta Angela Merkel, immarcescibile domatrice della scena tedesca, alfa e omega degli equilibri europei. Rieletta non trionfalmente per la quarta volta lo scorso autunno, dopo aver tentato inutilmente per mesi di allestire la sua coalizione preferita con Verdi e liberali (FDP), è dovuta ripiegare sulla nuova Grande Coalizione con la SPD – grande solo nel nome, visto che non supera il 53% dei consensi – e con i cugini bavaresi della CSU. Oggi della stella di Berlino, del suo carisma e della sua capacità di moderare e indirizzare i faticosi compromessi intracomunitari resta poco. Siamo anzi in piena MerkelDämmerung. Tramonto che rischia di assomigliare a quella che travolse il suo predecessore, Helmut Kohl, che notoriamente non l’amava. Che cosa è successo? Almeno quattro piste ci aiutano a cogliere senso e tratti di tanto declino. In primo luogo, il naturale logorio del potere. Di questi tempi, con la crescente delegittimazione della politica – in Germania meno che altrove – e la pressione mediatica e social-mediatica

incombente, i leader tendono a durare meno di prima. Ogni loro decisione o indecisione si riflette in tempo reale nell’opinione pubblica, che reagisce spesso nervosamente. Ai capi si richiedono riflessi rapidi e parole chiare. Non proprio la specialità di Merkel. Celebre anzi per la sua inclinazione a «sedersi sopra» i problemi, a gestirli anziché risolverli, a scegliere solo dopo aver valutato ogni ipotesi e ascoltato – o finto di ascoltare – i suoi fidi consiglieri. Quattro mandati sono forse troppi. Non è detto che la cancelliera riesca a terminare quello corrente, che comunque sarà l’ultimo. Sicché nella CDU è cominciata la rissa per la successione, per ora coperta, ma destinata a esplodere entro la fine dell’anno. In secondo luogo, l’economia e la situazione sociale in Germania non sono più così rosee e tranquillanti come un tempo. Nuvole nere si addensano sull’economia globale e sulla finanza ormai fuori controllo, investendo anche le Borse e il sistema bancario tedesco – il caso della Deutsche Bank, ridotta a una sorta di hedge fund, è paradigmatico. Per un paese campione mondiale del-

le esportazioni, dotato di un apparato industriale di prima qualità orientato verso i mercati esteri, molto meno verso quello domestico, il rallentamento della crescita globale e la minaccia di una nuova recessione negli Stati Uniti, che alcuni prevedono entro l’anno prossimo, sono segnali pessimi. In terzo luogo, l’offensiva di Trump contro la Germania e contro tutti i paesi che dal suo punto di vista – violentemente mercantilista e protezionista – colpiscono il made in America. La strategia statunitense dei dazi e delle tariffe, diretta anzitutto contro la Cina, ma anche contro gli «alleati» europei, tedeschi in testa, crea grossi impedimenti allo sviluppo dei commerci. Il clamoroso surplus commerciale della Germania con il resto del mondo, valutato attorno all’8% del Pil, appare destinato al dimagrimento. Allo stesso tempo, i mercati europei, che restano decisivi per un’economia globalmente estroflessa ma comunque incardinata nell’Eurozona e nel contesto comunitario, stentano ad assorbire l’offerta di merci germaniche, anche quelle di miglior qualità.

Quarto e decisivo punto d’inciampo, la questione migratoria. In queste settimane Merkel ha rischiato su questo tema una devastante crisi di governo. La rivolta del ministro bavarese dell’Interno, Horst Seehofer, esponente di punta della CSU, che proponeva una drastica chiusura ai migranti di ogni specie e categoria, è stata composta con un faticoso, traballante compromesso. Merkel ha dovuto digerire i «centri di transito» in cui saranno rinchiusi i profughi provenienti da paesi con i quali Berlino ha stipulato accordi di restituzione. Ciò ha suscitato le reazioni esplicite della SPD, per niente soddisfatta dell’intesa inter-democristiana, con conseguente nuova fibrillazione nella maggioranza. La decisione presa personalmente dalla cancelliera nel settembre 2015, di aprire le porte della Germania ai migranti siriani, accogliendone quasi un milione, si è rivelata un boomerang. Ne è derivata la rapida marcia indietro via accordo con la Turchia per bloccare la via balcanica. Ma non è bastata. Ormai in Germania come nel resto d’Europa la questione dei migranti è diventata quasi ingovernabile. Non

per i numeri, in netto calo, ma per la percezione di un’invasione che non c’è ma è come se ci fosse. Il tramonto di Merkel indebolisce la Germania in Europa e nel mondo. Per un paese geopoliticamente introverso, nel quale l’idea della «Grande Svizzera» continua a essere senso comune per buona parte della popolazione, il convergere di crisi e conseguenti responsabilità internazionali è difficile da affrontare. Anche culturalmente. La storia dimostra che fra le qualità germaniche non spicca la flessibilità, l’adattamento. Oggi Berlino dovrebbe assumere un ruolo pilota nell’ambito di ciò che resta dell’Unione Europea, ma non ha gli strumenti culturali, politici e strategici per farlo. Né si vede chi possa surrogarne il ruolo – anche se Macron si è fatto venire qualche idea al riguardo. Risultato: prepariamoci a un’accelerazione del processo di disintegrazione europea. Dopo il Brexit, la regola intracomunitaria è sempre più evidente: tutti contro tutti. Senza più un moderatore in Germania che sappia pilotare la barca comune fra gli scogli aguzzi che minacciano di affondarla.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 luglio 2018 • N. 28

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Politica e Economia

Contro le ingerenze in ordine sparso

La piazza del Cremlino è un punto di incontro. (Keystone)

Propaganda russa L’Amministrazione Trump e i colossi

tecnologici non trovano una strategia comune contro Putin Christian Rocca I governi occidentali e le grandi aziende della Silicon Valley non sono riuscite ad evitare gli attacchi di agenti stranieri, prevalentemente russi, ai processi democratici americani ed europei del 2016 e degli anni successivi. Si può discutere sull’impatto reale di queste ingerenze sulle elezioni dell’Occidente libero, e se effettivamente siano state decisive per far uscire la Gran Bretagna dall’Europa, per eleggere Donald Trump alla Casa Bianca, per fermare le riforme italiane, per disarcionare i governi riformisti europei e sostituirli con maggioranze populiste, ma il dato certo è che le intromissioni straniere ci sono state. Lo sostengono sedici agenzie americane di sicurezza nazionale e quelle di buona parte dei paesi europei, lo dicono i governi dell’Unione finiti sotto attacco e anche quello britannico. Queste ingerenze sono state di natura analogica, sotto forma di elargizioni di denaro, di patti politici e di propaganda vecchio stile, ma anche di natura digitale con attacchi hacker alle macchine elettorali degli Stati americani, con la produzione robotica di fake news, con la fabbrica di troll a San Pietroburgo, con i rapporti ambigui tra Mosca e Wikileaks, con l’abuso dei dati personali sottratti alle grandi piattaforme digitali esploso con il caso di Cambridge Analytica e cosi via.

Le ingerenze russe per dividere l’Occidente e influenzare elezioni e votazioni sono provate, ma mancano le risposte Il mondo occidentale se ne è accorto lentamente e, malgrado non abbia ancora una risposta cogente per contrastare l’attacco, perlomeno ora ha una maggiore consapevolezza della strategia del caos elaborata da Vladimir Putin. L’ex vicepresidente americano Joe Biden, con un articolo del gennaio 2017 su «Foreign Affairs», aveva spiegato bene le mire del Cremlino, ma da numero due dell’Amministrazione Obama non aveva fatto molto di più che accorgersi dell’attacco russo in corso e l’assenza di una denuncia perentoria di quanto stava accadendo riguardo alla sfida Trump-Clinton rimarrà uno dei punti dolenti dell’eredità politica di Obama. La Casa Bianca di allora era convinta che nonostante tutto Hillary avrebbe prevalso su Trump e quindi

ha scelto di agire sotto traccia contro i russi per evitare di essere accusata di voler favorire il candidato del Partito democratico sull’immobiliarista di New York. Non è andata così e ora gli ex membri dell’Amministrazione Obama, soprattutto quelli che spingevano per una risposta dura agli attacchi russi, ma anche le colombe che hanno sostenuto la linea morbida del presidente, si mangiano le mani. Oggi la situazione è diversa. Sono tutti consapevoli del progetto di Putin, anche se manca ancora una strategia unitaria di governi e industria digitale. Qualcosa però è stato fatto: sono state mantenute le sanzioni economiche anti Mosca, adottate per l’invasione russa dell’Ucraina e ora rinnovate con maggiore forza; sono stati espulsi alcuni diplomatici del Cremlino; è stato impedito l’ingresso in Gran Bretagna a dei cittadini russi; è partita un’inchiesta americana sui rapporti tra Mosca e il team Trump; sono state bloccate le trame oscure di Cambridge Analytica; è stata approvata una direttiva dell’Unione europea contro l’abuso dei dati personali in possesso dei social network; è stato avviato un grande dibattito politico, sociale e culturale sull’impatto delle piattaforme digitali sulle società libere, con tanto di audizioni pubbliche dei vertici di Facebook al Congresso americano e al Parlamento europeo. In controtendenza, per ora, c’è solo il nuovo governo nazional-populista italiano formato da due alleati del partito Russia Unita di Putin e la cui piattaforma di politica estera è sovrapponibile a quella del Cremlino: rimozione delle sanzioni alla Russia, ostilità nei confronti dell’Unione europea e della Nato, bordate contro l’Euro e fine della solidarietà tra gli alleati storici. La reazione dunque c’è stata, ma è ancora ampiamente insufficiente per scongiurare un altro attacco al cuore dell’Occidente in occasione delle prossime elezioni di metà mandato americane a novembre e alle Europee del 2019. Vedremo se al vertice in Finlandia tra Trump e Putin se ne parlerà, come promettono gli americani. Intanto i due player più importanti, quelli con potenziale e risorse in grado di prevenire e respingere gli attacchi, ovvero la Silicon Valley e il governo di Washington, continuano a restare disconnessi e a non lavorare insieme per evitare che l’influenza russa o di qualche altro attore straniero possa ripetere l’exploit del 2016 anche in occasione delle prossime tornate elettorali. Secondo la CNN, a due anni dall’e-

Esempi di fake news russe veicolate dai social media americani. (Keystone)

lezione di Trump il sistema americano è ancora vulnerabile: nella Silicon Valley pensano che la responsabilità sia delle agenzie di intelligence che non si fidano in pieno dei colossi tecnologici e non condividono con loro le informazioni necessarie a prevenire l’ingerenza straniera. A Washington, invece, credono che Facebook e Google siano meglio equipaggiati dei servizi segreti per monitorare le attività sospette sulle loro piattaforme e lamentano di non avere accesso ai dati a loro disposizione. Questo rimpallo di responsabilità arriva direttamente al cuore della Casa Bianca: sia le aziende della Silicon Valley sia i servizi americani credono che manchi una risposta strategica nazionale da parte di un’Amministrazione Trump molto restia, se non addirittura contraria, a riconoscere la gravità del problema perché metterebbe in discussione la legittimità del voto del 2016. Nonostante ciò qualcosa si muove, più che altro su iniziativa di Facebook e delle associazioni che curano gli interessi dell’industria digitale. Sebbene il colosso fondato da Mark Zuckerberg non abbia ancora risposto a tutte le richieste di chiarimento poste dal Congresso, e anzi abbia ammesso di aver fornito dati sensibili a società cinesi considerate una minaccia per la sicurezza nazionale dall’intelligence americana, sembra comunque che Facebook voglia evitare di trovarsi nella situazione imbarazzante degli ultimi due anni. Il 23 maggio, ha svelato il «New York Times», Facebook ha ospitato nella sua sede di Menlo Park un incontro con altre grandi aziende tecnologiche e con funzionari dei servizi di intelligence e il fatto stesso che l’incontro si sia tenuto nella sede di Facebook e non al Dipartimento di Sicurezza Nazionale o all’Fbi, secondo la Cnn è già una risposta alla domanda su quale dei due attori americani sia più interessato ad affrontare la questione seriamente. All’incontro di Menlo Park hanno partecipato le 8 principali aziende tecnologiche americane, Amazon, Apple, Google, Microsoft, Oath, Snap, Twitter e ovviamente Facebook. Dall’altra parte del tavolo c’erano un sottosegretario della Homeland Security e il responsabile della nuova divisione dell’Fbi denominata «influenze straniere». Si è trattato di un primo tentativo di coordinamento strategico, ma secondo quanto risulta al «New York Times» l’atmosfera dell’incontro non è stata serena: le aziende digitali hanno segnalato alcune campagne di disinformazione in corso ma alla richiesta di specifiche informazioni di intelligence per prevenire le minacce future si sono visti opporre un rifiuto da parte degli agenti federali. La sensazione è che Silicon Valley e Washington continueranno ciascuno per conto proprio a fermare l’interferenza straniera sulle elezioni di midterm, col rischio di ripetere il patatrac del biennio precedente. I riflettori sono puntati soprattutto su Facebook, lo strumento più usato dai russi per influenzare le elezioni del 2006 attraverso l’acquisto di spazi pubblicitari e l’apertura di pagine social per diffondere disinformazione (e ora sotto indagine americana per aver ceduto i dati personali di 71 milioni di persone a Cambridge Analytica). Ma con l’inchiesta Mueller sui rapporti tra i russi e Trump in dirittura d’arrivo, probabilmente poco prima delle elezioni di novembre, l’impegno molto blando dell’attuale presidente americano nel contrastare la campagna russa contro l’Occidente potrebbe tornare di grande attualità.

L’amore al tempo dei Mondiali

Russia 2018 Le autorità si preoccupano

per i giovani tifosi che arrivano dall’estero suscitando interesse nelle ragazze russe

Anna Zafesova Nella grande festa mobile arrivata nelle città russe insieme ai Mondiali di calcio qualcuno è scontento: i maschi russi, afflitti dal successo che i tifosi internazionali sbarcati in Russia stanno avendo con le ragazze russe. Gli opuscoli con le istruzioni su come conquistare le Natashe e le Svetlane, pubblicati tra le polemiche in alcuni Paesi alla vigilia del campionato, stanno funzionando. Il traffico sull’app per appuntamenti Tinder è cresciuto di 11 volte in due settimane, e la via Nikolskaya, che parte dalla piazza Rossa ed è diventata la passeggiata principale dei tifosi moscoviti, è piena di ragazzi e ragazze di ogni nazione e maglia, che bevono, ballano, festeggiano e si baciano. Sui social decine di ragazze postano selfie scattati con i turisti, spesso anche molto provocanti, e raccontano delle loro esperienze (tra i metodi di corteggiamento più originale spicca un tifoso argentino che ha conquistato una bellezza russa mostrandole una t-shirt per bambini con il nome di Messi e spiegandole a gesti che vorrebbe produrre con lei un piccolo Messi). Ma ci sono anche gruppi Facebook dove vengono identificate e messe alla berlina le «prostitute» che vanno con gli stranieri, e i tifosi che molestano le ragazze (particolare indignazione hanno suscitato i brasiliani che hanno postato dei video in cui insegnano alle russe frasi oscene in portoghese). L’opinione pubblica si è spaccata: una parte, prevalentemente maschi, prende le ragazze a male parole, con una retorica dai forti toni maschilisti e razzisti: «almeno andassero con gli svedesi, non con i brasiliani» è un commento molto diffuso. Dall’altra, blogger e giornaliste obiettano che i russi sono scorbutici, maschilisti, trascurati e pigri, e «farsi corteggiare da un argentino è tutta un’altra cosa». Il dolente tema della donna russa che scappa con un forestiero è riesploso anche nelle stanze della politica. Ancora prima del calcio d’inizio la presidente del Comitato della Duma per le donne e la famiglia Tamara Pletniova ha messo in guardia le russe dalle relazioni pericolose con i tifosi stranieri: «Soffrirebbero a venire abbandonate con i figli, ancora peggio se poi i bambini fossero di una razza diversa», ha detto, invitando i russi a «fare figli nel nostro Paese». Anche la chiesa ortodossa è contraria ai flirt calcistici, ma invece di obiezioni razziali propone quelle religiose: «Sconsigliamo ai nostri parrocchiani di scegliersi compagni di tradizione religiosa diversa dalla loro, l’esperienza di coppie miste è spesso amara», è stata la raccomandazione del metropolita Illarion, responsabile dei rapporti inter-

nazionali del patriarcato di Mosca. La polemica è diventata talmente accesa da richiedere l’intervento di Vladimir Putin, che per bocca del suo portavoce ha fatto sapere di considerare le russe abbastanza mature da «potersi gestire da sole e decidere in autonomia con chi vogliono andare a letto». A parte l’idea abbastanza arretrata dei parlamentari russi sulla contraccezione e i rapporti tra i sessi, la discussione riprende un argomento ormai storico, nato per la prima volta nel 1956, con il festival della gioventù voluto da Krusciov dopo decenni di isolamento staliniano. Il risultato furono decine di «figli del festival», abbandonati alla nascita perché la morale dell’epoca rifiutava bambini di razza diversa. Oggi, in un mondo completamente cambiato, si parla dei «figli del mundial» con gli stessi toni. Per il presidente russo si tratta di una questione delicata, in tutti i sensi. I deputati, religiosi e intellettuali che lanciano proclami di fuoco contro le «dissolute» che rovinano l’immagine della donna creata dai grandi della letteratura russa sono il suo elettorato più fedele, quello conservatore e nostalgico. Nello stesso tempo i Mondiali sono per il Cremlino una grandiosa operazione di immagine, che sta funzionando molto bene. Centinaia di migliaia di tifosi da tutto il mondo si stanno divertendo, trasmettendo ai loro connazionali una visione insolita della Russia, come Paese aperto, allegro, moderno ed efficiente. L’isolamento politico di Mosca viene contrastato da una «diplomazia del pallone» in nome della quale ai poliziotti russi sono stati imposti speciali corsi per imparare a sorridere. Il clima da carnevale ha contagiato anche i russi e Mosca celebra le vittorie con più esuberanza di Rio, felice di aver messo da parte le minacciose manifestazioni militariste e nazionaliste degli ultimi anni a favore di una festa non ideologica e global. Da nemici da guardare con sospetto gli stranieri sono diventati ospiti graditi, non si sono registrati incidenti e il governo ha approfittato di questo momento di spensieratezza per aumentare senza dibattito l’età pensionistica e l’Iva. In questo momento magico il Cremlino non vuole rovinare la festa con una campagna contro le russe che vanno con gli stranieri. Ma i selfie con i tifosi sono anche un campanello d’allarme, mostrando che la retorica nazionalista della fortezza assediata dall’Occidente «degradato» comincia a non piacere ai giovani. Molte ragazze sui social postano selfie con messaggi come «portami via dalla Russia», e un’indagine sociologica condotta nei giorni del Mondiale ha rivelato che un numero record di giovani russi, il 31%, vorrebbe emigrare.


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Politica e Economia

Un’elezione storica

Messico Nella popolazione messicana la figura del nuovo presidente Obrador suscita grandi aspettative

Angela Nocioni Una mano femminile rinsecchita, curata, raccoglie con gesti lenti la biancheria da poveri stesa al sole su un filo teso tra due pali della luce della piazza principale di Oaxaca, el Zocalo. Scaccia due cani rannicchiati sotto una coperta e indica il numero 53 per cento scritto con la vernice rossa accanto alla vetrina dell’ex «bazar Milano» dall’altra parte della strada. «Meraviglioso trionfo – dice Ramona Delgado Paez mentre ripone il bucato fresco nel grembiule – con trenta milioni di voti dalla propria parte si può rivoluzionare davvero questo paese. Se il nuovo presidente avrà veramente voglia di farlo si vedrà subito appena assumerà l’incarico a dicembre, si vedrà da come si comporterà con le richieste degli indigeni di Oaxaca». Ramona ha votato per AMLO, come chiamano in Messico il neopresidente Andrés Manuel López Obrador. Questa anziana signora meticcia è tra i pochissimi a dire che ha votato per lui qui nel Zocalo occupato per l’en-

nesima volta dalle comunità indigene dello Stato di Oaxaca (il Messico ha una struttura federale) che ambiscono a diritti di base, da insegnanti in sciopero che oltre a rivendicazioni di categoria chiedono un repulisti nelle istituzioni locali in mano da quasi un secolo al Partito rivoluzionario istituzionale (il PRI) e da una eterogenea rappresentanza delle infinite sinistre messicane spuntate negli ultimi vent’anni a sinistra della sinistra tradizionale. Della sinistra storica Lopez Obrador è da decenni il capo, l’eterno candidato alla presidenza che stavolta, però, ce l’ha fatta. Morena, il movimento da lui fondato dopo la sconfitta per 300 mila voti nel 2006, ha stravinto anche a Città del Messico con la sua candidata sindaco Claudia Sheinbaum. AMLO ha una maggioranza schiacciante alla Camera, più incerta al Senato, ma quel 53 per cento è un capitale prezioso che molti alla sua sinistra considerano un assegno in bianco in mano al neopresidente per cambiare «tutto e subito».

Nella Oaxaca simbolo del radicalismo politico messicano, dove un assai combattivo sindacato dei maestri organizza scioperi ad oltranza tutti gli anni da quarant’anni ed è ormai considerata per conflittualità politica il nuovo Chiapas, l’allegria per la sconfitta delle destre è oscurata da un’ombra di sarcasmo. «AMLO aquì te esperamos querido», «qui t’aspettiamo caro» ripetono in uno slogan ritmato come un rap una decina di studenti appena arrivati dalla Unam, l’università pubblica di Città del Messico che del radicalismo politico nazionale è il tempio. «Sette persone su dieci nello Stato di Oaxaca sono povere, le persone indigene che sono la maggioranza della popolazione locale sono trattate come bestie da soma. Se Lopez Obrador vuol davvero rivoluzionare il Messico cominci da qui, o non gli daremo nemmeno il tempo di cominciare altrove» proclama baldanzoso Emiliano, un ventunenne studente di filosofia arrivato stamattina dal Distretto federale con la A cerchiata di

Lopez Obrador, la notte del trionfo. Su www.azione.ch il fotoreportage di Angela Nocioni su Oaxaca. (Keystone)

anarchia tatuata sotto il polso sinistro. «Ascolteremo tutti, rispetteremo tutti, però daremo la precedenza ai più umili e ai dimenticati, prima di tutti agli indigeni» ha promesso il neopresidente nell’entusiasmo della notte del trionfo. Ha poi aggiunto che rispetterà l’autonomia della Banca centrale, che il suo governo avrà sacro rispetto della disciplina fiscale, che non ci saranno espropri e che tutti gli impegni presi con le imprese straniere saranno rispettati. Parole utili a scacciare il fantasma del candidato radicale antisistema brandito come arma dai suoi avversari. Parole ascoltate con grande scetticismo dall’assemblea radicalissima della Oaxaca occupata che teme il potere dei due luogotenenti subito nominati dal neopresidente come coordinatori della non meglio definita «transizione per i temi economici», il ministro dell’industria Carlos Urzua e l’imprenditore Alfonso Romo. L’estrema sinistra riunita a Oaxaca dice di aver paura di far la fine degli zapatisti del vicino Chiapas. «Temo tanto rumore per nulla» sintetizza con un gran sorriso Leticia, maestra militante nel sindacato 22, cellula dissidente dell’elefantiaca organizzazione di categoria degli insegnanti considerata «il covo degli intellettuali organici dell’ultima ribellione messicana» anche se a Oaxaca da almeno dieci anni chi decide ogni passo delle varie insurrezioni popolari sono gli indios delle comunità delle montagne che controllano gli accessi al centro, decidono cosa occupare e quando, gestiscono la sicurezza. Per capire cosa significhi per loro la vittoria di Obrador alle elezioni, bisogna fare un passo indietro. Già nel 1988 Cuauhtemoc Cardenas, il candidato di un vasto schieramento progressista, sembrava aver vinto le elezioni, ma durante lo scrutinio un provvidenziale black out interruppe il conteggio dei voti. Quando tornò l’energia elettrica, Cardenas si ritrovò al secondo posto. Il Messico fu sull’orlo di una guerra civile, ma Cardenas scelse la via pacifica e lo schieramento che

lo sosteneva si trasformò nel Partito della rivoluzione democratica (PRD). Il governo che si insediò, presieduto da Carlos Salinas de Gortari, realizzò una riforma costituzionale per preparare il paese all’ingresso nel Nafta (il trattato di libero commercio con Usa e Canada). Nella riforma venne cancellato il diritto di proprietà collettiva sulla terra delle comunità indigene. Lo stesso giorno dell’entrata in vigore del Nafta, il Capodanno del 1994, una parte delle comunità indigene del Chiapas si dichiarò in «insurrezione armata». Molto mal armati, ma abilmente diretti nelle strategie di comunicazione con le sinistre di mezzo mondo dal loro leader mediatico che si firmava subcomandante Marcos, gli indigeni zapatisti riuscirono ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale. Il governo dovette accettare un negoziato. Intanto Cardenas perse le elezioni e il nuovo presidente Ernesto Zedillo disattese un primo accordo di pace firmato con gli zapatisti che prevedeva una riforma costituzionale. Alla rottura delle trattative seguirono anni di guerra di bassa intensità con occupazione militare dei territori indigeni del Chiapas, massacri e persecuzioni di ogni tipo. Fino alle elezioni del 2000. L’ex dirigente della Coca Cola Vicente Fox del PAN, Partito di azione nazionale, un partito conservatore di destra, conquistò in quella fase politica il ruolo di innovatore. Fox vinse e promise di «risolvere la questione del Chiapas in quindici minuti». Disse che avrebbe usato la via politica. Gli zapatisti allora, dopo aver fatto arrivare in marcia dal Chiapas a Città del Messico i capi indigeni, ottennero il risultato storico di parlare in aula, con i loro passamontagna, nel parlamento messicano. Fox assicurò di accogliere le loro richieste, incluso il riconoscimento delle istituzioni comunitarie e il diritto alla terra. Gli zapatisti tornarono allora nella Selva ed attesero. Attesero. «Sono ancora lì che aspettano – dice Leticia – vorremmo evitare di fare la stessa fine».

Una vittoria che riapre le ferite Colombia Il nuovo presidente Ivan Duque, pupillo dell’ex presidente Alvaro Uribe, ha annunciato di voler vanificare

l’accordo di pace concluso con i guerriglieri delle Farc, trasformatesi oggi in formazione politica Appena vinte le elezioni, la destra uribista colombiana già ha annunciato di cosa si occuperà nei prossimi anni: di vanificare l’accordo di pace firmato dal presidente uscente Manuel Santos e la narcoguerriglia delle Farc. Ivan Duque, candidato dell’estrema destra, eletto con il 54 per cento dei voti, figlioccio politico dell’ex presidente Alvaro Uribe, ha scritto che il suo governo «correggerà» il patto che ha permesso il disarmo e la conversione in partito politico dell’ex guerriglia Farc. Lo disattenderà, si suppone, visto che l’accordo è storicamente avvenuto e i suoi passi concreti sono ormai compiuti, comprese la consegna delle armi da parte dei guerriglieri e la loro iscrizione alle liste elettorali. Duque ha detto: «Io non governo coi nemici». Chiusura totale quindi di tutti i canali ufficiali e informali che hanno permesso il miracolo politico dell’accordo di pace con la guerriglia che da cinquant’anni combatteva in Colombia. Ora che le Farc hanno consegnato le armi e quindi dimostrato di accettare il gioco, un passo indietro del nuovo governo può essere pericoloso, essere interpretato dai più come un tradimento della parola data. E quindi la Colombia, appena usci-

ta da una campagna elettorale in cui si è parlato sostanzialmente solo di accordo di pace con le Farc, si ritrova infiammata nuovamente dalla solita furiosa lite: dovevamo o non dovevamo firmare quel patto con i guerriglieri? L’accordo della discordia – che è ormai stato recepito dall’ordinamento colombiano, è anche valso un Nobel per la Pace all’ex presidente della Repubblica Juan Manuel Santos ed è stato bocciato a sorpresa da un referendum popolare non vincolante – è ancora l’asse principale del dibattito politico colombiano. La faticosissima pace è diventata il campo di battaglia sul quale le parti politiche misurano le loro forze. Il paese è spaccato a metà. Da una parte c’è una frazione dell’opinione pubblica formata dall’ex presidente Alvaro Uribe, acerrimo nemico della trattativa con le Farc, che ritiene ideologicamente sbagliato aver trattato con le Farc e che comunque contesta nel merito i singoli punti del testo firmato. Dall’altra ci sono tutti quelli schierati in difesa della posizione tenuta in merito dal governo Santos, che ritengono folle e suicida, nonché inefficace, perpetuare all’infinito la guerra militare contro la guerriglia, sostengono che «duecentomila morti possono bastare a capire che la via militare non funziona»

Ivan Duque promette: «non governo coi nemici». (Keystone)

e difendono l’accordo come unica soluzione possibile. Ivan Duque usa molto l’argomentazione che ha contraddistinto la destra uribista: siamo favorevoli alla pace, ma non vogliamo sia fatto nessuno sconto di pena ai guerriglieri. Che è come voler dire: non vogliamo firmare la pace. Perché non si capisce come mai la guerriglia avrebbe dovuto firmare un accordo senza ottenere almeno uno sconto di pena in cambio. Interessante sarà vedere che fine farà il tavolo di negoziati aperto all’Avana tra il governo della Colombia e l’altra grande guerriglia colombiana,

l’Eln (Ejército de Liberación Nacional) che al momento sta rispettando la tregua promessa di 100 giorni. Il grande trionfatore delle elezioni colombiane è Alvaro Uribe, l’ex presidente protagonista indiscusso della guerra all’accordo di pace. Far saltare gli accordi di pace con i guerriglieri è una specialità di Uribe. Ogni volta che si è tentata negli anni una soluzione per via politica del conflitto e si è avviata una trattativa, la mediazione è saltata. Spesso per contrasti interni alle Farc. Spesso perché l’ala militarista del governo, di cui Uribe è sempre riuscito ad essere l’anima,

si è adoperata perché saltasse. Ogni volta la mediazione si è arenata prima di arrivare a buon fine. Ogni volta, tranne l’ultima. Per riuscire a non far saltare il tavolo, per sostenere l’ex presidente Santos nel raggiungimento del patto, si sono mosse le diplomazie latinoamericane e la diplomazia vaticana. Ora molti in Colombia si chiedono se Duque farà con Uribe quello che fece l’ex presidente Santos. Gli volterà le spalle? Santos ci riuscì e a lui portò fortuna. Figlio della più alta borghesia di Bogotà, Santos aveva debuttato in politica come liberale e poi era slittato a destra accanto a Uribe. Presidente della repubblica da solo tre giorni, ricevette l’allora presidente venezuelano Hugo Chávez. Da politico pragmatico decise che per tessere la difficilissima trattativa con i guerriglieri avrebbe chiesto la mediazione venezuelana, utile per il rapporto di protezione e appoggio, non solo logistico, che il leader venezuelano garantiva alla leadership della guerriglia. Spalancare la porta a Hugo Chávez significava però sbatterla in faccia da Alvaro Uribe. Santos lo sapeva benissimo. E scelse Chávez. Uribe si sentì tradito. E gli dichiarò guerra. Oggi si gusta la rivincita. /AN


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Politica e Economia

Decisione rinviata a settembre

Negoziati Svizzera-UE Le misure accompagnatorie alla libera circolazione delle persone restano una linea rossa,

il Consiglio federale intende consultare i cantoni e le parti sociali per capire se mantenerle tali o adattarne la forma

Marzio Rigonalli L’estate non sarà per niente tranquilla per i politici, i diplomatici ed i sindacalisti che, direttamente od indirettamente, operano sul fronte della trattativa bilaterale tra la Svizzera e l’Unione europea, in vista della conclusione di un accordo istituzionale. Mosso dalle polemiche sorte nelle ultime settimane, dopo le dichiarazioni del capo del Dipartimento federale degli esteri sulle misure accompagnatorie alla libera circolazione, e le repliche del presidente del partito socialista e del presidente dell’Unione sindacale svizzera, il Consiglio federale ha reagito ed ha affermato la sua posizione. In sostanza, ha ribadito che le misure accompagnatorie costituiscono una linea rossa insuperabile, come era stato stabilito lo scorso mese di marzo, quando venne definito il mandato negoziale. Ha però anche accolto, almeno in parte, il desiderio espresso da Ignazio Cassis di valutare se gli obiettivi ricercati con le misure accompagnatorie possono essere raggiunti anche seguendo altre strade. A questo fine, ha previsto di organizzare durante i due mesi estivi un’ampia consultazione dei cantoni e dei partner sociali sulle misure accompagnatorie. I modi ed i tempi della consultazione sono stati affidati a tre dipartimenti federali, l’economia, gli esteri e la giustizia e polizia. Tre consiglieri federali sono dunque coinvolti: Johann Schneider-Ammann, Ignazio Cassis e Simonetta Sommaruga. I risultati ottenuti consentiranno al governo, probabilmente all’inizio di settembre, di confermare la sua attuale posizione, o di modificarla. Ricordiamo che i due principali punti di divergenza tra la Svizzera e l’Unione europea sulle misure fiancheggiatrici sono la cosiddetta regola degli otto giorni e la somma di denaro che vien chiesta in deposito. Le aziende e gli artigiani che vengono a lavorare in Svizzera, con lavoratori distaccati, devono annunciare il loro arrivo otto giorni prima dell’inizio dei lavori e devono anche indicare i salari che inten-

dono pagare. La misura consente alle autorità elvetiche preposte di verificare che le condizioni di lavoro vigenti nel paese vengano rispettate e che non vi sia nessun dumping salariale. Alle aziende straniere vien inoltre chiesto di depositare una somma di denaro, destinata a coprire eventuali future multe, dovute a infrazioni commesse. Sono misure che trovano ampi consensi in Svizzera, soprattutto nei cantoni di frontiera. L’Unione europea riconosce le particolarità del mercato del lavoro elvetico e la necessità di procedere a dei controlli, ma si è sempre dichiarata contraria alle attuali misure di accompagnamento. Le ritiene eccessive, discriminatorie e per niente in sintonia con la libera circolazione e con le regole del mercato unico. Vi vede anche una celata forma di protezionismo ed un ostacolo alla libera concorrenza. Da un po’ di tempo, l’UE ha adottato misure di protezione dei mercati del lavoro dei suoi Stati membri e chiede alla Svizzera di accettarle, di farle sue e di rinunciare alle misure fiancheggiatrici. I provvedimenti adottati da Bruxelles sono però molto più timidi e meno efficaci di quelli svizzeri e, quindi, difficilmente accettabili per il Consiglio federale e per il mondo politico e sindacale elvetico. La consultazione che si svolgerà nei prossimi due mesi mostra quanto lunga sia ancora la strada da percorrere, prima di poter arrivare ad un accordo. Presenta comunque un doppio vantaggio. Sul piano interno consente di chiarire le posizioni degli uni e degli altri sulle misure d’accompagnamento. In particolare di confermare o di superare la spaccatura in merito, sorta nelle ultime settimane, tra il partito liberale radicale, da una parte, ed i partiti della sinistra ed i sindacati, dall’altra. È risaputo che un eventuale accordo istituzionale con l’UE ha buone possibilità di superare lo scoglio di una votazione popolare, soltanto se il PLR, il PPD e la sinistra lo appoggiano uniti, senza riserva. L’opposizione dell’UDC è scontata e potrebbe rivelarsi vincente se dovesse trovare l’appoggio, anche se per ragioni diverse, di un altro partito di governo, o dei

Ignazio Cassis non è riuscito a convincere i colleghi di governo della necessità di adattare fin da subito il mandato negoziale con Bruxelles. (Keystone)

sindacati. Sul piano esterno, la consultazione permetterà all’UE di scoprire il forte sostegno di cui godono in Svizzera le misure di accompagnamento e di rendersi conto che un accordo istituzionale che non rispetti in modo adeguato il mercato del lavoro elvetico, non ha nessuna chance di essere accettato dal popolo e dai cantoni. A questo punto è difficile tentare una previsione. L’accordo, per il quale si sta negoziando da quattro anni, è voluto dall’economia e dal popolo svizzeri, perché rafforzerebbe la via bilaterale, una strada che finora ha dato buoni risultati. Molte aziende esportano la maggior parte della loro produzione nell’UE ed il loro futuro dipende in buona parte dalle buone relazioni commerciali che riescono ad intrattenere con i paesi dell’Unione. Temono che il fallimento del negoziato in corso renda problematico lo sviluppo dei vecchi accordi bilaterali e ancora di più la nascita di nuovi accordi bilaterali, ritenuti importanti. Anche l’UE vorrebbe giungere ad una soluzione concordata, ma punta ad avere un mercato unico con

le stesse regole e con poche eccezioni, e non vuole che eventuali concessioni fatte alla Svizzera possano essere invocate da Londra nel negoziato sui suoi futuri rapporti con l’Unione. La ricerca di un compromesso continua però a essere difficile. Anche il contesto in cui avviene non è molto favorevole. Innanzitutto c’è il fattore tempo. Il capo della diplomazia elvetica vorrebbe concludere entro ottobre, ossia entro un lasso di tempo tutto sommato breve, perché due campagne elettorali inizieranno nei mesi successivi. Quella per le elezioni europee, che in primavera porteranno al rinnovo del Parlamento e della Commissione dell’UE, e quella per le elezioni nazionali svizzere, che si terranno nell’autunno dell’anno prossimo. Le campagne elettorali rendono praticamente impossibile la conclusione di un accordo diplomatico. In secondo luogo, ci sono tre altri dossier aperti che incidono sul negoziato in corso, anche se probabilmente soltanto in maniera indiretta. Trattasi dell’1,3 miliardi di franchi che il Consiglio federale vor-

rebbe versare nei prossimi dieci anni (130 milioni all’anno) ai paesi dell’Europa, in particolare dell’Est, soprattutto per progetti legati alla formazione, ma che devono essere approvati dalle Camere federali. Trattasi anche dell’equivalenza della Borsa svizzera che l’Unione europea ha riconosciuto soltanto fino alla fine del 1918 e che la Svizzera vorrebbe definitiva. Infine, è emersa la questione delle indennità per i frontalieri disoccupati. L’UE vuol far pagare le indennità al paese dove il frontaliere lavora e non più, come è avvenuto finora, al paese dove risiede. Per la Svizzera, la fattura potrebbe ammontare a parecchie centinaia di milioni di franchi. In questi primi otto mesi di partecipazione al governo federale, Ignazio Cassis ha rilasciato un buon numero di dichiarazioni pubbliche, provocando spesso reazioni contrarie. Finora non è però riuscito ad ottenere sostanziali progressi nella trattativa con Bruxelles. Quello che succederà nei prossimi mesi, ci consentirà probabilmente di procedere ad una prima valutazione serena ed oggettiva del suo operato.

Banche versus assicurazioni: pari rischi?

Analisi L ’attività bancaria non è intrinsecamente rischiosa, la rendono invece tale un’eccessiva propensione al rischio

e investimenti sbagliati – Al contrario, pur confrontate con rischi oggettivi, le assicurazioni si dimostrano solide Edoardo Beretta La crisi economico-finanziaria globale (dal 2007 in poi) ha costituito un evento di enorme portata sotto più punti di vista: ad esempio, essa ha messo in dubbio l’ipotesi di razionalità dei soggetti economici (dalle economie domestiche fino alle aziende e gli Stati) allora pressoché incontestata, oltre ad avere comportato ingenti perdite con frequente necessità di «salvataggi» da parte di banche centrali e Stati. Fra le entità più colpite da tale crisi pandemica vi sono stati, senz’altro, gli istituti bancari, che dapprima con la concessione di mutui altamente rischiosi (subprime) e successivamente con una stretta creditizia (credit crunch) senza precedenti derivante dalla sfiducia creatasi sul mercato interbancario, hanno messo a dura prova la sostenibilità dell’economia mondiale: quest’ultima è, notoriamente, tuttora gravata dai livelli di indebitamento pubblico accumulati in questi anni. Anche fra gli esperti l’attività bancaria è storicamente considerata foriera di rischi operativi non indifferenti. Ça va sans dire: è impensabile, quindi, che gli episodi di crisi degli ultimi

anni possano anche essere gli ultimi di provenienza bancario-finanziaria. La potenziale veridicità (per non dire, certezza) di tale affermazione può, però, distogliere dal porre alcune domande «scomode». Ad esempio: perché l’attività bancaria deve essere poi considerata (così) «rischiosa»? Infatti, l’attività principale del sistema bancario (prescindendo dall’emissione monetaria e focalizzandosi sulla sola intermediazione finanziaria) prevede: 1. la raccolta di risparmio e concessione di prestiti (anche tramite anticipazione monetaria) dopo preventiva verifica dei requisiti necessari; 2. assicurarsi che tali somme vengano debitamente rimborsate da parte del debitore (che dovrebbe esibire comunque una serie di collateral a garanzia della sua liquidità/solvibilità). A fianco a tale attività di rischio ve n’è un’ulteriore, che prevede: 1. il reinvestimento delle somme depositate dai risparmiatori; 2. la remunerazione di tali investimenti (oltre che il rimborso degli stessi) garantendo un minimo tasso di interesse. Ragionevolmente, i rischi derivanti dall’attività bancaria potrebbero essere assai prevedibili ‒ meglio: do-

vrebbero esserlo perlomeno ‒, poiché gli istituti bancari non erogano tradizionalmente risorse proprie, ma si limitano a rimborsare (o recuperare) somme già depositate nei loro bilanci, che dovrebbero farle fruttare in base ai più intuitivi principi di gestione patrimoniale. In aggiunta, esse possono beneficiare di tutta una serie di commissioni ed imposte applicabili sull’erogazione dei loro servizi. Pertanto, l’attività bancaria nella sua forma più connaturale è lungi dall’essere più «rischiosa» di una qualsiasi altra attività imprenditoriale (ad esempio, soggetta a congiuntura economica, eventi naturali, mutevoli trend del mercato, tassazione elevata etc.). Inoltre, la progressiva e (dai policymaker quasi indotta) dematerializzazione dei mezzi di pagamento con conseguente deposito presso gli istituti bancari di riferimento, oltre che la consapevolezza di potere spesso contare su «salvataggi» pubblici in forza del principio too big to fail (cioè «troppo grande per fallire»), dovrebbe rendere l’attività bancaria una vera e propria «cassaforte». Se ciò non avviene, non è per i rischi intrinseci a tale business quanto piuttosto per smodata propensione al rischio nelle ultime decadi, con

investimenti «azzardati» (cioè senza avere «scavato» troppo a fondo sui fondamentali di essi), politiche gestionali sovraespansive e/o troppo lontane dal proprio core business1. Solo a tali condizioni (che sono però spesso quelle vigenti) il mestiere del banchiere può diventare foriero di gravi rischi. Perdipiù, l’attività bancaria non pare essere accostabile in termini di rischiosità nemmeno a quella del settore assicurativo, che è invece fisiologicamente caratterizzata da una (potenziale) maggiore esposizione a fattori imprevedibili, fatalità e, conseguentemente, ad ingenti perdite finanziarie derivanti. Nonostante ciò, è sufficiente guardare al raffronto fra bilanci assicurativi e bancari come presentati nell’ottobre 2014 per constatare quanto la copertura da rischi del settore assicurativo sia persino migliore a fronte di durate di attività/passività pressoché simili fra loro. Pensando ai (pur sempre elevati) premi corrisposti dai clienti, che comunque solo in minima parte coprono i rimborsi a carico dell’ente assicurativo in caso di sinistri plurimi (ad esempio, a seguito di fenomeni atmosferici imprevedibili o altri fattori imponderabili di rischio), è evidente che

in tal caso sia l’assicuratore a «mettervi del proprio». Pertanto, lo spirito d’accettazione, con cui la società giustifica troppo spesso anche solo incagli finanziari da parte di certi istituti bancari, diviene sempre meno comprensibile, guardando ai soli rischi connaturati all’attività stessa. Poiché il trend verso la sovraesposizione a rischiosità ‒ nonostante certi flebili tentativi di regolamentazione ‒ non sembra volere diminuire, il consiglio per i policymaker (che, di fatto, sono i gestori patrimoniali del benessere collettivo) pare proprio essere quello di dedicarsi alla riformulazione dei principi fondamentali di svolgimento delle attività bancarie più esposte, che spesso introducono incognite del tutto artificiali in quanto non intrinseche alla natura stessa delle banche. Una migliore solidità di tale settore sarebbe, altrimenti, difficilmente perseguibile. Nota

1. Elaborazione propria sulla base di: https://www.insuranceeurope. eu/sites/default/files/attachments/ Why%20insurers%20differ%20 from%20banks.pdf.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 luglio 2018 • N. 28

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Politica e Economia

Riforma AVS, pronto un nuovo piano

Assicurazioni sociali Dopo il no popolare del settembre 2017, il Consiglio federale presenta un nuovo progetto,

su cui pesa però l’incognita della proposta di unire in un solo pacchetto una mini-riforma dell’AVS e quella fiscale

Ignazio Bonoli Appena nove mesi dopo la caduta in votazione popolare del progetto di riforma delle rendite di vecchiaia, il consigliere federale Alain Berset, responsabile del Dipartimento degli interni, ha presentato un nuovo progetto. Questa nuova revisione si limita al risanamento dell’AVS, rimandando a un secondo tempo quello della previdenza professionale. Da un primo esame si può constatare che il nuovo progetto punta molto su un aumento delle entrate dell’AVS (con un aumento massimo dell’1,5% dell’IVA), a cui si contrappone nuovamente la proposta dell’aumento dell’età di pensionamento delle donne. Argomento ancora difficile dal punto di vista politico, per cui il Dipartimento propone un’entrata in vigore graduale, con l’aumento dell’età di pensionamento che inizia un anno dopo l’entrata in vigore della riforma e dura 4 anni. Nel 2030 si potrà così scaricare l’AVS di circa 1,4 miliardi di franchi di rendite da pagare. Sempre con lo scopo di ottenere il necessario consenso politico, viene proposta una compensazione in due varianti. Nella prima, che costerà circa 400 milioni di franchi all’anno, le donne con un reddito medio potranno ottenere un sussidio per il pensionamento anticipato rispetto all’età limite di 65 anni. Così le donne di 64 anni e con un reddito annuo di 56’400 franchi potranno chiedere il

pensionamento senza perdite sulla rendita prevista. Nella seconda variante, al pensionamento anticipato sussidiato, si aggiunge un altro elemento: le donne che vogliono lavorare fino al 65° anno d’età, o anche dopo, potranno godere di una rendita maggiore. L’aumento sarà in media di 70 franchi al mese. Non si sa se si tratta di un caso, ma questa era proprio la misura più contestata della precedente riforma. In entrambi i casi saranno determinanti i risultati della procedura di consultazione. Il secondo modello avrà un costo annuale di circa 800 milioni di franchi. La Compensazione è prevista unicamente per le donne nate fra il 1958 e il 1966. Una possibilità che invece è rimasta per tutti è quella della flessibilità del pensionamento fra i 62 e i 70 anni d’età. Come si ricorderà (vedi «Azione» dell’11.06.18), il Consiglio degli Stati ha deciso di accoppiare in un pacchetto una mini-riforma dell’AVS a quella fiscale, pure caduta in votazione popolare il 12.02.17. Il progetto degli Stati porterebbe all’AVS 2,1 miliardi di franchi di entrate supplementari. Le discussioni sul tema nella Commissione del Consiglio Nazionale sono appena iniziate, ma si può già prevedere che l’aumento di prelievi fiscali a favore dell’AVS sarà uno dei punti più combattuti. Comunque se il Parlamento dovesse aderire alla proposta del Consiglio degli Stati, l’ammanco da coprire per l’AVS nel 2030 scenderebbe dagli

Anche il nuovo progetto prevede il pensionamento a 65 anni per le donne, ma con degli ammortizzatori. (Keystone)

oltre 43 a 23 miliardi di franchi. Per coprire questo «buco» basterebbe un aumento dell’IVA dello 0,7%. Ma anche questa cifra sembra già troppo elevata per l’Unione delle arti e mestieri, mentre l’UDC resta ferma sulle posizioni nettamente contrarie ad ogni aumento dei contributi, chiedendo in compenso maggiori finanzia-

menti dell’AVS da parte della Confederazione. Il partito socialista, dal canto suo, ha già definito antisociale un eventuale finanziamento dell’AVS soltanto attraverso l’aumento dell’IVA. Il fatto che il miglioramento dell’AVS venga finanziato per quasi il 90% da maggiori entrate toglie però sostanza al rimprovero di far pagare soltanto alle donne,

con l’aumento dell’età di pensionamento, il risanamento del primo pilastro della previdenza vecchiaia. Se, però, anche il Nazionale dovesse aderire alla proposta degli Stati di accoppiare la riforma dell’AVS con quella fiscale, i finanziamenti così previsti potrebbero permettere di mantenere l’età di pensionamento delle donne a 64 anni. Il tema tornerebbe quindi d’attualità nei prossimi dibattiti, nonostante le forme di compensazione previste dal Consiglio federale. Tuttavia, la necessità sempre più impellente di correggere l’attuale tendenza dell’AVS verso un indebitamento crescente dovrebbe prevalere rispetto alle altre rivendicazioni. La parificazione dell’età di pensionamento fra uomini e donne e un moderato aumento dell’IVA dovrebbero convincere dell’accettabilità politica di una riforma piuttosto leggera, di fronte a grossi problemi come quelli posti dall’invecchiamento della popolazione e dal costante aumento dei costi delle cure di questa popolazione. Restano comunque d’attualità anche i problemi posti da chi deve cessare l’attività lavorativa prima del pensionamento. A maggior ragione una riforma del sistema è necessaria per consolidarne le basi. È presto per dire se le parti interessate, attualmente scettiche, magari per motivi opposti, si metteranno d’accordo, tenendo conto anche del rischio a media – lunga scadenza che il sistema svizzero della previdenza vecchiaia corre. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 luglio 2018 • N. 28

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Politica e Economia

Tassi d’interesse di nuovo in calo La consulenza della Banca Migros

Irina Martín

Il rendimento dei titoli di Stato decennali è di nuovo prossimo allo zero 3%

2%

1%

10 anni

2018

2017

2016

2015

2014 5 anni

Libor a tre mesi

I rendimenti dei titoli di Stato svizzeri (in base alla scadenza) e il Libor a tre mesi.

di riferimento prima dell’autunno 2019 (in precedenza era previsto per l’inizio del 2019). In questo modo si dovrebbe mantene-

re più a lungo la possibilità di stipulare un’ipoteca a condizioni particolarmente vantaggiose. Tuttavia, mentre per le ipoteche Libor i tassi resteranno

Fonte: Thomson Reuters Datastream

30 anni

2013

2012

-1 %

2011

0%

2010

Irina Martín è economista presso la Banca Migros

Meno di un anno fa parlavamo di una possibile svolta dei tassi d’interesse a lungo termine. Nel frattempo, in Svizzera, si è invece assistito a un nuovo netto calo dei tassi. Tra i fattori scatenanti di questo fenomeno si annoverano gli eventi politici in Italia e il conflitto commerciale tra Stati Uniti e Cina. I tassi a breve termine sono determinati principalmente dalla politica monetaria; in particolare, nella sua ultima valutazione (21 giugno 2018), la Banca nazionale svizzera (BNS) ha di nuovo deciso di mantenere il tasso di riferimento invariato. Dato che la quotazione del franco svizzero rimane ancora elevata, nel prendere le proprie decisioni la BNS deve continuare a considerare la strategia monetaria della Banca centrale europea (BCE). Per evitare un forte apprezzamento della moneta nazionale, la BNS aumenterà il proprio tasso di riferimento solo dopo la BCE. Adesso i tassi a breve termine potrebbero restare bassi ancora più a lungo di quanto preventivato: dopo l’ultima seduta del consiglio direttivo a metà giugno, la BCE ha reso nota l’intenzione di non alzare i tassi di riferimento dell’eurozona prima dell’autunno 2019. Di conseguenza, abbiamo leggermente modificato le nostre previsioni sui tassi d’interesse in Svizzera: ora riteniamo che la BNS non opererà alcun aumento del tasso

bassi ancora per molto tempo, per le ipoteche fisse saranno soggetti a un rischio di fluttuazione di gran lunga maggiore. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 luglio 2018 • N. 28

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Chi comanda in Svizzera? Wer regiert die Schweiz è un libro sulle élites svizzere, pubblicato nel 1983 con molto successo dal giornalista Hans Tschäni. Tschäni aveva posto al centro dell’analisi il fenomeno del nepotismo, ossia della rete di relazioni personali che, nella Svizzera di quei tempi, correvano tra il potere politico e il potere economico. Il nepotismo è un pericolo per la democrazia perché può portare alla concentrazione del potere nelle mani di pochi. La figura del consigliere nazionale, o degli Stati, membro di importanti consigli di amministrazione e, contemporaneamente, alto ufficiale dell’esercito costituiva il prototipo di questo tipo di relazioni. L’esistenza delle stesse fu all’origine di diversi scandali. Quello che forse i nostri lettori meglio ricordano, per essere recente e di grande portata, è il fallimento della Swissair avvenuto, tra l’altro, perché nel suo consiglio di amministrazione il

know how in materia di politica era largamente superiore a quello in materia di gestione nel settore dell’aviazione. Nel suo studio Tschäni affermava poi che la «Filzokratie», così vien definito il nepotismo in tedesco, era probabilmente una conseguenza del sistema di milizia. In teoria ogni svizzero (e ogni svizzera naturalmente) può essere eletto in un consesso politico, partecipare attivamente in una o più delle migliaia di organizzazioni della nostra società o far carriera nell’economia. Il problema sorge quando i ruoli che questa persona assume si accumulano, una tendenza che, purtroppo, viene facilitata dal sistema di milizia. La conseguenza dell’accumulo di responsabilità è che a comandare sono sempre in pochi. Il sociologo Hanpeter Kriesi aveva calcolato che, negli anni 1972-1976, il periodo nel quale si manifestò la prima grande recessione dell’econo-

mia svizzera dopo la seconda guerra mondiale, la nostra democrazia era di fatto retta da un gruppo, relativamente piccolo, di 1024 persone, una vera e propria élite che ricopriva ruoli di importanza nel mondo della politica, in quello dell’economia, nell’esercito e nella vita sociale in generale. Il libro di Tschäni e altre analisi sul problema del nepotismo nella società elvetica diedero la stura a un dibattito importante, soprattutto nei consessi politici nazionali. Diverse furono le proposte con le quali si chiese di rendere note le relazioni che i politici potevano avere con organizzazioni economiche o di regolamentare in modo stretto il lobbismo nel parlamento federale, ecc. Nel corso dell’ultimo decennio si è ottenuto qualche miglioramento in questo campo. Resta però da vedere se lo stesso sia dovuto a un cambiamento delle pratiche, come pure a un’aumen-

tata trasparenza sulle implicazioni dei politici con il mondo economico, oppure sia da attribuire a cambiamenti fondamentali nel modo in cui, in seguito tra l’altro alla globalizzazione, sono andate trasformandosi le élites nel nostro paese. A questa domanda risponde, in più di un merito, uno studio pubblicato recentemente sulla rivista «Dati» e curato da ricercatori dell’Università di Losanna, tra i quali figura anche il ticinese Andrea Pilotti. Una delle conclusioni importanti di questa analisi è che la rete fitta di relazioni che, ancora una sessantina di anni fa, era responsabile per la formazione della ristretta élite che comandava in Svizzera è mutata sostanzialmente in seguito a un processo che gli autori chiamano di «deconcentrazione». Così, nel corso degli ultimi decenni, i politici hanno scelto di fare i politici e i gestori dell’economia di fare i manager.

Di conseguenza la commistione di interessi tra la politica e l’economia si è notevolmente ridotta. A mio avviso, però, questa trasformazione potrebbe però essere avvenuta anche per la progressiva internazionalizzazione del management della nostra economia, da un lato, e, dall’altro, per l’aumento sproporzionato delle lobbies economiche presenti nei corridoi di palazzo federale e in quelli dei parlamenti cantonali.

un calo del 77 per cento dal 2017 al 2018, e gli sbarchi in Italia, il paese che più ha preteso che si parlasse di immigrazione al vertice di metà anno a Bruxelles, sono di 18 mila persone dall’inizio dell’anno. In totale in Europa sono sbarcate via mare nel 2018 45 mila persone, quando nel 2015 ne arrivò un milione. Anche i movimenti secondari che preoccupano i paesi del nord – riguardano i richiedenti asilo che si spostano dal primo paese d’approdo in altri Stati membri dell’Ue – sono in netto calo, così come le richieste d’asilo, che sono quasi dimezzate in tutta Europa dal 2016 al 2017 (da un milione e duecentomila a settecentomila). Non c’è emergenza migratoria, eppure non si parla d’altro. Perché? Perché questa è la nuova contrapposizione culturale dell’Occidente, le percezioni valgono più della realtà, e i partiti che intercettano le percezioni e le emozioni – imponendole, spesso – vanno molto forte. L’Europa si sta adattando a questa trasformazione e per le elezioni europee del maggio del 2019 ci si aspetta una sfida che almeno avrà il merito della

chiarezza: sovranisti nazionalisti da una parte, progressisti dall’altra. In questa contrapposizione, le famiglie politiche tradizionali del Parlamento europeo potrebbero non sopravvivere: il Partito socialista europeo non sta comunque molto bene, in molti paesi le sinistre sono state molto ridimensionate. Per il Partito popolare europeo la sfida è più importante, perché si tratta di scegliere che genere di destra si vuole essere in futuro, se si rincorrono i partiti più estremi e nazionalisti sul loro stesso terreno o se, come dice la cancelliera tedesca Angela Merkel, «il centro tiene». Non ci si può rifugiare in qualche dibattito fumoso, perché le scelte hanno nomi e cognomi: che cosa si fa per esempio con il premier ungherese Viktor Orban, che è dentro al Ppe, ma che immagina per l’Europa un futuro molto diverso rispetto a quello dei suoi principali colleghi? Il ministro dell’Interno italiano, Matteo Salvini, ha una proposta: formiamo una superLega dei partiti sovranisti, e con questa presentiamoci alle europee. Lo stesso Orban ha accarezzato l’idea, ma in un discorso

che ha tenuto qualche settimana fa ha detto che al momento preferisce combattere la sua battaglia identitaria per l’Europa delle nazioni all’interno del suo gruppo conservatore europeo. Tutto può cambiare, anche perché sono gli stessi membri del Ppe che mostrano sempre maggiore insofferenza nei confronti di Orban e della sua politica illiberale, ma intanto i movimenti maggiori si registrano sull’altro fronte, quello progressista. La Francia di Emmanuel Macron vuole esportare il modello En Marche in Europa creando un nuovo gruppo parlamentare che metta insieme le forze moderate ed europeiste, attirando a sé anche partiti che oggi stanno nei gruppi politici tradizionali. Il regista di questo progetto è Christophe Castaner, macroniano di ferro, che ha già fatto un accordo con Ciudadanos in Spagna e ora sta cercando altre sponde in altri paesi. L’obiettivo finale è arrivare alle europee con una formazione in grado di contrastare la superLega o quel che i nazionalisti riusciranno a costruire: poi ci si conterà.

primo Tour de France prese avvio nel 1903, il Giro d’Italia nel 1909). Ma la politica consegnava allo sport anche un’altra arma: le bandiere, gli inni, i riti scaramantici, un corredo di archetipi in qualche modo già presenti nell’inconscio collettivo e che si trattava solo di ridestare. Sulle gradinate degli spalti comparvero striscioni cari all’iconografia degli imperi fin dall’epoca romana. Non per caso l’aquila che cadenzava il passo delle legioni era «imperiale», segno di dominio sulle popolazioni sottomesse. Uccello superbo, dal volo maestoso guidato da occhi penetranti, l’aquila univa aggressività e intelligenza, forza e astuzia. Dinastie e regni la collocarono sui loro stemmi, in forma monocefala o bicefala. Quest’ultima figura (a due teste) mirava a rappresentare un potere doppio: mondano e spirituale, quindi totale e incondizionato, come doveva essere il potere dell’imperatore. All’aquila fecero ricorso gli Asburgo, lo zar di tutte le Russie, gli Stati Uniti

d’America, l’impero germanico. E stati più piccoli, come la Serbia e l’Albania. Orbene, che l’aquila tornasse a scendere in campo come motivo di contesa politica, com’è accaduto durante la partita Svizzera-Serbia, ha rappresentato agli occhi di molti una sorpresa. Negli ultimi anni il calcio, come d’altronde altre discipline sportive, si è internazionalizzato attraverso girandole di acquisizioni-cessioni, tanto da relegare l’attaccamento alla bandiera in secondo piano. Si riteneva anzi che il calcio avesse in qualche modo anticipato il cammino della società multietnica in cui sempre più viviamo, una sorta di crogiolo di stirpi, di culture, di fedi destinate a convivere senza farsi la guerra. Compagini nazionali come la Svizzera (o come la Germania), attraverso la folta presenza di giocatori figli d’immigrati, prefiguravano questo destino «multikulti», aperto e tollerante. Poteva funzionare? Gli scettici fecero notare che i colori ancora contavano e

che affidare le sorti di una squadra ad un manipolo di mercenari non era corretto; i contrari scrissero che nella nazionale militavano «troppi neri» (e ora «troppi balcanici»). Di sicuro c’è che dopo la crisi del 2008 il vento è cambiato. Per milioni di lavoratori il processo di globalizzazione si è tradotto in delocalizzazione delle imprese, disoccupazione, precarietà ed erosione di diritti faticosamente conquistati. Le migrazioni e la moltiplicazione dei ghetti urbani hanno decretato la morte del progetto multiculturale. Nel contempo sono riaffiorate antiche rivendicazioni legate a tradizioni, vicende, identità a lungo conculcate, come appunto nell’area dei Balcani, definita un tempo «polveriera». Sull’onda della rinascita dei nazionalismi anche l’aquila ha ripreso a volare. Ma il ritorno di questo volatile non è preannuncio di pace: si tratta pur sempre di un predatore, e come tale non promette nulla di buono, almeno in politica.

Bibliografia

A chi volesse approfondire il tema raccomando la lettura dell’articolo La trasformazione delle élites svizzere di Félix Bühlmann, Marion Beetschen, Thomas David, Stéphanie Ginalski, André Mach e Andrea Pilotti, in «Dati, Statistiche e Società», Anno XVIII, n. 01, Giugno 2018.

Affari Esteri di Paola Peduzzi L’Europa al tempo dei populismi L’Europa si sta trasformando, prende sempre più la forma della contrapposizione culturale che da qualche anno riguarda tutto l’Occidente. Se ne cominciò a parlare in occasione del voto sulla Brexit in Inghilterra, due anni fa: le élite da una parte, il popolo dall’altra, con gli esperti detestati perché apocalittici e soprattutto perché rappresentanti

Matteo Salvini ha lanciato la proposta di una Lega europea. (Keystone)

di un’altra divisione, profondissima, che ha a che fare con l’istruzione, con il vivere in città o nelle periferie, con l’essere più o meno giovani. I tanti saggi che sono stati scritti per spiegare questo scontro spiegano che la frattura si è approfondita nel tempo, che il senso di rivalsa dei «dimenticati» si è fatto più forte nel momento in cui sono state più evidenti le crepe del modello neoliberale, e l’incapacità di molti politici di aggiustarle. Se a questo disagio si aggiungono campagne di informazione serrate, in cui i fatti contano poco ma conta tantissimo la percezione, le linee dello scontro diventano più chiare. La questione immigrazione è un esempio calzante: all’ultimo Consiglio europeo non si è parlato quasi d’altro, si sono fatte le ore piccole per trovare un accordo che accontentasse tutti, obiettivo impossibile, o almeno che non facesse implodere ulteriormente l’Europa, negando Schengen per esempio. Eppure non siamo affatto nel mezzo di una crisi migratoria: la rotta libica, che è quella più corposa, e che riguarda soprattutto le coste italiane, ha registrato

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Dove osano le aquile Il risveglio dei nazionalismi ha riportato sui pennoni le bandiere con i loro emblemi. Patrie grandi o piccole hanno riesumato vessilli ed insegne del loro passato, a ricordo di antiche gesta, pagine gloriose, battaglie vinte, oppure per segnalare semplicemente la loro presenza come minoranza (etnica, linguistica, religiosa) oppressa dalla potenza di turno. Spettacoli seguiti da milioni di telespettatori come i campionati mondiali e come le Olimpiadi offrono un palcoscenico ideale per illustrare alle platee le proprie ragioni. Molti lettori ricorderanno il pugno guantato levato al cielo da Tommie Smith e John Carlos durante la premiazione ai giochi olimpici a Città del Messico nel 1968. Gli Stati Uniti erano allora ancora immersi nel «problema negro» e lacerati dalle politiche che il governo metteva in campo, fatte di discriminazioni, segregazioni, violenze d’ogni genere. Da quella manifestazione plateale sono trascorsi cinquant’an-

ni, ma sotto la cenere il fuoco è rimasto. Basta una provocazione per ravvivarlo. Il nazionalismo non è un sentimento innocuo. Di solito si presenta carico di una panoplia simbolica bellicosa, destinata a intimorire l’avversario, a negargli dignità e legittimità. Lo stato d’animo che lo alimenta è rapace come la figura che reca sugli stemmi e gli stendardi. L’intreccio tra sport e politica, tra agonismo e pratiche di governo, è facilmente documentabile, soprattutto a partire dall’Ottocento, il secolo della nascita degli Stati-nazione. Lingua, letteratura, culto della storia non erano sufficienti per insufflare nell’animo dei ceti popolari il sentimento di appartenenza ad una patria comune: occorreva offrire occasioni e celebrazioni che permettessero un’immediata identificazione con la «terra dei padri». Il calcio rientrava pienamente in questa strategia, un gioco semplice, spettacolare, accessibile a tutti. Anche i giri ciclistici nazionali assolsero questo compito (il


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 luglio 2018 • N. 28

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Cultura e Spettacoli Finimenti da esposizione La collezione di Claudio Giannelli raccoglie oggetti antichi sulla storia del cavallo

Innovatore geniale Al m.a.x. museo di Chiasso una retrospettiva attorno all’opera di un designer eccezionale, eclettico e irriverente, Achille Castiglioni

Un romanzo rumeno Il libreria la quarta opera dello scrittore ticinese Luca Saltini, Una piccola fedeltà

pagina 30

pagina 27

pagina 26

L’OSI a Estival Intervista al chitarrista Nguyên Lê, che proporrà la sua interpretazione orchestrale di The Dark Side of the Moon

pagina 29

L’artista della trasversalità Mostre Jean-Jacques Lebel al Centre

Pompidou di Parigi

Jean-Jacques Lebel, Couple New Yorkais, 1961. (centrepompidou.fr)

Gianluigi Bellei Il Centre Pompidou di Parigi dedica una mostra a Jean-Jacques Lebel. Nome forse poco conosciuto nel panorama dell’arte anche se particolarmente importante. Ma chi è JeanJacques Lebel? Partiamo da un dato di cronaca. Quest’anno ricorre l’anniversario del Sessantotto. Moltissimi ne parlano male e con rancore; pochissimi lo rammentano con nostalgia. Quello che è certo è che le istanze sociali e libertarie di quegli anni non hanno dato i loro frutti. O se li hanno dati (in dose infinitesimale) oggi contano veramente poco, sia in Europa che in America. Per tacere di quello che succede altrove. Cosa centra tutto questo con la nostra storia? È presto detto. L’icona del ’68, e qui parliamo del maggio francese, ovvero la Marianna dell’anno, è una modella inglese di nobili origini immortalata nell’immagine culto del periodo: seduta sulle spalle di qualcuno che sventola la bandiera del Vietnam durante una manifestazione studentesca. La bellissima ragazza dagli occhi chiari e dai capelli sbarazzini si chiama Caroline de Bendern. Fa la mannequin e la modella per pittori. Siamo in place Denfert Rochereau il 13 maggio 1968 e Carolina durante la manifestazione

ha male ai piedi. Un suo amico la mette sulle spalle. Altri le consegnano la bandiera. Il fotografo Jean-Pierre Rey immortala la scena che farà il giro del mondo. Ma chi la porta sulle spalle? Si parla sempre solo di lei e del fotografo. Un altro scatto, dal basso, mostra un ragazzo barbuto, non proprio magro e con l’aria da guascone: Jean-Jacques Lebel. Un artista che, scrive, preferisce «l’utopia aperta all’utopia chiusa, preventivamente definita da intenzioni dogmatiche e da una precisione che si pretende scientifica». In altre parole un anarchico che vuole abbandonare il «Beaubourg al Ministero del turismo, così come la Tour Eiffel e il Sacré-Coeur per costituire unità di produzione e diffusione, sia fisse che mobili, tribù nomadi di creatori e di creatrici capaci di trasversalizzare le arti e le tecniche, di produrre situazioni nuove, di creare scambi e relazioni di diversi tipi». Nella breve intervista pubblicata su «Code Couleur» numero 31 – il magazine del Centre Pompidou – a cura di Nicolas Liucci-Goutnikov, commissario dell’esposizione e conservatore al Musée national d’art moderne, Lebel dice che i suoi happening si sono svolti contro l’ordine morale, contro la dittatura del mercato, contro l’autocensura in materia di sesso e politica.

Il percorso espositivo inizia con un collage del 1956 dedicato ad André Breton e Guillame Apollinaire che gli permette di utilizzare il metodo di esplorazione dell’inconscio. Sempre sulle tracce del Surrealismo lavora con la grafite con il metodo dell’automatismo. Nel 1955 si stabilisce a Firenze pubblica il giornale formato affiche «Front Unique» e sollecita a collaborare artisti come Benjamin Peret, André Breton, Gregory Corso, Gérard Legrand, Matta. Negli ultimi due numeri, pubblicati con il gallerista Arturo Schwarz, adotta il formato magazine. La rivista si afferma come una vetrina contro la guerra d’Algeria. Nel 1960 i militari francesi torturano la giovane militante del FLN Djamila Boupacha. Jean-Jacques Lebel invita Enrico Baj, Antonio Recalcati, Erró, Roberto Crippa e Gianni Dova a realizzare insieme un dipinto che stigmatizzi l’avvenimento. Nasce così il Grand Tableau Antifasciste Collectif esposto a Milano nel 1961 durante Anti-Procès 3. Il dipinto verrà poi sequestrato dalla polizia. Nel 1959 a New York Allan Kaprow inventa l’happening. Lebel assiste a questa nuova forma d’arte e nel 1960 realizza il primo happening europeo. La concomitanza di due avvenimenti, la guerra d’Algeria e l’assassinio di un’amica a Los Angeles, portano Lebel

a realizzare L’Enterrement de la Chose. Siamo a Venezia all’esposizione AntiProcès 2 alla quale partecipano una cinquantina di artisti internazionali contrari alla guerra d’Algeria e Lebel spedisce un invito con scritto «Spleen de rigueur». Fra i partecipanti al Morgue’s party i giornalisti presenti notano Charles Briggs, eminente cittadino americano, Paolo Barozzi il delicatissimo play-boy, Patsy Morgan una delle dieci maggiori bellezze del Regno Unito e naturalmente Peggy Guggenheim chiamata Clorinda. L’happening consiste in una scultura metallica di Jean Tinguely deposta dentro una bara ricoperta da un drappo di Mariano Fortuny, accompagnata da letture di Huysmans e de Sade, portata in giro per Venezia in gondola e poi gettata in acqua. Oltre al marchese de Sade, Lebel ha come referente filosofico Friedrich Nietzsche al quale dedica un assemblaggio sonoro di ispirazione Dada in ricordo della sua gioventù quando sul muro del liceo scrive «Dio è morto». Ma la critica è rivolta anche contro il movimento hippie con il suo pacifismo e il consumismo psichedelico. Nel 1967 organizza per questo un happening, con la partecipazione del gruppo rock Soft Machine, durante il quale un centinaio di uomini e donne, com-

pletamente nudi, ne fanno la parodia sotto l’influenza di diverse sostanze. Un happening naturista intitolato Sun Love. La mostra termina con le opere dedicate a Christine Keeler, affascinante spogliarellista, protagonista de «l’affaire Profumo», segretario di Stato per la guerra della Gran Bretagna che si innamora di lei costringendolo alle dimissioni. Per Lebel la Keeler rappresenta il desiderio e il simbolo della trasgressione sociale come le opere erotiche di Félicien Rops. Guascone, dicevamo, estremo, dissacratore, anarchico, Jean-Jacques Lebel è l’artista della trasversalità, secondo il suo amico Félix Guattari, ma anche il personaggio che meglio incarna, o ha incarnato, l’intreccio fra creazione artistica e attività politica. Intensa esposizione con una cinquantina di lavori, del primo periodo, tra video, dipinti, disegni, collage. Per tutta la durata della mostra, poi, al Cinéma du Musée in programma una serie di film e video integrativi. Dove e quando

Jean-Jacques Lebel. L’outrepasseur. A cura di Nicolas Liucci-Goutnikov. Parigi, Centre Pompidou. Fino al 3 settembre. Catalogo éditions Dilecta, euro 35.–. www.centrepompidou.fr


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Cultura e Spettacoli

Una cavalcata lunga quattro millenni Mostre Fino al 19 agosto 2018 alla Pinacoteca Züst di Rancate gli oggetti della collezione di Claudio Giannelli Marco Horat Un giro del mondo a cavallo: in sintesi si potrebbe definire così l’originale esposizione attualmente in corso alla Pinacoteca Züst di Rancate, con reperti rari, quando non unici, della Collezione del luganese Claudio Giannelli, corredati da una ricca quadreria e testi antichi dedicati all’illustre quadrupede. Centinaia di morsi, imboccature, finimenti, staffe, speroni, accessori e decorazioni per il cavallo, amico fidato dell’uomo anche se qualche volta maltrattato, fin dalla notte dei tempi, anche se in verità l’addomesticamento del cavallo non è avvenuto contemporaneamente sotto tutti i cieli. Si sa ad esempio che gli spagnoli di Hernàn Cortés, quando sbarcarono in Messico agli inizi del ’500, fecero credere ai sudditi di Moctezuma che non avevano mai visto un cavallo, di essere creature soprannaturali, moderni centauri; il resto lo fecero gli spari dei loro fucili, il frastuono degli zoccoli al galoppo con la terra che tremava al loro apparire. La mostra di carattere archeologico, storico e artistico insieme, inizia con una vetrinetta simbolica nella quale vengono esposti un morso contemporaneo (è quel ferro posto nella bocca del cavallo e che serve a guidarlo) e uno in bronzo del X secolo a.C. proveniente dalla Mesopotamia. A prima vista non presentano grandi differenze; per condurre un cavallo sono neccessari accorgimenti – materiali, modi e mode a parte – che sono sempre rimasti più o meno gli stessi.

Morso in bronzo, (Luristan), I millennio a.C. (M. Ostini)

Poi si entra nel vivo del percorso cronologico che parte dal Vicino Oriente con i primi rarissimi apparati formati da finimenti laterali in osso di cervo forati, indispensabili per contenere lo sfregamento della corda che passava nella bocca del cavallo; solo verso il XV secolo a.C si cominceranno ad utilizzare morsi in metallo. Un salto temporale e geografico e si arriva nel mondo fantastico degli Sciti (VII-V secolo a.C.), popolazione nomade che abitava le steppe tra il Danubio e i Monti Altai, con una serie di collanine in oro che venivano legate alla criniera del cavallo, un frontale da parata in rame dorato con

turchesi e guardie laterali in bronzo con le tipiche decorazioni zoomorfe. Il primo dei due clou della mostra si presenta però con i morsi del Luristan, antica regione a nord-ovest della Persia, che il collezionista definisce «i più belli mai creati dall’uomo»: una cinquantina di pezzi straordinari, raffinate sculture con personaggi fantastici che ci riportano all’epopea di Gilgamesh, da ammirare con grande attenzione per i dettagli artistici. Non mancano in mostra reperti dal mondo greco, come l’antico morso in bronzo del quale esiste solo un altro esemplare nel Museo di Micene. E curiosi reperti etruschi e romani:

per esempio gli «ipposandali» che altro non sono se non i primi ferri per gli zoccoli dell’animale, o i «triboli», punte acuminate che venivano sparse al suolo come mine ante litteram per ferire pedoni e cavalli (da cui il verbo tribolare). Passando per il nostro Medioevo (Dinastie dei Carolingi, dei Merovingi ma anche i Vichinghi) si arriva al secondo clou della mostra: il Rinascimento europeo, con creazioni artistiche che trascendono la funzione primaria e per fare del cavallo un simbolo della ricchezza e del buon gusto del suo proprietario. Oggetti preziosi cesellati da artisti che operavano nelle varie corti di Francia, Italia,

Spagna o Germania, dei quali sono rimasti pochi esemplari poiché il succedersi delle mode e i costi elevati portavano spesso alla loro fusione allo scopo di recuperare la materia prima. A Rancate viene esposto tra l’altro un reperto che Giannelli chiama «la mamma di tutti i morsi», acquistato come tutti gli altri in aste pubbliche, del quale esiste solo un secondo esemplare, creato dallo stessa mano, a Parigi, donato al Re di Francia Enrico II nel 1550. La corsa finisce con una sezione dedicata a varie curiosità che confrontano il visitatore con paesi e culture lontane: Tibet, Giappone, Cina, Russia (con le staffe che rovesciate servivano ai cosacchi del Don da bicchiere per la vodka; da cui l’espressione «bere il bicchiere della staffa») e infine Messico, Argentina e Cile per completare il giro del globo. Reperti che dunque raccontano pagine di storia di popoli che lungo i millenni hanno intrattenuto stretti rapporti con il cavallo. Non dimentichiamo però: non solo per fare la guerra o come status sociale, ma più prosaicamente anche nella vita di tutti i giorni nel lavoro dei campi, nei trasporti, nel tempo libero, per fare sport o solo considerando il cavallo un compagno di strada (ma questo punto di vista ci porterebbe a parlare di un altro tipo di mostra). Sembra sia stato Churchill a dire: «Ammirare la bellezza di un cavallo non può che giovare all’umore dell’uomo». Informazioni e orari

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Cultura e Spettacoli

Castiglioni il visionario

Mostre Al m.a.x. museo di Chiasso la retrospettiva sugli allestimenti espositivi dell’architetto e designer

Elena Robert Rigorosa e leggera, carica di energia, essenziale nei contenuti e nella comunicazione. Una mostra che stimola la curiosità. La dedica il m.a.x. museo di Chiasso a Achille Castiglioni (19182002), architetto e designer milanese di fama internazionale, nel centenario della sua nascita, mettendo in luce le valenze di suoi memorabili progetti di allestimento per fiere campionarie, stand e esposizioni. Di questo protagonista dell’epoca d’oro del design italiano si conoscono intuizione, genialità, profondità di idee, semplicità, ironia. Gli oggetti di design realizzati sono 290, le architetture 191, ben 494 gli allestimenti, numerosissimi i riconoscimenti in 58 anni di libera professione e 24 di docenza universitaria. Un iter intenso compiuto da Achille Castiglioni insieme ai fratelli architetti Livio e Pier Giacomo fino al ’50, con Pier Giacomo dal ’50 al ’68 e dal ’68 in poi da solo. Oggetti di design a parte, le soluzioni da lui adottate nell’architettura effimera dell’allestimento hanno fatto la storia dell’architettura d’interni. La mostra mette a fuoco la spiccata capacità visionaria e di regia dello spazio e della luce di molti suoi progetti, in cui ogni dettaglio si fa narrazione e la regia è concepita sin dall’inizio pensando al montaggio e al risultato finale, analogamente a quanto avviene nella cinematografia. Il visitatore può familiarizzare a Chiasso con l’alfabeto allestitivo del «metodo Castiglioni» che tiene conto di molteplici fattori: percorso, griglia distributiva, tempo, luce, segno grafico ambientale, suono, uso della riflessione, cambio di scala, ripetizione, cinetica, allegoria e, per gli oggetti di design esposti nei padiglioni o negli stand (una trentina dei quali nella mostra), attenzione all’uso quotidiano e alla loro funzione, ri-disegno e ready made. È il fertile terreno di sperimentazione per l’innovazione e la ricerca in cui Achille Castiglioni si distingue per esiti sor-

prendenti e d’effetto, con progetti ancora attuali, modulati per rispondere a esigenze della committenza e aspettative del pubblico. Il successo verrà ogni volta esaltato dalla stretta collaborazione con una rosa scelta di professionisti, tra i quali grafici brillanti come lo svizzero Max Huber (1919-1992), cui è dedicato il museo di Chiasso e al quale la mostra rende indirettamente omaggio: il sodalizio Castiglioni-Huber è infatti durato più di quarant’anni basandosi su un solido rapporto di scambi intellettuali, d’intesa professionale e di amicizia. Illuminante in tal senso la poesiaepitaffio Quaranta scritta nel 1992 da Achille Castiglioni in ricordo dell’amico grafico. Al m.a.x. museo, il racconto sviluppato per temi e integrato da testimonianze video, si intreccia con la realtà economica della Milano e dell’Italia imprenditoriale a partire dal secondo dopoguerra, in profonda trasformazione e quanto mai dinamica. È in questo contesto storico e nell’ambito di intense, sinergiche relazioni tra industrie, architetti, grafici e scenografi che del resto ha assunto straordinaria importanza il ruolo dell’allestimento temporaneo inteso come strumento di comunicazione culturale e commerciale. Non si contano negli anni i progetti realizzati dai Castiglioni per Rai, Eni e Montecatini e altri committenti. Alcuni esempi indimenticabili: l’effetto scenografico della pioggia ritmata di informazioni sui pannelli a soffitto calati lungo lo scalone della Triennale nel ’48 (di Castiglioni e Huber); sempre sul tema della trasmissione la grande simbolica antenna segnaletica rappresentata dal padiglione Rai del ’58 alla Fiera di Milano (di Castiglioni e Pino Tovaglia) il cui tetto era diventato una selva di antenne; l’impressione e lo stupore destati nel ’63 dal percorso dell’allestimento Vie d’acqua da Milano al mare a Palazzo Reale (di Castiglioni, Huber, Damiani) che alludeva a canali da attraversare tra alte palizzate di legno grezzo e una suggestiva am-

Uno dei manifesti dell’esposizione.

bientazione sonora; la sperimentazione ardita di negare lo spazio e di esaltarne la dilatazione al Padiglione Montecatini del ’67 nella Fiera campionaria (di Castiglioni e Huber) dove la scelta di grandi sfondati aperti sul soffitto ribassato doveva far vivere ancora una volta al visitatore la fisicità dello spazio. Allestimento e grafica dell’esposizione chiassese sono curati da grandi firme dell’architettura e della grafica, Ico Migliore e Mara Servetto, allievi di Castiglioni, e Italo Lupi, assistente di Pier Giacomo Castiglioni, con i quali ha collaborato Nicoletta Ossanna Ca-

vadini, direttrice del m.a.x. museo. Alla sua riuscita hanno contribuito i figli del Maestro Carlo e Giovanna Castiglioni che gestiscono l’Archivio Achille Castiglioni attraverso l’omonima fondazione insieme a Antonella Gornati. Importanti i prestiti provenienti dalla Fondazione Achille Castiglioni con sede nel mitico Studio di Piazza Castello, dall’Archivio Max Huber, da quello del Politecnico di Milano e dall’Archivio Volonté, cui si aggiungono oggetti di design di Castiglioni della collezione del m.a.x. museo. All’esterno, 22 grafici noti internazionalmente coinvolti per

l’occasione accolgono i visitatori con loro manifesti ideati per omaggiare il Maestro. Dove e quando

Achille Castiglioni (1918-2002) visionario. L’alfabeto allestitivo di un designer regista, Chiasso, m.a.x.museo fino 23 settembre 2018, ma-do 10-12 e 14-18, lu chiuso, chiusura estiva lu 30 luglio-lu 20 agosto. Catalogo bilingue italiano/inglese Skira Ginevra 2018. www.centroculturalechiasso.ch e http://fondazioneachillecastiglioni.it

Il fantastico secondo Christian Tagliavini Fotografia Pubblicata negli scorsi mesi la prima monografia dell’artista ticinese Gian Franco Ragno L’editore tedesco teNeues offre l’occasione per conoscere meglio uno dei più interessanti fotografi ticinesi attivi sulla scena. Un volume che ha raggiunto in breve tempo già la seconda edizione, segno dell’interesse ormai consolidato per la sua opera. Nato in Ticino nel 1971, Tagliavini, formatosi come grafico, si è accostato all’arte fotografica in modo originale, muovendosi sempre con una certa indipendenza rispetto ai canali tradizionali. A livello regionale, tranne una piccola apparizione alla Biennale dell’Immagine di Chiasso del 2008 e una fortunata mostra alla Galleria ConsArc di Chiasso nel 2011 (spazio che apre spesso i suoi spazi a giovani autori), Tagliavini non ha esposto in modo esaustivo a livello locale, concentrando le sue forze intorno ad percorso professionale su scala internazionale – una strada che gli ha permesso altresì di ottenere riconoscimenti da parte di gallerie, istituzioni e premi in tutta Europa. Estremamente curato e raffinato il suo stile – in estrema sintesi – produce ritratti «messi in scena», pittorici sia nell’aspetto e sia nella precisissima resa; essi si sviluppano e concludono secondo delle serie, ognuna delle quali riproduce un riferimento ad un’epoca

o clima culturale. Si passa dal Rinascimento di Moroni e Bronzino nella serie «1503» (del 2010) all’Ottocento positivista in cui sembrano ambientati i «Voyages extraordinaires» (2014-2015), chiara allusione ai racconti di Jules Verne (amico fraterno proprio di quel

celebre Nadar che tanto portò avanti l’arte fotografica). All’interno di singoli progetti – senza indagare marcatamente una tipologia com’è d’uso nella fotografia documentaria – troviamo inoltre una fitta trama di rimandi tra i raffigurati, dove ognuno sembra recitare un

Il volume è edito da teNeues.

ruolo in un’ipotetica recita teatrale. Tale ricreazione di epoche diverse nasconde, tuttavia, dietro ogni scatto, un ben più lungo lavoro di preparazione ed elaborazione: infatti, ogni dettaglio non è acquistato, bensì ricostruito ex-novo con una precisione artigianale. Studi e disegni precedono la lavorazione, il taglio e la produzione di vestiti, fondali, copricapi e tutto ciò che possiamo rintracciare nell’immagine ricostruita così minuziosamente da Tagliavini. E non si tratta di un lavoro filologico: nel gioco della riproposizione non è esente l’ironia, il gusto dell’invenzione incongrua rispetto alla norma iconografica – come a rimarcare un rapporto con la storia più complesso e divertito rispetto alla semplice erudizione. Ciò è evidente, ad esempio, negli inverosimili ma straordinari copricapi. Quindi Tagliavini non va inteso semplicemente come un fotografo: è insieme regista e sceneggiatore delle sue serie, costumista e scenografo dei suoi attori, produttore di un personalissimo (e privato) mondo fantastico. La complessità del contemporaneo, la presa diretta della realtà, la registrazione del presente rimangono questioni fuori dalla porta dello studio, o per meglio dire in questo caso, di un atelier – come si soleva dire un tempo. Nella sua biblioteca, il suo riferimento principale

sembra essere William Morris – artista e teorico inglese di fine Ottocento che combatteva gli effetti della rivoluzione industriale e della produzione in serie con una sorta di utopistico ritorno all’artigianato (che oggi chiameremmo design) di qualità. Il libro – con testi in tedesco, inglese e francese – riassume grossomodo il primo decennio di attività dell’autore, dal 2006 al 2017: dagli esordi alle ultime prove. Proprio in questa recente fase, la fantasia compositiva del fotografo ticinese raggiunge livelli sempre più elaborati, quasi barocchi: riscontriamo nelle ultime pagine una narrazione più oscura e inquietante, l’apparizione di temi nuovi come i nudi e figure inquietanti con maschere con becchi di uccello (che non posso portare alla mente che certe figure del fiammingo Hieronymus Bosch), quasi a esemplificare certi conflitti interiori tra Eros e Thanatos. Detto ciò, la speranza è quella di poter ammirare e confrontarsi presto con tali lavori direttamente dal vivo – spesso si tratta anche di lavori su grande dimensione – in un’estesa esposizione più vicina alle nostre latitudini. Informazioni

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Cultura e Spettacoli

Una piccola fedeltà

Editoria Luca Saltini, al suo quarto romanzo, prova a raccontare la Romania di Ceaușescu

Pietro Montorfani La controprova non ce l’ho, perché anche io, come lettore, condivido la medesima condizione di ignoranza che l’autore candidamente ammette nella Nota finale: «La Romania del libro – a parte qualche elemento geografico desumibile da una cartina e qualche dato storico di facile accesso – abita soltanto nella mia mente. L’importante è che per me fosse credibile come ambiente per questa storia». Pare cosa da poco, ma creare un ambiente credibile, cioè un luogo dove l’aria circoli, i personaggi respirino, la luce cambi con il passare delle ore, è l’essenza stessa dello scrivere, la sfida più grande e decisiva per un narratore. La controprova non ce l’ho perché anche io, della generazione di Saltini, della Romania di Ceaușescu ho soltanto ricordi sporadici filtrati dalla stampa dell’epoca, qualcosa di più simile a un’atmosfera, a un mood (triste), che non a un contesto storico seriamente inteso. Qualcosa che sa molto di anni Ottanta, di Chernobyl, di Perestrojka. Eppure, forse proprio per questa ragione, posso dire senza esitazione che questo libro «funziona». Funzionano i personaggi e funziona il contesto, funzionano i personaggi in rapporto al contesto, che non è dato soltanto da una somma di informazioni storicamente attestate (altrimenti ogni saggio storico sarebbe una narrazione affascinante, mentre raramente è così). Senza forse accorgersene, Saltini punta il dito proprio al centro della questione, il rea-

lismo letterario, che non ha nulla a che spartire con la realtà dei fatti. Paradossalmente, e questo piccolo libro ce lo ricorda, in letteratura una cosa è vera in modo direttamente proporzionale alla convinzione con cui lo scrittore la crede tale (Manzoni che toglie virtualmente dal cassetto i personaggi che vi aveva riposto la sera prima). Non serve altro, in fondo, per scrivere un buon libro, che questa misteriosa convinzione, questa «piccola fedeltà» nei confronti di un proprio mondo interiore. Non si vuole con questo togliere importanza al lavoro di ricerca, sempre più comune nei narratori contemporanei, di chi si documenta a lungo prima di iniziare la stesura di un romanzo. Sono certo che anche Saltini, storico di formazione, nonostante questo elegante understatement si sarà fatto le sue brave letture. Eppure non ha lasciato che la componente documentaria prendesse il sopravvento sul piacere dello scrivere, sullo stile o sullo scavo psicologico dei personaggi. Basta un flash: «Gli ho detto di prendersi alcuni giorni liberi per seguire sua moglie, ma la sera me lo sono ritrovato di nuovo in ufficio. C’è rimasto tutta la notte e così ha fatto per la settimana seguente, fino a quando Erika è stata dimessa. Di giorno stava con lei. Di notte veniva a lavorare. Mi ha detto che non poteva stare a casa senza sua moglie. Gli veniva l’ansia, un senso di vuoto soffocante. Povero Lenz. Sposato con la dea del ghiaccio, innamorato di quegli occhi freddi, capaci di scaldare soltanto lui».

Il suo libro è stato pubblicato da Giunti Editore.

Lenz, per non dire di sua moglie Erika, è un personaggio marginale del romanzo, eppure vive con grande forza in queste poche righe. Questo è il merito di Saltini, capace – come era avvenuto per Tattoo (2012) – di imprimere vitalità ai suoi personaggi con pochi dettagli selezionati e una narrazione in presa diretta, quasi cinema-

tografica. Non tutto il libro è di pari pregnanza (un recensore più severo di chi scrive potrebbe sottolineare il fatto che, nei primi capitoli, il libro stenti un po’ a decollare) ma nemmeno mancano pagine memorabili, soprattutto attorno alla bellissima Achilina e al suo tormentato amante italiano. Confezionato in modo efficace

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Cultura e Spettacoli

Il lato brillante dell’OSI

Estival 2018 L’orchestra della Svizzera italiana fa rivivere il mito di Dark Side Of The Moon, proponendone

a Lugano giovedì 12 luglio l’arrangiamento del chitarrista Nguyên Lê, che abbiamo intervistato

Alessandro Zanoli Uno dei momenti più attesi delle serate luganesi di Estival è la performance «pop» dell’Orchestra della Svizzera italiana. Negli ultimi anni la prestigiosa formazione sinfonica ha proposto in questo contesto situazioni musicali originali e suggestive, offrendo al pubblico un suo viso forse meno austero ma non per questo meno impegnato. Per l’edizione 2018, quella del 40.esimo di Estival, il progetto portato in Piazza Riforma dall’OSI è particolarmente interessante: un nuovo arrangiamento dell’album The Dark Side of the Moon, dei Pink Floyd, ideato dal chitarrista franco-vietnamita Nguyên Lê. Gli abbiamo chiesto di parlarcene. Nguyên Lê, può descriverci il progetto che eseguirà con l’Osi?

Il concerto che terrò a Lugano è la versione sinfonica dell’album che ho registrato per la ACT, nel 2014: Celebrating the Dark Side of the Moon. L’album era basato sui miei arrangiamenti del celebre disco dei Pink Floyd. I pezzi erano stati orchestrati da Michael Gibbs per la NDR Big Band di Amburgo. Per il concerto di Lugano ho chiesto al mio amico Jean-Christophe Cholet di ri-orchestrare le mie partiture, con l’idea di sostituire l’OSI alla Big Band. E cosa è risultato da questo lavoro?

Abbiamo modificato alcuni arrangiamenti, abbiamo esteso alcune parti per poter sfruttare nel migliore dei modi le meravigliose tessiture sonore che un’orchestra sinfonica può creare. Per mantenere l’aspetto musicale legato al jazz elettrico, porterò sul palco la mia band, che ho volutamente ridotto

nell’organico per dare spazio all’orchestra e nello stesso tempo per assegnarle un ruolo meno semplicemente decorativo. Generalmente suono con un nonetto, a Lugano invece porterò un sestetto, composto da Himiko Paganotti alla voce, Céline Bonacina al sax, Illya Amar al vibrafono, Romain Labaye al basso, Gergo Borlai alla batteria e me stesso alla chitarra elettrica e al laptop.

Come avete preparato il concerto con l’orchestra?

C’è stato naturalmente un intenso lavoro a distanza. Ci siamo scritti un sacco di email con il direttore artistico Andreas Wyden, con il direttore dell’OSI Markus Poschner, con la direzione dell’Orchestra. Sono state molte anche le conversazioni telefoniche con il mio arrangiatore Cholet, affinché le mie idee potessero entrare nelle partiture. Al momento attuale le parti sono finite, abbiamo discusso gli ultimi dettagli su spartiti, distribuzione dei posti sul palco e altri elementi tecnici. Con la band avremo una prova prima di arrivare a Lugano, dove proveremo poi con l’orchestra completa.

La sua chitarra avrà un ruolo particolare nell’arrangiamento dei brani?

L’idea iniziale della versione con la Big Band era di rendere la chitarra elemento centrale degli arrangiamenti. Questo concetto si è conservato anche nella versione per il concerto di Lugano. Ciò significa che la chitarra suonerà alcune delle principali melodie (che nella versione originale sono cantate). Con la mia chitarra cercherò di riportare i molti tipi di suono e di textures per cui sono conosciuto, di introdurre elementi coloristici della tradizione musicale asiatica, ciò che rende unico questo progetto.

Nato in Francia, è uno dei maestri contemporanei dello strumento. (nguyenle.com) Le parti di chitarra di David Gilmour sono ormai legate a questa musica: lei nel suo lavoro ha pensato di fare riferimento a quelle interpretazioni, con citazioni o allusioni?

Pur correndo il pericolo di deludere il pubblico, non voglio fare nessun riferimento al modo di interpretare i brani di Gilmour. Lo rispetto immensamente, ma ho pensato che non ci sia necessità alcuna di citarlo o copiarlo. In effetti, questo progetto non vuole essere una cover o una imitazione del mito musicale dei Pink Floyd, che non ha bisogno di me per brillare. Come dice il titolo che ho scelto, si tratta di una celebrazione di quel disco. Voglio mostrare e condividere col pubblico

l’amore che ho per questa musica e allo stesso tempo darne una mia versione, personale e diversa.

Interagire con un’orchestra richiede qualche particolare intervento sul suo modo di suonare e sul tipo di strumenti utilizzati?

Sicuramente sarà una grande sfida mescolare la dimensione musicale acustica e quella strumentale elettrica, molto accentuata e ritmica, della mia musica. Mi aspetto di creare una situazione dalle dinamiche sonore molto ampie. Nella sua esperienza personale, è difficile trovare un «interplay» con una macchina musicale così ampia e complessa come un’orchestra?

Penso che se ci sarà un buon interplay,

sicuramente sarà così con il direttore d’orchestra Markus Poschner. Collaborare con lui mi dà molta fiducia. Insieme abbiamo già lavorato in molti contesti sinfonici. È stato molto bello. Oltre ad essere un eccezionale direttore d’orchestra, è un vero jazzman, che comprende a fondo il mondo dell’improvvisazione e del «groove».

Possiamo dire che la sofisticatissima musica dei Pink Floyd (e di altri gruppi Pop-Rock) si prepara a diventare la «musica classica» moderna?

Preferisco dire che questi brani musicali mitici, che sono scolpiti nel tempo, sono come monumenti della cultura tradizionale.

Il più grande del ’900 Biografie Il regista Bruno Monsaingeon dedica a Mstislav Rostropovic un documentario

e porta sul grande schermo la storia di un artista inarrivabile Enrico Parola Forse è impossibile dire quale sia stato il più grande musicista dell’ultimo secolo, ma Mstislav Rostropovich, oltre a rientrare di diritto nell’ideale «top ten» assieme a giganti come Karajan, Toscanini e Rubinstein è senza dubbio quello che più ha segnato la Storia, non dell’arte ma sociale e politica, degli uomini e degli Stati. Lo testimonia l’ultimo, splendido film di Bruno Monsaingeon, violinista, direttore e regista che ha immortalato nelle sue pellicole le storie di virtuosi come Menuhin, Glenn Gould e Richter: non a caso The Indomitable

Bow si apre con una testimonianza di Alexandr Solgenitsin, il cui Arcipelago Gulag fece conoscere al mondo gli orrori della versione comunista del lager. Un nemico del Partito che Rostropovich salvò ospitandolo dal 1970 al 74 nella sua casa; era un fatto noto, ma troppa era la notorietà del musicista perché il Kgb lo colpisse proprio lì. Lo stesso violoncellista guida la telecamera di Monsaingeon nelle stanze dove visse Solgenitsin, raccontando della sua paura di trovarlo assassinato e di come si ostinasse a vivere con un rublo al giorno, cibandosi di rape, cavoli e un po’ di latte.

È morto a Mosca all’età di 80 anni, nel 2007. (ccsviemiliaromagna.it )

Non è il primo capitolo del braccio di ferro che Rostropovich instaurò col potere comunista: nel 1968, mentre i carri armati invadevano Praga, lui vi si precipitò per suonare il Concerto del boemo Dvorak con la Filarmonica Ceca. Dopo aver alternato le immagini delle vie e del teatro della capitale ceca il film passa al terzo atto della sfida al potere, introdotto dall’intervista a Yehudi Menuhin. Nel 1974 l’Onu invitò il mitico violinista per un concerto, lui volle coinvolgere il grande pianista Wilhelm Kempff e l’amico Slava; ma per l’aiuto a Solgenitsin Rotropovich era stato vittima di un duro ostracismo: non solo non poteva esibirsi fuori dalla Russia, ma anche in patria gli erano concesse solo sale minori di paesini sperduti (lo si vede infatti suonare e cantare, comunque divertito, con massaie, cameriere e anziani). Breznev negò a Rostropovich il permesso di recarsi a Bruxelles, dicendo a Menuhin che era malato. Yehudi chiamò Slava che gli spiegò la situazione, la telecamera inquadra il telegramma in cui il violinista minaccia Breznev di presentarsi in mondovisione all’Onu spiegando perché il tanto atteso trio non poteva esibirsi. E il segretario del Partito cedette. È impressionante vedere, sequenza dopo sequenza, come tutta la potenza del Partito sembri impotente contro Rostropovich: lo sottopose a restrizioni e angherie, ma non riuscì mai a impedirgli di essere se stesso, di far musica e di essere universalmente ascoltato. Anzi, la fama planetaria del violoncellista iniziò proprio nel momento in cui, mentre era a Bruxelles, venne esiliato: dapprima per due anni

(anche se lui, trasferitosi a Parigi, si proclamò orgoglioso cittadino russo innamorato della sua terra), poi per sempre, con il ritiro della cittadinanza. Fu un duro colpo per Rostropovich (la moglie racconta che lo seppe dalla tv mentre era sotto la doccia), ma il film evidenzia come da lì il suo carattere si modificò, diventato più allegro e istrionico: non più solo il padre che gioca con le figlie in campagna, insegna loro a suonare e le schizza con l’acqua delle fontane, ma l’uomo pubblico che ride e scherza con i presidenti americani (vantandosi di essere l’unico ad essere andato d’accordo con democratici e repubblicani) e i regnanti d’Europa: nel marzo 1997, per la festa del suo 70°, assieme ai maggiori interpreti della classica il palco ospita Elton John (che dal piano intona Happy Birthday) e Lady Diana. Poi arrivò la caduta del Muro di Berlino, con Rostropovich a precipitarsi davanti alle macerie per suonare Bach; il film dopo quelle immagini, inquadra Rostropovich che torna in patria e si stupisce vedere la folla oceanica (impensabile per qualunque altro musicista classico e oggi pensabile solo per il papa) che lo attende all’aeroporto e ne scorta il taxi; eccolo poi in piazza mentre viene abbattuta la statua di Lenin e lui da leader carismatico aizza il popolo proponendo di sostituirla con quella di Solgenitsin (e pur senza dolby surround rintocca poderoso il boato d’assenso). Ma come poté un musicista, e per di più non rock o pop ma classico, assurgere a un tale ruolo? Monsaingeon se lo domanda e trova la risposta nella spiegazione forse più banale ma allo

stesso tempo più suggestiva: semplicemente non rinunciando a vivere con libertà e sincerità la sua vita e la sua arte. Perché Rostropovich fu innanzitutto un musicista sommo e il film continuamente alterna i momenti «di storia» con documenti di recital e concerti, dove prorompono il suo virtuosismo funambolico e la sua passione debordante. Con ritmo frenetico si susseguono scale, arpeggi e cadenze che immortalano il suo suono inconfondibile, anche come pianista: lo si vede mentre accompagna in recital il soprano Galina Vishnevskaja; la conobbe per caso e dopo quattro giorni la sposò, spiegando a chi gli rendeva conto di un passo così affrettato di aver perso quattro giorni; e sulle doti canore delle consorte gigioneggia definendolo «soprano lirico in teatro e soprano drammatico in casa». Gli dedicarono 105 nuove opere, alcune di scarso valore (ma per lui valeva sempre la pena renderle pubbliche) e altri capolavori; si ritrovò a imparare il difficilissimo concerto di Dutilleux in una notte, lo studiò da mezzanotte alle sei, andò a dormire per poi eseguirlo perfettamente a memoria alla prova delle 10. Le sequenze finali sono per le Suite di Bach che incise nella cattedrale di Vezelay; passeggiando davanti al portico si confessa spiegando il senso dell’arte come dimensione dello spirito: per lui fu una finestra aperta sul cielo tra le mura di piombo del Comunismo. E alla domanda se avrebbe rifatto tutto la risposta è un «sì» sicuro e gioioso: «Anche anche se non mi avessero più fatto suonare; anche se mi avessero ucciso».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 luglio 2018 • N. 28

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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Alba la salvatrice San Giovanni Battista è il patrono della città di Torino e in occasione dei festeggiamenti, la sera del 24 giugno, si svolgeva una parata di fuochi artificiali. Da tempo immemorabile, finché, a partire da quest’anno i fuochi sono stati sostituiti da uno spettacolo di droni che nel cielo disegnavano con raggi laser colorati varie figure simboliche. L’eclisse dei fuochi ha generato in molti nostalgici il desiderio di rievocare gli spettacoli del passato. Memorabili per me furono quelli sparati in piazza Vittorio Veneto, la più grande della città, al termine del lancio di un nuovo modello della Fiat. Una piazza gremita fin dalle 2 del pomeriggio da 100mila persone in febbrile attesa di Fiorello, al culmine della sua popolarità, che però sarebbe arrivato solo verso sera. Con una formidabile Alba Parietti chiamata a domare la folla, lanciando gli ospiti: «Ed ecco a voi Bruno Gambarotta che vi farà divertire con le storie della sua infanzia astigiana. Mi accoglie un rug-

gito rabbioso, urlano in coro «Fiorello! Fiorello!», mostrandomi, se ancora avessi qualche dubbio, il pugno chiuso con il dito medio alzato. Avanzo fino al proscenio, cerco di non guardare verso il basso, inizio con dei racconti che forse andrebbero bene in un salotto davanti a quattro gatti bendisposti: «Avete mai dormito sopra un materasso pieno di foglie di granoturco scricchiolanti? Avete mai portato al pascolo un maiale?». Urla rabbiose arrivano in risposta. Alba mi viene in soccorso lanciando Giorgio Conte e la sua chitarra. La musica di Giorgio sembra ammansire le belve. Andrà avanti così per tutto il pomeriggio, fino all’arrivo di Fiorello. Vederlo in azione è uno spettacolo nello spettacolo, fin dall’inizio prende in pugno la situazione, le belve feroci diventano docili agnellini. Fiorello li fa cantare tutti, dividendoli in gruppi con ampi gesti delle braccia, degni di un dittatore; quelli alla sua destra canteranno una strofa e quelli alla sua

sinistra un’altra. Perché nessuno mi ha detto che per tenerli buoni sarebbe bastato invitarli a cantare? Non era la prima volta, già in un’altra occasione la generosa Alba era venuta in mio soccorso. Il 24 gennaio 2003 è un sabato. I primi notiziari radiofonici aprono con la notizia della morte dell’avvocato Gianni Agnelli. Poco dopo squilla il mio telefono di casa, da Roma chiama Maurizio Costanzo: «Questa sera in prima serata su Canale 5 faremo uno speciale sull’avvocato Agnelli. Ti chiedo di suggerirmi dei torinesi da invitare come ospiti». Lusingato, inizio a snocciolare i primi nomi che mi vengono in mente. E ogni volta da Roma rispondono: l’ha già preso Bruno Vespa che farà uno speciale «Porta a porta» su Rai 1. Alla fine tiro fuori dal cappello Alba Parietti dicendo: «Suo padre lavorava come operaio alla Fiat». Sono sorpresi, è un dettaglio che ignoravano ma sono contenti: «Chiamala e dille che vi mandiamo a prendere nel

pomeriggio all’aeroporto di Caselle». Telefono alla ragazza e lei mi gela: «Mio padre ha lavorato come dirigente in una società telefonica e non ha mai avuto rapporti con la Fiat». Mi ero confuso, era Rita Pavone che aveva avuto il padre operaio Fiat, ma Rita vive in Svizzera e non saprei come rintracciarla. Chiamo Roma per smontare l’operazione ma è troppo tardi, la macchina organizzativa si è già messa in moto. Alba, cuor d’oro, per salvarmi, accetta la proposta di fare l’ospite, purché non le chiedano di parlare di suo padre. Sull’aereo salirà anche Giorgietto Giuggiaro, il designer che iniziò come allievo Fiat. Nello studio di Cinecittà troveremo anche Diego Novelli, sindaco di Torino dal 1975 al 1985 e il giornalista Carlo Rossella. Il cielo è limpido e l’aria tersa, il panorama dal finestrino è una meraviglia. In prossimità dell’aeroporto di Ciampino il piccolo aereo, abbassandosi, è sbatacchiato da un vento fortissimo. Alba è tranquilla, si limita a dire: «Speria-

mo di non cadere. Se moriamo oggi non ci si fila nessuno». «Hai ragione, domani i quotidiani saranno occupati a celebrare Agnelli. Però qualche commentatore potrebbe paragonarci a Stalin e a Prokofiev. Joseph Vissarionovich Džugašvili detto Stalin morì il 5 marzo 1953 per emorragia cerebrale. Con la medesima diagnosi, nello stesso giorno, a distanza di poche ore, morì il grande e sfortunato musicista Sergei Prokofiev, sempre a Mosca, in un appartamento distante poche centinaia di metri dal Cremlino dove si era spento «il faro dell’umanità» (così titolava «L’Unità» il giorno seguente). Le migliaia di moscoviti in coda per rendere onore al piccolo Padre bloccarono per giorni l’accesso alla casa del musicista. Le autorità sovietiche imposero di dare notizia della morte di Prokofiev solo una settimana dopo». Alba mi è stata a sentire: «D’accordo, però io faccio la parte di Stalin». Per la cronaca, il piccolo aereo è poi felicemente atterrato.

così evidente, che nel dubbio diventano oggetto di contumelie, di raggiri, di storie d’amore destinate a fallimenti anche ridicoli, che è il peggio che si possa immaginare. Anche se è ricco, biondo e di gentile aspetto, il giovane troppo sensibile sarà preso per effemminato, se maschio; per lagnosa, se femmina. Anzi, proprio l’invidia per quelle doti che in altri non danno alcun fastidio susciterà sgarbi e tradimenti ritenuti legittimi, da coloro che si sentono defraudati per i troppi doni recati dalla vita a quell’uomo, quella donna sensibile. Non fanno paura, i sensibili, perché mai potrebbero avere il coraggio di una vendetta, di un’azione disturbante. Come l’Altezza reale dell’omonimo romanzo breve di Thomas Mann, che sconta la sua nobiltà con i lazzi dei coetanei che dovrebbero introdurlo alla vita di mondo, così il sensibile sa che se volesse far rumore, essere sguaiato, farla pagare a tutti, sarebbe oggetto di un «oh oh!» che lo spaventerebbe, rendendolo

poco credibile, quindi ridicolo. Però non tutto è perduto per chi ha ricevuto dai genitori questo ingombrante bagaglio. No, non è vero che chi soffre di più allo stesso tempo gode di più, approfitta meglio dei momenti di felicità. Non è questa la via per chi è troppo sensibile, perché la sua caratteristica lo porta a temere e tremare, quindi abbandonato a se stesso anche davanti a momenti positivi della vita si domanderà a quale disgrazia preludono, quale colpa indicano e soprattutto sarà certo di non meritare quello che sta vivendo, quindi di essere un usurpatore di felicità altrui – quella sì ben meritata. No, la via sembra essere un’altra. L’inizio sarebbe nel chiamare col suo nome questo che non è un disturbo, una malattia, una mancanza, ma uno stato delle cose, come gli occhi neri e la carnagione chiara o scura. Dovremmo poi sapere, nell’età adulta, che nessuno è ben accettato come chi si accetta, quindi il primo passo sarà accettare di avere queste caratteristiche,

così come maturando di solito si riesce anche a ridere di una bassa statura, delle lentiggini, di piedi troppo lunghi. Dopo l’adolescenza è vietato fare confronti e invidiare. Come ci si fa una ragione del dover sempre accorciare i pantaloni appena comprati, così bisognerà tener conto del bisogno di pace, di solitudine, di riposo che ha chi è sempre sovrastimolato. Pazienza se non frequenterà luoghi affollati, non si divertirà a feste chiassose, non amerà i viaggi frenetici di chi invece fugge da ogni incontro con se stesso. L’uomo e la donna molto sensibili recuperano forze nel concentrarsi, non nella dispersione, non temono di guardarsi dentro, fuggono dai troppi sguardi esteriori, che sentono su di sé anche se forse sono solo distratti. Ma pensano che anche tutti gli altri vivano come loro, attenti, attentissimi. Sono più infelici di altri? O più fortunati? Anche per loro vale la battaglia di tutti per volersi bene, così come siamo, che è il meglio.

successo, anche se gli vengono imposte numerose modifiche e una introduzione che eviti l’equivoco del disfattismo. Ma il terzo sequestro arriva comunque inesorabile nel 1923. Passeranno sessant’anni perché il libro possa uscire liberamente. Se un tempo i libri fisicamente presenti venivano fatti sparire, oggi si realizza il fenomeno opposto (2): far vivere libri che non esistono ancora (e che purtroppo esisteranno). Collocarli in classifica ben prima che escano. Raccontava l’altro giorno Raffaella De Santis sulla «Repubblica» che la nuova trovata del marketing editoriale si chiama pre order: è la possibilità di prenotare un titolo prima che appaia in libreria e, sulla base delle richieste virtuali, inserirlo subito tra le top ten per accelerare l’interesse. La scorsa settimana la classifica di Amazon aveva tra i più venduti il fantasma di un libro intitolato Disperata & felice (Mondadori), della cantante, attrice e soprattutto blogger Julia Elle (s.v. che significa «senza voto»). La trentenne

torinese, sempre in tiro anche quando vuole sembrare disfatta dalla maternità, ha ideato la serie web disperatamentemamma (s.v.), dove propone scene domestiche di vita quotidiana prima e dopo la nascita dei due figli, «spannolinamento» compreso… Insomma, una colossale operazione di marketing alle spalle della prole, che viene gettata in pasto a centinaia di migliaia di followers ansiosi di farsi i fatti loro (dei bambini). Non è difficile intuire come cresceranno quei poveri figli, protagonisti inconsci di una sorta di Truman Show casalingo; né è difficile intuire come crescono i bambini che seguono sul video le banali performance dei poveri figli di Julia Elle. La quale ha lanciato (ovviamente in video) la sua siurpràis letteraria, ravviandosi mille volte i bei capelli biondi, con queste gasatissime parole: «Sono gasatissima, non vedo l’ora che lo leggiate… ho già ricevuto tanti commenti bellissimi, grazie grazie grazie, io sono gasatissima, ciao ciao ciao, siete carinissimi, grazie. Domani

esce il libro, ragazzi, sì, domani esce il libro, sono gasatissima, supercontenta, sì!!!». Molto divertente (1 alla irresistibile simpatia). Molto divertente anche il sottotitolo del libroide: «Diario segreto di una mamma». Segreto?!? Chissà che straordinari segreti in un libro che nasce da una serie video guardata da centinaia di migliaia di potenziali lettrici. Le quali commentano con tanti punti esclamativi che vi risparmio: «Sei stupenda», «Mi fai morire», «Bella e simpatica», «Sei un fenomeno», «Sei un portento», «Sono morta dalle risate»… Resterebbe da riflettere sulla differenza tra libro e libroide, su come il secondo uccide il primo, sulla lettura e sulla pseudo-furbizia di pseudo-editori che concentrano la loro attenzione su pseudo-diari pseudo-segreti, buoni ad accalappiare pseudo-lettori per avere alla fine dell’anno pseudo-bilanci pseudo-positivi. E poi piangere la Caporetto di un mercato librario sgasatissimo. Quello libero o pseudo-libero, e senza minacce di sequestri.

Postille filosofiche di Maria Bettetini Il peso della sensibilità Come un gatto sotto il divano. L’immagine rende perfettamente lo stato emotivo di coloro che soffrono di un tratto genetico poco riconosciuto, la troppa sensibilità. Così si nasce, così si deve crescere, come racconta Federica Bosco in un libro che diventa manuale per chi soffre di iperefficienza mentale o ipersensibilità, Mi dicevano che ero troppo sensibile (Vallardi). Sottotitolo: Per chi si sente sbagliato, un percorso per scoprire come tramutare l’ipersensibilità in una risorsa preziosa. Bosco racconta di sé, e forse questa è l’unica pecca del libro, racconta molto di sé, ma le si perdona tutto a fronte del valore incommensurabile del pacato racconto di chi si sente sempre fuori posto perché ha più degli altri, ma non sa come gestirlo. Gli ipersensibili sono coloro che da bambini si sentono sempre a disagio: magari balbettano, o arrossiscono per un nonnulla, certo percepiscono tutto quello che si muove loro attorno, una tensione, uno sguardo, soprattutto

la sofferenza degli altri. Non è detto che siano geniali, Leopardi non nasce tutti i giorni e poi è difficile avere come modello uno che si lava poco e non indovina una, che sia una tra le tante possibili mosse con gli amici, le amiche, le ragazze. Però esistono questi bambini che potrebbero stare bene con i coetanei ma in verità non legano con nessuno, che piangono troppo spesso, si isolano. Non sono proprio dei disadattati, non hanno turbe dell’apprendimento né forme di mancanze neuronali. Probabilmente funzionano più con l’emisfero destro del cervello che col sinistro, il loro sentire è così forte da inibire alla sorgente ogni possibile intervento della razionalità. Non sanno calcolare la loro convenienza, si innamorano di chiunque sembri accoglierli per quello che sono, salvo poi ricevere terribili delusioni, a volte anche prese in giro. Infatti proprio gli ipersensibili attirano bulli e malavitosi, non necessariamente armati di lupara. La loro debolezza è

Voti d’aria di Paolo Di Stefano Libri gasatissimi Che cosa c’è dietro un libro? C’è di tutto, in genere ci sono persone e storie di amicizie e inimicizie che neanche possiamo immaginare. Come quelle che racconta Gabriele Sabatini in Visto si stampi (Italosvevo editore). Il libro merita 5½, perché l’autore scrive bene e sa di che cosa parla, essendo gran conoscitore della storia editoriale e lavorando come editor di una casa editrice che fa ancora cultura e ricerca (la Carocci, 5+). Dice Cesare De Michelis, il patron della Marsilio, nella prefazione: «Ci sono gli editori che cambiano il titolo a un libro senza neppure avvertire l’autore, censori che ne bloccano la circolazione solo per aver equivocato sul senso che aveva o voleva avere, libri che ronzano in testa per anni prima di venir fuori o che hanno bisogno di un’autentica levatrice, libri che suscitano subito calorosi entusiasmi e altri che incontrano durature incomprensioni, e poi ci son libri che nascono in serie già raccolti in collane e altri che vagano solitari e forse un po’ unici».

Prendiamo un libro come Viva Caporetto!, un saggio narrativo di quel mattoide di Curzio Malaparte che raccontava la sconfitta come fosse una specie di insurrezione popolare, sul tipo della rivoluzione russa, fallita per l’incapacità dei generali. Il libro esce all’inizio del 1921 per la Tipografia Martini di Prato. Il titolo, per chi aveva giustamente vissuto Caporetto come una disfatta, desta scandalo. Per di più l’autore si firma con il suo vero nome: Kurt Erich Suckert. Nome tedesco, dunque nome del nemico. L’autore si inventa un testo pubblicitario paradossale e falso, dove parla di un libro scritto a Varsavia «durante l’assedio bolscevico» e fa credere che il volume abbia avuto un grande successo all’estero. Tanto basta perché parta il sequestro. L’autore non molla e fa ricopertinare le copie stampate con un nuovo titolo: La rivolta dei santi maledetti. Parte un nuovo sequestro con la minaccia di far sparire, prima o poi, anche l’autore. Dopo la marcia su Roma, Malaparte riparte: questa volta con più


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 luglio 2018 • N. 28

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Idee e acquisti per la settimana

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shopping Formaggi sfiziosi per la stagione calda

Attualità Alcune proposte dell’Angolo del Buongustaio Migros che delizieranno ogni palato Ricotta vaccina nostrana Prodotta dall’Azienda Agricola «Fattoria del Faggio» di Sonvico e disponibile a libero servizio, è fatta con il siero di latte vaccino residuo della lavorazione del formaggio e «ricotto». Dolce, acidula e gradevole al gusto, si presenta con la sua tradizionale forma troncoconica, una pasta biancastra e una struttura grumosa. Un tempo considerata il formaggio dei poveri, la ricotta si consuma fresca e semplice, condita con sale, pepe o zucchero, ma può anche essere un ottimo ingrediente nella preparazione di ricette più elaborate.

Burrata in foglia La Burrata è un formaggio fresco e dolce di latte vaccino, a pasta filata, affine alla mozzarella, ma dalla consistenza più morbida e filamentosa. In origine la burrata serviva per prolungare la durata di conservazione del burro. Il ripieno si caratterizza per la sua massa sfilacciata e spugnosa immersa nella panna. Tagliare la burrata solo al momento di servire affinché il cuore morbido non fuoriesca troppo.

studiopagi.ch

Primo Sale vaccino alla rucola Nel formaggio primo sale alla rucola si cela la sapienza dell’antica tradizione casearia italiana. È un formaggio di latte di mucca fresco, morbido e delicato. Salato una volta sola, lo si può consumare a pochi giorni dalla sua produzione, semplicemente condito con un poco di olio extravergine, pepe e sale.

Lo squacquerone di Romagna Si tratta di un formaggio molle senza crosta a base di latte intero. È un prodotto DOP dell’Appennino Romagnolo e ha un sapore delicato e dolce, di latte acidulo, mentre la sua consistenza è cremosa. È un formaggio dalle origini antiche: Antonio Mattioli, nel suo Vocabolario romagnolo italiano, ricorda infatti che lo scrittore del I secolo d.C. Petronio Arbitro, nel suo noto romanzo Satyricon, menzionava un certo «caseum mollem», formaggio morbido, simile a quello che oggi potrebbe essere lo squacquerone. La piadina con squacquerone e crudo è un piatto romagnolo imprescindibile.

Mozzarella vaccina La mozzarella è oggi uno dei formaggi freschi più conosciuti e consumati al mondo, grazie alla sua versatilità in cucina e al caratteristico sapore di latte fresco. Originaria della Campania, veniva prodotta già a partire dal XII secolo con latte di bufala, anche se oggi è più diffusa quella di latte di mucca. Il suo nome deriva dal fatto che durante la fase di lavorazione la massa di pasta filata calda viene letteralmente «mozzata» per ottenere la tipica forma sferica

Stracciatella Formaggio fresco a pasta filata, la stracciatella è tipica delle regioni Puglia, Basilicata e Molise. È composta dal ripieno medesimo della burrata. La pasta filata viene «stracciata» a mano e arricchita con panna fresca. Cremosa e di colore bianco paglierino, ha un gusto molto delicato che ricorda quello del latte fresco appena munto.


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Idee e acquisti per la settimana

Fagiolini freschi svizzeri: l’ingrediente che non può mancare a tavola! Attualità Pochissime calorie, alta digeribilità e tante vitamine per i vostri piatti più leggeri

Sebbene il nome aiuti a capire il legame con il fagiolo, spesso i fagiolini non vengono considerati dei legumi, tuttavia ne fanno parte a pieno titolo. I fagiolini, sono tanto particolari perché, altro non sono che fagioli raccolti immaturi quando i semi devono ancora formarsi e lo spesso baccello è commestibile. Ne esistono numerosissime varietà: nane o rampicanti, precoci o tardive, a baccello curvo, diritto e stretto, diritto e largo o anche lunghissimo, di colore verde, bianco, giallo e viola. A differenza di fagioli, ceci e lenticchie, pur conservando un alto tenore proteico, sono ipocalorici e facilmente digeribili, il che li rende davvero l’ingrediente perfetto per i vostri piatti estivi. Si mondano eliminando circa un centimetro da entrambe le estremità, poi si lavano bene in acqua fredda e, infine, si sciacquano sotto l’acqua corrente. Vanno consumati cotti in quanto la cottura elimina un enzima che li renderebbe altrimenti indigesti. I tempi di cottura variano a seconda dei gusti: 20 minuti per una cottura normale oppure 10 minuti per una cottura al dente. Prefe-

rendo quest’ultima i fagiolini avranno un colore più vivido, subiranno una perdita minore delle proprietà nutrizionali e il baccello conserverà la sua croccantezza... ricordatevi però, una volta pronti, di metterli nel ghiaccio per bloccarne la cottura! Una volta bolliti, possono essere conditi a piacimento semplicemente con olio o aceto e consumati come contorno, ma si dimostrano versatili per vari tipi di preparazioni, anche per le insalate. Provate l’insalata di fagiolini con mandorle, pomodorini e formaggio fresco e arricchitela con cubetti di pane dorato. Un accorgimento per fare in modo che anche i più piccoli mangino volentieri questi legumi, può essere quello di utilizzarli come ingrediente principale per un polpettone o ripieno per una torta salata da gustare anche fredda. / Elisa Zuin, blogger I fagiolini verdi svizzeri li trovate ora alla vostra Migros.

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Attualità Il vitello tonnato è un classico

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Il vitello tonnato mette d’accordo sia i carnivori sia gli amanti dei sapori del mare. Questo piatto originario del Piemonte, dove nel dialetto locale è conosciuto con il nome di vitel tonnè, è una vera delizia gustato con una croccante insalatina di stagione o accompagnato da qualche fetta di pane casereccio. Riguardo la nascita di questa ricetta, conosciuta da almeno due secoli, esistono diverse interpretazioni: alcuni ritengono che il termine

«tonnè» non derivi da tonno, bensì dal participio passato di «tanner», ovvero conciare, per il fatto che la carne di vitello venisse marinata (conciata) in acqua e aceto. Per altri invece il nome fa riferimento al metodo di cottura della carne, molto lento, alla maniera del tonno. Fu solo in un momento successivo che la salsa si arricchì con i saporiti ingredienti che conosciamo, quali appunto tonno, acciughe, capperi e, infine, uova.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 luglio 2018 • N. 28

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Idee e acquisti per la settimana

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Togliti il trucco! A truccarsi si impara. In seguito la regola è poi di struccarsi con massima facilità e velocità! A tale scopo Garnier offre la soluzione più semplice grazie alle efficaci acque detergenti micellari. I prodotti tutto in 1 rimuovono delicatamente e accuratamente il make-up e le impurità da pelle, labbra e occhi. Hanno nel contempo un effetto calmante e purificante. Con la linea all-in-1 di Garnier togliere il trucco è un gioco da ragazzi.

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