Azione 25 del 16 giugno 2025

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edizione

MONDO MIGROS

Pagine 2 / 4 – 5

SOCIETÀ Pagina 3

Intervista a Marilin Mantineo sugli studi dell’impatto sociale di terremoti, alluvioni ed epidemie

Si chiedono più investimenti nella difesa ma la pace si costruisce anche su altre fondamenta

ATTUALITÀ Pagina 13

Dal 26 giugno al 5 luglio ritorna JazzAscona con un programma ricco di nomi grandi e da scoprire

CULTURA Pagine 20-21

Il fascino di Medardo Rosso

Quella voglia di brividi e spavento (e pop corn) al cinema: una breve storia del jumpscare

TEMPO LIBERO Pagina 29

Il dolore di chi sta dalla parte dei «cattivi»

Ultimamente penso spesso all’ambiente sociale e affettivo dei cosiddetti «cattivi». Scrivo «cattivi» non in senso morale, ma in termini di immagine. Negli scenari di guerra, per esempio, «cattivi» sono gli aggressori, anche quelli che individualmente cattivi non sono. «Buoni», gli aggrediti, anche quelli che individualmente buoni non sono. Bontà e cattiveria, in questa lettura dei fatti, dipendono solo dalla parte in cui ti trovi, non dalle virtù o dai vizi personali. Ma è una semplificazione che dovremmo abbandonare per non cadere in stupide condanne di massa, un meccanismo perverso perché attribuisce a un intero corpo sociale le colpe di una sua piccola parte. Le colpe, invece, vanno sempre imputate a precisi individui dotati di un nome e un cognome: Vladimir Putin, Benjamin Netanyahu o Yahya Sinwar, per esempio. E vanno estese agli esatti nomi e cognomi dei co-decisori e degli esecutori che li hanno accompagnati, ispirati, sostenuti

e hanno prestato i loro servigi alla realizzazione del piano scellerato. Non esistono popoli collettivamente cattivi. Sostenerlo recherebbe torto ai sudditi di quei regimi che hanno orrore dei massacri ordinati dai propri capi a Kyiv, a Kharkiv, a Gaza o in Israele. Significherebbe ignorare i coraggiosi che pagano il dissenso rimettendoci la pelle, e le persone normali rivoltate che tacciono per istinto di sopravvivenza, come del resto farebbero molti di noi. Sono sfumature necessarie per non perdere la speranza di un sussulto «dall’interno», di un sotterraneo rovesciamento di fronte che potrebbe, un giorno, cambiare il piano inclinato della storia. Tifiamo, insomma, per i «buoni» dei «cattivi» che sono sicuramente la maggioranza. Allo stesso modo, anche se il tema è complessivamente diverso, rifletto sui parenti stretti e sugli amici intimi di quanti commettono reati mostruosi, o per meglio dire, socialmente ripu-

gnanti. Penso al ragazzo ventunenne austriaco che si è reso colpevole della strage scolastica a Graz nei giorni scorsi o ai maschi tossici che si macchiano di femminicidio. Accordiamo, come è giusto, la nostra immediata solidarietà alle loro vittime e alle famiglie che in un giorno troppo assurdo per poter essere mai metabolizzato, le hanno viste sparire nel terrore e nel nulla. Probabilmente non c’è ferita più grande. Eppure, è altrettanto vertiginoso immaginare il dolore nascosto delle famiglie dei colpevoli più impresentabili e dei loro sodali; di quanti cioè li hanno amorevolmente cresciuti e ostinatamente amati, a volte senza accorgersi della brutalità che gli montava dentro. Nel nascondimento e nel silenzio continueranno ad amarli contro tutto e contro tutti? Quelli sono pur sempre carne della loro carne, sconcertanti frutti del loro stesso albero: impossibile disconoscerli. Così come è pacchiano attribuire le colpe dei capi

a tutti i loro sudditi (tranne, forse, quella di averli eletti), di fronte a queste tragedie è fuorviante attribuire ai padri e alle madri le colpe dei figli. Esistono molte famiglie sbandate con figli irreprensibili e molte famiglie irreprensibili con figli sbandati. Dicono che la mamma di Hitler fosse dolcissima. Ogni destino si gioca sul filo di imperscrutabili scelte interiori, e, a volte, della follia. Perciò le lacrime delle persone visceralmente legate agli autori di atrocità sono amarissime: distillano vergogna per l’alone oscuro che partendo dal congiunto imbratta anche loro, smarrimento per l’immagine per sempre compromessa del proprio caro, e di se stessi come nido (colpevole? incolpevole?) che l’ha generato, odio per lui che è diventato scandalosamente «altro» da loro e da se stesso. E comunque amore, testardo amore, per quel figlio che sempre figlio rimane anche se, chissà perché, un giorno ha impugnato il fucile e ha fatto quello che ha fatto.

Elio Schenini Pagina 19
Collezione
Carlo Silini

Per diventare donne più forti

Benessere ◆ I benefici dell’allenamento della forza per le donne sono innumerevoli, soprattutto nella delicata fase della menopausa

Perché le donne dovrebbero allenare la forza

I vantaggi sono molteplici. Il più importante: la massa muscolare diminuisce già all’età di 30 anni. A partire dai 50 anni, ogni anno si perde dall’uno al due percento della massa muscolare. «Con l’allenamento della forza, possiamo contrastare la perdita muscolare», spiega Cora Zollinger, istruttrice presso Activ Fitness. Un busto forte migliora la postura e può prevenire il mal di schiena. L’allenamento della forza aiuta anche a prevenire lesioni e dolori articolari: anzitutto, risulta più facile affrontare attività quotidiane come il trasporto della spesa o la pedalata in bicicletta; secondariamente l’allenamento della forza si riverbera anche sull’equilibrio, con una conseguenza diminuzione delle cadute.

Il momento migliore per iniziare l’allenamento della forza per le donne Adesso! L’allenamento della forza risulta particolarmente utile per le donne in menopausa, poiché i cambiamenti ormonali portano a un maggiore accumulo di grasso. Questi, a loro volta, possono favorire l’insorgenza di malattie cardiache e circolatorie. I muscoli, dal canto loro, funzionano come un motore a combustione. Più muscoli ci sono, più calorie consuma il corpo, anche da sdraiato. L’allenamento della forza rafforza anche legamenti e ossa. «Il carico di trazione e compressione sull’osso aumenta la densità ossea», continua Zollinger. L’osteoporosi colpisce le donne più di due volte quanto colpisca gli uomini.

La frequenza dell’allenamento per le donne

Le donne hanno il dieci per cento in meno di massa muscolare rispetto agli uomini. I risultati di una recente ricerca statunitense indicano come le donne abbiamo benefici maggiori attraverso l’allenamento della forza: l’allenamento regolare con i pesi riduce il rischio di morte per malattie cardiovascolari dell’11% negli uomini e fino al 30% nelle donne. Secondo Zollinger, se ci si vuole solo mantenere in forma, basta combinare l’allenamento settimanale della forza con lo yoga o il pilates. Per costruire muscoli o perdere peso, invece, sono necessari almeno due allenamenti alla settimana, come d’altronde raccomanda anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

L’influenza dell’alimentazione

«La cosiddetta tartaruga è composta per il 30% in palestra e per il 70% in cucina», afferma Zollinger. Per ridurre la percentuale di grasso corporeo, occorre regolare la dieta e mangiare molte proteine, che promuovono la costruzione muscolare, oltre a fibre e grassi sani sotto forma di noci, olio d’oliva o avocado.

Gli esercizi più efficaci

Squat, panca, row, pressare le spalle e pull-up. «Esercizi “classici” come gli squat ci permettono di interiorizzare i movimenti che spesso facciamo nella vita di tutti i giorni ed eseguirli correttamente», afferma Zollinger.

L’importanza del riciclaggio

Attualmente in Ticino ci sono sette centri Activ Fitness, in autunno ne apriranno altri due.

Tutte le lingue sono importanti

Info Migros ◆ Consigli per favorire la crescita in un ambiente multilingue

Altri benefici

Durante l’allenamento si riducono gli ormoni dello stress, mentre il corpo rilascia gli ormoni della felicità. L’allenamento della forza contribuisce anche a un migliore equilibrio interiore: in fondo, il tempo in palestra è un regalo che si fa a sé stesse!

Informazioni

Tutti i centri Activ Fitness offrono una consulenza individuale. Maggiori informazioni sull’allenamento della forza per le donne:

L’apprendimento della lingua locale è prevista da molti programmi di integrazione per adulti. I bambini in età prescolare, invece, hanno esigenze diverse: per svilupparsi bene dal punto di vista linguistico ed emotivo hanno bisogno anche della prima lingua o delle prime lingue parlate dalle loro persone di riferimento in ambito domestico. I bambini hanno un vero e proprio talento per le lingue. Le ricerche dimostrano che in un ambiente multilingue ne imparano facilmente diverse. I presupposti che li aiutano nell’apprendimento sono due.

In famiglia prevale la «lingua del cuore»: con i figli i genitori parlano la loro prima lingua (o le loro prime lingue), ossia la lingua del cuore, quella più vicina al genitore. La prima lingua rafforza il rapporto con il bambino e contribuisce a formarne l’identità. Per questo è una lingua che appartiene all’ambiente domestico.

Info Migros ◆ Se ne è parlato anche in occasione del recente Consiglio di cooperativa di Migros Ticino

Migros ha sempre avuto un occhio di riguardo per l’ambiente, e da tempo si impegna, fra le altre cose, anche nell’ambito del recycling. Ciò è stato chiaro anche in occasione del più recente Consiglio di cooperativa, tenutosi a Sant’Antonino lo scorso 10 giugno.

Dopo un focus sul progetto per il riciclo delle plastiche miste che, nel 2024, ha contribuito a raccogliere 9,1 tonnellate di materiali, corrispondenti a circa 32’974 kg di gas a effetto serra e a circa 7’498 l di petrolio, si è passati a un bilancio per quanto riguarda lo smaltimento dei rifiuti operativi, ossia quelli prodotti da Migros Ticino. Ne abbiamo parlato con Andrea Skory, responsabile della logistica di Migros Ticino.

Andrea Skory, Migros ha un ruolo sempre più attivo anche nell’ambito del riciclaggio. Qual è stato il bilancio nell’ambito dello smaltimento dei rifiuti operativi?

Noi abbiamo l’obiettivo costante di raggiungere un tasso di riciclaggio dell’80% per tutti i rifiuti prodotti da Migros Ticino.

E a quale percentuale siete arrivati? Siamo al 79,1%. Negli ultimi 5 anni siamo sempre riusciti a raggiungere questa percentuale.

E cosa manca a Migros Ticino per arrivare all’80%?

Credo vi sia ancora un piccolo margine di miglioramento possibile da

parte delle collaboratrici e dei collaboratori di Migros Ticino. Occorre comunque notare come negli ultimi anni il volume dei rifiuti si sia ridotto di quasi un quarto: dalle 4000 tonnellate siamo passati alle 3000.

È prevista una strategia per l’implementazione di quello 0,9% che

vi manca per arrivare all’80%?

La strategia è sempre stata quella della formazione che facciamo regolarmente nelle filiali. Ora stiamo sviluppando anche un e-learning per tutti i collaboratori sul sistema di smistamento dei rifiuti.

Questo progetto di riciclaggio coinvolge anche attori esterni all’azienda?

No, ce ne occupiamo solamente noi, tutt’al più chiediamo un aiuto allo smaltitore.

Migros Ticino da tre anni pratica anche il cosiddetto riciclo secondario. Di cosa si tratta?

Si tratta, per ora, di un unicum in Migros: in pratica, prima di essere bruciati nel termovalorizzatore, i sacchi vengono aperti con un «ragno» alla ricerca di ulteriori rifiuti riciclabili come ad esempio cartone, plastiche ecc. Questo tipo di riciclo ora viene implementato anche nelle altre cooperative Migros. Abbiamo degli scambi regolari tra di noi, anche grazie ai workshop organizzati diverse volte all’anno.

La lingua locale si aggiunge attraverso il gioco: al di fuori della famiglia i bambini scoprono la lingua locale. Prima lo fanno, meglio è. A tale scopo servono luoghi d’incontro come quelli offerti da progetti multilingue o asili nido. Giocando con gli altri, i bambini entrano in contatto con la lingua locale e allo stesso tempo mettono alla prova la loro prima lingua. Ogni lingua con cui un bambino cresce è importante, nessuna è meno preziosa delle altre e nessuna ha la priorità sulle altre. «ici. insieme qui.» sostiene progetti e luoghi di incontro che promuovono la crescita multilingue: centri di quartiere, centri per famiglie, gruppi di gioco multilingue e altro ancora.

Per conto di «ici. insieme qui.» l’Alta scuola pedagogica di San Gallo ha accompagnato otto progetti e interpellato oltre 80 genitori. Ne sono scaturiti alcuni suggerimenti ora confluiti nella pubblicazione Tutte le lingue sono importanti!

Ordinare l’opuscolo L’opuscolo pieghevole contiene consigli pratici concepiti per aiutarvi ad affiancare i bambini e i loro genitori in un ambiente multilingue.

Per lo studio completo dell’Alta scuola pedagogica di San Gallo:

Il riciclaggio fa parte degli obiettivi aziendali.

SOCIETÀ

Senza figli per scelta

Storie di donne che hanno deciso di non essere madri sfidando un tabù che persiste nella nostra società e alimenta la retorica sull’istinto materno

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Promuovere la salute per tutti

Stare bene non è solo una questione individuale ma è una sfida per tutta la società: il ruolo chiave di Promozione Salute Svizzera

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Al telefono risponde il chatbot C’è sempre più tecnologia nell’assistenza ai clienti, la consulenza erogata da persone in carne ed ossa sopravviverà?

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Le catastrofi mettono a nudo le disuguaglianze

Intervista ◆ Comprendere l’impatto sociale di terremoti, alluvioni ed epidemie serve per limitare i rischi e superare l’angoscia

Per secoli i disastri, dalle eruzioni vulcaniche ai terremoti, passando per le alluvioni e gli uragani, sono stati interpretati come accadimenti naturali disgraziati. Si credeva che fossero il risultato della cattiva sorte oppure dell’imperscrutabile volontà divina. La stessa etimologia del termine disastro evoca la presenza di una cattiva stella, con il prefisso «dis», che ha valore peggiorativo, e il termine «astro», per indicare l’influsso sugli eventi un tempo attribuito ai corpi celesti. Ma quando pensiamo alle catastrofi, ci sono molti altri fattori da considerare oltre alla sfortuna. La sociologa Marilin Mantineo ha scritto un libro sul tema, intitolato Per una sociologia dei disastri (FrancoAngeli).

Marilin Mantineo com’è nato lo studio dei disastri?

La storia dello studio sui disastri riflette l’evoluzione del nostro modo di intendere la relazione tra natura, società e rischio. Per secoli, le catastrofi sono state considerate eventi eccezionali e incontrollabili. Soltanto negli anni Settanta del Novecento si è affermato un approccio critico e socio-antropologico. Oggi i disastri sono letti come processi politicamente situati, che mettono in discussione modelli di governance, relazioni di potere e disuguaglianze.

Perché è importante studiare i disastri?

I disastri ci permettono di capire le dinamiche profonde delle società contemporanee. Non sono semplici eventi estremi, ma momenti rivelatori: mettono a nudo le disuguaglianze, evidenziano chi è esposto, protetto, ascoltato e ignorato. Svelano il funzionamento (o la crisi) delle istituzioni, il grado di fiducia sociale e la capacità di agire collettivamente. Ma un’alluvione, un terremoto o una crisi pandemica non sono solo lacerazioni: permettono anche di aprire spazi di possibilità. Accelerano trasformazioni, stimolano nuove forme di azione collettiva, obbligano a ridefinire le priorità.

Perché abbiamo la sensazione che oggi ci siano più disastri di una volta?

Disastri e pandemie hanno sempre attraversato la storia umana, ma ciò che è cambiato è il nostro modo di viverli, raccontarli e anticiparli. La nostra è una società iperconnessa e iper mediatizzata, dove ogni evento drammatico ha una risonanza immediata e globale. La complessità dei sistemi ecologici, sanitari ed economici rende evidente la nostra interdipendenza planetaria: una frana o la diffusione di un nuovo virus non sono più percepiti come eventi

locali, ma come segnali di una crisi più ampia. Questa sensibilità è anche il riflesso di un conflitto strutturale sempre più evidente tra il mondo umano e l’ambiente, generato da un modello di sviluppo fondato su estrazione, accumulazione e consumo illimitato.

Come possiamo convivere con il senso del rischio imminente senza cadere nel catastrofismo?

Serve una cultura del rischio che non sia ansiogena, che non alimenti la paura ma la responsabilità. Come ha mostrato Ulrich Beck (La società del rischio, 1986), viviamo in un’epoca in cui il pericolo è la regola. La risposta non può essere né la negazione né il fatalismo. Occorre, invece, politicizzare il rischio: leggerlo come costruzione sociale, effetto di scelte politiche, economiche, istituzionali. Significa riconoscere che è distribuito in modo diseguale. Come spiego nel mio libro, convivere con l’incertezza non significa adattarsi passivamente, ma sviluppare strumenti per

agire: rafforzare le relazioni comunitarie, valorizzare i saperi locali, costruire solidarietà ecologica e sociale.

Ci sono gruppi sociali maggiormente colpiti dai disastri?

Sì, e questo è un punto fondamentale. I disastri non colpiscono in modo neutro, ma rivelano – e spesso aggravano – disuguaglianze già esistenti. La vulnerabilità è prodotta socialmente: dipende da fattori come classe, genere, etnia, disabilità, età, status migratorio. L’idea del disastro come «livellatore sociale» è stata ampiamente smentita. Studi empirici, come quelli sull’uragano Katrina, hanno mostrato come le popolazioni afroamericane povere di New Orleans siano state le più colpite, non solo dall’evento in sé, ma dall’assenza di protezione istituzionale e dalla violenza della ricostruzione.

C’è chi si arricchisce con i disastri?

I disastri non sono solo tragedie: per alcuni rappresentano vere e proprie opportunità. È ciò che Naomi Klein

ha definito disaster capitalism: l’utilizzo strategico delle crisi per imporre privatizzazioni, riforme neoliberali, espropriazioni. Dopo l’uragano Katrina, ad esempio, il sistema scolastico pubblico di New Orleans è stato smantellato e sostituito da scuole private, mentre imprese e fondi speculativi hanno guadagnato dalla ricostruzione. Lo stesso è avvenuto in Sri Lanka dopo lo tsunami del 2004, con lo sfratto delle comunità costiere per favorire il turismo di lusso. I processi di ricostruzione possono essere governati per rafforzare interessi preesistenti, rafforzando chi ha già potere e capitale. Il disastro diventa così un dispositivo di accumulazione, che seleziona chi perde e chi vince.

Una parte del suo libro è dedicata alla pandemia Covid-19. Come società abbiamo cercato di rimuovere quel che è accaduto. Ma c’è chi ne paga ancora le conseguenze. Quali sono le sue valutazioni?

La pandemia è stata molto più di un’emergenza sanitaria: è stata una

crisi sistemica, una «sindemia», secondo l’approccio di Merrill Singer, in cui fattori biologici, ambientali e sociali si sono intrecciati. Ha colpito in modo diseguale, aggravando condizioni preesistenti: la precarietà lavorativa, le disuguaglianze territoriali, l’indebolimento dei servizi pubblici. Non è stata «la stessa pandemia per tutti»: anziani, migranti, donne, persone con disabilità e lavoratori essenziali hanno pagato un prezzo altissimo. Eppure, passato il momento più acuto, si è preferita una narrazione della ripartenza che ha rapidamente rimosso il vissuto di sofferenza e abbandono. Questa rimozione non è solo culturale, ma politica: ha impedito un’elaborazione collettiva, un ripensamento delle priorità, una ricostruzione del senso di responsabilità pubblica. Al contrario, sarebbe stato necessario costruire una memoria sociale, archivi dell’esperienza, interrogare la governance dell’emergenza e ripensare radicalmente le nostre priorità collettive.

New Orleans dopo l’uragano Katrina nell’agosto 2005. (Wikimedia)
Stefania Prandi

Un taglio tenero e ricco di sapore

Attualità ◆ La Picanha non può mancare durante la stagione estiva. Questo taglio succulento è la scelta ideale per arricchire di gusto e creatività ogni grigliata in buona compagnia

Particolarmente diffusa nella cucina brasiliana, la Picanha, nota anche come codone di manzo o cappello del prete per la sua forma triangolare che ricorda il copricapo del sacerdote, è un taglio bovino ottenuto dalla parte posteriore della coscia dell’animale, che si caratterizza per lo spesso strato di grasso presente su un lato del muscolo.

Grazie al fatto che durante la cottura il grasso si scioglie lentamente, si ottiene una carne molto aromatica, succosa e morbida. La Picanha può essere cotta intera, o tagliata a fette spesse e infilzata su uno spiedo.

Il modo più semplice e gustoso per prepararla è cuocerla alla griglia. Fondamentale è non rimuovere lo strato di grasso che la riveste, per ottenere una carne ricca di sapore e succosità.

Togliere la carne dal frigorifero almeno mezz’ora prima della preparazione affinché raggiunga la temperatura ambiente e la cottura risulti uniforme. Insaporire la carne con del sale grosso e una spolverata di pepe macinato e lasciare riposare per qualche minuto. A piacere aggiungere qualche ago di

Delizia dal forno

rosmarino. Accomodare la carne sulla griglia ben calda con lo strato di grasso rivolto verso il basso e cuocere per ca. 5 minuti. Abbassare la temperatura (o alzare la griglia) e continuare la cottura a fuoco medio per una trentina di minuti, girando regolarmente la carne. La temperatura ideale al cuore dovrebbe essere di ca. 55°C, al sangue/media, in modo da apprezzare tutta la qualità di questo taglio straordinario. Togliere la carne dal fuoco e avvolgerla in un foglio di carta alu, lasciandola riposare per una decina minuti. Tagliare la carne a fette non troppo sottili e servire subito.

Azione 25%

Cappello del prete (Picanha) IP-SUISSE per 100 g, al banco Fr. 3.60 invece di 4.80 dal 17.6 al 23.6.2025

Attualità ◆ La pinsa romana Anvedi! permette di portare in tavola in pochi minuti un piatto gustoso e versatile da farcire a piacimento

Realizzata con semplici e genuini ingredienti come lievito madre naturale, olio extravergine di oliva, farina di frumento e semola di grano duro; stesa a mano; cotta su pietra e pronta in cinque minuti in forno dopo averla farcita come vuoi tu: con la Pinsa Gourmet Anvedi! è facilissimo servire un piatto irresistibile in grado di accontentare i gusti di tutti i commensali. Croccante fuori e morbida dentro come vuole la tradizione, questa specialità rappresenta l’alternativa ideale e più leggera alla classica pizza. E in fatto di farciture, non ci sono praticamente limiti alla fantasia: impossibile, per esempio, resistere alle sfiziose varianti come mortadella e pistacchi oppure ancora prosciutto crudo, pomodorini e burrata; ma anche le versioni vegetariane con verdure grigliate o a base di pesce con salmone o gamberetti deliziano il palato; perché invece non gustarla semplicemente come focaccia, con l’aggiunta di un filo d’olio e rosmarino fresco?

La pinsa ha origini antichissime che risalgono all’antica Roma e può essere considerata la precorritrice della piz-

za. Rispetto a quest’ultima, si differenzia per la migliore digeribilità e la tipica forma allungata. Il termine «pinsa» deriva dal latino «pinsere», che significa schiacciare, allungare, pigiare… che corrisponde appunto all’operazione di stendere l’impasto esercitata dagli antichi fornai.

Un cuore di pomodoro

Attualità ◆ Il Cuore di bue di produzione locale è sulla cresta dell’onda durante i mesi più caldi. Un ingrediente indispensabile per molte ricette stagionali

Il pomodoro Cuore di bue è sempre più apprezzato dai consumatori svizzeri. E non è sicuramente un caso. Questo ortaggio cuoriforme si caratterizza per le sue grosse dimensioni, con un peso che a volte può raggiungere anche il mezzo chilo, la sua polpa carnosa, povera di succo, e l’aspetto costoluto. Il suo sapore dolce e aromatico conquista facilmente ogni palato.

Il Cuore di bue è consumato principalmente crudo. È per esempio ideale per l’insalata caprese con mozzarella e basilico fresco, semplicemente da solo a fette con l’aggiunta di un filo d’olio d’oliva, oppure si presta bene per preparare delle gustose bruschette per l’aperitivo. Inoltre, grazie alla sua consistenza soda, è indicato per la preparazione dei pomodori ripieni con gli ingredienti più svariati, sia vegetali che non.

Azione 25%

Pomodoro Cuore di bue Ticino, al kg Fr. 4.20 invece di 5.60 dal 17.6 al 23.6.2025

Per mantenere al meglio l’aroma del pomodoro, è bene non conservarlo in frigorifero. Il freddo interrompe infatti il processo di maturazione. L’ideale è conservarlo a temperatura ambiente, possibilmente al buio.

Questo pomodoro a grossi frutti esige molta luce e calore per crescere bene; pertanto, nel nostro Cantone, trova il clima ideale per uno sviluppo ottimale, dove viene prodotto tra metà maggio e metà settembre. È coltivato in serra e tunnel. Dalla messa a dimora delle piantine alla raccolta dei primi frutti passano ca. 10-11 settimane.

SPECIALE ESTATE: FINO

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Apertura straordinaria GIOVEDÌ 19 GIUGNO

Festa di Corpus Domini

Giovedì 19 giugno i seguenti punti vendita Migros saranno aperti dalle ore 10:00 alle 18:00

Biasca Arbedo-Castione Bellinzona Nord

Bellinzona Giubiasco Riazzino

Centro S. Antonino Minusio Losone (incl. Do it)

Taverne (Supermercato) Pregassona

Centro Lugano Centro Agno Centro Grancia*

Mendrisio Campagna Adorna

Centro Shopping Serfontana VOI Sementina

VOI Viganello VOI Lugano-Roncaccio

(*Centro Grancia chiusura ore 19:00)

migrosticino.ch

Donne che scelgono di non avere figli

Incontri ◆ Storie di chi ha deciso di sradicare la retorica sull’istinto materno e abbattere un tabù che persiste nella nostra società

Alcune persone decidono di non diventare genitori e non ci vuole per forza un motivo. Cioè: di buoni motivi ce ne sarebbero a bizzeffe, ma forse più che altro è chi ha figli che dovrebbe essere consapevole di una scelta così definitiva e importante. «Ci vuole un perché sì, non un perché no», ha detto una ragazza alla quale è stata posta l’indiscreta domanda sulle sue ragioni per non volere figli. È soprattutto alle donne che si chiede con insistenza. Si dà per scontato che tutte vogliano diventare madri, che sia naturale (il famoso orologio biologico che dovrebbe ticchettare dentro di noi e spronarci alla riproduzione) e soprattutto che sia gratificante. La gioia della vita. E, invece, ce ne sono di donne (e di uomini e di coppie) con la vita piena e soddisfacente ma senza figli. Tutte mi raccontano di quanto la pressione sociale non riesca a staccarsi da un modello unico di famiglia: coppia sposata con figli. Uno è poco, tre sono tanti, due è ideale. «Io da bambina volevo diventare una grande madre, avere quattro, cinque o sei figli», racconta Sibilla. «Crescendo ho cambiato idea, ma mi pareva che dire di non volere nessun bambino fosse un tabù. Mi pareva di essere meno femminile. Si parla tanto di questo amore potente, incondizionato, impareggiabile, che è l’amore materno. Le madri, la Madonna: abbiamo dei modelli in letteratura, pittura, storia, religione, che inneggiano alla più bella storia d’amore possibile, quella tra una madre e i suoi bambini... Però non era il mio desiderio, era quello degli altri, della società. Poi le amiche hanno cominciato tutte a fare figli. Spesso dicevano che era faticoso, che la vita era diventata un sacrificio. Mi dicevano, quasi compiaciute: “Tu non puoi capire, tu non hai figli ..” Mi facevano sentire inadeguata, diversa, minore. Però ho tenuto duro, sono rimasta in contatto con me stessa e con i miei desideri. Ho ascoltato nel mio profondo e non ho sentito arrivare quello di maternità, quindi non ne ho fatti».

«Poi le amiche hanno cominciato tutte ad avere figli, mi facevano sentire inadeguata, diversa, minore»

Questo è il racconto di una donna che oggi ha 49 anni e a cui abbiamo cambiato il nome; sembra aver aspettato tutta la vita per poter raccontare questa parte della sua storia. Non vuole convincere nessuno che la sua scelta sia migliore, più etica, più ecologista o femminista dell’altra; vorrebbe solo che le persone la considerassero una decisione altrettanto legittima e responsabile quanto quella di procreare.

Ho vari amici artisti che hanno deciso di non fare figli e in quell’ambiente rimanere liberi/e da creature che dipendono da te è più accettato. «Guardavo la mia agenda e non c’era mai spazio. Dovevo andare in tournée quest’anno, e l’anno dopo e quello dopo ancora. E poi sarebbe stata l’ora di creare un nuovo spettacolo», mi racconta Despina, attrice e performer. «I miei figli sono le mie creazioni artistiche, non ho avuto bisogno di altro. Credo che molti facciano bambini perché è una bella avventura e anche per lasciare un segno dietro di sé. Io spero che la mia arte sia il mio lascito; di sicuro è l’avventura più

bella che potrei desiderare». Un altro amico, regista cinematografico, mi ha detto: «Non voglio essere genitore di nessuno. Faccio già fatica a badare a me stesso».

Una danzatrice invece mi racconta: «È stato difficilissimo passare dai 40 ai 50 anni senza cogliere l’ultima occasione di diventare madre; volevo congelare gli ovuli, perché pensavo che prima o poi dovevo mettermici, come tutti gli altri. Ho paura – ancora adesso – di essermi persa qualcosa di fondamentale. Temo di pentirmene, di restare sola, di aver mancato la cosa più importante nella vita di una donna. Secondo me, però, io nel mio lavoro raggiungo il massimo delle emozioni che questa Terra può darmi. Ma se ascolto quello che si dice in giro sulle gioie della maternità, mi vengono i brividi. È un segreto a cui non avrò mai accesso». Esattamente come noi, mi viene da dire, non sapremo mai che cosa si prova a volteggiare su un palco, davanti a mille persone, concentrate nel presente come solo lei e le sue colleghe sanno fare.

Sibilla si chiede anche se avere figli sia sempre una gioia più grande del non averne; si domanda se esista veramente quel fantomatico istinto materno o se sia solo una costruzione sociale (perché a certe non viene se è un istinto? E quello paterno esiste? Qualcuno si è dato la briga di studiarlo davvero? E se bastasse l’istinto di procreare, allora a che cosa serve il piacere sessuale? È giusto fare i figli solo per la piramide demografica?); Sibilla domanda, ancora: «Noi ci chiediamo spesso che cosa ci perdiamo a non fare figli, ma il contrario è lecito? Voi vi date il diritto di chiedervi che cosa vi siete perse, nei vostri anni migliori, a livello di lavoro, di sessualità, di tempo libero?».  Questioni difficili, e certamente legittime. Vado dunque dalla psicologa, sessuologa e medico Isabel Londoño Aguilar, per farmi dare alcune risposte da lei. Con mia sorpresa parte da sé stessa: «Lavoro spesso con persone migranti, tengo corsi di salute sessuale agli allievi del pretirocinio. Quando mi presento dico loro che anche io arrivo da un altro Paese e spiego chi sono: una donna divorziata, risposata, di 43 anni, che ha deciso insieme a suo marito di non avere figli. Quando dico così, tutti mi chiedono: “Perché?” E spesso aggiungono: “Ma allora cosa fai? Cosa ne pensa la tua famiglia?” E ancora: “Chi si prenderà cura di te, quando sarai vecchia?” Le donne di solito ascoltano più silenziose. Qualcuna poi viene a dirmi che ha capito delle cose; che non si immaginava che si potesse scegliere un futuro diverso. Si tratta sempre dello stesso discorso: con il nostro corpo, facciamo quello che vogliamo».

Essere donna non significa avere un utero o avere la possibilità di una gravidanza; si può benissimo essere donna senza figli. E bisogna fare attenzione al ritorno del patriarcato in certe società: la nuova élite di autocrati che vorrebbero governare il mondo ha una visione molto tradizionale dei ruoli maschili e femminili.

Isabel mi spiega le sue motivazioni personali: «A me piacciono i bambini, ma a dosi moderate; vivo in Svizzera senza la mia famiglia, non ho una folta rete sociale e famigliare, solo alcune amiche, e so che non basta. La mia vita con mio marito adesso mi piace moltissimo, non vorrei cambiarla. Quando stiamo troppo insieme, io parto in viaggio. Adoro il mio lavoro

e ho lottato per svolgerlo in un altro Paese. Non da ultimo: non mi piace il mondo così come è, non mi piacciono i mali che lo affliggono, come la violenza, il cambiamento climatico, le disuguaglianze. Non mi dà voglia di mettere al mondo qualcuno a cui vorrò tanto bene. E nella coppia la pensiamo allo stesso modo, ce lo siamo detti fin da subito».

Mi racconta che purtroppo però per alcune persone, la scelta di non fare figli ha una natura diversa: «Ci

sono donne (o coppie) che rinunciano ad allargare la famiglia anche se vorrebbero; non se lo possono permettere finanziariamente; mancano le condizioni sociali, la vita è troppo cara e se entrambi devono lavorare, il carico che arriva con uno o più figli è ingestibile. Per certe donne, in più, c’è il pensiero che la quasi totalità del lavoro ricadrà su di loro. Nel mio Paese, in Colombia, da alcuni anni vengono distribuiti contraccettivi gratuitamente e da allora la natalità è calata in

modo chiarissimo. Questo ha un solo significato: prima, non tutti i bambini che nascevano erano desiderati». E ognuno di noi, invece, vorrebbe sapere di essere frutto dell’amore dei suoi genitori e non di uno sbaglio. Riguardo ai bambini, la dottoressa Londoño aggiunge un importante spunto di riflessione: «Ho avuto pazienti, uomini e donne, che mi parlavano del loro desiderio di genitorialità. Mi dicevano che non volevano adottare bambini, volevano unicamente averli in modo biologico, “per trasmettere loro i propri geni”. È interessante riflettere sulle ragioni che ci muovono alla genitorialità. Quanto conta l’idea che vogliamo lasciare una traccia dietro di noi? Se facciamo figli per continuare la nostra storia individuale è segno che consideriamo i figli come un’estensione di noi stessi/e. Come se i bambini fossero un pezzo del papà e della mamma, invece che persone a sé stanti». La scelta di dare alla luce un nuovo individuo è invece qualcosa di diverso. Un giorno una signora saggia, molti anni fa, mi aveva detto: «Ma Sara, che cosa sono i figli? I figli sono le piante che cresci, i tuoi nipoti che porti a mangiare il gelato, sono le persone che incontri nella vita e che prendi per mano. Non ti affannare: se non vuoi figli tuoi perché hai altro da fare, non ti preoccupare. L’amore lo puoi mettere ovunque».

Isabel Londoño Aguilar
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Stare bene, una questione individuale e sociale

Salute ◆ L’attenzione al proprio benessere fisico e mentale deve essere sostenuta in tutte le fasi

chiave di Promozione Salute Svizzera

In un’epoca in cui la speranza di vita è in evoluzione esponenziale, le malattie croniche sono in costante aumento e i costi sanitari continuano a crescere, la promozione della salute non è più un lusso, ma una necessità. Ci sono gesti che migliorano la salute senza che ce ne accorgiamo: una passeggiata all’aria aperta, un pranzo equilibrato, una conversazione che ci aiuta a ritrovare il sorriso. Ma dietro a questi piccoli momenti di benessere c’è spesso un lavoro invisibile, fatto di strategie, progetti e collaborazione. In questo contesto, illustrato fra passato, presente e futuro nel recente Rapporto di gestione 2024, Promozione Salute Svizzera (PSS) svolge un ruolo chiave e lavora ogni giorno «per rendere queste scelte sane più accessibili a tutti, ovunque». La missione è semplice ma ambiziosa, volta ad aiutare le persone a vivere meglio e più a lungo in buona salute. Per farlo, mette in campo una rete di azioni concrete: nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nei Cantoni e nei Comuni con iniziative che spaziano dalla salute mentale alla prevenzione delle malattie croniche.

La Fondazione nel prossimo quadriennio vuole rafforzare anche la promozione della salute mentale

Presidente del Consiglio di fondazione dal 2025 è il Consigliere di Stato Raffaele De Rosa, capo del dipartimento Sanità e Socialità (DSS) il quale, con il motto «Salute per tutta la popolazione, insieme e a lungo termine», sottolinea di essere onorato del suo ruolo di presidente di PSS, contribuendo a plasmarne il futuro: «La salute è il nostro bene più prezioso (e per salute non intendo solo quella individuale, bensì la salute di tutta la società). Per questo motivo ci prodighiamo per assicurare una promozione della salute e prevenzio-

ne per tutte le persone in Svizzera, in una prospettiva a lungo termine». A questo proposito, il direttore del sodalizio dottor Thomas Mattig ribadisce l’importanza della collaborazione con Cantoni, ONG e altri partner essenziali, riassumendo così l’operato e aprendo la porta ai propositi futuri: «La valutazione della strategia 2019 –2024 ha confermato il raggiungimento dei nostri obiettivi». Una strategia nell’ambito della quale si è concentrata l’attenzione sull’obiettivo prioritario che coinvolge Cantoni, imprese, attrici e attori della sanità pubblica, «rafforzando il proprio impegno a favore della promozione della salute e della prevenzione, sfruttando le possibili sinergie e verificando l’efficacia delle proprie attività».

Alla luce di questo bilancio positivo, per i prossimi anni la Fondazione ha deciso di puntare sulla continuità, «pur introducendo alcune novità nella strategia per il periodo 2025 - 2028 approvata nel corso dell’anno in esame». Si parla poi di «programmi d’azione cantonali per lo sviluppo di alcuni progetti pilota», con particolare attenzione alla prevenzione, fra i quali spiccano alcuni progetti importanti e necessari come lo sviluppo di un piano relativo alla salute mentale, a sottolineare l’importanza cruciale di quest’ultima nel quadro di un approccio integrato di promozione della salute: «Per garantire una maggiore coerenza nell’operato della Fondazione in relazione alla salute mentale è stato elaborato un piano con misure mirate che coprono tutti gli ambiti di intervento di Promozione Salute Svizzera, ovvero programmi d’azione cantonali, gestione della salute in azienda e prevenzione nell’ambito delle cure». Un approccio trasversale che consentirà di sfruttare maggiormente le sinergie all’interno della Fondazione e incrementare l’efficacia delle misure: «È inoltre importante rafforzare la promozione della salute mentale per consentire una risposta più

rapida ed efficace nelle emergenze». Il riconoscimento del sonno quale importante risorsa per la salute è un altro tema affrontato, fondamentale per il benessere e per la salute psicofisica: «Dormire bene è fondamentale. Alla luce del fatto che circa un terzo della popolazione in Svizzera presenta un disturbo del sonno, Promozione Salute Svizzera ha indetto un concorso per sostenere i progetti che contribuiscono a prevenire i disturbi cronici del sonno e le complicanze associate a tali disturbi». Dunque, nell’anno in esame la Fondazione ha promosso e contribuito alla costituzione della «Rete svizzera per il sonno» che persegue la visione di una migliore qualità del sonno in Svizzera, «e a tal fine si impegna a fare in modo che il sonno sia riconosciuto come importante risorsa per la salute». Un tema, questo, integrato anche nella campagna Salute Psi, promossa sempre dal sodalizio. Ma sono i programmi d’azione cantonale il tema su cui si vuole porre l’accento: «Attualmente ci impegniamo, in collaborazione con 25 Cantoni, a fare in modo che bambini, adolescenti e persone anziane seguano un’alimentazione equilibrata, facciano più attività fisica e abbiano una buona salute mentale. Incoraggiamo i Cantoni a promuovere la salute della propria popolazione, fornendo a tal fine un sostegno pratico e finanziario. Un programma d’azione cantonale è un accordo di collaborazione stipulato tra un Cantone e la nostra Fondazione. Grazie alla struttura modulare, i Cantoni possono combinare nel loro programma d’azione i gruppi target «bambini e adolescenti» e/o «persone anziane» con i temi «alimentazione e attività fisica» e/o «salute mentale».

Per quanto attiene pure alla realtà ticinese, citiamo alcuni progetti puntuali che vengono promossi con particolare attenzione ai giovani e agli anziani. Per i giovani, a partire dall’infanzia fino all’età adolescen-

ziale: «L’alimentazione e il movimento nei nidi dell’infanzia, con la formazione del personale educativo sull’alimentazione equilibrata; il progetto Capriola che sensibilizza e forma personale dei nidi d’infanzia sull’importanza del movimento per bambini da zero a quattro anni; il CoachProgram “Equilibrio e benessere”, una formazione di giovani coach su queste tematiche che promuovono la salute mentale e il benessere psicofisico tra i coetanei; EverFresh, programma di sensibilizzazione e formazione dei giovani sui rischi legati all’uso di sostanze che creano dipendenza; e infine Stress? Wir packen das!, un progetto che insegna ai liceali come aiutare i compagni a gestire lo stress in modo sano, sviluppando strategie di coping utili per la loro salute mentale». Per le persone anziane troviamo: «I centri diurni promotori di salute attraverso l’attività fisica, l’alimentazione equilibrata e la prevenzione delle cadute a domicilio nei centri diurni socio-assistenziali; i Comuni si fanno promotori

del tema dell’invecchiamento in salute con iniziative per promuovere sempre l’attività fisica, l’alimentazione equilibrata e la prevenzione di cadute a domicilio; l’attivazione di un servizio di consulenza telefonica contro la solitudine in età avanzata offre supporto emotivo e sociale agli anziani e a livello comunale si promuove il Fitness Park, spazi all’aperto in cui è possibile svolgere esercizi fisici adatti anche alle persone in età avanzata». Infine, il Ticino guarda al futuro, nel periodo 2025 - 2028, con il lancio della campagna «Viviamo Bene», accompagnata da nuovi Programmi d’azione cantonali (PAC) per la prevenzione e la promozione della salute: «Un’iniziativa che si basa sulla strategia 2030 del Cantone, e che punta a migliorare il benessere fisico, mentale e sociale di tutta la popolazione, favorendo ambienti sostenibili e inclusivi». Perché la salute non si costruisce solo negli ospedali, ma anche nelle nostre case, nelle nostre abitudini quotidiane, nei contesti in cui viviamo.

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Ci sono gesti che migliorano la salute senza che ce ne accorgiamo, come una passeggiata all’aria aperta. (Freepik.com)

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C’è un chatbot nel telefono

Tempi moderni ◆ Il mondo cambia a velocità supersonica e, volenti o nolenti, ci stiamo abituando a parlare con le macchine

Sarà capitato anche a voi di avere non una musica, ma una domanda in testa e, contemporaneamente, di provare il giustificato timore che una risposta a quella domanda potrebbe significare trascorrere al telefono almeno un quarto d’ora della vostra giornata. La domanda però è di quelle importanti e richiede una risposta chiara e sicura. Così si accetta di sfidare il destino e comporre il numero gentilmente indicato nella lettera – o nella mail –che accompagna l’oggetto che quella domanda ha generato e che viene offerto come possibile ancora di salvezza. Il numero inizia sempre con uno «0». Capita che in Ticino sia ancora seguito da un 91, ma spesso quello 0 può essere seguito anche da un 58 o da una serie di numeri a tre cifre: 840, 842, 844, 848. I più smaliziati sanno che ogni minuto di telefonata inciderà sulla bolletta telefonica per un massimo di 7.5 centesimi al minuto visto che quello 0840 (e seguenti) significa che si è in presenza di uno dei numeri «a ripartizione delle spese di comunicazione». È invece gratuita la chiamata a numeri che iniziano con 0800. Esemplificando: telefonare alla Swisscom (0800 800 800) non comporta costi, telefonare a LaPosta (0848 888 888) sì. Abbiamo provato tutti i tipi di numero scoprendo che questo nuovo mondo sta delegando, giorno dopo giorno, alla cosiddetta IA (Intelligenza artificiale) il compito di rispondere alle nostre domande.

Chi ti risponde

Torniamo alla telefonata. Una cosa accomuna i numeri che abbiamo testato: quando dall’altro capo il «tuuut» s’interrompe, a rispondere non c’è più una persona, ma una voce simile a quella di una segreteria telefonica. A dipendenza del destinatario della chiamata ecco la prima differenza. Avete chiamato un servizio attivo solo in Ticino? Il saluto sarà in italiano, al quale faranno seguito quelli in tedesco e in francese. È il caso delle AIL (058 470 70 70) che, dopo le presentazioni di rito a senso unico (tu che chiami devi ascoltare e stare attento alle istruzioni) la voce ti dice che se vuoi la conversazione in italiano devi digitare 1, 2 per il tedesco e 3 per il francese. Segue una nuova serie di istruzioni: per i guasti digiti 1; per prodotti e servizi 2; per traslochi 3; per fatturazioni 4; per informazioni 5; per condizioni tariffali e crisi energetica 6. Digitando 5 – informazioni – la voce gentile ti fa presente che puoi magari ottenere risposta a quel che ti serve consultando il sito web o accedendo con i tuoi dati (numero cliente e conto contrattuale) alla sezione «myail». Se invece vuoi parlare con qualcuno, immediatamente a disposizione c’è l’assistente virtuale, oppure puoi restare in attesa. Per quanto tempo? Difficile stabilirlo. Nel nostro caso, dopo 10 minuti una gentilissima operatrice in carne ed ossa ha consultato per e con noi le fatture fornendoci spiegazioni e istruzioni precise e comprensibili. Esperienza analoga, per quanto riguarda il prologo, all’Istituto delle assicurazioni sociali (IAS) del Cantone (091 821 91 11). Restare in attesa, in questo caso, si rivela però un errore. Sono le 10.25 e alle 10.40 la comunicazione s’interrompe senza preavviso. Ricomponiamo il numero alle 10.41 e optiamo per la via del «fai da te»: puoi inviare una mail, puoi consultare il sito, puoi an-

che – visto che la tua chiamata (come prima) è in coda – decidere di non perdere tempo in attesa. «Premendo il tasto 1 la richiamiamo noi». Quando? Non si sa. È invece noto l’appuntamento delle 11.15 in città. Non resta che rinviare la telefonata ad altro momento. Risultato? Tre quarti d’ora al telefono, ma almeno una domanda su due ha ottenuto risposta. Essendo in città per il famoso appuntamento cerco di schivare una nuova telefonata e passo in una delle sedi della mia banca (nello specifico la Banca Stato). Davanti agli sportelli ci sono diverse persone in attesa. Qualcuno scambia quattro chiacchiere. «Sa – dice un signore – io sono alla vecchia maniera. Preferisco venir qui e aspettare in fila piuttosto che parlare con una macchina. I pagamenti però, grazie a Pro Senectute, ho imparato a farli online». Che bello sentirsi un po’ meno soli! Decidiamo allora di rivolgere un paio di domande a Curzio De Gottardi, membro di Direzione generale e Responsabile dell’Area Prodotti e Servizi della Banca dello Stato. Quanta tecnologia c’è nell’assistenza ai clienti e quanto spazio è concesso a una consulenza personalizzata oggi e nel futuro? «L’assistenza e la consulenza erogata da persone – assicura De Gottardi – costituisce e costituirà sempre, per Banca Stato, un ruolo centrale. Durante gli orari di apertura la nostra clientela può sempre contattare il proprio consulente o quantomeno un operatore del nostro Centro Servizi Clientela e dunque relazionarsi da persona a persona, sia per questioni operative sia per domande più approfondite. Certo, negli anni abbiamo introdotto specifiche e puntuali tecnologie per ampliare tali possibilità anche dal punto di vista digitale nonché per migliorare e ottimizzare il concetto per noi vitale di vera vicinanza, ma mai a scapito del contatto personale. Da settembre 2024 l’Intelligenza artificiale ci aiuta a indirizzare con maggiore efficienza i clienti verso un operatore – in carne ed ossa – del servizio desiderato: a fronte dei sempre crescenti volumi di chiamate registrati in questi anni ciò porta a ridurre i tempi di attesa e a fornire un migliore servizio al cliente».

La centralità della persona

È una strategia che si rivela pagante? «Dal nostro punto di vista, sì – assicura Curzio De Gottardi – La centralità della persona è per noi indiscussa. È bene precisare che, negli anni, la Banca ha progressivamente arricchito i suoi canali digitali per offrire l’opportunità di svolgere specifiche e puntuali attività in autonomia. Penso ad esempio alle possibilità che l’e-banking include in merito alla sottoscrizione di un servizio di gestione patrimoniale o alla gestione delle proprie carte bancarie. Possibilità che vanno viste come un arricchimento degli strumenti messi a disposizione, ma non come una sostituzione del rapporto tra consulenti e clienti».

E alle FFS come vanno le cose? L’esperienza di chi scrive è faticosa (forse perché – sul fronte treni – sono ferma al palo da anni). Composto lo 0848 44 66 88 alle 10.55 per ottenere informazioni per un viaggio all’estero, schiaccio, in successione: il 3 per la lingua italiana, il 5 per «viaggi in Svizzera, all’estero e altre informazioni», il 2 per «viaggi all’estero»,

e parte il messaggio: la conversazione può essere registrata per motivi di qualità del servizio. Subito una signora vera risponde in… tedesco. «Scusi, non parla italiano?» «No, ma se vuole tra 5 minuti la richiama una collega italofona». «Sì, grazie». I saluti di rito e… inizia l’attesa. Sono le 11.03. Alle 11.12 squilla il telefono. Dall’altra parte c’è Beatrice: gentile, disponibile, pronta a darti una mano e le informazioni necessarie. Le domande e le risposte si succedono. «Lei ha un indirizzo e-mail che le mando i link dove può trovare le risposte alle sue domande?». L’indirizzo e-mail

viene fornito. Seguono i saluti e la fine della telefonata. Sono le 11.23. Alle 11.27 arriva la mail con i link. Passato e presente in un cocktail per me, finora, sconosciuto. Decido pertanto di disturbare Roberta Cattaneo, Direttrice regionale FFS, Regione sud e di rivolgere anche a lei la domanda su quanta tecnologia c’è nell’assistenza ai clienti e quanto spazio è ancora concesso alla consulenza personalizzata. «Rispetto al passato la tecnologia offre una maggiore varietà di canali di contatto e di richiesta di assistenza –assicura Cattaneo – Un esempio recente è il chatbot, attivato all’inizio

di aprile sul nostro sito e che utilizza l’Intelligenza artificiale per rispondere alle domande dei clienti. Le FFS desiderano in questo modo offrire ai propri clienti la possibilità di trovare rapidamente una risposta adeguata alle loro richieste, senza dover cercare sul sito web, recarsi in un Centro viaggiatori o contattare il Contact Center. All’avvio del chatbot, i clienti vengono informati che stanno comunicando con una macchina, ma in qualsiasi momento l’utente può chiedere di mettersi in contatto con un consulente tramite la live chat. Inoltre, chi preferisce un incontro di persona può fissare un appuntamento nei nostri Centri viaggiatori di Bellinzona o Lugano attraverso la homepage del nostro sito (www.sbb.ch). Il nostro obiettivo è fornire un supporto mirato, rispondendo in modo chiaro e comprensibile a ogni richiesta».

Effetto boomer

Tutto dunque funziona alla perfezione? Ferma davanti a un semaforo prendo atto di essere, a tutti gli effetti, una boomer. Guardo le aiuole piene di fiori, le mille tonalità di verde che si affacciano dai rami degli alberi che costeggiano il lago. È così bella la primavera quando c’è il sole. Un miracolo che si ripete ogni anno senza bisogno di nuove tecnologie.

ATTUALITÀ

Il diritto di esistere

In Kenya molte famiglie vengono espropriate della propria terra a favore di occidentali e Governo. Ma c’è chi dice no

Pagina 14

Le criptovalute conquistano il mondo Scopriamo qualche curiosità su Bicoin e dintorni grazie a Lars Schlichting, avvocato ticinese, appassionato del tema

Pagina 15

Dobbiamo prepararci alla guerra?

Giappone in attesa di un rilancio

Un viaggio nelle sfide che hanno segnato e continuano a segnare un Paese a noi vicino ma anche decisamente lontano

Pagina 16

Svizzera ◆ I vertici militari chiedono più investimenti nella difesa ma la pace si costruisce anche su altre fondamenta

In uno degli scatti della sua prima conferenza stampa, Martin Pfister – vestito blu, camicia bianca – scende di slancio dalla torretta di un carro armato. Un’immagine che è quasi un simbolo della vigorosa azione e dell’urgenza che il neo consigliere federale si appresta a chiedere e a segnalare al Paese. Siamo a fine maggio, dieci giorni prima che al Consiglio nazionale venga discusso il messaggio sull’esercito, al quale una maggioranza della commissione preparatoria ha aggiunto un ulteriore miliardo per l’acquisto di munizioni per il sistema di difesa terra-aria. Ad opporsi, invece, è il campo rosso-verde, che non crede allo scenario di una guerra convenzionale terrestre. Un fronte del no che in Parlamento – la scorsa settimana – ha trovato il sostegno di chi non vuole compromettere l’equilibrio delle finanze. Dalla più grande piazza d’armi del Paese, Pfister ha però voluto lanciare un messaggio chiaro e un po’ inquietante. Tutti gli esperti, afferma, sono concordi: Mosca sta preparando una guerra su larga scala, una nuova guerra che potrebbe scoppiare entro la fine di questo decennio, quando la Russia avrà sviluppato le sue forze armate a tal punto da poter sostenere un’attacco contro l’Alleanza atlantica.

Mosca starebbe preparando una guerra su larga scala che potrebbe scoppiare entro la fine di questo decennio

Uno scenario che vede minacciati prima di tutto gli Stati sul fronte orientale della Nato, un fronte che con l’entrata della Finlandia nell’Alleanza (nell’aprile del 2023) si è allungato di altri mille trecento chilometri. Ed è proprio questa nuova linea d’attrito che nelle ultime settimane ha destato preoccupazione, dopo la pubblicazione da parte del «New York Times» di immagini satellitari che mostrano la riapertura di basi russe e il dispiegamento di mezzi e uomini.

Gli esperti citati dal consigliere federale basano le loro considerazioni su alcuni elementi, primo fra tutti l’aumento vertiginoso delle spese militari russe. Dal 2023 al 2024 queste sono cresciute di oltre il 30%, passando dal 5,4% al 7,1% del Prodotto interno lordo (Pil). Una riconversione economica del Paese segno della determinazione di Vladimir Putin nel portare a termine la restaurazione dell’impero russo, del suo ruolo di potenza globale, rimettendo al contempo in discussione l’ordine mondiale post-Unione sovietica. È in quest’ottica che, da quasi 20 anni, dal discorso del 2007 a Monaco di Baviera, Putin si oppone all’avanzamento ad est della Nato, che lui per-

cepisce come una minaccia. Se sull’obiettivo geopolitico del Cremlino non ci sono molte discussioni fra gli osservatori, l’aumento del budget per la difesa alcuni lo ritengono invece insostenibile per la Russia, uno stimolo dunque a cercare la pace piuttosto che a impegolarsi in nuove guerre. Viviamo però in un tempo in cui ciò che fino a ieri era impensabile diventa realtà e così la comunità internazionale, per evitare brutte sorprese, preferisce prepararsi allo scenario peggiore. Svizzera compresa. Martin Pfister rispolvera un concetto che dalla fine della Guerra fredda non avevamo più sentito: deterrenza militare. «Per mantenere la pace, bisogna assolutamente prepararsi alla guerra», afferma il colonnello dell’esercito a «LeTemps». Una preparazione per la quale il Parlamento ha deciso di dedicare l’1% del Pil entro il 2032. A titolo di paragone, sul finire della guerra fredda (1990) alla difesa era attribuito l’1,35% del Pil, equivalente al 16% dell’insieme delle uscite della Confederazione. Due anni fa eravamo scesi allo 0,74% ossia al 6,6% del budget.

I Paesi attorno a noi procedono a passo decisamente più spedito. La Germania ha rotto un tabù e ha deciso di togliere dal freno all’indebitamento le spese militari. I leader dei Paesi Nato potrebbero dire di sì all’obiettivo del 5% del Pil per la difesa (anche se c’è chi afferma che non è la quantità di risorse messe a disposizione il vero scoglio, ma piuttosto l’assenza di coordinazione tra Stati).

È necessario promuovere i diritti umani, il diritto internazionale umanitario, la cooperazione tra Stati e organizzazioni

Una scelta sulla quale pesa la pressione degli Stati Uniti, che dopo la rielezione di Donald Trump sono tornati a minacciare di uscire dall’Alleanza e di abbandonare il vecchio Continente al suo destino.

Una questione centrale anche per la Svizzera. Come Paese al centro dell’Europa beneficiamo dell’ombrello protettivo della Nato dalla sua fon-

dazione, ma appunto anche su questo fronte tutto sta cambiando rapidamente. «Dobbiamo riconoscere che non è più certo per quanto tempo la Nato sarà in grado di svolgere il suo ruolo attuale», ha affermato Pfister in un’intervista al gruppo CH-Media. Ancora più cupe le affermazioni del vicecapo dell’armamento Thomas Rothacher alla «NZZ». Secondo lui i nostri partner europei non hanno più fiducia in noi e confrontati alle stesse minacce ognuno pensa a sé e ai propri alleati, quelli che possono sostenerti militarmente in caso di attacco. Una logica questa nella quale la neutrale Svizzera non può che essere perdente. Rothacher conclude: «Non credo che ci aiuterebbero in caso di emergenza». Ecco spiegate le ragioni per le quali i vertici militari ritengono che la Svizzera debba essere indipendente in materie di difesa (investendo per ammodernare i suoi armamenti), ma non isolata. Ecco spiegato perché oltre ai soldi si insista sulla necessità di intensificare le collaborazioni con i vicini (come fatto recentemente in Austria coi mezzi blindati o in Italia con i jet).

Bisogna approfondire le relazioni, le conoscenze e superare le diffidenze. La pace si costruisce però anche su altre fondamenta. Lo dice bene il Dipartimento degli affari esteri nella sua pagina internet dedicata alla politica di sicurezza: in gioco entrano la difesa dello stato di diritto, la promozione del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani, la promozione della democrazia. E, aggiungiamo noi, la cooperazione internazionale negli ambiti della lotta alla povertà e della mitigazione dei cambiamenti climatici. Qui il nostro Paese vanta competenze e tradizione, qui può apportare il suo contributo alla definizione della nuova architettura di sicurezza europea e non solo. È in questi ambiti che la nostra neutralità acquisisce tutto il suo valore, che non si trasforma in indifferenza, che può essere un utile strumento anche per i nostri partner, che oggi fanno più fatica ad accettarla. Per avere sicurezza e pace, un balzo vigoroso in avanti (e non solo giù dalla torretta di un tank) lo deve compiere tutt’assieme la politica federale.

Pietro Bernaschina

«Difendiamo il nostro diritto ad esistere»

Reportage ◆ In Kenya molte famiglie vengono espropriate della propria terra a favore di occidentali e Governo. Ma c’è chi dice no Angelo Ferracuti, testo e fotografie

L’autista mi aspetta all’uscita della stazione di Mombasa, si chiama Tycus, è un ragazzo dai modi dolci, e subito partiamo insieme a Irene Sciurpa del Comitato europeo per la formazione e l'agricoltura (Cefa) per Kwale. Nella città turistica, a parte i resort davanti alla spiaggia bagnata dall’Oceano indiano, tutta la vita pubblica si svolge ai bordi della strada trafficata, piccole rivendite, mercati, posti ristoro e moschee; quella privata è nascosta nelle terre e le case dei villaggi lontani. In un piccolo edificio della città si trova la sede di Smart Move e di Radio Jay, un’associazione di attivisti che grazie a un progetto finanziato da Cefa difende il diritto alla terra. «Abbiamo scoperto che chi ascoltava il rock aveva una sensibilità diversa, si emozionava e diventava più empatico»

Questa iniziativa, sostenuta dall’Ue come parte del progetto Kujenga-Amani, si impegna a rafforzare la conoscenza delle comunità indigene sui diritti fondiari e a facilitare accesso legale per le comunità più vulnerabili nei distretti di Ukunda e Kinondo. Il loro leader si chiama Jamail Abdallah, un ragazzo barbuto, la testa rasata, quando lo incontro mi spiega che ha fondato l’emittente radio quando aveva 18 anni, «non c’erano molti spazi per i giovani, non avevamo voce nella comunità, e la radio è nata perché ci eravamo stancati di ascoltare la Bongo music, melodica, molto triste, tutto cuore e amore», così hanno cominciato a mettere brani blues, gospel, rock, raggae e regalavano un mp3 per

sintonizzarsi. «Abbiamo scoperto che chi ascoltava il rock aveva una sensibilità diversa, si emozionava e diventava più empatico», era il 2007, dopo la violenza post-elettorale il mondo stava cambiando, i ragazzi erano soprattutto online, «una frequenza radio era molto costosa, allora abbia-

la tua squadra

mo scelto di stare sul web». Adesso non fanno solo programmi musicali, ma producono anche podcast su temi sensibili alla comunità, informazioni su come diventare artisti, fotografi, e da una costola della radio nel 2022 è nata Smart Move, che significa «mossa intelligente», perché «tutti possiedono una intelligenza e possono dare un contributo» per fare azioni che producono cambiamento e mettono in moto trasformazioni sociali, sostiene Jamail. Ma ci tiene a precisare che la loro non è una organizzazione politica, «siamo il cane da guardia, i consiglieri della politica, noi viviamo nella comunità e conosciamo i bisogni, cerchiamo interlocutori sensibili». Una delle loro attività è difendere il diritto alla terra, perché qui a Kwale nessun organismo pubblico si preoccupa di informare le persone più vulnerabili sui diritti fondiari e risolvere i conflitti per la proprietà, si tratta di gente povera che non ha studiato e non ha gli strumenti per capire i documenti. Dice che un personaggio del passato che ha ispirato la sua azione è Julius Nyerere, figura storica del socialismo e padre del panafricanismo, «quando gli inglesi volevano dare per prima alla Tanzania l’indipendenza, lui disse di no, o tutti siamo liberi o nessuno lo è, voglio che tutti i Paesi intorno siano liberi e indipendenti». Jamal ha formato un gruppo di giovani che ha chiamato «champion», attivisti della terra che nei prossimi mesi andranno nei villaggi a informare le comunità, aiutarli nelle questioni burocratiche e legali. Perché questa era la terra dei Digo, uno dei gruppi

etnici della costa, protetti dai Kaya, un consiglio di saggi anziani si riuniva nelle foreste sacre chiamate Kaya. Qui la terra non veniva venduta, ma condivisa, affidata e custodita per generazioni. «La terra non è solo una proprietà, è un patrimonio» sostiene Jamail. Oggi le cose stanno cambiando rapidamente: turismo, vendite di terreni e titoli privati minacciano le antiche usanze. Il passaggio dalla legge comunitaria e tradizionale al titolo «statale» ha stravolto i tradizionali rapporti territoriali. Ma la terra diventa anche luogo dell’immaginario e della memoria, incrocia la storia di questo Paese, è il luogo principe dell’esistenza, dove si mette radici, si vive e lavora, e dove ancora è forte il vincolo ancestrale e comunitario. A Kwale adesso c’è un problema molto diffuso, come mi ha spiegato un funzionario del Governo, «puoi trovare intere aree abitate da migliaia di famiglie, ma purtroppo la terra non appartiene a loro», la possiedono ma non l’hanno registrata, oppure è stata sottratta illegalmente e data a occidentali che ci costruiscono resort di lusso per turisti. Qui operava anche un’azienda australiana, la Base Titanium, una miniera di sabbie minerali usate come pigmenti per vernici, carta e plastica, hanno convinto le comunità ad andarsene dando loro un piccolo risarcimento in danaro. Adesso hanno finito di estrarre e se ne sono andati, devono fare le bonifiche, nel frattempo il Governo ha deciso che quello è suolo pubblico, le famiglie che la abitavano non riavranno la terra indietro. I soprusi contro contadini o pescatori indifesi sono all’ordine del giorno come mi spiega Khalifa Marangi che appartiene alla comunità Digo di pescatori: «Noi abbiamo sempre usato le spiagge e il mare, adesso la terra ci è stata rubata da persone potenti, soprattutto dopo l’indipendenza è stata presa dagli stranieri per costruire alberghi», da quelli che chiama «muzungo», cioè bianchi. Hanno provato a difendersi legalmente, «ma il processo era ingiusto e per noi troppo costoso», anche protestare diventava molto pericoloso. Adesso non riescono più a pescare con i metodi tradizionali delle reti con le canoe a remi, quindi molti si sono dovuti trasformare loro malgrado in agricoltori o piccoli commercianti. Jamail conosce alla perfezione il territorio, e quando arriviamo in auto a Kinondo nel villaggio di Gazi mi presenta Amina e gli altri membri della sua famiglia di piccoli ristoratori, che vivevano vendendo bibite alla gente di passaggio. Prima dell’indipendenza la comunità viveva su quella terra che, però non era registrata. Diventata suolo pubblico, il Governo l’aveva affittata a un’azienda agricola, con la promessa di ridarla indietro alla comunità. «Dovevano riaverla, ma adesso vogliono venderla a privati per costruirci hotel di lusso», mi racconta la donna anziana.

Amina dice che sono disperati, non hanno più la terra, la loro casa è stata abbattuta insieme ad altre 760 in tutta questa zona, tremila famiglie si sono trovate da un momento all’altro per strada, vicino hanno costruito una capanna fatta con i giunchi e il tetto di paglia, ma i poliziotti li hanno avvertiti, torneranno a distruggere anche questa, devono andarsene. «Adesso non sappiamo più che fare, preghiamo, ci affidiamo a dio», dice avvilita. Purtroppo la giustizia, qui sulla Terra, a volte resta un’utopia.

Amina, vestita di rosa, davanti alla sua capanna improvvisata. In basso: Jamail Abdallah.
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Criptovalute alla conquista del mondo

Intervista a Lars Schlichting ◆ Il funzionamento del Bitcoin e di altre «monete» digitali, le

Nonostante abbiano un andamento ondivago e soffrano molto gli scossoni dati dalla geopolitica (guerre, colpi di testa di Trump ecc.), le criptovalute vanno sempre più forte. Bitcoin, Ethereum, Tether, Ripple, Binance, Solana… per citare le più diffuse (digitate coinmarketcap su un motore di ricerca per un elenco più esaustivo, col valore di mercato). Ne avrete sentito parlare di sicuro ma magari non le capite fino in fondo. Allora questo articolo fa per voi. Partiamo dalla definizione. Le criptovalute sono «monete» digitali che non sono emesse/garantite da una banca centrale, non sono necessariamente legate a una valuta legalmente istituita, ma sono accettate da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio e possono essere conservate o trasferite elettronicamente.

«La base di Bitcoin e delle criptovalute è la tecnologia blockchain», spiega Lars Schlichting, avvocato ticinese, esperto del tema, appassionato di Bitcoin. «Immaginiamola come una sorta di registro contabile che indica quanta valuta digitale possiede ognuno. La particolarità è che si tratta di un registro decentralizzato. Non c’è insomma un singolo ente a gestirlo, come una banca centrale, bensì più persone che mettono in sicurezza il registro, ad esempio utilizzando energia necessaria a risolvere complessi problemi crittografici tramite potenza computazionale». Tutte le transazioni – che non necessitano di intermediari – vengono memorizzate come informazioni criptate in blocchi di dati e non possono più essere modificate. La blockchain garantisce non solo che esista una sola copia di un asset digitale, ma che lo stesso asset non possa essere speso due volte.

Ad oggi Bitcoin viene usato più come riserva di valore che come sistema effettivo di pagamento senza intermediari

Questi blocchi infatti non si trovano su un server centrale, ma su quelli che si chiamano nodi e che tutti i partecipanti possono creare senza dover chiedere un’autorizzazione, specifica il nostro interlocutore. Chiunque voglia manipolare un registro dovrà quindi manipolare tutti i nodi simultaneamente, un’azione praticamente impossibile, tant’è che la blockchain di Bitcoin non è mai stata alterata, al contrario dei wallet che contengono le criptovalute che possono essere soggetti a vari tipi di attacchi. «Tutti inoltre possono aderire a questa rete decentralizzata mettendo a disposizione potenza di calcolo (una volta bastava il proprio computer, oggi ci sono apparecchi dedicati a questa attività). In cambio ricevono unità di valuta digitali, che accrescono la quantità della rispettiva criptovaluta. Questo processo è noto anche come mining ». «Il Bitcoin è diverso dalle altre criptovalute», afferma Schlichting. «È

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l’unica ad essere totalmente decentralizzata; le altre criptovalute derivano di regola da un progetto creato e gestito da persone o società, senza il sostegno delle quali il progetto fa fatica a crescere. Mentre chi ha ideato Bitcoin – un individuo o un gruppo di individui noto con lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto – lo ha lanciato e ha cominciato ad usarlo come gli altri, senza disporre di vantaggio personale, se non quello di essere stato il primo ad aver “minato” (da mining) Bitcoin quando non valevano quasi niente (1 Bitcoin giovedì scorso corrispondeva a oltre 87 mila franchi). Si dice che Nakamoto abbia “minato” circa un milione di Bitcoin. La cosa straordinaria: non li ha mai toccati. La blockchain, che è pubblica, ci permette di verificare che i primi wallet che si suppone essere i suoi non hanno subito prelievi».

Ma facciamo un passo indietro. Bitcoin nasce nel 2008 quando Satoshi Nakamoto pubblica un documento intitolato Bitcoin: A Peer-to-Peer Electronic Cash System su di una mailing list dedicata alla crittografia. Si trattava di un whitepaper di nove pagine in cui

L’esperimento di El Salvador

El Salvador, piccolo Stato dell’America centrale, è stato il primo Paese al mondo a dare corso legale al Bitcoin, nel 2021, attirando tra l’altro molti «bitcoiner». In pratica si potevano saldare i debiti e pagare le tasse con la criptovaluta e il Governo si era impegnato a garantire ai suoi residenti la conversione automatica e istantanea tra Bitcoin e dollari. Questa strada si è interrotta a fine gennaio 2025. Da allora infatti il Bitcoin non è più considerato valuta legale, la sua accettazione da parte dei

Redazione Carlo Silini (redattore responsabile)

Simona Sala

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Romina Borla Ivan Leoni

spiega la sua idea: la blockchain, ovvero il metodo per cui nella prima volta nella storia si riesce a creare un asset digitale non duplicabile.

«Il contesto – ricorda Schlichting –era quello della crisi finanziaria mondiale e Nakamoto voleva raggiungere un duplice obiettivo. Da un lato creare una valuta digitale progettata specificamente per il commercio su internet e, dall’altro, una riserva di valore. Tutto questo sganciandosi dalle banche e dalla politica che spesso e volentieri fanno i loro interessi e non il bene della società. Satoshi Nakamoto temeva che tutto il denaro stampato dalle Nazioni per superare la crisi del 2008 avrebbe aumentato l’inflazione, facendo perdere valore alla moneta statale. Non è un caso che nel primo blocco prodotto dalla blockchain di Bitcoin si trovi un messaggio: era il titolo del quotidiano “Times” del 3 gennaio 2009 che annunciava l’intervento dello Scacchiere britannico per salvare l’ennesima banca: “The Times 03/ Jan/2009 Chancellor on brink of second bailout for banks”».

Nakamoto ha creato una valu-

negozi è tornata ad essere volontaria e la criptovaluta non può essere usata per pagare le tasse. Alla base della decisione, le pressioni del Fondo monetario internazionale (Fmi) che ha subordinato un prestito di 1,4 miliardi di dollari all’adozione di misure che «mitigassero i rischi del Bitcoin». Comunque El Salvador sta continuando ad accumulare Bitcoin – sottolinea L ars Schlichting – «anche con i soldi del Fmi; lo Stato possiede infatti oltre 6200 Bitcoin, acquistandone in media 1 al giorno».

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Nakamoto ha creato una valuta digitale deflazionistica, limitando il numero massimo di Bitcoin emettibili a 21 milioni. (Keystone)

ta digitale deflazionistica, limitando il numero massimo di Bitcoin emettibili a 21 milioni, introducendo un meccanismo che dimezza il numero di Bitcoin emessi ogni quattro anni circa (oggi ne circolano 19,87 milioni). Il numero non è stato scelto a caso – dice l’intervistato – ma è dovuto al fatto che la prima ricompensa per l’attività di mining (i nuovi Bitcoin) ammontava a 50 Bitcoin. Ogni 210’000 blocchi questa ricompensa si dimezza, dunque 25 Bitcoin nel 2012, 12,5 nel 2016 e così via, arrivando alla fine alla somma di 21 milioni (in realtà 20’999’999,9975528).

Ad oggi Bitcoin viene usato più come riserva di valore che come sistema effettivo di pagamento senza intermediari. Il motivo? «Bitcoin non è ancora stabile, è troppo volatile perché c’è ancora poca gente che lo usa», sostiene l’esperto. «Ma la volatilità si sta riducendo. Più persone lo acquistano più la volatilità si abbassa. Probabilmente tra 20-30 anni Bitcoin fluttuerà come le monete tradizionali e servirà anche come mezzo di pagamento».

Allarghiamo lo sguardo e consideriamo la politica di alcuni Governi rispetto alle criptovalute, a partire dall’America. Un tempo scettico, Donald Trump ha abbracciato le valute digitali durante la sua campagna elettorale (acquisendo decisi sostenitori in quel mondo), tra le altre cose creandone una ($TRUMP) e firmando un ordine esecutivo affinché il Governo istituisca una «riserva strategica di Bitcoin». «Negli Stati Uniti il debito pubblico si avvicina ai 37 trilioni di dollari, una cifra esorbitante», osserva Schlichting. «Ci sono poche soluzioni per ripagare questo debito: aumentare le tasse, e nessuno lo vuole fare, ridurre i costi oppure lasciare che l’inflazione eroda il debito. Quest’ultima soluzione implica però che tutti soffrano, perché si perde il potere di

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acquisto. Questa tendenza è tuttavia già in atto. Con il dollaro che sta perdendo valore, per la Federal Reserve diventa più difficile piazzare i propri buoni (incrementando il debito), con il rischio di non riuscire più a finanziare le proprie spese e far crollare ancora di più il dollaro. Così gli Usa hanno preso iniziative per facilitare l’emissione di stablecoin (criptovalute ancorate a un certo valore patrimoniale) laddove quelle ancorate al dollaro – come Tether – sono in maggioranza. L’idea è semplice, chi compra Tether paga in dollari, Tether deve poi far fruttare tali dollari in modo sicuro e dunque compra i buoni del Tesoro americano, finanziando in questo modo il debito statunitense».

Secondo la Banca centrale europea (Bce), le stablecoin ancorate al dollaro detengono già circa 150 miliardi di titoli di Stato Usa, ovvero quanto Arabia Saudita, Corea, Messico e Germania. Più in generale, la tendenza è quella di vedere nelle criptovalute, Bitcoin in testa, un’opportunità: acquisteranno valore e si stabilizzeranno nel tempo.

Le stablecoin – aggiunge l’intervistato – stanno avendo enorme successo anche in diversi Paesi africani, dell’America Latina e del sud-est asiatico, dove è difficile operare tramite un conto bancario, vista la loro capacità di funzionare anche come mezzo di pagamento, peraltro più rapido degli altri visto che non ha intermediari. Ma gli altri Stati non stanno a guardare. In Cina il digital renminbi (o yuan digitale), testato internamente dal 2020, è ora parte integrante dei flussi commerciali con Paesi Asean (Associazione degli Stati del sud-est asiatico) e diverse Nazioni mediorientali. Una buona fetta del commercio mondiale potrà così svolgersi senza passare da banche e dal dollaro statunitense. «Un passo storico e una sfida diretta alla supremazia finanziaria americana. Senza contare che Pechino usa la sua valuta digitale, emessa dallo Stato, per controllare la popolazione: non permettendo in particolare a nessuno di compiere azioni contrarie alla linea del partito. Vi è pure l’idea di creare valute a scadenza per dare una spinta ai consumi interni…». Dal canto loro gli Usa rinunciano per ora al cripto dollaro statale mentre l’idea dell’euro digitale circola da tempo e i vertici Ue vorrebbero velocizzare i processi, anche per contrastare i traffici illegali, ma devono trovare il modo di rispettare la privacy dei cittadini. Mosca era contraria alle criptovalute perché erano usate dai dissidenti, leggi Navalny, per finanziare le loro campagne. Ma, dopo l’invasione dell’Ucraina, ha compiuto passi significativi per promuovere e regolamentare il settore delle valute digitali anche per aggirare le sanzioni occidentali. Unico limite: i «minatori» di criptovalute devono registrarsi presso le autorità fiscali. Resta da spendere qualche parola su valute digitali, criminalità e sostenibilità. Lo faremo nella prossima puntata.

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Quel Giappone in attesa di un rilancio

Il punto ◆ Dalle Olimpiadi di Tokyo del 2021 all’Expo 2025, passando dall’epoca dei samurai e dalle esplosioni atomiche Focus su un Paese molto vicino a noi ma ostinatamente diverso dalla nostra realtà

«Qui riconosco tutto, gli ascensori, le luci, le strade, eppure nulla funziona come in Europa. È tutto strano, anche la consistenza del cibo è diversa. Mi sento modificata. Tutte queste novità mi stravolgono». Con questa frase il personaggio interpretato dall’attrice Isabelle Huppert nel recente film Viaggio in Giappone (Sidonie in Japan) di Élise Girard descrive la sua reazione al suo arrivo nel Paese del Sol Levante. Difficile non sentire questa sensazione di confortevole straniamento in un luogo che rispetto ad altre realtà asiatiche ci risulta così familiare e allo stesso tempo alieno ed enigmatico. Il Giappone, a discapito della sua stupefacente efficienza e della sua maniacale organizzazione, pare intrappolato in un eterno periodo di transizione, in attesa di un rilancio economico, politico e strategico che sembra sempre in procinto di arrivare senza concretizzarsi.

Il mostro dai cinque occhi

L’imporsi della potenza economica nipponica negli anni Ottanta ha fatto seguito a quelli che gli economisti hanno definito i «decenni perduti» che hanno visto appannarsi il ruolo dominante del Paese in Oriente nei confronti della Cina, della Corea del Sud e anche, per alcune tecnologie, di Taiwan. Ogni nuovo inizio è sembrato coincidere con un evento catastrofico, come la crisi finanziaria globale del 2008 o lo spaventoso terremoto del marzo 2011 che causò l’incidente nucleare di Fukushima. Nel 2020 fu la pandemia di Covid a colpire. Le Olimpiadi di Tokyo vennero rimandate e si svolsero un anno dopo a stadi (e alberghi) vuoti. Alcuni economisti hanno calcolato il mancato introito sul Pil a 8,5 miliardi di euro.

Per molti aspetti il 2025 è l’ennesima occasione di rilancio di una Nazione che ha sempre dimostrato capacità di risollevarsi dopo qualsiasi

caduta. A Osaka è stato inaugurato il 13 aprile scorso l’Expo 2025; il debutto non è stato tra i migliori con circa 120mila visitatori intrappolati in lunghe code sotto la pioggia e impossibilitati a usare i biglietti elettronici per un imprevisto crollo della rete internet. Non benissimo per un evento dal titolo «Progettare la società futura per le nostre vite». Ma dopo una fase di rodaggio la manifestazione sta richiamando sempre più pubblico anche se in molti dubitano che l’obiettivo dei 28 milioni di visitatori sarà raggiunto quando l’evento si concluderà a ottobre. Qualcuno ironicamente dà la colpa alla mascotte della kermesse, Myaku-Myaku, mostricciattolo dai cinque occhi forse più consono a un manga che a un evento globale. Se non altro l’attenzione del mondo è ancora una volta puntata sul Giappone.

Il fascino della cultura e delle tradizioni nipponiche rimane contagioso. Lo testimonia il successo mondiale della serie Shogun prodotta dalla Disney, e premiata con ben 18 Emmy Awards. La serie ha riportato in auge il romanzo omonimo da cui è tratta, un epico racconto pubblicato nel 1975 da James Clavell, un avventuriero, ex-militare britannico che venne inviato sul fronte est-asiatico nella Seconda guerra mondiale e fu fatto prigioniero dai giapponesi a Giava. Shogun racconta, in versione romanzata, la curiosa parabola di William Adams (John Blackthorne nel racconto) naufrago inglese che divenne confidente di Tokugawa Ieyasu (Yoshii Toranaga), destinato a diventare dittatore militare del Giappone e inaugurare quasi due secoli di potere incontrastato e di chiusura rispetto al mondo oltremare. Il mito dell’epoca dei samurai è più seducente delle grandi kermesse globali.

Kyoto, tappa obbligata per chiunque si rechi a Osaka, è la città più legata al passato del Paese. Il quartiere delle geishe di Gion (ambientazione

del film Memorie di una geisha) e i numerosi i templi shintoisti e buddhisti, riportano in quell’atmosfera di esotica clausura dell’età degli shogun. Il problema qui è il turismo di massa, la città ha richiamato nel 2024 più di 80 milioni di turisti, convincendo le autorità locali a raddoppiare dall’anno prossimo la tassa di soggiorno e a imporre multe salate a chi non rispetta la privacy delle case private nei quartieri storici. Camminando per quelle strade, viene un brivido a ricordare un episodio dimenticato dai libri di storia. Nell’estate del 1945 Kyoto era uno degli obiettivi previsti per la bomba atomica. Fu il segretario di stato americano Henry Stimson a convincere il presidente Truman a proteggere una città che aveva vistato più volte e in cui aveva trascorso la luna di miele. A 80 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale e dalle due esplosioni atomiche di Hiroshima e Nagasaki, il Museo della pace di Hiroshima è meta obbligatoria per le gite scolastiche giapponesi che possono vedere le foto di una classe di loro co

etanei spazzata via da quella che un sopravvissuto definì come «la luce di colore più intenso che abbia mai visto». Esiste però anche un diverso ricordo che è quello preservato nel museo Yūshūkan al centro di Tokyo, vicino al Palazzo imperiale, al riparo dalle chiassose luci colorate delle strade commerciali della megalopoli. Meno frequentato da turisti o scolaresche, ricorda, con un marcato revisionismo, le imprese militari giapponesi celebrando lo spirito indomito che unisce l’era dei samurai a quella dei piloti kamikaze. Qui si respira l’ideologia neo-nazionalista che sta trovando sempre più spazio nella politica giapponese, tanto che lo stesso primo ministro Shigeru Ishiba ha sostenuto la necessità di cambiare la Costituzione «pacifista» che fu imposta dopo la guerra dagli americani.

Ma in queste settimane c’è un’altra crisi da affrontare. Una serie di datate politiche protezionistiche e una crescita nei consumi legati anche al turismo ha causato una penuria di riso, facendo aumentare a livelli di guar-

dia i prezzi e costringendo il Governo a licenziare il ministro dell’agricoltura e a importare il cereale, per la prima volta in un quarto di secolo, anche dalla Corea. Il Giappone progetta il futuro e ha conquistato la cultura popolare globale con la propria storia e la propria creatività, testimoniata dal mondo manga e anime, ma alla fine il dibattito pubblico è dominato dal prezzo di una ciotola di riso. Vengono alla mente le parole con cui l’autore Yukio Mishima descrisse alla commissione del Premio Nobel la letteratura del suo amico e maestro Yasunari Kawabata: «Le sue opere coniugano la delicatezza alla fermezza, l’eleganza alla coscienza degli abissi della natura umana; il loro nitore cela un’insondabile tristezza, e sono moderne pur ispirandosi esplicitamente alla filosofia solitaria dei monaci del Giappone medievale». In questa unione di opposti c’è la poesia, il caos, la fragilità, ma anche l’ineffabile mistero di un Paese a noi ormai molto vicino, ma ostinatamente diverso dalla nostra realtà.

Simboli dell’Expo 2025 di Osaka. (Keystone)
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Il Mercato e la Piazza

Gestione del rischio, un secolo di tentativi

La recente catastrofe naturale di Blatten, in Vallese, ha riportato alla ribalta la discussione sul rischio e i modi con i quali esso si può prevenire o almeno, se ne possono limitare le conseguenze negative. Questo rischio si sa che una volta o l’altra provoca catastrofi. Dire che esiste un rischio significa quindi affermare che esiste una probabilità – più o meno elevata – che le cose possano andare male. Se la stessa si concretizza può causare danni, anche enormi, e perdite di vite umane. Il secolo appena trascorso è stato definito dal sociologo tedesco Ulrich Beck, per le catastrofi che ha conosciuto, come il secolo della società del rischio. Noi siamo particolarmente confrontati con i rischi di catastrofi naturali e quelli d’incendio. Da decenni, però, poteri pubblici e privati stanno facendo grossi sforzi per cercare di impedire queste catastrofi o almeno per limitarne i danni. Così il ventunesimo secolo

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potrebbe diventare il secolo della gestione del rischio. Prima di tutto rendendo il rischio meno imprevedibile. Per far questo sono state sviluppate negli ultimi decenni, grazie soprattutto ad applicazioni del digitale, strumenti e tecniche di anticipazione dei rischi sia per le aziende del settore privato sia per intere comunità. Questo non significa che in futuro non ci saranno più catastrofi. Significa solamente che, grazie a una migliore gestione del rischio, una parte delle stesse potranno essere contenute nei loro effetti nocivi. Il Cantone Ticino ha una lunga storia di come si può gestire il rischio. Più che nel resto della Svizzera il suo territorio fu da sempre, e continua ad essere, minacciato da catastrofi naturali come inondazioni, valanghe e slavine, da smottamenti e da incendi. Al momento della sua creazione, nel 1803, il Cantone si trovava completamente indifeso davanti a que-

sti pericoli. Che gli stessi dessero luogo a disgrazie, con morti e danni materiali, lo si può rilevare scorrendo per esempio l’elenco delle catastrofi naturali in Alta Leventina stabilito dal Patriziato di Airolo. Nell’Ottocento, ad esempio, ogni 5-6 anni le disgrazie si succedevano, specialmente in seguito alla caduta di valanghe. Quando queste colpivano un villaggio l’unica misura che si poteva prendere era quella di organizzare una colletta per venire in soccorso delle famiglie maggiormente colpite. A partire dalla metà del secolo diciannovesimo, non da ultimo anche per l’intervento della Confederazione, cominciò a svilupparsi a livello politico cantonale il discorso della prevenzione. Così il villaggio di Fontana, distrutto da un incendio nel 1868, fu ricostruito in modo da limitare i possibili danni del fuoco, separando per esempio la zona abitabile da quella destinata a ospitare fienili e stalle. La Confedera-

Alcaraz e Sinner: la meglio gioventù europea

E ora Wimbledon. Il torneo più affascinante del mondo sarà anche l’occasione per vedere di fronte Carlos Alcaraz e Jannik Sinner, il numero 2 e il numero 1 del mondo, la nuova coppia regina del tennis. Certo, svizzeri e in genere amanti di questo sport sono ancora orfani di Roger Federer, il campione più apprezzato e più completo. La sua rivalità con Rafael Nadal, poi allargata a Novak Djokovic, ha segnato la storia dello sport. Ma adesso tocca a una nuova generazione. La finale del Roland Garros, vinta da Alcaraz al quinto set, è stata la più lunga nella storia dell’era open, e una delle più grandi partite di tennis della storia. Basti pensare che Alcaraz ha prevalso dopo cinque ore e mezza di gioco, e dopo aver annullato tre match-point nel quarto set. Alcune immagini della diretta tv hanno emozionato gli spettatori. Innanzitutto il volto della mamma di Sinner. La si-

Il

gnora Siglinde ha un nome da divinità nibelungica ma è più latina di tanti italiani. La sua sofferenza ha coinvolto il pubblico, tanto più che il figlio, pur nella sua apparente freddezza, ha nel viso l’identica espressione della madre. Il tennis è un confronto della mente, uno sport di combattimento senza contatto. Che due campioni (saranno l’uno per l’altro il rivale della vita) si siano affrontati alla morte senza mai perdere il rispetto, anzi concedendosi a vicenda punti mal giudicati dagli arbitri, è qualcosa di straordinario. Tra Connors e McEnroe non sarebbe mai successo, e pure con Djokovic in campo qualche frizione con Nadal e Federer c’è stata. Alcaraz a volte esulta in modo plateale, anche per trascinare con sé il pubblico. A Parigi ci è riuscito. Ma il vittimismo social è alimentato da chi non conosce le dinamiche del Roland Garros e del tennis. Il pubblico tifa sempre per la partita. E poi Al-

presente come storia

Ogni generazione si porta nel cuore una sua America. Nell’Ottocento i nostri avi che si imbarcavano alla volta di New York sognavano la California (la volevano raggiungere ad ogni costo, fosse pure «a caval di una piattola», come ricorda Plinio Martini nel Fondo del sacco). In seguito, ridottisi i flussi migratori, l’America, ovvero gli Stati Uniti, iniziarono a popolare l’immaginario collettivo, gli scenari della politica e della riflessione intellettuale, e poi la rigogliosa produzione culturale, dal cinema alla musica passando per la letteratura. L’apparizione presso Bompiani, nel 1941, dell’antologia Americana curata da Elio Vittorini fu accolta dai lettori come una rivelazione e una liberazione dalla cappa del fascismo, regime che considerava il nuovo Continente un territorio senza passato, privo di valori spirituali, fondato sul numero

e sulla catena di montaggio. Espressioni come «new Deal», «piano Marshall», «nuova frontiera» ispirarono metodi, progetti di governo e ideali a cui tendere. All’indomani della grande depressione del 1929, il «nuovo patto» voluto da Franklin D. Roosevelt permise all’economia americana di rialzarsi senza imboccare vie autoritarie e liberticide, come avvenne invece in molti Stati europei. Al termine della Seconda guerra mondiale, gli Usa vararono un grandioso programma di aiuti economici per rimettere in piedi le disastrate economie del vecchio Continente. Negli anni Sessanta – e qui i ricordi si fanno più nitidi per i nati nel secondo dopoguerra – le speranze dei giovani europei si accesero intorno alla figura e alle proposte di John Fitzgerald Kennedy, il presidente della «new frontier»: «… la nuova frontiera di cui vi sto parlando – disse nel suo discor-

di Angelo Rossi

zione fece dipendere il suo aiuto finanziario alle famiglie colpite dal rispetto di queste misure antincendio. Altro intervento importante per contenere i pericoli naturali, nella seconda metà dell’Ottocento, furono le misure destinate a contenere il taglio dei boschi protettivi. Le stesse, unite agli importanti investimenti per l’incanalamento dei corsi d’acqua e la costruzione di dighe e ripari, contribuirono a ridurre notevolmente il pericolo di inondazioni e a ridurne i danni. Anche rispetto al problema della protezione e della rigenerazione del bosco, della costruzione di ripari per contenere le piene di torrenti, fiumi e della realizzazione dei ripari valangari l’intervento federale (sotto forma di divieti e sussidi) fu decisivo. Ricordiamo ancora che, in Ticino, la classe politica rimase per lungo tempo divisa in due, rispetto alla necessità dell’intervento pubblico per le misure di protezione. Soprattut-

to c’era chi pensava che la protezione dai disastri naturali fosse compito dei proprietari e si opponeva quindi al fatto che Cantone e Comuni si assumessero parte della spesa. Ancora oggi il Ticino è tra i pochi Cantoni (sono 7 in tutto) che non ha un’assicurazione obbligatoria a protezione degli immobili nonostante che a livello politico, dalla metà del XIX secolo, si siano succeduti più di un tentativo per introdurla. I pericoli di catastrofi naturali e di incendi stanno aumentando in seguito al riscaldamento dell’atmosfera e alle conseguenze che questo fenomeno potrà avere in particolare sul permafrost. Ma la gestione del rischio, in particolare in fase di prevenzione, continua a migliorare. Occorre però anche assicurarsi contro le conseguenze negative delle catastrofi. È da stolti il non essere assicurati perché, anche in futuro, il rischio si potrà gestire solo fino a un certo punto.

caraz e Sinner hanno un tennis molto diverso. Non è vero che Alcaraz giochi meglio. È vero il contrario. Sinner è tatticamente superiore. Alcaraz è più spettacolare. Se Sinner ha commesso un errore al Roland Garros, è stato non sfruttare appieno il servizio, l’unico colpo in cui è superiore ad Alcaraz, grazie agli otto centimetri di statura in più. A Wimbledon potrebbe andare diversamente. Ma lo sport non è solo un fatto tecnico. È anche un fatto sociale. Sinner e Alcaraz rappresentano la meglio gioventù europea. Qualcuno li ha visti come un modello da seguire. Qualcuno mi considera un nemico di Sinner perché ho criticato la sua scelta di spostare la residenza fiscale a Montecarlo, per non pagare le esose tasse che si versano in Italia. Alcaraz ha fatto una scelta diversa, e paga la mostruosa aliquota del 46% al suo Paese, la Spagna. In pratica metà di quello che guadagna va allo Stato.

Troppo, certo. Ma ogni Paese ha la sanità, la scuola, la sicurezza che riesce a finanziare. A parte questo, da italiano sono tifoso di Sinner. Ma Alcaraz non mi dispiace. L’ho visto giocare e vincere agli Internazionali di tennis a Roma. In lui è lecito rivedere un po’ Nadal. Se la lezione di classe e di stile del maiorchino è inarrivabile, anche Carlitos promette bene. Sempre disponibile: autografi, selfie. Ma l’episodio rivelatore è un altro. Dopo il punto che gli ha dato la sua prima vittoria al Foro Italico, Alcaraz è corso verso l’angolo del campo dove c’erano il suo team e la sua famiglia. Ha ricevuto l’abbraccio dell’allenatore, Juan Carlos Ferrero, e della madre. Anche il padre si stava lanciando a stringere il figlio, quando lo speaker ha chiesto un applauso per lo sconfitto. Lui si è fermato, ha applaudito Sinner, e solo dopo ha abbracciato il suo Carlitos. Que-

sto significa avere una buona educazione, dei principi. Alcaraz e Sinner domineranno il prossimo decennio, e resteranno entrambi nella storia dello sport. Chi segue il tennis mi ha spiegato che il favorito per Wimbledon è Sinner. Perché è fresco: l’ingiusta squalifica patteggiata dopo essere stato trovato positivo al Clostebol (non si è dopato, era una dose infinitesimale, passatagli da un massaggiatore che si era medicato un taglio con una sostanza non consentita) gli ha evitato il massacro dei tornei americani di inizio primavera, da Miami alla California. E perché è arrabbiato. Non tanto con i giudici, quanto con i colleghi, almeno i molti che non hanno solidarizzato con lui. A cominciare da Djokovic. Il lupo serbo a 38 anni non si arrende. Ha vinto tutto. Cento tornei. Venticinque Slam. L’oro olimpico. Eppure continua. Una lezione di forza fisica e morale per tutti.

so del 1960 alla Convention democratica – non è una serie di promesse, bensì una serie di sfide. E si concreta non in quello che io intendo offrire al popolo americano; ma in quello che io intendo chiedergli».

Anche il movimento per i diritti civili e per l’abolizione della segregazione razziale permise ai giovani, e soprattutto agli studenti dei campus, di occupare il recinto della politica come interlocutori consapevoli della loro forza e non più come una platea inerte. La guerra in Vietnam, con l’impiego su larga scala del napalm e dei defoglianti, scatenò una protesta che ben presto varcò l’Atlantico. Sull’onda delle mobilitazioni della nuova sinistra («new left») gli attivisti scoprirono le opere di Herbert Marcuse (Einaudi fece tradurre L’uomo a una dimensione già nel 1967). Anche i liberali progressisti ebbero i loro idoli in personaggi come John Kenneth

Galbraith (1908-2006), economista di origine canadese le cui opere maggiori ebbero un’ampia diffusione anche in lingua italiana per merito della Mondadori. È poi sopraggiunta, negli ultimi decenni del secolo scorso, la rivoluzione informatica, trainata dalle invenzioni di due geniali imprenditori californiani, Steve Jobs e Bill Gates, entrambi nati nel 1955. Soprattutto il primo, scomparso prematuramente nel 2011, ha alimentato un filone tecnologico la cui matrice affondava le sue radici nella contro-cultura hippie degli anni Sessanta e Settanta. Il suo motto «Stay hungry. Stay foolish» (siate affamati, siate folli) è stato elevato a manifesto della nuova era del silicio governata dalla «computer science», regno delle infinite possibilità. Questa America progressista e per molti aspetti libertaria ha avuto i suoi estimatori anche nella Svizze-

ra italiana. Il collega Giò Rezzonico considera i Kennedy (John e il fratello Robert) figure fondamentali nel suo percorso biografico-politico; il linguista Alessio Petralli, ora direttore della Fondazione Möbius, fu tra i primi in Ticino a sottolineare l’originalità dei prodotti Apple e le potenzialità di Internet; il professor Marcello Ostinelli, oggi presidente del circolo Orizzonti filosofici, ha sempre attribuito grande importanza alle riflessioni di autori «liberal» come John Rawls e Michael Walzer. Con l’ascesa delle tecno-oligarchie al potere tutto questo si è appannato. Alla giustificata infatuazione per le promesse del nuovo mondo è subentrata la delusione per come le maggiori aziende hi-tech si sono gettate ai piedi del miliardario Trump. La speranza è che lo smarrimento sia solo passeggero e non una permanente sottomissione al potere.

di Aldo Cazzullo
di Orazio Martinetti
Eravamo tutti americani

Pronti per la perfetta pulizia di Tempo

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Ritorna per la 41esima volta JazzAscona, l’amato festival che spazia dall’ottima musica internazionale al cinema, passando per indimenticabili momenti aggregativi in un’atmosfera suggestiva

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Il 16 giugno è un giorno importante per Dublino, poiché si commemora il Bloomsday, l’iconica giornata immortalata per l’eternità da James Joyce nel suo capolavoro Ulisse

Pagine 22-23

Medardo Rosso, la forma plastica della modernità

Mostre ◆ Il Kunstmuseum di Basilea celebra l’artista italiano con un allestimento che non sempre lo valorizza

Non posso dire con precisione quando ho sentito per la prima volta il nome di Medardo Rosso, ma so che ho cominciato a comprendere l’importanza della sua opera nei primi anni Novanta, frequentando le aule, in quel periodo invero assai dimesse e malandate, dell’Accademia di Brera, quelle stesse aule da cui Rosso era stato espulso più o meno un secolo prima per indisciplina (aveva promosso una petizione e si era battuto, pare non solo metaforicamente, per contrastare metodi di insegnamento che gli apparivano ormai antiquati).

Nella Brera degli anni Novanta, a rinfocolare la memoria e sottolineare l’importanza dello scultore nato a Torino nel 1858 erano soprattutto Luciano Fabro e Jole De Sanna, due figure che all’intelligenza critica univano l’impegno civico nel contrastare l’incuria con cui, negli anni in cui stava per scoppiare tangentopoli, Milano trattava il proprio patrimonio artistico, basti ricordare il loro decisivo contributo per la rinascita della Casa degli artisti di Corso Garibaldi e per il recupero dei Bagni misteriosi di De Chirico nel giardino della Triennale. Fabro, in particolare, nelle affollate lezioni teoriche che teneva quando non era in giro per il mondo ad allestire mostre e delle quali, come molti suoi ex allievi, conservo ancora oggi gelosamente le registrazioni su audiocassetta, faceva spesso riferimento a Rosso come a una delle figure determinanti per lo sviluppo della sua ricerca scultorea, uno dei pochi grandi innovatori del linguaggio artistico che l’Italia poteva rivendicare nel panorama internazionale tra Otto e Novecento. Del resto era stato proprio Fabro a portare per la prima volta la giovane Sharon Hecker, oggi una delle maggiori esperte di Rosso, a Barzio, località di villeggiatura della Valsassina cara all’artista piemontese, dove, in un antico oratorio sconsacrato, ha sede il museo a lui dedicato.

Un’opera di Luciano Fabro non poteva quindi mancare – e in effetti non manca, anche se forse ce n’erano altre che si prestavano meglio allo scopo rispetto alla fotografia scelta dalle curatrici – nella grande e affollata mostra che il Kunstmuseum di Basilea, in collaborazione con il MUMOK di Vienna, dedica a Medardo Rosso quale inventore della scultura moderna. Affiancando alle sue opere quelle di una sessantina di artisti, la mostra si propone infatti di evidenziare la vasta influenza e la grande fascinazione che la sua figura ha esercitato e continua a esercitare. Non solo, articolandosi attorno ad alcuni dei temi che diventeranno centrali nell’arte del Novecento, quali la smaterializzazione, la serialità, l’anti-monumentalità, le speri-

mentazioni formali e materiche, la mostra premette di cogliere lo straordinario ruolo di precursore svolto da un artista che, pur provenendo da un contesto culturale provinciale qual era quello della tarda scapigliatura milanese, è riuscito a collocarsi al vertice della ricerca artistica internazionale del suo tempo. Un ruolo di precursore che mentre era ancora in vita non gli venne tuttavia riconosciuto da tutti.

La mostra basilese vuole evidenziare la grande influenza che lo scultore italiano ha esercitato ed esercita

A non riconoscere la primogenitura delle sue innovazioni scultoree fu in primo luogo un suo celebre collega. Colui che era diventato uno dei suoi più fervidi ammiratori dopo il suo trasferimento a Parigi nel 1889, ma che nel giro di pochi anni diventò la causa principale dell’amarezza che avvelenò gli ultimi decenni della sua vita: Auguste Rodin. Fu proprio l’acclamato autore del Pensatore e del Bacio appoggiato dalla fedele cerchia di critici a lui vicini a usurpare a Ros-

so la qualifica di inventore dell’impressionismo in scultura, non riconoscendo mai che il suo Monumento a Balzac del 1897 aveva contratto un debito irredimibile con le opere dello scultore italiano. E così, malgrado le date fossero indiscutibili e il debito evidentissimo, l’inchiesta di Edmond Claris pubblicata nel 1901 sulla «Nouvelle Revue» finì per scagionare pubblicamente Rodin da ogni accusa di «plagio stilistico».

Sostenuto dall’ufficialità artistica francese, Rodin si affermò rapidamente come lo scultore che per primo aveva dato forma plastica alla modernità, anche perché, e questo non va dimenticato, la produzione di Rosso era troppo esigua per poter soddisfare le esigenze di un mercato dell’arte ormai internazionale. Tuttavia se tra il grande pubblico il nome di Rodin è ancora oggi molto più noto di quello di Rosso e le sue opere maggiormente quotate, tra gli addetti ai lavori i dubbi su chi sia stato il primo tra i due a declinare l’impressionismo in ambito scultoreo non si pongono più da molto tempo. Anzi, come dimostra anche questa mostra, la qualifica di «impressionista» risulta ormai andare stretta a un autore che con le sue invenzioni ha in qualche modo anti-

cipato gran parte della scultura che è arrivata dopo di lui.

Percorrendo le sale del Kunstmuseum di Basilea abbiamo avuto l’impressione che oggi Rosso corra un pericolo opposto rispetto al passato, ossia di essere considerato unicamente per il proprio ruolo di precursore. Mentre la sua figura viene celebrata, la sua opera rischia infatti di non venir più guardata e fruita per quello che è, ma piuttosto per le relazioni che intrattiene con quello che è venuto dopo; in altre parole, di essere apprezzata unicamente per la sua capacità di anticipare ricerche e tendenze emerse nell’ultimo secolo.

Nelle sale al secondo piano del museo, complice un allestimento non sempre felice, si ha spesso la sensazione che le sue opere vengano sovrastate da quelle degli altri artisti (ben pochi quelli a lui coevi), finendo quasi sempre per essere soffocate dall’impostazione didattica ed esemplificativa che domina l’intero percorso espositivo.

Come se le sue opere fossero state poste al centro dei riflettori solo perché rappresentano il momento iniziale di un gigantesco «effetto farfalla» il cui esito finale è la variegata produzione scultorea contemporanea. Forse più adatti alle pagine di un libro che allo

spazio fisico di una mostra, gli accostamenti proposti dalle curatrici mettono a confronto le estremità iniziali e finali di questo processo, omettendo però la lunga, imprevedibile e spesso invisibile catena di eventi che li dovrebbe connettere.

Se un consiglio possiamo dare a chi la mostra la deve ancora visitare è quindi quello di soffermarsi soprattutto nella sezione monografica allestita al piano terra del museo, dove le sculture di Rosso dialogano unicamente con le sue sorprendenti sperimentazioni fotografiche. Lì, più che al secondo piano, è possibile avvertire in tutta la loro singolare e fragile bellezza i delicati e fugaci battiti d’ali di farfalla che modellano le visioni di Medardo Rosso e capire veramente come abbiano potuto contribuire a scatenare il tornado che ha sconvolto il paesaggio artistico nel secolo scorso.

Dove e quando Medardo Rosso. Die Erfindung der modernen Skulptur, Basilea, Kunstmuseum. Fino al 10 agosto 2025. Orari: ma-do 10.00-18.00; me 10.00-20.00; lu chiuso. kunstmuseumbasel.ch

Medardo Rosso nel suo atelier in Boulevard des Batignolles, 1890. (© Archivio Medardo Rosso)
Elio Schenini
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La storia del pianista felice

JazzAscona 1 ◆ Il documentario Misty – The Erroll Garner Story di Georges Gachot propone al pubblico la biografia musicale di uno dei più grandi esecutori di sempre, Erroll Garner; sarà proiettato anche al Cinema Otello il 27 e 29 giugno

Curiosità campanilista: se gli si chiedeva del punto di svolta nella sua carriera, rispondeva che era stato il disco prodotto al suo ritorno dalla Svizzera nel 1954, Serenade to Laura, album con un tale record di vendite da lanciarlo improvvisamente nel mondo dello show-business musicale, ben al di fuori del ristretto ambito del jazz. Il pianista Erroll Gardner era del resto una figura del tutto unica, eccentrica, rispetto allo «standard d’immagine» del jazzman di allora.

Il personaggio che si era creato lo voleva «comicamente misterioso», dice il contrabbassista Ernest McCarty, che per anni ha fatto parte del suo trio. Raccontando la propria esperienza al fianco del pianista di Pittsburgh, McCarty ricorda come lui e il batterista Jimmie Smith, in decenni di collaborazione, non avessero mai preso un assolo. La scena era completamente di Erroll: «Eravamo in mezzo a quella musica magnifica e questa preclusione non ci preoccupava proprio». Lavorare con Erroll, del resto, non doveva essere particolarmente facile: «Quando eravamo in concerto, non ci ha mai detto né il titolo del pezzo che avrebbe suonato, né la tonalità: bisognava scoprirli da soli». Una condizione certo non molto tranquillizzante.

Misty, il documentario realizzato nel 2024 da Georges Gachot (sce-

neggiatura sua e di Paolo Poloni, da un soggetto del trombettista Nils Petter Molvaer e di McCarty) ripercorre la vicenda di un genio del pianoforte, che collocare soltanto all’interno della storia del jazz sarebbe limitativo. Garner è stato un pianista «pop», senza dubbio, la cui abilità, ma soprattutto la volontà di piacere al pubblico e di divertire i suoi ascoltatori, era evidente. Lo annota nel film lo stesso McCarty: «Per lui il piano era un arcobaleno di colori. Usava dire: “I’m playing happy jazz. Voglio che ogni concerto sia una festa per gli ascoltatori”».

Merito del documentario è sicuramente quello di riportare al centro dell’attenzione un solista di quelli che gli appassionati dell’epoca «postdavisiana» non hanno mai guardato con particolare interesse. La sua può sembrare infatti musica senza quel rovello interiore, senza nessuna sfida con l’ascoltatore, senza problematicità angoscianti a cui gli appassionati del jazz anni Sessanta/Settanta sono abituati.

Erroll Garner è sempre sembrato loro un esuberante virtuoso, con uno stile elaborato, anche un po’ gigionesco, nella scia di quello di Art Tatum. Il documentario avrà invece il merito di instillare il dubbio che l’eredità di Erroll Gardner sia ben più che la semplice menzione quale autore di Misty

La biografia del pianista è raccon-

Il pianista Erroll Garner, in un’immagine tratta dal documentario.

tata attraverso le parole di chi l’ha conosciuto, con molte immagini e spezzoni video tratti dall’archivio del suo amico e biografo, Jim Doran, senza interventi di commento dei realizzatori o di una voce fuori campo. È un espediente usato spesso nei documentari dedicati ai jazzmen, perché attraverso le parole di chi li ha realmente conosciuti si cerca di evocare l’intimità di una relazione profonda e quindi, di riflesso, la personalità del protagonista «in absentia». Il lavoro del regista è stato quello di cucire insieme una mole cospicua di documenti video, fotografici e musi-

cali tratti dalla lunga carriera di Garner e che mostrano in definitiva quanto il suo personaggio fosse seguito dai media, un’attenzione testimoniata da moltissimo materiale tratto da talk show e interviste filmate. Particolarmente efficaci per rendere la tensione drammatica del racconto (che è drammatico paradossalmente anche occupandosi di una figura tutto sommato giocosa e vitale come quella di Garner) è la scelta di una fotografia generalmente in bianco e nero. Un bianco e nero che verrebbe da definire molto pastoso, patinato, di una bellezza davvero notevole (merito di Filip Zum-

brunn). Un bianco e nero che viene sfruttato spesso in carrellate in movimento, riprese dall’automobile o da un battello, in cui lo scorrere del paesaggio apre squarci lirici di riflessione attorno alla vicenda del pianista. Per tornare alla biografia di Garner, le immagini legate ai momenti di grande popolarità internazionale trovano un contraltare nelle zone d’ombra della sua carriera. Quelle di una vita intima e affettiva complessa e fatta di solitudine e distanza. Ne parlano la figlia, mai riconosciuta legalmente, Kim Garner, e l’ultima partner, Rosalyn Noisette, che ne rimpiangono la precoce dipartita, malgrado la difficoltà di relazionarsi con lui. Garner era un uomo che difendeva la propria privacy, ma che non ne possedeva davvero una. Il suo lavoro era la sua vera vita, e per lui, come per Louis Armstrong, ogni legame affettivo, ogni parvenza di normalità relazionale e famigliare, era estranea all’agenda quotidiana. Misty (realizzato con il sostegno dell’Ufficio federale della cultura, e in coproduzione con SSR) sarà su Play Suisse verso Natale (dopo il passaggio in televisione). Prima di allora, il Cinema Otello di Ascona, in collaborazione con JazzAscona, dopo averlo proposto nel mese di aprile, lo proporrà durante il festival venerdì 27 giugno (21:00) e domenica 29 giugno (18:30).

Una giostra di fiati tra Berna e i Balcani

JazzAscona 2 ◆ Tra i numerosi ospiti della kermesse anche la formazione elvetica Traktorkestar

Sebbene si tenda ad associare un festival dalla lunga tradizione (siamo giunti alla 41esima edizione) come quello asconese a ritmi e sound provenienti dal continente americano, l’appuntamento è anche occasione di scoperta di talenti locali, nati e cresciuti alle nostre latitudini, ma con un occhio sempre attento alla tradizione con la «t» maiuscola. È anche il caso di una formazione curiosa e insolita, composta da dodici elementi (tre trombettisti, un sassofono contralto, un sassofono tenore, tre tromboni/corno tenore, un elicone, una percussione, un rullante, una grancassa) che quest’anno si esibirà per la prima volta a JazzAscona. Alle spalle 15 anni di esperienza, collaborazioni prestigiose con artisti della scena elvetica come Stephan Eicher e un innegabile (auto)ironia, che se da una parte la rende immediatamente riconoscibile, al contempo non permette di ascriverla a un unico genere.

I Traktorkestar, per ammissione del loro stesso fondatore, il trombettista Balthasar Streit, sono in qualche modo nati grazie alla sua passione sfrenata per il brass balcanico. Era infatti il 2005, e nell’aria si respirava ancora l’energia a tratti sovversiva di Goran Bregovic, che a sua volta, per anni, aveva esaltato in musica le gesta tragicomiche degli amabili personaggi del regista Emir Kusturica. Da allora sono passati più di quindici anni, e dalla versione balcan brass di un classico della tradizione elvetica di lingua tedesca come Vreneli ab em Guggisbärg, si è approdati nel 2024, dopo cinque album, a Möwe auf Tuba, Schwimmend (Gabbiano su una tuba, mentre nuota, NdR) dove prevalgono sonorità più elettroniche, per quanto contrappuntate come da tradizione dai fiati, e qua e là si strizza l’occhio all’hip hop, al funk,

al reggae, ma anche a band celebri come Züri West, avvalendosi di testi che denotano una ricerca interiore accresciuta e un consolidamento di quanto dimostrato fino ad allora.

Balthasar Streit, ci racconta le origini del vostro progetto musicale?

A diciotto anni, nel 2005, andai in Serbia per assistere al GučaTrumpet Festival, grande festival di balcan brass, a tre ore da Belgrado. Rimasi impressionato dall’energia della musica, e così, quando poi cominciai a studiare alla Swiss Jazz School di Berna, invitai alcuni colleghi musicisti a fare qualcosa insieme. All’inizio ci limitavamo a trascrivere dei brani, poi piano piano abbiamo cominciato a sperimentare. Nel 2009, fu il Guča a invitare noi per un’esibizione. Per noi era solo il secondo o il terzo concerto in assoluto! A quel punto il nostro progetto musicale ha quasi cominciato a muoversi in autonomia.

Quali sono le vostre modalità di collaborazione, visto il numero dei componenti di Traktorkestar?

Cerchiamo sempre di uscire un poco dal solco della tradizione, e ci chiediamo ogni volta cosa sia possibile realizzare con una formazione di queste dimensioni. La maggior parte di noi ha studiato a Berna nello stesso momento.

La vostra band è nata sulla scia dell’entusiasmo per il balcan brass. Nella vostra formazione avete anche musicisti con radici balcaniche?

Paradossalmente no, siamo tutti svizzero tedeschi! Nel corso degli anni, però, ci sono state tantissime collaborazioni con artiste e artiste di provenienza balcanica, e ci siamo esibiti in occasione di numerosi matrimoni. Al Festival di Guča non partecipiamo ormai più, da una parte perché negli ultimi anni la manifestazione ha preso una strada più ide-

Jazz Ascona: le band in programma dal 26 giugno al 5 luglio 2025

Il Festival Jazz Ascona coinvolge l’intero borgo di Ascona, dagli autosilo al Lungolago, dai ristoranti al bagno pubblico, valicando anche i propri confini quando porta la musica al Parco di Orselina o sulle Isole di Brissago, in Città Vecchia, in battello, o sui vagoni della Centovallina. Per tale ragione si invitano gli interessati a scaricare attraverso il QRCode qui impresso il pdf con date, luoghi e orari; qui si dà conto solo dei generi e dei gruppi che si esibiranno.

Cerimonia di apertura: giovedì, 26 giugno, 19.00-19.30.

Parata di apertura: venerdì, 27 giugno, 18.00-18.30, Frog & Henry.

Jam Session: tutti i giorni, 24.303.30, a La Cambüsa.

Jazz tradizionale: Berno Brothers Jazz Band; Dixie Blue Blowers; Frog & Henry (+ giro in treno); Olivia & The Funcats; Wim Mauthe & Friends, Special guest: Umberto Amesquita; The Rag Messengers; G-Bone Roots Trio; Hot Gravel Eskimos; Jack in The Box; Jazz Tube; Olivia & The Funcats; Raphael Jost Quintet; The Big Five feat. Nicolle Rochelle; The Hep Hot n’ High; The Jungle Jazz Band feat. Nicolle Rochelle (+ crociera in battello); The Jungle Jazz Band feat. Nicolle Rochelle; The Rag Messengers; TONFA Tap Dance; Uke Swing Italiano. Jazz: Adonis Rose Ensemble Feat. Phillip Manuel; Alberto Marsico Trio;

Suoni migranti

JazzAscona 3 ◆ Funk, soul e maestri di ballo sul lungolago

I Traktorkestar sono una delle attese 55 band che si esibiranno in oltre 200 concerti gratuiti (!) durante la dieci giorni asconese.

Ascona Big Band, AET My Choice, Audience Award 2024; Claus Raible Trio; Courtyard Sessions NOJO Youth Orchestra; Danilo Boggini, Manouche Trio feat. Dario Napoli; Don Hicks Quintet; Elina Duni Quintet, Swiss Jazz Award 2025; Gabriele Pezzoli Trio; G–Bone Roots Trio; Lana Janjanin Quartet; Mauro Pesenti & Friends feat. Danilo Boggini (& Oliviero Giovannoni); Mauro Pesenti & Friends feat. Lorenzo Erra; Mauro Pesenti & Friends feat. Lorenzo Livraghi; Mauro Pesenti & Friends feat. Victor Gordo; N. Jazzbar, G–Bone Roots Trio; NOJO Youth Orchestra; NOJO7 feat. Andromeda Turre; Raphael Jost Quintet

SMUM 5tet feat. Antonio Faraò; SMUM Pre–College; Tulane BAM.

Jazz & Blues: Courtyard Sessions,Olivia Lanvin & the Funcats.

Jazz & Boogie Woogie: Silvan Zingg Trio.

Jazz meets Classic: Lia Pale & Mathias Rüegg – European Songbook. Jazz, Latin: Manon Mullener 5tet; Nolosé (Latin).

Groove & Funk: Corey Henry & The Treme Funktet; Geno & his Rockin’ Dudes; Groovy Chapters; Handmade Moments; Hochschule Luzern – Musik presents; Hypergarden; JazzedUp Trio; Mad Groove & The Soul Doctors; Organic Brew; Orleans Radius; Pocketry Radius; The Clients; Tulane BAM. Boogie Woogie: Mitch Woods; Silvan Zingg.

Soul & RnB: Cristen «Ten» Spencer; Hippie Fish, Soul & RnB; MISS C–LINE; NOJO 7 feat. Andromeda Turre; Tony Momrelle.

World Music: Dave Sharp Worlds Quartet feat. Elden Kelly & Sheela Bringi; Hochschule Luzern – Musik presents Abou Samra Quintet; Traktorkestar. Boogie Woogie: Mitch Woods; Silvan Zingg.

Big band: la Swiss Armed Forces si esibirà sabato, 28 giugno e venerdì, 4 luglio dalle 20.00 alle 21.30 allo Stage New Orleans sul Lungolago.

Brass band: Jazz Tube; Trombone Shorty Foundation Brass band feat. Chyna Doll; Orchestra: The Music of Aretha Franklin (workshop).

Coro: Bazil Meade & Alberto Marsico con Castagnole.

Lezioni di ballo: Balboa con Françoise & Robert; Boogie Woogie con Susy Woogie; Burlesque con Mizi Mia Grand Ame; Cuban Salsa c on Nolosé; Lindy Hop con Françoise & Robert; Lindy Hop c on Stefano Benedetti & Claudia Iannetti; Shim Sham con Tony Buondancer; Swing con Françoise & Robert. Programma dettagliato in pdf

ologica, molto nazionalistica, dall’altra perché la band si è aperta anche ad altri generi musicali, appunto, sperimentando.

Gestire la creatività e gli aspetti pratici di dodici musicisti non deve essere facile. Come siete organizzati?

Dal momento che non abitiamo più tutti a Berna, è praticamente impossibile incontrarci tutte le settimane. Lo facciamo ogni qual volta abbiamo un progetto nuovo, e in quelle occasioni ci incontriamo a Berna.

Alcuni vostri brani sono accompagnati da video «particolari», penso ad esempio a Ruth, con il suo lungo piano sequenza, all’animazione di Lost Boy & Suicide Girl o all’uomo con la faccia da cavallo in Eine freudige Tanzmusik. Vi è dunque attenzione anche all’aspetto estetico del fare musica?

Abbiamo sempre collaborato con cantanti della tradizione Mundart (canzoni in svizzero tedesco, ndr), soprattutto nella produzione degli album: questo porta sempre delle novità all’interno del nostro gruppo. Lost Boy & Suicide Girl, ad esempio, il cui video è opera di Kleidi Eski, è nato da una collaborazione con Simon Jäggi, membro della band Kummerbuben, e di tutto il nostro repertorio è il brano che la radio ha trasmesso più spesso. Ruth, invece, è nato nel periodo del Covid: avremmo dovuto suonare al Cafe Bar Mokka di Thun, ma il concerto fu annullato. Dal momento che gli spazi erano liberi, pensammo di girarvi il video, che è una sorta di omaggio al mitico Bädu Anliker, scomparso nel 2016 e indimenticato fondatore del Mokka. Il Bar Mokka è come una specie di museo, vi sono ovunque oggetti appartenuti ad Anliker, e questo ci ha ispirati a girare il video.

Cosa porterete in occasione del vostro doppio concerto ticinese?

Siamo felici di venire ad Ascona, poiché abbiamo suonato praticamente in ogni cantone della Svizzera, al di fuori del Ticino, dove ci siamo esibiti solamente una volta per un matrimonio privato. In Ticino porteremo soprattutto i brani del nostro Möwe auf Tuba, Schwimmend

Dove e quando Ascona, Jazz Festival, 27-28.6 2025 (ore 23.00-24.30), Stage Elvezia.

JazzAscona non è un festival, ma una migrazione sonora. Ogni estate, da ben quarantun’anni, il borgo affacciato sulle rive del Lago Maggiore veste le sonorità della mitica Crescent City (New Orleans) ricreandone l’atmosfera con una fedeltà sorprendente: non solo jazz, ma funk, soul, swing, gospel, rhythm’n’blues, nel loro stato più viscerale. I microfoni resteranno accesi dal 26 giugno al 5 luglio, e la voglia resta quella di scrollarsi di dosso la patina del jazz museale per soli intenditori, così come dimostrano le ultime edizioni: anche quest’anno si punta a una vitalità più ruvida, contaminata, espansa. Sono oltre 200 i concerti gratuiti, dieci giorni fitti, un asse ideale tra il Ticino e la Louisiana che ora sembra allargarsi al Mediterraneo, all’Europa dell’Est, e a certi angoli urbani dove l’hip-hop ha ancora qualcosa da raccontare. La line-up è ampia, certo, ma più che di abbondanza si parla di multi-sonorità: l’arrivo della Corey Henry and The Treme Funktet, per dirne una, funk e brass band dal groove travolgente, promette puro soul fisico da New Orleans, mentre Adonis Rose si porta un Ensemble composto da strumentisti dell’orchestra che accompagnerà un crooner di gran classe come Philipp Manuel. Poi ci sono i giovani, sì, ma non come intermezzo didattico: il programma Groovin’ Up mette sullo stesso piano orchestre universitarie, formazioni svizzere e statunitensi (ospiti di quest’anno sono i Tulane BAM: studenti della Tulane University proprio di New Orleans), corpi sonori in formazione ma già capaci di dire la loro. La Swiss Armed Forces Big Band suonerà con i giovani cantanti Brigitte Wullimann e il versatile tenore Axel Marena, mentre il 28 giugno, tra i momenti clou, Elina Duni, riceverà lo Swiss Jazz Award 2025. Se serve un’etichetta di qualità, eccola, ma l’impressione è che contino più i suoni degli annunci: nata a Tirana nel 1981, Elina Duni è una cantante e compositrice albanese naturalizzata svizzera che incanta e sorprende. Come sorprendono, i bernesi Traktorkestar, che pure conquistano il pubblico con la loro irriverente fusione di jazz e musica balcanica (v. intervista di fianco).

Ed è così che il lungolago diventa un corridoio musicale. Niente palco fisso, niente distanza. Le Dancing Hours sono una formula disarmante: maestri di ballo insegnano per strada, qualcuno sbaglia, qualcun altro ride, la musica va avanti.

Dove e quando Jazz Ascona, dal 26 giugno al 5 luglio, Ascona https://jazzascona.ch

Pubbliredazionale

Sulle tracce della passeggiata –

Reportage ◆ Bloomsday commemora ogni anno, a Dublino, la scandalosa giornata immortalata da James Joyce nel suo mitico e intramontabile

A Misery Hill, la collina dove venivano impiccati e lasciati a marcire per mesi pirati e criminali, un vento gelido sferza le avveniristiche architetture dei Silicon Docks, il nuovo cuore tecnologico e finanziario di Dublino cresciuto sulle ceneri del vecchio porto. Scenari di città futura in progress che hanno cambiato i connotati della Dublino bigotta e provinciale di un tempo, che vantava più suore per metro quadrato del Vaticano e più pubs di tutto il pianeta.

«Siamo sempre più stressati» ribatte uno sconsolato tassista. «I turisti mi domandano dove sono finiti gli irlan-

desi che gli hanno raccontato, per non parlare dei pub. Dove avevano fallito inglesi, Chiesa, benpensanti, e tutti quelli che si preoccupano eccessivamente della salute altrui, li stanno quasi ammazzando ritmi di vita e leggi contro fumo e alcool!».

La categoria degli scrittori

Altri tempi da quando un dubliner particolarmente famoso, James Joyce, aveva scritto: «Bel rompicapo sarebbe attraversare Dublino senza passare davanti a nessun bar». Quella degli

scrittori è una categoria particolarmente rappresentata in città, quasi un brand per turisti e locali, sebbene oggi i fantasmi di Joyce, Jonathan Swift, Samuel Beckett, Bram Stoker, Bernard Shaw, Sean O’Casey, Oscar Wilde e W.B. Yeats si aggirino per le strade in compagnia di una folla di giovani musicisti e raffinati designers. A ovest del centro, la grafica di vecchie rotaie che taglia un selciato annerito si interrompe davanti al cancello della Guinness Store Warehouse, storica fabbrica di una delle birre più iconiche del pianeta. All’interno un museo ne ripercorre la gloriosa

storia celebrando l’anima di Dublino con installazioni multimediali, a dar corpo a un teatro delle ombre che probabilmente farebbe rivoltare nella tomba Joyce, il quale nel suo complicato rapporto di odio-amore verso la città aveva profetizzato: «Se Dublino venisse distrutta, la si potrebbe ricostruire leggendo la mia opera… Ho provato con le mie parole a rendere i colori e i toni di Dublino, la sua atmosfera grigia ma viva, la sua confusione disorganizzata, l’atmosfera dei suoi bar, l’immobilismo sociale». Molto è cambiato da allora, ma c’è un giorno in cui la soglia tra presente e passato viene spensieratamente oltrepassata da centinaia di persone in costume d’epoca che trasformano piazze e pub in un’unica scena teatrale open air. Lo conoscono in tutto il mondo il Bloomsday, celebrazione di massa di una passeggiata che ha fatto scalpore il 16 giugno del 1904, esattamente centoventun anni or sono, ovvero la giornata-odissea di Leopold Bloom protagonista del capolavoro di Joyce, l’Ulisse, una pietra miliare della letteratura del XX secolo capace di dividere ancora oggi il mondo letterario ma bandita per decenni con l’accusa di immoralità in molti Paesi, Irlanda inclusa.

«Bloom è Shakespeare, Ulisse, l’ebreo errante, il lettore del “Daily Mail”, l’uomo che crede a ciò che legge nei giornali, ognuno, e il capro espiatorio…» ha scritto Gianni Celati, anglista e traduttore dell’opera caratterizzata da una particolare tecnica di scrittura, il «flusso di coscienza», uno stile narrativo che varia continuamente in cui i pensieri si susseguono liberamente senza punteggiatura. Pagine pervase di musicali-

tà e ironia dove ogni parola diventa un ponte verso altre parole, quasi una stralingua che si perde continuamente nei meandri dell’immaginazione ma che in realtà è frutto di un metodo rigoroso. A partire dalla data che rievoca il primo appuntamento dello scrittore con Nora, sua futura moglie e musa della sua vita.

«I turisti mi domandano dove sono finiti gli irlandesi che gli hanno raccontato –spiega il tassista – per non parlare dei pub...»

Il Blooomsday è un’occasione imperdibile per tirare fuori il meglio dell’anima dei Dubliners, perché gli irlandesi sono per l’Irlanda quello che lo champagne è per la Francia, da vivere ripercorrendo una Dublino meno conosciuta al ritmo del proprio mood esistenziale, o seguendo l’itinerario delle diciotto tappe dell’Ulisse, idealmente collegate a episodi delle opere di Omero. A unire il tutto provvede la geografia della città che diventa una mappa fisica, in un vissuto collettivo cementato dalla psicologia dei protagonisti che si identificano con luoghi particolari, dalla Torre Martello di Stephen ai pub, alle strade di Leopold Bloom fino alla stanza da letto di Molly.

Il percorso a tappe

Un tour de force letterario, ma anche di resistenza etilico-gastronomica da affrontare partendo carburati da una buona colazione a Sandycove nella baia di Dublino, possibilmente in qualche locale dove signore dai colorati

Enrico Martino, testo e foto
Monumento a James Joyce, O’Connell St. e sullo sfondo l’Ufficio Postale Generale; sotto, Temple Bar, quartiere alla moda con ristoranti, pub e gallerie d’arte. Di fianco, in ordine cronologico, Il pub di Davy Byrne, Duke Street; durante Bloomsday, quando i dublinesi interpretano i personaggi di Ulisse; Trinity College, fondato nel 1592 dalla regina d’Inghilterra Elisabetta I; Casa Belvedere: James Joyce fu allievo qui e ne descrisse l’atmosfera in Ritratto dell’artista da giovane.

odissea di Leopold Bloom

Ulisse tra atmosfere decadenti e personaggi edoardiani

abiti edoardiani e uomini in abito scuro con camicie dal colletto inamidato applaudono entusiasticamente attori, veri o per un giorno, mentre consumano una prima colazione che, per i devoti dell’Ulisse, deve essere rigorosamente a base di uova e bacon, pomodori, tè, caffè e vino rosso. Proprio di fronte, in riva al mare, la mattinata inizia con altre letture di brani di Joyce sulla Martello Tower, costruita contro una possibile invasione napoleonica, dove la giornata di Leopold inizia con l’episodio di Telemaco e un piccolo museo ricorda lo scrittore. «...Dove fallirono inglesi, Chiesa, benpensanti, [...] li stanno quasi ammazzando ritmi di vita e leggi contro fumo e alcool!»

Da qui la scena si sposta verso il centro a Rogerson’s Quay, di fronte all’eterea skyline del ponte Samuel Beckett realizzato da Calatrava che scavalca il fiume Liffey nel cuore dei Silicon Docks, alter ego contemporanea della Dublino storica che si materializza sul lungofiume con l’imponente architettura neoclassica della Custom House, la Dogana, dove di una precaria baracca in legno per vetturini appoggiata al Butt Bridge è sopravvissuto solo il ricordo nell’episodio del Cabman’s shelter Dal vicino O’Connell Bridge, Leopold lancia un dolce ai gabbiani senza farsi mancare una delle sue sarcastiche considerazioni, «…Una nuvoletta di fumo sorse come una piuma dal parapetto. Chiatta della birreria con birra scura da esportazione… Sarebbe interessante un giorno […] visitare la birreria. Piscine di birra scura, meraviglioso. Ci entrano anche i ratti. Bevono e si gonfiano […] Ubriachi fradici di birra scura […] Immagina berti quella roba!».

Oltre il ponte, un’infilata di palazzi annuncia O’Connell Street, gli Champs Elysées di Dublino affollati di statue di padri della patria che ascoltano pazientemente per l’ennesima volta la banda della polizia intonare Dublin Saunter davanti a una statua di Joyce, «Non c’è bisogno di affrettarsi, né di preoccuparsi / voi siete un re e la signora è una regina», mentre da un vicino pub escono le note di qualche nuovo gruppo musicale che sogna di emulare gli U2.

Il lungofiume della Liffey

Seguendo il lungofiume, dai piani su-

periori del Merchant’s Ark, pub che compare anche nell’Ulisse, la sottile sagoma in ferro dell’iconico Ha’Penny Bridge sembra volare sulla Liffey mentre poco più a sud gli altoparlanti dei bus turistici sparano senza pietà le note della ballata dedicata a Molly Malone, mitica venditrice ambulante immortalata da una statua completa di molluschi e carretto. Quanto basta per un’istante di felicità dei tanti O’Connell, Reagan e Kennedy, tutti rigorosamente con cappellino verde e trifoglio stampato, arrivati in pellegrinaggio dagli States dove i loro padri erano emigrati in cerca di fortuna. Sono diretti verso le fragili miniature del Book of Kells, celebre manoscrit-

to conservato tra le scaffalature profumate di legno e di storia della Old Library del vicino Trinity College fondato nel 1592 da Elisabetta I per «civilizzare» gli irlandesi. Leopold Bloom invece attraversa i giardini del college dicendo tra sé che non avrebbe mai voluto viverci, tardiva vendetta dell’autore che non aveva ottenuto una raccomandazione della chiesa per iscriversi. Poi compra una saponetta al limone per Molly all’ex farmacia di Sweny, dove tra scaffali e charme vittoriani sopravvive un circolo letterario che si finanzia con la vendita di cloni della saponetta originale. Nella vicina sala a cupola della National Library, identica alla descri-

zione nell’Ulisse, l’autore si ritrovava spesso con gli amici più stretti, magari per poi imbucarsi nel vicino Davy Byrne’s pub a consumare uno spuntino a base di gorgonzola e Burgundy vine che il Bloomsday ha trasformato in un rito officiato da folle di fans in costume.

Intorno a loro si respira ancora l’elegante understatement della Dublino georgiana, da Grafton street a Merrion Square, magico rettangolo scandito da coloratissime porte che un tempo erano l’indirizzo di Oscar Wilde, William Butler Yeats e del duca di Wellington, proprio quello di Waterloo, e ancora oggi sono il biglietto da visita per chi vuole scalare la nuova Dublino.

A casa di Leopold Bloom

A nord della Liffey i festeggiamenti continuano all’Ormond hotel nelle atmosfere un po’ decadenti del cosiddetto Bloomsland. Una terra promessa percorsa ogni giorno da innumerevoli lettori di Joyce, libri alla mano, da Ulisse a Gente di Dublino, seguendo le targhe in bronzo che segnalano i luoghi topici, da Belvedere House in cui studiò, alla struggente Mountjoy Square abitata fino all’inizio del diciannovesimo secolo dall’aristocrazia anglo-irlandese. Al mitico numero 7 di Eccles Street, Leopold aveva iniziato la giornata con una colazione di «rognoni di castrato alla griglia che gli lasciarono nel palato un fine gusto d’urina leggermente aromatica», per poi concluderla idealmente con il monologo della moglie Molly. Una spericolata prova d’autore di oltre quaranta pagine con due soli segni di punteggiatura in un flusso ininterrotto di idee e sensazioni che scorrono liberamente. Oggi l’abitazione di Leopold non esiste più, rimpiazzata da un ospedale privato, ma la porta originale è stata traslata come una preziosa reliquia nel James Joyce Centre, il piccolo museo di North Great George’s Street trasformato in sacrario di testimonianze sullo scrittore.

Il polmone verde di Dublino

Per concludere la giornata, dopo una doverosa visita alla prima copia dell’Ulisse esposta nel nuovo Museo della letteratura irlandese, non c’è niente di meglio che imbucarsi in qualche party edoardiano open air dove distinte signore in costume suonano con l’arpa struggenti ballate che accompagnano letture dell’Ulisse a St Stephen’s Green, il polmone verde di Dublino che, nelle parole di Leopold, diventa un’epopea di alberi e colori. Oppure farsi risucchiare da qualche pub dove le ore volano via, al ritmo dall’attrazione fatale per una pint, magari meditando sulle memorabili parole di J.P. Donleavy in Ginger Man, epopea bohémienne nella Dublino degli anni Cinquanta: «Quando morirò voglio decompormi in un barile di birra scura. E quando sarò servito in tutti i pubs di Dublino, mi domando se sapranno chi io fossi». Perché Dublino è anche questo e altro ancora.

GUSTO

Solstizio d’estate

Lo sapevi?

La festa di mezz’estate è la festa più importante della Scandinavia, che si celebra in occasione del solstizio d’estate. In Svezia si balla intorno a un albero di maggio, mentre in Norvegia, Danimarca e nei Paesi baltici si accendono i fuochi di San Giovanni. I festeggiamenti sono particolarmente sentiti in Svezia. Il menu della festa comprende pesce, verdure, panna acida, cracker, fragole e acquavite, e si festeggia all’aperto. Quest’anno, la «notte bianca» in Svezia si terrà sabato 21 giugno. In molti posti la festa comincia già la sera prima e dura fino a domenica.

Delizioso solstizio d’estate

Quando il sole non tramonta quasi più, in tutta la Scandinavia si celebra il solstizio d’estate. Alcune gustose ricette per festeggiare insieme.

Text: Claudia Schmidt

Tè freddo ai fiori

Il tè freddo ai fiori fatto in casa con cubetti di ghiaccio rosa ai fiori è una bevanda piacevolmente rinfrescante che non è amata solo dai bambini.

Bicchiere con cannuccia Kitchen & Co. Blu e verde, 650 ml, 1 pezzo Fr. 3.95
Lampione solare 25 cm Fr. 12.95

Insalatiera con posate Kitchen & Co. melamin, 25 cm Fr. 19.95

Smörgåstårta

Una specialità scandinava preparata strato per strato con pane per toast, maionese, crème fraîche, uova, cetrioli, salmone, gamberetti, erba cipollina e aneto.

Torta alle bacche

Un velo di cioccolato si nasconde sotto uno strato cremoso di panna e yogurt guarnito da una miscela di bacche fresche. Una delizia subito pronta.

Ricetta

Trota marinata alle erbe

Piatto principale, per 4 persone

50 g di mandorle salate affumicate 2 mazzetti di erbe aromatiche miste, ad es. prezzemolo, aneto e cerfoglio

0,5 dl d’olio d’oliva

1 cucchiaio di succo di limone sale pepe al limone o pepe

4 trote intere di ca. 450 g ciascuna 2 limoni

1. Trita grossolanamente le mandorle e le erbe aromatiche e mescolale con l’olio e il succo di limone. Condisci con sale e pepe. Asciuga le trote con carta da cucina e spennellale con un po’ di marinata. Dividi i limoni a metà.

2. Scalda il grill a 220 °C. Griglia le trote a fuoco medio 8-10 minuti per lato, girandole di tanto in tanto. Griglia i limoni sulla superficie di taglio per ca. 5 minuti. Le trote sono cotte, quando le pinne natatorie si staccano facilmente tirandole. Servi i pesci e i limoni e irrora il tutto con il resto della marinata alle erbe.

Consiglio utile

Le temperature elevate (220-280 °C) sono ideali per rosolare o grigliare a calore diretto; gli alimenti si accomodano sulla griglia direttamente sulla fonte di calore, la brace. La cottura a calore indiretto richiede temperature medie (180-220 °C), gli alimenti sulla griglia non vanno posti direttamente sulla fonte di calore e il coperchio del grill è abbassato. Griglia le trote con un’apposita griglia per pesci, così sarà più semplice girarle. Le trote si possono cuocere anche nel forno caldo ventilato a 180 °C per 20-30 minuti.

Tovaglioli Kitchen & Co. div. soggetti, 33 x 33 cm, 1 pezzo Fr. 4.50

TEMPO LIBERO

Nel cuore del Piano di Magadino È possibile capire il territorio anche attraverso i suoni: sul Piano di Magadino sei piattaforme per un percorso completamente immerso nella natura

Battiti d’ali di magiche farfalle

Nel tutorial di questa settimana impariamo come trasferire le immagini di farfalle che si trovano sui tovaglioli con la pellicola trasparente per alimenti

Brividi e popcorn: breve storia del jumpscare

Tra il ludico e il dilettevole ◆ Da semplice trovata per mettere paura agli spettatori, negli anni lo spavento è diventato un marchio di fabbrica del cinema horror

Se il cinema horror è molto apprezzato, in particolare fra i giovani, è anche grazie all’utilizzo di una tecnica che, con il tempo, è diventata un vero e proprio marchio di fabbrica. Stiamo parlando del jumpscare, termine inglese creato su misura per indicare quegli spaventi (scare) che ci fanno sobbalzare ( jump) sulla sedia del cinema o, in alternativa, sul divano di casa.

Avete presente quelle scene nei film horror quando all’improvviso alle spalle del protagonista si materializza una creatura dell’Oltretomba, prende vita un tostapane, sbuca un treno in corsa da un angolo cieco, o succede qualcosa d’altro che ci coglie così impreparati che sobbalziamo in preda al terrore? Queste scene costituiscono dei jumpscares: arrivano così improvvise e inaspettate che ci colgono impreparati, provocando quella brusca reazione del sistema nervoso nota come spavento.

Il termine jumpscare indica, in questo senso, sia la procedura stilistica che si concretizza per mezzo di una scena inattesa che provoca lo spavento, sia la scena stessa. Non bisogna essere allenati, aver fatto degli studi approfonditi, e neppure essere dotati di una sensibilità sopraffina per riconoscere un jumpscare. Lo spavento è una reazione talmente connaturata all’essere umano, che quando si fornisce una definizione sufficientemente chiara di jumpscare, tutti sanno di cosa stiamo parlando, e ognuno riconosce di avere già visto alcune scene che ricorrono a questa tecnica. Ciononostante, non tutti la pensano allo stesso modo, tanto che il jumpscare è un fenomeno fortemente divisivo. C’è chi li ama e ne ricerca assiduamente la scarica adrenalinica, e c’è chi invece li detesta e li evita in modo categorico. O, ancora, c’è chi si limita a sopportarli stoicamente e magari sostiene, per darsi delle arie, di essere immune dallo spavento. I critici sono sostanzialmente d’accordo nell’affermare che il primo chiaro esempio di jumpscare nella storia del cinema compare in Cat People (Il bacio della pantera nera), film del 1942 diretto da Jacques Tourneur. In una scena del film la protagonista Irena pedina Alice, l’assistente di suo marito, dopo aver sorpreso i due in un ristorante in atteggiamenti equivoci. È notte, le strade sono illuminate fiocamente e solo a intermittenza. La macchina da presa segue Alice nella sua solitaria camminata che entra ed esce dall’ombra mostrando, a stacchi alternati, la pedinatrice. Lo spettatore, a questo punto, conosce già il segreto di Irena: vittima di una sorta di maleficio ancestrale, la donna si trasformerebbe in una pantera quando è

in preda a forti passioni. All’inizio del pedinamento Irena si tiene a distanza di sicurezza ma poi, a un certo punto, Alice si ferma, si guarda alle spalle, come se avvertisse una strana presenza. Poi ricomincia a camminare, ma questa volta il passo è più rapido. Il ritmo concitato e la crescente agitazione dipinta sul volto di Alice lasciano intendere che Irena, trasformatasi in pantera, potrebbe sorprenderla alle spalle.

I giovani, oggi più che mai, attrezzati di popcorn e Coca-Cola guardano i film horror alla ricerca di un fremito da antologia

Ma proprio quando tutto sembra precipitare, lo spazio viene squarciato dal suono stridente di un autobus che sopraggiunge, si ferma, e Alice sale a bordo. Così, nel breve volgere di un istante, quello che all’inizio sembra il ringhio di una belva si muta nel sibilo stridente dell’autobus, facendo sobbalzare tanto Alice

quanto lo spettatore che, empatico, partecipa alla scena. È in quell’attimo, non prima e non dopo, che si condensa il primo vero jumpscare della storia del cinema.

Negli anni successivi a Il bacio della pantera, il meccanismo del jumpscare non subisce grandi rimaneggiamenti, e viene utilizzato con una certa parsimonia dai registi. Ne troviamo un esempio piuttosto noto in The Birds (Gli uccelli) realizzato da Alfred Hitchcock nel 1963, quando Melania sale in soffitta, con una torcia in mano, incuriosita da un suono. In soffitta inizialmente non trova nulla, se non un silenzio ovattato. Ma poi, di colpo, subisce l’attacco di uno stormo di uccelli che, fuori controllo, la colpiscono ripetutamente sul volto e sul corpo. A partire dalla fine agli anni 70, il jumpscare comincerà a essere impiegato in maniera più frequente. Molti registi di alcune delle saghe horror più fortunate degli ultimi decenni – come Friday the 13th, Nightmare on Elm Street, o Halloween – capiscono che inserire un jumpscare nel finale di un film è il modo migliore

per annunciarne il sequel e, se l’effetto è particolarmente riuscito, per rendere iconica la scena finale.

Nell’epilogo di Friday the 13th (Venerdì 13) diretto da Sean S. Cunningham nel 1980, per esempio, si accumulano i segni che sottolineano la presenza apparente di un happy end tradizionale. Vediamo una barca, sulla quale giace la protagonista priva di conoscenza, galleggiare solitaria sull’acqua di un laghetto. Ci colpisce la forza evocativa del paesaggio, le luci e i riflessi sull’acqua ci suggeriscono la vicinanza del tramonto, e una melodia in crescendo conferisce alla scena una dimensione onirica, malinconica, quasi romantica. Poi sopraggiunge l’auto della polizia con le sirene accese, posteggia, scendono i poliziotti: sembra il tipico preludio che, nei thriller hollywoodiani, annuncia la chiusura della vicenda. E quando vediamo il poliziotto che da riva chiama la donna che, come da un lungo sonno, si ridesta e guarda verso riva, il quadro sembra maturo per il classico lieto fine. Senonché, improvvisamente, dall’acqua emerge il

braccio del redivivo assassino che, in un ultimo sussulto, rovescia la barca e trascina la donna sott’acqua. Poi l’ultima, breve, desolante scena, in un primo piano che ci mostra il torbido specchio del lago increspato dall’onda di quell’ultimo assalto. Considerando che la nascita delle prime saghe horror alla fine degli anni 70 coincide con un’impennata di popolarità di un genere che, nonostante qualche passaggio a vuoto, ancora oggi continua ad avere il vento in poppa, mi permetto un’ipotesi: che ci sia una correlazione fra l’apparizione di franchise horror infarciti di jumpscare, lo sviluppo delle moderne sale cinematografiche multiplex, e il consumo di porzioni extra large di popcorn e coca-cola? Molti giovani spettatori, del resto, ancora oggi frequentano le sale in cerca di jumpscare da antologia. Ancora meglio, poi, se i brividi vengono accompagnati da un cestino di popcorn. E se intere manciate di popcorn finiscono per terra quando arriva il jumpscare, non vi è alcun problema: fa tutto parte del gioco.

Il brivido – al cinema – è ancora oggi il benvenuto, soprattutto tra i giovani. (Freepik)
Sebastiano Caroni
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ulle tracce della passeggiata –

Bloomsday commemora ogni anno, a Dublino, la scandalosa giornata immortalata da James Joyce nel suo mitico e intramontabile

A Misery Hill, la collina dove veni vano impiccati e lasciati a marcire per mesi pirati e criminali, un vento geli do sferza le avveniristiche architettu re dei Silicon Docks, il nuovo cuore tecnologico e finanziario di Dublino cresciuto sulle ceneri del vecchio por to. Scenari di città futura che hanno cambiato i connotati della Dublino bigotta e provinciale di un tempo, che vantava più suore per me tro quadrato del Vaticano e più tutto il pianeta.

te uno sconsolato tassista. «I turisti mi domandano dove sono finiti gli irlan

e

dell’artista

tà e ironia dove ogni parola diventa un ponte verso altre parole, quasi unate nei meandri dell’immaginazionedo rigoroso. A partire dalla data che rievoca il primo appuntamento dello scrittore con Nora, sua futura moglie

dove sono finiti gli irlandesi -

pera caratterizzata da una particolare tecnica di scrittura, il «flusso di coscienza», uno stile narrativo che varia continuamente in cui i pensieri si susseguono liberamente senza punteggiatura. Pagine pervase di musicali-

bile per tirare fuori il meglio dell’anima , perché gli irlandesi sono per l’Irlanda quello che lo champagnedo una Dublino meno conosciuta al esistenziale, o seguendo l’itinerario delle diciotto , idealmente collegatere il tutto provvede la geografia della città che diventa una mappa fisica, in un vissuto collettivo cementato dallatificano con luoghi particolari, dallale strade di Leopold Bloom fino alla

Un tour de force letterario, ma anche di resistenza etilico-gastronomica da affrontare partendo carburati da una buona colazione a Sandycove nella baia di Dublino, possibilmente in qualche locale dove signore dai colorati
Monumento a James Joyce, O’Connell St. e sullo sfondo l’Ufficio Postale sotto, Temple Bar, quartiere alla moda con ristoranti, pub e gallerie d’arte. Di fianco, in ordine cronologico, Il pub di Davy Byrne, Duke Street; durante Bloomsday, interpretano i personaggi Trinity College, fondato nel 1592 dalla regina d’Inghilterra Elisabetta I; Casa Belvedere: James Joyce fu allievo qui
ne descrisse l’atmosfera in Ritratto
da giovane.

Per chi sa fermarsi ad ascoltare

Itinerario ◆ Un percorso acustico nel cuore del Piano di Magadino offre sei piattaforme posizionate dove il paesaggio si rivela anche attraverso i suoni

Lo si attraversa a piedi o in bicicletta, ma anche in auto o in treno. Il Parco del Piano di Magadino si estende su una superficie di 2350 ettari, coprendo circa il 60% della superficie totale del Piano. Comprende spazi agricoli e naturalistici, ma anche vie di comunicazione e alcune, poche, zone edificate. Raggiungerlo è molto semplice, essendo racchiuso in un territorio compreso tra Sementina e il Lago Maggiore e delimitato lateralmente dai nuclei abitati ai piedi delle montagne. I punti d’accesso sono numerosissimi, così come anche le opportunità: dalle passeggiate alle attività sportive nella natura, dalle visite alle osservazioni.

La bellezza e la semplicità di un’ambiente pregiato si possono osservare quotidianamente, seguendo le varie vie che attraversano questa distesa di quasi undici chilometri di lunghezza e una larghezza media di circa due chilometri, dove s’incontrano per esempio anche il laghetto del Demanio, il viale alberato, la riserva naturale Ciossa Antognini o l’area protetta delle Bolle. Ma oltre alla vista, anche altri sensi vengono stimolati: odori e rumori ci travolgono e nel 2023 la Fondazione del Parco del Piano di Magadino ha inaugurato un progetto per far vivere, in modo originale il territorio. Si tratta di un paesaggio sonoro composto da sei piattaforme, distribuite dalle Bolle di Magadino a Giubiasco, nelle quali il visitatore è invitato ad ascoltare i suoni della natura e non solo.

Camminare con attenzione al rumore cambia il modo di esplorare il territorio: dal cinguettio agli aerei, i suoni del Parco diventano parte dell’escursione

Camminando o pedalando s’incrociano le postazioni che, corredate da un pannello informativo, sono l’occasione per fermarsi ad ascoltare l’ambiente circostante. A dipendenza del luogo, della stagione e dell’orario di percorrenza, si possono udire il cin-

guettio degli uccelli, il vento, il fiume o il rumore di qualche animale. Ma non mancano i brusii di sottofondo, il frastuono della strada (soprattutto alla postazione numero due, situata al Ponte sul Fiume Ticino), oppure rimbombi lontani, per esempio di macchinari al lavoro. E poi, ancora, gli aeroplani, il treno o il ronzio dell’alta tensione, in particolare alla Monda, postazione numero tre. Una vasta varietà di suoni che cambiano a dipendenza del luogo e del momento e che si possono anche confrontare o rivivere ascoltando quelli registrati sul sito del Parco, a cui si accede anche tramite un codice QR segnalato su pannelli informativi. Sulle tavole si trova la cartina del Piano, così da potersi orientare e raggiungere il punto successivo, ma anche piccole e brevi

spiegazioni sui motivi di alcuni suoni o altre particolarità, con pure alcuni spunti per ascoltarli in modo differente. Per meglio udire i rumori, ogni piattaforma è dotata di alcuni semplici imbuti che, come l’intera struttura, sono stati costruiti con legno di larice e abete ticinesi.

Come sottolineato in fase di presentazione dal direttore della Fondazione del Parco del Piano di Magadino Giovanni Antognini, «si tratta di un progetto legato al tempo libero, ma che ha pure una ragione didattica perché si allena un senso importante come l’udito e nel contempo si comprende la complessità di un ampio territorio e della sua variegata natura». Proprio per questi aspetti, il percorso è particolarmente adatto ai bambini e alle famiglie, che lo posso-

Eterna bimba

Mondoverde ◆ Bella e sobria magnolia stellata

Amante di posizioni luminose e soleggiate, al riparo dai venti forti, la magnolia stellata è una delle piante da fiore più facili da coltivare, regalandoci una fioritura scenografica anche se coltivata in vaso.

A me ricorda un’eterna bambina, visto che rimane di dimensioni contenute per molti anni e rinnova la sua fioritura ogni primavera.

È un arbusto originario del Giappone che arriva a raggiungere, nel corso di decenni, i 4-5 metri di altezza e ha una chioma molto fitta.

Con il tempo assume una forma ovale e ordinata, con foglie verde chiaro che, in autunno, assumono un’intensa colorazione giallo bronzo prima di cadere.

Tra marzo e aprile la stellata si riempie di fiori bellissimi e intensamente profumati, formati da 10-15 petali lunghi, simili a stringhe, dal colore bianco puro o rosato come nella varietà «Rosea», anch’essa giapponese, ma portata prima negli Stati Uniti nel 1862 da George R. Hall e successivamente in Inghilterra nel 1878, da dove si è diffusa per il resto del continente.

no completare in bicicletta e partecipare al concorso, cercando di scovare i suoni che si percepiscono nelle varie postazioni (il tagliando di partecipazione è inserito nel volantino del progetto, reperibile sul sito del Parco o presso le Organizzazioni turistiche regionali).

Uno degli obiettivi del Piano di utilizzazione cantonale (PUC) del Parco del Piano di Magadino è d’altronde proprio quello di valorizzare lo svago di prossimità quale componente dell’offerta turistica regionale. Accanto a questo tipo d’attività, rientrano nel concetto del Parco anche la valorizzazione della qualità del paesaggio, della ricchezza ecologica e della biodiversità, il tutto rafforzando e sostenendo il settore agricolo, sempre proteggendo, gestendo e promuovendo le componenti naturali e le funzioni ecologiche presenti al suo interno.

Costituito nel 2014 con l’obiettivo di favorire uno sviluppo sinergico delle diverse vocazioni del territorio, il Parco s’è quindi arricchito con un ulteriore tassello, appoggiandosi su delle solide conoscenze: «Esatto, in Ticino il concetto di paesaggio sonoro (soundscape) è stato ripreso e approfondito dal DFA della Supsi, dal quale abbiamo attinto diverse competenze», conclude Antognini.

Link https://parcodelpiano.ch/ esperienze/percorso-sonoro

Un’altra interessante magnolia stellata rosa è l’ibrido M. stellata x liliflora nigra «George H. Kern», dal portamento piramidale e fiori a calice con petali esterni rosa carico e bianchi nella parte interna, caratterizzati da una doppia fioritura in aprile e poi meno intensa in luglio.

Grazie alla sua crescita lentissima la magnolia stellata (raggiunge la sua maturità in 20-30 anni, se non viene potata o i suoi rami non si spezzano con la neve), la si può tenere a lungo in vaso, scegliendo un contenitore molto capiente e avendo cura di nutrirla con un concime universale per piante da fiore, innaffiandola solo quando il terreno è asciutto.

In inverno, benché non soffra il freddo, teme le gelate tardive sui boccioli e per evitare di perderne la fioritura, oltre che trovarle un angolo riparato in terrazza o in giardino, la si può ricoprire con un tessuto non tessuto per proteggere la chioma.

Agnieszka Kwiecien´, Nova
Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli già ridotti.

Meravigliose farfalle di carta e feltro

Crea con noi ◆ Impariamo a trasferire le immagini dei tovaglioli con la pellicola trasparente per alimenti

In questo progetto di bricolage, sperimentiamo una tecnica per trasferire le immagini dei tovaglioli di carta, utilizzando la pellicola trasparente per alimenti che comunemente abbiamo in casa.

I motivi dei tovaglioli (in questo caso, farfalle) vengono applicati su ritagli di pannolenci grazie al calore del ferro da stiro, che scioglie la pellicola trasformandola in un collante termico.

Il risultato? Elementi decorativi leggeri e versatili, ideali per creare biglietti d’auguri o una decorazione primaverile da appendere.

Procedimento

Ritagliate i motivi desiderati dai tovaglioli, mantenendo solo il primo velo con la stampa. Posizionate i ritagli su dei pezzi di pannolenci.

Per questa fase, per maggiore comodità, potete lavorare su un’asse da stiro.

Stendete un foglio di carta da forno e posizionatevi sopra i rettangoli di pannolenci con i ritagli dei tovaglioli. Sistemate la pellicola da cucina trasparente sopra i ritagli, facendo attenzione che non sporga dai bordi del pannolenci.

Ripiegate il foglio di carta da forno

Giochi e passatempi

Cruciverba

Sapresti dire quante api si possono trovare in un alveare a primavera? Lo scoprirai, a cruciverba ultimato, leggendo nelle caselle evidenziate.

(oppure coprite con un secondo foglio) e passate il ferro da stiro ben caldo per pochi secondi, senza vapore. La pellicola si scioglierà e incollerà il tovagliolo al pannolenci.

Sollevate delicatamente il foglio di carta da forno per controllare che la pellicola si sia fusa correttamente e che i motivi siano ben aderenti al feltro. Una volta raffreddato, ritagliate le farfalle seguendo il contorno o create piccoli cerchi o ovali aiutandovi per esempio con dei tappi o dei bicchieri per disegnare i contorni. Se amate usare ago e filo, rifinite il bordo con un punto festone a mano (opzionale).

Sovrapponete un ritaglio di pagina di libro a un sottobicchiere di carta decorativo. Incollate al centro le farfalle su pannolenci.

Creazione biglietti

Incollate i medaglioni ottenuti in precedenza su di un cartoncino craft 10x15cm.

Realizzazione della ghirlanda

Appendete a uno spago con piccole mollette i medaglioni. Potete alternare farfalle rifinite a punto festone con altre ritagliate seguendo la loro forma. Idea in più Motivi piccoli, come queste farfalle, si prestano anche a essere trasformati in piccoli adesivi da utilizzare in tante occasioni per decorare biglietti, lettere o pagine della vostra agenda.

Materiale

• Tovaglioli decorativi

• Sottobicchieri di carta lavorata

• Ritagli di pagine di vecchi libri

• Cartoncino kraft

• Ritagli di pannolenci bianco

• Pellicola trasparente da cucina e carta da forno

• Ferro da stiro

• Forbici, spago

• Ago e filo per punto festone

• Colla a caldo

(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage)

Vi basterà posizionare i ritagli sulla carta da forno, coprirli con un foglio di pellicola trasparente o con del nastro adesivo largo trasparente. Ritagliate i motivi lasciando un piccolo bordo tutto intorno, e i vostri adesivi fai-da-te saranno pronti all’uso!

Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku

(Frase: 5, 11) Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

ORIZZONTALI

1. Avverbio di modo

5. Cresce nei terreni incolti

11. Vi rimase sepolto Encelado

13. Aumentano in età avanzata

15. Nasce in un attimo

17. Fa spesso rima con amor

18. Lampanti

20. Un abito per cerimonie

22. Pulito a Londra

24. Gabbia per polli

26. Canta «Battito infinito» (iniz.)

28. Vasi panciuti

30. Il famoso Tse-tung

32. La dea madre di Zefiro

33. Liquido secreto dal fegato

35. Le iniziali dell’attrice Stefanenko

36. Serie di avventure e peripezie

VERTICALI

1. Di nove... vocali

3. Vi si depositano i carichi navali

4. Stato dell’Asia

6. Le iniziali dell’attore Memphis

7. Sottinteso, inespresso

8. Non giova a nulla

9. Pronome dimostrativo

10. L’atmosfera del Pascoli

12. Le iniziali del fisico della relatività

14. Il monte del Vajont

16. Il «ma» latino

19. Le iniziali dell’attrice Logan

21. Le iniziali di una Sandrelli attrice

23. Grossa nube

25. Residuo di macchia

27. Azione armata a sorpresa

29. Pronome personale

31. Variano di viscosità

34. Le iniziali del romanziere Salgari

Soluzione della settimana precedente FAUNA MARINA – Nome del celenterato marino: CARAVELLA PORTOGHESE

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku cliccando sull’icona «Concorsi», homepage in alto a destra Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano . Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.

Viaggiatori d’Occidente

Niente

è per sempre

«Todo cambia» cantava Mercedes Sosa, una tra le voci più riconoscibili della musica latinoamericana. Soprattutto nel turismo, aggiungerei io. Un esempio? «Fate come la Costa Rica!». Per molti anni il Paese centroamericano è stato il mio esempio virtuoso per eccellenza, perché ha puntato per tempo sull’ecoturismo, valorizzando la foresta tropicale e la biodiversità. Un quarto del Paese è parco nazionale e quelle regioni attirano da sole metà dei turisti internazionali; inoltre gli ecoturisti hanno di solito una buona capacità di spesa e non sono perennemente alla ricerca del prezzo più basso.

E così nell’ultimo quarto di secolo il turismo è diventato il pilastro dell’economia (al posto dell’agricoltura), generando l’8% del prodotto interno lordo e il 25% dell’occupazione. A partire dagli ultimi mesi dello scorso

anno tuttavia gli arrivi internazionali sono calati, specie dai Paesi europei (-44% dalla Germania, -32% dalla Francia e -29% dalla Spagna). La principale causa del declino è la crescente criminalità. Un tempo considerata una delle mete più sicure dell’America Latina, la Costa Rica ha visto un preoccupante aumento degli episodi di violenza, con un record negativo di oltre novecento omicidi nel 2023. Le cause sono diverse e complesse: il narcotraffico, le difficoltà delle forze dell’ordine, le incerte prospettive dei giovani reclutati dalle gang locali. Nessuna di queste cause è direttamente legata al turismo, ma alcuni Paesi, a cominciare dagli Stati Uniti, hanno alzato il livello di allerta, invitando i viaggiatori alla cautela, con conseguenze facilmente immaginabili. Nel frattempo, più a nord, i turisti internazionali sembravano aver risco-

Cammino per Milano

Il giardino Belgiojoso

Pochi sanno che uno dei primi giardini all’inglese in Italia si trova in pieno centro a Milano. Anche perché ha la particolarità di un divieto di accesso ai maggiori di dodici anni non accompagnati da bambini sotto i dodici anni. E così, se uno non vuole rinunciare alle sue impressioni da passeggiatore solitario stile Rousseau né aspettare una delle rare visite guidate, il giardino acquisisce un vago senso del proibito. A fianco della Galleria d’Arte Moderna, ex Villa Belgiojoso-Bonaparte (nome aggiunto dopo la parentesi napoleonica) nota anche come Villa Reale, in una tregua temporalesca di primo pomeriggio verso fine primavera, da via Palestro m’infilo in un vialetto discosto. In pochi passi mi si apre davanti un parco-paesaggio che non avrei mai immaginato così arcadico. In un colpo d’occhio abbraccio manto chiaro dell’erba, contrasto con chiome cupe, un cenno

di laghetto, statua misteriosa in lontananza, consapevolezza di follie architettoniche celate, vaghezza. Nessuno mi dice niente ma non c’è neanche nessuno in giro, il cielo minaccia un altro temporale. Progettato, come la villa maestosa, nel 1790 da Leopoldo Pollack (1751-1806) – architetto nato a Vienna e trapiantato presto a Milano dove diviene insegnante di prospettiva a Brera – per il conte Ludovico Barbiano di Belgiojoso (1728-1801), generale maggiore e palchettista alla Scala, è un parco-dipinto. La sua veduta d’insieme appare, in una incisione su rame dove si contano sette coppiette a passeggio e una di cigni nel laghetto, a pagina centoventicinque Dell’arte dei giardini inglesi (1801). Straordinario trattato di Ercole Silva, precursore dei giardini all’inglese italiani che sembra avere un ruolo in questo posto però taciuto dallo stesso, nel suo libro, e attribuito

Sport in Azione

perto New York, anche in occasione dei quattrocento anni dalla fondazione della città. Era infatti il 1624 quando la Compagnia olandese delle Indie occidentali trasportò a bordo della nave «Nieuw Nederland» trenta famiglie, in gran parte ugonotti francesi, per fondare uno dei primi insediamenti olandesi in America, sull’isola di Nutten (oggi Governors Island). L’anno successivo, nel 1625, fu costruito il Forte Amsterdam sull’isola di Manhattan. Infine nel 1626 Peter Minuit negoziò con gli indigeni il diritto all’uso di Manhattan, stabilendo un insediamento permanente. Quando la colonia di Nuova Amsterdam fu conquistata dagli inglesi nel 1664, la popolazione era cresciuta fino a novemila abitanti, mescolando insieme olandesi, inglesi, gallesi, irlandesi, scozzesi, tedeschi, ugonotti francesi, ebrei sefarditi, africani e molte altre naziona-

lità. Ma proprio mentre la Grande mela (lo slogan turistico più azzeccato di sempre) celebra le sue origini in chiave multiculturale, le scelte politiche del presidente Trump hanno provocato un netto calo dei turisti stranieri. È vero che questi rappresentano solo il 20% del totale, ma il loro contributo alla spesa turistica sfiora il 50%. Per questo ci si aspetta ora una diminuzione di ben 4 miliardi di dollari, una sfida per tutte le attività che ruotano intorno al turismo, dagli spettacoli di Broadway ai piccoli commerci di quartiere. Il calo dei turisti stranieri provocato dalla retorica ostile dell’amministrazione Trump, così come dalle sue politiche commerciali e migratorie, è particolarmente evidente nel caso dei visitatori canadesi e francesi, ma riguarda tutta l’Europa occidentale, nonostante il cambio favorevole con il dollaro e la tendenza alla crescita del

turismo su scala mondiale (nel 2025 solo gli Stati Uniti sembrano destinati a registrare una flessione). Per ironia della sorte, New York è una Blue City, ovvero una città storicamente e saldamente democratica. Nessun candidato repubblicano alla presidenza ha vinto in città dal 1924 e anche nelle elezioni del 5 novembre 2024 Kamala Harris ha largamente battuto Donald Trump. Queste vicende apparentemente remote insegnano qualcosa anche a noi. Il turismo è influenzato da infiniti fattori (relazioni internazionali, politica, economia), spesso al di fuori del controllo degli operatori. Inutile dunque fare troppi progetti e piani strategici dettagliati, meglio seguire la propria inclinazione naturale e puntare sull’elasticità, la capacità di adattamento e di reazione.

Chi vivrà vedrà.

tutto «all’intelligentissimo proprietario» e al «valente architetto». Trovo un Nettuno tra le ortensie. In pietra ammantata di muschio, calpesta un mostro marino stile pescegatto. In un lampo però il mio sguardo è rapito dallo sguardo folle e disperato di un’altra statua, con le mani a coppa portate alla bocca per bere. Trilogia-fontana di Adolfo Wildt intitolata Il Santo, il giovane, la saggezza (1912) talmente incredibile, prigioniera dietro il vetro di una edicoletta, che devo tornare a raccontarvela come si deve. Soltanto un ultimo accenno, girandomi a incontrare ancora gli occhi scavati di quei tre corpi mortuari in marmo modellati di notte, per anni, a lume di candela, dietro il vetro che riflette le chiome degli alberi e come una miniatura, il palazzo neoclassico con sculture sul tetto come una corona. Da qui, dove svetta un platano monumentale e alle sue spalle il

Ferite, rimedi, decessi e memoria storica

Ci sono ferite che difficilmente si rimarginano. Ogni comunità si porta appresso un dolore, individuale e collettivo, che la accompagnerà a lungo. Forse per sempre. Il ciclismo svizzero sarà chiamato a fare i conti con due drammi del recente passato. La morte di Gino Mäder, al Tour de Suisse del 2023, e quella della diciottenne juniores Muriel Furrer, ai Campionati Mondiali di Zurigo dello scorso anno. Due dinamiche diverse con lo stesso tristissimo esito. Che cosa sia accaduto al talentuoso campioncino di Flawil (SG), molto probabilmente non lo sapremo mai. Non ci sono immagini. Non ci sono testimoni. Stava scendendo a velocità, forse sostenuta, dal passo dell’Albula. Era staccato dai primi. Dalla dinamica della corsa si presumeva che non avesse nessun interesse a forzare i tempi per rientrare sulla testa. È bastato un attimo di calo della concentrazione? Un sasso, un rametto che il corridore, rilassa-

to, non è riuscito ad evitare? Chi lo saprà mai? La tesi maggiormente accreditata è la prima, quella della banale distrazione, come era capitato al Giro d’Italia del 2011 al belga Wouter Weylandt. Ma in quella circostanza c’erano immagini e testimoni. Uno sciagurato sguardo a ritroso, a pochi metri dal restringimento della carreggiata. E l’impatto con un muro sporgente che diventa fatale. Una storia che ha seminato sgomento e tristezza, ma che non poteva suscitare polemiche, recriminazioni, o richiamare alla responsabilità di terzi.

Diversa la vicenda di Muriel Furrer. Lei pure era sola, staccata dalla testa della corsa. Lei pure non era seguita da una telecamera. Ma il contesto era diverso rispetto a quello di Gino

Mäder. La giovane, pedalava su un circuito di 27 km. Ogni passaggio critico avrebbe potuto essere monitorato da un pattugliatore. Così non è stato. Muriel ha fatto un dritto in curva, è

stata catapultata fuori strada e ha concluso contro un albero la sua corsa, e la sua breve esistenza. Ci si è accorti della sua assenza dopo circa un’ora. Troppo tardi. Sarebbe bastato capire subito dove si trovava per tentare di salvarle la vita. Gino, Muriel. Due drammi. Due ferite insanabili per i loro cari. Due pugni allo stomaco per il mondo del ciclismo e dello sport. Per evitare che una tale situazione si ripeta, gli organizzatori del Tour de Suisse attualmente in corso, che sono anche i responsabili del Mondiale incriminato, hanno deciso di dotare ogni ciclista e ogni veicolo in corsa di un sistema satellitare di localizzazione. Sembra poca cosa, ma sarebbe stato sufficiente per intervenire con immediatezza sul trauma cranico di Muriel. La tecnologia al servizio della sicurezza, quindi. Proprio come è accaduto alcuni anni fa con l’introduzione delle radioline ricetrasmittenti,

grattacielo anni cinquanta del Centro Svizzero, sono folgorato dal tempietto di Cupido, tra le fronde, sull’isoletta. Scorcio iper-romantico che mi porta altrove. Incamminandomi per raggiungerlo, noto tartarughe nuotare, e laggiù in fondo, la torre del conte Ugolino. Vado matto per queste follie da giardino inglese. La torre merlata in cotto diroccata in partenza, è una nuova rovina legata alla tragica fine del conte pisano cantata da Dante. Da queste parti, come risulta nella legenda della planimetria acquarellata da Pollack, c’era anche una tenda militare detta Tenda Greca nel trattato di Silva dove, in un’illustrazione-acquaforte, mostra le crepe nella muratura e mi ricorda la tenda tartara del Désert du Retz, storico parco anglo-cinese fuori Parigi. Non ne vedo traccia, a prima vista. Supero il ponte rustico e sono sull’isoletta di Cupido come la chiama

Otto Cima in Fra il verde dei giardini milanesi (1925). Otto colonne di granito con capitelli corinzi caserecci, in stucco, sorreggono la cupola del tempietto monoptero dove mi riparo per lo scoppio improvviso del temporale. Sulla stele al centro non c’è niente e sul dorso è cesellata una ghirlanda. «Una semplice ghirlanda di fiori basterà»: mi riaffiorano alla mente le parole di Ercole Silva, consulente occulto del luogo. Più il monumento è semplice meno distrae la vista. Lo sguardo va a caccia del sarcofago di Petrarca. Altra follia d’ispirazione letteraria, ed eccolo là. Da vicino, si legge, scolpito, il nome Laura. Dovrei cercare ancora il tempietto delle Parche, rarità botaniche come l’albero di Sant’Andrea o Diospyros lotus, però viene giù che Dio la manda. Al riparo del tempietto di Cupido mi dedico a repertoriare tutti gli scarabocchi d’amore.

le cosiddette «oreillettes». Qualche appassionato «purista», che vorrebbe vedere i corridori nell’arena come dei moderni gladiatori, continua a storcere il naso. Le informazioni tra ammiraglie e gruppo, secondo loro, limiterebbero lo spettacolo. I fuochi d’artificio che sta proponendo la nuova generazione di campioni smentisce fragorosamente questo assunto. In compenso, le radioline consentono di sapere con largo anticipo dove ci sono ostacoli, manto stradale bagnato o oleoso, cadute, spartitraffico e tutto quanto possa mettere in pericolo l’incolumità dei protagonisti. Statisticamente, se pensiamo alle migliaia di cadute sull’arco di un’intera stagione, a volte spettacolari, parlare di decessi che si contano sulle dita di una mano, sembrerebbe irrilevante. In realtà, fosse anche solo uno, sarebbe uno di troppo. I corridori sono consapevoli che il rischio zero rimarrà un’utopia. Limare, per tenere o

conquistare posizioni in un gruppo di 150 ciclisti che corrono gomito a gomito, comporta e comporterà sempre dei rischi. Così come scendere a 100 all’ora su una strada stretta e magari bagnata su un copertoncino di 2 o 3 centimetri.

La tecnologia può rasserenare. Così come l’impegno degli organizzatori di corse nel disegnare tracciati sicuri. Asfaltare i tratti dissestati è diventato un «must», purché l’operazione avvenga molto prima del passaggio della corsa. L’asfalto nuovo rilascia infatti una patina oleosa che, mescolata con la pioggia, renderebbe il manto stradale scorrevole come il Lauberhorn o la Streif. Dal canto loro i corridori sono chiamati, ma loro lo sanno, a mantenere costantemente altissimo il livello di concentrazione. Le storie dolorose di Gino e Muriel, e di tutti gli altri che hanno pagato il pesante pegno, devono quanto meno servire da monito.

di Giancarlo Dionisio
di Oliver Scharpf

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LO SAPEVI?

L'Islanda è nota per l'allevamento di salmoni di alta qualità, poiché le sue acque sono tra le più limpide e fredde del mondo. Il nostro salmone islandese viene lavorato con la massima cura. I pesci si nutrono di ingredienti di alta qualità e di provenienza responsabile. Il nostro allevatore è anche attivamente impegnato nella tutela dei mari.

8.30

Filetti Gourmet Provençale Pelican, MSC prodotto surgelato, 2 x 400 g, (100 g = 1.04) conf. da 2 40%

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conf. da 3 20%

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a partire da 2 pezzi 20%

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per es. mozzarella, 150 g, 1.92 invece di 2.40, (100 g = 1.28)

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invece di 2.60

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Formaggella ticinese 1/4 grassa per 100 g 16%

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2.20 invece di 2.60

Migros Ticino

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Sostituti del latte da varie

fonti vegetali

Prodotti freschi e pronti

3.35 invece di 4.20 Yogurt Twix mix o M&M's 3 x 120 g, (100 g = 0.93) conf. da 3 20% 5.95 invece di 7.–Panna intera UHT Valflora, IP-SUISSE 2 x 500 ml, (100 ml = 0.60) conf. da 2 15%

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fiori al limone e formaggio fresco o gnocchi al basilico, in confezioni multiple, per es. fiori, 3 x 250 g, 11.75 invece di 14.85, (100 g = 1.57)

conf. da 2 4.–di riduzione

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Dal müesli alla farina, tutto ciò che non deve mancare in dispensa

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d'oliva Don Pablo 1 litro e 500 ml, per es. 1 litro, 8.76 invece di 10.95, (100 ml = 0.88)

20x CUMULUS

Novità Rio Mare disponibile in diverse varietà e in confezioni multiple, per es. tonno all'olio di oliva, 3 x 104 g, 11.25 invece di 14.10, (100 g = 3.61)

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g, (100 g = 1.60)

Tutte le tortine e gli strudel, M-Classic prodotto surgelato, per es. tortine al formaggio, 4 pezzi, 280 g, 2.24 invece di 3.20, (100 g = 0.80) a partire da 2 pezzi

20x

Novità

5.75

conf. da 2

a partire da 2 pezzi 20%

Tutti i müesli Farmer per es. Classic mela e cannella, 500 g, 3.60 invece di 4.50, (100 g = 0.72)

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a partire da 2 pezzi 20%

Tutto il caffè Exquisito in chicchi e macinato, per es. Extra Mild macinato, 250 g, 4.76 invece di 5.95, (100 g = 1.90)

Acqua e non solo Bevande

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Pepsi Regular, Zero, Cherry Zero e decaffeinata, 6 x 1,5 litri, 6 x 500 ml e 6 x 330 ml, per es. Regular, 6 x 1,5 litri, 7.50 invece di 12.50, (100 ml = 0.08)

conf. da 12 25%

conf. da 6 33%

4.40 invece di 6.60

Acqua naturaleminerale e a basso contenuto di sodio

conf. da 6 40%

Acqua minerale San Pellegrino 6 x 1,25 litri, (100 ml = 0.06)

2.95 invece di 4.95

13.50

invece di 18.–Red Bull Energy Drink o Sugarfree, 12 x 250 ml

conf. da 6 30%

Rocchetta 6 x 1,5 litri, (100 ml = 0.03)

Tutte le bevande da aperitivo Apéritiv per es. acqua tonica, 6 x 500 ml, 5.25 invece di 7.50, (100 ml = 0.18)

Rivella
conf.

Delizie all’insegna della dolcezza

20%

Tutti i gelati Crème d’Or in coppette monoporzione, 170 ml prodotto surgelato, per es. vaniglia Bourbon, 2.88 invece di 3.60, (100 ml = 1.69)

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Tutti i ghiaccioli prodotti surgelati (art. spacchettati esclusi), per es. ghiacciolo su stecco Cowboy, 12 x 48 ml, 4.46 invece di 5.95, (100 ml = 0.77)

a partire da 2 pezzi 20%

Tutte le tavolette di cioccolato Frey (prodotti Sélection e confezioni multiple esclusi), per es. al latte finissimo, 100 g, 1.96 invece di 2.45

Cioccolato svizzero in varie creazioni

5.75

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conf. da 3 32%

5.95

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Petit Beurre M-Classic cioccolato al latte o cioccolato fondente, 3 x 150 g, (100 g = 1.32)

9.95

Gomme da masticare Stimorol

Spearmint o Wild Cherry, in confezione speciale, 21 x 14 g, (100 g = 3.38)

a partire da 2 pezzi
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Detersivi Total in confezioni speciali XXL, per es. 1 for all, 5 litri, 19.90 invece di 39.88, (1 l = 3.98) 50%

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Tutti i detersivi Persil per es. Universal Kraft-Gel, 0,9 litri, 6.48 invece di 12.95, (1 l = 7.20)

Cestelli o detergenti per WC, Hygo in confezioni multiple o speciali, per es. Ultra Power Extreme, 2 x 750 ml, 7.90 invece di 9.90, (100 ml = 0.53) conf. da 2 20% Calgon in confezioni multiple o speciali, per es. Power Gel, 2 x 750 ml, 15.90 invece di 19.90, (100 ml = 1.06)

Parti alla grande nel nuovo anno scolastico!

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Cartella scolastica taglia unica, il pezzo
Fino a esaurimento dello

Per sentirsi bene dalla testa ai piedi

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Proteggono dall'invecchiamento precoce della pelle causato dalla luce solare

Set Nivea Sun per es. Protect & Moisture IP 50+ con UV Face Shine Control IP 50, il set, 20.60 invece di 29.45, (100 ml = 8.24) 30%

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