Azione 23 del 5 giugno 2023

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MONDO MIGROS

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SOCIETÀ Pagina 3

Per i genitori oberati la Germania prevede dei soggiorni «Kur», ritiri sanitari per riacquistare energia

L’uso dell’obiettivo fotografico è senz’altro un criterio da prendere utilmente in considerazione

TEMPO LIBERO Pagina 15

Una chance per Airolo

Berna prende tempo per capire se ci siano le basi per riaprire un negoziato con l'Unione europea

ATTUALITÀ Pagina 21

Love is love, Mister Erdogan

È tornato il Far West: i cowboy contro gli indiani, i buoni contro i cattivi, gli sceriffi contro i banditi, i normali contro i diversi. Sarà che viviamo come dentro il tamburo di una lavatrice e ogni cosa ci vortica attorno confondendo le idee, sarà che stiamo attraversando una fase della storia che sembra sfuggire di mano a tutti, fatto sta che le semplificazioni brutali della realtà godono di uno straordinario e pericoloso consenso.

Mi colpisce che, al termine di una battaglia elettorale intensissima contro Kilicdaroglu, l’immarcescibile e riconfermato neo-vecchio presidente della Turchia Recep Tayyp Erdogan abbia speso le prime parole da vincitore contro la comunità LGBTQ: «Nella nostra cultura la famiglia è sacra – ha detto – strangoleremo chiunque osi toccarla», come ha riferito il «Corriere della Sera».

Anche negli Stati Uniti Donald Trump e Ro-

nald Dion DeSantis, i due più accreditati contendenti repubblicani per le presidenziali del 2024 hanno manifestato, con toni diversi ma identica sostanza, avversità alle forme di convivenza e alle scelte identitarie sessuali alternative a quella canonica dell’eterosessualità. Posizione condivisa senza troppi chiaroscuri pure dalla presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni.

Nel Far West turco, ma anche in quello americano e italiano, molto meno in Svizzera, lesbiche (L), gay (G), bisessuali (B), transgender (T) e «queer» (Q) ovvero persone che non si riconoscono nelle definizioni tradizionali degli orientamenti sessuali e delle identità di genere, vengono considerate da importanti formazioni politiche come nemiche dell’ordine costituito.

In sette Paesi del mondo c’è la pena di morte per gli omosessuali e essere gay è un crimine in 72 nazioni. Qualche anno fa in Polonia erano state

istituite illegalmente delle zone vietate alla comunità LGBTQ e c’è chi rispolvera le leggende metropolitane secondo le quali ci sarebbe un piano di Soros e della Germania per sostenere scelte sessuali e relazionali non tradizionali per diminuire la popolazione mondiale. Sono cresciuto in un clima di riprovazione per chi rivendicava il diritto a vivere la propria omosessualità. Conosco il repertorio argomentativo utilizzato per creare discredito nei loro confronti: sono «perversi», «malati», insidiano i ragazzini. Follie. Capisco che un eterosessuale nato in un simile brodo di coltura possa far fatica ad accettare l’idea che ci siano persone (dal suo punto di vista) così spiazzanti. Ma, come molti altri della mia generazione, capisco anche che su questi argomenti abbiamo ricevuto un’educazione piena zeppa di pregiudizi, incapace di fare i conti con la realtà e spesso ipocrita. Certo, ci sono temi su cui – senza dover essere presi per

CULTURA Pagina pag. 35

Intervista a Giulia Napoleone che si racconta attraverso le sue opere esposte ad Areapangeart

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 5 giugno 2023 Cooperativa Migros Ticino
◆ ● G.A.A. 6592 San t’Antonino
edizione 23
LAND Suisse
Fabio Dozio Pagina 7 Carlo Silini
oscurantisti – è giusto spendere un supplemento di riflessione, come la possibilità per gli omosessuali di avere figli propri ricorrendo a uteri in affitto (esiste anche la nobile pratica dell’adozione). Ragioniamo, quindi. Ma il tempo del Far West è finito. Perfino il Papa lo dice: «Chi sono io per giudicare?». Si può essere sostenitori della famiglia lui+lei+figli senza dichiarar guerra a tutte le altre forme di convivenza e scelte di genere, legittimate dall’amore quanto quella classica. E senza minacciare di «strangolare» chi le difende. La maggior parte dei giovani lo sa. L’abbiamo visto in occasione del voto elvetico sul «Matrimonio per tutti»: per i ragazzi è un non-problema, ormai quasi nessuno di loro si sente sbagliata/o se si innamora di una persona del proprio sesso. Mi sembra di sentirli: Love is love, Mister Erdogan. 2

MONDO MIGROS

La «bussola etica» dei Duttweiler

Speciale 90esimo ◆ I coniugi Duttweiler nel 1950 stilarono un vademecum in 15 punti che riassumeva la loro filosofia

aziendale

Il fondatore di Migros Gottlieb Duttweiler (1888-1962) e l’amata moglie Adele (1892-1990), oltre al loro proverbiale spirito pionieristico, erano in chiaro su molte cose, che condividevano ed esponevano pubblicamente. Fra queste vi è anche il cosiddetto «testamento spirituale dei Duttweiler», redatto dai coniugi nel 1950, e che si presenta con quindici tesi. Scopo dichiarato del testamento è quello di fornire una bussola etica alla Migros, in un’operazione nel segno della lungimiranza che si rivolgeva al momento in cui, del tutto naturalmente, Gottlieb e Adele Duttweiler non fossero più stati alla testa del più grande datore di lavoro privato svizzero.

Le quindici tesi intendevano orientare dirigenza e cooperative su aspetti legati al lavoro e all’ideologia aziendali

Come dichiarato, le quindici tesi non avevano alcun valore normativo, ma si prefiggevano (e rileggendole ci rendiamo conto di come siano ancora attuali) di orientare la dirigenza e le cooperative su diversi aspetti riguardanti il lavoro e la filosofia azienda-

le. Alta dunque la guardia onde evitare il dilagare del commercio fine a sé stesso, l’egoismo e la superficialità (tesi numero 7) e attenzione a dare al popolo continue prove della fedeltà ai propri principi (tesi 5). Anche per le donne i Duttweiler hanno sempre avuto un’attenzione particolare, e non è dunque un caso se il loro cuore (tesi 9) viene definito «il luogo più sicuro per custodire il nostro patrimonio ideologico». Si richiede poi, e questo, nei decenni è diventato uno dei tratti distintivi dell’azienda, che «gli stipendi e i salari, come pure le condizioni di lavoro e i rapporti verso operai e impiegati devono continuare a essere esemplari» (12). Le 15 tesi terminano con una raccomandazione riguardo alla lotta (che aveva contraddistinto Duttweiler anche in ambito politico), che, pur forse smorzata in alcuni suoi tratti, deve continuare laddove «si tratta di proteggere i deboli e laddove esistano degli abusi di potere».

Sebbene Gottlieb Duttweiler sia scomparso da oltre sessant’anni, molti dei suoi valori e l’attenzione ai collaboratori sono ancora vivi e sono stati fatti propri anche da Migros Ticino. Abbiamo incontrato tre collaboratori e ci siamo fatti raccontare la loro esperienza all’interno del mondo Migros.

Primi passi

Ho iniziato a lavorare per Migros Ticino nell’agosto del 2022. Dopo aver svolto uno stage a metà luglio sono stato assunto come apprendista alla Migros di Via Pretorio, in centro a Lugano. L’anno prima purtroppo non ero riuscito a trovare un posto di apprendistato e dunque mi sono iscritto a un corso appena creato a Lugano dall’Associazione L’ORA. Questa associazione fra le altre cose affianca ragazze e ragazzi tra i 15 e i 25 anni di età che non hanno un’occupazione o prospettive di lavoro. L’ORA mi ha aiutato nella stesura di un curriculum vitae e nell’invio delle candidature. Inizialmente volevo lavorare in un negozio di elettronica, ma non trovando nulla, ho cominciato a guardarmi in giro nell’ambito della vendita al dettaglio di generi alimentari.

I vari settori

Durante il periodo di stage la mattina mi occupavo di frutta e verdura, per il resto della giornata di coloniali e latticini; anche adesso che sono apprendista lavoro al reparto alimentare. Il lavoro mi piace davvero molto, e anche l’ambiente è bellissimo. Il reparto che mi piace di più è quello delle bibite, perché lì mi lasciano un po’ più di autonomia: si deve correre, ma posso gestire il lavoro come meglio credo, sviluppando le mie strategie, senza che il capo mi dica cosa fare.

Voglia di diploma

Vado a scuola a Bellinzona due giorni alla settimana, e l’apprendistato durerà tre anni. Devo dire che in questa filiale Migros sono tutti gentili e simpatici con me, e dunque anche la mia famiglia è contenta che abbia trovato la mia strada. Anche le condizioni salariali sono veramente buone. Sto cercando di impegnarmi molto, poiché voglio assolutamente finire questo apprendistato. Durante i corsi di formazione, attraverso dei documentari, ho imparato un po’ anche i rudimenti della storia dell’azienda.

Più sicurezza in sé stessi

All’inizio facevo un po’ fatica a rapportarmi con la clientela poiché sono una persona molto timida. Con il passare del tempo però, ho potuto rendermi conto che questa cosa si è sbloccata: sento quindi di essere cresciuto non solo a livello di competenze, ma anche sotto questo punto di vista, e ne sono molto contento.

Da trent’anni in azienda

Ho cominciato il 1. ottobre del 1993, quindi quest’anno festeggerò i primi trent’anni in azienda! Prima lavoravo per un’altra catena di supermercati, ma poi nel 1991 sono rimasta incinta del secondo figlio e ho smesso. Nel 1993 il più piccolo dei miei figli aveva due anni, così mi è venuta voglia di fare qualcosa per me stessa lavorando per qualche ora alla settimana. A Locarno stavano costruendo la nuova Migros, dove ancora oggi lavoro, e decisi di candidarmi spontaneamente, e mi hanno chiamato!

Un datore di lavoro solidale

Alla Migros mi sono sempre trovata bene, poiché mi ha dato tanto e mi è sempre venuta incontro. Sono nata in Portogallo, nell’Algarve, e anche da straniera ho sempre trovato una bella fiducia da parte dell’azienda: ad esempio, quando è mancata mia madre, Migros mi ha permesso di stare vicina a mio padre per un certo periodo. Anche quando i bambini erano ancora piccoli e dovevo scappare dal medico perché stavano male non ci sono mai stati problemi.

Il lavoro, una passione

Mi hanno sempre detto tutti che si vede quanto ami il mio lavoro. È vero, lo faccio con passione, e quindi non mi pesa. Spesso lavoro al banco della pasticceria, che per me rappresenta tutto. Lì, infatti, quando c’è una ricorrenza posso sbizzarrirmi, faccio le vetrine e piccole decorazioni. L’ambiente è bello, ma d’altronde siamo noi che lo facciamo e per questo cerco di essere sempre positiva. La gente che servo al bar per me è come una famiglia, e mi piace scambiare due parole con i clienti, soprattutto con quelli anziani, perché basta poco per combattere la solitudine.

L’indipendenza economica

A un certo punto, il figlio minore aveva 13 anni, ho divorziato. Grazie al mio lavoro ho potuto farlo continuare negli studi: è andato all’università ed è diventato biologo. È una grande soddisfazione avergli potuto dare un futuro. Credo che andrò in pensione da dipendente Migros, e a questo proposito, grazie alle ottime prestazioni della Migros, posso guardare a una vecchiaia sicura e serena. La Migros mi ha dato tanto, ma anche io penso di avere dato tanto alla Migros.

Un

percorso intenso

Ho iniziato l’apprendistato alla Migros, partendo dalla filiale di Biasca, proseguendo il secondo anno a Sant’Antonino e terminando ad Arbedo-Castione con la conferma di assunzione. Ho concluso con una buona media e dopo otto mesi mi è stata offerta la posizione di responsabile merceologico dell’isola di S.Antonino, reparto che comprende Take Away, pasticceria, gastronomia, salumeria e casaro. Dopo aver maturato un po’ d’esperienza mi è stato proposto di andare a Locarno come responsabile merceologico dei banchi a servizio e in seguito di assumere la funzione di sostituto gerente a Tesserete. Quest’ultima esperienza mi ha dato modo di approfondire le mie conoscenze in tutti i settori, compresa l’amministrazione. Dal primo agosto mi trasferirò alla filiale Migros Crocifisso a Savosa, sempre in veste di sostituto gerente. Per me si tratta di un’ulteriore crescita professionale.

In continua formazione

Siccome nel tempo ho maturato una passione per il settore della vendita, ho deciso di investire nella formazione di specialista del commercio al dettaglio, fonte per me di grande motivazione e arricchimento delle competenze. È importante investire su sé stessi. Migros mi è venuta incontro durante questo percorso, sostenendomi in termini di ore di formazione. Poco dopo aver ottenuto l’attestato professionale federale ho deciso di frequentare il corso di specialista in marketing, concluso con l’ottenimento dell’attestato professionale federale poche settimane fa. L’azienda mi ha permesso di adattare gli orari di lavoro per presenziare alle lezioni serali.

Passare le competenze

Presto l’azienda mi farà seguire un breve percorso per diventare formatore di apprendisti e non escludo l’idea di voler frequentare dei moduli per diventare formatore per adulti. Mi sono accorto di amare la trasmissione di conoscenze e competenze ai collaboratori, in particolare mi piace relazionarmi con i giovani e poter dare il mio contributo al loro sviluppo personale e professionale. Essendo passato relativamente poco tempo dall’apprendistato, so cosa desiderano i più giovani, ovvero essere seguiti e ascoltati. Amo lavorare nel mondo Migros poiché mi dà la possibilità di crescere e mi fa sentire valorizzato, portandomi profonda soddisfazione.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 5 giugno 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 2
Simona Sala Gottlieb e Adele Duttweiler nei primi anni della loro lunga relazione (immagine del 1913); in basso, i due coniugi in un’immagine del 1958. (MGB Archiv) Joel Balmelli classe 2005, apprendista in formazione a Migros Lugano Centro Aldina Cusumano Severino sostituta gerente Take Away di Migros Locarno, in azienda da 30 anni Alan Gashi 24 anni, sostituto gerente Migros Tesserete, in azienda da 9 anni

Rigenerarsi nel bosco

La pratica giapponese del Forest Bathing, ossia l’immersione tra gli alberi, prende piede anche da noi

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Un’auto per seconda casa In media gli europei trascorrono quattro anni e un mese della propria vita su quattro ruote

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Le cliniche per i genitori esausti

Non solo contro la varicella Sono stati omologati e sono ora disponibili in Svizzera i vaccini combinati MORV

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Vivere oggi ◆ Le madri e i padri tedeschi hanno legalmente diritto al soggiorno in un «Kur», ovvero un ritiro sanitario di circa tre settimane, ogni quattro anni. Le strutture accolgono e seguono anche i loro figli

I tedeschi sembrano avere preso molto sul serio il detto: «Quello dei genitori è il mestiere più difficile del mondo». In Germania, infatti, le madri e i padri hanno legalmente diritto al soggiorno in un «Kur», ovvero un ritiro sanitario di circa tre settimane, ogni quattro anni. Si può accedere alle strutture terapeutiche, immerse nella natura, accompagnati dai propri figli, con la prescrizione di un medico. L’accudimento dei bambini da parte degli educatori, i pasti e le cure sono coperte della propria assicurazione sanitaria. Per andare nei «Kur» non è necessario avere un problema di salute grave perché sono luoghi concepiti anche per la prevenzione, per evitare che problemi relativamente lievi si trasformino in qualcosa di peggiore.

Con la prescrizione di un medico è possibile accedere alle strutture terapeutiche con i propri figli

In Germania, oltre centomila genitori ogni anno usufruiscono di questo servizio di aiuto. Secondo le stime più recenti, però, sarebbero molti di più ad averne bisogno: oltre due milioni di madri e duecentotrenta mila padri. La domanda crescente sembra un segnale del fatto che sempre più adulti stiano crollando sotto la tensione della vita quotidiana. L’impatto persistente della pandemia di Covid-19 e dei lockdown ha sicuramente peggiorato la situazione. I problemi più comuni sono psicologici: ansia; insonnia; sintomi depressivi. Quasi tutti hanno acciacchi, come dolori al ginocchio o mal di schiena.

Bastian Bammert, direttore della comunicazione delle cliniche senza scopo di lucro Reha GmbH (parte dell’Organizzazione di assistenza alla parità Baden-Württemberg), spiega ad «Azione» che, nelle strutture del gruppo, vengono seguiti annualmente più di seimila e cinquecento adulti e dodicimila bambini. Le case di cura Reha GmbH hanno tra le priorità il trattamento del burnout, con programmi personalizzati.

I primi «Kur» sono nati una settantina di anni fa. Das Müttergenesungswerk (l’Associazione per la salute della madre) è stata creata dalla Fondazione Elly Heuss-Knapp con l’obiettivo di supportare le mamme tedesche nel Secondo dopoguerra. All’epoca i «Kur» erano finanziati in parte dai comuni, e poi sono diventati responsabilità delle compagnie assicurative sanitarie. Fino agli anni Settanta venivano prese in considera-

zione soltanto le madri. In tempi più recenti, con i cambiamenti nella società e la parziale redistribuzione dei carichi di cura, il servizio è stato esteso anche ai padri.

Originariamente questi luoghi di ritiro erano stati concepiti per aiutare le madri, ora il servizio è stato esteso anche ai padri

Come racconta Pilar Velazquez, direttrice della clinica Saarwald, «le nostre cure sono concepite per genitori con problemi di salute legati all’attività quotidiana di caregiver. Essere madri e padri spesso significa destreggiarsi tra molteplici responsabilità, senza avere il tempo sufficiente per riposarsi. E quando la tensione mentale diventa eccessiva, oppure compaiono gravi sintomi fisici che rendono difficile lo svolgimento dei compiti di assistenza all’infanzia, allora diventa necessaria una pausa. Fermarsi aiuta le persone ad affrontare meglio le

giornate, con la possibilità di acquisire gli strumenti per gestire lo stress nel lungo periodo».

Un recente articolo pubblicato sul sito della BBC, a proposito dei «Kur», racconta la storia di Sebastian Schwerk, direttore creativo di un’agenzia di comunicazione di Dresda, che stava attraversando un periodo di forte nervosismo. Dopo la morte del padre malato, che aveva accudito per mesi, si era ritrovato sulle spalle la responsabilità della madre anziana. I suoi due figli più grandi stavano attraversando la pubertà e temeva di trascurare il terzo, il più giovane, per le troppe incombenze. Così, su suggerimento della compagna, Schwerk ha deciso di andare in un «Kur». Le tre settimane trascorse, nel gennaio del 2020, in una clinica sul mare, gli hanno permesso di passare del tempo di qualità col figlio minore, in serenità, seguendo corsi di rilassamento muscolare, meditazione, nordic walking e yoga. Dato che nei «Kur» non sono consentite le bevande alcoliche, per Schwerk, che amava bersi la

birra dopo il lavoro, è stata l’occasione per provare a cambiare abitudini, con uno stile di vita più sano.

Secondo la direttrice della clinica Saarwald, sono ancora le madri ad avere il carico maggiore nella coppia, dovendo crescere i figli, gestire la casa ed essere sempre disponibili per la famiglia. A questo si aggiungono lo stress del lavoro, le preoccupazioni economiche e le difficoltà con il partner, fisiologiche nelle relazioni lunghe. Tuttavia, nonostante la disparità di genere penalizzi maggiormente le donne, sempre più padri si sentono sopraffatti per i problemi sul lavoro, la pressione del tempo, le malattie e il ménage familiare. Quando l’energia si esaurisce, possono insorgere problemi di salute come grave spossatezza, disturbi del sonno e agitazione. Per permettere ai genitori di riprendersi, nei «Kur» i bambini vengono presi in carico da figure professionali adatte alla loro età. Le ricerche internazionali evidenziano che il burnout da genitorialità ha un impatto grave sulla famiglia perché aumenta

Quello dei genitori è il mestiere più difficile del mondo. Così, in Germania, sono nati i «Kur» per aiutarli a farcela. A rischio burnout da famiglia sono soprattutto le donne, ma negli ultimi anni il problema tocca anche numerosi uomini. (Mick Haupt su Unsplash)

il rischio di abbandono e violenza nei confronti dei figli. Inoltre, la disperazione dei genitori può colpire la prole in altri modi. La depressione dei grandi, infatti, aumenta la probabilità che anche i piccoli possano soffrirne a loro volta ed è collegata a problemi comportamentali. Perciò nei «Kur» sono previste diverse attività per distrarre e supportare i bimbi. Fanno bricolage, tiro con l’arco, arrampicata sportiva, esplorano il bosco e le fattorie. Ogni giorno c’è qualcosa di diverso. Se necessario, sono previste delle terapie pediatriche. Il medico può prescrivere sedute di logopedia, terapia occupazionale e fisioterapia. Se i bimbi partecipano al ritiro durante l’anno scolastico, vengono assistiti dai tutor per i compiti. Senza dimenticare, come ricorda Linh Dinh, manager di un’altra clinica del gruppo Reha GmbH, che un punto centrale dei «Kur» è il rafforzamento del legame genitore-figlio. Quindi a grandi e piccoli vengono proposte attività da svolgere insieme, per imparare a interagire in modo nuovo.

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 5 giugno 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 3
SOCIETÀ
Stefania Prandi

Le antiche fatiche del selvaggio

Grigliare come i veri gauchos

Attualità ◆ Tra le molte specialità di carne da grigliare disponibili attualmente alla Migros, spicca anche la Picanha: un succulento taglio che trovate ora a un prezzo particolarmente vantaggioso

Reportage ◆ Nella Bolivia più rurale e sconosciuta, il popolo quechua ha mantenuto vive le tradizioni anche legate alla Pacha Mama, a tal

Luigi Baldelli, testo e fotografie

La Picanha, conosciuta anche come cappello del prete o copertura dello scamone, è un prelibato taglio bovino ottenuto dal quarto posteriore dell’animale, più precisamente dalla coscia. Si caratterizza per lo spesso strato di grasso che ricopre il pezzo, il quale, durante la cottura, si scioglie e rende la carne incredibilmente tenera e saporita. La Picanha è un piatto tipico della cucina brasiliana, soprattutto tra i gauchos del sud del Paese, i cowboys locali, i quali preparano all’aperto grandi e succulenti grigliate miste di carne, conosciute come churrasco.

Essendo già saporita di suo, si consiglia di non utilizzare troppi condimenti quando si cucina la Picanha. Potete anche solo spennellarla con un po’ di olio, salarla, peparla e lasciarla riposare qualche minuto. Dopodiché appoggiatela sulla griglia ben calda e cuocetela per una trentina di minuti girandola di tanto in tanto fino a raggiungere una temperatura al cuore di ca. 55 gradi. Può essere preparata intera oppure affettata, infilzando i pezzi di carne su degli spiedi di metallo con la parte grassa rivolta verso l’esterno.

Carne IP-SUISSE

La Picanha venduta alla Migros è ottenuta da animali allevati in Svizzera conformemente alla specie secondo gli standard di IP-SUISSE. Ciò significa che i manzi vengono alimentati con foraggi certificati, possono uscire regolarmente all’aperto e dispongono di spaziose stalle con lettiere di paglia per riposarsi. Inoltre, i contadini IP-SUISSE si impegnano a favore della biodiversità sui propri terreni.

La ricetta

Picanha alla griglia

Piatto principale per 4-6 persone

• 1 Picanha con lo strato di grasso di ca. 1000-1200 g

• un poco d’acqua

• 1 cucchiaino di fleur de sel

Salsa

• 1 peperoncino

• 2 spicchi d’aglio

• 15 g di zenzero, peso mondato

• 3 cucchiai di zucchero

• 3,3 dl di Karamalz (bibita analcolica al malto) o birra

• 1 cucchiaino di amido di mais

• 2 cucchiai di succo di limetta

• ½ mazzetto di coriandolo

• 1 scalogno

• 1 cucchiaio di salsa di soia

Preparazione

1. Scalda il grill a 250 °C. Accomoda la carne non speziata con lo strato di grasso sulla griglia, cuocila per ca. 4 minuti a fuoco alto e diretto. Riduci la

Stuzzicanti luganighe alla griglia

Attualità ◆ Le luganighe ticinesi conquistano i favori di tutti gli amanti delle pietanze alla brace

temperatura a ca. 200 °C. Gira la carne. Spennella il grasso con poca acqua. Condisci con fleur de sel. Griglia la carne a fuoco medio indiretto per ca. 35 minuti, finché raggiunge una temperatura interna di 53 °C. Girala di tanto in tanto e spennellala con acqua. Togli la picanha dalla griglia. Avvolgila nella carta alu e lasciala riposare per ca. 10 minuti. Spacchetta la carne e tagliala a fette sottili di traverso rispetto alle fibre.

2. Nel frattempo, per la salsa dimezza il peperoncino per il lungo e privalo dei semini. Trita peperoncino, aglio e zenzero. Caramella lo zucchero in un pentolino. Unisci aglio, zenzero e peperoncino e mescola. Bagna con il Karamalz o la birra e cuoci dolcemente finché lo zucchero si scioglie. Stempera l’amido di mais nel succo di limetta. Versa nella salsa rimestando di continuo e lascia sobbollire per ca. 3 minuti a fuoco basso. Allontana il pentolino dalla piastra e lascia raffreddare. Unisci alla salsa coriandolo e scalogno tritati e salsa di soia, mescola e servi con la carne.

Azione

40% Luganighe per griglia in self-service, per 100 g invece di 2.55

Impensabile una ricca grigliata mista senza le aromatiche luganighe! Oltre a soddisfare i gusti più disparati, sono facili e veloci da preparare anche dai meno esperti. Naturalmente, quando si parla di luganighe, non si può non pensare al nostro Cantone, dove questi insaccati hanno una lunga tradizione. Le luganighe per grill disponibili attualmente alla Migros risultano un po’ più magre rispetto a quelle convenzionali, evitando così che sulla brace coli troppo grasso. Sono preparate con savoir-faire dalla Salumi del Pin di Mendrisio utilizzando carni svizzere accuratamente selezionate.

Una volta macinata a grani grossi, la carne è miscelata con pancetta, sale in quantità molto ridotta, un mix di spezie segreto e buon vino rosso ticinese. Dopo un periodo di riposo, l’impasto viene insaccato in un budello «torto» naturale e asciugato in celle a temperatura e umidità controllate. Queste stuzzicanti specialità si grigliano senza ulteriori condimenti o altri grassi, a fuoco medio, per una decina di minuti, girandole regolarmente. Abbinate a delle verdurine grigliate, le luganighe ticinesi trasformano ogni occasione in un momento di puro piacere culinario.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 5 giugno 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 4
Azione 20% Cappello del prete (Picanha) IP-SUISSE in self-service, per 100 g Fr. 3.95 invece 4.95 dal 6.6 al 12.6.2023

Un

per i panettieri in erba lo scorso 10 maggio nella panetteria della casa di S. Antonino

Alcune settimane fa, presso il Centro S. Antonino, si è svolto un pomeriggio speciale rivolto ai bambini nella panetteria della casa situata all’interno del negozio Migros: dieci fortunati aspiranti panettieri si sono aggiudicati i pochi posti messi in palio in occasione del concor-

so pubblicato sul nostro settimanale «Azione». Durante il simpatico appuntamento i piccoli fornai di età compresa tra i 6 e 12 anni – Edoardo, Evelyn, Lara, Samuele, Elia, Emily, Jason, Denis, Bea e Ambra – hanno potuto sbizzarrirsi nella preparazione di figure a base di

pasta per treccia. Il tutto sotto gli occhi attenti e divertiti degli esperti panettieri Mauro Pizzagalli e Carlotta Visetti, che per l’occasione si sono prodigati nel fornire preziosi consigli per la buona riuscita dell’evento. Nelle foto alcuni momenti del pomeriggio in panetteria.

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pomeriggio dedicato ai bimbi Attualità
Grande divertimento

Apertura straordinaria

Giovedì 8 giugno

Festa di Corpus Domini

I seguenti punti vendita Migros

saranno aperti dalle ore 10.00 alle 18.00:

Centro Agno, Parco Commerciale Grancia, Lugano, Centro Shopping Serfontana, Centro S. Antonino, Arbedo-Castione, Biasca, Giubiasco, Locarno, Losone, Pregassona, Riazzino, Taverne e VOI Viganello.

Un bene comune per Airolo

Territorio ◆ La realizzazione della seconda galleria stradale del San Gottardo permetterà di coprire l’autostrada ad Airolo. Ora si propone di creare un parco da gestire come bene comune pubblico

Ogni giorno in Svizzera scompaiono fino a 11 ettari di superficie coltivata, vale a dire 1,3 metri quadrati al secondo. In Ticino ogni anno vengono sacrificati 1,5 kmq di terreno a favore di edifici, strade e altre infrastrutture.

Airolo compie un miracolo! Nei prossimi anni, meno di una decina, nascerà Parco San Gottardo: uno spazio verde di circa 220mila mq, risultato della copertura dell’autostrada davanti al paese. Un’operazione straordinaria e che corregge, dopo tanti anni, il carattere invasivo dell’autostrada.

Il progetto è nato nel 2017 grazie all’accordo raggiunto tra Confederazione e Cantone. Il materiale ottenuto dallo scavo del secondo tubo della galleria stradale del San Gottardo sarà depositato a pochi passi, evitando trasporti inquinanti e la creazione di inutili discariche. L’autostrada sarà coperta per circa mille metri, poco dopo l’uscita dal tunnel di Stalvedro e poco prima del portale della galleria. Un’opportunità unica per il Comune e per gli abitanti di Airolo. «Ritenuto che la maggior parte della zona recuperata rimarrà libera e sarà destinata all’agricoltura e allo svago, – precisano in Municipio – l’accordo sottoscritto con Confederazione e Cantone offre al Comune la possibilità di destinare un’area di circa 27mila mq a una zona per attrezzature e impianti di carattere pubblico. Ci si riapproprierà del fondovalle sottrattoci oltre cinquant’anni fa». L’operazione costerà circa 100 milioni di franchi, un investimento interessante visto che nascerà dal nulla uno spazio verde che per Airolo rappresenta un cambiamento epocale e offrirà migliore qualità di vita alla regione. «La copertura è una vecchia rivendicazione degli airolesi, – ci dice Fabio Pedrina, ingegnere ed ex consigliere nazionale – è la contropartita per l’intervento invasivo realizzato con l’apertura della galleria stradale. Il fondovalle è stato stravolto, anche perché i progettisti degli anni Sessanta non avevano le sensibilità di oggi. Siamo riusciti a ottenere la copertura grazie all’impegno della comunità airolese e anche perché Biasca e Pollegio non volevano discariche sul loro territorio». Il progetto è nelle mani dell’Ufficio federale delle strade (USTRA), che consegnerà lo spazio ottenuto con la copertura spoglio e grezzo. Il Comune dovrà quindi definire i dettagli di come sistemare la zona: ci saranno terreni per l’agricoltura, per il pascolo, e bisognerà decidere come organizzare la parte turistica, dedicata al tempo libero e allo sport. Andreas Kipar, architetto paesaggista dello studio LAND, che insieme al municipio di Airolo ha sviluppato un Masterplan di riqualifica del fondovalle, a questo proposito ha affermato: «A tutti noi, che pensiamo al futuro di questo luogo relazionandoci con il passato e

il presente, il compito che viene chiesto nell’esame di questo paesaggio è: coltivare le relazioni, coltivare la socialità e coltivare l’identità. È un ritorno alla coltivazione, non è più una determinazione, non è più una legge, ma è un processo che richiede continua attenzione per poter raccogliere qualche frutto. Anche nel conservare infatti c’è bisogno di un progetto per il futuro e questo vuol dire risvegliare il senso di appartenenza al proprio territorio».

Garantire l’inalienabilità

In alta Leventina il dibattito è ormai aperto, grazie all’impegno di «Airolo in Transizione», l’associazione che guarda alle prospettive di sviluppo nel contesto dei cambiamenti di questa zona periferica, soprattutto con l’apertura del secondo tunnel del San Gottardo. Negli scorsi mesi di marzo e aprile l’associazione ha organizzato un ciclo di incontri dedicati al Parco San Gottardo, che dovrebbe diventare un bene comune. Il concetto di bene comune è il punto centrale del progetto che «Airolo in Transizione»

Redazione Carlo Silini (redattore responsabile)

coinvolta la popolazione locale e possa nascere una collaborazione tra comune politico e patriziato: «Stiamo pensando a una proprietà intergenerazionale, che giuridicamente deve essere definita, basata sulla sostenibilità ecologica e sulla giustizia sociale». La ricerca storica di Fernanda Pedrina fa riferimento al lavoro di Elinor Ostrom, premio Nobel per l’economia, «Governare i beni collettivi», in cui si sostiene l’importanza di soluzioni alternative alla privatizzazione, fondate sull’autogoverno e sull’uso selettivo delle risorse. La proprietà comune può essere redditizia a lungo termine, – precisa Pedrina – dipende dalle regole che vengono messe in atto per governarla. Le risorse gestite collettivamente devono garantire la loro sostenibilità anche per le generazioni future. In quest’ottica, il patriziato di Airolo può assumere un ruolo significativo nel progetto di Parco San Gottardo.

Contenuti e finanziamento

sta promuovendo. Riccardo Petrella, già professore all’Accademia di Mendrisio, è da sempre un esperto in tema: «Il bene comune – sostiene – è l’insieme dei principi, delle istituzioni, dei beni, delle risorse, dei mezzi e delle pratiche che permettono a un gruppo di individui di costituire una comunità umana, per garantire il diritto alla vita, umanamente degno, a tutti i suoi membri, ai cittadini». «Il nostro obiettivo principale è garantire l’inalienabilità del territorio che si crea con la copertura. – chiarisce Fabio Pedrina, una delle voci di “Airolo in transizione” – La definizione degli aspetti giuridici è in corso. Bisogna capire se la proprietà comunale potrà garantire che il Parco rimanga bene comune anche in futuro, altrimenti si può pensare di coinvolgere il patriziato, che ha una storia secolare di gestione di beni comuni, come i boschi e gli alpi. Il Municipio, da parte sua, sta preparando un aggiornamento della pianificazione comunale e quindi, in questo ambito, si inserirà la progettazione di dettaglio dello spazio di fronte alla stazione, che sarà dedicato al turismo e alle strutture per lo svago».

Il ruolo

del patriziato

È stata Fernanda Pedrina, psichiatra pediatrica a Zurigo e appassionata di storia, che ha recentemente pubblicato una ricerca sul patriziato (Gemeinbesitz in den Tessiner Alpen, Brandes+Apsel), che ha proposto di pensare al concetto di bene comune per il Parco San Gottardo. «Il Parco va reso inalienabile, – ci dice la dottoressa – questo è un aspetto fondamentale, ma bisogna discutere e valutare in quale forma. Noi lanciamo la discussione. Sarebbe ideale che avesse la protezione contro la speculazione privata come avviene per i terreni patriziali, che non possono essere alienati. Si può concedere un diritto di superficie, per esempio, ma non vendere. In ogni caso decide l’assemblea patriziale e quindi dipende anche dalle persone. Attualmente, il patriziato di Airolo ha la gestione degli alpi e ha quindi altri interessi. Per ora il Parco è fuori dalle prospettive del patriziato, che fatica a pensare a progetti di interesse turistico. Ma d’ora in poi si può pensare a un suo coinvolgimento». Per Fernanda Pedrina è importante che nel progetto di Parco sia

«Turismo e agricoltura possono convivere – afferma Fabio Pedrina – anche perché la zona da attrezzare per il pubblico si limita a meno di 30mila mq. Un grosso tema rimane il finanziamento per la realizzazione del Parco dopo la consegna, da parte di USTRA, della struttura grezza. Bisognerà definire i contenuti turistici, ricreativi e sportivi in dettaglio e valutare quanto costeranno al Comune. Potrebbero esserci anche finanziamenti privati, ma non saranno necessari grandi investimenti. Non vogliamo puntare su strutture che rischiano di essere un buco nell’acqua». Nella primavera dell’anno prossimo è previsto l’inizio dello scavo della galleria con le due frese meccaniche. I lavori termineranno nel 2029, quando inizierà il risanamento della galleria attuale, per altri tre anni. Per Airolo si annunciano anni di difficoltà e di disturbo per il paese. «L’impatto delle opere sarà pesante – sostiene Fabio Pedrina – ci vorrà pazienza, ma speriamo che queste attività e l’arrivo degli addetti ai lavori possano avere ricadute positive sull’economia del paese e per la popolazione».

Si spera che i nastri trasportatori possano estrarre il materiale dalla montagna e depositarlo sul fondovalle creando non troppi disagi. I lavori si faranno sentire, come fu negli anni Settanta. Ora, però, ci sarà la ricompensa del Parco, un bene comune pubblico a disposizione di tutti.

Guardando più avanti, ma pensando anche ai dibattiti recenti sulle code di automobili ai portali, sarà messo sotto pressione il dettato costituzionale che impedisce il raddoppio delle corsie di transito, come prevede l’Iniziativa delle Alpi. Intanto, 863mila camion hanno attraversato le Alpi svizzere l’anno scorso. Per legge non dovrebbero essere più di 650 mila. Ma questo è un altro discorso…

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 5 giugno 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 7 SOCIETÀ azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31 lu–ve 9.00 –11.00 / 14.00 –16.00 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera Fr. 48.– / Estero a partire da Fr. 70.–
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PRIMA… La copertura dell’autostrada è la contropartita per l’intervento invasivo realizzato con l’apertura della galleria stradale. (comuneairolo.ch) … E DOPO Il futuro parco dovrebbe essere protetto dalla speculazione privata come avviene per i terreni patriziali, che non possono essere alienati. (comuneairolo.ch)

Immergersi nel bosco

Benessere

Guido Grilli

«Andai nei boschi, perché desideravo vivere con saggezza, affrontando solo i fatti essenziali della vita, per vedere se non fossi riuscito a imparare quanto essa aveva da insegnarmi e per non dover scoprire in punto di morte di non aver vissuto». Così scriveva nell’Ottocento nella sua opera più celebre, Vita nei boschi, il filosofo, scrittore e poeta statunitense, Henry David Thoreau. Una riflessione intensa sul rapporto dell’uomo con la natura. Altri tempi, altri contesti. Eppure nei boschi è ancora possibile – anzi, auspicabile – immergersi. Di più. Metaforicamente ci si può persino «bagnare». Barbara Botticchio è guida certificata di Forest Bathing, pratica che viene dall’Asia, si è diffusa in Occidente ed ora è emergente anche alle nostre latitudini. L’abbiamo intervistata.

Che cos’è il Forest Bathing?

In italiano la pratica è chiamata Bagni di bosco o di foresta, nasce in Giappone negli anni ’80, dove è definita Shinrin Yoku. Non a caso: lì la vita nelle città è estremamente frenetica. I fattori di stress quali l’ambiente sonoro, il carico di lavoro, la gestione famigliare e la pressione sociale non sono solo elevati, ma prolungati nel tempo e questo comporta un crescente squilibrio sul piano fisico e mentale con conseguenze note anche da noi. In Giappone, per prevenire stress, burnout e isolamento sociale (solo per citarne alcuni) i Bagni di foresta vengono persino prescritti dai medici.

Dove si svolgono?

Il luogo prediletto è il bosco che con il suo rilascio di monoterpeni, i giochi di luce, i suoni e i colori permette al nostro organismo un’immersione sensoriale completa e il conseguente processo di rilassamento tanto auspicato. Ma vanno bene anche parchi urbani, la riva di un lago, la sponda di un fiume oppure un giardino con alberi o fiori.

Ma allora questa disciplina in cosa si distingue rispetto a una classica passeggiata o a un Percorso vita?

Si distingue per la durata (il tempo ottimale consigliato è di circa 2 ore e mezzo adattabile in base alla stagione o alla tipologia di gruppo) e per la modalità dello «stare» in natura. La guida conduce il grup-

Nel bosco si sperimenta un grande relax e cade ogni gerarchia umana. Nei gruppi aziendali che praticano Forest Bathing per un momento non ci sono più dipendenti né capi. (Unsplash)

po attraverso un percorso perlopiù sensoriale suddiviso in sequenze mirate che consistono nel condurre i partecipanti a vivere la loro personale esperienza di rilassamento, di scoperta e di condivisione. Lo scopo del Forest Bathing è quello di creare benessere e lavorare non sulla cura ma sulla prevenzione. Una passeggiata con le amiche va benissimo, ma in questo caso la consapevolezza dell’ambiente circostante è ridotta, questa è una delle differenze sostanziali.

Ma come si procede, per entrare un po’ nello specifico?

La prima sequenza, da fermi, riguarda il rilassamento: ognuno osserva la natura circostante, si ambienta e si mette a proprio agio –una radice, un grande sasso, il prato, sotto un albero – si lascia il controllo e ci si rilassa. Un’altra componente importante è il tempo, del quale i partecipanti non devono più prendersi cura. Cellulari tutti spenti o silenziosi, è la guida che struttura i vari momenti e che concluderà puntualmente all’ora prefissata. Già solo il non doversi più occupare del tempo cronologico restituisce benefici molto apprezzati.

E la seconda tappa? Come si continua, dopo la prima fase dedicata al rilassamento?

Segue l’esplorazione della zona. Ognuno è chiamato a focalizzarsi su ciò che nel bosco attira la propria attenzione e a esplorarlo attraverso i sensi. Anche qui libertà massima e nessuna imposizione. Per taluni può trattarsi di una foglia dalle caratteristiche ammirevoli e, se vorrà, alla fine potrà verbalizzarne la scoperta al gruppo. C’è poi una parte più creativa in cui chiedo ai partecipanti di interagire col bosco, ad esempio realizzando un disegno con gli elementi presenti in natura. Si spazia da attività individuali più introspettive o esplorative ad attività da svolgere in coppia o in gruppo. La calma e l’armonia la fanno da padrone, in un ambiente che va vissuto senza imposizione alcuna ma solo con il giusto tempo e il giusto spazio. Un altro obiettivo è quello di raggiungere una coscienza ecologica, perché noi non sfruttiamo il bosco bensì coesistiamo con esso, ne facciamo parte, è una collaborazione reciproca.

Ma tutti questi aspetti vengono comunicati ai partecipanti?

Non all’inizio dove lo scopo è quello di staccarsi dalla parte mentale per entrare in quella più istintiva e autentica. Alla fine spesso si presenta l’occasione per parlare del motivo per il quale ho proposto di compiere certe attività. Durante l’esperienza il linguaggio è ridotto all’essenziale, semplice, fatto di poche parole.

Si abbracciano anche gli alberi?

Chi lo desidera può farlo, è fantastico, gli alberi possiedono un’incredibile potenza energetica. Va inoltre ricordato che il bosco in cui si svolge il Forest Bathing deve essere accessibile a tutti e raggiungibile in una decina-ventina di minuti di cammino. Non si tratta di un trekking né di una passeggiata botanica, per questo motivo si sceglie un’area, una porzione di natura.

Chi sono i partecipanti?

I partecipanti sono i più svariati: dai bambini agli adulti. Ma aderiscono anche équipe aziendali o colleghi di ufficio, gruppi fino a 12-14 persone, con cui è possibile esercitare il team building per migliorare la capacità di lavorare in squadra. La natura fa cadere ogni leadership e gerarchia, e questo rappresenta un aspetto interessante: tutti si ritrovano sullo stesso piano e i risultati sono sorprendenti. Uno degli aspetti importanti è la valorizzazione dell’esperienza individuale come componente fondamentale di una sinergia più vasta, la coesione sociale.

Al termine dei suoi percorsi quali sensazioni provano i partecipanti? Parlano sempre di esperienza inaspettata. Le espressioni più ricorrenti sono: relax, benessere, gratitudine, gioia, un’uscita dal tempo. C’è gente che fa fatica a separarsi dal bosco, non vuole più tornare a casa.

Quale formazione occorre seguire per diventare guide di Forest Bathing?

Io mi sono formata presso la Forest Therapy Hub, con sede in diversi luoghi sparsi nel mondo, tra cui anche l’Italia, dove ho seguito una formazione pratica e ho sostenuto sessioni d’esame in remoto. È poi possibile conseguire un ulteriore certificato, il Forest Therapy, che sto portando a termine in questi giorni. Si tratta di un approccio che prevede l’implementazione di sessioni in natura prolungate (6-8 incontri) con obiettivi specifici alla casistica trattata e costruiti in collaborazione con il personale di cura (educatori, psicologi e medici) per esempio in caso di recupero post operatorio, di stati depressivi, situazioni di isolamento sociale, riabilitazioni legate a disturbi alimentari. La natura è l’ambiente perfetto per stimolare esperienze positive, rafforzare l’autostima e la fiducia. Ad oggi non esiste un’associazione professionale mantello che riunisce le guide di questa singolare attività, ma a livello nazionale, ad esempio, la Forest Bathing Switzerland forma e certifica guide. In Europa i bagni di bosco sono piuttosto diffusi e chi li ha sperimentati afferma di aver acquisito nuovi sguardi sulla natura, assimilato strumenti e sensibilità utili per la vita.

Se vuoi capirmi

Comunicazione ◆ Tra pensiero e parola

Massimo Negrotti

Circa una decina di anni fa dedicavo un articolo alla tendenza del nostro linguaggio comune ad adottare sempre più spesso abbreviazioni, sigle e acronimi. Da allora la situazione si è ancor più «strutturata», anche grazie all’enorme diffusione di nuovi servizi telematici. Questi impongono una notevole concisione del testo e ciò sta agendo da ulteriore acceleratore della comunicazione. In effetti, è ormai consueto, soprattutto in ambito scientifico, tecnologico ed economico, l’impiego di sigle o acronimi che agiscono come involucri che rinviano a procedure, eventi o realtà di diversa natura (per esempio TAC, CAD, ADSL, BCE). Non stupisce che, di conseguenza, si sviluppino acronimi veri e propri anche nel linguaggio quotidiano, specialmente giovanile, come BTW (By The Way) o OMG (oh my God ). A ciò si aggiungono poi le abbreviazioni che consentono il risparmio di caratteri e di tempo nella digitazione: qlc sta per qualcuno, xké per perché, raga per ragazzi, e così via.

Si impongono sempre più comunicazioni tronche e abbreviazioni anche nel linguaggio corrente delle nuove generazioni, del tipo: Ke fai sab sera?

Un sito Internet propone alcuni messaggi tipici, come «1 msg x te – ke fai sab sera? Usciamo coi raga?» che sta per «Un messaggio per te – che fai sabato sera? Usciamo con i ragazzi?». Fra gli adulti, possiamo immaginare un testo come il seguente, dove gli acronimi la fanno da padrone «da un SMS ho saputo che, ASAP, devo fare un controllo all’ABS del mio SUV» che sta per «da uno Short Message Service ho saputo che, As Soon As Possible, devo fare un controllo all’Anti-lock Braking System del mio Sport Utility Vehicle». Il primo messaggio richiede 584 bit mentre il secondo 1168, ossia esattamente il doppio.

Solo un risparmio di tempo?

Siamo dunque di fronte a un’evoluzione culturale (nel senso antropologico del termine) evidente e certamente non da poco perché, di mezzo, c’è il rapporto fra parola e pensiero. Si dirà che, in fondo, si tratta di semplici espedienti tesi a far risparmiare tempo e non certo a sviluppare pensieri profondi e argomentati. Insomma, pura informazione e non conoscenza. Tuttavia non è chiaro il rapporto

che, sulla base della consuetudine di cui stiamo parlando, si può innescare anche a livelli che richiedano maggiore impegno comunicativo come la scrittura di un tema scolastico, la stesura di una relazione e, al contempo, la comprensione stessa di un testo articolato secondo le regole tradizionali.

Una cosa è sicura: il pensiero viaggia molto più rapidamente della parola e, quando parliamo o scriviamo, noi operiamo varie e inevitabili riduzioni di ciò che stiamo pensando. Se, poi, dobbiamo tradurre in scrittura il nostro pensiero, allora il problema si presenta sotto una forma ancor più delicata poiché il primo obiettivo da perseguire è senz’altro la chiarezza. Per raggiungerla dobbiamo, prima di tutto, non detestare la parola bensì amarla e trattarla, con buona pace di Samuel Beckett, come un bene prezioso perché essa vuole riprodurre, pur nella povertà della sua standardizzazione, il nostro pensiero.

Una poesia con acronimi?

Per questo è difficile immaginare una poesia o una recensione, una semplice dedica o un epigrafe scritta con acronimi o abbreviazioni, poiché il pensiero, per essere scritto, esige dilatazione del tempo, distensione ed estrema cura nella scelta dei verbi, degli aggettivi e degli avverbi in modo da evitare che il lettore perda di vista il significato dei concetti centrali che desideriamo comunicargli divenendo preda dell’equivoco o dell’ambiguità. Lo scrittore italiano Giuseppe O. Longo ha argutamente sottolineato come «Le parole non dicono nulla. Eppure abbiamo soltanto parole». Quanto la parola possa avere successo nel rendere comune, cioè comunicare il pensiero, le emozioni o le impressioni è incerto. Ma è decisamente certo che, una volta fatte a pezzi o racchiuse in acronimi, le parole, se da un lato aumentano la velocità nel trasferimento dell’informazione a vantaggio dell’operatività professionale, dall’altro, nell’impiego quotidiano, riducono drasticamente la speranza di trasformare l’espressione dei nostri stati mentali in qualcosa di comprensibile dall’altro. Non è un caso che le opere artistiche non si prestino affatto ad alcuna abbreviazione: una lirica o una sinfonia, un balletto o un dipinto «resistono» a qualsiasi forma di riduzione sommaria poiché esse «parlano» attraverso una compiutezza per capire la quale occorre la necessaria dedizione. È come se, per dirla in termini informatici, l’autore ci dicesse: con meno bit non avrei potuto esprimermi. Dunque, se vuoi capirmi, abbi pazienza.

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◆ Si chiama Forest Bathing, nata in Giappone la pratica si sta diffondendo anche alle nostre latitudini. Ce ne parla Barbara Botticchio

Volvo EX90 punta sulla naturale luce di… casa

Motori ◆ Gli abitacoli delle automobili sono sempre più accoglienti. Del resto, in media, gli europei

Per molti la propria automobile è un po’ come una seconda casa. Un esempio? Molte donne lasciano nel cassettino portaoggetti anche rossetto e mascara oppure la crema per le mani. D’estate persino il liquido anti zanzare. Alcuni uomini la borsa da palestra o la sacca da golf per giocate improvvisate. Una giacca pesante, l’ombrello o un maglione. Anni fa si usava tenere nel bagagliaio un plaid perché «non si sa mai». E se si hanno dei bambini piccoli ecco che a bordo ci sono delle mini nursery con pannolini, giochi e cuscini.

Le luci, oltre alle parti di legno e altri materiali naturali, sono un elemento centrale del linguaggio stilistico scandinavo Volvo

In una ricerca sono stati analizzati i comportamenti dei cittadini di alcuni Paesi, tra cui Germania, Spagna, Francia, Italia, Polonia, Portogallo e Regno Unito per scoprire quanto tempo viene passato in macchina, e il dato che ne è emerso è importante: in media gli europei trascorrono quattro anni e un mese della propria vita in auto. In alcuni Paesi si passano anche cinque anni e sette mesi a bordo di quattro ruote, calcolando

tre anni e sei mesi come guidatore, e il restante tempo in qualità di passeggero.

Basandoci su questi numeri vien da sé ritenere del tutto normale che per molti l’auto sia dunque considerata una sorta di seconda casa e, l’esperienza, più che simile a quella domestica. Ecco allora che anche l’illuminazione dell’abitacolo negli ultimi anni è sempre più tenuta in considerazione dai progettisti.

Già una decina d’anni fa sono arrivate illuminazioni cosiddette d’ambiente all’interno degli abitacoli. Su ammiraglie come le Mercedes, ma anche sulle simpatiche Mini, una serie di led illuminavano in modo diffuso l’abitacolo permettendo magari di cambiare anche il colore attraverso alcuni led. Oggi Volvo fa un deciso passo in avanti alzando l’asticella con i LED Sun Like prodotti da Seoul Semiconductor che vogliono esaltare il legame con la natura sia di giorno sia di notte.

«Sfruttando lo spettro di luce emesso dai LED SunLike, i materiali innovativi e il design degli interni della Volvo EX90 risaltano in modo più chiaro e senza alterazioni di colore» spiega Dan Fidgett, responsabile colore e materiali di Volvo Cars. «Le luci, che si integrano perfettamente con le decorazioni in legno e con gli

altri materiali naturali presenti nell’abitacolo, rappresentano un elemento centrale del nostro linguaggio stilistico scandinavo». Stiamo parlando di un sistema avanzato di illuminazione anti-sfarfallio che consente una resa più naturale rispetto a quella che si ottiene con i LED sino a ora utilizzati

nell’industria automobilistica. Grazie anche alla soppressione della luce blu, si riduce pure l’affaticamento degli occhi e i mal di testa associati a tale esposizione.

Una tecnologia, già utilizzata per illuminare gli spazi interni delle abitazioni, degli ospedali, delle scuole e dei musei che permette di riprodurre

colori proprio come quelli che si vedono in natura. Posizionati sul soffitto, sul pavimento, sulle tasche delle portiere o nel bagagliaio. Sono ben 72 i led SunLike presenti su Volvo EX90 e la luce in auto alla fine, anche se magari non è proprio identica, risulta davvero molto simile a quella del sole.

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trascorrono quattro anni e un mese della propria vita all’interno di una vettura

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Un virus, due malattie

Salute ◆ La Svizzera torna a raccomandare la vaccinazione di base per la varicella che può poi riattivarsi come Herpes Zoster

Dall’inizio del 2023, l’Ufficio federale della salute pubblica (Ufsp) raccomanda contro la varicella una vaccinazione di base, con due dosi per tutti i lattanti (a 9 e a 12 mesi), di preferenza con un vaccino combinato quadrivalente morbillo-orecchioni-rosolia-varicella (MORV). A questo proposito, pure l’Ufficio del medico cantonale del Canton Ticino ha emanato una circolare ai medici con libero esercizio del territorio, nella quale si trovano «informazioni essenziali e raccomandazioni di vaccinazione». Si tratta di un documento votato a informare nel contempo sul fatto che «sono stati omologati e sono ora disponibili in Svizzera i vaccini combinati MORV che semplificano la vaccinazione con tutt’e quattro le malattie».

Parallelamente, il direttore medico e scientifico dell’Istituto Pediatrico della Svizzera italiana Giacomo Simonetti ha confermato sulle pagine del «Corriere del Ticino» che, rispetto al periodo pre-pandemico, nel nostro Cantone si assiste a un aumento del numero di bambini ricoverati per infezioni da varicella. L’insieme di questi dati ci spinge a riflettere sulla malattia e sulle possibili soluzioni, anche di prevenzione.

«La varicella è causata dal virus varicella-zoster (VVZ) diffuso in tutto il mondo e molto contagioso (tramite aerosol), che produce essenzialmente febbre, malessere e quella tipica eruzione cutanea pruriginosa e vescicolare, le cui complicazioni possono portare all’ospedalizzazione e sono di tipo neurologico, infezioni cutanee secondarie, oppure, nell’adulto, polmonite da varicella». Questa è la premessa del pediatra e infettivologo dottor Alessandro Diana, il quale però tranquillizza sul decorso clinico di questo virus «generalmente lieve nei bambini». «Nei piccoli sotto gli undici anni si osservano quattro complicazioni su centomila, di tipo neurologico e infezioni cutanee profonde». Diana ricorda d’altronde che «tutti sanno però che una varicella in età adulta può essere gravissima; per-

ciò molti genitori “preferiscono” che i loro figli la contraggano quando sono ancora giovanissimi (vedi i cosiddetti varicella party nei quali si lasciano a contatto i bambini in modo che la contagiosità faccia il resto)».

Venuti a contatto col virus, ad ogni modo, «si diventa contagiosi già a partire da uno o due giorni prima dell’inizio dell’eruzione cutanea della varicella, fino a quando le ultime vescicole si trasformano in croste. Questo succede attorno al quinto giorno, mentre il periodo di incubazione è di 10-21 giorni dall’esposizione». La terapia, oltre che sintomatica, può comportare l’uso di «farmaci antivirali che avranno efficacia solo se somministrati molto precocemente». Resta che il virus varicella-zoster può essere un’arma a doppio taglio perché nel tempo potrebbe portare allo sviluppo di una doppia malattia: «La prima infezione da VVZ porta a sviluppare la varicella, mentre le complicazioni tardive possono sorgere spesso decenni dopo un’infezione primaria di varicella, a causa della riattivazione del virus latente nei gangli sensoriali». Lo specialista si riferisce all’Herpes Zoster: «Un’eruzione vescicolare pruriginosa e dolorosa spesso accompagnata da forti dolori neuropatici, il cui rischio di manifestarsi è aumentato nelle persone immunodepresse e negli anziani».

I dati statistici dicono che nel corso della vita circa un terzo di tutte le persone soffre di uno o più episodi di Herpes Zoster, e a partire dai 50 anni la sua incidenza aumenta fortemente. Altra ragione per dar seguito alla campagna di Confederazione e Cantone, dato che «fra i benefici della vaccinazione contro la varicella, possiamo considerare pure la protezione dall’Herpes Zoster».

Naturalmente, a questo punto emerge il discorso sulle diverse sensibilità ai vaccini. «Negli anni Settanta – spiega il dottor Diana, paladino della comunicazione e del colloquio privo di giudizio come chiave per un dialogo costruttivo con i vaccino-scettici che mettono in dubbio sicurezza ed

efficacia degli stessi – il vaccino contro la varicella è stato sviluppato per i bambini con leucemia, per evitare appunto le gravi complicazioni che per loro sono molto più frequenti che non nel bambino sano. Nel tempo, non solo l’esperienza ha dimostrato la sua altissima efficacia (più del 95 percento di protezione raggiunta con sole due dosi a 6-8 settimane di intervallo), ma pure un ottimo profilo di sicurezza».

Il medico racconta che questo ha permesso a poco a poco di estendere in vari Paesi le raccomandazioni al vaccino per bambini e adulti in buona salute: «Ad esempio, negli Stati Uniti questa vaccinazione è stata generalizzata da oltre vent’anni; mentre oggi in Svizzera, in aggiunta a quella di base per i lattanti dai 9 ai 12 mesi, la si raccomanda come vaccinazione di recupero fino ai 39 anni».

Nella circolare dell’Ufficio del me-

dico cantonale, si producono precisi risultati statistici: «Sia i vaccini contro la varicella sia i vaccini combinati MORV sono “vaccini vivi attenuati”.

In Svizzera, nel 1995 è stato omologato il primo vaccino monovalente contro il VVZ, e nel 2005 è stato omologato un secondo prodotto. Quelli combinati quadrivalenti MORV sono omologati e ottenibili da noi dal 2007 e dal 2010». Si sottolinea inoltre che tutti sono convalidati da Swissmedic per l’impiego nei bambini a partire dai 9 mesi d’età, ma anche negli adolescenti e negli adulti.

Sul versante della validità delle stesse: «Numerosi studi hanno mostrato che nelle persone sane vaccinate con due dosi, l’efficacia della vaccinazione contro la varicella è superiore all’80 percento per qualsiasi infezione da varicella, e sopra il 90 percento per le infezioni gravi. Ancora pochi da-

ti sono disponibili sull’efficacia contro l’HZ, ma le esperienze fatte negli USA mostrano tuttavia che i bambini vaccinati contro la varicella hanno un rischio ridotto del 78 percento di ammalarsi di Herpes Zoster». Chiediamo infine al dottor Diana quali strumenti di riflessione aggiungere per le persone cosiddette vaccino-scettiche: «“Listen, Ask – Offer – Ask ”, ossia: lasciar spazio e legittimità alle domande senz’alcun giudizio, anche se comprendo quanto possa essere difficile per coloro i quali sono soliti a interrompere e correggere il dialogo. Infine, prima di dare spiegazioni e informazioni, chiedere se la persona vuole davvero sapere di più, e cosa desidera sapere!». Egli ricorda saggiamente: «In altre parole, mai “vomitare” la scienza senza aver chiesto permesso alla persona scettica ed esitante».

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TEMPO LIBERO

Un’immersione nel cuore delle Ande boliviane

Un viaggio attraverso strade sterrate che si inerpicano su fino a più di 4000 metri per incontrare l’antico popolo dei quechua

Feste di compleanno in giardino

Realizzare api e farfalle di cartoncino tutti insieme intrattiene gli ospiti e fa risparmiare l’impiego di sacchetti di plastica per i dolcetti

L’occhio del sistema di ripresa

Fotografia ◆ Fondamentali sono gli obiettivi, grazie ai quali si catturano frammenti di realtà per fissarli in un’immagine

Fotograficamente parlando, tra gli strumenti a nostra disposizione sono molto importanti gli obiettivi, dato che, grazie alle loro caratteristiche, sono essi a fare l’immagine, sia nella forma sia nella qualità.

Il corpo-macchina, pur avendo assunto col passaggio al digitale una maggiore importanza rispetto a quello degli apparecchi analogici, resta infatti una componente meno determinante, seppur ovviamente imprescindibile, nella realizzazione di una foto.

L’obiettivo è l’occhio del sistema di ripresa, è quel dispositivo grazie al quale catturiamo i frammenti di realtà che vogliamo fissare in un’immagine. Se l’ottica che impieghiamo fosse equiparabile a un fondo di bottiglia, non ci sarebbe scampo: il risultato che da questa otterremmo sarebbe conseguente, ossia poco inciso, di limitata definizione, e ciò indifferentemente dalla qualità della macchina utilizzata.

Sia chiaro, con ciò non si vuole dire che il valore estetico di un’immagine si fondi su questo unico o particolare criterio. Ben lungi… Ma è senz’altro un criterio da prendere in considerazione a dipendenza del tipo di fotografia che vogliamo praticare. Se questo, ad esempio, richiede un’alta definizione – ad esempio nel caso di still life pubblicitari o di riproduzioni d’arte – non potremo prescindere dall’uso di un’ottica di qualità che, inevitabilmente, comporterà costi d’acquisto piuttosto elevati. Teniamo però conto che, a differenza degli apparecchi fotografici attuali, se ben trattato, un obiettivo può durare una vita. E valere dunque il sostanzioso investimento.

Ogni obiettivo ha una sua apertura massima che lo caratterizza, chiamata luminosità. Più è ampia, maggiore sarà la sua duttilità e, di norma – a causa della quantità e della qualità delle lenti impiegate per la costruzione –, il suo costo. Attraverso il diaframma, l’ottica controlla la quantità di luce che va a colpire la parte sensibile del nostro dispositivo di ripresa.

Più aperto è il diaframma, maggiore sarà la quantità di luce che lo attraversa, e più breve potrà essere il tempo di esposizione. (E viceversa).

Il valore di apertura del diaframma si esprime in numeri indicati col simbolo f (detti anche f–stop), i quali rappresentano il rapporto tra la lunghezza focale dell’obiettivo e il diametro di apertura del diaframma: per un obiettivo con lunghezza focale di 50 mm, ad esempio, f8 vuol dire che il diaframma ha in quel momento un’apertura del diametro di 6 mm e poco più.

Sugli obiettivi, questo valore è tarato in modo che il passaggio da un f–stop all’altro implichi un dimezza-

mento (o un raddoppiamento, a dipendenza della direzione verso cui procediamo) della superficie di apertura del diaf e della quantità di luce che questi attraversa. Lo stesso avviene, classicamente, per i tempi di esposizione (oggi, con gli apparecchi elettronici a nostra disposizione, possiamo ormai intervenire su questi due fattori di esposizione in termini di frazioni).

Più aperto è il diaframma, maggiore sarà la quantità di luce che lo attraversa, e più breve potrà essere il tempo di esposizione

Di modo che, in una situazione di luce data, a parità di esposizione, aprendo di uno stop ( f–stop) il diaframma dovremo di conseguenza dimezzare il tempo di scatto. E così via. È sottinteso che tutte queste operazioni le dovremo eseguire se, come comunque vi consiglio di fare, lavoreremo in modalità di esposizione manuale.

Oltre a stabilire la quantità di luce che l’attraversa, il valore di apertura del diaframma incide sulla porzione di spazio che potremo mettere a fuoco. Più chiuso è il diaframma e più estesa sarà la profondità di cam-

po (appunto, la potenziale porzione di spazio a fuoco all’interno dell’immagine). Non avendo problemi legati alla quantità di luce disponibile, sarà proprio questo fattore – la profondità di campo – a farci scegliere il valore di apertura del diaf con cui scattare.

Senza volerne fare una regola assoluta, un ritratto richiede un’apertura ampia, se vogliamo staccarlo dallo sfondo, mentre per avere il soggetto tutto a fuoco – ad esempio, per una foto di paesaggio – dovremo tendenzialmente chiudere il diaframma. Oltre all’apertura del diaf, la profondità di campo dipende anche dalla lunghezza focale dell’ottica usata e dalla distanza tra il piano focale e il soggetto che mettiamo a fuoco. Maggiore è la lunghezza focale e minore la profondità di campo a parità di distanza di messa a fuoco. Allo stesso modo, più vicini saremo al soggetto e minore sarà la porzione di spazio messo a fuoco dall’obiettivo a parità di diaframma.

La lunghezza focale dell’obiettivo, oltre all’ampiezza del campo di visione coperto, condiziona il rapporto di distanza tra i vari piani inclusi nella ripresa. Un teleobiettivo – focale lunga e stretto campo di ripresa – tenderà a schiacciarli. Al contra-

rio, un grandangolo – focale corta e campo di ripresa ampio – ne amplifica la separazione. Per entrambi, il loro uso comporta una certa distorsione del soggetto ripreso. L’ottica che viene definita di lunghezza focale normale (normale relativamente al tipo di apparecchio che utilizziamo, o meglio alla dimensione del dispositivo sensibile che l’obiettivo copre) è quella che più si avvicina all’angolo di visione dell’occhio umano. Per una full frame 24x36 mm, che qui prendiamo come standard, la lunghezza focale normale si situa attorno ai 50 mm.

Ogni tipo di soggetto – e il modo di affrontarlo – richiederà una sua particolare gamma di ottiche. Pur avendo una certa codificazione legata alla storia del nostro media, nulla impedisce di sperimentare proprie soluzioni.

Per la ritrattistica, classiche sono le ottiche medio–tele (dagli 80 mm a poco oltre i 100 mm, per il nostro apparecchio standard). Foto d’architettura richiederanno più spesso focali dal normale al grandangolo, magari dotate di basculaggio, ossia di quel dispositivo che permette già in fase di ripresa di correggere le distorsioni ottiche dovute all’uso di focali corte. Per i reportage, un grandangolo, tra il 35

e il 28 mm, con una buona apertura massima di diaframma – che ci permetterà di fotografare anche in condizioni di luce precaria – accompagnato da un piccolo zoom (ad esempio, un 24–70 mm) faranno al caso nostro. Il grandangolo, tendenzialmente, sarà invece l’obiettivo maggiormente utilizzato nel campo della paesaggistica.

Come detto, qualità e quantità delle lenti impiegate in un obiettivo saranno quei fattori che per gran parte ne determineranno il costo. A ciò, vanno ad aggiungersi i materiali eventualmente utilizzati nella costruzione dell’obiettivo per resistere a condizioni climatiche e ambientali estreme (tropicalizzazione), la presenza di uno stabilizzatore (dispositivo elettronico che controbilancia micromovimenti in fase di scatto) o di un basculaggio, la cui funzione vi ho descritto poco sopra.

C’è senz’altro di che sbizzarrirsi, e perdersi, nella scelta di un obiettivo. Il mio consiglio è di farla ponderandola sulla base di vostri effettivi bisogni, magari cercando opinioni e consigli nei vari siti dedicati proprio alla valutazione dei vari modelli presenti sul mercato. Tenete presente che se un obiettivo alla fine lo usate poco o per niente, potrete sempre rivenderlo.

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Stefano Spinelli

Le antiche fatiche del selvaggio

Reportage ◆ Nella Bolivia più rurale e sconosciuta, il popolo quechua ha mantenuto vive le tradizioni anche legate alla Pacha Mama, a tal

«¡Buenos días!» mi dice Juan, accompagnando il saluto con un leggero movimento della testa. Il cappello di feltro ha perso la sua forma. Le mani sono nodose e forti. Ai piedi, sandali di gomma fatti con gli pneumatici. Gli occhi scuri come il carbone e la pelle color cuoio. Partire dall’Europa per finire in Sud America e più precisamente in Bolivia, nella regione del Nord di Potosi, vuol dire fare un viaggio all’indietro nel tempo.

Nel dipartimento di Potosi, che si trova a sud della capitale La Paz ed è grande quattro volte la Lombardia, il centro abitato più famoso e turistico è certamente l’omonima Potosi, città popolosa dalle ricche miniere d’argento, già celebre ai tempi della colonizzazione spagnola. Non si trova qui, però, la vera anima boliviana; per scoprire e conoscere più a fondo la natura originaria di questo popolo e i suoi territori selvaggi, bisogna spostarsi verso il nord di questa regione, e immergersi nel cuore delle Ande boliviane, attraverso strade sterrate che si inerpicano su fino alla vetta delle montagne, a più di 4000 metri sopra il livello del mare.

Dalle

valli alle vette

Un viaggio insolito, come si è detto, fuori dagli schemi e dalle rotte turistiche, ma soprattutto fuori dal tempo. Dove bisogna sapersi adattare alle condizioni climatiche, dove si dorme in piccole pensioni e dove gli spostamenti con il fuoristrada richiedono ore di terreno sconnesso e tanta pa-

zienza. È un viaggio a scorrimento lento, che permette agli occhi di riempirsi di orizzonti qui rigogliosi, là brulli, di fronte a catene di montagne che non sembrano finire.

Nelle strette vallate o lungo i pendii, piccoli appezzamenti di terreno risplendono di un verde smeraldo, il colore del mais o del fieno che sta crescendo. La vita da queste parti è dura, la natura non concede comodità, bisogna guadagnarsi con il duro lavoro quello che la terra può offrire. Nei sentieri che costeggiano i fianchi delle montagne si intravedono donne avvolte in poncho colorati che portano al pascolo piccoli greggi di pecore. Le case fatte di fango e paglia sono sparse qua e là. Ogni tanto, ai bordi delle strade, qualche contadino si riposa, seduto su una pietra o sotto un albero.

Silenzi, sguardi e foglie di coca

In mano, Juan, tiene il sacchetto di plastica verde con le foglie di coca, che offre subito per poterle condividere. Un gesto che vuol dire tanto: tradizione, amicizia, ospitalità. Le foglie di coca vengono masticate da tutti, uomini e donne, dalla mattina alla sera. Si forma una palla di foglie che, infilata in bocca, va posta di lato, tra gengiva e guancia. Aiuta a togliere la fatica e la fame. Una tradizione che risale ai tempi degli Inca. E ogni volta, prima di iniziare il rito, si buttano alcune foglie in terra, è l’offerta alla Pacha Mama, la Madre Terra. Un’azione benevola per chiedere aiuto e protezione.

È taciturno Juan, conosce poche pa-

role di spagnolo. La sua lingua è l’antico quechua. Ma riesce a farsi capire: è un contadino e sta andando al mercato di Acassio, uno dei piccoli paesi della zona, a comprare delle sementi per il suo campo. Ha camminato per circa quattro ore e ha ancora parecchia strada davanti. Non è mai uscito da queste valli, non ha mai visto una grande città.

Ha un’età indefinita e indica un posto lontano per dire dove si trova la sua casa. Quello con Juan è un incontro fatto di silenzi e di sguardi; quando passa un pulmino, che fa la spola tra i vari villaggi e comunità di contadini, decide di prenderlo per risparmiare tempo e fatica, ma prima di andarsene mi lascia ancora una manciata di foglie di coca e un abbraccio forte e sincero.

La sposa del villaggio

Le nuvole dense e corpose sembrano toccare le vette delle montagne. Giù in basso il Rio Caine segna il confine tra il dipartimento del Nord di Potosi e quello di Cochabamba. Di solito è maestoso e tempestoso, ma ormai anche lui soffre per i cambiamenti climatici: ha poca acqua, sembra quasi in secca, anche se è da poco finita la stagione delle piogge. Le rive sono distese di sabbia e il vento alza mulinelli di polvere.

Il viaggio nel Nord di Potosi a volte dà la sensazione che non si arrivi mai da nessuna parte. Le curve si susseguono sulle strade bianche e piene di buche, e una volta arrivati in cima a una montagna, il percorso si rituffa

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Le montagne del Nord di Potosi non sono generose, ma la gente che le abita sa come trarne da vivere.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 5 giugno 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 17 Nord di Potosi punto da rievocare ancora tutti gli anni il periodo violento della colonizzazione spagnola nutrendo la terra con il proprio sangue 3 mesi di fitness a soli 175.Vacanze ACTIV quest’estate. Losone · Lugano · Bellinzona · Giubiasco · Mendrisio · Vezia Allenati in 118 centri in tutta la Svizzera. Annuncio pubblicitario

Api e farfalle con sorpresa

Crea con noi ◆ Piccole simpatiche creazioni con qualche semplice rotolo da riciclare e del cartoncino colorato

Materiale

Stampate il cartamodello, ritagliatene le parti e riportatele sul cartoncino colorato ritagliando i vari pezzi con le forbici. Stropicciate le parti tra le mani facendo attenzione a non danneggiarle

• Rotoli carta igienica

• Cartoncini colorati

• Forbice/taglierino

• Pittura acrilica o tempera nera

• Colla vinilica

• Occhietti mobili

Con la bella stagione inizia il periodo delle feste di compleanno in giardino.

E allora perché non intrattenere i bambini con un momento bricolage per creare simpatiche api e colorate farfalle che potranno portare a casa come ricordo, dopo averle riempite con qualche dolcetto?

Per farlo il procedimento è semplicissimo, basterà qualche rotolo da riciclare, cartoncino colorato e un po’ di pittura.

Procedimento

Dipingete per ogni ape o farfalla che volete creare un rotolo di nero.

Essendo molto coprente una sola passata dovrebbe bastare. Lasciate asciugare. Schiacciate leggermente il rotolo, in modo da definire le due metà, quindi con un taglierino e mano leggera ( questa operazione va fatta da un adulto ) incidete da entrambi le parti, e da entrambi i lati del rotolo, delle semilune. Piegate delicatamente in corrispondenza all’incisione per dare forma alle scatoline.

Per le api: rivestite con una striscia di cartoncino giallo 6x17 cm la parte centrale. Quindi aggiungete 3 strisce nere larghe 1 cm.

Giochi e passatempi

Cruciverba

Nelle scuole armene, ai bambini dai sei anni in su, viene insegnata una strana materia obbligatoria, per scoprire qual è risolvi il cruciverba e leggi le lettere evidenziate.

(Frase: 2, 5, 5, 7)

ORIZZONTALI

1. Nome femminile

5. Un fiore

11. Un’antica moneta

13. Lo pratica Federica Pellegrini

14. Esprime dolore

15. Famoso scrittore per l’infanzia

17. Le iniziali del noto Elkann

18. Può esserlo il vento

20. Una scimmia

21. Le iniziali dell’attore Orlando

22. Le ha dispari Conte

23. Unità di pressione

Incollate le ali azzurre alle api e aggiungete degli occhietti mobili, allo stesso modo componete le ali delle farfalle decorandole a piacere e fissatele sempre con la colla vinilica sulla scatolina nera.

Per le farfalle avvolgete verticalmente della raffia o del filato attorno alla scatolina, annodate in corrispondenza delle ali e formate due piccole antenne infilando due perline in tinta.

Per le api, create delle piccole antenne utilizzando un pezzetto di pulisci pipa piegato a metà. Aggiungete anche qui due perline e infilate le antenne tra i due lembi della scatolina.

• 1 pulisci pipa nero e qualche perlina in tinta

(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

Le vostre scatoline sono pronte. Non vi resta che posare api e farfalle su di un vassoio insieme a qualche dolcetto e farle riempire dalle manine del festeggiato e dei suoi invitati. Buon divertimento!

Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku

24. Le iniziali dell’attrice Duff

25. La pistola del Far West

26. Tranquille, silenziose

27. Propagazioni vibranti di energia

28. Con altri diventa noi

VERTICALI

1. Non si può lasciare a piedi

2. Uccelli acquatici

3. Pronome personale

4. La conduttrice Daniele (Iniz.)

6. C’era quello dei libri proibiti

7. Tratto di fiume percorribile a piedi

8. Essi

9. Andati alla latina

10. Un risultato calcistico

12. Organo pari dei vertebrati

16. Isola del Mar Baltico

18. Le iniziali del musicista Allevi

19. Processione

21. Si possono fare nel buio...

23. Restano sempre ancorate

25. Sostituisce «il quale»

26. Un dischetto abbreviato

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

Soluzione della settimana precedente

IN PARADISO – San Pietro davanti al Paradiso dice ad un vescovo: «Non puoi entrare, quando dicevi la messa dormivano tutti! Tu invece puoi entrare!» E il vescovo: «Ma quello è un autista!» «Certo ma…»

Resto della frase: «…QUANDO GUIDAVA PREGAVANO TUTTI»

I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell ’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 5 giugno 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 18
Q U O A N E D D O T O U L N A A G E C U I A T O M O O D O R E L I R I C A I V A A I M E C R O C O P R T E G I A V A N O M A C I P E T T O R E R U P I E A C T O R T A R T A C P E S I O M E L E T T E S I A 7 5 8 6 1 9 4 3 2 9 6 3 2 5 4 1 8 7 4 1 2 8 7 3 6 9 5 5 8 7 9 2 1 3 6 4 3 9 1 7 4 6 5 2 8 2 4 6 3 8 5 9 7 1 1 2 9 4 6 7 8 5 3 6 7 5 1 3 8 2 4 9 8 3 4 5 9 2 7 1 6
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Viaggiatori d’Occidente

La grande migrazione

Il nostro viaggio più importante lo abbiamo cominciato circa sessantamila anni or sono, quando l’ homo sapiens ha lasciato l’Africa per colonizzare l’intero pianeta. Migrazioni minori sono registrate già molto tempo prima, ma la maggior parte della popolazione mondiale, sostengono i genetisti, ha avuto origine da quel Out of Africa Siamo tutti africani insomma.

Per parecchio tempo gli uomini restarono in movimento. Bruce Chatwin, il grande viaggiatore inglese, era affascinato da questa alternativa nomade e ne ricercava le sopravvivenze nei suoi ultimi rappresentanti, per esempio gli aborigeni australiani. Strada facendo (letteralmente) si poneva domande decisamente originali: «Perché i popoli nomadi tendono a considerare il mondo come perfetto, mentre i sedentari tentano incessantemente di mutarlo?».

Poi però ci siamo fermati, coltivando

i campi, costruendo villaggi e città, fondando Stati. E da allora tutto sommato ci siamo accontentati: invece di spingerci lontano per procurarci tutto il necessario, abbiamo spostato le merci. Per esempio nel Medioevo nessun mercante percorreva per intero gli ottomila chilometri della Via della seta, da Xi’an al Mediterraneo; solo le merci (e le idee e le religioni) passavano di mano in mano incessantemente nei vasti fondaci dei caravanserragli. Ancora oggi del resto, se solo vi guardate intorno, ovunque voi siate, la maggior parte di quel che vedete – il legno dei mobili, i vestiti, il cibo – viene da lontano: noi viaggiamo virtualmente attraverso le merci. Ma presto, sostiene la giornalista scientifica britannica Gaia Vince nel suo Il secolo nomade. Come sopravvivere al disastro climatico (Bollati Boringhieri), potremmo essere costretti a fare nuovamente le valigie. Infatti nei

Passeggiate svizzere

Il Cagliostro-Pavillon di Riehen

Annotato nel taccuino da anni, il posto un po’ misterioso dove sto andando adesso in tram, è visitabile di rado. Appena mi è capitato sottocchio un concerto all’ora del tè intitolato Bach im Cagliostro, non mi sembrava vero. Scendo dal tram numero sei alla fermata Bettingerstrasse, mi guardo attorno per orientarmi, eccolo là dall’altra parte della strada, il Cagliostro-Pavillon (276 m) di Riehen. Ex villaggio accanto a Basilea, noto per la fondazione Beyeler, le tenute di campagna delle ricche famiglie basilesi di una volta e il pietismo nel Seicento. Al tredici dell’Äussere Baselstrasse, tra le chiome dei tigli, spiove il tetto a mansarda con coppi a coda di castoro. Datato al 1762 e restaurato a dovere nel 2015, il padiglione Cagliostro è dominato, su sfondo esiguo bianco panna, dall’azzurro carta da zucchero. Dalle persiane continua nei contorni, coronati da stucchi ro-

cocò, delle tre grandi finestre che occupano tutta la facciata. E si ritrova nelle colonne di mattoni agli angoli. Ritorna nel cornicione di legno e nello zoccolo dove sembra più attenuato, quasi azzurro ghiaccio. Ghiaietta sotto i passi, rododendro in fiore, l’entrata è sul retro. In ombra, dove oltre all’azzurro sempre carta da zucchero che qui s’incupisce, ricordando certi torrenti di montagna allo sciogliersi delle nevi, si trova il legno naturale delle persiane e il color panna del portafinestra con taglio barocco, nuvolesco. In largo anticipo, mi siedo su una sedia da giardino e assaporo l’ondeggiare dei tigli in fiore tra poco. Lo sguardo corre lungo la torretta esagonale aggiunta nel 1783 su desiderio, dicono, del Conte di Cagliostro (1743-1795) alias Giuseppe Balsamo, esoterista oscuro e controverso, ciarlatano di talento, mago, alchimista, falsario, avventu-

Sport in Azione

prossimi cinquant’anni la temperatura media della Terra potrebbe aumentare sino a quattro gradi. Vaste regioni diventerebbero inabitabili a causa di ondate di calore estremo, siccità, incendi, inondazioni: la versione 2.0 dei quattro cavalieri dell’Apocalisse. Parliamo del Sudan o del Bangladesh, ma anche dell’Australia o di vaste regioni dell’America. Oltre tre miliardi di persone (su una popolazione mondiale aumentata nel frattempo a dieci) dovranno lasciare la loro casa per migrare verso il nord del pianeta, in territori un tempo freddi ma ora liberi dai ghiacci, e vivere in nuove città mentre la geoingegneria cerca di far tornare il pianeta alle sue condizioni precedenti. Secondo Gaia Vince, l’umanità sarà in grado di gestire un cambiamento tanto traumatico grazie a un governo globale e soprattutto grazie a una nuova consapevolezza del comune destino dell’umanità, dalla quale matu-

ri un’inedita cultura dell’accoglienza e della condivisione. Bisogna superare concetti datati quali Patria, nazione e l’idea che un certo territorio ci appartenga di diritto, per far sì che il grande viaggio non sia una fuga disperata, un abisso d’anarchia, ma una migrazione di massa pianificata e ben organizzata. Richiuso il libro ho avvertito un sincero senso di sgomento. Ho cercato subito di convincermi che fossero posizioni estreme, quasi stravaganti. Ma non è proprio così. Per cominciare Gaia Vince non è l’ultima arrivata. Il suo saggio d’esordio Avventure nell’Antropocene (2014), il racconto di quanto e come l’umanità abbia trasformato questo pianeta, ha vinto il prestigioso Royal Society Winton Prize for Science Books (il primo mai attribuito a una donna).

Eccesso di pessimismo allora? Certo un innalzamento della temperatura media di quattro gradi è uno scena-

rio estremo secondo molti scienziati, ma altrettanto estrema è la nostra ostinazione nelle vecchie abitudini: dal 2006, quando il problema era già evidente, abbiamo rilasciato un terzo delle emissioni di carbonio dell’intera storia dell’umanità.

Parliamo almeno di futuro remoto? Per nulla. Nel 2050 molti di noi saranno ancora vivi; io avrò, a Dio piacendo, ottantasei anni e i miei figli saranno sulla cinquantina. E quel ch’è peggio, la soluzione prospettata da Gaia Vince – un’emigrazione controllata su larghissima scala – appare drammaticamente superiore alle nostre forze intellettuali e sociali: l’ultima volta che ci abbiamo provato, al tramonto dell’impero romano, sappiamo tutti com’è finita. Meglio allora prendere sul serio, qui e ora, la questione climatica, con scelte coraggiose e radicali: per scongiurare quell’ultimo viaggio.

riero folgorante, ex novizio nel convento dei Fatebenefratelli di Caltagirone. Una vita in fuga, attraverso mezza Europa, capita da questi parti per via di Jakob Sarasin (1742-1802): fabbricante di nastri di seta, mecenate, illuminista al quale Cagliostro aveva guarito la moglie, Gertrud, detta Zoe. È lui il tramite con un altro fabbricante di seta, Johann Jacob Bischoff-Roschet (1736-1813), il committente di questo villino di delizie che mette a disposizione, in un angolo della sua tenuta detta Glögglihof, di Cagliostro. Per le sue riunioni tra idromanzia e massoneria, culminate qui, nel maggio 1787, con la fondazione della Grande Loggia Madre Egiziana dei Paesi Elvetici della Verità Vittoriosa del Grande Oriente di Basilea. Guardo il padiglione che ha preso il nome del fantaconte siciliano e m’immagino il fluire e le facce, man mano, degli invitati a questi

Fragili, sopravvalutati, o forse entrambi?

Abbiamo sconfitto i Campioni del mondo e siamo stati superati soltanto dalle due squadre che hanno conquistato l’argento e il bronzo. Potrebbe suonare come consolatorio. In realtà, a distanza di più di una settimana, permangono amarezza e perplessità. Mancano poco più di cinque minuti al termine del quarto di finale che ai Mondiali di hockey su ghiaccio pone di fronte Svizzera e Germania. I tedeschi stanno difendendo senza eccessivo affanno il 3 a 1 maturato grazie a uno sciagurato periodo centrale da parte dei Rossocrociati. C’è una pausa di gioco. Le telecamere indugiano, impietose, sulla nostra panchina. Patrick Fischer armeggia con la lavagnetta tattica. La scruta, la gira, la rigira. Sembra quasi chiedersi che cosa sia quell’aggeggio che si trova tra le mani. Lo sguardo sembra perso. I giocatori sembrano non avere alcuna intenzione di starlo ad ascol-

tare. Anche perché, in verità, il Coach non ha nulla da dire. Al rientro sul ghiaccio lo sguardo di Kukan, inquadrato in primo piano, non riesce a dissimulare la disillusione. Il linguaggio del corpo è leggibile come un libro per bambini scritto a caratteri giganteschi. «Fischi» tenta la carta della disperazione. Toglie dalla gabbia Robert Mayer tre minuti e mezzo prima della sirena. Tuttavia l’assalto dei nostri sembra più di facciata. Il portiere dei tedeschi compie un paio di salvataggi. Fa parte del suo lavoro. A porta sguarnita la Svizzera rischia di incassare anche la rete del 4 a 1. Fosse entrata non avrebbe modificato di una virgola il bilancio fallimentare dei Rossocrociati. Non lo dico io. Lo avevano dichiarato, in tempi non sospetti, il Selezionatore e il Direttore Lars Weibel. Lo aveva confermato capitan Niederreiter la vigilia della sfida contro i Tedeschi:

«Oggi, arrivare ai quarti è un dovere, non un obiettivo. Oggi tutti sognano la vittoria, come fanno le grandi squadre. In questo, la nostra mentalità è cambiata tantissimo».

Il gruppo era convinto di andare lontano. El Niño ammette che, al momento di uscire dallo spogliatoio, prima di scendere in pista, avrebbe ricordato ai compagni che «in fin dei conti è soltanto una partita». Riconosce anche che non è farina del suo sacco. È una citazione dotta attribuita a Murat Yakin. Ed è un concetto che avrebbe potuto esprimere anche Vladimir Petković. I tre allenatori in questione sembrano infatti prigionieri dello stesso Karma. Le loro squadre, carine, propongono trame convincenti, vincono, illudono, poi, sul più bello, salta sempre un fusibile. La Nazionale di hockey, in questo Mondiale, sembrava poter assoggettare il mondo intero alla sua legge.

riti. Entro nella sala ancora vuota. Sulle pareti azzurro cielo di una carta da parati floreale esuberante, è appeso un ritratto di Cagliostro, a fianco quello della sua compagna di avventure, Serafina, nota anche come Regina di Saba. Il ritratto ovale di Cagliostro che mi fa sempre venire in mente una rana o un rospo, sotto vetro, in una cornice d’oro, è una riproduzione dell’incisione su rame eseguita a Strasburgo da Christophe Guérin nel 1781. L’originale, con dedica accorata di Sarasin, è conservata negli archivi storici di Basilea, dove si trovano anche molte ricette manoscritte di Cagliostro. E se guardate bene gli ingredienti della sua eau magistrale, tipo curcuma, zenzero, cardamomo, non sono poi così strampalati. La sala alla fine è piena, spicca una camicia a motivo palme di una signora in prima fila, in perfetta sintonia con la flora esotica dell’Isola

Bella: così è intitolata la magistrale carta da parati della manifattura Zuber di Rixheim che la stampa ancora oggi con settecentoquarantadue blocchi di legno incisi tra il 1842 e il 1843 da artigiani sopraffini. Inizia la prima delle due sonate per violino e cembalo obbligato. Una terza tonalità di azzurro delle tende in seta, alle cinque finestre, s’intona alla sfumatura di azzurro del cielo sopra il Lago Maggiore. In do minore, sfumatura triste-gioiosa come di luminosa morte, è la successiva sonata di Bach in cui mi perdo, seduto in fondo al Cagliostro, su una sedia di legno scrostata Luigi XV, l’ultima domenica di maggio. Il passaggio dei tram, ovattato e appena percettibile dalle finestre, dona una nota genuina. Mentre un momento magico è di sicuro quando catturo le ombre cinesi, proiettate sul parquet, dalle foglie dei tigli.

Tre vittorie contro le cosiddette deboli del girone. Quindici reti segnate, zero subite. Il crescendo non si arresta neppure quando i Rossocrociati affrontano Slovacchia, Canada e Cechia. Il primato di gruppo è garantito nonostante la sconfitta all’overtime contro la Lettonia. Un piccolo appannamento. Tranquilli. La testa era già proiettata al quarto di finale contro la Germania. Infine il crac. Il 3 a 1 rifilatoci dai teutonici pesa almeno quanto il 4 a 0 incassato contro il Portogallo dai ragazzi di Murat Yakin. Anzi, è ancora più umiliante, perché questa volta l’ambiente ci credeva.

Sui social, già prima della sirena finale, il popolo del web si è scatenato nella caccia ai responsabili. I primi colpevoli sono i giornalisti, anche se non giocano. Li si accusa di aver pompato e magnificato un gruppo di giocatori che in fondo non è poi

così forte. In loro soccorso scende in pista Patrick Fischer. La sua analisi è schietta, onesta. «La delusione è totale, mi sento responsabile di questo risultato. So di cosa sono capaci i miei giocatori nei club, dobbiamo capire perché qui non riescono a esprimersi».

Tuttavia, alla precisa domanda su come migliorare la forza mentale del Team, nessuno ha saputo fornire una risposta che consenta di guardare al futuro con maggiore ottimismo. Continueremo quindi a illuderci che il nostro è il campionato di maggior qualità dopo la NHL. Cinicamente ci ritroveremo ancora a sperare che le franchigie in cui giocano i nostri big oltreoceano non si qualifichino per i play off. Per poi trovarci alla buvette a interrogarci, senza che nessuno ci suggerisca almeno una parvenza di risposta. O quantomeno un indizio che ci aiuti a capire.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 5 giugno 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 19 TEMPO LIBERO / RUBRICHE ◆ ●
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ATTUALITÀ

Legge Covid-19 al voto

Il 18 giugno i cittadini svizzeri saranno chiamati a pronunciarsi in merito alla contestata normativa. È la terza volta in due anni

Se la rinascita passa dal baseball Reportage da Hiroshima, una città che si è risollevata dopo l’atomica grazie allo sport e alla squadra degli Hiroshima Toyo Carp

Svizzera-UE: una corsa a ostacoli

Quei bronzi sottratti all’Africa Negli USA si sta discutendo sull’opportunità di restituire opere d’arte sottratte a monarchi arricchitisi grazie allo schiavismo

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Il punto ◆ La dinamica è positiva ma Berna ha bisogno di tempo. Ora si dovrà sostituire la segretaria di Stato per gli affari europei

La sensazione è simile a quella di un capogiro, se si volge lo sguardo ai colloqui con cui Svizzera e Unione europea cercano di dare un nuovo slancio alle proprie relazioni bilaterali. Il capogiro è dovuto al fatto che non si sa più da che parte guardare, lì in mezzo ad un crocicchio in cui il nostro Paese marcia sul posto da una dozzina d’anni, con il pomello della retromarcia sempre a portata di mano. Ne è un’ulteriore conferma l’esito dell’ultimo incontro esplorativo, la settimana scorsa, tra la segretaria di Stato per gli affari esteri ed europei Livia Leu (nella foto a lato) e il suo collega di Bruxelles Juraj Nociar, uomo ai servizi del vice-presidente della Commissione europea, Maros Sefcovic. Era il decimo incontro di questo tipo, si tratta di riunioni in cui di volta in volta si cerca di trovare dei punti di intesa sui temi ancora contesi, come ad esempio il ruolo della Corte europea di giustizia, gli aiuti pubblici o la riammissione della Svizzera ai programmi di ricerca dell’UE.

Riassunto all’osso, l’esito dell’incontro della scorsa settimana è stato questo: la dinamica è positiva ma la Svizzera ha bisogno ancora di tempo, fino al prossimo mese di novembre, per capire se ci siano davvero le basi per aprire un negoziato vero e proprio, a livello politico, con cui definire quelli che potremmo chiamare i «Bilaterali 3», dopo il fallimento, su decisione elvetica, delle trattative sul cosiddetto Accordo quadro. Era il 26 maggio del 2021, giorno in cui i nostri rapporti con l’Unione sono finiti in ipotermia. Ora, a tre anni di distanza e dopo dieci incontri esplorativi, qualche schiarita si intravvede anche se Berna adesso ha chiesto questo posticipo. Salta così, o viene declassato, l’appuntamento previsto a fine giugno, quando il Consiglio federale avrebbe dovuto soppesare l’intero dossier e definire un nuovo mandato negoziale. Tutto rimandato a novembre, dunque, anche perché in questo modo si toglie, almeno in parte, il tema «Europa» dalla graticola della campagna politica in vista delle elezioni federali di ottobre. Una mossa tattica o forse una necessità reale, difficile dirlo, sta di fatto che si tratta di una decisione in contrasto con quanto emerso negli scorsi mesi, quando si erano visti segnali di distensione perlomeno in due occasioni.

In marzo è arrivato in Svizzera il vice-presidente della Commissione europea, Maros Sefcovic, portando con sé un messaggio di ottimismo. Nei suoi diversi incontri il commissario slovacco ha fatto ad esempio capire che l’UE è pronta ad accordare al nostro Paese la possibilità di mantenere le attuali misure di accompa-

gnamento per proteggere il proprio mercato del lavoro. Un segnale positivo, in particolare nei confronti dei sindacati, che si sono sempre opposti a qualsiasi allentamento. Un altro indizio era giunto, sempre in marzo, dai Cantoni svizzeri. La Conferenza dei Governi cantonali ha ribadito di essere favorevole ad una ripresa dinamica del diritto europeo, nei settori che riguardano l’accesso al mercato unico comunitario. «Eine Dynamisierung», avevano scritto nero su bianco i Cantoni, è «inevitabile». Nel rispetto comunque delle regole istituzionali del nostro Paese, a cominciare dalla democrazia diretta. In altri termini, le normative europee potranno essere riprese, a meno che in votazione popolare non si decida altrimenti. I Cantoni a determinate condizioni hanno anche difeso il ruolo della Corte di giustizia europea, nell’interpretazione del diritto comunitario in caso di contenzioso con il nostro Paese. Una presa di posizione di peso, su un tema estremamente delicato, quello dei rapporti istituzionali con l’Unione europea. Da 30 anni, dalla bocciatura popo-

lare dello Spazio Economico Europeo, questo è il cavallo di battaglia numero uno dell’UDC nell’opporsi a qualsiasi avvicinamento politico all’Unione europea.

Tutto è rimandato a novembre, anche perché in questo modo si toglie, almeno in parte, il tema «Europa» dalla graticola della campagna elettorale

La posizione dei Governi cantonali e gli esiti positivi della visita di Sefcovic hanno di certo portato una brezza di ottimismo verso Palazzo federale, e ciò ha spinto il Governo a «constatare una dinamica positiva nei colloqui con l’UE sul piano tecnico, diplomatico e politico», come scritto in un comunicato del 29 marzo. Giorno in cui il Consiglio federale, con un’accelerazione che aveva sorpreso un po’ tutti, aveva fatto sapere che entro la fine di questo mese di giugno avrebbe analizzato «gli elementi chiave» di un nuovo mandato negoziale con l’UE, incarican-

do il ministro degli esteri Ignazio Cassis di elaborare questo documento, che costituisce la base di una ripartenza delle trattative politiche con l’UE. Ora si sa che il Governo definirà questo mandato a inizio novembre. A Berna ci si prende del tempo ma in questo modo si restringe quella che viene chiamata, anche dalla controparte europea, una «finestra di opportunità» che ha come limite ultimo le elezioni europee, in agenda il 9 giugno del 2024. Ciò significa che non ci sarà più un anno di tempo per portare a termine eventuali negoziati ma, se tutto andrà bene, soltanto sei o sette mesi. Insomma, Ignazio Cassis dovrà andare di corsa nel trattare con Bruxelles, ma con lui lo dovrà fare anche il nuovo segretario di Stato per le questioni europee, visto che un mese fa Livia Leu ha annunciato le sue dimissioni per la fine di agosto.

C’è dunque da trovare il nuovo o la nuova responsabile dei negoziati. Un ruolo estremamente delicato, anche dal punto di vista politico, non per nulla negli ultimi dieci anni ben cinque segretari di Stato hanno per un motivo o per l’altro dovuto gettare la

spugna. In ogni caso per il capo della nostra diplomazia questa «finestra di opportunità» rappresenta una sfida in cui si gioca se non tutto perlomeno molto della sua credibilità politica. In sostanza Ignazio Cassis questa volta deve riuscire a portare a casa un nuovo accordo con l’Unione europea che dia forma, sostanza e continuità ai bilaterali del futuro.

L’opzione contraria rappresenterebbe un fallimento per lui e, questo va detto, anche per tutto il Consiglio federale, confrontato con il secondo passo falso di fila dopo quello del 2021. Questo sul fronte esterno, nei confronti del nostro partner politico e commerciale più importante. In casa poi si tratterà di vincere la sfida forse più difficile, quella del voto popolare. Per arrivare in fondo a questa corsa ad ostacoli serve di certo una forte volontà politica da parte di tutto il Governo, che deve dimostrare di volere davvero un nuovo accordo con l’UE. Ed è ad oggi forse questo il punto più claudicante, da qui la sensazione di capogiro che si può percepire guardando a questo grande cantiere tra Svizzera e Europa.

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 5 giugno 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 21
Keystone
Roberto Porta Pagina 25 Pagina 23

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Legge Covid-19: si vota per la terza volta

18 giugno ◆ Il Governo svizzero non vuole più essere preso alla sprovvista in caso di ritorno del virus il prossimo inverno mentre i fautori del referendum considerano la normativa liberticida e totalmente inutile

La Legge Covid-19 del 25 settembre 2020 è probabilmente il testo più attaccato nella storia recente della Confederazione. Il 18 giugno i cittadini svizzeri saranno infatti chiamati a pronunciarsi in merito per la terza volta nel volgere di appena due anni. Dalla sua entrata in vigore, il progetto è stato modificato a più riprese. Contro queste revisioni è stato lanciato il referendum. Il popolo le ha però sempre approvate: una prima volta, il 13 giugno 2021 e, una seconda, il 28 novembre dello stesso anno. In entrambi i casi le revisioni legislative sono state accolte con oltre il 60% dei consensi. Ora si è giunti al terzo tentativo. Stando ai pronostici, i fautori del referendum dovrebbero incassare una nuova sconfitta. La posta in gioco non è comunque destinata a cambiare i destini del Paese.

L’Unione Democratica di Centro è l’unico partito di Governo che si oppone alla proroga della Legge Covid-19

I movimenti Mass-voll e Amici della Costituzione, che non hanno una chiara connotazione politica e che si sono distinti durante la pandemia per la loro opposizione all’azione del Consiglio federale, hanno lanciato il referendum anche contro la modifica della Legge Covid-19 del 16 dicembre 2022. Per i citati movimenti, questa legge è liberticida, inutile e va dunque respinta. Dal canto suo, il Governo non vuole più essere preso alla sprovvista in caso di ritorno dell’epidemia il prossimo inverno. Ha perciò proposto la proroga di determinate disposizioni, mentre le limitazioni e i divieti sono stati tutti abbandonati.

L’elettorato svizzero era stato l’unico a potersi pronunciare sulla legislazione che regolava le disposizioni sanitarie e sociali per combattere la pandemia. Questo terzo referendum, nonostante la revoca delle ultime misure sanitarie a fine dicembre 2022, mira a combattere determinate di-

sposizioni previste dalla proroga della legge. Si tratta, in particolare, della possibilità per il Governo di rilasciare certificati Covid e di riattivare, se necessario, l’applicazione di tracciamento dei contatti SwissCovid. Inoltre, onde assicurare la libertà di viaggiare, occorre pure garantire la compatibilità internazionale del certificato sanitario, nel caso in cui alcuni Paesi ne reintroducessero l’uso.

Il referendum contesta anche l’introduzione delle disposizioni concernenti le persone straniere e i frontalieri in caso di chiusura dei confini, come pure le norme per la protezione delle persone vulnerabili, che obbligano i datori di lavoro, ove fosse il caso, ad autorizzare il telelavoro. La Legge Covid-19 permetterebbe, in caso di necessità, di garantire l’entrata sul territorio elvetico dei circa 400’000 frontalieri che vengono a lavorare nel nostro Paese, tenendo conto del fatto che 34’000 di loro operano nel settore ospedaliero. La proroga della legge, che Governo e Parlamento invitano ad approvare, consente poi al Consiglio federale di continuare a importare medicinali e a metterli in commercio, anche quando non sono ancora autorizzati in Svizzera. Permette pure di limitare l’entrata in Svizzera delle persone che provengono da certi Stati o da determinate regioni. Attualmente, nessun Stato è interessato da simili restrizioni.

Il Consiglio federale precisa che molte altre disposizioni della Legge Covid-19, scadute alla fine del 2022, non sono state prorogate. Ricordiamo, tra queste, il sostegno finanziario alla cultura, alle associazioni sportive e ai grandi eventi, le indennità per perdita di guadagno, nonché il pagamento dei test Covid da parte della Confederazione. I prestiti garantiti e le fideiussioni per i casi di rigore, concessi per una durata di 10 anni, resteranno in vigore sino alla fine del 2031, a prescindere dall’esito della prossima votazione. Se il 18 giugno il popolo dovesse bocciare la legge, tutte le disposizioni della stessa, prorogate dal Parlamento fino al 30 giugno 2024 con diritto

d’urgenza per garantirne l’applicazione immediata in caso di bisogno, saranno abrogate a metà dicembre. L’Unione Democratica di Centro è l’unico partito di Governo che si oppone alla proroga della Legge Covid-19. Va detto che il più grande partito del Paese si è sempre distanziato dalla politica del Consiglio federale in fatto di gestione della crisi provocata dalla pandemia di Covid-19. L’UDC si era già opposta in occasione della seconda votazione su questa legge, a fine novembre 2021. Il Consiglio federale, gli altri partiti del Parlamento (anche se alcuni membri del PLR si distanziano) e il mondo economico sostengono invece la proroga della legge. La campagna in vista della votazione è impercettibile, anche perché la pandemia è stata superata da oltre un anno ed è stata posta in secondo piano dalla guerra in Ucraina e della crisi energetica. Il comitato referendario è del parere che sia inutile estendere la base giuridica, dal momento che la pandemia è finita. Ritiene inoltre che le misure

sanitarie contro il Coronavirus siano state sproporzionate, non abbiano fornito protezione alla popolazione e, in definitiva, abbiano causato sofferenze. Dal momento che lo stesso Consiglio federale ha dichiarato che la pandemia è finita, secondo gli Amici della Costituzione non vi è motivo di prorogare le «componenti superflue» della Legge Covid-19. La critica maggiore è rivolta alla possibilità di reintrodurre il certificato Covid e il tracciamento dei contatti. Secondo il comitato referendario, il pass sanitario è discriminatorio e inutile e ha portato all’introduzione di una «società a due velocità». «Votando no alla proroga – afferma il comitato referendario – ricompattiamo una società divisa e torniamo finalmente alla normalità, senza mettere in pericolo il tessuto democratico del Paese».

Secondo i fautori del referendum è ora di «ripristinare la democrazia diretta, senza l’introduzione di uno stato di eccezione». Durante la pandemia, poi, i cittadini – sostiene il co-

mitato referendario – «sono stati ingannati». Il certificato Covid, che secondo il ministro della sanità Alain Berset doveva dimostrare la non contagiosità di una persona, «si è rivelato inutile». Contestati anche i vaccini, definiti uno «spreco di miliardi» dal co-presidente degli Amici della Costituzione Roland Bühlmann. Le prove della loro efficacia «sarebbero scarse». Consiglio federale e maggioranza parlamentare sottolineano invece che il certificato Covid-19 attesta con certezza l’avvenuta vaccinazione, la guarigione o il risultato di un test. Si è dunque rivelato più che utile. Resta il fatto che nessuno, e tanto meno i fautori del referendum, è oggi in grado di provare, quale sarebbe stata la situazione senza certificato. Probabilmente senza certificato non avremmo potuto recarci alle urne, ma certamente non a causa dell’assenza di un tessuto democratico in Svizzera, come pretenderebbero gli Amici della Costituzione. Il 18 giugno sapremo quanti cittadini daranno loro ragione.

La consulenza della Banca Migros ◆ Chi decide di farsi versare il capitale dalla cassa pensioni si assume la responsabilità di fare in modo che questo basti fino al termine della vita

La mia rendita CP mensile dovrebbe ammontare a 2000 franchi. Mi chiedo se, al pensionamento, mi converrebbe prelevare in forma di capitale l’avere della cassa pensioni e investirlo per migliorare la mia rendita.

Dipende dal rischio che vuole o è in grado di assumersi. Tenga presente che, se percepisce una rendita regolare, è la sua cassa pensioni ad assumersi il rischio dell’investimento e la responsabilità di erogare a vita le prestazioni promesse. Se invece sceglie di farsi versare il capitale dalla cassa pensioni, sarà sua sola responsabilità fare in modo che

questo basti fino al termine della vita. Bisogna riconoscere che il prelievo del capitale diventa sempre più interessante, vista soprattutto la riduzione delle aliquote di conversione (AdC). L’aliquota di conversione è il tasso percentuale con cui le casse pensioni convertono in rendita il capitale di vecchiaia. Con l’aumento dell’aspettativa di vita l’aliquota si riduce sempre di più e, di conseguenza, anche la rendita diminuisce. A un salario annuo fino a 88’200 franchi si applica un’AdC del 6,8%; ciò significa che, per ogni 100’000 di capitale di vecchiaia risparmiato, lei percepisce una rendita annua di 6800 franchi. Nel

caso in cui il suo salario annuo sia inferiore a 88’200 franchi, a questa parte del salario viene applicata un’aliquota ancora più bassa. Considerando che per il 2° pilastro non vi è una compensazione automatica del rincaro e che il potere d’acquisto della sua rendita diminuisce con gli anni, un prelievo in capitale può essere ulteriormente interessante. Ma attenzione: nel pensionamento, la sicurezza ha la priorità assoluta. Ecco perché è opportuno prelevare sotto forma di capitale solo la parte di capitale della cassa pensioni che non prevede di utilizzare per il fabbisogno quotidiano. Quindi è

importante che lei predisponga un budget per coprire le sue esigenze finanziarie dopo il pensionamento. In caso di dubbi, non esiti a ricorrere all’assistenza di specialisti. Le consigliamo inoltre di pianificare il tutto per tempo perché, a seconda della cassa pensioni, dovrà notificare il prelievo del capitale con un preavviso fino a tre anni. È poi fondamentale ripartire il capitale prelevato tra diverse categorie d’investimento (azioni, obbligazioni, ecc.) per minimizzare il rischio di perdita. Si rivolga a dei professionisti in gestione patrimoniale e gestione di fondi per una consulenza.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 5 giugno 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 23
«È meglio prelevare il capitale o riscuotere la rendita CP?»
Gerhard Buri, consulente della Banca Migros, esperto in previdenza. Il consigliere federale Alain Berset, a destra, e il personale dell’unità di terapia intensiva del Réseau hospitalier neuchâtelois. (Keystone)

Record di migranti

Regno Unito ◆ Brexit mostra i suoi effetti In arrivo più extracomunitari e meno europei

Conservatori nella bufera. Nonostante Brexit e la millantata promessa di riacquistare il pieno controllo dei confini, l’immigrazione nel Regno Unito ha toccato una quota record: il saldo netto è di 606mila persone in più. Come se alla popolazione britannica si fosse aggiunto l’equivalente di una città delle dimensioni di Glasgow. I numeri pubblicati dall’Ufficio Nazionale di Statistica parlano chiaro: oltre 1 milione e 163mila individui si sono stabiliti nella «Perfida Albione» lo scorso anno; appena 557mila se ne sono andati. Dei nuovi residenti, circa 925mila sono cittadini extra-comunitari, ovvero 287mila in più rispetto al 2021, giunti nel Paese per studiare, lavorare o fuggire da conflitti o regimi oppressivi. Il tessuto socio-demografico britannico sta cambiando pelle: sempre più Commonwealth, più Paesi emergenti e meno Europa fra gli abitanti del Regno. Le due nazionalità che spiccano per numero di visti d’ingresso sono infatti l’India e la Nigeria. Seguono i profughi ucraini e gli immigrati dalla Cina, dei quali circa un quarto in fuga da Hong Kong. Poi quelli dal Pakistan. Le cifre sono un boccone duro da digerire per il Governo del premier Rishi Sunak, che ha fatto della lotta all’immigrazione il suo vessillo.

Le due nazionalità che spiccano per numero di visti d’ingresso sono l’India e la Nigeria, seguono ucraini e cinesi

Quando i Tory vinsero le ultime elezioni politiche nel 2019, ponendo al centro della campagna elettorale proprio l’abbattimento dei nuovi ingressi, il saldo netto di immigrati ammontava infatti a 271mila, ovvero meno della metà. I fattori principali che hanno concorso al balzo in avanti sono principalmente tre: la guerra in Ucraina, il boom di studenti internazionali e il reclutamento di lavoratori specializzati dall’estero, soprattutto nel settore medico-sanitario. Quasi la metà dei visti di lavoro sono stati concessi infatti a professionisti di questo settore e il 96,3% di loro proveniva da Asia o Africa.

Ha registrato un’impennata del 20% pure il numero di visti concessi per studiare in Gran Bretagna. Sono gli studenti internazionali a sovvenzionare con il pagamento di rette molto più alte l’istruzione universitaria degli studenti britannici. Due terzi delle matricole straniere sono di origine asiatica, mentre continuano a diminuire quelle di origine europea, passate dal 5,3% del totale nel 2021 al 4,2% nel 2022. Si tratta di un trend in linea con tutti i movimenti in uscita ed entrata dall’UE, del resto. Brexit sta sicuramente mostrando i suoi effetti. Sono appena 51mila i cittadini europei che si sono trasferiti nel Regno lo scorso anno a fronte di 202mila che sono partiti. Una magra consolazione, vista l’«invasione» dai Paesi extra-europei. Sunak non nega che si tratti di numeri troppo alti e non sostenibili e ha annunciato una stretta sui nuovi arrivi, senza tuttavia avventarsi ad indicare target precisi. La ministra dell’Interno Suella Braverman e il sottosegretario all’immigrazione Robert Jenrick, intanto, pare siano già al lavoro per ridurre i visti

di lavoro, con l’intento di elevare la soglia di stipendio minimo per entrare nel Paese, da 27mila a 33mila sterline. Fra le misure dirette a diminuire gli ingressi, sono pure state annunciate nuove disposizioni per impedire agli immigrati con visto di studio di portare con sé i famigliari. In base alle regole attuali, infatti, gli studenti di Master universitari possono trasferirsi nel Regno insieme a partner e figli per un periodo fino a due anni dopo la conclusione del corso di studi. A partire dal gennaio del 2024 non sarà più così, fatta eccezione per gli studenti di dottorato. Anche gli sbarchi clandestini lo scorso anno hanno registrato un aumento, tuttavia rappresentano solo l’8% dell’immigrazione di origine extra-comunitaria nel Regno Unito. Nel 2022 76mila persone hanno chiesto asilo politico nel Regno, ovvero 23mila in più che nel 2021, ma solo l’1% di loro ha visto accolta o rifiutata la domanda. Il rimanente 99% è in un limbo, in attesa di una decisione. Che le lentezze procedurali siano un deterrente per scoraggiare le traversate oltre Manica a bordo di mezzi di fortuna, di disperati alla ricerca di una vita migliore? Frattanto documenti governativi ottenuti in esclusiva da «The Guardian», rivelano che Whitehall punta a «deportare» fino a 3163 richiedenti asilo al mese a partire dal prossimo gennaio, in attuazione della normativa contro gli immigrati illegali che prevede che siano non solo privati della possibilità di chiedere rifugio politico, ma anche rispediti nel Paese d’origine se ritenuto non pericoloso, oppure in un Paese terzo come il Ruanda.

Londra punta a «deportare» fino a 3163 richiedenti asilo al mese a partire dal prossimo gennaio

Intanto una cosa è certa: la partita per le prossime politiche sarà tutta giocata sull’immigrazione, visto che secondo gli ultimi sondaggi rappresenta ormai la preoccupazione prioritaria dei sudditi. E il tempo per i Tories – da mesi in affanno rispetto ai Labour – è agli sgoccioli. Per quanto provi a ritardare l’appuntamento elettorale, Sunak ha tempo al più tardi fino a gennaio del 2025 – data ultima per la convocazione alle urne – per abbattere il saldo migratorio netto e salvare la faccia.

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Rishi Sunak ha annunciato una stretta sugli arrivi e i conservatori sono sotto pressione. (Keystone)

Se il baseball è speranza

Giappone ◆ Gran parte della rinascita di Hiroshima, dopo l’atomica, passa attraverso questo sport e la squadra della città, gli Hiroshima Toyo Carp

Appena arrivato a Hiroshima, la prima cosa che ha fatto il primo ministro inglese Rishi Sunak è stata mostrare le caviglie. Il padrone di casa, il suo omologo giapponese Fumio Kishida, lo aveva invitato in un ristorante tradizionale, di quelli in cui si tolgono le scarpe prima di entrare, e Sunak ha sfoggiato subito, a favore di fotografi, i suoi calzini rossi: quelli degli Hiroshima Toyo Carp, la squadra di baseball del cuore di Kishida, ma soprattutto un simbolo indelebile dell’identità di Hiroshima (nella foto). Nelle ore successive, passeggiando per Hondori, le vie dello shopping della città giapponese, era praticamente impossibile trovare un negozio che ne avesse qualche paio ancora in giacenza: i calzini rossi degli Hiroshima Carp erano andati a ruba. «Questo genere di cose piacciono molto a noi giapponesi», commenta un diplomatico nipponico, «ed è stata una grande prova di comunicazione per la delegazione inglese». Sunak era a Hiroshima per partecipare al G7, la cui presidenza quest’anno spetta al Giappone. Il Governo centrale di Tokyo ha deciso di svolgere la due giorni di riunioni tra capi di Stato in uno dei luoghi più importanti e simbolici del mondo: il primo a subire un attacco nucleare, a viverne la devastazione, il dramma, la rinascita. Il tema della denuclearizzazione è sta-

to costantemente presente durante il summit, anche perché il Memoriale della pace era lì, a pochi metri, ed è stato ancor più centrale quando il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, il leader di un Paese costantemente minacciato dal nucleare russo, ha visitato di persona il luogo del ricordo. A Hiroshima, l’area dove l’aeronautica militare statunitense sganciò la bomba atomica Little Boy alle ore 8 e 15 del 6 agosto 1945, oggi è un parco magnifico pieno di vita, ma anche pieno di ricordi. All’ombra della Cupola della bomba atomica, lo scheletro dell’ex centro di promozione industriale della prefettura rimasto miracolosamente in piedi, si apre una piccola isola circondata dal fiume. Di fronte, un grande spazio verde dove la mattina la gente corre, i bambini giocano nelle fontane, si organizzano spettacoli tradizionali. A un certo punto, sul percorso pedonale, si intravede un monumento poco conosciuto ai turisti: una grande palla da baseball posizionata su una stele di marmo che elenca i successi della squadra della città. Poco più in là, l’effige di Sachio Kinugasa, morto nel 2018, terza base degli Hiroshima Toyo Carp per più di vent’anni, dal 1965 al 1987. Kinugasa è una leggenda da queste parti: lo chiamavano Tetsujin, il nome giapponese di Iron Man, per i suoi fuori campo, per

la costanza e l’audacia, per il numero di vittorie consecutive. L’importanza di questo giocatore, e del monumento in questo parco, riguarda però soprattutto la squadra per cui giocava, i Carp. Perché in questa città tutto parla di baseball, lo sport portato in Asia orientale dagli americani, poi adottato e trasformato dal Giappone in una specie di sport nazionale.

Gran parte della rinascita di Hiroshima, dopo l’atomica, passa attraverso il campo da baseball e la squadra della città. Già prima della Bomba questa regione era considerata una fucina di talenti del Paese: lo sport con la pallina bianca cucita e la mazza era popolarissimo tra i giovani e, nonostante lo scoppio della guerra, il baseball continuò a essere una parte essenziale della vita degli studenti. Qualche anno dopo la resa incondizionata del Giappone, la Federazione nazionale di baseball iniziò a espandersi, e diverse personalità di Hiroshima – per esempio Go Kawaguchi, presidente del giornale locale «Chugoku Shimbun», e il politico Naboru Tanigawa, considerato il fondatore della squadra – iniziarono a capire che poteva essere un’opportunità: coinvolgere Hiroshima nel campionato di baseball nazionale avrebbe portato indotto economico e avrebbe dato ai cittadini una distrazione, una speranza, qualcosa in

cui credere. Neanche cinque anni dopo lo scoppio dell’atomica, di fronte a una folla di diecimila persone, fu presentata la prima squadra dei neonati Hiroshima Carp. L’operazione però aveva un problema non di poco conto: mancavano i soldi. L’altra squadra cittadina, quella dei Taiyo Whales, era meno popolare ma più ricca, perché si era assicurata la sponsorizzazione di una azienda di pesca di balene. Si decise per una fusione. Ma quando la notizia trapelò tra i cittadini, iniziò una mobilitazione senza precedenti per evitare la bancarotta della squadra. Ancora oggi al museo di Hiroshima sono conservate le grandi botti di sake – l’alcolico tipico giapponese – poste di fronte all’ingresso dello stadio cittadino che furono riempite di denaro delle donazioni. I giocatori andavano porta a porta nella regione a chiedere contributi. I residenti di Hiroshima, piegati da una guerra e da un bombardamento atomico, erano disposti a qualunque sacrificio per avere ancora la squadra della loro rinascita.

La mobilitazione fu un successo e servì a rendere ancora più popolari gli Hiroshima Carp: ogni abitante della città sentiva di esserne parte, di aver contribuito ai loro successi – anche se ce ne furono pochi, a livello nazionale, almeno nei primi anni di campionati. Ma il mito della squadra si consolidò nel 1957, quando dieci grosse aziende locali investirono 160 milioni di yen per costruire un nuovo, iconico stadio appena fuori dal Parco della Pace di Hiroshima, la casa degli Hiroshima Carp, legando definitivamente la squadra alla ricostruzione della città. Quando il presidente di Mazda, Tsuneji Matsuda, divenne proprietario di maggioranza della società, volle inserire il nome della sua azienda in quello della squadra, che divenne ufficialmente Hiroshima Toyo Carp. Ma oggi quei giocatori tutti li chiamano «i Carp», come le carpe koi, quei pesci che risalgono sulle rapide del castello di Hiroshima incuranti della fatica: il simbolo della ricostruzione e della rinascita.

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I bronzi del Benin torneranno a casa?

a monarchi africani arricchitisi anche grazie allo schiavismo. Militanti anti-razzisti afroamericani si oppongono all’idea

«Ha cinque mogli, una Rolls Royce da mezzo milione, e sta cercando di recuperare opere d’arte del valore di 30 miliardi di dollari che furono rubate ai suoi antenati 126 anni fa. Alcune delle quali figurano tra i tesori più pregiati del Metropolitan Museum di New York». Così cominciava un articolo pubblicato sul «New York Post» che ha rivelato una vicenda ricca di colpi di scena, e densa d’insegnamenti sulla storia africana. La sorpresa più grossa: dei militanti «black» di New York si oppongono alla restituzione di quelle opere di valore all’Africa. Con un argomento ineccepibile: è vero che furono sottratte agli avi di un attuale monarca africano, ma loro avevano accumulato quelle ricchezze attraverso il commercio di schiavi. E così, grazie a dei radicali anti-razzisti afroamericani, politicamente vicini al movimento Black Lives Matter, si è potuto affrontare un tabù che pochi statunitensi bianchi oserebbero sfiorare: le profonde radici che lo schiavismo e il commercio di carne umana avevano nella tradizione africana, molto prima che vi comparissero gli imperi europei.

Berlino ha trasferito la proprietà di 1100 capolavori, noti come «bronzi del Benin», da cinque musei tedeschi al Governo della Nigeria

La vicenda ha avuto uno strascico a Berlino. La Germania è una pioniera nella restituzione dell’arte rubata durante il periodo coloniale. Berlino ha trasferito la proprietà di 1100 capolavori, noti come «bronzi del Benin», da cinque musei tedeschi al Governo della Nigeria. Ma quando hanno scoperto che tanti capolavori sarebbero stati consegnati alla collezione privata di un monarca anziché a un museo pubblico, alcuni tedeschi si sono sentiti gabbati. Un’autorevole studiosa, l’etnologa Brigitta Hauser-Schaeublin, ha scritto sulla «Frankfurter Allgemeine Zeitung» che l’operazione era «un fiasco». La deputata cristiano-democratica Dorothee Baer ha accusato il Governo di «aver condannato un patrimonio di arte africana all’oblìo, svanito dentro la proprietà privata di un monarca nigeriano».

«È una débacle», ha dichiarato il deputato dell’estrema destra (AfD) Marc Jongen. Di fronte a queste contestazioni venute dalla Germania, e per di più da politici di destra, è scattata una difesa facile. Lo scrittore nigeriano Victor Ehikhamenor si è in-

dignato: «Come osa questa gente, con quale arroganza pensa di decidere cosa dobbiamo fare con degli oggetti dei quali aspettiamo la restituzione da 126 anni? Questo è neocolonialismo, è offensivo». L’artista nigeriano ignorava, o ha finto di non sapere, che quella restituzione veniva contestata da militanti «black» degli USA, con un’argomentazione progressista: il re a cui sono state consegnate quelle opere d’arte è straricco grazie ai profitti che i suoi antenati accumularono con la tratta degli schiavi.

Il protagonista odierno di questa vicenda è il re del Benin, Oba Ewuare II. Un personaggio interessante perché mescola sapientemente modernità e tradizione africana: a 69 anni la sua vita si è divisa tra gli Stati Uniti dove prese un master alla Rutgers University nel New Jersey e lavorò all’ONU, e il Paese dei suoi avi. Quando era un funzionario dell’ONU andava al Palazzo di Vetro in giacca e cravatta, ma quando giunse il suo turno per l’incoronazione tornò in patria a indossare gli abiti antichi della sua stirpe regale. Il Regno del Benin, da non confondere con l’attuale Stato africano che porta lo stesso nome, oggi è incorporato nella Nigeria. Re Oba Ewuare II non ha un potere di Governo, almeno ufficialmente, però gode di un’influenza notevole nella sua comunità tribale, gli Edo, insediati nella parte meridionale della Nigeria, attorno a Benin City. I monarchi tribali sono corteggiati dai politici nigeriani nelle campagne elettorali, e coperti di prebende a spese dello Stato, perché possono portare voti a questo o quel candidato. Aristocrazia a parte, sono tuttora dei notabili potenti. Siamo in epoca di espiazione dei nostri peccati coloniali e tutta la comunità museale d’Occidente è impegnata ad autoflagellarsi per gli orrori del nostro passato. In questi riti di pentimento vengono spesso annunciate restituzioni di opere d’arte alle ex-colonie depredate.

È un periodo di espiazione dei nostri peccati coloniali. Tutta la comunità museale d’Occidente è impegnata ad autoflagellarsi per gli orrori del nostro passato

Interi musei vengono ristrutturati e ripensati, con percorsi di spiegazione e didattica centrati sulla denuncia dei crimini dell’Europa: un caso esemplare si trova nella capitale dell’Unione europea, a Bruxelles. Nel quartiere di Tervueren, in un magnifico parco, era situato il Musée du Congo ali-

mentato dal bottino di Re Leopoldo, uno dei colonialisti più spietati e feroci della nostra storia (i suoi crimini ispirarono il romanzo Cuore di tenebra di Joseph Conrad). Dopo essere stato chiuso per anni, occupato da lavori di ristrutturazione, quel luogo è stato riaperto al pubblico con un nome diverso – ora si chiama Musée de l’Afrique – e un contenuto rimaneggiato. Anziché essere una collezione acritica di tesori rapinati nell’era coloniale, è diventato un centro di educazione al pentimento dei belgi e degli europei sugli orrori del colonialismo. I tesori d’arte che vi rimangono – tanti e importanti – sono piegati a questa missione didattica, riabilitativa. Questo tipo di operazioni culturali sono frequenti in tutto l’Occidente nel nostro tempo. L’Africa è diventata il motore trainante per la riscrittura della nostra storia, all’insegna dell’auto-condanna: tutte le sofferenze che abbiamo inflitto a quel Continente sono la prova che noi siamo l’Impero del male, gli unici portatori del virus della conquista violenta, dell’oppressione, dello sfruttamento, dell’imperialismo coloniale.

Perciò ci si sarebbe aspettato che

i militanti «black» dell’antirazzismo radicale negli Stati Uniti applaudissero alla scelta del Metropolitan Museum di New York di restituire l’arte rubata ai discendenti dei proprietari originali. Nella fattispecie, i negoziati sul rimpatrio in Nigeria riguardano 154 bronzi del Benin, una collezione di tesori pregevoli, tra i più interessanti capolavori dell’arte africana custoditi al MET. Ora quei tesori rischiano di rimanere negli Stati Uniti, malgrado tutta la buona volontà del Metropolitan Museum di espiare le colpe del colonialismo.

Il Regno del Benin, da non confondere con l’attuale Stato africano che porta lo stesso nome, oggi è incorporato nella Nigeria, nell’Africa occidentale

La causa giudiziaria che punta a bloccare la restituzione è stata avviata da una ONG che si chiama Restitution Study Group e si occupa proprio dei ritorni di opere d’arte nei loro luoghi d’origine in Africa. Alla testa del Restitution Study Group c’è Deadria

Farmer-Paellman, avvocatessa afroamericana che vive tra New York e New Orleans.

La causa giudiziaria lanciata dal Restitution Study Group è clamorosa in quanto infrange un tabù, osa aprire uno squarcio su una realtà storica che non viene insegnata nel sistema scolastico e universitario USA, tantomeno appare sui media o nei film di Hollywood: lo schiavismo come sistema economico radicato nella storia antica dell’Africa, non una mostruosità imposta dai colonizzatori bianchi. Per la cultura oggi dominante negli Stati Uniti, il Vangelo è la Critical Race Theory che si concentra sul «razzismo sistemico» della società americana e delle sue istituzioni. Lo schiavismo viene studiato come un peccato originale nel DNA degli Stati Uniti, un carattere che segna la loro storia fin dalla fondazione da parte di coloni bianchi, un orrore mai del tutto superato. In questo clima americano, evocare l’autonoma tradizione schiavista degli africani è un’eresìa. La sfida legale del Restitution Study Group, seppure involontariamente, può contribuire a restaurare la verità storica.

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Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 5 giugno 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 27
Dibattiti ◆ Negli Stati Uniti si sta discutendo sull’opportunità di restituire opere d’arte sottratte
Il re del Benin Oba Ewuare II e, sotto, i «bronzi del Benin» esposti a Berlino nel settembre 2022. (Keystone) Annuncio pubblicitario

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Il Mercato e la Piazza

Perché i salari non aumentano?

Il mercato del lavoro svizzero presenta a chi tenta di analizzarne l’evoluzione più di un mistero. Per esempio: l’afflusso massiccio di lavoratori frontalieri è un vantaggio oppure uno svantaggio per l’insieme dell’economia?

A questa domanda nessuno ha saputo finora rispondere in modo definitivo. Un altro fitto mistero del nostro mercato del lavoro è perché, da anni, i salari reali non aumentano. Mentre la seconda metà del secolo Ventesimo è stata caratterizzata da un rapido aumento dei salari nominali e, tutto sommato, anche del potere di acquisto dei lavoratori, il nuovo secolo, almeno fin qui, ha conosciuto aumenti abbastanza irrisori dei salari nominali mentre i salari reali (ossia il potere di acquisto) ha ristagnato. Notiamo che questa evoluzione dei salari, nominali e reali, si è manifestata in un mercato del lavoro contrassegnato da un eccesso di domanda di lavoro, in particola-

In&Outlet

Quando nel novembre 2002, in Turchia, Recep Tayyip Erdogan vinse per la prima volta le elezioni, andò incontro ai giornalisti stranieri con aria umile, stringendo la mano a tutti, pronunciando parole di pace e di apertura: voleva essere ammesso in Europa, proclamava fedeltà alla NATO, all’Occidente, alla laicità. Un ventennio dopo, il presidente è stato rieletto per l’ennesima volta in un’aura torva, di lesa maestà, di repressione. La caduta di Erdogan avrebbe significato la libertà per artisti, giornalisti, generali, insegnanti, blogger, leader curdi, dissidenti che languiscono in carcere. Avrebbe significato la vittoria della Turchia che guarda all’Europa e al futuro, la Turchia delle grandi metropoli, Istanbul di cui Erdogan è stato sindaco ma che da tempo gli ha voltato le spalle, Izmir (Smirne) che non si è mai piegata, e poi la capitale Ankara. E poi la Rete, gli influencer, i cantanti da milioni di followers, tutti a

re per quel che concerne i lavoratori qualificati.

Per un’economia di mercato come la nostra questa è una situazione singolare. Quando aumenta la domanda di un determinato bene o, nel caso che ci concerne, di una determinata prestazione, dovrebbe aumentare anche il prezzo (rispettivamente il salario come prezzo del lavoro). Invece non è così: nel caso del mercato del lavoro svizzero (ma è probabile che il fenomeno si stia manifestando anche in altre economie europee) la domanda continua ad aumentare mentre i salari, almeno in termini reali, rimangono costanti quando non diminuiscono. In un articolo pubblicato di recente, la «Neue Zürcher Zeitung» ha presentato 5 tesi per spiegare questa contraddizione. Stando alla prima tesi, i salari non aumenterebbero perché le incerte prospettive congiunturali indebolirebbero la posizione dei lavora-

tori nelle trattative salariali e questo nonostante il fatto che ci troviamo in una situazione di rapido aumento dei prezzi. La seconda tesi sostiene invece che per i lavoratori che cercano un nuovo impiego, il salario avrebbe perso di importanza come fattore di attrazione. Di conseguenza le aziende che cercano lavoratori possono soddisfare il loro fabbisogno senza dover aumentare i livelli salariali. Ma è anche possibile (terza tesi) che l’immigrazione di lavoratori dall’estero freni la rivalutazione dei salari. È certo che se dovesse cessare l’immigrazione, l’eccesso di domanda di lavoratori sarebbe ancora maggiore. Non si sa tuttavia con sicurezza se questa situazione indurrebbe o meno un aumento dei salari. La quarta tesi è provocatoria almeno per quel che riguarda le prese di posizione sempre difese dai datori di lavoro. Stando alla stessa, infatti, sarebbe possibile che

la carenza di lavoratori qualificati non sia in realtà così importante come per l’appunto viene denunciata dai datori di lavoro. La stagnazione dei salari sarebbe quindi dovuta al fatto che, in realtà, la carenza di lavoratori qualificati non si manifesta che in pochi rami dell’economia. Infine l’ultima tesi sostiene che, confrontate con la carenza di lavoratori qualificati, le aziende preferiscono oggi investire nell’automazione piuttosto che aumentare le loro offerte salariali.

La giornalista della «NZZ» presenta, per ogni tesi, argomenti in favore e argomenti contro. Apparentemente, allo stato attuale delle ricerche, non c’è una tesi che si imponga sulle altre. Aggiungiamo che nell’articolo citato viene adombrata anche una sesta tesi che però non viene esplicitata. Si tratterebbe della possibilità che l’aumento dei salari reali intervenga con un certo ritardo rispetto all’aumento

dei prezzi. Se questa tesi fosse valida (e certamente ci sono argomenti per sostenerla) l’aumento dei salari reali che non si è manifestato nel 2022 potrebbe essere realizzato quest’anno. Stiamo a vedere. Per chi scrive la stagnazione del salario reale è da ricondurre con molta probabilità alla perdita di capacità contrattuale dei lavoratori e delle organizzazioni che li rappresentano. Che questa perdita di potere contrattuale sia legata al momento congiunturale, come sostiene la giornalista della «NZZ», piuttosto che a trasformazioni della struttura della produzione che hanno indotto una diminuzione sensibile del numero di lavoratori sindacalizzati, come pensa invece il sottoscritto, resta da dimostrare. Come si è già ricordato, la stagnazione dei salari reali è un fenomeno osservabile ormai da almeno due decenni nel nostro Paese. Perché intervenga resta invece un mistero.

postare mani a forma di cuore, simbolo del candidato dell’opposizione alla presidenza, Kemal Kilicdaroglu. La caduta di Erdogan sarebbe stata anche un clamoroso colpo di fortuna per un Continente esangue come l’Europa, che si sarebbe ritrovato alle sue cruciali frontiere orientali un Governo amico, un grande Paese con il secondo esercito della NATO e 85 milioni di abitanti, più della Germania. Invece non è andata così. Erdogan è stato rieletto, nonostante tutto. Nonostante l’anelito alla libertà, alla laicità, all’espressione del pensiero. Nonostante la sofferenza per una crisi economica che umilia il ceto medio e getta i poveri nella disperazione. Erdogan lo sapeva e ha organizzato la rimonta, promettendo tutto a tutti: abbassare l’età della pensione, aumentare i salari pubblici, distribuire borse di studio agli studenti. E l’appello dell’ultima ora del premier di Tirana Rami affinché la comunità albane-

Il presente come storia

se sostenesse il presidente non è apparso del tutto spontaneo. Non credo che il ballottaggio di domenica 28 maggio in Turchia possa considerarsi davvero libero, siccome non è libera la stampa e non sono liberi molti oppositori. Tuttavia sarebbe ingeneroso rappresentare Erdogan solo come un satrapo che ha soggiogato e affamato il suo popolo. In questo ventennio la Turchia si è affermata come potenza su tutti gli scenari, dall’Africa all’Asia centrale, oltre che in Medio Oriente. Si è data un’industria della Difesa che esporta droni in molti Paesi. Ha avuto, prima della frenata di questi anni, un’imponente crescita economica. Il Paese si è digitalizzato: pressoché tutti i turchi hanno un’identità SPID (digitale), anche per questo le elezioni possono essere state falsate dalle pressioni, non dai brogli. La Turchia di Erdogan ha insomma esercitato la sua funzione naturale di ponte tra Asia ed Europa, tra la civiltà

San Gottardo: fortuna e condanna

La pulsione cinetica di cui è preda la nostra civiltà sembra inarrestabile. La fine dell’inverno e il sollievo post-pandemico hanno di nuovo intasato le principali arterie del Paese, con un affollamento allarmante (e snervante) sull’asse Nord-Sud. Le code e gli ingorghi non sono una novità, sono noti fin dal dopoguerra, anni caratterizzati da una crescita impetuosa della motorizzazione (allora l’autostrada esisteva solo nella mente degli ingegneri, il traffico si svolgeva su carreggiate strette e tortuose). Il fatto è che ora gli imbottigliamenti sono quotidiani, non sono più limitati, come una volta, ai giorni festivi e agli attesi «ponti». Il secondo cunicolo che attualmente si sta scavando sotto il massiccio del San Gottardo risolverà il problema? Il dubbio è legittimo, di fronte all’incremento costante dei transiti. Se la galleria principale non rappresenterà più

un ostacolo – Convenzione delle Alpi permettendo – a rallentare i passaggi ci penseranno i cantieri che ogni anno spuntano come funghi sui due lati delle rampe d’accesso nonché l’imbuto di Mendrisio-Chiasso.

Il Ticino ha sempre rivendicato con forza i collegamenti con l’area transalpina, prima ferroviari e poi stradali. Per necessità economiche e commerciali, ma anche politiche e patriottiche. L’unificazione dell’Italia, nel 1861, finiva infatti per raddoppiare le barriere: a quella fisica a nord il Regno aggiungeva quella politica e doganale a sud. Di qui una lunga battaglia per sfuggire al rischio del doppio isolamento, destino che le autorità federali, spalleggiate dalle FFS, tendevano a considerare ineluttabile attraverso una politica dilatoria in materia di trasporti. Per smuovere le acque furono necessarie una campagna di

convincimento incessante, petizioni, risoluzioni e persino manifestazioni pubbliche a Berna. Purtroppo l’impresa tanto agognata nel 1980 nacque monca, e tale è rimasta fino ad oggi, un monumento all’incompiutezza.

Le gallerie hanno tuttavia generato anche preoccupazioni di natura cultural-linguistica, soprattutto quella stradale. Si temeva che quelle falle aperte nella diga alpina alterassero gli equilibri della «compagine etnica» ticinese, privandola del suo tradizionale volto italico, linguistico e religioso. Le Alpi – come scrisse Piero Bianconi riprendendo un passo famoso del Petrarca – cessavano di rappresentare un provvidenziale schermo contro «la tedesca rabbia» per fungere da cavallo di Troia della germanizzazione. Parole analoghe aveva espresso il glottologo Carlo Salvioni agli inizi del Novecento, a proposito della ferrovia.

cristiana e i popoli turcofoni oppressi dal regime cinese. Poi certo il presidente ha impresso al sistema una torsione personalistica. Prima di lui in Turchia comandavano i generali, che vegliavano – in passato anche con i colpi di Stato – su partiti deboli e divisi. Erdogan ha certo violato le libertà e costruito un’autocrazia, altro che «DC islamica» come si erano illusi i commentatori. Ma ha dialogato con i grandi della Terra. E metà dei turchi ha percepito che con lui il Paese avrebbe contato di più. Ci si augurava che Kilicdaroglu si sarebbe rivelato un leader migliore di lui, nell’interesse dell’Europa e del Paese con una storia millenaria, di immenso fascino, di commovente bellezza. Invece il «Gandhi turco» non è stato considerato all’altezza della sfida. Il fallimento del colpo di Stato del luglio 2016 non può giustificare il giro di vite imposto da Erdogan; tuttavia va tenuto conto che il presidente si è tro-

vato a fronteggiare una minaccia seria, dietro la quale ha additato l’ombra del predicatore e politologo turco Fethullah Gülen, esule negli USA. Gülen ha sempre risposto che il vero ideatore del colpo di Stato era in realtà lo stesso Erdogan. All’inizio alcuni analisti hanno parlato di golpe improvvisato e poco organizzato, mentre altri hanno sollevato dubbi sulla reale genuinità del colpo di Stato, considerandolo uno stratagemma per legittimare ulteriori restrizioni alle libertà civili e una serie di purghe sulla magistratura e sull’esercito. Ma ora si tende a pensare che fosse un golpe vero. Dal voto turco deriva una serie di conseguenze negative per l’Occidente. A cominciare dal rapporto con la Russia. La Turchia fa parte della NATO anche perché storicamente della Russia è nemica. Ma Erdogan, a parte qualche frizione, con Putin si intende abbastanza bene. E questo lo allontana dagli USA e anche dall’Unione europea.

Negli ultimi decenni, questi timori sono largamente svaniti (almeno a noi così sembra). Anche la società ticinese è cambiata, facendosi vieppiù plurietnica e multiculturale. Le famiglie di antico lignaggio – i «patrizi» – si sono ridotte di numero, ma questa contrazione non risveglia più la paura di una possibile «estinzione etnica», sebbene questa espressione sia ricomparsa nel vocabolario di nazionalisti e sovranisti. Resta il nodo di una transumanza continentale che sembra inarginabile lungo un’autostrada ridotta a semplice corridoio di transito. Una situazione che irrita soprattutto gli urani, i quali ricavano ben poco dagli autoveicoli diretti verso l’area mediterranea. Di conseguenza è riemerso lo spettro del pedaggio, balzello che il Ticino da sempre contesta per evidenti motivi. Ma se anche un provvedimento simile venisse introdotto (solo al Gottardo?),

rimane il dubbio sulla sua efficacia circa l’obiettivo che si intende raggiungere, ossia la riduzione del volume dei passaggi. Ci sarebbe poi da valutare la reazione della Commissione europea se il pedaggio dovesse riguardare unicamente i cittadini dell’Unione. Insomma, non sarà facile venirne a capo dopo aver lungamente combattuto per togliere il Cantone dal suo plurisecolare stato di marginalità, una condizione che impediva alla collettività ticinese di partecipare a pieno titolo alla vita confederale. Da massiccio della provvidenza (via delle genti, strada d’Europa, spartiacque di civiltà, cordone ombelicale federale), il San Gottardo è diventato un budello congestionato, ritmato da imprecazioni, cantieri e incidenti. Fortuna e condanna: questa l’immagine bifronte di un passo che fin dal Medioevo ha determinato il destino del nostro Cantone.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 5 giugno 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 29 ATTUALITÀ / RUBRICHE ◆ ●
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di Aldo Cazzullo
Erdogan non è solo un feroce satrapo
di Orazio Martinetti

Dalla birra al gin, ognuno ha la sua bevanda estiva preferita – e di ciascun drink (o quasi) esiste anche un’alternativa analcolica. Con l’aiuto del nostro albero decisionale è più facile orientarsi nella scelta

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Dialogo tra arte e scienza

Questa sera al LAC prende il via il ciclo SciArt, protagonista del primo incontro è Olaf Nicolai, tra i più importanti artisti contemporanei

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La sciamana

La Fotostiftung di Winterthur rende omaggio a Annelies Štrba, fotografa svizzera nota per i suoi ritratti di famiglia e le ambientazioni fiabesche

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Grandi film a Cannes

Si è chiusa la 76esima edizione del Festival del cinema che quest’anno ha regalato importanti pellicole e grandi speranze ad un settore in crisi

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La signora della grafica e i suoi segni di luce

Intervista ◆ Incontriamo l’artista Giulia Napoleone, protagonista di una mostra insieme a Loredana Müller e François Lafranca

È cosi spesso in Ticino, Giulia Napoleone, che praticamente è di casa. Definita «la signora della grafica», l’artista italiana, oggi ottantasettenne, vive in terra etrusca, a Carbognano, un piccolo paese della Tuscia Viterbese. Con le diverse tecniche artistiche a cui si affida riesce a creare opere in cui lo spazio, scandito da stratificazioni di piccoli segni governati da un rigore matematico, diventa una trama cromatica intrisa di luce e di poesia. Accanto all’acquerello, al pastello e alla china, la Napoleone trova nell’incisione il mezzo espressivo a lei più congeniale. Fino alla fine di giugno, presso il centro culturale Areapangeart di Camorino, i suoi lavori dialogano con quelli di Loredana Müller e di François Lafranca. Uno scambio a tre il cui punto d’incontro è la visione della natura come continua riprogettazione vitale. I pastelli dai blu intensi della Napoleone scambiano ritmi e profondità ora con le carte della Müller, tracce del soffio vivificatore del creato, ora con le sculture di Lafranca, pietre silenti che paiono avvolte da un’aura quasi sacrale: tutte opere nate dal medesimo approccio alle materie prime intese come elementi fondamentali del vivere.

Partiamo proprio dalla rassegna di Camorino. Come si lega il suo lavoro a quello degli altri due artisti presenti?

Con Loredana ho un rapporto di grande stima e amicizia. Ci confrontiamo da anni e abbiamo una sensibilità molto simile. Con François, invece, è stata una bellissima sorpresa. Ci siamo conosciuti circa quarant’anni fa ma come artista l’ho scoperto solo di recente, trovando la sua arte molto affine alla mia. Ciò che unisce il lavoro di tutti noi è un profondo legame con la natura. Proviamo un forte senso di appartenenza nei suoi confronti. Non ci limitiamo a osservarla ma abbiamo un modo di viverla dall’interno. La sentiamo come qualcosa che abbiamo dentro, che fa parte del nostro essere e che viene sempre fuori, anche in maniera inconsapevole. I suoi pastelli esposti in mostra, realizzati su carta fabbricata a mano da Lafranca, sono degli omaggi ad alcuni dei poeti da lei più amati.

Qual è il suo rapporto con la poesia?

La poesia è una costante della mia vita. Ricordo che quando ero fanciulla, a Pescara, la città dove sono nata, dopo la guerra il sindaco aveva aperto le porte della biblioteca comunale ai ragazzini. Su un grande tavolo avevano messo per noi tanti libri di tutti i tipi. Io ero sempre lì. È in quell’occasione che ho scoperto la poesia. Leggevo

le strofe che più mi affascinavano, le trascrivevo e le imparavo a memoria. Mi entravano dentro. Ho sempre frequentato tanti poeti e la mia visione del reale è sempre stata mediata dalla poesia.

Lei lavora con diverse tecniche espressive. Quando e come ha iniziato ad appassionarsi all’incisione?

Ho iniziato con i pastelli, gli acquerelli e le chine. Ho usato anche gli oli, che però a un certo punto

ho abbandonato. Poi nei primi anni Sessanta ho scoperto l’incisione, in particolare le modalità d’incisione diretta, come il bulino, la puntasecca, il punzone e la maniera nera. Quello che mi affascina è il legame con la ricerca tecnica, il corpo a corpo con il metallo, la resistenza della materia.

L’incisione è stata il mezzo ideale per le mie sperimentazioni perché mi ha dato la possibilità di dar vita ad aggregazioni di segni sempre nuove.

Come ricercatrice e come docente ha frequentato la Calcografia Nazionale di Roma, lavorando a fianco di maestri come Guido Strazza. Qual è la posizione attuale dell’incisione nel sistema dell’arte contemporanea?

Credo che, paradossalmente, l’incisione sia stata rovinata dagli artisti stessi. Nel secolo scorso molti la utilizzavano per riprodurre dipinti, svilendo e togliendo valore a questa tecnica. Era un modo per realizzare molte opere e buttarle sul mercato. Oggi è sicuramente un’arte di nic-

«Alla fine è questo cielo della sera quello che resta», è questo verso di Claudio Damiani a dare il titolo all’opera di Giulia Napoleone, realizzata con pastello su carta Lafranca, 2022. In basso Giulia Napoleone insieme a François Lafranca. (© Areapangeart)

totalizzanti. Tema centrale della sua indagine artistica è proprio la riflessione sulla luce… Cerco la luce con tutte le tecniche. Accosto e addenso segni creando dei reticoli impalpabili dove la luce diventa una sorta di fluire costante e dinamico. Nei pastelli presenti a Camorino questo procedimento è ben visibile. Attraverso l’intreccio di punti, di forme e di linee ottengo delicate modulazioni chiaroscurali intrise di luminosità.

Cosa incarna nei suoi lavori questa contrapposizione?

È un dialogo tra due estremi, tra due forze antitetiche, tra ordine e caos. Nell’aggregare i miei segni mi muovo sempre dal bianco totale, il massimo della luminosità, al nero assoluto. La compenetrazione di questi due elementi mi dà la possibilità di esprimere le vibrazioni che cerco. È così che riesco a catturare la luce e a far palpitare le superfici.

Per alcuni anni ha insegnato in Siria all’Università di Aleppo. Quale significato ha per lei il viaggio?

Il viaggio è una mia condizione. Una necessità. Per me non è solo uno spostamento da un luogo all’altro, ma una vera e propria ricerca. Mi preparo sempre in modo accurato per un viaggio perché quello che mi piace è anche ciò che precede la partenza. La mia esperienza in Siria è stata meravigliosa. Sono stata costretta a lasciare quel Paese per via della guerra, poiché era diventato pericoloso. Gli anni trascorsi in quella terra sono stati indimenticabili e se potessi ritornerei.

chia perché è faticosa e richiede tanta applicazione e costanza. Nella mia esperienza di insegnante posso però dire di aver incontrato tanti giovani molto capaci che si sono appassionati all’incisione con ottimi risultati. Certo è più difficile per un incisore conquistare una certa visibilità fuori dal circuito specialistico, tuttavia è un lavoro estremamente affascinante e ci sono scuole molto valide dove potersi formare.

Nelle sue opere ha rivolto il suo interesse ai passaggi cromatici e al ritmo compositivo della linea e del segno. Quali artisti hanno influenzato il suo lavoro?

Amo molto Giorgio Morandi, che ho avuto modo di conoscere di persona nel 1958. Delle sue opere mi hanno suggestionato le atmosfere sospese e soprattutto la materia che si fa luce attraverso l’intreccio di segni. Un grande amore del mio passato è stato anche Georges Seurat, di cui ho visto tanti dipinti in Olanda e in America. E poi Alberto Burri, con i suoi lavori

Il Museo Villa dei Cedri di Bellinzona custodisce un fondo di sue opere. Cosa la lega al Ticino?

L’ho frequentato fin da bambina, con mio padre. Nel mio immaginario ho sempre ricondotto il Ticino a una terra di libertà, in contrapposizione alle vicende del fascismo italiano. Qui ho tanti cari amici e ogni volta che posso vengo anche per brevissimi momenti tanto da essere soprannominata «Giulialampo». Il Fondo al Museo Villa dei Cedri è stato fortemente voluto dall’ex direttore Matteo Bianchi. È una donazione che ho fatto nel 2001 costituita circa da un centinaio di opere tra acquerelli, inchiostri, pastelli e incisioni. Un modo per sentirmi ancora più vicina a questa terra che tanto amo.

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L’artista può essere un motore per l’innovazione

Incontri ◆ Il 5 giugno al LAC inizia la serie di conferenze dal titolo SciArt dedicata al dialogo fra arte e scienza

Ada Cattaneo

Organizzato da Fondazione IBSA per la ricerca scientifica insieme al MASI, il primo incontro del ciclo vedrà dialogare Olaf Nicolai, fra i più importanti artisti contemporanei tedeschi, con il curatore Valentino Catricalà. È proprio quest’ultimo a raccontare in un’intervista del rapporto fra arte e ricerca scientifica nella contemporaneità, a partire dalle origini e fino agli sviluppi più significativi.

Dove si ritrovano le origini del rapporto fra arte e scienza, che oggi caratterizza in misura determinante molte opere contemporanee?

Anzitutto vorrei iniziare col dire che il rapporto tra arte e scienza non è un’alleanza nuova, non nasce oggi. Senza arrivare al Rinascimento, lo ritroviamo già nel secondo dopoguerra. Con lo sviluppo e l’affermarsi delle discipline scientifiche anche gli artisti hanno cominciato ad allacciare il loro lavoro con quello degli scienziati. Le avanguardie storiche avevano già fatto qualcosa di simile, ma in modo sporadico. Dal dopoguerra, invece, questo rapporto assume dimensioni importanti. Il motivo è anche tecnologico: dalle nuove teorie scientifiche nascono tecnologie che affascinano gli artisti. Un esempio è il tubo catodico, che è nato dall’applicazione di teorie fisiche e ha poi permesso la nascita della videoarte. Ha stimolato negli artisti un approfondimento anche scientifico del loro lavoro. Lo stesso è avvenuto con la computer art.

Cosa ha causato l’incremento esponenziale di queste sperimentazioni?

Quello che è successo recentemente è un interesse sempre maggiore nel contesto dei dipartimenti scientifici rispetto al lavoro con gli artisti. Questo prima non accadeva. Un caso esemplare, che ha aperto la stra-

da a molti altri, è ciò che è avvenuto presso i Bell Labs, i laboratori per lo sviluppo di nuovi prodotti della nota compagnia telefonica statunitense. Qui tecnici, ingegneri e sviluppatori hanno lavorato insieme agli artisti. Per quanto riguarda i laboratori di scienza, una modalità simile si affermerà solo più tardi. L’esempio più evidente è il CERN di Ginevra con il programma di residenza

Art at CERN

Ci può raccontare qualcosa di più sull’esperienza dei Bell Labs?

I Bell Labs rappresentano il primo esempio di residenza d’artista all’interno di un centro di ricerca di un’azienda tecnologica. È un caso pionieristico ed illuminante anche per quello che sta avvenendo oggi. Il progetto nasce nel 1962 e finisce nel 1968. In questi anni il direttore del laboratorio decide che gli artisti possono essere una risorsa per il centro e per gli ingegneri che vi operano. È una visione assolutamente incredibile, se si pensa all’idea di artista che

prevaleva all’epoca, per nulla legata alla tecnologia. Il laboratorio dell’azienda telefonica ospitava anche sperimentazioni con le prime forme di comunicazione tramite computer, macchine all’epoca estremamente costose. L’esperienza porterà in seguito alla nascita della computer art. Era la prima volta che si vedevano delle immagini create interamente al computer, senza rielaborare qualcosa che era stato in precedenza filmato dal vero con una cinepresa.

Invece il progetto Art at CERN in cosa consiste?

Costituisce uno dei primi progetti che vede un laboratorio di ricerca scientifica (quindi non applicata all’industria) aprirsi agli artisti. È un programma di residenze grazie al quale gli artisti possono trascorrere un periodo di lavoro all’interno del CERN di Ginevra. Chi vede la propria candidatura accettata dalla giuria può collaborare con fisici, ingegneri ed altri professionisti presenti al centro di ricerca. Al termine, il CERN

finanzia anche la realizzazione di opere ideate proprio a partire da questa permanenza nel centro ginevrino.

Cosa intende quando dice che i motivi di questa tendenza vanno ricercati anche nella tecnologia?

La grandezza di questi laboratori è anche l’occasione per confrontarsi con tecnologie estremamente all’avanguardia, molto sofisticate e ancora poco accessibili ai più. Gli artisti possono avvalersi di tecnologie sempre più affascinanti. Da qui un boom degli artisti che lavorano con scienziati, iniziato a partire dagli anni Novanta e che perdura ancora oggi. Fra le operazioni di questo tipo ci sono sicuramente quelle di Olaf Nicolai, che ne parlerà a Lugano, ma naturalmente anche di altri grandi nomi come Tomás Saraceno, Olafur Eliasson o Carsten Höller.

Cambiando punto di vista, cosa pensa il mondo scientifico di queste esperienze?

Il rapporto con la scienza apre ad un

fattore molto interessante: il nuovo ruolo dell’artista oggi. Si pensa ancora all’artista in modo molto romantico: il pittore, lo scultore o chi usa dei medium classici, trascorrendo il tempo a lavorare nel proprio atelier. Ma se invece lavoro con l’intelligenza artificiale, devo per forza uscire dal mio studio e spostarmi nei centri di ricerca, lavorare con tecnici ed ingegneri e confrontarmi con professionalità molto diverse. Si tratta quindi di entrare in un mondo che non è convenzionale per l’arte. Questo va osservato da un punto di vista nuovo, cioè non solo quello che ci guadagnano gli artisti. Essi acquisiscono certamente nuovi saperi o la possibilità di confrontarsi con tecnologie molto costose.

Ma la domanda deve essere anche: che cosa guadagna il mondo dell’innovazione e della scienza? L’artista non è solo colui che crea contenuti per il mondo dell’arte contemporanea, ma anche chi può essere un motore per il mondo dell’innovazione. Molte aziende come Google, Microsoft, Facebook, lavorano con gli artisti, creano residenze per chi lavora con le loro tecnologie creando innovazione. Ci sono esperienze simili anche nella scienza: il più famoso è probabilmente Aerocene di Tomás Saraceno, nato insieme a MIT e altre università per studiare installazioni artistiche sostenute in aria tramite raggi ultravioletti. Questa tecnologia è stata poi impiegata per altri progetti da parte del centro di studi. Quindi l’artista è stato portatore di un germe in grado di innescare la creatività scientifica.

Dove e quando Conversazione su arte e scienza, Olaf Nicolai con Valentino Catricalà. Lunedì 5 giugno 2023, ore 18.30 al MASI Lugano, sede LAC, Piazza Luini.

A Monte Carasso tre giorni di musica dal vivo

Musica ◆ Compleanno tondo per l’Open Air in programma dal 15 al 17 giugno che promette di regalare grandi emozioni

Dal rock al folck al pop ce n’è per tutti i gusti con le band del momento in arrivo da tutta la Svizzera e dall’Italia. L’Open Air di Monte Carasso ha intenzione di festeggiare alla grande il suo anniversario, trent’anni di musica per tutti gli appassionati e amanti del sound dal vivo.

Segnate in agenda l’appuntamento: dal 15 al 17 giugno vi aspetta un’e-

Con «Azione»

all’Open Air

«Azione» mette in palio alcuni biglietti per l’Open Air di Monte Carasso, tre giorni di musica dal vivo dal 14 al 17 giugno.

Per partecipare al concorso inviate una mail a giochi@azione.ch, oggetto «Open Air» con i vostri dati (nome, cognome, indirizzo, no. di telefono) entro domenica 11 giugno alle 24.00.

sperienza indimenticabile in quel di Monte Carasso e più precisamente all’Antico Convento delle Agostiniane.

Diversi generi e tanti artisti straordinari saliranno sul palco. Undici le band della line up, di cui un terzo dal Canton Ticino; Monte Carasso rappresenta infatti una vetrina importante alle nostre latitudini, dove ci sono sempre meno palchi e occasioni di esibirsi dal vivo. Giovedì 15 giugno saliranno sul palco Veronica Fusaro l’artista svizzera, di origine italiana, forte della solida produzione dello storico produttore Paul O’Duffy che ha da poco pubblicato il suo album All The Colors Of The Sky in cui propone il suo emozionante Alt Pop. Poi, in scaletta, gli Uncle Bard & the Dirty Bastards (Italia, irish folk rock) e i Basement Saints (Argovia, rock) che hanno da poco lanciato il loro nuovo singolo Buccaneer molto lontano dai toni piuttosto pacati di Night Owl. Il nuovo singolo insomma spacca e nel testo ci parla di pirati, rum e tradimenti in pieno spirito rock.

Venerdi si continua con i Tawnee

(Grigioni, rock), The Two Romans (Berna, pop), Lo Stato Sociale (Italia, indie rock pop) e gli Huge Puppies (Losanna, ska punk). La serata finale tutta ticinese ve-

drà invece protagonisti Matilde (Ticino, pop), Freddie & the Cannonballs (Ticino, blues) accompagnati per l’occasione dal trombettista Chris Butcher direttamente da

New Orleans, The Vad Vuc (Ticino, irish folk) e i Make Plain (Ticino, alt-folk).

L’atmosfera unica di Monte Carasso aggiunge un tocco speciale all’evento, il festival è diventato un appuntamento annuale molto atteso per i suoi spettacoli di alto livello e i momenti indimenticabili che regala, senza contare anche la ricca area dedicata allo street food.

Quest’anno, l’organizzazione ha preparato un programma ricco e coinvolgente per tutti i gusti musicali: dagli artisti di fama internazionale alle nuove promesse e un’intera serata dedicata alla musica ticinese, l’evento promette di soddisfare le aspettative di ogni spettatore.

L’Open Air Monte Carasso è molto più di un semplice festival musicale. È un’opportunità per immergersi nella musica, godere dell’estate e condividere momenti speciali con amici e familiari. Non resta che segnare le date sul calendario, 15-16-17 giugno, e prepararsi a vivere un’esperienza unica che celebra trent’anni di emozioni e passione. / Red.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 5 giugno 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 37
Olaf
I, Illuminated display case. Courtesy the artist and Galerie EIGEN + ART Leipzig/ Berlin. (© Olaf Nicolai)
Nicolai, Nach der Natur
La locandina dell’Open Air che proporrà giorni di musica dal vivo a Monte Carasso.

Annelies Štrba la sciamana

Mostra ◆ Fino al 13 agosto la Fotostiftung di Winterthur rende omaggio alla

Nata a Zugo nel 1947, Annelies Štrba, dopo una formazione di apprendista fotografa, ha iniziato ad utilizzare il mezzo fotografico per la ripresa delle complesse messe in scena delle composizioni del marito Bernard Schobinger, orafo d’avanguardia. Per lungo tempo outsider dall’ambiente artistico, nel 1990 viene chiamata per un’esposizione alla Kunsthalle di Zurigo da Berhard Mendes Bürgi e da quel momento entra nel circuito dell’arte, a più di quarant’anni, iniziando un’importante carriera nelle gallerie più importanti di tutto il mondo. Ad oggi è nota per essere una delle maggiori artiste svizzere ad utilizzare il mezzo fotografico. Molte, inoltre, sono state in questi decenni le sue personali in importanti musei svizzeri (Zugo, Aarau e Coira).

A lato del tema principale dell’infanzia, assai suggestive sono le scene colte durante le cene nella piccola e affollatissima cucina

Soggetto principale della sua opera è il ritratto della sua famiglia, i suoi tre figli – Sonja, Samuel e Linda – e, più tardi, la generazione successiva. Spesso, ma non esclusivamente, sono ripresi nel momento di andare a letto o proprio mentre dormono, oppure intenti a giocare liberamente in natura, con collane di fiori ed altri accenni dal sapore simbolista. Ambientazioni fiabesche, che aprono ad una dimensione nuova, intangibile, che sembra andare oltre l’immagine. In seguito, le fotografie venivano trasferite su tela, lasciando i contorni del soggetto sfuocati e poco definiti,

quasi a sottolinearne una dimensione onirica e di ricordo.

A lato del tema principale dell’infanzia, assai suggestive sono le scene colte durante le cene nella piccola e affollatissima cucina, ricchissima di dettagli e di oggetti – unico accenno documentario di un’esistenza alternativa, nella controcultura del tempo – ben lontane dall’ambiente e dalla mentalità borghese.

In una seconda fase, più recente, l’artista inizia invece ad utilizzare il colore privilegiando i toni puri, anche in forma di diorama e video, sempre giungendo a grandi quadri,

fotografa svizzera

senso di meraviglia e stupore. Ma oltre a questi riferimenti lontani, vi è un’eco della più vicina Nan Goldin, fotografa americana coetanea dell’autrice, la quale, con la sua intimità svelata, in una sorta di autoterapia fotografica attraverso il suo intenso diario visivo, rappresenta un punto di riferimento imprescindibile dell’arte degli anni Novanta. Sono esposte sia le opere acquistate negli ultimi anni grazie al supporto dell’associazione degli amici della Fondazione, sia quelle donate dall’artista

che progressivamente si affermano come spazi di colore autonomo. Si tratta di produzioni complesse, lucidamente stratificate, a tratti psichedeliche. I temi sono gli stessi ed evolvono da quelli accennati –come ad esempio il tema di Ofelia (nell’immagine Nyima 438, 2010) –con l’aggiunta di ulteriori studi sul corpo femminile quali madonne ed altre figure.

C’è chi utilizza per l’autrice, come chiave di lettura, il termine di maga o sciamana. A mio avviso, per Štrba siamo in presenza di un’autrice che, con grande consapevolezza, guarda

e rielabora una cultura sia visiva che letteraria di fine Ottocento e inizio Novecento. Non sembra un caso che la ricchezza decorativa richiami direttamente, ad esempio, il lontano movimento preraffaellita. Si riscontrano echi di altre fotografe ottocentesche come Julia Margaret Cameron e Getrude Kasëbier, quest’ultima straordinaria pittorialista, oppure dello stesso Lewis Carroll – l’autore di Alice nel paese delle meraviglie, anch’egli appassionato fotografo. Tutto ciò non solo per la capacità di rappresentare il mondo dell’infanzia ma anche per la sensibilità di cogliere il

Un lungo fumetto di sole parole

Romanzo ◆ Il nuovo lavoro di Niccolò Ammaniti Ti prendo e ti porto via delude le aspettative

Niccolò Ammaniti è stato di parola. Basta col racconto di formazione costruito attorno a un ragazzino e al suo mondo, aveva detto dopo la pubblicazione di Anna; romanzo che peraltro apriva già al cambiamento attraverso la scelta di una protagonista femminile, icasticamente fissata dalla forza del nome palindromo del titolo. Benché vi siano tracce puntuali anche delle altre opere, il modello cui precipuamente guarda il recente La vita intima è senza dubbio Ti prendo e ti porto via (1999).

Rispetto al romanzo di venticinque anni fa si registra la perdita del tono genuinamente scanzonato e della forza dell’intreccio

Anzitutto per l’ambientazione, tra Roma e la Maremma (nella foto un paesaggio maremmano), con riferimenti all’Aurelia e alle terme di Saturnia. Poi per la struttura calendariale del racconto: pochissimi giorni (da mercoledì 21 febbraio a martedì 27 febbraio di un imprecisato anno «del decennio passato») dilatati su trecento pagine cui seguono, con procedimento inverso, due fulminei capitoli finali distanziati da più o meno ampie ellissi («Una settimana dopo»; «Due anni dopo»).

A proposito di personaggi femminili, qui la protagonista assoluta è Maria Cristina Palma, che si pone in stretta continuità con la Flora Palmieri di Ti prendo e ti porto via: nomi analoghi, caratteri fragili, adolescenze segnate dall’abuso di una persona vicina. Solo che Maria Cristina non fa la maestra alle scuole medie di Ischiano Scalo, ma è la moglie del premier e – secondo «un’importante ricerca realizzata da un’università della Louisiana» (!) – la donna più bella del mondo, (forse) vittima del ricatto di un amore giovanile che fa saltare fuori un filmato porno girato durante una vacanza di oltre vent’anni prima. Il presunto aguzzino è Nicola Sarti, una sorta di Graziano Biglia 3.0, non più fricchettone ossessionato dal sesso e dal flamenco, ma velista maneggione che apre resort pacchiani a Pomezia. Ancora: tornano cose minori, come la tipicamente ammanitiana figura del cane; o le voci che risuonano nella coscienza dei personaggi. Soprattutto, però, si riaffacciano alcune tecniche e peculiarità stilistiche: la velocità, che è giustamente stata identificata come uno dei tratti distintivi dell’autore e, più in generale, di molta narrativa «circostante»; la presenza di scene fumettistiche «ligne claire» (Maria Cristina calata dal fido tuttofare Luciano nella canna fumaria

per recuperare il proprio cellulare, l’oggetto più importante della nostra vita perché la custodisce); le strutture paratattiche ed elencative («Ha ragione Nicola Sarti. Lei deve tornare quella che era. La scatenata. E tagliarsi i capelli è già un inizio»); le similitudini grottesche e iperboliche («La giornata si annuncia faticosa da attraversare come il deserto del Sinai»), spesso attinte, vista la formazione dello scrittore, dall’ambito biologico; un certo compiacimento, da tenero «cannibale» fuori tempo massimo, per il particolare anatomico («un groviglio di spine le si è avvolto

intorno alla trachea»). Tornano anche molte debolezze: dall’assenza di vero scavo nella psicologia dei personaggi alla pochezza dell’analisi sociologica («Roma, affetta da disturbo bipolare, riesce a essere la città più sgradevole e meravigliosa del mondo»), per cui dalle vicende private non si giunge mai alle questioni ultime e collettive. E fiacchi appaiono anche gli intenti parodici: la «Bestia», responsabile della comunicazione del Primo Ministro, è declassata a un più mansueto Bruco. Fin qui, nulla di nuovo, verrebbe da dire. Il problema è che rispet-

La mostra con la quale la principale istituzione svizzera dedicata alla fotografia la omaggia è, per Annelies Štrba , un atto dovuto ed anche accuratamente programmato. Sono esposte sia le opere acquistate negli ultimi anni grazie al supporto dell’associazione degli amici della Fondazione, sia quelle donate dall’artista. L’allestimento, seguendo questo percorso alternato tra lavori a colori e in bianco e nero forse però non aiuta a cogliere la continuità tra le due fasi.

L’esposizione e il catalogo citano nel titolo un frammento poetico di Emmy Ball-Hennings: «Bunt entfaltet sich mein Anderssein» che proprio come la Štrba visse in Ticino.

Dove e quando Annelies Štrba. Bunt entfaltet sich mein Anderssein, Fotostiftung Schweiz, Winterthur, fino al 13 agosto 2023. Ma-do 11.00-18.00; me 11.00-20.00. www.fotostiftung.ch

to al romanzo di venticinque anni fa si registra anche la perdita del tono genuinamente scanzonato e della forza dell’intreccio, qui messa a nudo da un finale davvero troppo rapido e da digressioni non solo autonome dalla trama principale, ma pure incapaci di crearne lo sfondo (valga, su tutte, la scena in cui Maria Cristina, su pressione del marito, è costretta a cucinare la pizza a un ministro belga in visita in Italia). E passi per l’ostentazione dell’artificio narrativo e per qualche (forse nemmeno consapevolmente autoironico) «la nostra eroina», ma qui a un certo punto fa la sua apparizione anche un io narrante inutilmente ingombrante (sia detto tra parentesi: è anche sulla complessità di cui si investe l’io che può essere misurato il valore letterario di molti romanzi. Si confrontino La natura è innocente di Walter Siti e il molto meno convincente La città dei vivi di Nicola Lagioia).

Se venisse indagato con gli strumenti che si usano per valutare un romanzo, il giudizio su La vita intima sarebbe impietoso. Forse bisognerebbe considerarlo per quello che è: un lungo fumetto fatto di sole parole.

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Bibliografia Niccolò Ammaniti, La vita intima Feltrinelli, Milano, 2023.
Pixabay
© Annelies Štrba / Pro Litteris

Per il cinema è tempo di nuove storie e nuova poesia

Festival ◆ A Cannes si è chiusa la più bella edizione di sempre a riprova che la settima arte non è morta, tutt’altro

La pioggia della prima settimana, seppur fastidiosa, non ha annacquato minimamente l’alta qualità dell’edizione di quest’anno. Lo testimoniano le numerose recensioni positive dei film visti, la sempre grande affluenza nelle sale e l’entusiasmo degli spettatori. L’evento festivaliero più importante al mondo si è confermato tale, anzi, se possibile, è ancora cresciuto di livello. Le cifre del Marché du Film con i suoi 14’700 accreditati che hanno frequentato il Palais e i dintorni durante la rassegna, vendendo e acquistando prodotti cinematografici, ne sono la prova. Tant’è che il nuovo direttore Guillaume Esmiol si è detto soddisfatto delle migliorie organizzative realizzate per questa edizione.

Si sono visti davvero dei grandi film – che stanno già arrivando in questi giorni nei cinema o saranno in programma nei prossimi mesi

E se gli affari sono andati bene, anche il lato glamour ha fatto la sua parte con la classica montées des marches che ha visto riunire tutto lo star system mondiale: da Carla Bruni a The Weeknd, passando per le intramontabili Catherine Deneuve (a cui era dedicato il poster), Naomi Campbell, Johnny Depp, Micheal Douglas e Leonardo Di Caprio, per citarne che alcuni. Non è mancato davvero nessuno dal 16 al 27 di maggio a Cannes. E il cinema? Alla fine, dal duello USA-Francia in concorso (v. «Azione» del 15 maggio) l’ha spuntata il Paese organizzatore, anche se l’opera di Martin Scorsese, più dell’ultimo Indiana Jones, è destinata a restare nella storia della settima arte.

Come anticipato si sono visti davvero dei grandi film – che stanno già arrivando in questi giorni nei cinema o saranno in programma nei prossimi mesi – premiati dalla giuria, presieduta dal due volte vincitore a Cannes Ruben Östlund, con giudizio e oc-

chio accorto. A cominciare dalla Palma d’Oro (solo la terza nella storia di Cannes a una donna) Anatomie d’une chute della francese Justine Triet; un legal thriller familiare che scava nei rapporti umani con maestria e sensibilità, usando uno stile quasi documentaristico. Per continuare con due altri film importanti: The Zone of Interest di Jonathan Glazer (che ha vinto il Gran Prix) e Fallen Leaves di Aki Kaurismaki (che ha ottenuto il premio della Giuria; v. «Azione» del 30 maggio. Il film di Glazer è davvero un gioiello di quelli difficili da scordare perché guarda l’olocausto da una prospettiva originale, quella di Rudolf Höss, il comandante del campo di concentramento di Auschwitz: non osservato all’interno del campo a dare ordini e a uccidere ebrei, ma filmato nella tranquillità familiare, mentre fa un bagno al fiume e gioca con i bambini in giardino. Sullo sfondo, al di là del muro di casa, c’è la ciminiera dalla quale esce, in continuazione, il fumo sinistro. Il tutto senza vedere mai un prigioniero o un’esecuzione. Bastano le urla sentite in lontananza e le musiche disturbanti a ricreare quel mondo di devastazione, purtroppo già noto.

Gli altri meritati premi sono andati al pantagruelico La Passion de Dodin Bouffant di Tran Anh Hung (miglior regia); a Monster (ispirato a Rashomon di Kurosawa) di Kore-eda Hirokazu per la sceneggiatura; a Merve Dizdar (attrice) per About Dry Grasses di Nuri Bilge Ceylan; e a Koji Yakusho (attore) per Perfect Days di Wim Wenders. Proprio partendo da Wim Wenders vogliamo accennare anche a un’interessante iniziativa che si è svolta durante la kermesse. Il regista tedesco nel 1982 presentò sulla Croisette Chambre 666, un documentario nel quale invitò diversi registi a rispondere alla domanda: Qual è il futuro del cinema? Un’operazione che ha rifatto 40 anni dopo Lubna Playoust con il suo Chambre 999 presentato quest’anno, al quale è seguito un dibattito. La giovane autrice ha iniziato il film in-

terrogando lo stesso Wenders. «Il cinema, visto come arte, sta scomparendo a causa della rivoluzione digitale. Solo il mito dello storytelling resiste, anche se si sta modificando» ha affermato l’autore de Il cielo sopra Berlino «Da sempre il cinema cambia e si evolve e anche questa volta morirà per rinascere in una nuova forma»

Da parte sua Audrey Diwan (presidente della Semaine de la Critique) ha toccato un altro tasto, quello della velocità e della durata: «I nostri ragazzi non sono più abituati alla lunghezza di un film, la loro attenzione dura il tempo di un reel, quelle minuscole storie di pochi secondi. E il

cinema dovrà fare i conti con questi cambiamenti epocali».

Più ottimista Arnaud Desplechin: «Da sempre il cinema cambia e si evolve e anche questa volta morirà per rinascere in una nuova forma». Un ritorno alle origini e un distacco dall’industria è una proposta che altri, come Olivier Assayas, fanno: «Il cinema sta cambiando in una forma che non capiamo, probabilmente è giunto il momento di tornare ai piccoli budget e alla massima libertà artistica, come si faceva al tempo della Nouvelle Vague». Sulla stessa lunghezza d’onda la canadese Monia Chokri per la quale la soluzione per un nuovo cinema è quella di «sperimentare con pochi soldi».

Più articolata la risposta di Alice Rohrwacher: «In un’epoca in cui domina l’individualismo, forse la ri-

sposta del cinema e quindi di un rito sociale e collettivo può essere quella vincente. Non credo sia il tempo del funerale, ma di nuove storie, nuova poesia e di perdere il controllo seguendo appunto un rituale collettivo».

Parole ampliate anche dal regista Albert Serra: «Oltre per la visione collettiva è importante guardare un film su un grande schermo per valorizzare i dettagli e la tecnica cinematografica, insomma la qualità di un’opera. Tutti aspetti che un telefonino non potrà mai restituire appieno».

Visioni diverse e complementari di chi gira un film nel 2023. E sono ancora parecchi, per fortuna. E questo ci fa dire, parafrasando un noto film: «Le lacrime nella pioggia non andranno perdute nel tempo. Non è ancora il tempo di morire».

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