Anche in Ticino la presenza di PFAS nell’ambiente è monitorata: pubblicato il primo rapporto
A Berna bocciate due iniziative per un congedo parentale nazionale, futuro incerto per le famiglie
ATTUALITÀ Pagina 17
Delicatezze lessicali in tempo di guerra
Carlo Silini
Quasi non ci credevo. Qualche giorno fa, un analista militare aveva definito la guerra tra Israele e Iran uno «scambio di attenzioni missilistiche». Da una parte lanciano missili aria-terra e siluri da crociera a lungo raggio che mandano in briciole Teheran e i siti atomici iraniani, dall’altra ribattono con missili balistici, droni kamikaze e razzi a lungo raggio, riempiendo di fuoco i cieli di Tel Aviv e Gerusalemme; invece di questo si tratta, ho pensato: di «attenzioni, cordialità, delicatezze» reciproche. Forse quell’analista era ironico. O forse era uno di quei casi in cui la lingua viene usata non per svelare la realtà, ma per nasconderla, appiccicandole un bel paio di baffi finti perché nessuno riesca a riconoscerla. Ma il travestimento è troppo goffo e non ci casca nessuno. O meglio: ci casca chi preferisce cascarci.
D’altra parte, il lessico di guerra è spesso deliberatamente menzognero.
La Russia continua a definire l’invasione dell’Ucraina «operazione speciale» e punisce, entro i propri confini, chi osa parlare di guerra. Così, ufficialmente, l’«operazione speciale» (che per definizione dovrebbe essere limitata nello spazio e nel tempo) perdura dal 24 febbraio del 2022, ha lasciato sul campo centinaia di migliaia di cadaveri e ha tutta l’aria di prolungarsi a tempo indeterminato, ma resta un tabù chiamarla col suo vero nome.
«Azioni di autodifesa contro Hamas», è invece il modo scelto da Israele per definire il tiro a segno sulla Striscia di Gaza dopo gli efferati attentati del 7 ottobre 2023 (che hanno causato la morte di 1200 israeliani) e che ha lasciato 55 mila vittime palestinesi sul terreno con il progetto manifesto di cacciarne i residui abitanti in Egitto e Giordania, anche quelli che non sono terroristi di Hamas. E fare di Gaza, magari, una sorta di sciantosa «Costa Azzurra» sotto bombastica supervisione americana. Come mai nessuno ha pensato ad altre brillanti definizioni funzionali a un utilissimo maquillage della triste realtà? Non è così difficile. Qui ne mettiamo alcune a disposizione dei potenti. Senza impegno. «Dieta intermittente per palestinesi» potrebbe ad esempio essere sfruttata per riassumere le politiche di interruzione di invio di viveri alla popolazione civile nella Striscia di Gaza: hanno mangiato durante la breve
tregua delle armi, adesso digiunano, torneranno a cibarsi dopo, con calma. «Terrorismo umanitario» sembra perfetto per raccontare i tentativi delle ONG di ripescare dai flutti del Mediterraneo o di altri bacini acquiferi i migranti precipitati dai canotti e dalle bagnarole, interferendo molto gravemente con le politiche dei porti chiusi per contenere l’«invasione degli stranieri», che è un altro modo per descrivere il fastidioso tentativo dei profughi di fuggire da regimi violenti o, nel peggiore dei casi, dalla povertà. Il bello di queste espressioni è che sono duttili. Volendo, si potrebbe ad esempio trasferire il concetto di «terrorismo umanitario», che di solito si utilizza in ambito di migrazioni, alla situazione mediorientale. In riferimento, per esempio, al tentativo, qualche tempo fa di una flottiglia di operatori umanitari, tra i quali anche Greta Thunberg, di fornire cibo e acqua alla popolazione di Gaza. Quanto alla Thunberg, non servono arzigogoli fantasiosi visto che per lei sono già state coniate efficaci definizioni, come, tra le tante: «isterica marionetta manipolata dagli adulti». Giacché al popolo bue repelle l’idea che una ragazza a cui è stata diagnosticata la sindrome di Asperger possa ragionare con la propria testa. Smanganellare i dissidenti e/o sparare gas lacrimogeni sulle proteste di manifestanti che esprimono critiche nei confronti dei Governi potrebbe essere descritto come «repressione del crimine a chilometro zero», unendo il valore della sicurezza a quello dell’ecosostenibilità.
Ora che ci penso, usare armi convenzionali per distruggere il nemico, interno o esterno che sia, potrebbe essere definita un’«operazione di bonifica ecosostenibile» purché non rilasci troppe scorie radioattive nel terreno.
Indipendentemente dal regime o dalle forze armate regolari o irregolari che lo applicano, magari lamentando poi un effetto collaterale imprevisto, il bombardamento delle scuole potrebbe essere vantato come «trattamento bellico antiage» e quello degli ospedali come un «freno alle spese per la salute».
E se proprio le cose dovessero sfuggire un po’ di mano e ci scappasse il lancio di una o più bombe atomiche strategiche, o anche solo tattiche, che ne dite di «trattamento esfoliante radicale»?
CULTURA Pagina 19
Il Museo Villa dei Cedri di Bellinzona festeggia i suoi primi quarant’anni: un bilancio
Ritroviamo Louis Margot, il vodese impegnato in uno straordinario giro del mondo
TEMPO LIBERO Pagina 31
L’occhio empatico di Salgado fotografo della dignità
RISULTATI DELLA VOTAZIONE GENERALE 2025
Cara socia e caro socio della Cooperativa Migros Ticino, grazie di aver partecipato alla votazione generale. Per la prima volta, quest’anno 3’889 socie e soci si sono iscritti allo scrutinio online.
– Socie e soci attivi: 98’060
– Schede di voto ricevute: 15’431
– Voti elettronici ricevuti: 2’423 – Tasso di partecipazione: 18,2% La domanda sottoposta al voto era la seguente: «Approvo i conti dell’esercizio 2024, do scarico al Consiglio di amministrazione e
accetto la proposta per l’impiego del risultato di bilancio».
RISULTATI
SI: 16’527 95,6% NO: 758 4,4%
Sant’Antonino, 23 giugno 2025
Il Consiglio di amministrazione ringrazia per la fiducia accordatagli
VOTO ELETTRONICO: registrarsi ora
votazione g enerale 2026 su www.corporate.migros.ch/e-voting o scansionando questo codice QR
In memoriam ◆ Ha presieduto la direzione generale della Federazione Cooperative Migros, lascia un segno indelebile nell’azienda
Pierre Wuthrich
È con tristezza che abbiamo appreso della scomparsa di Herbert Bolliger, morto il 12 giugno all’età di 71 anni dopo lunga malattia. Dal 2005 al 2017 Herbert Bolliger ha presieduto la Direzione generale della Federazione delle Cooperative Migros (FCM) e ha fatto parte di numerosi consigli di amministrazione di affiliate del Gruppo, lasciando un segno indelebile nella storia di Migros.
A 30 anni, dopo avere studiato economia aziendale all’università di Zurigo, Herbert Bolliger ha iniziato a lavorare per Migros come controller. Dopo una breve esperienza nel gruppo PWC, Bolliger è rimasto fedele all’azienda fino al pensionamento. Nel 1999 ha guidato con successo la fusione tra Migros Berna e Migros Argovia/Soletta. Da quest’unione è nata la cooperativa regionale Migros Aare, di cui diventa il primo direttore. Sei anni più tardi, all’età di 52 anni, passa alla FCM in qualità di presidente della Direzione generale.
Sotto la sua guida Migros ha rafforzato considerevolmente la propria posizione sul mercato svizzero. Il Gruppo ha infatti visto salire il proprio fatturato da 20 a oltre 27 miliardi di franchi. In qualità di stratega e profondo conoscitore del commercio al dettaglio, Herbert Bolliger ha reso possibile a Migros l’acquisizione di Denner. Contemporaneamente, ha accelerato la trasformazio-
ne digitale di Migros e ha guidato la graduale partecipazione in Digitec Galaxus, oggi indiscusso numero 1 del commercio online in Svizzera. Grazie all’attenzione di Bolliger alla sostenibilità, Migros è stata più volte riconosciuta come commerciante al dettaglio più sostenibile del mondo.
La famiglia era un pilastro importante per Herbert Bolliger. Nonostante un’agenda fitta di impegni, cercò sempre di trovare del tempo per la moglie e i due figli. Accompagnato dalla moglie, lo si poteva incontrare in rappresentanza di Migros a numerosi appuntamenti culturali. La sua grande passione era la musi-
Aranno, il sentiero riscoperto
Info Migros ◆ Arte&natura in un progetto sostenuto da Migros Ticino
Incontriamo Mya Lurgo e Cristina Furrer Pasquali di Aranno LandArt (ALA), associazione culturale non-profit, all’imbocco di un bosco rigoglioso lungo una rete di sentieri malcantonesi. È qui che da qualche tempo è stata collocata un’opera suggestiva, La Clessidra della Vita, creata dal duo CanB, originario dell’isola di Réunion, grazie anche al sostegno della Commissione culturale del Consiglio di cooperativa di Migros Ticino. Davanti ai nostri occhi ecco una struttura a forma di «X» in bambù (vedi foto) che rappresenta il mondo della memoria. «Cerchiamo di unire l’arte alla ricerca interiore, allo yoga», spiegano le nostre interlocutrici. «Per gli autori di quest’opera i tubi di bambù rappresentano i ricordi. Ce ne sono di vividi e lo si vede dallo splendore dei colori, e di sbiaditi, ricordi che magari vorremmo dimenticare. Chi vuole, passando da qui può anche infilare dentro uno dei tubi un biglietto con un suo pensiero o un ricordo. Insomma, cerchiamo di creare eventi che vadano al di là della semplice visione dell’opera d’arte». Il discorso vale anche per Fuga, un’altra opera collocata lungo i sentieri, creata dall’architetto italiano Luca Zanta, anch’essa in parte sostenuta dal contributo di Migros Ticino: «È interamente in rosa ciclamino, e rappresenta la fuga dal frastuono quotidiano. Anche qui torna il discorso di creare opere che prevedano un coinvolgimento interiore introspettivo, una vera oasi di pace. Vogliamo portare la gente al contatto con la natura, col bosco e coi suoi rumori, oltre a quelli della città e della tecnologia».
La Clessidra della Vita e Fuga sono le ultime due installazioni create su iniziativa di LandArt per promuovere forme d’arte caratterizzate dall’intervento diretto degli artisti sul territorio naturale, in questo caso sulle aree verdi dei sentieri del Malcantone. Il primo sentiero pilota (vitART Parcours 1_Aranno) è lungo1,4 km e si qualifica come sentiero poetico dedicato all’arte del riciclo. Parte dalla fermata Maestà di Aranno e dal cuore del paese raggiunge il sentiero delle meraviglie. Era caduto in disuso ed era stato nel tempo abbruttito dall’abbandono di materiali vari. La logistica del percorso era stata scelta per la vicinanza alla Nellimya Arthouse, residenza che offre vitto e alloggio agli artisti nel periodo di creazione, che in genere dura una settimana. Nel 2024 ALA ha poi inaugurato il secondo vitART Parcours, che con i suoi 5,1 km si snoda da Aranno fino al Lido di Agno. Sette le opere fin qui realizzate, ma alla fine dovreb-
bero essere almeno una dozzina, ci spiegano Mya Lurgo e Cristina Furrer Pasquali. «Sperando nell’adesione e nel sostegno della cittadinanza locale, visto che fino ad oggi sono state soprattutto persone della Svizzera interna a finanziare l’iniziativa». La Commissione culturale della Cooperativa regionale Migros Ticino ha sostenuto dal canto suo il progetto con 5000 franchi. Il suo segretario Luca Corti non nasconde l’entusiasmo per le opere che ci vengono mostrate: «Mi piace molto l’idea,» commenta, «alcune opere sono provocazioni, come questa in rosa ciclamino, altre si sposano bene col contesto. La gente, del resto, ha bisogno di stimoli forti. È bello sostenere questo progetto che fa riflettere e allo stesso tempo riqualifica un ambiente che prima era stato un po’ lasciato a sé stesso».
musicale e i 40’000 clienti di Migros. Herbert Bolliger era una persona autentica, umile e con i piedi per terra. Anche dopo il suo pensionamento nel 2017, nonostante la malattia, ha sempre fatto regolarmente la spesa nel suo supermercato Migros di quartiere, ritirandosi però dalla scena pubblica. Solo in un’occasione, nel 2022, prese pubblicamente posizione con fermezza e si schierò contro l’annullamento del divieto di vendere alcolici – sottolineando come si esprimesse da semplice «membro della cooperativa».
Per anni abbiamo avuto il privilegio di lavorare con Herbert Bolliger, imparando ad apprezzarlo per la persona amabile e dal grande sense of humour qual era. Abbiamo perso un uomo che è entrato nel cuore di molti grazie ai suoi modi aperti e al suo engagement. La sua dedizione instancabile per i valori di Migros ci stimolerà a portare avanti il nostro impegno per il bene di tutti.
ca rock. Era un fan di Bruce Springsteen e dei Rolling Stones. Nel 2007 gli riuscì persino di portare gli Stones a Losanna per un concerto gratuito riservato ai titolari della carta Cumulus. Durante il concerto, con indosso una maglietta della band, si piazzò dietro al palco godendosi l’incontro tra la leggendaria formazione
A nome della comunità Migros esprimiamo alla sua famiglia e ai suoi cari le nostre più sentite condoglianze.
Con affetto e gratitudine, Ursula Nold, presidente dell’Amministrazione della Federazione delle cooperative Migros Mario Irminger, presidente della Direzione generale della Federazione delle cooperative Migros
25 anni di Migros
Viviana Calori
Lavora per Migros Ticino dall’8 maggio del 2000
Venticinque anni sono un traguardo davvero importante. Sono numerose/i le colleghe e i colleghi di Migros Ticino che rimangono in azienda per oltre un quarto di secolo. Dopo così tanti anni il lavoro diventa spesso qualcosa di più, come ci raccontano i nostri intervistati. Ecco, quindi, che in relazione a Migros Ticino si sentono spesso parole come «casa», «famiglia» e «amici». Ciò non è un caso, poiché a Migros Ticino è sempre stato a cuore il benessere della collaboratrice e del collaboratore.
È per questo che Migros Ticino (nell’anno dei festeggiamenti per il centesimo dalla fondazione di Migros) vuole congratularsi con chi lavora da molti anni per l’azienda anche sulle pagine di «Azione», scrivendo nero su bianco i propri ringraziamenti per l’impegno messo in campo.
Questa settimana tocca a Viviana Calori.
Quale è il suo ruolo all’interno di Migros Ticino?
Ho lavorato come responsabile Team a Stabio, in seguito, dopo la chiusura della filiale nel 2023, ho avuto la possibilità di entrare a fare parte del team di Chiasso Boffalora. Attualmente sono impiegata come Responsabile merceologico del Non Food a Boffalora.
25 anni sono un quarto di secolo: cosa le piace maggiormente del suo lavoro dopo tutti questi anni? Sono davvero molto soddisfatta di quello che faccio, poiché grazie al mio lavoro ho la possibilità di interagire con colleghi e clienti in un ambiente sereno.
Quali sono le sfide che l’aspettano per i prossimi 25 anni?
Per me la sfida più grande è arrivare alla pensione in buona salute, visto che mi mancano quattro anni di lavoro.
Cosa augura a Migros nell’anno dell’anniversario?
A Migros auguro di potere continuare a dimostrare il grande impegno in molti ambiti che ha sempre contraddistinto l’azienda.
E per lei personalmente, cosa rappresenta Migros?
Migros per me corrisponde a casa. Migros è una famiglia. Mi sento apprezzata da tutti i miei colleghi e dai superiori, e questa cosa è molto importante.
Herbert Bolliger (1953-2025) nella sede FCM a Zurigo. (Vera Hartmann/ 13PHOTO)
Cristina Furrer Pasquali con Luca Corti e Mya Lurgo davanti all’istallazione La Clessidra della Vita (foto «Azione»)
Anniversari ◆ L’azienda si congratula e ringrazia
Viviana Calori
SOCIETÀ
Motori: la tecnologia del battery swapping Sostituire le batterie dell’auto invece di ricaricarle: un progetto pilota, che coinvolge Fiat, Ample e Free2Move, è in corso a Madrid
Conciliabilità vita-lavoro-cura
Il nuovo opuscolo messo a disposizione dal centro di competenze Equi-Lab offre informazioni per genitori e familiari curanti
Inquinamento da PFAS, attenzione anche in Ticino
Ambiente ◆ È stato da poco pubblicato il primo monitoraggio sui residui di sostanze difficilmente degradabili nelle acque superficiali, sotterranee e potabili, di percolato delle discariche, nel suolo e nella fauna ittica
Si scrive PFAS, ma si pronuncia PIFAS. Sono una famiglia di sostanze chimiche difficilmente degradabili che l’industria produce e impiega da decenni. Il guaio? Resistono all’ambiente e anche in Ticino – ora se ne ha la conferma – sono diffusi ovunque, in suolo, acqua e organismi con potenziali effetti negativi a lungo termine, così come un aumentato rischio dell’insorgere di determinate problematiche sanitarie in caso di eccessiva e prolungata esposizione. Dobbiamo preoccuparci? Se al momento non vi sono rischi immediati per la salute, né per le persone né per gli animali, non può essere comunque abbassata la guardia sui pericoli e sui possibili effetti cronici e va riservata molta attenzione alla prevenzione e al controllo di risorse puntuali, come la qualità delle acque che, in caso di contaminazione, devono essere trattate alla fonte con appositi filtri.
Il tema è attuale e in continua evoluzione. Tanto che Nicola Solcà, capo della Sezione della protezione dell’aria, dell’acqua e del suolo (SPAAS) e Nicola Forrer, direttore del Laboratorio cantonale (LC), hanno condensato in 34 pagine a inizio giugno un rapporto sul «Monitoraggio delle sostanze per- e polifluoroalchiliche in Ticino». Si tratta di una panoramica – la prima – sui residui di PFAS nelle acque superficiali, sotterranee e potabili, di percolato delle discariche, nel suolo e nella fauna ittica. Il nostro Cantone non è esente da puntuali situazioni problematiche. Due finora i principali casi di contaminazione accertata: l’inquinamento della falda che alimenta il pozzo Prà Tiro a Chiasso, già oggetto di interventi da parte del gestore della rete idrica, con filtri al carbone attivo installati nel 2020; e l’inquinamento al pozzo di Sant’Antonino, dovuto al dilavamento di PFBA da materiali di costruzione della galleria di base del Monte Ceneri. «Si tratta di problematiche già comunicate in precedenza, venute alla luce grazie al lavoro di monitoraggio più complessivo riportato nel rapporto» – sottolinea Solcà. Si evidenzia nel documento: «sulla base della valutazione dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare e dell’introduzione in Europa di tenori massimi per le derrate alimentari e l’acqua potabile, anche la Confederazione ha adottato nuovi limiti. In particolare, per alcuni alimenti di origine animale e determinati composti, da febbraio 2024 sono stati ripresi i valori massimi stabiliti dalla legislazione europea. Per contro, sono tuttora mancanti dei valori di riferimento applicabili ai diversi comparti ambientali, lacuna affrontata al momento da diversi gruppi di lavoro federali, che
mirano a sviluppare soluzioni adeguate e applicabili per fronteggiare la situazione».
Uno degli aspetti determinanti per affrontare il problema con cognizione di causa appare quello di approfondire le conoscenze sulle diverse sostanze dei PFAS, sulla loro diffusione e sul destino ambientale. «L’argomento è nuovo, se ne sapeva poco fino all’“altroieri”» – dichiara Nicola Solcà. «Ma occorre intervenire con una certa risolutezza. È stato l’Ufficio federale dell’ambiente, nel novembre del 2019 in occasione del simposio annuale sui siti inquinati, a lanciare il tema in Svizzera. Anche se noi, dal 2015, avevamo già eseguito prime indagini esplorative per il tramite della Commissione internazionale per la protezione delle acque italo-svizzere».
I PFAS sono una famiglia di sostanze chimiche molto resistenti che si possono accumulare nell’ambiente, nelle derrate alimentari e nell’essere umano
In prospettiva futura la grande diffusione di PFAS potrà nuocere all’ambiente e alla salute della popolazione?
«Difficile dirlo. Va evidenziato che la presenza di PFAS ci accompagna da diversi anni senza che ne fossimo consapevoli. Ora, grazie alle nuove cono-
scenze acquisite, direi che tra le prime misure lungimiranti bisognerebbe agire con maggior decisione alla fonte, riducendo al massimo o eliminando del tutto ogni nuova potenziale emissione di PFAS nell’ambiente. Se è vero che, oggi, alcune sostanze appartenenti alla famiglia dei PFAS sono già limitate o vietate dall’Ordinanza sulla riduzione dei rischi inerenti ai prodotti chimici, un grande numero di esse è ancora tollerato. Un esempio: il caso d’inquinamento riscontrato a partire dalla galleria di base del Ceneri ha interessato l’acido perfluorobutanoico (PFBA), tuttora legale e facilmente sostituibile per determinate applicazioni. L’evoluzione del problema negli anni e le prospettive future dipenderanno quindi molto dalle scelte che saranno adottate a livello di politica federale. C’è una grande discussione in corso anche a livello europeo. La campagna di monitoraggio, i cui risultati sono riassunti nel rapporto, fornisce un primo quadro dell’estensione del problema e getta le basi per seguirne nel tempo l’evoluzione. Gli stessi dati di monitoraggio cantonali verranno arricchiti e messi in rete a livello nazionale per sviluppare un quadro robusto della contaminazione da PFAS in Svizzera e permettere di proseguire sul piano federale la pianificazione delle attività successive, sia in termini normativi sia sul piano operativo. Il Cantone
continuerà a seguire l’evoluzione del tema, in particolare attraverso le attività di monitoraggio, la partecipazione alle campagne nazionali già pianificate dagli Uffici federali competenti e più in generale la collaborazione con questi ultimi per definire e promuovere i passi necessari». Il rapporto evidenzia che in Ticino – nel resto della Svizzera la situazione e i valori riscontrati sono simili – la contaminazione di PFAS è diffusa e onnipresente. E la causa è essenzialmente riconducibile all’attività dell’uomo: «È opportuno ricordare che questi composti – si legge nel rapporto – sono esclusivamente di sintesi e il loro ritrovamento nell’ambiente è quindi da ricondurre al rilascio da prodotti e materiali di origine antropica». Ma le origini del problema sono da ricercare altrove: «L’ampio impiego nel tempo di queste sostanze in un’innumerevole tipologia di oggetti e prodotti di uso quotidiano, combinata alla poca consapevolezza del potenziale di rilascio e alla mancanza di una regolamentazione specifica nel passato, hanno inevitabilmente favorito la loro diffusione».
Ma quali conclusioni meritano di essere poste in rilievo per quanto attiene all’immissione sul mercato dei pesci in considerazione dei limiti dell’Ordinanza sui contaminanti? Sono state individuate specie ittiche a rischio? Come si sta monitorando questo settore
alimentare a salvaguardia dei consumatori? Nicola Forrer, direttore del Laboratorio cantonale: «Per quanto si tratti di risultati da interpretare con cautela, in quanto riferiti a un unico anno di monitoraggio e a un numero relativamente limitato di campioni (soprattutto per determinate specie ittiche) i risultati mostrano una contaminazione diffusa nei pesci che varia molto in funzione della specie. I pesci analizzati, essendo dei campioni ambientali, non rientrano nel campo d’applicazione della Legge sulle derrate alimentari (LDerr), la quale si applica alle derrate alimentari immesse sul mercato. I dati ottenuti possono però essere utilizzati per identificare le specie per le quali sono ipotizzabili delle criticità circa il rispetto dei limiti dell’Ordinanza sui contaminanti. Tra queste vi sono il persico, il luccio, la trota e l’agone. In base al principio del controllo autonomo sul quale si basa la LDerr, spetta a chi immette sul mercato una derrata alimentare il compito di garantirne la conformità legale. Il Laboratorio cantonale è in contatto con i pescatori professionisti per definire insieme le misure da adottare. Stiamo inoltre svolgendo una campagna di misura su derrate alimentari di origine animale presenti sul mercato (tra cui i pesci) e continueremo il monitoraggio nei laghi per consolidare i dati ottenuti. Altre campagne seguiranno in futuro».
La campagna di monitoraggio fornisce un primo quadro dell’estensione del problema e getta le basi per seguirne nel tempo l’evoluzione. (Freepik.com)
Guido Grilli
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Un piatto raffinato e semplice
Attualità ◆ La tartare di manzo è una portata perfetta per l’estate. Fresca e saporita, conquista i palati con la sua semplicità
Voglia di un piatto semplice, autentico, ricco di gusto e ideale per la stagione calda? Allora la tartare di manzo è la scelta azzeccata.
Azione 20%
Tartare di manzo in self-service, prodotta in Ticino, per 100 g Fr. 4.95 invece di 6.25
Per preparare una ricetta secondo i crismi, è importante scegliere una carne bovina di qualità, povera di grassi e tenera, come per esempio il filetto, lo scamone o il magatello. La carne può essere tagliata sia a mano finemente al coltello sia a cubettini, oppure anche tritata.
dal 24.6 al 30.6.2025
I condimenti più comuni utilizzati per la tartare includono per esempio cipolle, capperi e cetriolini sottaceto tritati, prezzemolo fresco, ketchup, tuorlo d’uovo, senape, olio extravergine d’oliva, salsa Worcester, cognac, sale, pepe, succo di limone e tabasco, per un piacevole tocco di piccantezza.
La delicata specialità è un piatto molto apprezzato dagli amanti della carne cruda
Naturalmente ognuno può variare la ricetta secondo i propri gusti e preferenze. Come guarnizione si possono per esempio usare anelli di cipolla, cetriolini e capperi.
Servi la tartare di manzo con fettine di pane per toast o baguette tostati, spalmate con del burro.
A proposito, se desideri gustare una tartare di qualità pronta al consumo, preparata secondo tradizione, ti consigliamo di provare la nostra specialità disponibile a libero servizio, che questa settimana trovate in offerta speciale sia nella variante classica sia in quella piccante.
La Formaggella della Valle di Blenio
Attualità ◆ Una specialità casearia che porta con sé tutta l’essenza delle nostre magnifiche montagne ticinesi
Prodotta dal Caseificio del Sole di Aquila, la formaggella della Valle di Blenio, o «Ra Crénga dra Vâll da Brégn» nella sua denominazione in dialetto locale, è un formaggio a pasta molle realizzato con latte ticinese. Introdotta nei negozi di Migros Ticino ormai quasi 15 anni fa, questa formaggella di montagna negli anni è diventata di fatto uno dei prodotti caseari più apprezzati dalla clientela. Prodotta con latte vaccino di mucche nutrite con erba fresca e fieno, è l’unione perfetta tra tradizione locale, sapori autentici e rispetto della lavorazione artigianale. La preparazione originale di questa specialità, come ci ha spiegato il titolare del caseificio Severino Rigozzi, prende spunto da una vecchia ricetta di famiglia. Grazie alla sua consistenza morbida, quasi fondente, e al suo sapore dolce e delicato, è una formaggella che si presta bene non solo per essere consumata da sola, ma accompagna a meraviglia altri prodotti della tradizione ticinese.
Una volta acquistato, si consiglia di conservare il prodotto in frigorifero nella sua carta originale e consumarlo entro un mese. Chi dispone di una buona cantina, può anche riporla qui, in questo caso senza imballaggio, dove può essere conservata anche oltre un mese.
Azione 21%
Formaggella Blenio «Ra Crénga dra Vâll da Brégn»
L’album degli Europei di calcio femminile 2025
Attualità ◆ L’album e le figurine ufficiali della manifestazione ospitata quest’anno dal nostro Paese sono in vendita anche alla tua Migros
Sono 16 le squadre nazionali femminili di calcio che, dal 2 al 27 luglio, in otto città della Svizzera, si contenderanno il titolo europeo in occasione della 14esima edizione di questo importante torneo. L’UEFA Women’s EURO 2025 rappresenta per il nostro Paese un’opportunità unica per promuovere e mostrare l’impegno verso il calcio femminile. Oltre alla Svizzera, automaticamente qualificata essendo la nazione ospitante, scenderanno in campo anche Norvegia, Islanda, Finlandia, Spagna, Portogallo, Belgio, Italia, Germania, Polonia, Danimarca, Svezia, Francia, Galles, Olanda e Inghilter-
ra, quest’ultima campione in carica avendo vinto l’edizione del 2022. Le città svizzere selezionate per ospitare l’evento saranno invece Basilea, Berna, Ginevra, Zurigo, San Gallo, Lucerna, Thun e Sion.
Comincia fin da subito a tifare per la tua squadra del cuore, per esempio completando l’album ufficiale delle figurine UEFA Women’s EURO Switzerland 2025, disponibile nei maggiori punti vendita Migros. Al suo interno, oltre alle immagini delle protagoniste, troverai anche molte curiosità e informazioni interessanti su questa imperdibile manifestazione. Buon divertimento!
Figurine 6 pezzi Fr. 1.–
Starter Pack Album + 18 figurine Fr. 5.95 In vendita nelle maggiori filiali Migros.
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Batterie scariche? Bastano 5 minuti per sostituirle
Motori ◆ La collaborazione tra Fiat, Ample e Free2Move ha portato la tecnologia modulare di sostituzione delle batterie nel mercato del Car sharing di Madrid
Mario Alberto Cucchi
La storia spesso è fatta da corsi e ricorsi. Una formulazione che arriva da Giambattista Vico, filosofo napoletano del XVIII secolo utilizzata per descrivere la storia come un ciclo ricorrente. Ecco allora che anche nel mondo della mobilità le stesse soluzioni vengono riproposte nel corso degli anni. In questi giorni Fiat ha annunciato la partnership con Ample. In collaborazione con Free2move, leader mondiale nelle soluzioni di mobilità, ha portato la tecnologia modulare di sostituzione delle batterie nel mercato del Car sharing di Madrid.
Il «battery swapping » permette di cambiare le batterie in centri di ricarica speciali simili ai distributori di benzina
Ma che cosa si intende per tecnologia modulare di sostituzione delle batterie? In pratica si tratta di sostituire integralmente e velocemente il pacco batterie di un veicolo nel momento in cui si rende necessario. Si lascia quello scarico per prenderne uno carico. Un po’ come si faceva una volta con le batterie dei telefoni cellulari. Il vantaggio è evidente. Bastano cinque minuti e con una batteria nuova è sorpassata l’ansia dei tempi di ricarica. Beh, non si trat-
ta certo di un’idea nuova in assoluto, è stata già approcciata in passato da alcuni costruttori automobilistici ma poi abbandonata e mai sperimentata su la larga scala. La tecnologia del «battery swapping », che permette di cambiare le batterie in centri di ricarica speciali simili ai distributori di benzina ha però delle evidenti criticità. In primo luogo la necessità di creare una infrastruttura di stazioni di servizio apposite che al momento non sono ancora diffuse. Inoltre richiede una standardizzazione delle batterie, ovvero un accordo comune su tipi e specifiche di quest’ultime in modo tale che possano essere scambiate tra diversi modelli di auto. Inoltre richiede una complessa logistica per la gestione delle batterie che attraverso una pianificazione e una gestione accurata della catena di approvvigionamento devono sempre essere pronte e cariche in numero sufficiente. Ci sono però ovviamente dei vantaggi. Innanzitutto gli utenti avrebbero un’autonomia illimitata potendo sostituire la batteria esaurita con una completamente carica in pochi minuti. Poi si potrebbero ridurre i costi di produzione delle auto elettriche perché le batterie sarebbero più piccole e meno costose. Questo avrebbe ripercussioni positive sull’impatto ambientale perché batterie più compatte ridurrebbero l’utilizzo di risorse naturali. Ec-
co allora che la partnership annunciata da Fiat merita attenzione per le sue potenziali ripercussioni. Per l’iniziativa sono state messe a disposizione delle compatte Fiat 500e, totalmente elettriche, perfettamente adattate per accogliere i pacchi batterie intercambiabili sviluppati da Ample.
La flotta di Fiat 500e gestita da Free2move è già operativa con 40 mezzi e si prevede a breve un’espansione fino a 100 unità. Grazie a un sistema di scambio veloce e intuitivo, i veicoli elettrici dotati della tecnologia di Ample vengono immediatamente riconosciuti presso le stazioni di scambio, permettendo di completare l’operazione in meno di cinque minuti tra-
IL COLORE DEI CAPELLI
mite app mobile. «In FIAT, crediamo in una mobilità sempre più sostenibile e cerchiamo soluzioni che combinino il pensiero laterale e la semplicità, che sono alcuni dei nostri valori fondamentali», ha dichiarato Olivier Francois, CEO di FIAT e Global CMO di Stellantis. «La nuova tecnologia di batterie modulari intercambiabili incarna proprio questi valori. Questa soluzione semplice e innovativa contribuisce a ridurre l’ansia da autonomia grazie alla drastica riduzione dei tempi di ricarica, offrendo così un’esperienza di guida senza interruzioni. Vogliamo quindi testare e analizzare a fondo il progetto in condizioni d’uso reali, con l’obiettivo di estenderlo presto al settore privato. È
CHE DESIDERATE, CON LA CURA CHE MERITATE.
per questo che ci crediamo fortemente e abbiamo scelto proprio la nostra iconica Fiat 500e per il test sul campo. Siamo convinti – conclude il manager Stellantis – che potremo ottenere indicazioni preziose sia per il nostro marchio che per il Gruppo, contribuendo a plasmare il futuro della mobilità». Madrid, città leader nell’adozione dei veicoli elettrici in Spagna, rappresenta lo scenario ideale per questo progetto pilota. L’impegno cittadino nel ridurre le emissioni del 65% entro il 2030 e il supporto offerto al Paese per raggiungere l’obiettivo di 5.5 milioni di auto elettriche nello stesso anno, sottolineano la volontà della capitale spagnola di puntare su soluzioni di mobilità più pulite e innovative. Insomma, nei corsi e ricorsi della mobilità per questa idea potrebbe essere la volta buona poiché non si tratta di una semplice sperimentazione ma di utenti «normali» che testeranno la tecnologia nella quotidianità. In conclusione va però detto che ad oggi, dopo decenni, i costruttori automobilistici non si sono neppure accordati su dove posizionare il bocchettone di rifornimento della benzina. Su alcune auto è a destra, su altre a sinistra e sulle Porsche persino davanti. Riusciranno nell’impresa di accordarsi per avere batterie tutte uguali da poter «swappare» in cinque minuti? Il dubbio è quantomeno lecito.
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Un equilibrio vantaggioso per tutti
Conciliabilità ◆ La nuova pubblicazione di Equi-Lab offre informazioni dettagliate per aiutare a bilanciare la propria vita tra famiglia, lavoro e impegni di cura
Stefania Hubmann
Dal ritratto di una futura madre a quello di una famiglia con in evidenza anche l’aspetto di cura in senso più ampio. Basta questo confronto visivo per cogliere l’evoluzione della società sul tema dell’equilibrio tra vita privata e impegno professionale negli ultimi dieci anni. Le immagini si riferiscono ai due opuscoli pubblicati rispettivamente nel 2015 e quest’anno dall’associazione Equi-Lab, centro di competenze per la conciliabilità vita-cura-lavoro e la valorizzazione delle differenze di genere. Gli ultimi cinque anni hanno registrato importanti novità legislative che permettono di trovare un migliore equilibrio fra i diversi impegni che sempre più persone devono assumere nella vita quotidiana. È pero necessario conoscere sia da parte di lavoratori e lavoratrici, sia a livello di aziende i rispettivi diritti e doveri. Per questo motivo, oltre alle consulenze individuali, alla formazione e all’accompagnamento in progetti mirati, Equi-Lab ha aggiornato l’opuscolo informativo, disponibile in versione cartacea e digitale, presentando in modo chiaro e semplice le varie tematiche.
Oggi il tema dei familiari curanti, che si occupano non solo dei figli ma anche di parenti anziani o malati, ha assunto un’importanza crescente
Un sano equilibrio fra le diverse dimensioni della vita favorisce il benessere individuale e di conseguenza quello collettivo. Se questa correlazione è oggi conosciuta, altrettanto non si può ancora dire di tutti gli strumenti a disposizione per favorire la realizzazione di quello che viene anche definito work-life balance. Bisogna inoltre tenere in considerazione i cambiamenti nel tempo dei bisogni come è il caso del crescente ruolo dei familiari curanti. «Conciliare vita fa-
Viale dei ciliegi
Astrid Lindgren
Pippi Calzelunghe
Edizione 80 anni, Salani (Da 7 anni)
Quest’anno compie ottant’anni ed è sempre una bambina. Certo, lei ha preso le pillole Cunegunde, «per non diventare grunde», e ciò le conferisce una fissità clownesca, come acutamente sottolineò Antonio Faeti, un’imperturbabilità ben diversa da ciò che rappresentano, invece, Tommy e Annika, i due comprimari «umani» del mirabile classico che è Pippi Calzelunghe. Un romanzo molto celebrato quest’anno, il romanzo sicuramente più noto di Astrid Lindgren, che pure ci ha offerto altri capolavori altrettanto mirabili (penso in particolare a Vacanze all’isola dei gabbiani o a Ronja) e potremmo chiederci il motivo di questo successo esclusivo. Sicuramente ha influito la serie televisiva del 1969, vivacemente interpretata dall’(allora) piccola Inger Nilsson, ed è tuttora una hit la mitica canzoncina («Pippi Pippi Pippi che nome fa un po’ ridere…»), ma a rendere così iconico il personaggio di Pippi è stata una sua lettura in chiave femminista, lettura a mio parere superficiale e ri-
miliare e vita lavorativa è ancora un’esigenza avvertita in misura maggiore dalle donne» , spiega Nora Jardini Croci Torti, condirettrice di EquiLab con Vanessa Ghielmetti e Marialuisa Parodi. «Nelle giovani famiglie la ripartizione del tempo di lavoro e degli impegni di cura dei figli sta però cambiando, grazie anche ai recenti mutamenti legislativi. Maternità & lavoro, guida ai diritti dei neo-genitori era il titolo del primo opuscolo che abbiamo pubblicato nel 2015 in collaborazione con la Delegata per le pari opportunità. Oggi mettiamo a disposizione In equilibrio tra vita, cura e lavoro, una guida smart per genitori e caregiver. I temi trattati partono sempre dalla maternità – gravidanza, parto, congedo maternità – per poi estendersi al congedo di paternità o per l’altro genitore, ai nuovi congedi familiari, al congedo non pagato e agli aiuti finanziari alle famiglie». Negli anni fra il 2021 e il 2024 sono infatti entrate in vigore diverse nuove disposizioni legislative fra le quali spicca dal 1. gennaio 2021 il congedo di paternità o per l’altro genitore. Quest’ultimo ne beneficia dal 1. luglio 2022 con la modifica del Codice civile che prevede il matrimonio per tutti. Precisa la condirettrice di Equi-Lab: «In questi ultimi quattro anni sono parecchie le forme di congedo introdotte a favore di una migliore conciliabilità fra famiglia e lavoro. Penso, oltre a quello già citato, al congedo per figli/e ammalati/e e per assistenza ai familiari, al congedo per figli/e gravemente malati/e, al congedo in caso di adozione e infine a quello a seguito del decesso di un genitore dopo la nascita del/della bambino/a. Come si può notare, l’assistenza ai familiari è ora un concetto riconosciuto dalla legge che prevede un congedo di tre giorni per evento fino a un massimo di dieci giorni all’anno. Il motivo può essere dovuto a malattia, infortunio o disabilità e non deve necessariamente trattarsi di un’emergenza, perché il
congedo è valido anche per necessità pianificate». Queste opportunità sovente non sono conosciute dai lavoratori e delle lavoratrici, ma neppure dalle aziende. Prosegue Nora Jardini Croci Torti: «Parte della nostra attività consiste nell’aiutare le aziende ad aggiornare i loro regolamenti in modo che siano conformi alla legislazione vigente. Le richieste di audit e di formazione non mancano anche se c’è margine di miglioramento». Il tema dei familiari curanti ha assunto un’importanza crescente, perché aumenta il numero di donne e uomini con un’attività professionale alla quale devono affiancare una responsabilità di cura non solo verso i figli, ma pure verso familiari anziani o malati e di conseguenza non autosufficienti. Per Nora Jardini Croci Torti «riconoscere questo ruolo sul posto di lavoro è una conquista che permette tanto ai colleghi quanto ai dirigenti dell’azienda di comprendere l’impegno del dipendente o della dipendente al di fuori dell’ambito lavorativo. Le esperienze extralavorative arricchiscono la persona e costituiscono quindi un valore aggiunto». Per quanto concerne le prestazio-
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duttiva, che rischia di offuscare altri valori (letterari e poetici) del romanzo. Pippi è sì un modello femminile controcorrente, ma non è certo il primo né l’unico nella letteratura per ragazzi; Pippi è sì una ribelle, ma la sua ribellione rimane ancorata a quella fissità da eroina fantastica a cui accennavamo prima; Pippi è sì libera e liberatoria, ma la sua è un’anarchia giocosa, animata dal gusto del paradosso che da sempre è connaturato all’infanzia (come quando stende i panni sotto la pioggia). Ciò che rende poetica – e in parte malinconica – la figura di Pippi è proprio la sua «condanna» a non crescere, e quindi a re-
stare sola, un po’ come Peter Pan (e non come Pinocchio, il quale invece diverrà fragile e mortale, ma vivo). La trovata geniale della Lindgren è stata quella di inventare, accanto alla protagonista, due comprimari normali: Tommy e Annika, nei quali i piccoli lettori si possono identificare. Perché se è bello sognare di avere il potere invincibile di Pippi, è rassicurante sapere che ad ogni bambino o bambina è dato di vivere avventure fantastiche, se si è capaci di accoglierle con gioia e senza preconcetti. Proprio come Tommy e Annika accolgono Pippi. Anche l’ultimo capitolo è un’incantevole soggettiva di Tommy e Annika e mette in luce quanto malinconia e solitudine facciano parte della personalità clownesca di Pippi: «Pippi stava seduta al tavolo, la testa poggiata alle palme, e con aria sognante fissava una piccola candela dalla fiamma tremula. “Ha… ha l’aria di essere così sola” disse Annika. Rimasero così a lungo, in silenzio, con gli occhi fissi nell’oscurità di quella sera d’inverno. Le stelle brillavano sopra Villa Villacolle, e dentro c’era Pippi, ci sarebbe sempre stata. (…) “Se guardasse da questa parte, potremmo salutarla”
Negli ultimi anni sono entrate in vigore diverse nuove disposizioni legislative fra le quali spicca il congedo di paternità o per l’altro genitore. (Freepik.com)
ni sociali volte a favorire l’equilibrio tra vita, cura e lavoro il nostro Cantone è in genere all’avanguardia a livello nazionale. Ad esempio il congedo per adozione ora introdotto nella Legge federale, in Ticino era già una realtà. «Rispetto all’Italia – rileva la nostra interlocutrice – il nostro diritto del lavoro è però meno sviluppato in questo ambito. Ora puntiamo soprattutto a far conoscere le facilitazioni offerte negli ultimi anni. Attraverso l’opuscolo, a disposizione in forma cartacea o scaricabile dal nostro sito (www.equilab.ch), offriamo informazioni dettagliate – giorni di congedo, condizioni per ottenerlo – in un linguaggio comprensibile. Contiamo pure sul passaparola quale mezzo di sensibilizzazione, il cui effetto è ben visibile nelle consulenze individuali». Equi-Lab, che da un anno ha sede nel centrale Quartiere Maghetti a Lugano, è nato a fine 2018 come evoluzione dell’esperienza ventennale del Consultorio Giuridico Donna & Lavoro, del Consultorio Sportello Donna, dell’Antenna Sociale (consulenza individuale e formazione) e di COOPAR (bilanci di genere per enti pubblici). Dispone quindi di una pro-
fonda conoscenza nei diversi ambiti legati alle pari opportunità, conoscenza che facilita il lavoro di rete con molteplici partner – dalle istituzioni alle piattaforme, alle aziende – a favore di condizioni di lavoro eque, inclusive e rispettose della diversità. Queste condizioni non sono ancora state raggiunte, come dimostrano le circa 400 consulenze individuali annuali. Nora Jardini Croci Torti: «Vediamo ancora discriminazioni e abusi come licenziamenti al rientro dal congedo maternità, difficoltà nell’ottenere tempi di lavoro parziali, disparità salariali e molestie». Specialista in diritto del lavoro, la condirettrice di EquiLab si occupa in prevalenza di queste tematiche, mentre Vanessa Ghielmetti si concentra sui bilanci di genere e gli audit e Marialuisa Parodi sulle questioni economiche come pure sulla diversità e l’inclusione. Le tre condirettrici sono affiancate da altre sette collaboratrici, tutte a tempo parziale. Tornando alle consulenze, l’intervistata precisa che negli anni il loro numero è rimasto piuttosto stabile, mentre il contenuto è mutato. «Le informazioni di base oggi si trovano più facilmente, grazie anche a strumenti come l’opuscolo appena pubblicato, per cui chi arriva in consulenza si presenta con problematiche precise e più complesse. I nostri servizi, che beneficiano di un finanziamento da parte dal Cantone, offrono una consulenza professionale con due vantaggi: un approccio poco formale e un costo accessibile». Se gli obiettivi primari dell’opuscolo In equilibrio tra vita, cura e lavoro, una guida smart per genitori e caregiver riguardano la diffusione di informazioni aggiornate sui temi della conciliabilità famiglia-lavoro, l’impegno di Equi-Lab con questa e altre iniziative è di promuovere un cambiamento culturale che permetta di capire come la conciliabilità sia un investimento vantaggioso anche per le aziende e non da ultimo per la società nel suo insieme.
disse Tommy. Ma Pippi stava fissando qualcosa d’invisibile davanti a sé.
Infine spense la candela»
Nathalie Seroux
In riva al mare…
Il mio primo album fotografico
Camelozampa (Da 18 mesi)
Il sottotitolo può risultare fuorviante, perché «il mio primo album fotografico» rimanda comunemente all’album di fotografie familiari, personali, con cui si ritrae il proprio bambino nei vari contesti dei suoi primi mesi. Qui invece il focus non è il bimbo, ma ciò che sta fuori da lui, ciò che lui, o lei, può guardare, osservare, nominare. L’originale francese infatti lo definisce «imagier photo», dove imagier è proprio il libro fatto esclusivamente di immagini, che possono essere illustrazioni o appunto, come in questo caso, fotografie. Spesso sono immagini raccolte in base a un ambiente, che qui è il mare, anche se l’editoria per l’infanzia è ricchissima di proposte di imagiers in altri ambienti (la cucina, il parco giochi, il cantiere…), per favorire il riconoscimento e la nominazione. Di questo libro apprezziamo la ricchezza delle immagini; il formato, non troppo piccolo, così da permettere un’osservazione attenta anche dei particolari delle fotografie, ma neanche troppo grande, così da renderlo ben maneggiabile dai bimbi; e soprattutto l’abilità con cui la fotografa riesce a rendere ogni immagine nitida, chiara, e al contempo aperta a tante espansioni discorsive e narrative. Un libro che potrà accompagnare le estati dei più piccini, nelle varie fasi del loro sviluppo linguistico, perché le immagini possono essere molto semplici («il secchiello», «la paletta», «la palla») ma anche ben più complesse («la duna», «la falesia», «la bassa marea»).
di Letizia Bolzani
Approdi e derive
Grazie al cielo!
Sul bel Danubio blu, il celeberrimo walzer di Johannes Strauss, sta navigando nel cielo. Eseguito dal vivo a Vienna il 31 maggio scorso e in seguito digitalizzato dall’antenna Deep Space dell’Agenzia spaziale Europea (ESA), in meno di un giorno ha raggiunto i confini del nostro sistema solare, ha sorpassato Voyager 1, ad oltre 25 miliardi di chilometri dalla terra, ed è ora viaggio verso Alfa Centauri, il sistema stellare più vicino. Lo raggiungerà nel 2029.
Le onde radio solcheranno alla velocità della luce le profondità del cielo e questa musica, così evocativa dell’immensità del cosmo (si pensi al capolavoro di Kubrick, 2001: Odissea nello spazio) sta realmente viaggiando, ora e per sempre, in questa misteriosa e affascinante immensità. Nell’abbraccio di spazio e tempo, una voce della nostra umanità sta espandendosi all’infinito, nella smisurata grandezza e bellezza dell’universo.
Terre Rare
In realtà già 1977 la NASA inviò nello spazio verso Voyager una raccolta musicale, ma questa nuova missione cosmica, voluta per commemorare i duecento anni della nascita del compositore viennese e i cinquant’anni dell’ESA, è davvero straordinaria per l’intensità offerta da un sublime spettacolo condiviso.
Ascoltando questi suoni, questo loro aprirsi grandioso dai cieli di Vienna verso i confini più remoti dell’universo, ho percepito una emozionante quanto commovente espressione di umana gratitudine. Forse anche un desiderio di intimità con l’universo. Ho pensato che queste note volessero raccontare di noi al cielo, raccontare la nostra umanità a quel cielo che da sempre si racconta a noi, da sempre ci parla e ci accompagna nella ricerca del senso del nostro vivere.
Lo sguardo umano di contemplazione del cielo, nella storia della nostra civiltà, ha un momento inaugurale e
Una classifica delle IA
È un periodo strano: l’avvento, o meglio, l’irruzione dell’intelligenza artificiale nella nostra quotidianità è talmente massiccio che, come giornalisti, non si può evitare di occuparsene. Non per formulare particolari ragionamenti intelligenti sulla sua esistenza, o per portare argomenti decisivi alla discussione pro o contro il suo uso. Semplicemente per cercare di fare un punto quotidiano sulle migliaia di opinioni che circolano e che è sempre difficile sistematizzare. Con la sicurezza, oltretutto, che mentre ci si ferma a riflettere, a disquisire, a mettere i puntini sulle «(A)i», lo strumento è già ampiamente usato in moltissimi contesti, tanto che il recente blackout di ChatGPT, rimasto fuori uso per circa tre ore, sembra aver gettano nello sconforto i suoi utilizzatori usuali.
Sì, perché molti forse non si sono resi
conto che l’IA è diventata uno strumento di lavoro quotidiano. La sua facile raggiungibilità, la sua velocità di reazione, la rendono preziosa, visto che sa mettere le mani, oltre che nella formulazione, anche nel riassunto di testi. Attività utilissima per chiunque abbia mai dovuto occuparsi di redigere un verbale di una riunione di lavoro durata magari qualche ora. Grazie all’IA oggi è possibile registrare le conversazioni, farle sbobinare dal sistema e chiedergli di prepararne una sintesi, magari mettendo in rilievo i passaggi operativi più importanti. Insomma, rassegniamoci pure alla pratica del lavoro automatizzato, il cui scopo è del resto, da sempre, affidare alle macchine i compiti più gravosi per l’uomo. In questo contesto quindi vorremmo impostare una discussione pratica, ad uso di chi fosse ancora dubbioso, e mostrare co-
Le parole dei figli
GOAT
«Che GOAT!». A seguire l’emoji di una capra. Siccome goat in inglese significa letteralmente capra, Le parole dei figli possono trarre facilmente in inganno il boomer più sprovveduto. Mi auto-denuncio: la prima volta che l’ho sentito pronunciare dalla mia 16enne Clotilde, riferito a se stessa, ho pensato che si stesse dando dell’imbranata. Giù a ridere! Vi ricordate quando abbiamo parlato di Tea , il termine che la Gen Z usa per riferirsi al gossip e non certo al tè delle cinque? Ecco, anche GOAT (che nelle chat degli adolescenti si scrive rigorosamente in maiuscolo) rientra nella categoria dei boomer-stumping words, ovvero quelle parole capaci di mettere in imbarazzo un adulto. Perché le capre, qui, non c’entrano nulla! GOAT è l’acronimo di «Greatest of All Time », ovvero il «Più Grande di Tutti i Tempi». Si usa per celebrare
fortemente simbolico nella vicenda di Talete che, mentre osservava il moto delle stelle, cadde in un pozzo. Una servetta trace lo prese in giro perché si preoccupava di comprendere le cose che stanno nel cielo senza vedere quelle che gli stanno davanti. L’episodio è raccontato da Platone nel Teeteto, in un contesto in cui descrive la vita del filosofo come quella di un uomo libero, desideroso di conseguire la verità. La ragazza non può capire come la visione del cielo possa far trascurare al filosofo le cose materiali e si mette a ridere, proprio come si metteranno a ridere coloro che erano rimasti nella caverna quando Socrate ritorna, dopo che una faticosa ascesa gli aveva permesso di uscirne e di vedere il sole, simbolo luminoso della verità. Il sole e le stelle rappresentano fin dalle origini della nostra civiltà quella dimensione metafisica, quell’oltre che spesso ci interpella nel dare un senso alla nostra esperienza quotidiana e
contingente. Nel pensiero di Platone e di Aristotele sono custodite radici indelebili del nostro rapporto con il cielo. Platone, con straordinario linguaggio poetico, fa navigare le anime sul dorso del cielo, verso quel sopraceleste sito in cui vive la Verità. Aristotele invece ci prende per mano per accompagnarci verso l’esperienza della contemplazione. La contemplazione delle finalità intrinseche alla natura è il punto di arrivo della conoscenza, l’espressione più alta e feconda della nostra umanità. Lo sguardo filosofico verso il cielo attraversa i secoli in forme anche molto diverse giungendo fino alle ben note parole di ammirazione e di venerazione sempre crescente con cui Immanuel Kant accoglie il cielo stellato nel cuore del suo pensiero e della sua etica. Non solo la filosofia, non solo la ricerca scientifica, anche l’immaginario poetico scruta da sempre le voci del cielo. Tra le innumerevoli, meravigliose e meravigliate parole di tanti poeti, mi
piace accennare a II Copernico, dialogo contenuto nelle Operette morali, in cui Giacomo Leopardi offre una geniale trasfigurazione poetica dell’immaginario filosofico: un affascinante intreccio tra mito e scienza, simbolo potente della creatività umana. L’ora prima dà il buongiorno al Sole, e al suo bel carro dorato, per iniziare la giornata ma lui si rifiuta: è stanco «di questo continuo andare attorno per fare lume a quattro animaluzzi che vivono in su un pugno di fango…». Comincia così una riflessione sottile sulla condizione umana. Fino all’arrivo dell’ora ultima, che porterà Copernico nella casa del Sole, per un dialogo appassionante tra mille metafore della vita. Per i grandi tesori che il cielo ha offerto, e continua ad offrire al nostro pensiero, alla nostra immaginazione e al nostro cuore, mi piace pensare che questa musica risuonerà per sempre tra le stelle come un segno di eterna gratitudine.
me avvicinarsi concretamente all’uso quotidiano dell’IA. Anzi, la nostra proposta, dopo varie settimane di uso e di esame, sarebbe di stilare una vera e propria classifica dei «motori IA» disponibili gratuitamente. Vi ricordo che per accedere in modo utile a questa tecnologia è sufficiente disporre di un normalissimo Smartphone, ma soprattutto di essere in grado di scaricare le apposite App dagli «Store» ufficiali di Google e di Apple. Qui il discorso si fa già spinoso. Oltre alla difficoltà della procedura in sé (che chiede spesso la password del proprio account utente, e che in pochi ricordano), ci sono obiettivi rischi di scaricare programmi non proprio innocui (è degli scorsi giorni la notizia che Google ha rimosso dal proprio Play Store varie App IA, che venivano usate in modo subdolo per generare valute digitali all’insaputa degli uti-
lizzatori). Quindi attenzione a far capo alle risorse ufficiali delle App di cui vi parleremo.
Detto questo, se vi sentite pronti per l’avventura, sappiate che praticamente tutti i programmi di IA sono offerti in una versione gratuita sotto forma di chat, in cui interagire dialogicamente con un interlocutore robotico. Dopo averne provati diversi, dunque, il nostro consiglio (del tutto soggettivo) è di iniziare con Gemini, proposto da Google. Forte dei miliardi di informazioni disponibili al celebre motore di ricerca, il suo uso è davvero soddisfacente (è in grado di fornire tra l’altro utili consigli per lo shopping!): come per tutti i chatbot, il modo più semplice per interagire con lui è quello di porre una domanda precisa. Ad ogni questione il motore risponderà offrendo, a complemento dell’informazione, la fonte da cui
ha tratto la risposta. Questo è molto importante. Anzi fondamentale. In questa modalità, l’uso dell’IA non differisce molto dalla consultazione di Wikipedia. Senonché le capacità di sintesi e di organizzazione dei contenuti è davvero rimarchevole. Altrettanto autorevole, e corroborato dall’uso di milioni di persone che ne aggiornano i database, è naturalmente ChatGPT. Il suo livello di prestazioni è ottimo, ma spesso meno preciso di Gemini. A un livello più basso metteremmo Claude, della ditta francese Anthropic, interessante, ma spesso «fantasioso». Consigliabile, per divertimento, anche un giretto sul cinese Deepseek, ma più che altro perché le sue allucinazioni sono a volte divertenti. Pare lo stiano migliorando, staremo a vedere. Intanto e comunque: attenzione, sempre, alle risposte…
chi è considerato il migliore in un campo, dallo sport alla musica, ma anche per farsi un complimento. Un po’ come dirsi «Sono una leggenda!» o semplicemente «Brava!». Lo stesso vale per gli amici: «Sei un GOAT!» è un elogio, altro che insulto. Essere un GOAT significa eccellere, distinguersi e avere il coraggio di essere unici. Nella vita quotidiana degli Gen Z, non serve essere una celebrità per essere un GOAT! Basta distinguersi in un contesto, piccolo o grande, dimostrando carisma e capacità. Sei un GOAT se: fai sentire la tua opinione, anche quando non è richiesta; hai un talento particolare (che sia cucinare, recitare, cantare, fare sport, ecc.); il tuo carattere si distingue per una forte personalità; il tuo modo di fare è unico e lascia il segno; non hai paura di metterti in gioco, in pubblico o in situazioni sociali.
Chiedo a Clotilde qualche esempio pratico: parli con sicurezza in una discussione di classe; balli senza timore a una festa; sei amichevole e spigliato nei contesti sociali; fai scherzi divertenti e coinvolgi gli altri; non hai paura di esibirti davanti a un pubblico. Una volta compreso il significato di GOAT, può essere interessante girare la domanda ai vostri figli: «Chi è per te un GOAT?». La risposta potrebbe svelare molto sulla loro scala di valori, su chi ammirano e perché. Quello che probabilmente non sanno – e che potreste utilizzare per sorprenderli – è l’origine del termine. L’espressione GOAT nasce dalla figura leggendaria del pugile Cassius Clay-Muhammad Ali: « I Am the Greatest », è un album musicale, pubblicato un po’ per scherzo nell’agosto del 1963, sei mesi prima di vincere a 22 anni il campionato mondiale dei pesi massimi contro il campio-
ne in carica Sonny Liston. La sfida avviene a Miami Beach (Florida) il 25 febbraio 1964. Clay, che da quel giorno cambia nome in Muhammad Ali (a seguito della sua conversione all’Islam), è sfavorito 8:1, ma riesce a vincere costringendo Liston ad arrendersi al settimo round. La vittoria segna l’inizio della leggenda e lui si definirà «Greatest of All Time ». «Ho pensato che se lo avessi detto abbastanza, avrei convinto il mondo che ero davvero il più grande». Ecco come il 6 aprile 2009 si racconta alla National Public Radio (NPR) : «Ho sempre creduto in me stesso, sin da quando ero un bambino che cresceva a Louisville, Kentucky. I miei genitori mi hanno instillato un senso di orgoglio e fiducia in me stesso e hanno insegnato a me e a mio fratello che avremmo potuto essere i migliori in qualsiasi cosa. Devo averci creduto, perché ricordo di essere sta-
to il campione di biglie del quartiere e di aver sfidato i miei amici a vedere chi riusciva a saltare le siepi più alte o a correre una gara di velocità per l’intero isolato. Ovviamente, quando lanciavo la sfida, sapevo già che avrei vinto. Al liceo mi vantavo ogni settimana che un giorno sarei diventato il campione del mondo dei pesi massimi. Come parte del mio allenamento di boxe, correvo lungo Fourth Street, nel centro di Louisville, entrando e uscendo rapidamente dai negozi locali, giusto il tempo di dire che mi stavo allenando per le Olimpiadi e che avrei vinto una medaglia d’oro. E che, una volta tornato a casa, sarei diventato professionista e avrei conquistato il titolo mondiale dei pesi massimi. Non ho mai pensato alla possibilità di fallire. Quando proclamai di essere il “Più Grande di Tutti i Tempi”, credevo in me stesso. E ci credo ancora».
di Lina Bertola
di Simona Ravizza
di Alessandro Zanoli
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ATTUALITÀ
Perché restare se la terra brucia?
Sono in molti a chiederselo a Tel Aviv e dintorni mentre gli allarmi continuano a suonare e i missili a cadere. Resta forte l’urgenza della pace e di una casa sicura
Congedo parentale nazionale, ancora no
A Berna bocciate due iniziative per potenziare il sistema attuale, e c’è chi teme dei passi indietro in materia, ovvero meno settimane a disposizione delle neo-mamme
Iran e Israele: alle radici dell’odio
Medio Oriente ◆ Il livello di distruzione che Teheran subisce ha un solo precedente nella sua storia recente: la guerra contro l’Iraq
Da quando l’Iran si è voluto accreditare come il principale protettore dei palestinesi? E da quando l’Iran è diventato anti-Israele, e anti-americano? Alcuni decenni fa gli schieramenti erano molto diversi da quelli attuali. Agli albori del conflitto israelo-palestinese l’Egitto era il Paese più antiamericano di quell’area; Iran e Arabia Saudita andavano d’accordo tra loro e si contendevano i favori degli Stati Uniti; i palestinesi avevano una leadership laica, refrattaria all’islamismo. Gli antefatti degli schieramenti odierni risalgono alla fine degli anni Settanta, un periodo segnato da guerre e rivoluzioni.
Fino al 1979 in Iran regnava lo Scià di Persia, che aveva voluto una serie di riforme modernizzatrici: per esempio, i diritti delle donne iraniane e il loro livelli d’istruzione erano fra i più avanzati di tutto il Medio Oriente. In questo lo Scià Reza Pahlavi si situava nella continuità del regno di suo padre, il quale aveva addirittura tentato (brevemente, negli anni Trenta del secolo scorso) di vietare il velo integrale.
Fino al 1979 in Iran regnava lo Scià di Persia, che aveva voluto una serie di riforme modernizzatrici, anche a favore delle donne
Della tradizione persiana faceva parte anche la tolleranza verso la comunità ebraica locale, la più antica di tutte le diaspore in Medio Oriente. Lo Scià anche in questo si era mostrato fedele all’eredità storica. All’origine della Partizione della Palestina nel 1948 ammonì che avrebbe portato a un conflitto per molte generazioni, però nel 1950 Reza Pahlavi riconobbe lo Stato d’Israele, con cui mantenne rapporti eccellenti fino alla fine del suo regno. Di fatto Iran e Israele erano alleati, uniti non solo dall’appartenenza al campo occidentale durante la guerra fredda, ma anche da obiettivi interessi comuni: le forze anti-israeliane e l’opposizione che voleva rovesciare lo Scià spesso cooperavano tra loro, in particolare nei campi di addestramento terroristici del Libano. Anche l’Arabia Saudita, pur solidarizzando con il popolo palestinese, si riconosceva nel sistema di alleanze anti-Urss e anticomuniste, imperniate sulla leadership dell’America.
Sul fronte opposto c’era l’Egitto di Gamal Abdel Nasser, Paese nordafricano ma legato al Medio Oriente dal punto di vista geopolitico; era il più importante degli alleati dell’Unione Sovietica in quest’area e il più importante sostenitore della causa palestinese.
L’antica autorevolezza religiosa dell’Egitto tra i popoli islamici – le-
gata al ruolo dell’università Al-Azhar del Cairo – era finita in secondo piano rispetto a un’altra leadership, quella laica, secolare, politica di Nasser. L’ex colonnello venuto al potere con un colpo di Stato era diventato il principale fautore del nazionalismo panarabo, a cui aggiungeva un’ideologia socialista. Il prestigio di Nasser nel mondo arabo era stato esaltato dalle vicende del 1956, quando l’Egitto aveva tenuto testa all’aggressione congiunta di Inghilterra, Francia e Israele. Poi però aveva ricevuto un colpo fatale nel 1967, con la sconfitta contro Israele nella Guerra dei Sei giorni. Nasser non si era più ripreso, fino alla morte nel 1970. L’anno prima della sua morte, nel 1969, i palestinesi riuniti nell’Organizzazione per la liberazione della Palestina si erano dati un nuovo leader: Yasser Arafat. Tutto fuorché un islamista: Arafat era più vicino al Dna ideologico di un Nasser, che ai Fratelli musulmani.
Subito dopo l’arrivo di Arafat a Teheran, il nuovo regime taglia i rapporti con Israele. I diplomatici israeliani sono evacuati. Inizia un «ponte aereo» per portare in salvo migliaia
di ebrei persiani, l’epoca della tolleranza per loro si chiude di colpo. Ma il successo dell’Olp è di breve durata. Arafat, alla pari di tutte le sinistre nazionaliste del mondo arabo (e di tanti intellettuali occidentali) non capisce che gli esordi di Khomeini non promettono nulla di buono per lui e per i suoi compagni di strada.
Anche nella nomenclatura islamista non tutti hanno condiviso l’ossessione di Khamenei per la distruzione d’Israele
Subito dopo la vittoria di Khomeini il clero al comando del Paese instaura i suoi Tribunali della rivoluzione. Centinaia di esecuzioni colpiscono ufficialmente i membri della famiglia reale, i collaboratori dello Scià, i trafficanti di droga. In realtà tra i bersagli ci sono fin dall’inizio i separatisti delle minoranze etniche (Kurdistan, Gonbad, Khuzestan) e i leader della sinistra marxista. Questi ultimi si erano illusi di manipolare Khomeini e orientarlo
verso una rivoluzione socialista: il risveglio è spaventoso. Khomeini non perde tempo nel ribaltare la situazione anche con l’Olp. Appena installato al potere, l’ayatollah comincia a far pressione su Arafat perché definisca la sua organizzazione come un movimento di «resistenza islamica». Un’etichetta impossibile vista la storia e l’ideologia dell’Olp, la cui base militante non era affatto religiosa. Già sul finire del 1979 l’alleanza si stava logorando. I capi e militanti palestinesi accorsi a Teheran, osservando da vicino l’instaurazione di una dittatura religiosa, cominciarono a definire gli iraniani come dei «matti da legare». Gli ayatollah a loro volta erano disgustati da quei palestinesi che non pregavano, bevevano alcol, andavano a donne. La divaricazione era cominciata presto. Nel conflitto fra Khomeini e Arafat alla fine i vincitori sarebbero stati gli ayatollah. Tra gli sconfitti: il popolo palestinese. Il livello di distruzione che l’Iran subisce in questi tempi ha un solo precedente nella sua storia recente: è la guerra con il vicino Iraq del 1980-1988. È un lontano ricordo per
molti iraniani, per altri è preistoria, visto che il Paese ha una popolazione mediamente assai giovane. Ma i due eventi, pur con le enormi differenze, hanno in comune una genesi analoga: un micidiale errore di calcolo della stessa leadership islamica, con al centro la figura della guida suprema Ali Khamenei. 45 anni fa per la verità Khamenei stava ancora costruendo il proprio potere all’ombra del suo maestro e protettore, l’ayatollah Khomeini, leader della rivoluzione che l’anno prima aveva deposto e cacciato lo Scià filo-americano. Quel gruppo dirigente originario della rivoluzione islamica aveva subito proclamato la sua intenzione nei confronti del Paese vicino: l’Iraq andava annesso alla stessa rivoluzione sciita, il despota Saddam Hussein aveva le ore contate, Teheran lo condannava a fare la stessa fine dello Scià. Dopo un anno di questo genere di minacce pubbliche, Saddam passò all’azione attaccando per primo l’Iran. La guerra durò otto anni, si concluse con una sorta di pareggio, dopo che i due Paesi avevano pagato un prezzo atroce in termini di distruzioni e di perdite umane. L’analogia investe anche i protagonisti a Teheran e le loro strategie. Nel 1979-80 pensarono che giurare a Saddam la sua fine non avrebbe avuto conseguenze? Che lui avrebbe subìto la minaccia esistenziale senza reagire? Khamenei è il sopravvissuto di quella stagione rivoluzionaria, ai suoi fianchi i ranghi dei suoi compagni e collaboratori sono stati assottigliati dalle esecuzioni israeliane. Lui però sembra schiavo di una «coazione a ripetere». Commette gli stessi errori pensando di ottenere risultati diversi? Non solo la sua Repubblica islamica fin dalla nascita nel 1979 ha giurato la distruzione dello Stato d’Israele e lo sterminio degli ebrei, ma il 7 ottobre 2023 il suo braccio armato palestinese ha mostrato concretamente quali forme quello sterminio poteva assumere; infine Khamenei è andato avanti nella preparazione di un’arma nucleare che per Tel Aviv è sinonimo di «soluzione finale». L’esito è stato simile a quello del 1980 con l’Iraq: il vicino minacciato di morte ha scelto di reagire prima che fosse troppo tardi.
A parte l’enorme risentimento della società civile, anche nella nomenclatura islamista non tutti hanno condiviso l’ossessione di Khamenei per la distruzione d’Israele. Le correnti moderate o comunque critiche all’interno del regime hanno visto crollare l’Asse della resistenza costruito da Khamenei: uno dopo l’altro, nella controffensiva dopo il 7 ottobre 2023, Israele ha decapitato Hamas, Hezbollah in Libano, Assad in Siria. Di quell’Asse della resistenza restano in piedi per adesso gli Houthi, non è un bilancio esaltante.
Un ebreo ultraortodosso ispeziona i danni in una scuola femminile dopo che missili balistici iraniani hanno colpito Bnei Brak, città ad est di Tel Aviv. (Keystone)
Federico Rampini
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La gente si rifugia anche nelle stazioni della metro a Ramat Gan, vicino a Tel Aviv. L’insicurezza regna sovrana, come il desiderio di casa. (Keystone)
Israele, perché restare?
Guerra ◆ Gli allarmi continuano e molti cittadini si sentono intrappolati
Sarah Parenzo
Contestualmente all’attacco a sorpresa, che la notte tra il 12 e il 13 giugno ha innescato un nuovo conflitto armato con l’Iran, Israele ha chiuso il proprio spazio areo impedendo decolli e atterraggi sino a data da determinare. Nonostante si tratti dell’attuazione di un piano preparato da tempo, le circostanze hanno costretto decine di migliaia di israeliani a prolungare la permanenza all’estero, mentre diplomatici e visitatori si sono trovati loro malgrado prigionieri nella pericolosa morsa di missili e droni. Nei giorni successivi, ambasciate e ministeri hanno cominciato a predisporre piani di evacuazione e rimpatrio, valutando anche la possibilità di tragitti via mare da Israele a Cipro. Agli israeliani invece, compresi quelli che detengono una seconda cittadinanza, non è stato formalmente concesso di lasciare il Paese e le autorità hanno sconsigliato di ricorrere a servizi clandestini o mezzi di fortuna, anche a fronte della pericolosità dell’attraversamento delle frontiere giordana ed egiziana. Eppure basta leggere i social per capire che non sono pochi i cittadini dello Stato ebraico che si sentono intrappolati, rammaricandosi di non aver lasciato la barca prima che affondi.
Già dalla salita al potere dell’ultimo Governo Netanyahu, un numero non indifferente di israeliani ha scelto la strada della «relocation» o comunque ha spostato capitali e acquistato immobili all’estero preoccupati dalle sorti del Paese governato da un gruppo di fanatici irresponsabili. Il peggioramento delle condizioni di vita in Israele in seguito al 7 ottobre non ha fatto che alimentare la ricerca di pace e di una qualità migliore di vita a prezzi più contenuti: le comunità di israeliani all’estero si vanno sempre più allargando. Il fenomeno è così massiccio all’interno della società ebraica che chi ne avrebbe la possibilità non può esimersi dal confrontarsi con l’interrogativo del perché rimanere. Alcuni restano per motivi religiosi, altri perché hanno i figli nell’esercito, altri ancora per prendere parte alle proteste contro il Governo nella speranza di contribuire a un cambiamento di rotta, molti scoraggiati dall’aumento vertiginoso degli episodi di antisemitismo in tutto il mondo, che portano al contrario non pochi ebrei della diaspora a scegliere di immigrare in Israele. Negli ultimi tempi tuttavia, complice la chiusura dei cieli e la percezione di impotenza rispetto al
drammatico incremento del pericolo rappresentato dalla risposta militare iraniana, l’angoscia di aver fatto la scelta sbagliata, sottovalutando la situazione, assale non poche persone. Sollecitata anche dalla preoccupazione di amici e parenti che chiamano dall’estero ansiosi per il nostro destino, nelle lunghe notti insonni trascorse nei rifugi tra una sirena e l’altra, mi risuonano nelle orecchie le parole del nonno che, disperato per la perdita dei suoi cari ad Auschwitz, ripeteva di aver cercato invano di convincere la sua famiglia e quella della nonna a lasciare Padova nel 1944... Rifletto anche sulla fuga dei miei bisnonni scappati da Odessa durante la Rivoluzione e sui racconti dei tanti amici scappati dai Paesi arabi negli anni dal ’48 al ’67, un intero repertorio di pericoli e fughe, lasciando le case con il minimo indispensabile per salvarsi la vita.
Da tempo in tanti erano preoccupati dalle sorti del Paese, governato da un gruppo di fanatici irresponsabili
Eppure questa volta è diverso, doveva essere l’ultima stazione, pensavamo di essere arrivati a casa, e ora che la casa brucia, checché ne dicano gli slogan ottimisti della propaganda, lasciarla è troppo doloroso. Nella ricerca di una risposta sono incappata in una conversazione tenuta nel 2020 dallo scrittore David Grossman allo Shalem College nell’ambito della serie di incontri dal titolo La narrazione israeliana: «Dopo quello che è successo (in riferimento alla morte del figlio Uri), mi sono chiesto, ci siamo chiesti: dovremmo restare qui? (…) Io vivo qui perché per me è il luogo in cui la mia vita ha un senso a cui voglio aggrapparmi. Questo posto è per me rilevante come nessun altro. Qui, anche le cose che mi fanno impazzire diventano rilevanti per me, comprendo i codici che danno origine a tutta una serie di comportamenti che mi fanno andare in escandescenza… E non vorrei vivere da nessun’altra parte, perché voglio vivere in un posto per me significativo. Voglio che qui sia il futuro dei miei figli e dei miei nipoti, e voglio che questo posto sia la casa. Penso che nel corso degli anni la definizione di una persona ebrea e della collettività ebraica sia stata quella di qualcuno che non si è mai sentito
Nessuno vince mai
L’analisi ◆ Abbattere un regime e poi cambiarlo?
Lucio Caracciolo
a casa nel mondo. Anche nei luoghi amichevoli aleggiava sempre qualche ombra, qualche dubbio insieme alla possibilità di un rapido sradicamento e di una rapida espulsione o, Dio non voglia, di una distruzione. E Israele era destinato ad essere “la casa”, il luogo in cui ti senti al sicuro, dove hai risolto i tuoi rapporti con i vicini (…). Per me è difficile e doloroso che dopo oltre 72 anni di sovranità non abbiamo ancora raggiunto il punto in cui percepiamo davvero quello che dovrebbe essere il conforto di una persona all’interno della propria casa e si parla molto dei prezzi della situazione, della violenza e dell’occupazione. Ma c’è qualcosa che non siamo ancora riusciti a ottenere (...): essere a casa, percepire il conforto, il grado di sicurezza interiore. La tranquillità sapendo che vedrai dei figli per i tuoi figli, e loro vedranno figli e figli dei figli. (…) Da noi la terra trema sotto i piedi e le nostre angosce dettano le nostre vite. Ma la realtà non è fatta solo di ansie. A volte, le cose che facciamo e il modo in cui reagiamo a queste ansie possono anche cambiare la natura dei pericoli. (...) Se non faremo rapidamente qualcosa per cambiare la nostra situazione, essa diventerà molto brutta. E come persona a cui sta a cuore questo posto e che vuole che questo posto sia la mia casa, non posso permettermi il lusso di rinunciare al cambiamento».
Cambiare rotta
In questi cinque anni le cose non solo non sono cambiate, ma sono estremamente peggiorate, così come la percezione di sicurezza si è deteriorata per tutti quelli che risiedono in Israele. Quello che invece non è mutato è il legittimo desiderio degli ebrei di appartenere ad un luogo, una necessità che non trova risposta nel resto del mondo al punto da giustificare, apparentemente, la sopportazione e la causa di tanta sofferenza per sé e per gli altri. Questo dolore è tuttavia anche una testimonianza di quella questione ebraica che l’Europa e l’Occidente non hanno mai saputo risolvere, ma solo dislocare, continuando di fatto a mettere a repentaglio la vita degli ebrei e di altri popoli. Minaccia nucleare o no, è necessario un urgente cambiamento di rotta e di mentalità, ma soprattutto servono soluzioni politiche e una nuova leadership sinceramente desiderosa di promuoverle.
Regime change. Il termine è di moda. Ma cosa significa? Letteralmente, il cambio di regime in uno Stato che si considera nemico. La definizione si presta a diverse interpretazioni. Soprattutto negli Stati Uniti, dove intere generazioni di strateghi, politici, comunicatori e accademici si sono formate attorno a questo lemma. Cambiare un regime nemico vorrebbe dire disporne di uno considerato amico, o almeno non pericoloso, da installare al posto dell’uscente. E riuscire a imporlo allo Stato preso di mira o a ciò che ne resta. Di norma succede che si riesce a liquidare leader e Governo senza però sostituirlo con qualcuno di fiducia. Pensiamo a Miloševič in Jugoslavia/Serbia, Saddam Hussein in Iraq, Gheddafi in Libia, i talebani in Afghanistan. Nei primi tre casi i simboli del Male assoluto – per facilitarne l’eliminazione è bene paragonarlì a Hitler o Stalin – sono stati battuti e uccisi (sulla fine del leader serbo in carcere girano diverse versioni); nel quarto Trump e Biden hanno dovuto piegarsi al ritorno dei nemici al potere essendo falliti i tentativi di imporre una «testa di turco» (di americano) a Kabul. Se guerra e pressione combinata Usa-Israele produrranno il crollo del regime dei pasdaran, vedremo se ne deriverà una leadership iraniana disposta a collaborare con il Grande e il Piccolo Satana.
I regimi si abbattono, non si cambiano. Chi oggi li abbatte difficilmente ha il potere di scegliere e imporre al vinto un nuovo assetto consono ai propri interessi. Restando al caso americano – giacché Washington è titolare del marchio e protagonista dei massimi interventi di regime change – il problema è che gli Usa sono refrattari ad assumersi la responsabilità dei nemici sconfitti. Regime change sì, Nation building no. Di qui la deludente conclusione delle guerre minori o rilevanti combattute dagli Usa nell’ultimo mezzo secolo. Si dice regime change e si pratica regime killing Il risultato netto può essere di almeno due tipi.
Nel primo caso, si abbatte la «testa del serpente» e con essa crolla il suo Stato. Vale per la Jugoslavia spacchettata in Stati (Croazia, Serbia e Slovenia), mini-Stati (Montenegro e Kosovo) o pseudo-Stati (Bosnie musulmana, croata e serba), in attesa di regolare i conti sempre provvisori nel prossimo giro di sparatorie balcaniche. Analoga situazione per l’Iraq, spartito in contendibili sfere di influenza, specie iraniana e turca. E per le Libie, dove Turchia e (meno) Russia si sono installate in Tripolitania e in Cirenaica, mentre le milizie si agitano per accaparrarsi risorse
e terre nell’ex feudo di Gheddafi. Il ritorno dei talebani a Kabul non significa affatto il loro pieno controllo dello spazio afghano. Mentre facilita la penetrazione cinese, avversario massimo del Paese che vi ha prodotto il cambio di regime quale rappresaglia per l’11 settembre (non certo orchestrato dagli «studenti coranici» locali). Risultato: vinci il primo tempo, magari anche per sei a zero, poi perdi il secondo e il match per getto della spugna. Non un modello auspicabile. L’ascesa del secondo Trump molto deriva dai fallimenti seriali sopra accennati. E questo ci porta al secondo caso.
Nel quale al regime killing si accoppia una forma di regime change nella potenza che lo ha attuato. Oggi gli Stati Uniti sono investiti da un cambio di regime voluto e in parte già attuato dai trumpisti, che hanno profittato del fiasco della strategia neocon, titolare del marchio «cambio di regime», sviluppata in ambito democratico, culturalmente liberal, da Clinton in avanti. Possiamo considerare il nesso fra globalismo geoeconomico e avventurismo geopolitico quale premessa logica e fattuale della rinuncia di Trump all’americanizzazione del pianeta – via sequela di cambi di regime – per evitare la mondializzazione dell’America. Ovvero la sua fine per suicidio. Il cambio di regime negli Usa è in fase avanzata. Scaturisce dalla crisi di identità prodotta dal fallimento della globalizzazione e dalla stanchezza di impero che ne deriva. Gli americani non hanno voglia di avventure. E se saranno costretti a combattere, meglio usare anzitutto uomini e risorse altrui. Il che produce il rischio che i clienti usino il padrone. Ciò che sta accadendo nel conflitto Israele-Iran potrebbe diventare l’esempio massimo di tale tendenza. Con esiti difficilmente gestibili da chi si è fatto eleggere anche quale garante della rinuncia a combattere guerre altrui.
Ancora più netto il cambio di regime a Gerusalemme, mentre lo Stato ebraico cerca di produrlo a Teheran. Comunque finisca la guerra scatenata da Netanyahu, le fibre già logore della società e delle istituzioni israeliane stanno virando verso un caos autoritario, segregazionista e teocratico, dove si disputa sui confini che lo Stato dovrebbe ereditare dal Libro. Con relativo cambio di regime di vita delle diaspore ebraiche in giro per il mondo, per le quali teoricamente Israele dovrebbe garantire. Chi di regime change ferisce di regime change perisce? Forse no, ma a forza di provare a cambiare il mondo si finisce per cambiar sé stessi.
Trump
talebani. (Wikipedia)
Il miraggio di un congedo parentale nazionale
Berna ◆ Bocciate due iniziative per potenziare il sistema attuale e c’è chi teme dei passi indietro: meno settimane per le madri
Roberto Pota
Questa è una storia fatta di tanti rifiuti e di pochi «sì», questa è la storia dell’assicurazione maternità in Svizzera. Un lungo percorso a cui ora si è aggiunto un ennesimo «no», giunto questa volta dal Consiglio nazionale, che lunedì scorso ha bocciato due iniziative cantonali, in arrivo dal Ticino e dal Vallese. Due proposte che chiedevano l’introduzione di un congedo parentale a livello nazionale, per irrobustire il modello attualmente in vigore. Oggi alla nascita di un bambino la neo-mamma può usufruire di un congedo di 14 settimane, il neo-papà ne ha a disposizione soltanto due. Dal 2021 è stato introdotto anche un congedo per i padri, chiamati anche loro a dare il proprio contributo alla crescita dei figli, agevolando così il ritorno al lavoro e la carriera professionale delle loro partner.
Oggi la neo-mamma può usufruire di un congedo di 14 settimane, il neo-papà ne ha a disposizione soltanto due
Proprio per questo, un anno fa e ad ampia maggioranza, il Gran Consiglio ticinese aveva dato il suo via libera alla propria iniziativa cantonale che chiedeva di introdurre su scala nazionale un congedo di almeno 20 settimane. Alla madre ne sarebbero rimaste 14, il padre ne avrebbe avute almeno 4, mentre le due settimane rimanenti sarebbero state a disposizione dei genitori, da suddividere liberamente all’interno della famiglia. Il rifiuto del Consiglio nazionale, la settimana scorsa, è motivato soprattutto dalla volontà di non estendere il numero di settimane a disposizione dei neo-genitori, che per UDC, PLR e una parte del Centro deve rimanere fermo a 16 settimane. A loro dire non è il momento di generare ulteriori costi sociali, dato che le casse della Confederazione sono già messe sotto pressione da una serie di altre richieste.
In discussione a Berna ci sono anche altre due iniziative cantonali su questo tema, in arrivo da Ginevra e dal Giura. Due proposte ferme a livello di lavori commissionali e su cui, a detta della sinistra, pesa persino lo spettro di una riduzione del congedo di cui oggi possono usufruire le neo-mamme. E qui va ricordato quanto affermato davanti al Consiglio nazio-
nale dalla deputata dell’UDC Diana Gutjahr. A suo dire, a partire dalle due iniziative romande si dovrà elaborare un «modello flessibile» per la suddivisione di un massimo di 16 settimane di congedo. «Occorre elaborare una soluzione finanziariamente equilibrata e capace di raccogliere il necessario consenso politico», ha fatto notare Gutjahr, lunedì scorso in aula a Berna. Questo potrebbe voler dire, si teme a sinistra, che in futuro alle neo-mamme venga assegnato un numero di settimane inferiore alle attuali 14, e questo per accrescere il congedo a disposizione dei padri. «Si tratta di un brutto colpo per le mamme e un passo a ritroso per l’uguaglianza tra uomo e donna», ha scritto in un comunicato la co-presidente del partito socialista Mattea Mayer. Se ne saprà di più quando le due iniziative di Ginevra e del Giura verranno discusse dal Consiglio degli Stati, in una delle prossime sessioni delle Camere federali. Quanto capitato la settimana scorsa è solo l’ultimo capitolo di una lunga storia, iniziata nel lontano 1945. Sono trascorsi ben 80 anni dall’introduzione
nella Costituzione federale dell’articolo 116, che dice: «La Confederazione istituisce un’assicurazione maternità. Può essere obbligato a versare contributi anche chi non può usufruire delle prestazioni assicurative».
Fu quello di allora un inizio con i fiocchi per le famiglie del nostro Paese, a cui però ha fatto seguito un cammino tutto in salita, e questo perché si è sempre fatta molta fatica a elaborare una legge di applicazione su questo tema. Nella Svizzera tedesca, in particolare nelle regioni rurali, la maternità è spesso vista come una questione privata, da gestire all’interno delle famiglie, con la mamma chiamata più del papà a occuparsi dei pargoli. Pure dopo il 1971, quando il diritto di voto venne finalmente esteso anche alle donne, l’assicurazione maternità è sempre stata considerata il «brutto anatroccolo» della politica sociale svizzera. Ci sono volute ben quattro votazioni popolari prima di arrivare all’assicurazione maternità che conosciamo oggi, approvata nel 2004. Si tratta di un’indennità di 14 settimane per le mamme già attive professionalmente, un aiuto che
ammonta all’80% dello stipendio e che è finanziato attraverso le indennità per le perdite di guadagno. È la base di quello che chiamiamo congedo che oggi coinvolge anche i padri, seppur in minima parte. «Siamo al trentunesimo rango», ha affermato in Parlamento la friburghese Valérie Piller Carrard. «Siamo ultimi nella classifica sulle politiche in favore delle famiglie stilata dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico». Ultimi e ben lontani da altri Paesi, come ad esempio la Norvegia, che guida questa graduatoria e in cui i neo-genitori hanno a disposizione ben 49 settimane di congedo parentale, e questo al 100% dello stipendio. In Germania questo congedo può arrivare a tre anni, anche se solo 14 mesi vengono coperti dal punto di vista finanziario. In Italia i genitori possono usufruire di 10 mesi, un periodo che può essere utilizzato nei primi 12 anni di vita del bambino. L’indennità è piuttosto bassa, pari al 30% dello stipendio, anche se da quest’anno sono previsti degli aumenti puntuali fino all’80%.
In Svizzera proprio due mesi fa è
stata lanciata – dall’associazione Alliance F – una nuova iniziativa popolare sul tema, chiamata «per un congedo familiare», che chiede di estendere le indennità a beneficio dei genitori per 36 settimane, da suddividere in modo paritario tra mamma e papà. «Un Paese che vuole sia i figli che la manodopera deve investire nella conciliazione tra famiglia e lavoro», si legge tra le motivazioni che accompagnano questa iniziativa. La via verso un nuovo voto popolare è dunque aperta. Nell’attesa e in conclusione val la pena di ritornare al 1877, anno in cui il nostro Paese introdusse il divieto di lavorare per otto settimane, a protezione della salute delle donne in gravidanza e per le neo-mamme. Una tutela non retribuita che viene considerata come una sorta di «primo vagito» del congedo parentale. Allora la Svizzera fu la prima in Europa a varare una norma di questo tipo. Un primato continentale che ci arriva dalla storia e che oggi può servire da sprone per smettere gli scomodi panni dell’ultimo della classe in Europa, quando di mezzo ci sono culle e bambini da crescere.
L’editore e curatore Roberto Koch ripercorre la storia umana e professionale dell’immenso fotografo brasiliano
Sebastião Salgado, scomparso recentemente
Pagine 20-21
Nei meandri della famiglia
A Claire Jiménez è riuscito un romanzo profondo e divertente, in cui si prendono sotto la lente le delicate dinamiche che contraddistinguono ogni famiglia
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I primi quarant’anni del Museo Villa dei Cedri
Mostre ◆ Una mostra ripercorre la sua storia mettendo in risalto il suo forte legame con il territorio
Alessia Brughera
Tra il 1870 e l’inizio del Novecento la costruzione della stazione e della rete ferroviaria a Bellinzona trasforma radicalmente la città, plasmandone non solo l’aspetto urbano, ma anche la crescita economica, sociale e culturale. Proprio negli anni in cui la Turrita sta cambiando la sua funzione nel contesto cantonale, dapprima quale sede del Governo in alternanza con Lugano e Locarno, poi quale capitale del Canton Ticino, diventa così un importante nodo di collegamento tra il nord e il sud dell’Europa, avviandosi verso un’espansione e una modernizzazione molto profonde.
Lo sviluppo che investe la città innesca un circolo virtuoso che favorisce non poco anche l’interesse per il sapere, in particolare per il collezionismo nel campo delle arti, dell’archeologia e delle scienze naturali. Sculture, dipinti e reperti antichi, grazie alla presenza della ferrovia, possono ora viaggiare con facilità ed entrare a far parte delle preziose raccolte di studiosi e appassionati del territorio, elevando Bellinzona a importante centro di conservazione e di scambio culturale.
A conferma di ciò è la nascita, nel 1912, del Museo civico di Bellinzona, allestito nel castello di Svitto (Montebello) e custode di beni provenienti da strutture pubbliche, scavi, chiese, arsenali, municipi e collezioni private, molti dei quali confluiranno qualche decennio più tardi proprio nel patrimonio della Civica Galleria d’Arte, andando a costituirne il nucleo primigenio.
Bisogna aspettare il 1985, infatti, per vedere inaugurata questa nuova istituzione cittadina, oggi Museo Villa dei Cedri. A ospitarla è una dimora privata, acquistata dal Comune di Bellinzona nel 1978, con alle spalle diversi passaggi di proprietà fra le famiglie benestanti della città (i Farinelli, ad esempio, o gli Stoffel) che ne hanno modificato l’iniziale aspetto dalle forme tardo neoclassiche.
Sotto la guida del suo primo conservatore, Matteo Bianchi, la galleria non soltanto onora le disposizioni che accompagnano le donazioni, ma vede crescere la propria collezione secondo un criterio che tiene ben presenti i pittori svizzero-lombardi dell’Ottocento e del Novecento, nonché le figure del panorama contemporaneo regionale, per poi aprirsi alla raccolta di opere su carta e all’interesse per l’arte informale.
I quarant’anni di attività del Museo Villa dei Cedri, la cui storia, come abbiamo visto, è strettamente connessa alle vicende di Bellinzona a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, vengono celebrati attraverso una mostra che racconta il contesto culturale che ha preparato il terreno per la nascita della galleria cittadina. E viene fatto ripercorrendo il fitto intreccio di
connessioni tra l’universo pubblico e quello privato, così come tra lo scenario locale e quello nazionale, in cui collezionisti, mecenati, curatori, studiosi o semplici amatori d’arte hanno preso attivamente parte allo sviluppo museale della regione.
È così che quella che quattro decenni fa si presentava come una raccolta di poche centinaia di opere, nel corso del tempo è arrivata a includere oltre settemila lavori che testimoniano non solo come da una parte l’istituzione sia sempre stata fortemente legata al territorio, ma anche come, dall’altra, sia riuscita a intessere valide relazioni oltre i confini cantonali.
La rassegna ricostruisce molto bene la sua storia attraverso manufatti di vario tipo, tra cui dipinti, sculture, reperti archeologici e oggetti d’arte applicata, ma anche lettere e do-
cumenti, individuando alcuni temi principali, strettamente correlati tra loro, da cui si dipartono tante narrazioni che restituiscono la complessità, la ricchezza e il fascino di questa vicenda museale.
Dopo l’iniziale focus sull’importanza della ferrovia nel favorire la circolazione delle opere e nell’offrire nuove opportunità agli appassionati d’arte, ci si addentra nel mondo delle famiglie patrizie bellinzonesi che hanno dato un grande apporto all’incremento delle collezioni della città.
Tra queste ci sono i Varrone, il cui impegno culturale profuso è rappresentato in rassegna dal dipinto Campagna romana, realizzato nel 1855 da uno dei membri del casato, il pittore Johann Varrone, e donato nel 1869 al Municipio di Bellinzona, a segnare l’incipit della raccolta d’arte cittadina.
nufatti appartenuti al noto medico, il quale in vita aveva anche coltivato il sogno di trasformare la sua dimora in una casa-museo, troviamo esposto, tra gli altri, un raro mosaico del XVIII secolo.
Quanto il ricco bacino di opere d’arte del territorio sia di particolare rilevanza lo dimostra il contributo che il distretto del Bellinzonese dà alla costituzione del patrimonio del Museo nazionale svizzero inaugurato a Zurigo nel 1898, facendovi confluire, anche grazie all’intermediazione di figure quali Edoardo Berta, numerosi oggetti e dipinti. Una sala è dedicata proprio a questo tema, evidenziando la partecipazione della città alla creazione di un’identità culturale nazionale.
Se i tanti dipinti e disegni del pittore Antonio Ciseri esposti in mostra attestano la solida presenza dei lavori di questo maestro tra gli amanti dell’arte bellinzonesi, sono poi alcune opere dell’importante lascito di Emilio Sacchi a testimoniare l’alta qualità della collezione cittadina. Dei ma-
Il continuo ampliamento della raccolta d’arte, che oltre alla donazione di Sacchi annovera dapprincipio quella del banchiere Adolfo Rossi, figura determinante nella creazione del museo avendo vincolato il suo significativo lascito proprio alla costituzione di una galleria civica aperta al pubblico, è documentato da numerosi altri apporti eccellenti. Quello di Athos Moretti, ad esempio, imprenditore farmaceutico che nel 1987, insieme alla moglie Dina, regala dodici opere al Museo Villa dei Cedri, tra cui Ospizio del passo di San Bernardino del pittore italiano Federico Ashton. Interessanti poi sono sia la sezione dedicata agli intellettuali ticinesi e italiani che gravitano attorno al professore di filologia romanza Gianfranco Contini, e che, proprio grazie a lui, sviluppano una grande sensibilità per l’arte, sia l’approfondimento sulla raccolta appartenente al già citato Matteo Bianchi, conservatore della Civica Galleria d’Arte per quasi vent’anni, attraverso l’esposizione di opere provenienti dalla Casa Museo Luigi Rossi in Capriasca. Dopo la densa trama delle vicende legate alla nascita e alla crescita del Museo Villa dei Cedri, con la miriade di personalità che nel corso dei decenni hanno dato un contribuito fondamentale in tal senso, non poteva mancare in mostra uno sguardo sul presente e sul futuro. Dalle donazioni più recenti, come quella che, grazie ai figli di Eros Bellinelli, ha arricchito nel 2020 la collezione di quasi seicento opere d’arte di proprietà del compianto giornalista ticinese, alle collaborazioni che l’istituzione sta portando avanti con altri spazi privati bellinzonesi, come il MACT/CACT fondato da Mario Casanova nel 1994, fino ad arrivare agli ultimi acquisti di lavori contemporanei e all’organizzazione di rassegne che si focalizzano sempre di più su un tema molto caro al museo, il rapporto tra arte e natura. D’altra parte con i tanti dipinti a soggetto paesaggistico che fin dalle origini hanno caratterizzato le raccolte della galleria cittadina e con lo splendido parco dai mille profumi e colori che circonda la villa, non poteva che essere così.
Dove e quando
Condividere l’arte. Tra universi pubblici e privati. Bellinzona e oltre. Museo Villa dei Cedri, Bellinzona. Fino al 3 agosto 2025. Orari: me-gio 14-18; ve-do e festivi 10-18; lu e ma chiuso. www.museovilladeicedri.ch
John Quincy Adams. Ritratto
Adolfo Rossi, 1929, Olio su tela,
x 90,5
Il viaggio di Sebastião Salgado tra
Intervista ◆ L’editore e curatore Roberto Koch, attraverso inedite curiosità, ricorda il fotografo brasiliano da poco scomparso come uomo
Manuela Mazzi
Uomini in equilibrio su scale di legno, chi a torso nudo chi in magliette sgualcite, riemergono sporchi di fango e sudore da un paesaggio scavato a mano nella terra, gradino dopo gradino; in spalla sacchi pesanti spinti verso l’alto lungo pareti babeliche: nella leggendaria immagine della miniera d’oro di Serra Pelada, Brasile, Sebastião Salgado ritrae l’umanità come un’onda tenace, affamata di futuro; una tensione verso l’alto, così satura di fatica e desiderio, che richiama l’ambizione umana di superare i limiti, di «toccare il cielo», rievocando il mito babilonese già ritratto da Bruegel. Rivederla oggi, alla notizia della sua scomparsa, è come scorgere un’ultima volta la scena madre di un film irripetibile, qualcosa tra il Pasolini più materico e l’epica senza eroi.
Pochi fotografi sono riusciti a raccontare la complessità del mondo con uno sguardo tanto coinvolto quanto controllato. Salgado lo ha fatto riuscendo spesso a evitare la pietà, rifuggendo il cinismo, cercando invece quella soglia in cui l’estetica e la giustizia si sfiorano. Ha smesso di fotografare. Non di mostrarci come si fa: guardare, sempre, senza sottrarre dignità.
Per comprendere davvero come operasse, quali principi guidassero la sua ricerca e che segno abbia inciso nella cultura visiva contemporanea l’opera di Salgado, abbiamo parlato con Roberto Koch: fondatore della casa editrice Contrasto, storico curatore di molte sue esposizioni in Italia, e
compagno di viaggio nel racconto visivo di Salgado. Un osservatore privilegiato, in grado di narrare tanto il professionista quanto l’uomo dietro l’obiettivo.
Roberto Koch, nel corso degli anni lei è stato vicino al processo creativo di Salgado. C’è qualcosa che lo rendeva davvero unico?
Salgado ha inventato, di fatto, un modo di fare fotografia applicabile solo a lui, dando forma a una sorta di struttura narrativa enciclopedica. Studiava per anni un tema, prima ancora di iniziare a fotografare: raccoglieva documenti, testimonianze e dati per determinare le necessità documentative di un determinato soggetto che veniva indagato e poi fotografato ovunque, spostandosi in centinaia di Paesi in tutto il mondo, in tutti i Continenti. Applicò questo suo metodo sia all’archeologia del lavoro industriale – che fu il primo tema da lui affrontato, cioè La mano dell’uomo – sia al tema delle migrazioni. I suoi sono sempre stati lunghi progetti di 6, 7, 8 anni. Finita la raccolta delle immagini, ne faceva una selezione molto accurata, lunga, con ripensamenti, e nuove selezioni meticolose, fino ad arrivare a una scelta definitiva, che poi faceva stampare; e sono proprio quelle opere che in qualche modo costituiscono il racconto divulgativo dei suoi lavori.
Una produzione autoriale completa e… complessa. Enciclopedica, sì, non c’è dubbio,
ogni progetto fino all’allestimento delle mostre, è sempre stato frutto di sue produzioni, dalla ricerca delle storie, alla raccolta delle informazioni legate a ogni singola fotografia, allo studio di movimenti economici che sovrintendono un determinato atto racchiuso nei suoi scatti, alla selezione, ai formati, a tutto, alla musica, ai testi e così via. Un unico autore ma un autore polivalente e molto, molto efficace sul piano della divulgazione per cui, al tempo stesso, molto semplice da capire. Una sem-
plicità voluta proprio per permettere di veicolare ciò che sta dietro il lavoro industriale, dietro le migrazioni, dietro i meccanismi economici che regolano e sovrintendono l’insieme delle fotografie che lui mostra, come quelle che stanno alla base delle immagini di uno dei suoi primi lavori molto importanti, quello della miniera a cielo aperto di Serra Pelada, in Brasile, che è spettacolare.
…e un po’ inquietante. Ma anche straordinariamente bello,
straordinariamente vivo. In questo lavoro, per esempio, c’è un equivoco che lui ha voluto subito chiarire: le persone che ha ritratto non sono schiavi di nessuno, sono cercatori che, quel lavoro, lo vogliono fare perché è una fatica finalizzata alla libertà che vogliono acquisire attraverso la speranza di trovare dell’oro da potersi tenere. Le condizioni sono estenuanti, è vero, sono drammatiche, però è un affresco di una modalità contemporanea, è vera e rappresenta come le persone devono
Sebastiano Salgado, dalla serie Ghiacciai, 1995-2020; sotto, Miniera d’oro Serra Pelada, 1986; a destra, dettaglio della Catena delle montagne del Marauiá, territorio indigeno yanomami, Municipalità di São Gabriel da Cachoeira, Stato dell’Amazonas, Brasile, 2018. (Fotografia courtesy dell’artista)
le ferite del pianeta
profondamente laico, razionale, con un’etica dello sguardo quasi scientifica, seppur intensamente empatica
darsi da fare per poter vivere, o almeno, sopravvivere.
Molti leggono nelle sue opere un senso del sacro. Era un intento consapevole da parte sua?
No. Salgado era laico, profondamente darwiniano. Diceva: «Se esiste un Dio, per me è Darwin». Sebbene, in effetti, titoli come Genesis o alcune immagini, specie quelle che rievocano archetipi e figure iconiche, possano richiamare suggestioni religiose, ma in modo del tutto involontario. Non è che si facesse guidare dalla Bibbia, semplicemente quelle immagini portano con loro un’aura che può evocare quel tipo di sensazioni. Però è vero invece che il modo in cui lavorava poteva evocare una dimensione quasi rituale, anche senza trascendenza. Ricordo che durante il progetto La mano dell’uomo, tra di noi lo definivamo «il raìs» – come il capo della tonnara, colui che dà l’avvio e guida la mattanza dei tonni. Era un modo affettuoso ma preciso per dire che Salgado era quello che dava la direzione, il ritmo, l’impronta iniziale al lavoro. In lui non c’era religiosità, ma un senso del gesto necessario, dell’ordine profondo delle cose, quasi come se ogni scatto fosse parte di una cerimonia. Un’etica profonda, più che una fede.
A proposito di etica, c’è mai stato un momento in cui ha deciso di non fotografare?
Sì. Salgado è sempre stato un uomo rispettoso degli altri esseri viventi. Ricordo un episodio in Amazzonia, tra i bambini di una tribù che all’interno di una tenda facevano un gran chiasso giocando: tramite l’interprete cercò di chiedere alla madre di uno di questi bambini se potesse cortesemente invitare il figlio e i suoi amici a non fare tutto quel rumore, ma l’interprete, che lo aiutava con gli indigeni, gli ripose che non poteva farlo perché in quella tribù il concetto di divieto non esisteva: «Se un bambino fa una cosa vuol dire che la deve fare. E quindi la parola “no” e la parola “non si può” non sono cose che posso usare». Salgado, non insistette e cercò un’altra soluzione. Lui faceva le cose secondo quello che era bello, che era interessante, che era intelligente e al tempo stesso che era possibile. Alle Galapagos, ad esempio, si mise a quattro zampe per essere allo stesso livello degli occhi dell’animale che voleva fotografare, certamente per catturare qualcosa di più intimo, ma soprattutto per non mettere paura all’iguana. Cercava il modo più etico per ottenere l’immagine, mai l’aggressione. La sua attitudine era quella di creare condizioni che fossero adeguate.
Amava tanto gli animali… Raccontava che, sempre alle Galapagos, aveva fatto, per così dire, amicizia con un falco. Questo falco, incuriosito da un essere umano – che
probabilmente non aveva mai visto in vita sua per cui nemmeno lo temeva – prese a seguire Salgado durante l’intera risalita di un monte,
Ghiacciai in mostra a Trento
Tra le montagne del Trentino prende forma un dialogo fra arte e scienza per raccontare un tema cruciale per la nostra epoca: il destino dei ghiacciai sotto la minaccia del cambiamento climatico. Fino al 21 settembre 2025, il Mart di Rovereto e il MUSE di Trento accolgono Ghiacciai. L’esposizione – nata dall’opera di Sebastião Salgado, a cura di Lélia Wanick Salgado e realizzata in collaborazione con Contrasto e Studio Salgado – fa parte dell’Anno internazionale dei ghiacciai, promosso dall’ONU.
senza mai distrarsi dal suo cammino. Quando Salgado si fermava a osservarlo, il falco si metteva a fare dei lunghi volteggi.
Al Mart si potranno scoprire oltre 50 immagini di ghiacciai da tutto il mondo, in grande e grandissimo formato, mentre al MUSE è allestita un’installazione unica dedicata ai paesaggi del Parco Kluane in Canada. Un’opportunità per esplorare la bellezza e la fragilità di questi ambienti vitali per la Terra.
Per dettagli e prenotazioni: www.mart.tn.it/mostre/ sebastiao-salgadoghiacciai-157526
Nel libro Amazonia spieg a di aver inventato una storia «secondo la quale avevo domato un giaguaro a mani nude» raccontandola a un indigeno, che si arrabbiò molto. Salgado era un narratore o un mitomane?
Era un cantastorie. Aveva una capacità di osservazione finissima e si adattava all’atmosfera consentita dal dialogo. Non va poi dimenticata la difficoltà nella comunicazione, date le tante lingue che si parlano in Amazzonia. A volte, forse, testava i limiti culturali di chi aveva di fronte. Ma mai in modo irrispettoso. Era curioso, un buon narratore, non megalomane.
Esistono «eredi» di Salgado? Ha avuto allievi?
No. Ha trascorso tutto il tempo a fotografare. Non ha lasciato allievi diretti. La sua testimonianza è nel-
le immagini. Un unicum. Difficile immaginare qualcuno che possa replicarne davvero il percorso.
Sono in programma altri progetti postumi?
Sì. Ci sono molte mostre che ancora non sono state fatte, una di queste, ad esempio, si intitola Ghiacciai ed è attualmente in corso a Trento, visibile fino al 21 settembre. È inedita, e voluta da lui prima della sua scomparsa. Salgado ha lasciato moltissimo materiale, e altri nuovi progetti sono in corso.
Come parlare di ghiacciai senza pensare alle nostre Alpi?
Delle Alpi ha parlato tantissimo perché le adorava. Pensi che veniva a stampare qui, in una tipografia di Trento, e due o tre volte preferì affrontare il viaggio da Parigi in macchina proprio per poter attraversare le Alpi e godere di tutto lo spettacolo che offre il valicarle.
Avrà sicuramente valicato anche il Gottardo una volta nella vita sua… Sì, sicuramente.
È a conoscenza di suoi legami particolari con la Svizzera?
Negli ultimi anni ha avuto una lunghissima collaborazione con la Zurich Insurance, il gruppo delle assicurazioni. Questa collaborazione ha dato il via a un grandissimo progetto di sostegno chiamato Zurich Forest Project, che ha come scopo la riforestazione della Mata Atlantica in Brasile, secondo l’ideazione di Sebastião e Lélia Salgado attraverso il loro Instituto Terra.
Questo ha consentito di triplicare il numero previsto delle piante da mettere a dimora (ndr: il progetto iniziale sperava nella piantumazione di un milione di alberi nativi su circa 700 ettari): sono già arrivati a più di 3 milioni e il progetto prosegue, anche grazie alla mostra Amazonia , alla quale è legato.
Rivedendo oggi lavori come Other Americas o La mano dell’uomo, nota qualcosa di profetico?
Sì. Circoscrivendo tutte le condizioni del mondo riguardo, per esempio, il tema della Terra, ha certamente anticipato la crisi climatica e altri problemi ambientali, e lo ha fatto sia come fotografo sia come persona, agendo in modo concreto: ha creato le condizioni per cui potesse venir riforestata la sua terra e fatti tornare a scorrere i fiumi nella sua fazenda; alla foresta che sta tornando rigogliosa, ora si affianca la presenza di fauna selvatica, che è una testimonianza della vitalità dell’ambiente naturale. È stato un reporter con una forza narrativa rara, e grazie a questo ha vissuto una vita molto felice. Molto felice e piena.
Il destino delle sorelle Ramirez
Narrativa ◆ Un’opera divertente e scritta con brio, ma capace di stimolare una serie di riflessioni
Simona Sala
Fare ridere in letteratura non è facile. E che a fare ridere siano delle donne è considerato (chissà poi perché) ancora più difficile. Eppure, si ride molto, in questo romanzo di Claire Jiménez, scrittrice statunitense cresciuta a Brooklyn e Staten Island, ma dalle chiare – e rimarcate – origini portoricane (tant’è vero che ha dato vita anche all’archivio digitale Puerto Rican Literature Project).
Nel romanzo di Claire
Jiménez la vicenda di quattro donne accomunate da amore e questioni identitarie
Il piccolo gineceo che fa da cuore pulsante al romanzo vincitore del Pen/ Faulkner Award per la Narrativa 2024, è composto, in una gerarchizzazione che obbedisce chiaramente al matriarcato, da una madre portoricana, Dolores, con tutte le passioni e le contraddizioni del caso (tra cui le amate sedute in una di quelle chiese libere in cui non di rado si cade preda di deliri mistici), dalla figlia Nina (una laurea in tasca e zero prospettive – è impiegata da Mariposa’s, dove vende reggipetti e culotte, tenuta d’occhio da una capa vessatrice), da Jess (operatrice sociosanitaria e mamma, moglie di un «bianco» particolarmente accondiscendente) e dalla grande assente, at-
torno a cui ruota però tutto il romanzo: Ruthy Ramirez, figlia e sorellina ribelle dagli inconfondibili capelli rossi, scomparsa nel nulla a tredici anni. L’assenza di Ruthy, sorella di mezzo mai rientrata al termine di un allenamento di atletica, si trasforma così in una presenza invisibile, intoccabile e insondabile che forgia e plasma in contumacia l’esistenza della madre e delle due sorelle a Staten Island.
Fino al giorno in cui, per uno di quei casi che solo la vita sa proporre, e in modo del tutto inaspettato, una delle due sorelle riconosce Ruthy in un reality trash, Catfight, dove alle ragazze partecipanti viene chiesto di dare il peggio di sé. Il format, infatti, prevede l’esclusione delle concorrenti a suon di sberle e di dispetti, in quella spettacolarizzazione della decadenza (e del nulla) che è tanto tipica della nostra epoca. La rossa con il neo, per quanto sboccata e volgare, riconoscono le sorelle, deve essere per forza la loro piccola Ruthy, ed è finalmente giunta l’ora che ritorni a casa, in seno ai suoi affetti.
Nina e Jess a quel punto si ingegnano, all’insaputa della madre (in realtà più furba e perspicace di quanto le figlie vorrebbero credere) per organizzare un viaggio fuori dai confini di Staten Island che permetta loro di ritrovare la sorella perduta. Nelle lunghe ore di preparazione, molte delle quali trascorse dalle due davanti alla tv per
guardare in loop le puntate di Catfight in cui appare la presunta Ruthy, vengono messe in campo dinamiche famigliari, antichi non detti, ma soprattutto viene testimoniata la forza dirompente di quel legame – a tratti
Con questo romanzo Claire Jiménez si è aggiudicata il Pen/Faulkner Award 2024.
indissolubile – che è la famiglia: «Io e Jessica ci scambiammo uno sguardo tipo: E adesso che facciamo? In quella silenziosa lingua dei segni che fratelli e sorelle sviluppano dopo essere stati sfamati, abbracciati, vestiti e picchia-
ti per decenni sotto lo stesso tetto». Alla fine, quello che parte alla volta del recupero della sorella/figlia riconosciuta nel format TV è un gineceo molto agguerrito, cui si aggiunge anche una compaesana portoricana, appartenente alla stessa congregazione evangelica delle Ramirez: quattro moderne e determinate Thelma e Louise, decise a rimettere in ordine i cosiddetti «Family Matters», al di là di ogni steccato generazionale, religioso e identitario. Non sempre l’unione fa la forza, e non sempre si riesce a ottenere l’unione: in questo libro però, per quanto male assemblate, quattro donne, legate anche da ciò che non le accomuna, si ritrovano a vicenda nel senso di sacrificio (alla base di ogni amore) oltre che nell’appartenenza a una delle mille diaspore che hanno reso gli Stati Uniti quello che sono – o che erano.
Grazie a una scrittura vivace, Claire Jiménez riempie le sue pagine di vita vera, di quotidianità agrodolce; ne risulta il ritratto profondamente umano di chi, per una vita intera, vive a cavallo tra due identità, nel tentativo di conservazione delle proprie radici, spesso in contrasto con il bisogno di integrazione che caratterizza ogni forma di migrazione.
Bibliografia
Cos’è successo a Ruthy Ramirez Torino, Bollati Boringhieri, 2025.
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Battibecchi
Wilma Laclava
Suona il telefono. Rispondo. «Buongiorno Mozzi. Diamoci del tu, va bene?», dice una voce femminile. «Buongiorno», dico. «Con chi parlo?». «Sono la Wilma», dice la Wilma. «Wilma e poi?», dico.
«Laclava», dice Wilma. «Mi dica, Wilma Laclava», dico, «in che cosa potrei esserle utile?».
«Non ci davamo del tu?», dice Wilma. «È stata una scelta unilaterale», dico. «Ti dà fastidio che io ti dia del tu?», dice Wilma.
«No», dico. «Le dà fastidio che io le dia del lei?».
«Per niente», dice Wilma. «Io sono una signora».
«Bene», dico. «Continuiamo così». «E dunque Mozzi», dice Wilma, «come ti dicevo ti chiamo per via del mio romanzo».
«Non me l’aveva detto», dico. «Ah no?», dice Wilma.
«Eh no», dico.
«Me lo sarò scordato», dice Wilma. «Mi dica del suo romanzo», dico.
«Il mio romanzo è bello», dice Wilma.
«Questa è la sua opinione», dico.
«Non si possono più avere delle opinioni?», dice Wilma
«Certo che si possono avere delle opinioni», dico. «Ma io non ne ho nessuna».
«Tu non hai opinioni?», dice Wilma.
«Non sul suo romanzo», dico.
«Ma te l’ho detto: è bello», dice Wilma. «Ed è, appunto, la sua opinione», dico.
«Mozzi, si gira in tondo», dice Wilma.
«Sono d’accordo», dico. «Mi dica qualcosa di questo romanzo».
«È un romanzo contemporaneo», dice Wilma.
«Sì», dico.
«Racconta una storia d’oggi, che interessa alle donne e agli uomini d’oggi», dice Wilma.
«Sì», dico.
«È scritto con un linguaggio facile e accessibile a chiunque, però profondo e ricco di riflessioni», dice Wilma.
«Sì», dico.
«Tu sai dire solo di sì?», dice Wilma.
«Dico più spesso di no», dico. «Però mi fa piacere che tu dica di sì», dice Wilma. «Il no, di solito», dico, «lo tengo per la fine».
«E allora lo pubblichiamo, questo romanzo?», dice Wilma.
«No», dico.
«E come, no?», dice Wilma. «Stai scherzando?».
«Sono serissimo», dico. «In questo momento non ho elementi per valutare se il suo romanzo sia pubblicabile o no». «Ma ti ho detto –», dice Wilma. «Che è un romanzo contemporaneo; che racconta una storia d’oggi che interessa alle donne e agli uomini d’oggi; scritto con un linguaggio facile e accessibile a chiunque, però profondo e ricco di riflessioni», dico.
«Ecco», dice Wilma. «E non basta?». «Questa è la sua opinione», dico. «Non è la mia».
«E qual è la tua?», dice Wilma. «Non ne ho nessuna», dico.
«Si gira in tondo Mozzi», dice Wilma.
La solitudine e l’universo delle romance scam
Dal momento che il maggior tratto distintivo del XXI secolo appare risiedere nella trasformazione delle nostre attività quotidiane in compiti da svolgersi quasi esclusivamente online, non suscita troppa meraviglia il fatto che anche la ricerca di partner romantici sia ormai divenuta un processo prevalentemente digitale – soprattutto per le persone non più giovani, le quali sembrano ritenere che le dating app proteggano da incontri sgraditi e potenzialmente pericolosi, possibili in contesti sociali più esposti. Eppure, la stessa distanza che garantisce l’apparente sicurezza di chi si avventura su app come Tinder, Match.com e Badoo è anche ciò che rende impossibile agli ignari utenti scoprire con chi davvero si abbia a che fare; dando così vita al fenomeno oggi noto come catfishing – ovvero, l’atto di creare una falsa identità online
Xenia
al fine di approfittarsi di chi, dall’altra parte dello schermo, pensa di aver intrapreso una genuina relazione con il mistificatore. Una vera e propria forma d’abuso, che ha mietuto talmente tante vittime da meritare innumerevoli inchieste giornalistiche dirette a denunciarne i nefasti effetti: una delle espressioni più intriganti di tale interesse è quella offerta da un servizio investigativo statunitense dall’eloquente nome di Social Catfish, che vede un team di giovani «investigatori digitali» mettersi al servizio delle vittime di frodi online tramite un visitatissimo sito web e un’app che il grande pubblico può utilizzare per cercare di proteggersi – e, soprattutto, un canale YouTube provvisto di centinaia di video, ognuno dei quali rappresenta un’inchiesta svolta per conto di una vittima delle varie truffe og-
gi note con il nome di romance scam E non c’è da stupirsene, dato che le necessità dell’epoca attuale hanno normalizzato le relazioni a distanza, facendo sì che sempre più persone si convincano di amare qualcuno conosciuto soltanto tramite fotografie, e-mail e (forse) telefonate. Del resto, è proprio la mancanza di contatto diretto a impedire alle vittime (negli Stati Uniti se ne contano circa 64’000 all’anno) di scoprire come l’avvocato cinquantenne di New York con cui credono di parlare sia in realtà uno scammer di poco più di vent’anni che, da un computer in Nigeria, impersona con vera maestria l’uomo dei loro sogni – il tutto grazie a dating app e social network, dai cui profili gli scammer rubano foto e filmati al fine di imbastire una biografia sufficientemente credibile da giustificare la prolungata impossibilità a incontrarsi di
«Sono d’accordo», dico. «Il mio romanzo», dice Wilma, «racconta le difficoltà di una coppia d’oggi che nel mondo d’oggi stenta ad affrontare le proprie difficoltà».
«Sì», dico.
«Il mondo d’oggi è complesso, variegato», dice Wilma, «e di fronte alle difficoltà le coppie d’oggi sono in difficoltà».
«Sì», dico.
«Ma anche nel mondo d’oggi le difficoltà si possono superare», dice Wilma, «se c’è l’amore».
«Sì», dico.
«Perché l’amore, se c’è davvero», dice Wilma, «anche nel mondo d’oggi pieno di difficoltà permette di superare tutte le difficoltà».
«Anche quelle del mondo d’oggi», dico. «Sì», dice Wilma. «Vedo che ha capito». «Sono un bravo ascoltatore», dico. «E dunque Mozzi», dice Wilma, «lo pubblichiamo o no questo romanzo?». «No», dico. «Ancora!», dice Wilma.
«Il suo romanzo si intitola La forza dell’amore», dico. «Mozzi», dice Wilma. «Io il titolo non te l’ho detto», dice Wilma. «Lo so», dico. «Da chi l’hai saputo?», dice Wilma. «Da nessuno», dico. «Come, da nessuno?», dice Wilma. «È stata un’intuizione», dico. «Mi hai rovinato il colpo di scena», dice Wilma. «Me lo tenevo per ultimo». «Purtroppo», dico, «noi editori siamo dei guastafeste». «E comunque, Mozzi», dice Wilma, «il romanzo c’è, il titolo c’è, lo vogliamo pubblicare o no?». «No», dico. «Uffa! Cos’altro devo fare, per convincerti?», dice Wilma. «Devo leggerlo», dico. «Come sarebbe?», dice Wilma. «Finché non lo leggo», dico, «non posso farmene un’opinione». «Suvvia Mozzi», dice Wilma, «da quando in qua gli editori leggono i libri che pubblicano? Nel mondo di oggi –».
persona con l’oggetto del loro amore. Il risultato? Migliaia di vite distrutte: persone sole che, irretite dalle parole melliflue e promesse irreali del compagno virtuale, finiscono per credere a ogni sua contorta bugia e storia strappalacrime, ritrovandosi così a elargirgli i risparmi di una vita, spesso al punto da dover dichiarare bancarotta. Oggi, il fenomeno si è talmente ingigantito da assumere proporzioni preoccupanti, in una progressione che sembra legata alla natura fortemente individualista della società occidentale, in cui l’immane solitudine di molte donne single diventa il comune denominatore: un fattore che, per molti individui senza scrupoli, è fin troppo facile volgere a proprio vantaggio – ben sapendo come, pur di non perdere l’affetto dell’etereo compagno, la vittima sia disposta a donargli tutto quello che possiede. Allo stesso tem-
po, resta l’impressione che al nostro odierno tessuto sociale manchi perfino l’educazione sentimentale di base, senz’altro necessaria per rendersi conto di quanto pericolose tali «relazioni» possano essere.
O forse, come una delle vittime ha fatto notare, ciò che davvero spinge una persona a tali rischi è soprattutto una forma di paura: quella di trovarsi un giorno a condividere il destino della protagonista della celebre canzone firmata dai Beatles che, da quasi 60 anni, terrorizza chiunque senta di vivere una condizione di grave solitudine: «Eleanor Rigby / morì in chiesa e venne sepolta, il suo nome sulla lapide / ma nessuno si presentò». E finché il timore di quella fatidica parola – «nessuno» – continuerà a esercitare tanto potere su di noi, ci sarà sempre il rischio che qualcun altro se ne approfitti.
Il rider e gli studenti americani avevano la stessa età: vent’anni. Ma vite incommensurabili. Avery e Kyle erano in vacanza. La città eterna come prima tappa di un viaggio di piacere. Il rider invece ci era arrivato non per sua scelta, quando il padre era riuscito a ricongiungersi con la famiglia, lasciata in Bangladesh. Aveva impiegato dieci anni a stabilizzarsi: era commesso notturno in uno dei minimarket della città. Per i tre figli nati in Italia sognava un futuro diverso. Ai maggiori, arrivati troppo grandi, nella migliore delle ipotesi sarebbe toccato il suo. Najmul era rider per un’azienda di delivery, Salma in casa in attesa di un marito.
Najmul scorrazzava in sella a una bici elettrica dalle ruote grosse, di qua e di là per una città che si riprometteva di conoscere, un giorno, ma che era rimasta per lui un mistero: un retico-
lo di strade luminose nel display del cellulare attaccato al manubrio. Ritirava pizze, hamburger e polli fritti; consegnava di sera o di notte – l’ora in cui la gente si ricorda di dover mangiare. Casco scuro, manopole, gilet catarifrangente ad alta visibilità: anonimo fra mille altri. Affidabile però. Ottimo rendimento. L’algoritmo lo premiava. Poi venne l’ordine di Avery e Kyle. Consistente, perché dovuto a improvvisa fame chimica, regolarmente pagato con l’app. La freccetta mobile sul display condusse il rider in zona san Pietro. Suonò il citofono del b&b per annunciarsi. Non rispose nessuno. Aveva fretta, come sempre, poiché aveva preso altre tre consegne da effettuare in un’ora: notte, giorno festivo, maltempo, paga extra. Suonò di nuovo. Ma neanche stavolta qualcuno rispose. Il palazzo era buio, le fine-
stre del b&b al primo piano illuminate. I clienti erano dunque in stanza. Situazione inedita. Il peggio che gli era capitato erano proteste, talvolta veementi e sgarbate, sul ritardo. Il meglio, frequente, la mancia. Chiese a fatica istruzioni al telefono (non parlava italiano). Gli mandarono il numero della persona che aveva effettuato l’ordine. Ma il telefono squillava a vuoto. La cena si raffreddava nella cubica borsa termica. Il rider schiacciò i tasti dei citofoni di tutto il palazzo per farsi aprire cancello e portone e suonare direttamente alla porta del b&b. Ma nessuno volle aprire alla figura inquietante col casco nero. Un inquilino gli suggerì di lanciare il pacco oltre il cancello. Certi corrieri facevano così. Ma il rider aveva bisogno di riscontro. Cominciava a inquietarsi. Il reclamo per mancata consegna poteva compromettere il
suo rendimento e perfino determinare la risoluzione del contratto. Suonò ancora, ritelefonò al cliente. Poi andò in panico. Le videocamere del b&b inquadrarono una sgranata sagoma nera che con fare sospetto scavalcava il cancello con un oggetto fra le mani, s’arrampicava sui vasi del giardino e tentava di penetrare sul balcone. La padrona chiamò il 112 e si precipitò sul posto. Così Avery e Kyle, che avevano comprato roba cattiva per strada, attratti dal basso costo delle dosi, furono trovati esanimi nel letto. Lei in coma etilico, o qualcosa di simile, lui talmente strafatto da non ricordare dove fosse. Li portarono al pronto soccorso, dove si rimisero in salute sicché proseguirono il viaggio. Invece il rider scomparso sotto la pioggia nella notte, che aveva violato il domicilio, fu rintracciato e identificato. Bici, casco
e gilet non facevano parte del kit rider, i documenti inviati via app corrispondevano a un certo Najmul. Ma la figura ripresa dalle videocamere aveva lunghissimi capelli neri, ed era una ragazza. Ai due fratelli la sostituzione era sembrata un gioco facile e innocente: quando Salma pedalava al suo posto, Najmul poteva fare un altro lavoro. Allora non esisteva nessuna rider e nessun padre avrebbe permesso alla propria figlia di girare di notte in bicicletta per una città come Roma. La proprietaria del b&b non volle sporgere denuncia. Dopotutto il gesto improvvido della rider aveva forse salvato la vita dei due scriteriati studenti americani. Salma dovette rinunciare alla bicicletta, alle consegne e alla notte. Non so che ne è stato di lei. Qualche tempo fa, però, al semaforo una ciocca di capelli neri svolazzava dal casco di un rider
Quando il sole è cocente e si ha sete, non c’è niente di meglio del tè freddo. Consigli e ricette per prepararlo in casa
Tè freddo alla pesca
Bevanda, per circa 1,2 l
1 l d’acqua
3 bustine di tè nero
2 pesche
1 limone
60 g di zucchero greggio cubetti di ghiaccio
1. Porta a ebollizione l’acqua poi aggiungi le bustine di tè e lasciale in infusione per 4–5 minuti. Togli le bustine.
2. Snocciola le pesche, tagliale a spicchi e mettile in una caraffa.
3. Spremi il limone e aggiungi il succo e lo zucchero al tè. Versa il tè bollente nella caraffa con le pesce e lascialo intiepidire poi metti il tè in frigo per almeno 2 ore. Servilo con dei cubetti di ghiaccio.
Ice Tea Giselle
Le note floreali del tiglio, la mela e il rabarbaro, uniti agli aromi di un aperitivo analcolico come Giselle ed ecco un drink fresco e invitante.
Tè freddo ghiacciato in cubetti
Per evitare che la tua bevanda fresca si annacqui, prepara dei cubetti di ghiaccio con il tè freddo. È preferibile mettere il tè freddo avanzato in vaschette per cubetti di ghiaccio oppure utilizzarlo per fare dei ghiaccioli.
Più sapore
Se prepari il tè in casa, ricordati di utilizzare più foglie di tè rispetto al tè normale, poiché il tè freddo viene poi diluito. Il tè viene zuccherato quando è ancora caldo. In questo modo lo zucchero e gli altri dolcificanti si sciolgono più rapidamente. All’assaggio, il sapore è un po’ più dolce, poiché il tè freddo viene servito ghiacciato e le papille gustative non percepiscono tanta dolcezza.
Gioca d’anticipo Il tè freddo si conserva in frigorifero per tre o quattro giorni. Lo si può quindi preparare in anticipo. Importante: lascia raffreddare il tè appena preparato prima di metterlo in frigorifero. Così il tuo frigo non consumerà energia inutilmente.
Popsicles al tè freddo
Un ghiacciolo di tè freddo è un’idea eccellente per soddisfare a meraviglia la voglia di freschezza fruttata con fettine di fragola e limone.
Ricetta
Kult Ice Tea Mate
LIFESTYLE
Giochi per l’estate
Giochiamo!
Niente di più facile che guardare uno schermo. Invece, potremmo metterci a giocare insieme. Che fortuna, presto iniziano le vacanze estive!
Testo: Edita Dizdar
Illustrazioni: Anita Allemann
1
Sul treno
In treno si ha più spazio di movimento che in auto. Questo rende possibili diversi giochi da fare con le carte o i dadi. Portando anche carta e penna, si può giocare a «Disegna la parola», battaglia navale o «Nomi, cose, città». I piccoli set da gioco sono veloci da mettere in borsa e tirare fuori, quindi ideali per i viaggi. Chi preferisce fare qualche attività individuale può cimentarsi in un rompicapo.
2
In spiaggia
La sabbia abbondante chiede letteralmente di essere modellata in torri e castelli. Aggiungi qualche conchiglia, pietra o bastoncino come decorazione ed è subito pronto un vero capolavoro. È anche possibile farsi seppellire e, se si è fortunati, ottenere delle belle pinne da sirena. Chi preferisce essere attivo può giocare a frisbee golf o inseguire un razzo di schiuma.
3
In auto
Cerchi giochi divertenti per i viaggi noiosi in auto? Che ne dici del celebre «Vedo qualcosa che non vedi»? Oppure «Indovina chi?»? Si deve pensare a una persona o a un personaggio reale o immaginario che tutti conoscono. A questo punto gli altri giocatori pongono domande alle quali si risponde con un «sì» o un «no». Vince chi indovina per primo il personaggio. Ma ci sono anche altri giochi interessanti per l’auto. Si consigliano quelli adesivi o magnetici.
Gioco tascabile 2 in 1 1 pz. Fr. 5.95
Puzzle magnetico
Rocket Whistler
Set
LIFESTYLE
Giochi per l’estate
4
In aereo
Indipendentemente dal fatto che il volo sia breve o lungo, qui è difficile muoversi. Per questo è ancora più importante offrire un buon intrattenimento. Ciò che vale per l’auto e il treno va ovviamente benissimo anche in aereo. Ci si può anche dedicare insieme ai propri bambini a una piccola attività di bricolage che non crea alcun disordine.
5
In piscina
Oltre alla possibilità di nuotare, sguazzare e immergersi, la piscina offre anche molto spazio per le attività sportive. Calcio, badminton o frisbee: tutto ciò che è divertente per grandi e piccini è permesso. Oppure rincorrersi sul prato e lanciarsi gavettoni? E ridere a crepapelle, ovviamente.
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In spiaggia
La sabbia abbondante chiede letteralmente di essere modellata in torri e castelli. Aggiungi qualche conchiglia, pietra o bastoncino come decorazione ed è subito pronto un vero capolavoro. È anche possibile farsi seppellire e, se si è fortunati, ottenere delle belle pinne da sirena. Chi preferisce essere attivo può giocare a frisbee golf o inseguire un razzo di schiuma.
3
In auto
Cerchi giochi divertenti per i viaggi noiosi in auto? Che ne dici del celebre «Vedo qualcosa che non vedi»? Oppure «Indovina chi?»? Si deve pensare a una persona o a un personaggio reale o immaginario che tutti conoscono. A questo punto gli altri giocatori pongono domande alle quali si risponde con un «sì» o un «no». Vince chi indovina per primo il personaggio. Ma ci sono anche altri giochi interessanti per l’auto. Si consigliano quelli adesivi o magnetici.
Rocket Whistler
Colorazioni Schwarzkopf per
Colorazioni
TEMPO LIBERO
Le storie dei muri di Napoli
Negli ultimi anni la città partenopea si distingue anche per i numerosi murales dedicati a quelli che sono considerati gli eroi della città
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Peperoni passepartout
Estate, tempo di grigliate e piatti freddi: grazie a questa ricetta per la peperonata, un contorno ideale che in frigorifero si conserva per giorni
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Agenti segreti per un giorno Rovesciamo la quotidianità, e per il tempo di un gioco da tavolo trasformiamoci in agenti segreti, le sorprese sono garantite
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Rotta sull’Indonesia: Louis Margot a metà del guado
Adrenalina ◆ Continua lo straordinario giro del mondo dell’atleta di Morges dopo l’attraversata del Pacifico
«Asr». Sarà già capitato, a chi mastica di tennis, di imbattersi in queste tre lettere guardando il programma giornaliero di un torneo. L’acronimo sta per After a suitable rest. Che, in italiano, può essere tradotto con «Dopo un adeguato riposo». A scanso di equivoci, diciamolo subito: la puntata odierna di Adrenalina non parla di palline e racchette. Dal mondo del tennis prende però a prestito questa espressione, che calza a pennello a Louis Margot, il 33enne vodese che nel settembre del 2023 si era lanciato nella titanica impresa di compiere il giro del mondo con la sola forza muscolare. Un giro del mondo iniziato appunto un anno e nove mesi fa (e di cui avevamo riferito nel numero 18/2024 di «Azione»), ma che lo vede tutt’ora impegnato, perché l’arrivo al… punto di partenza (Morges, nel Canton Vaud) è previsto per l’autunno dell’anno prossimo. Torniamo a parlare di Louis Margot per fare dunque il punto della situazione di questa sua impresa, proprio nei giorni in cui entra in una delle sue fasi cruciali.
Il rientro del 33enne a Morges (Canton Vaud) dopo il giro del mondo è previsto per l’autunno… dell’anno prossimo
C’è un tempo per tutto. Quello per viaggiare, quello per riposare e, anche, quello per rimettersi in viaggio. Tre mesi dopo essere sbarcato a Hiva Oa, nell’arcipelago delle Isole Marchesi, primo approdo dell’estenuante traversata dell’Oceano Pacifico («La tappa più impegnativa dell’intero progetto», ci aveva confidato, non senza qualche timore, al momento di imbarcarsi per la traversata, quando l’avevamo raggiunto telefonicamente nel porto di Lima, in Perù, lo scorso autunno), Louis Margot è tornato sul «ponte di comando» della sua imbarcazione, ha rimesso mano ai suoi remi e ha ripreso il suo viaggio, che lo dovrebbe portare in Asia.
Sulle Isole Marchesi era sbarcato un sabato sera di inizio marzo. Ad attenderlo, a questo approdo a metà… del guado dell’enorme distesa blu, c’era anche una delegazione partita appositamente dal Canton Vaud comprendente anche i suoi familiari. Un po’ di aria di casa, dato che la casa vera e propria dovrà ancora aspettare parecchio prima di ritrovarla. Poi, Louis Margot si è preso un «timeout», peraltro indispensabile, per radunare le forze, fisiche e pure mentali, prima di riprendere il suo viaggio che, remata dopo remata, dovrebbe portarlo sulla terraferma, verosimilmente quella dell’Indonesia. Il suo «adeguato riposo» appunto.
«Quattro mesi al largo, in solitaria, ti lasciano ovviamente il segno: una parte di me è come se fosse ancora là fuori, in quell’immensa distesa blu», aveva confessato dopo un mesetto di riposo a Hiva Oa. Lasciando la costa sudamericana, Louis Margot aveva parlato della necessità di «staccare la spina», di… disconnettersi per un po’ dal resto del mondo. Sotto questo punto di vista, la prospettiva di quattro mesi di navigata in solitaria ha raggiunto il suo scopo… «Viviamo vite bombardate dai social media e da uno stress costante, tanto che non riusciamo più a prenderci il tempo per noi stessi. È tutto troppo frenetico. Ritrovarti tutto solo in mezzo a un oceano e per mesi, ti insegna a focalizzarti sul presente. Potrà suonare strano all’orecchio di chi non ha mai provato una sensazione simile, ma, ripensando a quei momenti, mi sento di poter affermare di non essermi mai sentito così bene come in quelle settimane trascorse là in mezzo all’oceano. E so benissimo che quando ritroverò nuovamente la terraferma,
una volta completata l’ultima parte della traversata del Pacifico, dovrò riabituarmi al trantran quotidiano. Non sarà facile…».
Per Louis Margot, Hiva Oa è un po’ come il giro di boa del suo viaggio intorno al globo: «Ora che sono a… metà del guado dell’Oceano Pacifico (e dell’intero progetto di giro del mondo con la forza muscolare), il mio modo di vivere quest’avventura è mutato.
All’atleta che è appena ripartito, restano ancora da percorrere diecimila chilometri di navigazione
Per parecchio tempo mi sono sentito come se tutto il progetto fosse appena cominciato. Quando riprenderò la mia navigazione facendo rotta sull’Asia, per me sarà come iniziare il lungo viaggio di ritorno verso casa. Che, a ogni buon conto, comporterà altri sei mesi circa di remate in solitaria.
Ma adesso è anche diverso: dopo aver attraversato l’Atlantico ed essermi lasciato alle spalle la prima metà del Pacifico circa, so cosa mi attende: una certa dimestichezza con gli aspetti mentali che comporta questo genere di impresa. Certo, non sarà comunque una passeggiata, ma dovrei aver imparato a gestire questo genere di situazioni».
E così, a inizio giugno, per lui è nuovamente scoccata l’ora di ritirare l’ancora e partire. Puntando appunto verso l’Asia, che conta di raggiungere, seguendo una rotta che lo dovrebbe veder attraversare Papua Nuova Guinea e Australia, in 4-6 mesi di navigazione in solitaria, e senza ulteriori scali.
Con oltre diecimila chilometri ancora da percorrere, questa nuova parte del suo periplo dovrebbe portarlo a un totale complessivo di ventimila chilometri di navigazione nelle acque dell’Oceano Pacifico, pari alla metà della circonferenza della Terra!
A Hiva Oa Louis Margot ha sì recuperato le energie, ma ha pure lavo-
rato sodo – supportato dal team che coordina il progetto Human Impulse – per organizzare tutta la logistica concernente l’ultimo segmento in acqua, al termine del quale si separerà dall’imbarcazione che è stata la sua «casa» durante la traversata dell’Atlantico e quella del Pacifico. Compreso il sostentamento, aspetto tutt’altro che marginale pure quest’ultimo, considerato che per raggiungere l’Indonesia, il fabbisogno energetico stimato è di oltre un milione di kilocalorie. Cosa l’attende sulla costa dell’Indonesia? Pur nella consapevolezza che non è il caso di mettere il carro davanti ai buoi (o, meglio, la… barca davanti al percorso ancora da coprire), qualora dovesse riuscire nei suoi intenti di raggiungere l’Indonesia, Louis Margot diventerebbe il primo svizzero a completare la traversata dell’Oceano Pacifico, remando dall’America del Sud in direzione dell’Asia. Ma il suo viaggio non finirà lì, visto che poi inforcherà la bici per attraversare l’Asia e l’Europa, pedalando in direzione di Morges.
Il temerario Louis Margot durante l’attraversata del Pacifico. (Human Impulse)
Moreno Invernizzi
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Napoli e gli eroi immortalati sui muri
Itinerari ◆ Da Maradona a Totò, senza dimenticare i De Filippo e l’ultimo femminiello: gli omaggi di una città unica
Marco Moretti, testo e foto
A Napoli c’è un boom di turisti. Soprattutto stranieri, attratti dalla bellezza della posizione geografica, affacciata sul golfo chiuso da penisola di Sorrento e isole di Capri, Procida e Ischia e dominato dal Vesuvio. Ma anche dalla napoletanità: il contesto socioculturale che la rende unica, il complesso di stili di vita, miti ed eroi raffigurati sui muri della città. Murale al Rione Sanità, ai Quartieri Spagnoli e a Spaccanapoli con i volti di Maradona, Totò, Peppino ed Eduardo De Filippo, Sophia Loren, Vittorio De Sica, Massimo Troisi, Pino Daniele. Fenomeno da cui è emerso Jorit, al secolo Ciro Cerullo, detto «il Caravaggio della street art» per gli enormi e vivi ritratti della sua Human tribe. I volti del riscatto partenopeo, ma anche di chi nel mondo si è ribellato in nome di fratellanza e uguaglianza: per questo dipinti con segni rossi sul viso come in un rito tribale. Come le vittime della camorra: suo è il murale a Pagani dell’avvocato Marcello Torre ucciso nel 1980 per ordine del boss Raffaele Cutolo. Jorit incarna il grido di protesta di periferie e marginalità. Le sue opere sono arrivate a New York, a Mosca e in altre città del mondo. A Napoli il contraltare di Jorit sono i murales dedicati a camorristi, rapinatori e boss. Nel 2021 un’indagine della polizia municipale individuò 15.000 tra affreschi, scritte, fotografie e statue: altarini in luoghi pubblici in memoria di membri dei clan, concentrati soprattutto nel problematico Rione Sanità e solo in parte rimossi. Tornando al boom turistico. Attraverso i suoi personaggi Napoli vende la sua leggenda, il suo stereotipo, la sua verace tradizione popolare. Dai presepari di San Gregorio Armeno alla generosa cucina che invade il centro antico con street food e pizzerie d’autore tra O sole mio, strimpellate di chitarra e cibi gridati. I turisti fanno un’ora in coda per mangiare la «vera» pizza all’Antica Pizzeria Da Michele, che serve solo le quattro classiche: margherita, marinara, marita (a metà tra le due) e con pecorino invece che mozzarella.
«A pizza co a pummarola ‘ncoppa», come cantava Aurelio Fierro, compete con onnipresenti Pulcinella e corni rossi anti-iella. Perché «essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male», scriveva Eduardo De Filippo. Il drammaturgo che individuò e rappresentò essenza e concetto della napoletanità con commedie dai risvolti drammatici ambientate in luoghi –fisici e mentali – e quartieri popolari della Napoli di tutti i giorni, che mise in scena la fatica di vivere della sua gente simboleggiata dalla frase «adda passà a nuttata» in Napoli Milionaria
Al Rione Sanità, la scalinata dove Sophia Loren fu immortalata mentre vendeva sigarette di contrabbando nel film di Vittorio De Sica Ieri, oggi e domani (1963) è stata ribattezzata con il nome dell’attrice. Rione Sanità è il luogo natale di Totò – la modesta casa in cui «io lo nacqui» è meta di pellegrinaggio. Ma è anche il quartiere dove, in alcune commedie di Eduardo, la povera gente chiede grazie e numeri vincenti del Lotto ai santi che sorvegliano gli incroci da apposite edicole. Ma oggi, proprio all’angolo con Piazza Sanità, il santo da venerare è Diego Armando Maradona: «Io non sono italiano, sono napoletano» recita un altarino a lui votato.
Il mito del goleador ha trasformato i degradati Quartieri Spagnoli in un’attrazione turistica con tanto di
Museo Maradona e di un mercato votato ai gadget del calciatore argentino che regalò lo scudetto al Napoli. Tra i suoi vicoli c’è anche il murale della Tarantina, l’ultimo femminiello del borgo, restaurato dopo gli sfregi di vandali omofobi. E quello dedicato a Ugo Russo, una giovane vittima della criminalità. Tra i tavoli delle trattorie che invadono le strade del rione la malavita sembra però scomparsa, luoghi un tempo pericolosi sono oggi sicuri il giorno come la notte, «perché il turismo rende ai clan più del crimine, è la gallina dalle uova d’oro e non va disturbata con gli scippi di stupidi scugnizzi» commentano napoletani ben informati.
Ai Quartieri Spagnoli, s’incontra anche il murale di Sophia Loren con Vittorio De Sica, nonché quello di Eduardo De Filippo, perché dal suo Filumena Marturano il regista trasse Matrimonio all’Italiana (1964) con Sophia Loren e Marcello Mastroianni, uno degli spaccati più napoletani della storia del cinema, riproposto da un murale in vico San Liborio a Montecalvario.
Tra i popolari quartieri di Porto, Mercato e via dei Tribunali si articolò invece la vita di Pino Daniele, la voce più significativa della canzone napoletana del secondo Novecento. Un figlio della Napoli minore, nato in un vascio del Porto – gli insalubri mono o bilocali a livello strada, con un’unica aria e spesso stanze cieche, talvolta ampliati con balconi abusivi sul suolo pubblico: sono ancora diffusi nei rioni più poveri del centro città. Zone riconoscibili in alcuni passaggi di Napule è, una delle canzoni omaggio alla sua città, che racconta tra mille colori, mille paure, con le voci dei bambini che non ti
fanno sentire solo, con il sole amaro e l’odore di mare, con la sporcizia a cui nessuno fa caso perché ognuno si affida alla sorte, camminando nei vicoli tra la gente… Pino canta quartieri affollatissimi, dove giocoforza si vive in mezzo agli altri. Dopo la morte, Pino Daniele fu celebrato con un concerto nell’immensa e monumentale piazza Plebiscito, seguito da una folla di centomila persone che intonava le sue canzoni.
Pino Daniele è una delle tre grandi icone della cultura partenopea insieme a Massimo Troisi (Pino scrisse le colonne sonore dei suoi film) e a Eduardo de Filippo. Eroi ripescati nell’ultimo anno in occasione di una sequenza di anniversari. Dieci anni dalla morte di Pino Daniele. Trent’anni da quella di Massimo Troisi. Quarant’anni dalla scomparsa di Eduardo de Filippo. E il novantesimo compleanno di Sophia Loren: «Mi sento più napoletana che italiana» affermò per l’occasione dal suo rifugio dorato di Ginevra. I personaggi che hanno cambiato l’immaginario di Napoli. Gli eroi immortalati sui suoi muri.
A sinistra, uno dei tanti omaggi a Diego Armando Maradona, sotto, Totò e De Filippo, la Tarantina, ultimo femminiello, e, in basso, il San Gennaro di Jorit.
Il viaggio di Sebastião Salgado tra
Ricetta della settimana - Peperonata con capperi e olive
Intervista ◆ L’editore e curatore Roberto Koch, attraverso inedite curiosità, ricorda il fotografo brasiliano da poco scomparso come uomo
Manuela Mazzi
Ingredienti
Ingredienti per 4 persone
6 peperoni di diversi colori
1 cipolla grande
3 spicchi d’aglio
4 c d’olio d’oliva
1 cc di concentrato di pomodoro
0,5 dl di vino bianco
50 g di olive snocciolate, ad esempio miste verdi e nere
2 c di capperi
sale marino
Preparazione
1. Dimezzate i peperoni ed eliminate i semi. Accomodateli con la superficie di taglio sulla teglia foderata con carta da forno.
2. Infornateli al centro del forno spento. Accendete il forno, modalità ventilata, a 180 °C e cuocete i peperoni per 25-30 minuti, finché la pelle dei peperoni si scurisce e si formano delle bolle.
3. Sfornate i peperoni, copriteli con carta da cucina e lasciateli intiepidire. Spellate i peperoni e divideteli a pezzettoni.
4. Dividete la cipolla a metà e tagliatela a striscioline. Tagliate l’aglio a fettine e fatele appassire nell’olio. Unite il concentrato di pomodoro, fatelo rosolare brevemente poi sfumate con il vino. Aggiungete i peperoni. Coprite e lasciate stufare a fuoco basso per circa 15 minuti. Se necessario, aggiungete un po’ d’acqua o del vino bianco.
5. Dimezzate le olive e unitele con i capperi ai peperoni. Salate e servite la peperonata calda o fredda.
Consiglio utile
Scorta di peperonata: lasciate raffreddare la peperonata poi trasferitela in un contenitore con coperchio. Irrorate con un po’ d’olio e sigillate il contenitore. Così la peperonata si conserva in frigo per 1-2 settimane.
La peperonata è un accompagnamento ideale per bistecche, pollo, spiedini e salsiccia alla griglia.
Preparazione: circa 30 minuti; cottura in forno: 25-30 minuti
Per porzione: circa 5 g di proteine, 13 g di grassi, 19 g di carboidrati, 240 kcal
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Uomini in equilibrio su scale di le gno, chi a torso nudo chi in magliet te sgualcite, riemergono sporchi di fango e sudore da un paesaggio sca vato a mano nella terra, gradino do po gradino; in spalla sacchi pesanti spinti verso l’alto lungo pareti babe liche: nella leggendaria immagine della miniera d’oro di Serra Pelada, Brasile, Sebastião Salgado ritrae l’u manità come un’onda tenace, affa mata di futuro; una tensione verso l’alto, così satura di fatica e deside rio, che richiama l’ambizione uma na di superare i limiti, di «toccare il cielo», rievocando il mito babilone se già ritratto da Bruegel. Rivederla oggi, alla notizia della sua scompar sa, è come scorgere un’ultima volta la scena madre di un film irripetibile, qualcosa tra il Pasolini più materico e l’epica senza eroi. Pochi fotografi sono riusciti a rac contare la complessità del mon do con uno sguardo tanto coinvol to quanto controllato. Salgado lo ha fatto riuscendo spesso a evitare la pietà, rifuggendo il cinismo, cercan do invece quella soglia in cui l’esteti ca e la giustizia si sfiorano. Ha smes so di fotografare. Non di mostrarci come si fa: guardare, sempre, senza sottrarre dignità. Per comprendere davvero come ope rasse, quali principi guidassero la sua ricerca e che segno abbia inciso nella cultura visiva contemporanea l’ope ra di Salgado, abbiamo parlato con Roberto Koch: fondatore della casa editrice Contrasto, storico curatore di molte sue esposizioni in Italia, e Enciclopedica, sì, non c’è dubbio,
ca, ai testi e così via. Un unico autore ma un autore polivalente e mol to, molto efficace sul piano della di vulgazione per cui, al tempo stesso, molto semplice da capire. Una sem
da potersi tenere. Le condizioni so-matiche, però è un affresco di una modalità contemporanea, è vera e rappresenta come le persone devono
Sebastiano Salgado, dalla serie Ghiacciai, 1995-2020; sotto, Miniera d’oro Serra Pelada, 1986; a destra, dettaglio della Catena delle montagne del Marauiá, territorio indigeno yanomami, Municipalità di São Gabriel da Cachoeira, Stato dell’Amazonas, Brasile, 2018.
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Il mio vicino di casa è un agente segreto
Colpo critico ◆ Come i romanzi, anche i giochi intorno allo spionaggio prevedono un rovescio della quotidianità
Andrea Fazioli
Quali sono i requisiti per essere un agente segreto? Il modello della spia contemporanea è lontano da James Bond e, forse, discende invece dal protagonista del romanzo Il nostro agente all’Avana di Graham Greene: James Wormold, un quieto venditore di aspirapolveri che in maniera tanto involontaria quanto umoristica inceppa il meccanismo di eterna sorveglianza della Guerra fredda. L’opera di Greene risale al 1958. A partire dagli anni Sessanta, all’immagine dell’agente superuomo dotato di mille gadget si affianca quella del grigio burocrate, più a suo agio con le scartoffie che con gli inseguimenti a bordo di un’Aston Martin.
In questi giochi, per essere agenti segreti perfetti e dunque vincere, è importante sapersi dissimulare
Paolo Bertinetti ricostruisce la storia della narrativa di spionaggio in Agenti segreti. I maestri della spy story inglese (Sellerio, 2024). Da Rudyard Kipling fino a John Le Carré, le evoluzioni del genere mostrano come sia cambiata la visione collettiva dello stato, della sicurezza, delle relazioni internazionali. Bertinetti ricorda per esempio come il protagonista de La pratica Ipcress (1962) di Len Deighton sia «un uo-
mo del popolo» che «conduce una vita modesta, va a fare la spesa al supermercato, deve usare gli occhiali (forse si è rovinato la vista a forza di riempire e/o sfogliare migliaia di pratiche) e non ha nessuna delle caratteristiche del gentleman trasferite nel personaggio di Bond».
Il romanzo di spionaggio è basato sul rovescio della quotidianità: il mondo che crediamo di conoscere è teatro di una guerra invisibile, di un «grande gioco» fra le nazioni. Ma se la spia è una persona qualunque, ne consegue che tutti potremmo avere una doppia identità. I sistemi di intelligence contemporanei sono sempre più inquietanti e forse proprio per questo, per contrastare l’ansia con l’ironia, vengono spesso trasposti sul piano ludico, nei romanzi e nei film ma non solo. In un manuale scherzoso per ragazzi, per esempio, si ribadisce che «un bravo agente segreto deve confondersi con l’ambiente» (Martin Oliver, Le 100 cose da fare per essere un perfetto agente segreto, 2009, De Agostini, 2010).
La stessa atmosfera si ritrova in Agent Avenue (Christian e Laura Kudahl, Nerdlab Games, 2024). Il gioco è ambientato a Oakfield, un sobborgo che sotto l’apparenza sonnacchiosa pullula di spioni. I partecipanti (in genere due, ma si può giocare anche in quattro) sono vicini di casa ed entrambi sospettano – giustamen-
Giochi e passatempi
Cruciverba
«Caro come mai hai tutta la schiena sporca di sugo?» Troverai la risposta del fidanzato leggendo le lettere evidenziate, a cruciverba ultimato.
(Frase: 6, 2, 4, 7, 2, 7, 4, 6)
Confidare in qualcosa
La madame elegante
L’eletta tra le belle
Strumento a fiato
Le iniziali del cantante Baglioni
Due vocali
L’ovvero
31. Provocato dall’eccesso di bilirubina nel sangue 33. La memoria del PC 34. Il «ma» latino
36. Andato... per Cicerone
37. Le iniziali dell’attore Argentero
39. Le separa la «n»
40. Preposizione articolata
42. Mette in allarme l’automobilista
44. Ripieghi agli estremi
45. Quella solare è pulita
VERTICALI 1. Asciutto
2. Le iniziali della cantante Marrone
3. Malvagia in poesia
4. Provincia a sud-ovest dell’Arabia Saudita
5. Le iniziali dell’attore Scamarcio
6. Chiavetta in inglese
7. Le iniziali del pittore Rousseau detto il Doganiere
8. Interno in breve
9. Luogo per temibili convegni
11. Cuoio a Parigi
13. Isola della Sonda
15. Grezzo, ruvido in latino
te! – che l’altro sia a capo di una rete di agenti: dalla madre di famiglia all’adolescente che passa in motorino. Il gioco è basato sulla meccanica del double guessing. Io ti propongo due carte, una visibile e una nascosta. Tu dovrai sceglierne una per te e una per me. Prenderai quella visibile, con il rischio che quella nascosta sia migliore? Oppure opterai per quella nascosta, che però potrebbe essere negativa, lasciando a me quella visibile? Insomma, bisogna agire come
un vicino amichevole ma pensare come una spia. Ricco di colpi di scena, Agent Avenue è una corsa frenetica a chi scopre prima l’identità dell’avversario. Ha diverse modalità di vittoria, oltre a una variante con effetti speciali, e si risolve in un quarto d’ora. Un gioco dalle atmosfere simili è Inside Job (Tanner Simmons, Kosmos, 2022). Il meccanismo ricorda quello della briscola, in una variante cooperativa… o meglio, quasi cooperativa. I partecipanti, da tre a cinque,
sono agenti che devono raccogliere un certo numero di valigette segrete. Ma uno di loro in realtà è un agente nemico infiltrato, il quale tenterà di far fallire la missione. Oltre a portare a casa le valigette, gli altri giocatori dovranno smascherarlo, osservando il suo stile di gioco. Tra bluff e mosse azzardate, Inside Job ricorda la tradizionale briscola. Conosciuta pure come briscola in cinque, è «un gioco appassionante», dove «il punto d’onore sta nel vincere di strettissima misura, avendo dimostrato di saper correre il rischio di una perdita quasi voluta» (Giampaolo Dossena, Giochi di carte italiani, Mondadori, 1984). Il giocatore sotto mentite spoglie «si fa imbroglione, escogita trucchi, tesse inganni, architetta trappole, ordisce frodi. Quando prende il compagno gli dà una scartina, quando prende uno degli avversari gli dà un carico, quando prende lui grida a gran voce “Caricate!” (cioè “datemi dei carichi!”)».
Per vincere occorre sapersi dissimulare. Bisogna creare una routine e fingere di essere persone normali, quasi invisibili. Proprio com’era Smiley, il personaggio iconico di John Le Carré. In La talpa (1974) viene definito «basso di statura, grassottello, di mezza età […] con le gambe corte, dall’andatura tutt’altro che agile», eppure – o forse proprio per questo – è una grande spia.
Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
18. Fa morire Violetta ne «La Traviata»
20. Prefisso che vuol dire osso
21. Aspro in latino
23. Avversi, contrari
25. Fiume della Bulgaria 27. Idonee
29. Una città dove si corre la Formula1
30. Un anagramma di naso
32. Un antico vaso greco
35. Scorre nella Catalogna
38. La France in volo
41. Le iniziali della Littizzetto
42. Simbolo chimico dello stagno
43. Le iniziali dell’attore Gassman
Soluzione della settimana precedente UNA «CASA» AFFOLLATA – Le api che in primavera posso occupare un alveare sono… Risposta risultante: CIRCA
dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi
L’immagine di copertina del gioco Agent Avenue. (Nerdlab Games)
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CONSIGLIO FRESCHEZZA
Offerta valida dal 26.6 al 29.6.2025
I nostri spinaci bio provengono possibilmente dalla Svizzera nei mesi estivi. A seconda della cooperativa Migros, anche dalla regione. Dopo la raccolta, vengono confezionati con cura e consegnati freschi in filiale ogni giorno. A casa è bene conservare gli spinaci nel cassetto delle verdure in frigorifero. Consumare il più rapidamente possibile.
23%
4.95
invece di
41%
13.95
invece di 23.80
Trancio di salmone M-Classic, ASC d'allevamento, Norvegia, 400 g, in self-service, (100 g = 3.49)
20%
9.95
invece di 12.60
Salmone selvatico Sockeye M-Classic, MSC pesca, Pacifico nordorientale, 280 g, in self-service, (100 g = 3.55)
12.95
invece di 20.50
Orata intera M-Classic, ASC d'allevamento, Turchia, in conf. speciale, 3 pezzi, 1 kg 36%
Tutti i wrap, i sandwich e gli onigiri, in stile asiatico, refrigerati per es. wrap di sushi al salmone affumicato, 240 g, 6.– invece di 7.50, (100 g = 2.50) 20%
20%
2.80
invece di 3.50
Gambas al ajillo Grill mi, ASC in vaschetta per grill, d'allevamento, Vietnam, per 100 g, in self-service
Formaggi e latticini
Tutta la versatilità
1.20
Emmentaler dolce (Emmi Fromagerie escluso), circa 250 g, per 100 g, prodotto confezionato 22%
Formaggio saporito dalla Valle della Loira
invece di 1.55
Le Maréchal Original IP-SUISSE circa 250 g, per 100 g, prodotto confezionato 20%
2.–
invece di 2.50
Fol Epi a fette Classic o Légère, in conf. speciale, per es. Classic, 462 g, 8.60 invece di 10.78, (100 g = 1.86) 20%
2.–invece di 2.55
2.60
San Gottardo Prealpi per 100 g, prodotto confezionato 20%
invece di 3.25
Formaggella Blenio «Ra Crénga dra Vâll da Brégn» per 100 g, confezionata
3.65 invece di 4.60
Tomino boscaiolo con speck Italia, 195 g, in self-service, (100 g = 1.87) 20%
Feta originale e Parmigiano reggiano, Sélection per es. feta originale, 170 g, 4.– invece di 5.–, (100 g = 2.35)
Migros Ticino
Migros Ticino
Fino all’ultima briciola
Il nostro pane della settimana: viene preparato ogni giorno nella panetteria della casa a partire dal lievito madre, per questo si mantiene fresco molto a lungo.
3.95
Pane Hercules IP-SUISSE 410 g, prodotto confezionato, (100 g = 0.96)
invece di 7.–Cornetti alla crema in conf. speciale, 4 pezzi, 280 g, (100 g = 2.14) 14%
Ingredientinaturali100%
Cashew Cookies e Oat Cookies, Petit Bonheur per es. Cashew Cookies, 230 g, 2.80 invece di 3.50, (100 g = 1.22)
3.95 Cake ai branches o al cioccolato bianco e nocciola, Petit Bonheur
g, prodotto confezionato, (100 g = 0.94)
Per un picnic gourmet
Mini angurie Migros Bio Spagna/Italia, il pezzo 24%
4.50 invece di 5.95
Feta originale e Parmigiano reggiano, Sélection per es. feta originale, 170 g, 4.– invece di 5.–, (100 g = 2.35) 20%
Graneo o Snacketti, Zweifel disponibili in diverse varietà, per es. Paprika Shells Snacketti, 2 x 75 g, 2.90 invece di 3.90, (100 g = 1.93)
Dolce tentazione, bontà celestiale
Bollicine che ravvivano l’estate Bevande
Prezzo basso
4.– Bastoncini alle nocciole M-Classic
500 g, (100 g = 0.80)
Prezzo basso
1.95 Japonais M-Classic
115 g, (100 g = 1.87)
Prezzo basso
1.– Savoiardi M-Classic
200 g, (100 g = 0.50)
3.30 invece di 4.95 Capri-Sun Multivitamin, Multivitamin Zero, Monster o Mystic Dragon, 10 x 200 ml, (100 ml = 0.17)
Water in diversi gusti, 8 x 500 ml, per es. Active, 12.60 invece di 16.80, (100 ml = 0.32)
20x
Pellegrino
ml e 6 x 330 ml, per es. 6 x 330 ml, 5.70, (100 ml = 0.29)
Lunga conservazione per chi ama l’improvvisazione
Tutto l'assortimento Tiger Kitchen per es. salsa di soia, 250 ml, 2.24 invece di 2.80, (100 ml = 0.90) 20%
Si conservano senza refrigerazione Caffè subito pronto, pratico da portare con sé
a partire da 2 pezzi 30%
Tutti i rösti M-Classic per es. Original, 500 g, 1.75 invece di 2.50, (100 g = 0.35)
a partire da 2 pezzi 30%
Tutti i pomodori pelati triturati Longobardi per es. 400 g, 1.05 invece di 1.50, (100 g = 0.26)
Tutti i caffè istantanei (prodotti Nescafé e Starbucks esclusi), per es. Voncoré Cafino, 200 g, 6.16 invece di 7.70, (100 g = 3.08) a partire da 2 pezzi 20% 16.50 invece di 22.–
Mini pizze Piccolinis Buitoni prodotto surgelato, in confezione speciale, al prosciutto o alla mozzarella, 40 pezzi, 1,2 kg, (100 g = 1.38) 25%
Tutto lo zucchero fino cristallizzato, 1 kg per es. Cristal M-Classic, IP-SUISSE, 1.44 invece di 1.80, (100 g = 0.14) 20%
a partire da 2 pezzi 30%
Tutti i tipi di olive non refrigerate M-Classic (prodotti Alnatura e Demeter esclusi), per es. olive nere spagnole, snocciolate, 150 g, 1.89 invece di 2.70, (100 g = 1.26)
Comodità e morbidezza
L’ideale per il corpo
Dentifricio
Cerotti
Bastoncini
Borotalco per es. roll-on Original, 2 x 50 ml, 8.25 invece di 11.–, (100 ml = 8.25)
le colorazioni Syoss e Schwarzkopf per es. nero Schwarzkopf Brillance 890, il pezzo, 6.71 invece di 8.95 25%
a partire da 2 pezzi 25%
Prodotti per la cura dei capelli e per lo styling Taft, Syoss e Gliss (confezioni da viaggio escluse), per es. shampoo Total Repair Gliss, 250 ml, 3.23 invece di 4.30, (100 ml = 1.29)
a partire da 2 pezzi 20%
Tutto l'assortimento Sun Look (confezioni multiple escluse), per es. Basic Milk IP 30, 200 ml, 6.80 invece di 8.50, (100 ml = 3.40)
LO SAPEVI?
I prodotti Sun Look offrono la giusta protezione solare per ogni tipo di pelle. La formula protegge efficacemente dai raggi UVA e UVB, questi prodotti speciali sono perfetti per le esigenze dei bambini e delle pelli sensibili e leniscono l'epidermide irritata dopo l'esposizione al sole.
Tutto ciò di cui hai bisogno, ma
i detersivi
Tutti gli ammorbidenti Exelia per es. Florence, in conf. di ricarica, 1,5 litri, 3.57 invece di 5.95, (1 l = 2.78)
lasciano tracce dopo aver pulito
Giochi per l’estate
12.95 Adesivi per finestre Bingo il pezzo
Contiene 4 diversi giochi per promuovere la motricità fine
5.95 Giochi tascabili classici disponibili in diverse varianti, il pezzo
6.95 Set bricolage mini disponibile in diverse varianti, il pezzo 6.95 Set di pittura ad acquerello e origami disponibile in diversi motivi, il set
19.95 Giocattolo per la sabbia 7 in 1 Schildkröt disponibile in rosso o blu, il set
12.95 Libro delle attività disponibile in diversi motivi, il pezzo
Labirinto di palline che unisce logica, abilità e divertimento
16.95 Rompicapo Travel Disc Labyrinth disponibile in diverse varianti, il pezzo
48 entusiasmanti sfide da superare, a partire da 5 anni
14.95 Puzzle magnetico disponibile in diverse varianti, il pezzo
Prezzi imbattibili del weekend
Zeilenumbrüche verwenden!
da questo giovedì a domenica
30%
4.15
invece di 5.95
conf. da 4
40%
Ciliegie Svizzera, vaschetta da 500 g, (100 g = 0.83), offerta valida dal 26.6 al 29.6.2025
15.60
invece di 26.–
Caffè Boncampo Classico in chicchi o macinato, 4 x 500 g, (100 g = 0.78), offerta valida dal 26.6 al 29.6.2025
49%
3.–
invece di 5.90
Scamone di manzo Black Angus M-Classic, al pezzo Uruguay, per 100 g, in self-service, offerta valida dal 26.6 al 29.6.2025
Offerte dell’anniversario
50%
50%
7.30 invece di 14.60
1.65 invece di 3.30
Gelati su stecco alla panna surgelati, assortiti alla vaniglia e al cioccolato o alla vaniglia e alla fragola, 24 x 57 ml, (100 ml = 0.53)