Azione 21 del 21 maggio 2024

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edizione 21

MONDO MIGROS

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SOCIETÀ Pagina 3

Se vostro figlio adolescente non vi ascolta è perché il suo cervello è più attratto dalle voci degli estranei

Surrealismo e gioco nell’esercizio di creatività mescolano felicemente elementi casuali e prevedibili

TEMPO LIBERO Pagina 15

Lettera aperta agli studenti

Care studentesse e cari studenti che da molte università in tutto il mondo, compresi diversi atenei svizzeri, vi spendete per la causa palestinese, vorrei dirvi su che cosa sono d’accordo con voi e su che cosa non lo sono. Sono d’accordo con voi perché ogni azione concreta di sensibilizzazione in difesa dei deboli è un atto di coraggio civile in un’epoca di prevalente cinismo, di indifferenza e di incattivimento della specie umana. Avete scelto di protestare mettendo al primo posto la solidarietà con le vittime dell’ingiustizia e non le vostre carriere accademiche. Ci vuole coraggio, servono chiare gerarchie di valore. Alla faccia di chi dipinge i giovani come fatui seguaci del successo economico, dei selfie e della vacuità narcisistica dei social. La vostra azione dà un senso positivo al sentimento dell’indignazione, che oggi viene usato quasi esclusivamente contro minoranze indifese e non a favore di cause nobili. La vostra, invece, è una rabbia luminosa perché punta i fari su un’immane ingiustizia.

Non c’è dubbio, infatti, che il prezzo che stanno pagando i palestinesi sia sproporzionato alla colpa, pur terribile, che l’ha generato. I conti oggi fanno stato di circa 1800 vittime israeliane contro 35 mila palestinesi. Vengono uccisi come mosche. E non va dimenticato che l’azione del 7 ottobre scorso non nasce dal nulla, viene dalle politiche di sfollamento forzato e spossessamento dei palestinesi iniziato nel 1948 e proseguito fino ad oggi, con un sistema che possiamo definire «di apartheid» contro di loro. Ma le atrocità del terrorismo non possono mai essere giustificate. La vostra indignazione è manichea, non conosce sfumature, non sembra distinguere gli israeliani pacifici (come buona parte di quelli che per nove mesi hanno sfilato contro Netanyahu prima dei fatti di ottobre) da quelli violenti, i palestinesi innocenti da quelli colpevoli. Tende a dimenti-

care che i militanti di Hamas si sono rivelati furiosi assassini, stupratori, torturatori e che le loro vittime erano persone inermi israeliane, famiglie tranquille, ragazzi e ragazze che andavano a ballare al rave, come voi quando andate a divertirvi in discoteca senza pensieri.

Da istituzioni del sapere e della cultura come le università che frequentate e da voi che rappresentate il futuro della nostra intelligenza mi aspetto una capacità di lettura della realtà più sofisticata.

Non entro nelle polemiche accademiche. Non so se i legami con le università israeliane siano davvero un veleno per i nostri atenei. Mi domando se chiedere di boicottarle sia un modo per mettere in difficoltà l’ottuso Governo israeliano o un modo per rafforzarlo. A naso direi che la collaborazione tra università si basa sullo spirito scientifico, che è laico e indipendente, e non dovrebbe danneggiare nessuno, ma non ho certezze in merito.

Mi chiedo, infine, come mai la molla della vostra protesta sia scattata sulla guerra a Gaza e non su quella in Ucraina, un conflitto che ci minaccia più dell’instabilità mediorientale. La Russia di Putin ha commesso innumerevoli violazioni del diritto internazionale umanitario, o sbaglio? Come, allargando il raggio dei soprusi su larga scala: lo Yemen degli houthi, la Siria di Assad, l’Afghanistan dei talebani, il Myanmar dei generali, Il Messico delle mattanze, la Cina che fa tiro a segno sugli uiguri, o l’Iran che massacra le ragazze a capo scoperto. E i tanti altri Paesi spariti dal radar della sensibilità mainstream: il Burkina Faso, il Camerun, la Repubblica centrafricana, la Repubblica Democratica del Congo, l’Etiopia, la Libia, il Mali, il Niger, la Nigeria, la Somalia, il Sud Sudan, il Pakistan… e fermiamoci qui. Zero parole, zero aule occupate per le vittime innocenti di questi Paesi?

ATTUALITÀ Pagina 25

Il ritratto di Ursula von der Leyen che aspira alla rielezione in un clima non troppo favorevole

A Le Locle una mostra riflette sull’eredità culturale del Monte Verità e sul ruolo delle donne

CULTURA Pagina 39

Costi della sanità, le ricette di Baume-Schneider

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 21 maggio 2024 Cooperativa Migros Ticino
◆ ● G.A.A. 6592 San t’Antonino
Keystone
Christian Dorer – Pagina 29 Carlo Silini
VOTAZIONE GENERALE 2024 Rinnoviamo a tutti i soci l’invito a partecipare alla votazione generale. Ultimo termine per la spedizione o la consegna della scheda SABATO 1° GIUGNO 2024

Un circolo virtuoso e… locale

Info Migros ◆ È prevista fra poco più di un mese l’apertura della nuova filiale

Migros Bellinzona Nord

Mixology in Vetta

Sunset Apero ◆

Mancano ormai poche settimane all’apertura del supermercato Migros Bellinzona Nord, in Via San Gottardo. Un investimento importante per Migros Ticino che, attraverso la costruzione di un edificio futuristico votato alla sostenibilità e all’impiego di maestranze locali (l’impresa generale è la luganese Garzoni SA), vuole segnalare anche in questo modo il proprio interesse al territorio. L’azienda è infatti convinta dell’importanza della realizzazione di un circolo virtuoso, in cui siano coinvolti in primis attori locali, ossia tutti quei fornitori che a loro volta sono parte attiva di un sistema di valorizzazione delle competenze artigianali e di sostenibilità.

La nuova filiale Migros Bellinzona Nord, grazie al fotovoltaico, sarà del tutto autosufficiente dal punto di vista energetico

«Quello di Migros Bellinzona Nord è un investimento importante» conferma Willy Zanini, responsabile dipartimento immobili, logistica e tecnica di Migros Ticino, «che complessivamente arriva a sfiorare i 12 milioni di franchi. L’edificio sarà composto da un piano interrato per i parcheggi, dal piano terra dove sorgeranno il supermercato e un bar, e da un primo piano destinato a diventare superficie amministrativa per uffici o servizi». Il supermercato, di media dimensione (la sua ricca offerta sarà disposta su una superficie di vendita di ca. 1000 metri quadrati), offrirà un servizio di qualità con una buona acces-

sibilità a un quartiere che negli ultimi anni, grazie alla costruzione di una serie di abitazioni, alla presenza di una scuola media, e alla realizzazione del centro abitativo e di cura Tertianum Turrita, ha visto un aumento significativo della popolazione. «Un occhio di riguardo è stato rivolto anche alla questione della sostenibilità», spiega l’architetto di Migros Ticino Roberto Isabella, confermando così la sensibilità dell’azienda, oltre che per l’indotto economico locale, anche in materia di consumi e ambiente. Migros Bellinzona Nord sarà infatti tappezzata di panelli fotovoltaici non solo sul tetto (con un impianto standard), ma anche in facciata, per quello che diventerà il più grande impianto fotovoltaico in facciata su un edificio privato in Ticino.

Il progetto in questione è stato affidato all’azienda Greenkey di Kim Bernasconi, da undici anni con sede a Pregassona e succursale ad Airolo per un totale di 12 dipendenti. A proposito dei dettagli dell’impianto, spiega Kim Bernasconi: «Sul tetto, con la sua superficie di 1000 metri quadrati, ci saranno 221 kWp, per una produzione di 235 MWh/anno. Per quanto riguarda invece la facciata, avremo una potenza di 130 kWp per una superficie complessiva di 1290 metri quadrati e una produzione energetica annua di 66 MWh. A giorni faremo il controllo finale dell’impianto. Il centro avrà un grande autoconsumo, poiché il consumo di un supermercato è elevato, mentre una piccola parte della produzione di elettricità verrà rivenduta all’Azienda elettrica ticine-

La necessità del coraggio

Veduta aerea del nuovo supermercato Migros in Via San Gottardo a Bellinzona. (Greenkey)

Il Mixology Bar del FLAMEL sul Monte Generoso

Il 31 maggio 2024, al Fiore di pietra in vetta al Generoso, un’esperienza unica attende tutti gli amanti dei cocktail e della natura, grazie alla collaborazione tra il mixology bar FLAMEL dell’Hotel Lugano Dante e la Ferrovia Monte Generoso.

se. Grazie all’impianto sarà possibile risparmiare 39t di CO2 (1500 alberi) all’anno, e la “facciata solare” permetterà di produrre energia soprattutto in inverno, quando il fabbisogno è più alto. La soluzione con il fotovoltaico è perfetta, sia dal punto di vista ambientale sia da quello dei costi; inoltre è importante l’aspetto di produzione dell’energia in loco». In fondo, fra gli scopi della realizzazione di un progetto di tali dimensioni – oltre al desiderio di migliorare l’offerta per la clientela – vi è anche quello di rafforzare il tessuto economico della regione, nella consapevolezza dei riverberi positivi che le scelte local possano avere, sia sul piano delle competenze e della manutenzione, ma anche, e non da ultimo, su quello umano.

Sponsoring ◆ Con il sostegno del Percento culturale Migros nasce a Lugano il primo Festival di storia

ATIS, Associazione Ticinese Insegnanti di Storia, un po’ per festeggiare i primi vent’anni di attività, ma soprattutto per gettare le fondamenta di un confronto continuativo con quelle che sono le sfide di un’epoca complessa come la nostra, ha dato vita al primo festival di storia su suolo ticinese, Echi di storia. L’appuntamento si estenderà su quattro giorni, dal 6 al 9 giugno, in diversi luoghi della città di Lugano, tra cui l’Asilo Ciani, lo Studio Foce e la Biblioteca cantonale.

Attraverso il Festival di storia si cercherà di «abbracciare le grandi questioni del nostro tempo»

Durante le numerose conferenze previste interagiranno voci autorevoli del panorama storico-culturale svizzero e italiano per dialogare intorno al tema del coraggio.

azione

Settimanale edito da Migros Ticino

Fondato nel 1938

Abbonamenti e cambio indirizzi

tel +41 91 850 82 31

lu–ve 9.00 –11.00 / 14.00 –16.00 registro.soci@migrosticino.ch

Ne abbiamo parlato con Leonardo Marchetti, insegnante e appassionato di storia, fra gli organizzatori dell’evento, chiedendogli il perché di un Festival di storia: «Da quando mi è venuta l’idea, nel giugno di un anno fa, mi rimbalza in mente la frase di Voltaire dell’Encyclopédie in cui egli, a proposito degli storici, si chiede “se il vostro lavoro consiste nel dirci quale sovrano è subentrato al suo predecessore sulle rive del fiume Oxus, in che cosa siete voi utili al pubblico?”. L’archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli risponde

Redazione Carlo Silini (redattore responsabile)

Simona Sala

Barbara Manzoni

Manuela Mazzi

Romina Borla

Natascha Fioretti Ivan Leoni

a Voltaire qualche secolo più tardi, affermando che compito dello storico è quello di farsi capire».

Continua Marchetti, «Secondo Bianchi Bandinelli la divulgazione è forse l’apice del nostro compito di storici, ma dobbiamo studiare molto per non diffondere notizie rancide. Anche l’obiettivo del nostro Festival è quello di non diffondere “notizie rancide”, ma di portare il pubblico ad ascoltare una storia che sia ben ricercata, ben pensata e infine ben divulgata. La storia oggi deve favorire lo sviluppo

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Telefono tel + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89

Indirizzo postale Redazione Azione CP 1055 CH-6901 Lugano

di uno sguardo critico e abbracciare le grandi questioni del nostro tempo, non però per giudicarle, quanto invece per comprenderle con spirito critico, a partire dal passato. In fondo la storia, a chi vi si voglia avvicinare, insegna a guardare dalla finestra qualcosa che si può vedere pur non potendola toccare; e se la storia, descrivendo e interpretando gli eventi non può prevedere ciò che accade, consente di essere avvisati della possibilità che qualcosa accada». Proprio per dare seguito a questa disposizione divulgativa, le conferenze di Echi di storia saranno gratuite. Prossimamente sulle pagine di «Azione» troverete maggiori dettagli riguardo al Festival.

Dove e quando Echi di storia – Il coraggio; Lugano, 6-9 giugno 2024. Info: www.echidistoria.ch

Posta elettronica info@azione.ch societa@azione.ch tempolibero@azione.ch attualita@azione.ch cultura@azione.ch

Pubblicità Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino tel +41 91 850 82 91 fax +41 91 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

La serata Sunset Apero prevede una «Mixology Session» speciale, dove verranno offerti sette cocktail unici nel loro genere, tra cui una creazione esclusiva a base di tisana del Monte Generoso, bevanda realizzata con erbe cresciute sulla montagna. Il tutto sarà accompagnato da un tramonto indimenticabile e selezioni musicali di DJ.

Il Bar Flamel e la Ferrovia Monte Generoso manifestano un impegno profondo e condiviso verso la sostenibilità: valore fondamentale che guida entrambe le istituzioni, riconosciute da «Swisstainable», la certificazione del turismo sostenibile di Svizzera Turismo.

L’Hotel Lugano Dante è un esempio di sostenibilità nel cuore di Lugano. Attraverso il suo progetto Flamel Urban Farming, infatti, ha trasformato il tetto dello stabile in un orto urbano che fornisce ingredienti freschi e biologici per i cocktail, contribuendo alla biodiversità urbana e offrendo un habitat per la fauna. La FMG si impegna per operare in armonia con l’ambiente al fine di ridurre l’impatto ambientale delle operazioni ferroviarie e conservare il paesaggio naturale.

Informazioni

Venerdì 31 maggio 2024

Partenza da Capolago: 19.00

Ritorno dalla Vetta: 23.15

Prezzo: adulti e ragazzi: 32 CHF www.montegeneroso.ch

Concorso

«Azione» mette in palio 2 ticket per la serata Mixology in Vetta in collaborazione con il Bistro Flamel del 31 maggio. I biglietti comprendono l’andata e il ritorno a bordo del trenino a cremagliera e un drink in Vetta. Per partecipare al concorso mandare una e-mail a giochi@azione.ch (oggetto «Flamel») indicando i propri dati entro domenica 26 maggio 2024 (estrazione 27 maggio). Buona fortuna!

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino tel +41 91 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria – 6933 Muzzano Tiratura 97’925 copie

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 21 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 2

SOCIETÀ

La colonia Badabum

Il progetto musicale multiculturale dei Giullari di Gulliver coinvolge ragazzi dai 13 ai 16 anni

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Nuove prospettive vaccinali

Sensibilizzazione e prevenzione contro il papilloma virus (HPV) senza distinzioni di genere

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«Ma mi stai ascoltando?»

Un drone salva-selvaggina È tempo di fienagione: attenti a baby caprioli e piccoli di cervo nascosti dalle madri nell’erba alta

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Istantanee sui trasporti

Con i mezzi pubblici o in automobile: come valutiamo le spese per gli spostamenti?

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Il caffè delle mamme ◆ I ricercatori hanno dimostrato che il cervello degli adolescenti è «programmato» per prestare maggior attenzione alle voci degli estranei, mentre ciò che dicono i genitori diventa poco più che un rumore

Avvertenza per le mamme: la lettura di quest’articolo potrà creare frustrazione soprattutto in chi finora si è cullata nell’idea che già i feti nell’utero sono in grado di riconoscere la voce della madre ancor prima di nascere e che ai figli basta parlare con noi per gestire le ansie e le preoccupazioni causate dalle sfide quotidiane. Tutto vero, ma fino a una certa età! Con il Caffè delle mamme dello scorso ottobre ci siamo già rassegnate a un dato di fatto: l’età del dialogo con i figli è fino ai 12 anni. «I genitori devono sapere che la loro parola è significativa fino quest’età – è la triste realtà che ci ha sbattuto in faccia lo psicoanalista e filosofo Umberto Galimberti –. Poi si interrompe la relazione verticale genitore-figlio e comincia quella orizzontale con gli amici». Ma adesso dobbiamo confrontarci con un’altra verità: durante l’adolescenza i meccanismi del cervello dei nostri figli fanno sì che la nostra voce – nostra intendo proprio quella di noi madri –diventi poco più che un rumore!

Secondo lo psichiatra Daniel Abrams proprio come un bambino sa sintonizzarsi con la voce della propria mamma, la mente di un adolescente è sempre più sensibile e attratta da voci sconosciute

La questione è venuta fuori a un Caffè delle mamme durante le vacanze di Pasqua al mare con mio marito Riccardo, una coppia di amici e i nostri figli 10enni: quelli grandi sono rimasti a casa da soli per sperimentare la loro libertà da 16-19enni. Il punto è che a nessuno di noi rispondevano al telefono anche solo per dire: «Tutto ok!». Un nervoso sfogato in infinite chiacchierate su come comportarci con questi benedetti adolescenti. Poi mi ricordo di avere letto qualche tempo fa uno studio dello psichiatra Daniel Abrams della Stanford University School of Medicine, pubblicato il 28 aprile 2022 su una delle più importanti riviste scientifiche del settore, «The Journal of Neuroscience», e rilanciato di recente dalla stampa italiana. La sua (ri)lettura è un colpo al cuore.

I partecipanti sono 46 bambini e adolescenti tra i 7 e i 16 anni a cui viene «scannerizzato» il cervello con la risonanza magnetica mentre ascoltano tre parole: teebudieshawlt, keebudieshawlt e peebudieshawlt. Il protocollo dello studio è approvato dal comitato di revisione istituzionale dell’Università di Stanford. Daniel Abrams e il

suo team scelgono apposta tre termini senza senso in modo che i partecipanti non abbiamo degli stimoli condizionati dal significato emotivo che le parole potrebbero suscitare in loro. Le pronunciano la madre di ciascuno dei bambini e adolescenti coinvolti nello studio e altre due donne estranee. Ecco i risultati: mentre i bambini più piccoli mostrano una maggiore attività neurale (ossia aree del cervello che si attivano) per la voce materna rispetto alle voci estranee, gli adolescenti mostrano una maggiore attività neurale per le voci delle donne sconosciute. Sigh!

Il passaggio dalla voce prevalente della madre a quella delle due estranee avviene tra i 13 e i 14 anni. Tutto drammaticamente torna: non solo con i 12 anni siamo ormai verso la fine del processo educativo e formativo primario perché da quel momento le nostre parole rischiano di cadere nel vuoto, ma addirittura la nostra voce è un sottofondo rispetto a quella di due estranee. «Proprio come un bambino sa sintonizzarsi con la voce

della propria mamma, un adolescente sa sintonizzarsi con nuove voci –dice Abrams –. Da adolescente uno non si rende conto che lo sta facendo. È semplicemente sé stesso: ha i propri amici e compagni e vuol passare del tempo con loro. Ma la sua mente è sempre più sensibile e attratta da voci sconosciute». L’autore senior dello studio, il direttore dello Stanford Cognitive and Systems Neuroscience Laboratory, Vinod Menón sottolinea: «È il segnale che un bambino a un certo punto diventa indipendente, e questo è accelerato da un impulso biologico sottostante che aiuta gli adolescenti a interagire con il mondo e a formare connessioni che consentono loro di essere socialmente pronti a muoversi al di fuori della famiglia». La chiamano sana maturazione. È il salto che li rende pronti a volare verso le sfide del mondo. Al Caffè delle mamme ci domandiamo, però, che cosa ci sia di maturo nel fatto che la nostra voce probabilmente non sia neanche più un rumore, perché anche in casa i nostri figli hanno perenne-

mente le cuffie sulle orecchie e verosimilmente non ci sentono proprio. Lo psicoanalista Massimo Ammaniti nel nuovo saggio I paradossi degli adolescenti (maggio 2024, Raffaello Cortina ed.) scrive: «L’adolescenza è un periodo contrassegnato da comportamenti e spinte inconciliabili che nei genitori suscitano incomprensioni e perplessità. L’adolescenza è un’età paradossale: è una fase di rottura rispetto al passato, eppure gli anni dell’infanzia continuano a condizionare il presente; gli adolescenti sono presi da loro stessi, eppure vivono per l’approvazione dei coetanei; sono più liberi, più indipendenti e più viziati che in passato, eppure dai loro occhi traspare sempre più spesso un malessere indefinibile. Si è convinti di aver capito quello che succede nella loro testa, ma poi procedono in un’altra direzione. Per molti genitori la soluzione più tranquillizzante è quella di avere con i figli adolescenti un rapporto amichevole, fatto di complicità e di confidenza. Di sicuro è un modo per evitare contrasti e conflitti, ma è ovvio che questa situa-

zione ha dei riflessi sul carattere dei ragazzi: senza il confronto (e anche lo scontro) non si instaura quella dialettica che fortifica il loro carattere e stimola la loro autonomia. Non c’è altra strada che quella di accettare questi contrasti e attendere che col tempo siano loro stessi a scioglierli». Morale: quando i nostri figli adolescenti sembrano non sentirci, non è semplicemente che non vogliono pulire la loro stanza o finire i compiti: il loro cervello non registra la nostra voce come faceva in età preadolescenziale. Quando gli adolescenti sembrano ribellarsi non ascoltandoci, è perché sono programmati per prestare maggiore attenzione alle voci al di fuori della loro casa. E a noi genitori che ci sentiamo frustrati e persi, non resta che farci coraggio: «Questo – ribadiscono Abrams e il suo team di ricercatori – è il modo in cui il loro cervello è cablato, e c’è una buona ragione per questo». Sarà, ma la fatica (immane) resta! Insieme alla voglia, a volte, di gridare per farsi non solo sentire ma anche ascoltare.

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 21 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 3
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Simona Ravizza

Ricostruito in tempi record dopo il devastante incendio del 2020, a ottobre dello scorso anno il Mulino di Maroggia ha riaperto la sua attività secondo gli standard più moderni. «Il nuovo impianto di macinazione permette di produrre le stesse farine di qualità del vecchio mulino, ma con una grande differenza: con la tecnologia più attuale 100% svizzera dell’azienda Bühler di Uzwil, leader mondiale nel campo della trasformazione dei cereali», ci spiega Alessandro Fontana, intraprendente titolare del Mulino Maroggia.

La nuova farina integrale nostrana è in vendita nei principali supermercati di Migros Ticino

Le nuove tecnologie hanno permesso di implementare e migliorare tutto il processo di lavorazione. «Questo già a partire dalla ricezione della materia prima, grazie anche all’utilizzo di mezzi gommati, che permettono per esempio ai produttori di cereali della regione di scaricare più facilmente i loro prodotti». Sostanzialmente perfezionati sono anche lo stoccaggio nelle materie nei silos condizionati per poter controllare eventuali infestanti; la pulitura dei cereali che, grazie a una selezionatrice ottica, permette di riconoscere e scartare i chicchi deteriorati.

Perfetta per ogni tua ricetta

Novità ◆ La farina integrale di frumento biologica è il nuovo prodotto regionale di Migros uscito dagli impianti del Mulino di Maroggia

Le settimane dei Nostrani del Ticino fino al 27 maggio

Fiore all’occhiello dell’azienda è la sezione dedicata alla macinazione. Alessandro Fontana: «Essa ora è completamente controllata da computer e sensori che ci permettono

non solo una lavorazione più efficace in termini di resa, ma anche più razionale e meno dispendiosa in termini energetici. Segue poi la sezione dei prodotti finiti e quella della

miscelazione, completamente interconnesse, così da poter creare miscele in base alle richieste specifiche di ogni cliente. Infine, il nuovo impianto permette di separare i pro-

dotti così da poter gestire al meglio i vari marchi, come ad esempio i prodotti biologici o quelli ottenuti da grani a produzione integrata (IP-SUISSE)».

Una farina versatile e nutriente

La nuova farina integrale di frumento bio proviene al 100% da grani biologici coltivati sul Piano di Magadino. È una farina scura, ottenuta dalla macinazione del chicco intero. Ricca di fibre, è indicata per la preparazione di pani, pani in cassetta, cracker, grissini, panini e focacce. La si può utilizzare anche mischiata con la farina bianca dei nostrani, conferendo così maggior gusto e un maggior apporto di fibre a tutte le altre preparazioni classiche.

Naturalmente si possono preparare anche dei biscotti particolarmente sani, magari aggiungendo dei fiocchi e del miele ticinese. Un’altra possibilità è realizzare una pasta frolla come base per qualsiasi torta, che conferisce un risultato più saporito. Infine,

ricordiamo che del Mulino Maroggia nei supermercati di Migros Ticino da alcuni anni sono disponibili altri tre apprezzati prodotti, la farina bianca 00, la farina di segale e la farina per pizza.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 21 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 4
integrale di frumento bio 1 kg Fr. 3.90
Farina
Secondo Alessandro Fontana, titolare del Mulino Maroggia, la farina integrale bio è ideale per la preparazione di molte ricette. (Flavia Leuenberger)

Le succose fragole prodotte da Sevenja Krauss sono coltivate in modo sostenibile (in pieno campo e sotto tunnel) e arrivano nelle filiali Migros entro 24 ore dal momento della raccolta, al fine di garantire la massima freschezza per i consumatori. Il vento che soffia regolarmente sul Piano di Magadino rappresenta un importante «alleato» per la coltura, in quanto mantiene i frutti asciutti e aiuta a evitare la proliferazione di parassiti e malattie. L’uso di fitosanitari avviene solo in caso di reale necessità. La raccolta è eseguita manualmente al giusto grado di maturazione.

Fragolosamente nostrane

Attualità ◆ Le fragole sono tra i frutti più amati, soprattutto quando sono di stagione e di produzione locale. Sugli scaffali di Migros Ticino sono tornate quelle freschissime prodotte sul Piano di Magadino dalla giovane coltivatrice Sevenja Krauss. Alcune curiosità per conoscere meglio questi frutti irresistibili

Lo sapevate che il classico frutto rosso con i puntini è in realtà un falso frutto?

I veri frutti di queste piante sono molto più piccoli e distribuiti sulla superficie rossa, spesso scambiati per i semi.

Le fragole sono in grado di adattarsi a situazioni ambientali molto diverse: le piante possono resistere fino a 1000 metri s.l.m.. Le varietà in commercio derivano dall’incrocio avvenuto molti anni fa tra due specie americane: Fragraria chiloensis e Fragraria Virginia, dando origine alla capostipite

Fragraria X ananassa, con succose varietà a frutti grandi. Le fragole di bosco appartengono alla specie Fragraria vesca. Si suppone che le prime fragole, dai frutti molto più piccoli, siano originarie del Cile e siano state scoperte nel 1712 da un escursionista francese.

Le fragole sono piante perenni e rimangono produttive dai 3 ai 5 anni, preferendo posizioni a mezz’ombra, non gradendo il solleone dei mesi caldi. Si moltiplicano da seme o più

facilmente tramite gli stoloni, dei rametti laterali che si allungano a livello del suolo e in grado di emettere radici, foglie e nuovi frutti.

Ricchissime di vitamina C, le fragole sono formate dal 90% di acqua e contengono diverse preziose sostanze. Il loro colore brillante deriva dalla presenza di antocianine, preziosi antiossidanti con svariati benefici. Sono cugine strette delle rose, poiché appartengono alla stessa famiglia, quella delle Rosaceae.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 21 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 5
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Combattere le cause * del sanguinamento gengivale Collutorio Meridol 2 x 400 m conf. da 2 23% 10.70 invece di 13.90 Spazzolino Meridol morbido conf. da 2 20% 6.80 invece di 8.60 Dentifricio Meridol 2 x 75 ml conf. da 2 23% 7.95 invece di 10.40 Persanegengive Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli già ridotti. Offerte valide dal 21.5 al 3.6.2024, fino a esaurimento dello stock. *Combatte la placca batterica prima che insorga il sanguinamento delle gengive, con un uso regolare. ** in caso di gengiviti è la famiglia di prodotti meridol®. Indagine sui collutori completato con 150 dentisti e 79 igienisti dentali svizzeri, gennaio-febbraio 2023.

I ragazzi della colonia

dell’estate 2023 sul palco alla fine di uno dei loro concerti. (www.giullari.ch)

Nulla di nuovo sotto

il sole, o invece sì?

Vivere oggi ◆ L’artista Nemo in Svezia ha portato un testo che è anche una confessione

Simona Sala

Badabum, arriva la musica!

In estate ◆ La colonia multiculturale creata dall’Associazione Giullari di Gulliver coinvolge a suon di note ragazzi con passato migratorio e ticinesi

Cantare all’unisono lingue diverse, comunicare con le note e imparare a conoscere strumenti nuovi. Un accordo segue l’altro accordo, una melodia racconta chi sei, le parole dicono nella lingua del cuore. Insieme si suona, insieme si cresce, insieme si vive un’estate che racchiude il mondo. Queste sono le mie impressioni dopo aver ascoltato Francesco Rezzonico e Paula Leu, Cek e Poz, mentre mi raccontano di Badabum, una delle colonie dell’Associazione Giullari di Gulliver. Senza parlare troppo, loro l’inclusione la praticano, è accoglienza e cultura, è creare insieme brani originali da portare su un palco. Più di una colonia estiva residenziale, Badabum è un progetto multiculturale per una quindicina di partecipanti, ticinesi e rifugiati, dai 13 ai 16 anni. Un percorso di creazione musicale che prevede alla fine la presentazione dei brani in concerti sparsi per il Canton Ticino. Cek è musicista, è il co-fondatore e co-responsabile della colonia insieme a Francesco Berta. Facendosi ispirare da «Emilio e una nota», un altro progetto molto simile sempre di casa Giullari, tre anni fa i due hanno lanciato Badabum, che sembra il naturale seguito, anche per quanto riguarda il tema dell’integrazione. All’idea aderisce immediatamente anche Poz, che dopo anni di colonie nell’ambito dell’handicap cercava un’esperienza legata alla musica, che andasse incontro anche alla sua formazione professionale – attualmente sta conseguendo un Master in musicologia. «Ma quello che ha acceso la mia curiosità è stato soprattutto l’aspetto integrativo:

L’esperienza

di Jambo

Mi chiamo Jambo e faccio la prima liceo a Locarno. Son arrivato dall’Eritrea nel 2011. A otto anni ho iniziato a interessarmi al sassofono, e la fondazione di cui faccio parte mi ha aiutato a cercare una colonia focalizzata sulla musica: Badabum! Mi sono iscritto alla primissima edizione. Mi sono integrato in fretta e ho trovato persone che mi hanno accolto per quello che sono. Questo mi piace molto, come il fatto che ti insegnano a suonare qualche accordo con la chitarra, e dopo l’estate ti vien voglia di imparare ancora meglio. Suono il sax da 4 anni, ho fatto il corso di musica e gli esami alla FeBaTi (Federazione bandistica ticinese), ma in colonia ho suonato

un’esperienza aperta a 8 adolescenti ticinesi e 8 adolescenti con passato migratorio».

Integrazione è una parola che viene usata spesso in questi anni, ma si tratta sempre di integrare qualcuno in qualcosa di pre-esistente. In questo caso, invece, tutto nasce insieme. «E questo funziona molto bene perché lo scambio che si crea durante la colonia poi dura anche dopo» mi racconta Cek. In realtà «l’aspetto dell’integrazione non viene tematizzato in maniera particolarmente attiva durante la colonia. Non viene affrontato o verbalizzato, è semplicemente parte della natura del progetto e questo penso che sia evidente per tutti. Accade in maniera spontanea e naturale». Per eccellenza linguaggio universale e non verbale, la musica aiuta sicuramente anche chi fa fatica con le parole. «Creare la propria musica, portarla in giro, è un aspetto al quale si somma poi il discorso integrativo. Le due cose vanno di pari passo senza essere collegate in maniera più teorica» continua il musicista.

I ragazzi scrivono nella loro lingua oppure decidono di farlo in italiano perché si vogliono far capire dal pubblico. «Il linguaggio della musica è il più idoneo a esprimere emozioni o vissuti difficili», aggiunge Poz, per la quale integrazione è proprio creare spazi di incontro sociale tra persone che hanno storie diverse alle spalle, «oggi ne abbiamo particolare bisogno, soprattutto in Ticino. Quello che caratterizza Badabum è il fatto di vivere due o tre settimane in residenza, confrontandosi tra pari, tra adole-

anche la chitarra, il basso, ho cantato, tutte cose che sognavo di fare già prima. Non mi dimenticherò mai una canzone della prima edizione, La giraffa: è partita dal testo scritto da un mio compagno che io e il batterista abbiamo adattato, ed è la prima che ho suonato. Per me la musica è principalmente un’arte che trasmette emozioni e mentre suoni tu fai provare un sentimento anche agli altri. Ti sfoga, puoi suonare nel tempo libero, o in qualsiasi momento. La musica è qualsiasi cosa in realtà: una volta a scuola ho sentito un ragazzo camminare, sono andato a ritmo col suo passo, e schioccavo le dita. La musica è tutto.

scenti. Noi siamo solo la cornice che contiene il processo».

Bisogna suonare già uno strumento o saper cantare? No – ci dicono gli animatori – per partecipare basta l’interesse verso un’esperienza del genere. Durante l’anno vengono proposti pomeriggi con ragazze e ragazzi per farsi conoscere (gli ultimi due si sono tenuti in questi mesi di aprile e maggio) e dove si possono portare strumenti, fare attività legate alla musica. C’è anche chi arriva senza aver mai toccato uno strumento. Insomma si sperimenta, si impara e alla fine si sale sul palco. Questo non vale solo per i partecipanti, anche i monitori non sono tutti professionisti in ambito musicale. Alcuni trasmettono tecnica e conoscenza, spiegano come impostare i brani. Ci spiega Poz: «I partecipanti portano i loro testi, le loro idee e noi li aiutiamo a capire come dar forma alla loro creatività». Alcuni invece hanno una formazione in ambito sociale, nella relazione con l’altro. Per Cek, «questo insieme di musica e pedagogia è una formula che funziona benissimo. Se fossimo tutti musicisti non sarebbe la stessa cosa, e viceversa. Si crea un equilibrio molto interessante, è stimolante, crea nuove occasioni».

Si sente l’emozione tra le parole, si immagina quella dei giorni estivi, prima di salire sul palco «quando dopo tutto il lavoro preparatorio si sente l’adrenalina del primo concerto, e si vedono i ragazzi carichi!» ricorda Poz. «Viviamo tantissimi momenti molto belli e intensi in modi diversi. Assistere ai percorsi, la crescita personale dei ragazzi anno dopo anno, ci coinvolge. Vederli sul palco con questa energia pazzesca, convinti del loro lavoro dopo tante insicurezze… Questa energia arriva e viene percepita dal pubblico, io ho avuto la pelle d’oca a più di un concerto», dice Cek. Anche quest’anno la colonia Badabum si terrà al Luzzone, in Val di Blenio, dal 4 al 22 luglio. Ci sono ancora posti liberi, per informazioni badabum@giullari.ch. Tra il 18 e il 21 luglio invece si potranno ascoltare le creazioni 2024 in giro per il Canton Ticino. Mi lasciano con il racconto delle loro spedizioni serali alla diga del Luzzone, vicino a dove dormono, a guardare le stelle. E io acchiappo al volo questa immagine per appiccicarla alle parole sentite durante un loro concerto: «Che tanto ognuno è già un supereroe / Vorrei solo vedere una sfumatura di colore / Come fuochi d’artificio sulle stelle»

Nulla di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire a quelli di una certa generazione, al cospetto di Nemo (e non solo) e del suo rapporto libero da schemi con la moda e con la propria definizione di sé. Nemo porta le unghie lunghe e laccate, si trucca, si veste da ragazza, ma anche da ragazzo, non rinnega infatti la propria appartenenza biologica, ma ne rivendica una terza quando di mezzo c’è il genere. Lui non si sente donna, o uomo, generi binari per definizione, ma qualcosa di diverso. Ossia intravvede una nuova possibilità di appartenenza, da esprimersi, invece che con lei/lui, con loro, mutuato dall’inglese they, cui in italiano si sopperisce con la (schwa), garante di inclusione poiché indefinita e libera da ordini sociali (in passato individuati in quella che in tedesco si chiama Biederkeit, ossia «piccola borghesia»).

Il mondo dello show business, e prima ancora quello dell’arte in genere, si sa, è stato nei secoli un fondamentale veicolo di novità, segnalando alla società quelli che in qualche modo ne sarebbero stati i cambiamenti imminenti, soprattutto nel mondo occidentale. Così, se David Bowie, oltre a crearsi degli alter ego, mezzo secolo fa si cimentava con l’androginia, glissando elegantemente quando confrontato con la propria appartenenza, qualche anno più tardi Renato Zero giocava all’ambiguità insieme a Patty Pravo, il primo gettando polvere negli occhi di chi lo voleva gay oppure invece etero, la seconda ammiccando audacemente ad attività da alcova. Qualche anno fa, in pieno primo Covid, Sanremo ha fatto da sfondo alla passerella personale di Achille Lauro, impegnato, lui uomo, in una rivisitazione storica di personaggi eccentrici femminili. Prima ancora, l’austriaca Conchita Wurst (a Eurovision), si era proposta, vincendo, con capelli lunghi, tacchi, make up e abito attillato, concludendo con una barba, e mandando, allora come oggi, in visibilio la stampa di mezzo continente. In ambito letterario, nel 2022 l’autore Kim de l’Horizon (come Nemo, della regione di Berna) ritirava l’ambito Deutscher Buchpreis in gonna paillettata e top, baffi e trucco.

L’ultimo, in ordine di tempo, è ora Nemo, la cui canzone The Code è una sorta di confessione dove narra un percorso di crescita che gli ha permesso di rompere con quelli che sono

gli schemi prefissati. Il dolore che ha caratterizzato il suo processo interiore viene raccontato con semplicità e senza tabù, dando voce a una generazione che ha deciso di rompere a sua volta con quella che era la disposizione esistenziale dei genitori; ed è questa la novità rispetto a quanto suscitato dalle star del passato.

La non binarietà su cui ci si è un po’ ovunque chinati in seguito alle parole di Nemo, infatti, se può apparire di non immediata comprensione a molte e molti nati/e nel secolo scorso, risulta invece addirittura naturale per le generazioni più giovani, dove la discussione intorno ai temi di genere e appartenenza è quasi all’ordine del giorno. Ma se un tempo si guardava agli eccessi (di sincerità, sregolatezza, virtù, …) delle star come a un peso lordo cui dare la tara, oggi – con tutta probabilità anche grazie all’ausilio dei social – tutto viene assorbito all’istante e senza filtri.

Nei suoi riverberi positivi, questo fenomeno di emulazione permette oggi a un ragazzo di truccarsi la sera senza temere il dileggio (almeno nelle grandi città) e a una ragazza di giocare a calcio (ovunque). Quelli negativi non ci sono ancora pervenuti, troppo giovane è infatti il fenomeno. Anche questo può essere un inevitabile sintomo di quella che Bauman aveva sagacemente definito la società liquida, ma forse, ed è ciò che ci si auspica, l’adesione alla riflessione intorno agli schemi sociali da parte delle generazioni più giovani, che vertano sul genere o altre lotte che possono apparire estreme, è unicamente espressione di un desiderio di maggiore rispetto dei diritti di ogni essere umano.

Le parole del testo presentato da Nemo a Malmö dunque, agli occhi di molti sono apparse liberatorie e capaci, finalmente, di dare una voce comune a quel sentire sempre più diffuso di non-appartenenza, o piuttosto, di adesione a una «terza via», in cui non è necessario essere per forza una femmina o un maschio.

Che poi Nemo abbia un talento incredibile, che sia attivo nell’ambito dello spettacolo sin da bambino, che abbia omaggiato anche il grande Mani Matter, che ne sappia sia di rap sia di lirica, e che con The Code abbia incantato con una voce strepitosa su un viso angelico e in un corpo minuto, è ancora un’altra storia.

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Nemo Mettler, classe 1998, è nato a Bienne. (Keystone)

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La conoscenza? Un problema da riconoscere

Tempi moderni ◆ L’avanzamento culturale di una società ha origine dalla qualità e quantità della sua produzione di conoscenza A questo riguardo, il ruolo della tecnologia è oggi molto delicato e insieme ambiguo

In un’intervista televisiva di molti anni fa, il celebre pianista Maurizio Pollini, alla domanda sulla natura della musica, rispose, quasi irritato dal quesito insieme banale e infinitamente complesso: «La musica? La musica è conoscenza». Conoscere è un verbo che usiamo tutti i giorni ma, spesso, sbagliando poiché in realtà ci riferiamo alla semplice acquisizione di informazione. La conoscenza si nutre certamente di informazione ma non vi si riduce. È facile constatare che, per esempio, fare la conoscenza di una persona, di un nuovo testo letterario o di un paesaggio mai visto prima, implica sicuramente la raccolta di informazione, ma non come quando consultiamo l’orario ferroviario.

«Conoscere» non si riduce all’acquisizione di informazioni, è un insieme di relazioni mentali ben più complesso

La conoscenza produce un insieme di relazioni mentali e significati, razionali ed emotivi, che vanno decisamente al di là dei «dati» portati all’attenzione del cervello dai nostri sensi. La definizione del Maestro Pollini, in questo quadro, è quanto mai preziosa. Il testo musicale e la

sua esecuzione sono proposti come un «paesaggio» sempre nuovo che si presenta come un evento intellettuale al pari di una nuova teoria scientifica, di una scoperta o di una nuova tecnologia e ciò indipendentemente dal fatto che si tratti di un evento accertato in ogni suo dettaglio. Inutile aggiungere, allora, che la filosofia, le arti e la stessa teologia sono primarie fonti di conoscenza poiché, nei casi migliori, propongono una visione, del mondo fisico o di quello metafisico, che induce nuovi stati mentali e nuovi spunti di riflessione. Se ci pensiamo, la nostra visione dell’esistenza, dell’andamento della storia e della società, è il frutto del nostro continuo coinvolgimento proprio in eventi conoscitivi.

Altra cosa è ciò che avviene quando riconosciamo qualcosa o qualcuno. Innanzitutto è chiaro che, per riconoscere qualcosa, dobbiamo averne fatto conoscenza in passato. Il riconoscimento può mobilitare stati d’animo precedenti, razionali ed emotivi, ma, in quanto tale, non genera alcunché di conoscitivamente nuovo. Di fatto, nella vita quotidiana così come in quella professionale, siamo molto più spesso attori di riconoscimento che di conoscenza. Inoltre, col passare degli anni, l’essere umano sostituisce gradualmente la conoscenza

con il riconoscimento. Nella crescita tutto è conoscenza, anche se non elaborata, perché tutto appare naturalmente come nuovo mentre, a maturità avvenuta, riconoscere diviene l’attività prevalente e tutto tende a essere ricondotto a conoscenze, al plurale, ormai largamente consolidate che definiamo come il nostro «sapere». Si consideri la «divisione del lavoro» che riguarda le funzioni degli scienziati e dei medici. I primi studiano e diffondono le ultime cono-

scenze acquisite su una certa malattia e sui sintomi che essa presenta e il medico cercherà di riconoscere la loro presenza nei pazienti. Così, un esploratore raggiunge una meta, ancora non conosciuta, aprendo una via che, poi, dovrà riconoscere per tornare alla base di partenza. Il ruolo dell’informazione, per il riconoscimento, è sicuramente molto più strategico che non per la conoscenza. Mentre nel riconoscimento ciò che conta è l’accurata elaborazione dell’informazione

disponibile, nei processi conoscitivi è indispensabile la valutazione critica e aperta della realtà. È rilevante osservare che l’avanzamento culturale di una società ha origine dalla qualità e quantità della sua produzione di conoscenza perché, come appare evidente, se una comunità si limitasse a vedere le cose e ad agire contando unicamente sul riconoscimento, e, dunque, su ciò che già si conosce, non farebbe alcun passo avanti. Il ruolo della tecnologia è, a questo riguardo, molto delicato e insieme ambiguo. In effetti, per esempio nell’ambito dell’intelligenza artificiale, qualsiasi dispositivo, pur utilissimo, – sia esso hardware o software – si basa essenzialmente sulla abilità di riconoscere le situazioni più diverse – nella guida di un veicolo, delle funzioni organiche, delle strutture chimiche e così via –non essendo in grado né di scorgere problemi originali né, tanto meno, di proporre ipotesi o visioni creative che non siano riconducibili alle conoscenze e alle modalità logico-matematiche che l’uomo vi ha trasferito. Per ora, software e hardware possono stimolare l’attenzione dell’uomo e divenire possibili fonti di conoscenza solo quando, per qualche ragione, si comportano in modo imprevisto. Pur non rendendosene conto.

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HPV: nuove indicazioni vaccinali

Medicina ◆ Dall’inizio di quest’anno, la prevenzione contro il papilloma virus non fa più distinzione di genere, ed è diventata per i ragazzi una vaccinazione di base

«A partire da gennaio di quest’anno la Svizzera intende rimediare alla differenza di raccomandazioni fra maschi e femmine a proposito del vaccino di base contro il papilloma virus (HPV), ora caldamente consigliato per tutti gli adolescenti da 11 a 14 anni indipendentemente dal sesso». Così esordisce il dottor Alessandro Diana, pediatra infettivologo, che spiega come questa decisione dell’Ufficio federale della sanità pubblica (Ufsp) poggi sui nuovi dati epidemiologici che hanno dimostrato chiaramente l’impatto della patologia causata dal papilloma virus anche nei maschi: «È inoltre importante sottolineare che il vaccino offre una protezione essenziale contro il tumore».

Presto riassunto il passo in avanti rispetto alle precedenti raccomandazioni che differivano secondo il sesso: «La novità concerne il passaggio dall’attuale vaccinazione complementare contro i virus HPV a una vaccinazione di base per i ragazzi dagli 11 ai 14 anni, allineando in tal modo le raccomandazioni a quelle già in vigore per le ragazze e le giovani donne». Lo specialista giustifica la decisione che è ritenuta motivata da un aumento della morbidità negli uomini (vedi nuovi dati epidemiologici di cui sopra): «Per giunta, oltre che essere in linea con le raccomandazioni di parecchi Paesi europei e degli Stati Uniti, l’omologazione vaccinale tra maschi e femmine mira a garantire un accesso egualitario ai vaccini».

Un nuovo approccio che, prosegue il nostro interlocutore: «Andrà a rinforzare la protezione dalle malattie provocate da HPV che possono essere prevenute con un vaccino, e contribuirà a ridurre la loro trasmissione nei due sessi. Inoltre, bisogna sempre sottolineare che per ottenere la massima efficacia, è raccomandato terminare la vaccinazione prima dell’inizio dell’attività sessuale; dunque di preferenza, lo ripetiamo, fra gli 11 e i 14 anni». Esistono più di cento tipi diversi di virus del papilloma umano (HPV) che infettano la pelle o le mucose genitali: «Questi virus si trasmettono molto facilmente durante le relazioni sessuali, tramite un semplice contatto con la pelle o le mucose infette. Alcuni ceppi di virus HPV causano verruche genitali, lesioni precancerose e carcinomi nelle zone genitali, in bocca o in gola».

I dati indicano che nel nostro Paese (e ovunque nel mondo) i virus HPV sono la causa più frequente di infezioni sessualmente trasmissibili e si stima che più del 70 percento degli uomini e delle donne sessualmente attivi siano contaminati nel corso della loro vita; il rischio d’infettarsi con il virus HPV è nullo in assenza di relazioni sessuali, ma cresce rapidamente con l’aumentare dei partner sessuali. Ciò fa sì che il rischio di contagio in Svizzera sia massimo tra i 16 e i 25 anni di età; ciò corrisponde al periodo durante il quale si verifica la metà delle infezioni. «La maggior parte di queste è asintomatica e la persona infetta non sa di essere contagiosa. Poi, certi virus HPV (come i tipi 6 e 11) generano delle verruche genitali (ndr: condilomi) che possono essere visibili o nascoste».

Sempre in Svizzera, si stima che una persona su dieci ne sarà colpita nel corso della vita, e in una donna su 4 o 5 circa, un’infezione da HPV dei ceppi 6 o 18 si trasforma in lesioni precancerose o in un carcinoma, per esempio a livello del collo dell’utero; lesioni che possono essere diagnosticate solo tramite esame citologico realizzato dal ginecologo ed, eventualmente, altri esami complementari. Si può quindi affermare che il carcinoma del collo dell’utero è la conseguenza di un’infezione al virus HPV e, pure in questo caso, le statistiche sono chiare: nel mondo è la quarta causa di tumore nella donna, mentre in Svizzera più di 5mila donne sono confrontate ogni anno con una diagnosi di lesioni precancerose del collo dell’utero e devono sottoporsi a degli accertamenti complementari o a un intervento chirurgico.

Anche negli uomini le infezioni da HPV sono fra le più comuni: la metà di queste riguarda i giovani tra i 15 e i 24 anni. E pure per loro la maggior parte delle volte la persona infetta non sa di essere contagiosa perché non ci sono sintomi. Sempre nell’uomo, in Svizzera la conseguenza che genera le verruche genitali riguarda circa una persona su dieci, mentre alcuni ceppi del virus (16 e 18) sono in grado anche in questo caso di sopravvivere per mesi o anni nelle cellule infette, causando carcinomi della bocca o della gola.

Visto il modo subdolo con cui que-

sto virus agisce indistintamente, e le sue conseguenze, grande importanza riveste la prevenzione operata attraverso il vaccino, e la rilevanza della sua indicazione ora uguale per maschi e femmine. Il vaccino è dunque fortemente raccomandato e non va temu-

to: «Contiene una sola proteina virale, comune a numerosi ceppi diversi per estendere la sua efficacia. La sua azione è sostenuta da un sale di alluminio (Gardasil g) o da un nuovo adiuvante (Cervarix). La vaccinazione prevede due dosi a circa 4-6 mesi di distanza se avviene prima del quindicesimo compleanno. In seguito, sono necessarie tre dosi (0, 1-2 mesi, 4-6 mesi)». Sugli eventuali effetti collaterali, il nostro interlocutore rassicura: «La vaccinazione contro i virus HPV è molto ben tollerata. Dopo 20 anni di utilizzo e oltre 270milioni di dosi somministrate, gli unici effetti collaterali osservati sono delle reazioni cutanee nel punto dell’iniezione». Le voci secondo le quali i vaccini possono provocare la morte sono dunque infondate: le autorità di sorveglianza in America, Europa e in Svizzera confermano che non c’è stato nessun decesso causato da questi vaccini.

Inoltre, secondo i risultati di studi realizzati su 73’428 donne a livello mondiale (nel periodo tra il 2008 e

il 2016), il vaccino non aumenta il rischio di problemi di salute gravi e i ricercatori non hanno constatato un aumento del rischio di aborto spontaneo tra le donne rimaste incinte dopo la vaccinazione. Analogamente, i risultati di numerose ricerche hanno pure confermato che il rischio di malattie autoimmuni (come, ad esempio, la sclerosi multipla) è identico nelle adolescenti o nelle donne vaccinate e in quelle non vaccinate.

Informazioni

Per i giovani è disponibile l’opuscolo messo a disposizione dall’Ufficio del medico cantonale nell’ambito della campagna di sensibilizzazione per la Vaccinazione contro il cancro del collo dell’utero e altre malattie causate dal virus del papilloma umano (HPV) che si intitola Cancro e verruche genitali / Proteggiti prima del tuo primo rapporto sessuale!, scaricabile con questo link: https://lc.cx/C0B8-I

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Attenzione ai piccoli di capriolo e di cervo

Eco-iniziativa ◆ A colloquio con Jonathan Molina sull’impiego del drone termico «salva-selvaggina» durante lo sfalcio dei prati

Siamo a primavera inoltrata, a un passo ormai dall’estate, con la vegetazione da tempo… esplosa. Fiori, foglie sugli alberi, profumi ed emozioni, verde e tanta erba nei prati. I contadini si apprestano a impiegare falciatrici e mezzi meccanici sempre più performanti nel taglio del foraggio, che diventa fieno prezioso in stalla e negli ovili per alimentare i propri animali. Con un andicap non da poco, tuttavia: non di rado, al momento della fienagione (a partire da fine maggio sino a giugno e alla prima parte di luglio, a seconda delle condizioni meteorologiche nei mesi precedenti), allorquando l’erba si è fatta alta e si infittisce, c’è il grosso rischio di colpire a morte, inavvertitamente, i piccoli di capriolo in particolare, ma qualche volta anche di cervo.

Si tratta di selvaggina nata da poche settimane e nascosta dalla madre nella vegetazione erbosa dei nostri prati e pascoli, spesso a pochissima distanza persino da abitazioni. Questi caprioli di pochi giorni di vita, seguendo una strategia difensiva che per loro è del tutto naturale, rimangono immobili nell’erba, per cui anche l’agricoltore più accorto e sensibile nei confronti del rispetto della natura non vede le piccole creature – benché talvolta si provveda ad effettuare un sopralluogo a piedi prima dello sfalcio – e non riesce dunque a evitare l’irreparabile. Le macchine impiegate per la fienagione si tramutano così in armi, procurando ferimenti gravi (quasi sempre mortali) del selvatico.

Il cacciatore moderno non si limita a prelevare la selvaggina nel rispetto delle regole, ma si adopera anche per garantire territori e ambienti idonei alla vita della nostra fauna

Prioritari i principi etici anche nella caccia

Avviene dunque una sorta di mattanza, anche se – va detto esplicitamente – involontaria seppur inevitabile. E questo proprio perché i cuccioli di capriolo – nati da poche settimane, come è opportuno ribadire – vengono nascosti dalla madre all’interno dell’erba alta paradossalmente per proteggerli, ragione per cui gli stessi rimangono immobili a scopo difensivo anche se avvicinati da un predatore o da un contadino che si appresta a sfalciare il podere, trasformandosi inesorabilmente in prede certe.

In verità, non è da oggi che ci si interroga e ci si preoccupa – a livello di agricoltori ma anche fra cacciatori, come pure in seno alle varie istanze preposte all’attività venatoria, in primis l’Ufficio cantonale caccia e pesca (Ucp) al Dipartimento del territorio – di questo delicato problema, che chiama in causa la dovuta e necessaria sensibilità per i nostri selvatici pur nel contesto della legittimità della caccia in quanto tale.

Difatti, da qualche anno e in determinate zone l’Ucp, con l’intervento diretto di guardacaccia, ricorre all’impiego di droni per cercare, nel limite del possibile, di ovviare a questa incresciosa situazione o, comunque, di limitare i danni al patrimonio faunistico. Nell’evidente interesse oltretutto, va detto senza alcun equivoco, della caccia come tale, ma anche in forza di principi etici che so-

no ancor più importanti e significativi in una società come la nostra, la quale deve essere rispettosa nei confronti dell’intero Creato, dalla natura agli animali come pure, ovviamente, l’uomo. Si è trattato, comunque, di iniziative sporadiche e forse anche un poco improvvisate, senza un piano operativo ragionato e metodico, come è stato ad esempio in Riviera, in quel di Lodrino-Prosito, ma anche a Caroggio (sotto il villaggio di Mugena) nel 2022.

Positive le esperienze in Alto Malcantone

Poi, però, il problema è stato affrontato di petto nel 2023, grazie allo slancio propositivo di un privato, Jonathan Molina (nella foto), collaboratore scientifico per la Ecoeng SA. Di comune accordo con la Società cacciatori Gradiccioli di Arosio capitanata da Sergio Devittori e in stretta collaborazione con agricoltori della regione – che conoscono ovviamente come le proprie tasche la realtà locale legata al territorio – sono state effettuate da Molina svariate azioni di salvataggio, con indubbio, notevole successo.

Basti segnalare, come ci conferma il presidente Sergio Devittori, che sono stati salvati una ventina di piccoli caprioli. Per il tecnico Jonathan Molina, anzi, è probabile che – oltre a questi caprioli messi in salvo con tale stratagemma – anche altri selvatici l’abbiano scampata bella in base a esperienze fatte altrove. Grandi cose, non v’è dubbio. «Nessun piccolo di cervo è stato invece rintracciato poiché la mamma sta loro vicino sin dalla tenerissima età».

Anche la Drosa Malcantonese del presidente Bernardino Rossi ha fatto la sua parte, promuovendo diversi interventi, e altrettanto ha fatto più di un privato (come nel caso di Mezzovico-Vira), richiedendo a questo intraprendente tecnico di droni di effettuare voli ricognitivi sulle proprie parcelle. In tal modo, per quanto riguarda l’Alto Malcantone, la zona «setacciata» ha riguardato segnatamente i comprensori di Arosio con la

campagna di Mugena, Vezio, Caroggio e Fescoggia, comprendendo pure l’alpe Agra nel Comune di Cademario, nonché i territori di Bedigliora e Novaggio. Ci si è avvalsi di un «drone mavic 2 enterprise advanced», modello commerciale, che si presta ottimamente per questo tipo di interventi.

Non v’è dubbio che questi interventi promossi da società di caccia, con la Gradiccioli meritatamente in prima fila, e le giornate di cura dell’habitat che gran parte dei sodalizi venatori organizzano con abnegazione, contribuiscono a focalizzare una nuova, apprezzabile figura del

Salvataggio con una prassi semplice e ben sperimentata

Riassumendo, l’azione di salvataggio si svolge secondo questa procedura.

• Il mattino del giorno in cui è programmato lo sfalcio, si ritrovano il pilota del drone e almeno 1-2 persone, con raduno direttamente sulle parcelle in cui si intende effettuare la fienagione.

• Una volta che il drone è in volo e ci si accorge della presenza di baby caprioli, il drone viene «bloccato» esattamente poco sopra i selvatici, consentendo alla persona che ha con sé la cassetta di individuare più facilmente i cuccioli.

• Si procede a ricoprire i caprioli ponendo sopra di essi una cassetta e

cacciatore moderno, che non si limita a prelevare la selvaggina nel rispetto delle regole, ma si adopera pure efficacemente a salvaguardare e mantenere un territorio, un ambiente idoneo alla vita della fauna, in funzione insomma di una caccia maggiormente sostenibile.

Si ricorre a una cassetta, rimedio nostrano ma efficace

In concreto, come precisa Jonathan Molina, si perlustra una determinata porzione di territorio facendo ricorso a una nuova tecnologia, in particolare utilizzando droni con telecamera termica. «Questi droni vengono fatti volare sopra il campo erboso prima dello sfalcio, in modo da poter individuare i piccoli di capriolo o cervo nascosti fra la vegetazione. Una volta individuati, si provvede a coprire questi selvatici con una cassetta e si delimita il perimetro ricorrendo a paletti, in modo che l’agricoltore sappia dove i piccoli si trovano e, di conseguenza, possa effettuare la fienagione ma “risparmiando” la piccola area in cui è accovacciata la bestiola. Una volta terminata l’operazione di sfalcio, le cassette vengono rimosse e i piccoli lasciati nella chiazza d’erba alta restante. Ci si preoccupa, a quel momento, di allontanarsi, sicché regolarmente la madre del selvatico –nel giro di poche ore – interverrà nel richiamare a sé i piccoli per portarli via dal campo».

Di norma, soggiunge il collaboratore scientifico della Ecoeng SA, «se i piccoli di capriolo sono già “grandi”, può capitare che non si riesca a coprirli con la cassetta, considerato che si rialzano e scappano via. In questo caso, è di vitale importanza avvisare l’agricoltore affinché – nel momento in cui si procede con lo sfalcio – l’intervento venga effettuato con la massima cautela, pian piano, insomma, benché la tipologia delle superfici erbose consentirebbe velocità maggiori, in modo da dare il tempo ai piccoli di spostarsi e uscire dalla parcella sulla quale si è in procinto di effettuare la fienagione».

Altro elemento fondamentale è la tempistica relativa allo sfalcio: «Idealmente, si dovrebbe cominciare subito dopo i voli del drone, così da far trascorrere il minor tempo possibile, per evitare che sopraggiungano altri piccoli di capriolo».

conficcando nel terreno circostante dei paletti, così da segnalare la zona.

• Il contadino procede con lo sfalcio della parcella, «risparmiando» quei pochi metri quadrati su cui i piccoli risultano «avvolti» e protetti dalle cassette.

• Terminato il taglio dell’erba, si procede a «liberare» i piccoli di capriolo, dando il tempo alla madre di richiamarli.

• La sera, l’agricoltore torna sul posto per sfalciare a mano gli ultimi metri quadrati da sistemare, controllando che effettivamente in quella piccola porzione di terreno non vi sia più alcun animale.

Da ultimo, ma non certo per minore importanza, è l’orario in cui si è intenzionati a effettuare il volo del drone termico. Allo scopo di massimizzare il risultato, soggiunge Jonathan Molina, «bisognerebbe volare soltanto di primo mattino – si opera di buon’ora, alle 6 – quando il terreno è relativamente freddo, di modo che il calore emanato dai cuccioli di capriolo sia maggiore rispetto al “freddo” dell’ambiente circostante. Mi è capitato di far volare il drone anche sul mezzogiorno e scovare comunque qualche selvatico, ma è una questione di fortuna e può contare parecchio anche un occhio allenato, considerando che le temperature in quella giornata superavano i 26 gradi, per cui il terreno risultava caldo».

Informazioni

Su www.azione.ch, una serie di scatti sequenziali mostrano le tappe principali dell’avvistamento e della messa in protezione dei cuccioli selvatici.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 21 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 13 SOCIETÀ
Jonathan Molina Jonathan Molina

Quanto costa spostarsi in Ticino?

Istantanee sui trasporti ◆ Con i mezzi pubblici o in automobile: le spese per i trasferimenti sono sempre al centro della discussione dei pendolari ma anche dei viaggiatori occasionali

Costa di più spostarsi in treno o in automobile? La domanda è frequente e innesca quasi sempre la discussione sul costo dei trasporti pubblici. Per molti sarebbe troppo alto. Numeroso è anche il gruppo dei fans che li vorrebbero gratuiti, così da poter convincere anche i più recalcitranti a fare finalmente una prova e magari convertirsi a una mobilità più sostenibile. Ma biglietti e abbonamenti sono veramente cari?

Prima di esprimere un giudizio occorre fare i conti corretti. Consideriamo l’esempio di chi può scegliere se compiere il tragitto in automobile oppure optare per il trasporto pubblico. In questo caso bisogna dapprima conoscere i costi per l’uso dell’automobile e informarsi sui differenti titoli di trasporto disponibili per il tragitto con il treno o in bus in modo da individuare quello più conveniente. Sembra banale ma non è scontato. Ne esistono infatti veramente tanti: per viaggiare spesso (abbonamento), per viaggiare di tanto in tanto (biglietto semplice, carta giornaliera), per viaggiare da soli o in compagnia, senza dimenticare le offerte speciali per eventi e per le mete turistiche. È pure disponibile l’abbonamento aziendale, con forti sconti nel caso in cui un’impresa ne promuova l’acquisto di almeno cinque tra i suoi dipendenti. Informarsi è talvolta faticoso; si sa poi che l’abitudine rende pigri e persino poco disponibili a sperimentare nuove proposte.

Sta di fatto che spesso si ha un’idea molto approssimativa dei costi della propria automobile e si sbaglia quasi sempre per difetto. Quante volte citiamo il costo del solo carburante, che costituisce appena il 14% dei costi totali al chilometro e circa un terzo dei costi variabili. Per avere chiarezza ci viene in aiuto il TCS, che annualmente pubblica i dati sul proprio sito

per conoscere il proprio caso specifico (https://www.tcs.ch/it/il-tcs/stampa/ comunicati-stampa-2024/kilometerkosten-2024.php).

Per questa nostra valutazione ci basiamo sui dati aggiornati al 2024 per un’autovettura «campione» scelta dal TCS quale rappresentativa del modello «medio» in circolazione in Svizzera. Il suo costo annuale per una percorrenza di 15’000 km raggiunge i 10’728 franchi. Importante è la suddivisione tra i costi fissi, che vanno coperti anche se la vettura resta ferma in garage, e quelli variabili, che sono generati dal suo uso. Tra i primi sono in particolare compresi l’ammortamento, le assicurazioni e l’imposta di circolazione; fanno invece parte dei secondi i costi del carburante, dei pneumatici, dei servizi e delle riparazioni nonché la riduzione del valore. Per il modello «campione» i costi fissi ammontano a 43 centesimi al chilometro e quelli variabili a 28.

Nel nostro confronto il primo pun-

to di riferimento è dunque dato dai costi variabili dell’autovettura poiché in generale ne diamo per acquisita la disponibilità rispettivamente la necessità di farvi capo in certe occasioni a dipendenza della propria attività professionale, della situazione famigliare o del luogo di residenza. Occorre poi scegliere il titolo di trasporto più adeguato, che dipende dalla frequenza con cui ci si sposta. Si tratta di tragitti quotidiani per recarsi al lavoro o allo studio? In tal caso è bene puntare su un abbonamento (annuale, mensile, settimanale). Si tratta invece di un tragitto occasionale per acquisti, svago, appuntamenti diversi? In questa evenienza si fa capo alla carta giornaliera.

Eccoci dunque pronti per la sfida tra i diversi mezzi di trasporto, che ognuno può poi «personalizzare» secondo la propria situazione, grazie al calcolatore che il Dipartimento del territorio mette a disposizione sul proprio sito (https://www3.ti.ch/DT/

Un’oasi di calma e di pace

dstm/sm/temi/trasporti/calcolatore/ default.php).

Il nostro confronto tocca dapprima il caso di un tragitto quotidiano per lavoro tra Bellinzona e otto altre località. L’utente dei trasporti pubblici utilizza in questo caso un abbonamento per adulti (a partire dai venticinque anni). Il grafico di sinistra mostra i risultati sull’arco di un anno. La scelta del trasporto pubblico è nettamente vincente e lo è tanto più quanto più lungo è il percorso. La differenza può inoltre diventare ben maggiore, poiché tantissimi comuni offrono ai propri residenti incentivi supplementari per gli abbonamenti. Il guadagno può raggiungere diverse migliaia di franchi. Va peraltro considerato che al costo della trasferta in automobile va ancora aggiunto quello del posteggio. Inoltre i giovani fino a venticinque anni beneficiano di tariffe ancora più contenute.

E se mi sposto solo saltuariamente? In questo caso il confronto va fatto

con il costo della carta giornaliera. Il risultato per i tragitti analoghi è pure assai eloquente. Come infatti si vede dal grafico l’uso del trasporto pubblico è sempre più conveniente, anche senza considerare il costo del posteggio, con l’eccezione dei percorsi molto brevi. Va però soddisfatta una premessa: la disponibilità dell’abbonamento annuale per biglietti a metà prezzo, il cui costo per il primo acquisto è di 190 franchi, ridotto in caso di rinnovo a 170 franchi. La sua validità si estende a quasi tutti i servizi attivi in Svizzera. Dal profilo finanziario la scelta del trasporto pubblico è in definitiva vincente. Lo è anche se consideriamo gli altri criteri di scelta, in particolare rapidità e frequenza? Dipende molto dai diversi contesti in cui ci si sposta ma sicuramente la sfida per bus e treno diventa più difficile. Per questo occorre dare la priorità al miglioramento della qualità del servizio impegnando le limitate risorse disponibili in particolare per ridurre i tempi di percorrenza.

Il Ticino nel cybermondo – 7 ◆ Storia di una cartolina postale dell’Hotel Barbaté di Tegna usata da Hannah Arendt come segnalibro e ritrovata tra le pagine di un’opera di Yvon Beleval

Di Hannah Arendt, grazie alla rete, si può conoscere ormai quasi tutto; l'esperienza della persecuzione degli ebrei in Germania, la fuga prima a Parigi nel 1933 e poi negli Stati Uniti nel 1940, la presenza a Gerusalemme al processo contro Adolf Eichmann che le diede l'ispirazione per il suo testo forse più famoso; per poter trovare qualcosa di nuovo bisogna dunque armarsi di pazienza e giocare con la curiosità e la fantasia.

I soggiorni estivi nelle Terre di Pedemonte stimolarono la riflessione e la redazione di pagine del suo ultimo libro La vita della mente

È noto che la grande filosofa, scrittrice e storica della politica Hannah Arendt subiva una forte attrazione dal Ticino, in particolare da Tegna, ove l’autrice naturalizzata americana ma di origine tedesca amava soggiornare durante i mesi estivi dei suoi ultimi anni di vita. Negli anni ’70 dello

scorso secolo, la frescura delle Terre di Pedemonte stimolò nell'autrice la riflessione e la redazione di pagine del suo ultimo scritto La vita della mente, pubblicato postumo nel 1978 e in cui è esemplificato il suo pensiero, cioè, in particolare, la dicotomia fra totalitarismo e democrazia e le strategie da mettere in atto per combattere l'alienazione autoritaria. Sappiamo anche dove Hannah Arendt soggiornava quando si trovava a Tegna: nella Casa Barbatè, ospite di Ena Jenny, la vedova del celebre fotografo Rico Jenny. Nel romanzo biografico Was wir scheinen opera di Hildegard E. Keller in cui l’ultima estate a Tegna rappresenta l'occasione per Hannah Arendt di ripercorrere la propria esistenza, il villaggio e il Garni Barbatè sono esplicitamente considerati degli angoli di beatitudine. «Das war nun ihr siebter Sommer im Tessin. Sie konnte sich so gut erholen in Tegna. Schon im letzten Jahr hatte sie zu Ena Jenny gesagt: “Die Casa Barbaté ist ein Paradies…”» (Questa è stata la sua settima estate in Ti-

detto a Ena Jenny: “Casa Barbaté è un paradiso”).

Ma allora, cosa ci può essere ancora di nuovo da sapere sui soggiorni di Hannah Arendt a Tegna? Si può giocare con la fantasia e, in questo mondo immaginario, il Garni Barbaté diventò il fulcro di uno stravagante cenacolo filosofico che attraversa la storia del pensiero dal ’600 ad oggi. Un’estemporanea Scuola di Tegna. Spulciando i documenti custoditi presso gli archivi dell’Hannah Arendt Center for Politics and Humanities del Bard College nello Stato di New York, è emersa dalle pieghe del passato una cartolina postale dell'Hotel Barbaté, e, visto come i soggiorni presso questa casa fossero cari alla filosofa, la cosa non è straordinaria in sé, degno di nota però è dove questa cartolina si trovava e, soprattutto, in compagnia di chi… Essa svolgeva la funzione di segnalibro di un'opera importante nella storia della Filosofia: Leibniz critique de Descartes scritto da Yvon Beleval, studioso di fama mondiale

del filosofo tedesco, genio eclettico del pensiero occidentale. Posso quindi immaginarmi una scena quasi metafisica: Leibniz e Hannah Arendt che argomentano sulle speculazioni di Cartesio confutandole, con la mediazione di Beleval, il tutto nel giardino rigoglioso e accogliente del Garni Barbaté a Tegna, un vero e proprio Locus amoenus È bello fantasticare di un passatempo di questo tipo per una persona che invece ha dovuto fronteggiare nella propria travagliata esistenza «La banalità del male», ed è bello sapere però che realmente Tegna ed il Ticino rappresentarono un’oasi di calma e di pace, la stessa che poi, pochi anni dopo, ricercò trovandola anche Patricia Highsmith, ma questa è un’altra storia.

In collaborazione con l'Ufficio dell'analisi e del patrimonio culturale digitale, Divisione della cultura e degli studi universitari, Dipartimento dell'educazione, della cultura e dello sport.

14 Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 21 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino SOCIETÀ
cino. A Tegna è riuscita a rilassarsi così bene. Già l’anno scorso aveva Cartolina «La Casa Barbatè» di Tegna. (Bard College Archives, restano riservati i diritti immateriali di terzi)
2851 1069 2732 4277 3802 4039 5584 6415 1074 732 1387 1387 1691 1387 2062 2062 0 100020003000400050006000 Biasca Cadenazzo Locarno Maggia Lugano Caslano Mendrisio Chiasso franchi con i trasporti pubblici in automobile
da Bellinzona con abo annuale Arcobaleno adulti 2a classe e costi variabili automobile 13 5 12 19 17 18 25 29 10.40 5.20 10.40 13.00 13.00 15.60 18.20 18.20 05 10 15 20 25 30 Biasca Cadenazzo Locarno Maggia Lugano Caslano Mendrisio Chiasso franchi trasporti pubblici 1/2 prezzo in automobile
Costo
da Bellinzona con giornaliera Arcobaleno e abo 1/2 prezzo e costi variabili automobile
Costo

TEMPO LIBERO

La Ruta dei conquistadores

Insanguinata è la storia degli «Scopritori» che avrebbero inventato Las Americas progettando smisurati sogni di grandezza

Pagine 16-17

Itinerario assiro nell’Iraq di oggi

Dopo tre anni di occupazione dell’Isis, l’area archeologica di Ninive è stata esplorata e messa sotto protezione da una Missione italo-irachena

Pagina 19

L’anima giocosa del Surrealismo

L’Italia negli spaghetti ai frutti di mare Si chiamano piatti identitari quelli che richiamano subito alla memoria un territorio o un’intera regione

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Tra il ludico e il dilettevole ◆ Fra le attività umane che lasciano intravedere la possibilità di un dialogo fecondo fra libertà e necessità, fra improvvisazione e ordine, arte a parte, non si può tralasciare l’importanza del gioco

Nel saggio Il coraggio di essere liberi (Garzanti, 2016), Vito Mancuso sostiene che la libertà dell’essere umano non è mai incondizionata, né tantomeno riducibile a dei determinismi esterni che la renderebbero una mera ombra illusoria. Per illustrare la complessità della questione, Mancuso cita un passo di una lettera che Albert Einstein scrisse, il 7 settembre 1944, al suo collega e amico Max Born: «Le nostre prospettive scientifiche –scriveva Einstein – sono ormai agli antipodi tra loro. Tu ritieni che Dio giochi a dadi col mondo; io credo invece che tutto ubbidisca a una legge, in un mondo di realtà obiettive che cerco di cogliere per via furiosamente speculativa».

Se il gioco rappresenta, in un certo senso, l’allontanamento dalla vita reale, d’altra parte esso rimane uno strumento utilissimo per conoscere, interpretare, e trasformare il mondo

Le antinomie fra determinazione e contingenza, fra cosmo e caos, e fra causalità e casualità che innervano il dibattito fra la teoria della relatività e la meccanica quantistica si ritrovano, non a caso, anche nell’arte moderna e contemporanea che, come illustrava magistralmente Umberto Eco nel suo pionieristico Opera aperta (Bompiani, 1962), si sviluppa a partire da quello stesso humus culturale che favorisce l’emergere delle scienze e della fisica moderne. A ben vedere, però, l’arte moderna non è il solo ambito che imbocca la strada dell’auspicato dialogo fra caos e necessità: fra le attività umane che lasciano intravedere la possibilità di un dialogo fecondo fra libertà e necessità, fra improvvisazione e ordine, non si può certo tralasciare l’importanza del gioco. Nel gioco, il margine di libertà di un giocatore è vincolato, ma al tempo stesso è reso possibile, dall’esistenza di regole. In quanto tale, quindi, il gioco si configura come un’occasione, unica e privilegiata, per esercitare una sorta di libertà condizionata, ma non obliterata, dall’esistenza di regole.

Se il gioco rappresenta, in un certo senso, l’allontanamento dalla vita reale, d’altra parte esso rimane uno strumento utilissimo per conoscere, interpretare, e trasformare il mondo. Ne sapevano qualcosa i surrealisti, che attorno all’importanza del gioco perfezionano pratiche artistiche e considerazioni teoriche. Proprio in questi giorni, il Surrealismo torna a

fare parlare di sé, grazie a un’importante iniziativa del Museo delle belle arti di Losanna (Mcba) che, sull’onda del centenario dalla pubblicazione del primo Manifesto del Surrealismo, si interroga sulla centralità del gioco nello sviluppo del movimento. La prima parte della mostra, caratterizzata da una panoramica storica, si concentra sui molteplici aspetti del gioco, da quelli più dichiaratamente ludici a quelli più sovversivi o critici. La seconda parte, invece, propone otto artisti contemporanei che attualizzano l’estro creativo e lo spirito anarchico dei surrealisti. E, come se ciò non bastasse, a due passi –in quello che è ormai a tutti gli effetti un vero e proprio quartiere dei musei losannese –, altri due musei celebrano il Surrealismo. Il museo di fotografia Elysée dedica un’allettante retrospettiva a Man Ray, e il Museo del design e delle arti applicate (Mudac) consacra i suoi spazi all’influenza del Surrealismo sul design moderno.

Ma torniamo al tema del gioco: apprezzato, inizialmente, soprattutto quale attività informale in grado di catalizzare la socievolezza, di rinsaldare i legami, e di incoraggiare le affinità tra i membri del collettivo, il gioco rivelerà ben presto il suo potenziale epistemico, estetico, e creativo, configurandosi, con artisti del calibro di Marcel Duchamp, René Magritte, Man Ray o Salvador Dalì, come un vero e proprio meccanismo di liberazione tanto individuale quanto collettivo. Le opere surrealiste in letteratura, in pittura, nel teatro e nel cinema manifestano una precisa volontà di rottura rispetto a tutto ciò che impoverisce la realtà dei suoi aspetti più onirici. Di conseguenza, vengono dichiarati inattuali quei codici estetici e interpretativi che accompagnano i movimenti artistici precedenti, perché ritenuti troppo vincolati all’idea di una lettura univoca della realtà.

Secondo lo spirito del Surrealismo, l’arte deve rendere conto dell’ambiguità, dell’incongruità e dell’eterogeneità con cui il reale ci sorprende continuamente. Nel tentativo di eludere la logica, la razionalità e il positivismo, il Surrealismo fa affidamento a un rapporto ludico e disinteressato con il reale, e all’emergere dell’inaspettato che scompagina l’ordine e la monotonia della routine. L’innocenza e la fantasia del bambino, così come l’incongruenza della malattia mentale, la forza rivelatrice del sogno, la voce misteriosa dell’inconscio e la creatività del gioco vengono promosse quali autentiche misure della complessità del reale. A fronte dell’approccio statico e

ragionato di chi soppesa e misura in modo eccessivo, tanto da inaridire e appiattire la ricchezza dell’esperienza, la scrittura automatica promossa da André Breton – i cui principi vengono ben presto estesi alle arti plastiche e al cinema – permette, in questo senso, di restituire i rilievi, le discontinuità e gli smottamenti del reale. Come afferma lo stesso Breton – capofila del movimento – nel primo Manifesto del Surrealismo (1924), si tratta di affidarsi all’«automatismo psichico puro con il quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente che in ogni altro modo, il funzionamento reale del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale». Il Surrealismo, ricordiamolo, puntò molto sull’idea che il sogno, l’inconscio, ma anche l’imprevisto, l’inusuale, l’intuizione e il casuale

esprimono la natura del reale in modo più attendibile rispetto a modelli costruiti a partire dalla fede incondizionata nella razionalità e nei metodi d’indagine del positivismo scientifico. Sin dagli albori, il movimento si proclamava rivoluzionario e anti-sistema: la sua estetica, la sua predilezione per le combinatorie giocose, e la sua volontà di ridisegnare in chiave onirica il rapporto fra forma, identità, e rappresentazione, si sono diffuse negli anni rimanendo vive, come brace ardente, anche quando il movimento, dopo la Seconda guerra mondiale, perde slancio e cede il passo all’Espressionismo astratto di stampo americano. Come illustra anche, peraltro, l’esposizione che il Mudac dedica al rapporto fra il Surrealismo e il design, il Surrealismo ha saputo plasmare il nostro immaginario tanto che, ancora oggi, l’espressione «è vera-

mente surreale» può designare circostanze piuttosto diverse, alludendo a un senso di stupore al cospetto di una situazione che ci appare inusuale, incredibile, o semplicemente assurda. Come dire: se la mostra del Mcba, unitamente a quelle del Mudac e dell’Elysée, ci permettono di apprezzare l’influenza che il Surrealismo ha esercitato sul nostro modo di percepire il mondo, la possibilità di vivere situazioni surreali è sempre dietro l’angolo. A patto, naturalmente, di saper cogliere l’incongruo, l’inusuale, e l’onirico dentro il reale, come ci hanno insegnato Breton e compagni. Dove e quando Surréalisme. Le Grand Jeu. Losanna, Museo cantonale delle belle arti (MCBA). Orari: ma-me 10-18; gio 10-20; ve-do 10-18; lu chiuso. Fino al 25 agosto. w ww.mcba.ch

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 21 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 15
Falene Imperatori (Tuono), Marion Adnams, 1963. (MCBA) Sebastiano Caroni

Il cuore dell’Estremadura lungo

Reportage ◆ Le tracce insanguinate che punteggiano la storia, sono sempre più ripercorse dai turisti che non tenute in considerazione dai

Francisco Pizarro arriva sempre a las cinco de la tarde, quando l’ombra del suo monumento, elmo piumato e cavallo inclusi, cavalca ai piedi della vecchia chiesa gotica di San Martìn dove aveva radunato – al richiamo di un irresistibile «Venite con me e vi arricchirete» – gli uomini della muy noble y leal Trujillo, una ruvida cittadina irta di torri nel cuore dell’Estremadura. Il seguito lo riassume una turbolenta storia di famiglia scolpita sui bassorilievi dell’imponente Palacio de la Conquista, popolati da «selvaggi» in catene, castelli, stendardi, leoni di Castiglia a volontà. Ci sono anche i ritratti della coppia che lo ha costruito, Hernando Pizarro – fratello di Francisco – passato alla storia come il conquistador del Perù, sua moglie Francisca, figlia di Francisco e dunque sua nipote, ma anche nipote dell’ultimo imperatore Inca, Atahualpa, così i soldi restavano in famiglia. È il finale di un’avventura da capogiro, la conquista del Perù con centottanta uomini e trentasette cavalli che a Cajamarca, nel 1531, catturarono a tradimento Atahualpa (sconfiggendo un esercito di trentamila uomini), per poi strangolarlo senza pietà con la garrota, dopo avergli estorto uno spropositato riscatto di ottanta metri cubi d’oro che riempirono la «Stanza del Tesoro» in cui era stato imprigionato. Era solo l’inizio di una feroce epopea che scatenò tra i vincitori un’infernale faida di vendette, durante la quale venne ammazzato anche Francisco: «dei quattro fratelli Pizarro sopravvisse solo Hernando, l’unico figlio legittimo» racconta una guida che conosce come pochi le storie di Trujillo, «Tieni presente che qui c’era

ancora lo ius primae noctis (ndr: trattasi del diritto dei nobili di deflorare le vergini dei sudditi): non è una leyenda negra».

Tra conquistadores e descubridores

Fieramente eretto sul proprio cavallo in uno stile vagamente a metà tra Salvador Dalì e Paolo Uccello, Don Francisco Pizarro non sembra curarsi troppo di queste meschinità, mentre il suo sguardo pare vagamente schifato, quando una ragazza gli passa davanti cantando a squarciagola «Yo soy una chica ye-ye ». Per anni i concittadini si sono un po’ vergognati di questa statua piuttosto ingombrante, storicamente parlando: un grumo di bronzo di violenza, coraggio e testardaggine. Il conquistador è stato «riabilitato» solo grazie ai turisti attratti dal-

la ruvida cittadina irta di torri. Che poi, mormorano le malelingue, non è neanche detto che sia lui. Per molti, la scultura, opera dell’americano Charles Rumsey, rappresenterebbe in realtà Hernán Cortés; rifiutata inizialmente dal Messico, per la scarsa popolarità del personaggio, la statua sarebbe stata poi rapidamente riciclata come Pizarro dalla vedova dell’artista e spedita a Trujillo.

Se il monumento è dubbio sono certamente autentici i palazzi costruiti col sangue e l’argento dove i Conquistadores, qui pudicamente trasformati in Descubridores, gli «Scopritori», progettarono smisurati sogni di grandezza che avrebbero inventato Las Americas. Almeno settecento di loro partirono negli anni proprio da questa «culla dei conquistadores»; «bisogna venire qui per capire la Conquista» dicono alla Cervejeria El Medievo di Plaza Mayor, facce dure e spigolose

che ricordano in modo impressionante i volti dei conquistadores nei murales messicani di Orozco e Rivera.

La trasformazione di Truijllo

L’oro del Nuovo Mondo ha trasformato Truijllo in un gioiello rinascimentale dove il tempo sembra essersi fermato e ancora oggi monache nascoste dietro le grate di ferrigni conventi decidono se sei degno di visitare il loro chiostro. Risalendo le stradine che si arrampicano verso l’Alcazaba, il vecchio castello arabo che domina la pianura, una targa ricorda Francisco de Orellana, primo europeo a scoprire il Rio delle Amazzoni.

Nel Centro de Los Descubridores l’albero di una nave si alza verso la cupola della Iglesia de la preciosa sangre, un nome involontariamente appropriato per raccontare questa epopea

extremeña e i suoi protagonisti, mentre una casa-museo ricostruisce la vita di Pizarro vicino alla chiesa gotica di Santa Maria la Major probabilmente costruita sopra una moschea araba. «Civilizzarono per cristianizzare e cristianizzarono per civilizzare» è scritto nel dizionario bibliografico dei Missionari d’Estremadura, data 1993, non 1493. Ma perché proprio da questa regione – che neanche si affaccia sul mare – migliaia di sognatori e spietati avventurieri all’inizio del Cinquecento partirono lungo la strada che si perdeva in un orizzonte d’erba verso il porto di Siviglia? Molti di loro erano squattrinati nobilotti matamoros, «ammazzamori» pericolosamente disoccupati dopo la Reconquista di Granada, e la regina Isabella decise di dare letteralmente un taglio alle loro faide decapitandone le torri, e decretando così, senza saperlo, la fine di un paio di imperi precolombiani.

Inés Suárez, la mujer valiente

Plasencia, famosa per una matrioska architettonica di due cattedrali incastonate una nell’altra, ha contribuito alla Conquista con una delle rare protagoniste femminili di questa epopea di maschi alfa, Inés Suárez, vedova di un soldato di Pizarro che seguì in Cile Pedro di Valdivia di cui era diventata l’amante, conquistandosi la stima dei soldati per le sue capacità militari. Nel 1541, quando in assenza di Valdivia migliaia di araucanos assaltarono Santiago de la Nueva Extremadura, Inès decapitò, o fece decapitare,

sette ostaggi, dopodiché lanciò le loro teste nel campo nemico facendo inorridire i ribelli che si diedero alla fuga. Valdivia la premiò pubblicamente, salvo abbandonarla anni dopo per ordine del viceré, quando un sacerdote ordinò a lui di far venire la moglie spagnola in Cile e a lei di sposarsi con un capitano spagnolo. Ce n’era più che abbastanza per fare di questa mujer valiente la protagonista del romanzo Inés dell’anima mia di Isabel Allende, seguita da una serie televisiva di successo.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 21 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 16
Trujillo. La statua equestre di Pizarro domina la Plaza Major della sua città natale con il monumento a Francisco Pizarro. A sinistra, il Palacio de la Conquista («Palazzo della Conquista») costruito dalla famiglia Pizarro dopo la conquista dell’Impero Inca. Sotto, Puebla de la Calzada. Domenica tradizionale corrida in una Plaza de Toros costruita da pochi giorni. Qui la corrida è ancora popolare perché la regione ospita numerose fattorie con toros bravos, tori da corrida. Enrico Martino, testo e foto

la Ruta dei conquistadores

dai locali che ancora oggi abitano all’ombra dei valorosi… scopritori

Il rapporto tra l’Estremadura e l’America iniziò nel 1501 quando Fray Nicolas De Ovando, di una nobile famiglia di Càceres, fu nominato primo governatore delle Indie e pensò bene di farsi raggiungere da parenti e amici a Santo Domingo, nell’isola di Hispaniola. Due di loro erano destinati a diventare famosi, Hernan Cortés e Francisco Pizarro, ma furono in molti a decidere di giocarsi la vita imbarcandosi per il Nuovo Mondo per «inventare una ventina di repubbliche latinoamericane» come si dice ancora oggi in Estremadura.

Una Madonna che vale come l’oro

Con loro partì, almeno virtualmente, anche la Madonna di Guadalupe, l’unica capace di unire, oltre all’oro, i conquistadores nell’incrollabile devozione per una statua di legno che, secondo la tradizione, rimase nascosta per quasi sei secoli prima di essere salvata dai Mori e poi opportunamente ritrovata sulle colline di Guadalupe durante la Reconquista della Spagna. In cambio, dopo avere dato una mano a re, navigatori e guerrieri, la Guadalupe è diventata «patrona dell’Estremadura e regina delle Americhe» e oggi, ricoperta di broccati e gioielli, sta su un trono d’oro circondato da santi nel cuore di una foresta di torrette, campanili e pinnacoli in stile gótico-mudéjar del Real Monasterio di Santa Maria di Guadalupe. Tra queste mura, oggi Patrimonio UNESCO, Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona negoziarono con Colombo il finanziamento della sua spedizione, e lui, come tanti altri, al ritorno venne qui in pellegrinaggio, al pari di Cervantes che lasciò come ex voto le catene della sua prigionia tra i pirati barbareschi di Algeri.

Trujillo ci ha messo i guerrieri, e Guadalupe, i monaci; così ricordano gli extremeños, orgogliosi di questo luogo dell’anima costellato da un arcipelago di isole di pietra, borghi, conventi, chiese e castelli ferrigni ancora impregnati di storie tormentate e sogni di grandezza, mentre nel silenzioso sottobosco della dehesa pascolano maiali che attendono rassegnati un futuro da raffinati prosciutti; oro vivo li chiamano.

Toreri e artisti

Solo i tori possono vantare un legame ancora più intimo, di cui farebbe-

Paesaggi dell’Estremadura meridionale. In basso a destra, Monastero di Guadalupe, il più importante della Spagna. Deve il famoso santuario omonimo a Città del Messico il suo nome al fatto che molti Conquistadores provenivano dall’Estremadura e proclamavano Nostra Signora di Guadalupe patrona delle Americhe. A sinistra,Castello di Encomienda vicino a Villanueva de la Serena, la città dove nacque Pedro de Valdivia che conquistò il Cile.

ro volentieri a meno, con chi abita da queste parti. Per capirlo basta imbattersi in qualche plaza de toros movil di ferro e legno, monumenti provvisori sempre più rari innalzati nel cuore di qualche fiera di paese dove toreri che non diventeranno mai famosi entrano in scena con un traje de luz , lo scintillante costume sempre più liso, sperando di sfangarla ancora una volta. Anche sotto i portici medioevali della Plaza Mayor, al «Circulo de artistas» di Garrovillas, pensionati e avventori seguono la corrida virtual trasmessa in diretta da un vetusto televisore appeso a una parete, gridando entusiasti oreja (orecchia), a ogni prodezza del matador. «Loro, i tori, almeno vivono bene per quattro anni e muoiono combattendo da valientes; gli altri bovini vanno al mattatoio dopo aver passato nove mesi rinchiusi in una stalla» ti dicono con la rassegnata pazienza di chi sa che uno che viene da fuori non potrà mai capire.

Hernán Cortés e Quetzalcoatl

Il castello che sovrasta il teatro romano di Medellìn incastonato nella colli-

na annuncia la patria di un personaggio più complesso e colto di Pizarro ma altrettanto spietato. Più in basso, da delicate aiuole davanti al municipio emerge il monumento all’uomo nato proprio qui, e senza il quale è impossibile parlare della Conquista: Hernán Cortés riuscì a distruggere l’impero azteco con l’unico aiuto di armi da fuoco e cavalli, sconosciuti agli aztechi, ma soprattutto grazie a una profezia che annunciava il ritorno dal mare di un dio barbuto, Quetzalcoatl, e della Malinche, una schiava che diventò sua amante, interprete e abile consigliera. Ancora oggi in Messico il suo nome è sinonimo di tradimento perché fu lei ad aiutarlo a scoprire i punti deboli dell’imperatore azteco Montezuma, un filosofo introverso o forse solo rassegnato al compiersi di un destino obbligato.

Nel 1519, solo due anni dopo lo sbarco di Cortés, con 550 soldati e 15 cavalli, nei pressi dell’attuale Veracruz, della capitale azteca Tenochtitlàn restavano distese di rovine fumanti e decine di migliaia di morti; ultimo e definitivo capitolo di una marcia ai limiti della follia verso un arido altipiano punteggiato da vulca-

ni per conquistare un impero potente di cui non sapeva quasi nulla.

Gli altri conquistatori

Non lontano, a Villanueva de la Serena solo un monumento commemora Pedro de Valdivia il conquistador del Cile che nel 1541 fondò Santiago de la Nueva Extremadura, l’attuale Santiago, per poi venire ucciso dalla strenua resistenza degli araucani. Jerez de los Caballeros alla vicina Andalusia deve il bianco delle sue case e il nome ai Templari che hanno lasciato una fortezza del XIII secolo dove sventolano ancora le loro bandiere su una torre dal soprannome inequivocabile, Sangrienta, dove secondo una leggenda, sarebbero stati sgozzati gli ultimi cavalieri che avevano resistito a Ferdinando IV di Castiglia.

Il nuovo mondo di Vasco Núñez de Balboa

La skyline è dominata da due campanili legati a un paio di altri prota-

gonisti della Conquista, Hernando de Soto, sepolto nella chiesa barocca di San Miguel, che conquistò la Florida e risalì il Mississippi, mentre Vasco Núñez de Balboa – primo europeo a raggiungere l’Oceano Pacifico nel 1513 provando che l’America era un nuovo continente – fu battezzato nella chiesa di San Bartolomé dietro una facciata che il sole trasforma in un retablo (pala d’altare) di colorate ceramiche. Come tanti extremeños cercava nel Nuevo Mundo un riscatto alla povertà e partì nascondendosi in un barile per sfuggire ai debitori; poi guidò una spedizione nel Darién, l’impenetrabile selva dell’Istmo di Panama. Cercava l’oro dando la caccia agli indios con feroci mastini e loro ricambiavano versando oro fuso in bocca ai prigionieri spagnoli, «per saziare la loro avidità». Alla fine gli autoctoni, per togliersi di torno quegli invasati, li portarono sulle rive di un’immensa distesa d’acqua salata che Balboa ribattezzò Mar del Sur, dicendo che oltre il mare c’era un paese lastricato d’oro, il favoloso impero Inca. Il suo luogotenente Francisco Pizarro prese nota e più tardi catturò Balboa, poi giustiziato con un’opportuna accusa di sedizione, per poter raggiungere il Perù senza rivali. Come i tori, valientes, anche qualche conquistatore si è aggiudicato questo termine, che significa letteralmente «coraggioso», un’espressione ancora usata da molti in Estremadura. Anche se oggi è facile dare un giudizio impietoso sulla Conquista, forse proprio questa parola – che nasconde disperazione, orgoglio, coraggio e spietatezza – è la chiave per capire una terra dura, scandita da «tre mesi d’inverno e nove d’inferno».

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Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 21 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 17

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In Iraq, Ninive risorge nel presente

Itinerario geostorico ◆ Dopo gli anni di fuoco alimentati dall’Isis, una missione archeologica iracheno-italiana è intervenuta per esplorare e proteggere la leggendaria capitale dell’Assiria

Si possono visitare siti archeologici e luoghi storici in molti modi: viaggiando sul posto o virtualmente, come sempre più spesso viene proposto quale comoda alternativa; con la visita di una esposizione a tema, con la lettura di qualche testo, vedendo un documentario televisivo o ascoltando un racconto radiofonico. L’ideale sarebbe poter combinare le singole modalità, preparandosi per tempo al viaggio, vivendo l’esperienza diretta poi e, infine, approfondendo aspetti che ci hanno particolarmente colpito di quel luogo. Purtroppo e per ragioni varie, non sempre ciò è possibile. È il caso dell’Iraq, paese sconvolto da anni di guerre, ancora difficile da visitare per ragioni di sicurezza: le nostre autorità sconsigliano (ma non proibiscono) il viaggio in questo Paese, che ha molte buone ragioni per attirare il viaggiatore interessato all’archeologia e alla storia; uno dei crogiuoli della civiltà fin dal IV millennio a.C.

Si può comunque cercare di conoscere qualcosa di più dei suoi tratti culturali, di ieri e di oggi, esplorando testi sulla Mesopotamia, cioè la terra tra i due fiumi, il Tigri e l’Eufrate, la Mezzaluna fertile, e approfondire la conoscenza di Sumeri, Assiri e Babilonesi, la scrittura cuneiforme, la città di Ur, Hammurabi con il suo antichissimo codice civile, Nabucodonosor, la nascita dell’agricoltura, dell’allevamento e delle città: sono termini presenti in tutti i testi scolastici che trattano le vicende umane della regione.

Recuperate evidenze sul terreno di quartieri, palazzi e porte monumentali, oltre a una serie importante di sigilli e cretule neoassire

La riflessione attorno a questo argomento (difficoltà di visitare un paese e desiderio di conoscenza della sua cultura) nesce in occasione di una recente mostra che si è tenuta a Bologna nella sede dei Musei civici, curata da Nicolò Marchetti, docente di Archeologia e Storia dell’arte del Vicino Oriente antico all’Università di Bologna, intitolata Gli Assiri all’ombra delle due torri. Una mostra originale con i reperti scavati dalla missione iracheno-italiana diretta dallo stesso Marchetti a nord del paese, in zona curda, non lontano dai confini con Turchia, Siria e Iran, presenti in una ricostruzione in 3D che ha evitato problemi di trasporto dei delicati oggetti e che ha permesso una visione più dettagliata degli stessi. Grazie ai pannelli esplicativi che li accompagnavano, si è po-

tuto avere un quadro dell’attività svolta negli ultimi anni dagli archeologi iracheni e italiani a Ninive, presso la moderna Mosul.

Nella regione indagata vi sono tracce evidenti sul terreno, ma molto si trova al di sotto del piano di calpestio e deve essere scavato con pazienza. I risultati non mancano, e sono frutto di una missione nata dopo la liberazione della regione (avvenuta nel giugno 2017) dall’occupazione dell’Isis che durava da tre anni. Tale Missione archeologica iracheno-italiana ha dato un contributo all’esplorazione e alla protezione del settore orientale corrispondente all’antica Ninive, leggendaria capitale dell’Assiria ormai gravemente minacciata dall’espansione urbana, tanto che oggi oltre un terzo del sito può dirsi pressoché perduto per quel che concerne l’esplorazione archeologica.

Tra il 2019 e il 2022 sono state condotte quattro campagne di scavo congiunte tra Università di Bologna e Iraqi State Board of Antiquities and Heritage, con il sostegno dei rispettivi Ministeri della cultura e degli esteri nonché della Fondazione Volkswagen. Ciò risponde al desiderio di rinascita di un paese anche dal

punto di vista culturale, senza dimenticare l’impatto del turismo.

Oltre al recupero di evidenze sul terreno di quartieri, palazzi e porte monumentali, è venuta alla luce una serie importante di sigilli con figure simboliche e cretule neoassire (pezzi di argilla cotti con impressi segni di sigilli) nonché testi cuneiformi dallo scavo nel mega-sito di Ninive, esteso su 750 ettari e con 12 chilometri di mura. La volontà è quella di esplorare aspetti della vita quotidiana durante il VII secolo a.C. Tre sigilli appartengono addirittura al II millennio e, tra questi, uno presenta due alberi stilizzati mentre un altro mostra due figure stanti ai lati di un albero sacro; il terzo rappresenta la raffigurazione di un cane e un capride inginocchiato nonché simboli astrali quali una stella a sette punte e la costellazione delle Pleiadi. Anche le cretule hanno dato esiti interessanti: recano impronte di sigilli con figure umane di oranti, cani, capre e perfino uno struzzo, oltre a mostri come una sfinge alata.

Nella città bassa di Ninive sono stati scoperti oggetti in bronzo, per esempio un amuleto con la testa di Pazuzu, il demone del vento portatore di malattie, forse in funzione apotro-

paica per respingere spiriti maligni, esorcistica (come raccontato in chiave moderna nel film del 1971 L’esorcista, tanto per attualizzare l’argomento) o come spirito domestico. La sua iconografia è ibrida – metà animale e metà umana – costituita da una testa squadrata con corna di capra, occhi sporgenti e mascella con zanne affilate, mentre il corpo presenta caratteristiche umanoidi con ali, zampe da rapace e coda di scorpione. Durante la campagna di scavo del 2022 nel Palazzo Nord di Assurbanipal sono stati trovati anche frammenti di rilievi palatini sempre datati metà del VII sec. a.C.

Un lavoro immane, come si può facilmente capire, portato avanti tra mille difficoltà di ordine pratico, ma con la volontà da parte dei due attori principali, iracheni e italiani, di difendere il sito dall’urbanizzazione incalzante e dai furti archeologici, affinché sia poi messo a disposizione del pubblico locale e internazionale. In questo senso è stata inaugurata alla fine del 2023 la prima sezione di un Parco archeologico, nato dopo aver liberato la zona dai detriti lasciati dalle distruzioni compiute dall’Isis, restaurato i monumenti più significa-

urbica

a Ninive / MAIIN)

tivi e proceduto a nuovi scavi che arricchiranno il museo locale, così che le testimonianze del passato non vadano altrove, ma aiutino la città a risorgere nel presente. In occasione della citata mostra bolognese va anche  segnalato un gesto altamente simbolico: è stato reso al governo iracheno, nella persona del suo Presidente, un prezioso oggetto sequestrato poco tempo fa in Italia dal Nucleo Carabinieri per la Tutela culturale: un mattone cotto del re assiro Salmanassar III (858-824 a.C.) con un’iscrizione cuneiforme che ne rivela la sicura provenienza dalla ziggurat (tempio-torre a gradoni) dell’antica Kalkhu, la moderna Nimrud, prima capitale dell’impero neoassiro, anch’essa distrutta in parte dallo Stato islamico nel 2016. Qualche altro esemplare simile si trova in musei importanti a riprova della vitalità del mercato clandestino di reperti archeologici e di chi lo ha favorito non tanto per ragioni ideologiche, quanto per procurarsi i fondi necessari al proseguimento della guerra.

Attualmente, come detto, non è facile, anche se non impossibile, visitare in prima persona questo antico paese; si può comunque preparare il viaggio fin da ora, raccogliendo una buona documentazione per creare un itinerario iracheno, angolo di mondo ricco di testimonianze storiche importanti. In un secondo tempo organizzando, tramite agenzie specializzate, un piccolo gruppo accompagnato da una guida; in genere si tratta di archeologi professionisti come oramai da tempo avviene nei paesi del Vicino e Medio Oriente; il Professor Marchetti, che frequenta da anni l’Iraq, afferma che questo è fattibile fin da adesso.

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Il quartiere domestico neoassiro dell’area H da est, scavi 2022. Nel cortile in primo piano si possono vedere le soglie in alabastro delle porte accatastate
momento della distruzione
612
Veduta aerea della porta dell’area N (VII sec. a.C.), scavi 2022. Si noti il passaggio centrale molto allungato, una caratteristica tipologica non altrimenti attestata. (Missione Archeologica Iracheno-Italiana
al
del
a.C. (MAIIN) Vista da est del muro di fortificazione esterno orientale in pietra con l'ingresso della condotta idrica al di sotto di esso (area G, VII sec. a.C., scavi 2021). Si noti l’area del canale più bassa rispetto alla base delle mura a lato. (MAIIN)

L’identità di un territorio raccontata in un piatto

Gastronomia ◆ Ogni regione ha la propria tradizione culinaria, a unire quelle italiane sono forse gli spaghetti ai frutti di mare

Allan Bay

Esistono dei piatti cosiddetti identitari, nel senso che rappresentano un luogo al meglio, nel senso che citandoli pensi subito a quel luogo. Come la cotoletta e il risotto giallo per Milano, la bagna cauda per il Piemonte, la coda alla vaccinara per Roma eccetera.

Tanti anni or sono, agli esordi della posta elettronica, intavolai una discussione con amici «addetti ai lavori» del ben mangiare, su quale fosse «il» piatto identitario italiano: di tutti gli italiani. Grosso modo la più parte sosteneva gli spaghetti al pomodoro, un’altra parte la pasta e fagioli. Io, che sono sempre stato in minoranza a prescindere, non ero d’accordo. Perché gli spaghetti al pomodoro sono arrivati al nord da troppo poco tempo, e se pensi a Lombardia o Emilia non li colleghi a questo piatto. Non ero d’accordo neanche con la pasta e fagioli: era sì presente in tutte le tradizioni regionali dello Stivale, praticamente unico piatto che vanta questo record, ma era una preparazione troppo «semplice» per considerarla identitaria. Alla fine la discussione finì, senza vincitori né vinti.

La mia proposta, condivisa da quasi nessuno, fu gli spaghetti ai frutti di mare, detti anche allo scoglio. Basata sul fatto che un piatto identitario debba essere comunque «un po’» ricco, e fatto con ingredienti particolari. I frutti di mare sono comunque pesce (permettetemi di chiamare pesce anche i crostacei e i molluschi). Certo, astice, rombo e ostriche sono un’altra cosa ma la minutaglia sempre dal mare viene, quindi è nobile per definizione. Ovviamente era presente in tutti i porti di mare della penisola quindi onnipresente – anche se lontano dalle coste i doni del mare sono arrivati da poco tempo. Definire con precisione i frutti di mare non è possibile: sono tutto e niente, basta che venga-

no dal mare, siano piccoli, o tagliati a pezzi piccoli se grossi, ben mondati e sempre (o quasi sempre) precotti, cioè pronti al consumo. La regola dice: più sono, meglio è. Unici ingredienti fondamentali sono cozze e vongole, ma solo per un motivo: aprendole in padella si avrà un sughetto molto saporito che, previa filtratura, è ideale per far saltare la pasta in padella, senza dover aggiungere il canonico mestolo dell’acqua di cottura. Il pomodoro? Per me sì, ma poco, poco, se lo omettete nessun problema. Il grasso? Ho messo prima olio, per correttezza politica, ma io uso il burro, perché «lega» il sugo alla grande, come nient’altro. Prima di crocifiggermi, fate una prova. Spaghetti ai frutti di mare (ingredienti per 4 persone, ma è un piatto unico o quasi, dunque aumentate pure le dosi secondo la fame). Sgusciate 8 capesante, rosolatele con olio e aglio per 2 minuti, levatale e affettatele. Mondate 600 g di seppioline e calamaretti e lessateli per 10 minuti, scolateli e spezzettateli. Mondate 16 gamberi e sbollentateli per 1 minuto. Lessate 8 canocchie ben spurgate per 3 minuti, scolatele e aiutandovi con delle forbici apritele e recuperate la polpa. Lavate accuratamente 1 kg o più di cozze e vongole e fatele aprire a fuoco vivo in una padella con 2 spicchi di aglio, sgusciatele e filtrate bene il fondo di cottura, poi concentratelo fino ad avere un abbondante mestolo. Emulsionate in un’ampia padella una punta di concentrato di pomodoro con il fondo di cozze e vongole; regolate di sale, se necessario, e di pepe e spolverizzate con prezzemolo tritato. Cuocete 400 g di spaghetti in abbondante acqua salata al bollore, scolateli al dente poi saltateli nella padella, unendo il fondo, i frutti di mare e 1 giro d’olio o una buona dose di burro, diciamo 60 g. E servite.

Generato con IA

La quinoa, di origine andina, oggi sempre più di moda, non è un cereale ma una pianta erbacea cugina di spinaci e barbabietola, ricca di fibre e con una buona presenza di proteine. Vediamo come si fanno due ricette. Arancine di riso integrale e quinoa (ingredienti per 4 persone). Sciacquate

Ballando coi gusti

Oggi due proposte a base di baccalà: uno degli ingredienti che più amo.

250 g di quinoa e lessatela in un tegame nel doppio del suo peso di brodo vegetale bollente fino a quando non avrà assorbito tutto il brodo. Lessate 150 g di riso, scolatelo. Mescolate in una ciotola la quinoa e il riso. Unite 100 g di un ragù a piacere (di carne, di pesce o di verdure), 40 g di piselli anche loro lessati e 100 g di mozzarella tagliata a cubetti e ben scolati. Regolate di sale e di pepe, amalgamate il composto e formate le arancine, poi raffreddatele in frigorifero per un’ora. Trascorso il tempo, passatele nel latte e poi nel pane grattugiato e friggetele in olio di semi ben caldo, scolatele su carta per fritti. Servitele calde.

Involtini di quinoa e melanzane alla piastra. Per 4 persone. Lessate 300 g di quinoa come indicato sopra, poi mescolatela con un ragù vegetale a piacere, con un’allegra grattugiata di un formaggio a piacere, prezzemolo tritato e 1 filo di olio di oliva, regolate di sale e di pepe. Ricavate da 2 grosse melanzane 12 fette sottili. Grigliate le fette di melanzana uniformemente sulla bistecchiera ben calda. Adagiatele su un piatto e conditele con un filo di olio e un cucchiaino di origano in polvere. Farcitele con la quinoa e formate gli involtini. Cuoceteli in forno caldo per pochi minuti e serviteli irrorati con salsa di pomodoro calda.

Baccalà in crema di zafferano Baccalà in cocotte

Ingredienti per 4 persone: 400 g di baccalà pronto per l’uso – 100 g di riso rosso – 100 g di panna – 1 scalogno – 2 bustine di zafferano – stimmi di zafferano – 1 bicchiere di brodo di pesce – 4 cucchiai di olio d’oliva – sale.

Cuocete il riso rosso per 20 minuti in acqua bollente, scolatelo, regolatelo di sale e tenetelo da parte. Lavate il baccalà e asciugatelo. Tagliatelo a cubetti di 2 cm per lato, mettendoli in una ciotola, quindi spolverateli con lo zafferano e poco sale. Scaldate l’olio e rosolatevi i cubetti a fuoco vivace per 1 minuto. Scolateli e teneteli da parte. Nella stessa padella rosolate lo scalogno tagliato sottile, unite i cubetti di pesce. Bagnate con il brodo e proseguite la cottura per 12 minuti a fuoco dolce. Irrorate i cubetti di pesce con la panna e lasciate insaporire per 3 minuti mescolando. Distribuite il pesce in quantità dosate in bicchieri alternando con il riso rosso. I cubetti di pesce devono costituire l’ultimo strato del bicchiere. Decorate con gli stimmi di zafferano e servite.

Ingredienti per 4 persone: 300 g di baccalà pronto per l’uso – 40 g di farina – 2 tuorli – 40 g di grana grattugiato – foglie di salvia – erba cipollina – 1 punta di noce moscata – ½ bicchiere di brandy – 400 g di latte – 70 g di burro – sale e pepe.

Sciacquate il baccalà, asciugatelo e tagliatelo a cubetti. In una casseruola sciogliete il burro. Togliete dal fuoco e versate la farina. Mescolate con un cucchiaio di legno e rimettete sul fuoco. Iniziate ad aggiungere latte caldo poco per volta. Cuocete a fuoco dolce per 10 minuti. Regolate di sale e noce moscata. Raffreddate un po’, poi incorporate i tuorli mescolando in fretta. In una padella sciogliete il burro rimasto con la salvia. Unite i cubetti di baccalà, rosolate e sfumate, se volete, il brandy. Salate e pepate. Cuocete per 10 minuti. Suddividete nelle cocotte la besciamella allungata con poco latte se del caso. Inserite nella besciamella i cubetti di baccalà. Spolverate con grana grattugiato. Gratinate in forno a 210° fino a doratura. Guarnite con erba cipollina e servite.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 21 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 20 Come si fa?
Generato con intelligenza artificiale

Piccoli taccuini fioriti con i colori della primavera

Crea con noi ◆ Una semplice idea da realizzare con pochi materiali vi permetterà di conservare fiori e annotare pensieri

Un tutorial dedicato alla primavera e alla sua ricchezza floreale. Dei piccoli taccuini dall’aspetto poetico per annotare pensieri e conservare gli splendidi fiori che questa stagione ci dona. La copertina è arricchita da una stampa su cartone impreziosita da una cornice ricamata, mentre i sacchetti interni sono perfetti per accogliere i fiori essiccati divisi per categoria, con cui potrete creare deliziosi adesivi.

Procedimento

Ritagliate dai coperchi delle confe-

zioni per le uova, da cui avrete già rimosso eventuali etichette, dei rettangoli di 6,5x8,5 cm. Al centro di ognuno posizionate 1 o 2 fiori con il dorso rivolto verso l’alto. Coprite con carta da forno e poi con delicatezza martellate su tutta la superficie del fiore in modo da trasferirne il colore sul cartoncino sottostante. Rimuovete la carta da forno e il fiore, e con delicatezza pulite il cartoncino da eventuali residui, se necessario utilizzando una pinzetta. Successivamente, praticate dei fori lungo tutto il perimetro del carton-

Giochi e passatempi

Cruciverba

La tigre siberiana è il più… Può essere lunga più di … Trova il resto delle frasi leggendo, a soluzione ultimata, le lettere nelle caselle evidenziate.

(Frase: 6, 6, 2, 5 – 3, 5)

ORIZZONTALI

1. Città dell’Andalusia

7. Orecchio inglese

8. Città del Marocco

9. Pronome personale

10. Un’acqua nei drink

11. Famosa la Martinetti

12. Una persona... come un’altra

13. Mammifero americano

17. È l’ultima portata del cameriere

18. Sapienti, colti

19. Lemano a Ginevra

20. L’insieme dei mezzi di collegamento

21. Lì in poesia

22. Carne inglese

23. Mutano mori in mostri

24. Cavicchio, pirolo

25. Osso del braccio

VERTICALI

1. Freddo intenso

2. I raggi del poeta

3. Le iniziali dell’attrice

Rohrwacher

4. Opposto al perielio

5. Preposizione articolata

6. Antica arma bianca

10. Dopo il quinto

11. Soprannome dell’attore

Francesco Mandelli

12. Delicati e dolci ai sensi

13. Combattimento corpo a corpo

14. Fu cacciata dall’Olimpo e... anagramma di età

15. Le iniziali del pugile Tyson

16. Si grida

17. Fermaglio per bigiotteria

18. Caro in Inghilterra

20. Il vertice della nobiltà

22. Le separa la «n»

23. Nota musicale

cino, distanti circa 1cm tra loro e dal bordo. Con ago e filo, ricamate a punto dritto una cornice attorno ai fiori stampati.

Dai cartoncini colorati, ritagliate per ogni taccuino un rettangolo da 8,5x13 cm su cui incollerete la vostra stampa ricamata, e tre cartoncini 9,5x13 cm che fungeranno da divisori. Prendete ora quattro sacchetti per panini, risvoltate l’apertura di due cm per chiudere il sacchetto, quindi piegatelo a metà. Con una bucatrice per fogli, forate i sacchetti dal lato della piega e i cartoncini più grandi. Con il filo, uniteli per formare un piccolo taccuino, intercalandoli tra loro. Incollate sul primo sacchetto, come copertina, il cartoncino più piccolo al quale avete applicato la stampa.

Idea in più Con i fiori che avrete essiccato in una pressa potete creare degli splendidi adesivi. Applicate del nastro adesivo trasparente su un foglio di carta da forno, posizionate sopra i fiori pressati e, con molta attenzione, ricopriteli con un ulteriore strato di nastro adesivo. Questo processo risulta più semplice se coprirete un fiore alla volta.

Ritagliate seguendo il contorno del fiore lasciando un margine di 1mm. I vostri adesivi sono pronti per essere utilizzati o conservati nel vostro taccuino, in attesa di ispirazione per usarli.

• Fiori freschi, ben asciutti (per esempio viole)

• Sacchetti per panini

• Carta da forno

• Nastro adesivo trasparente largo o pellicola adesiva trasparente

• Cartoncino colorato, per es. rosa o lilla

• Filato in tinta e ago

• Bucatrice

• Confezioni vuote delle uova di colore chiaro

• Martello, forbici

(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

Buona raccolta e buon divertimento!

Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

Soluzione della settimana precedente Edoardo VII dovette posticipare la sua incoronazione. Motivo risultante: PER UNA OPERAZIONE DI APPENDICITE.

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell ’apposito

cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante

intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono

Non

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 21 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 21
formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale:
lettera
deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si
un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente
lettori che risiedono in Svizzera.
la
o la
escluse.
è possibile
a
numeri corretti da inserire
caselle colorate. A P E R UGA A N L A TOR O PI E A RM ANI Z IRO C OL AMEN N MANI A ETON D IT A U P O PA OR E NO D IS C I TAL EE 81 2 4 7 8 5 9 7 2 4 39 8 9 1 3 2 8 5 46 1 3 5842 317 69 9736 548 12 6127 893 45 7 2 6 3 1 8 5 9 4 3594 761 28 8419 256 73 2 6 5 8 9 7 4 3 1 1975 432 86 4381 629 57
Sudoku Scoprite i 3
nelle
1 2 3 4 56 7 8 9 10 11 12 1314 1516 17 18 19 20 21 22 23 24 25
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Viaggiatori d’Occidente

Perché non siamo sostenibili?

Ci crediamo ancora? Voglio dire, ci crediamo ancora nella lotta contro il cambiamento climatico?

Damian Carrington, un giornalista del «Guardian», di recente ha chiesto, a centinaia di membri del Gruppo intergovernativo di esperti sul tema, come valutassero la situazione e la risposta è stata concorde: «Viviamo in un’epoca di pazzi». La maggior parte si sono definiti «distrutti», «infuriati», «spaventati» nel vedere come i risultati delle loro ricerche non siano presi sul serio. Tra gli esperti, il pessimismo è diffuso: solo il 6% pensa che sia raggiungibile l’obiettivo ufficiale dei negoziati globali sul clima, ovvero mantenere l’aumento della temperatura entro 1,5°C. Quasi l’80% degli intervistati ritiene più realistico un aumento di 2,5-3°C sopra i livelli preindustriali e mette in conto carestie, conflitti e migrazioni di massa, specie nel sud del mondo.

Pochi credono che la mancanza di finanziamenti sia un problema; piuttosto puntano il dito contro la lobby dei combustibili fossili, la disinformazione e soprattutto (75%) la debole volontà dei politici.

David Gelles sul «New York Times» offre un quadro più sfumato, con luci e ombre. Se da una parte le emissioni sono ancora in aumento (!) e gli effetti del cambiamento climatico si stanno aggravando, dall’altra è anche vero che le energie rinnovabili stanno progredendo molto rapidamente; lo scorso anno il 30% dell’elettricità è stato generato da queste fonti. Di certo, conclude Gelles, dovremmo preoccuparci e impegnarci di più. E ovviamente, aggiungiamo noi, dovremmo farlo anche come turisti e viaggiatori. Nonostante il suo aspetto leggero e svagato, il turismo ha un impatto pesante sul clima. Con 45 arrivi internazionali ogni secondo, il turismo è

Passeggiate svizzere

responsabile del 5% delle emissioni di gas serra globali, soprattutto a causa dei mezzi di trasporto (oltre naturalmente al consumo di energia, di acqua e alla produzione di rifiuti). Un recente sondaggio su larga scala del popolare sito di prenotazioni online Booking.com sembra mostrare un allentarsi della tensione e una certa disillusione tra i viaggiatori. Certo, tre quarti degli intervistati credono ancora che viaggiare responsabilmente sia importante e si ripromettono di farlo nel prossimo anno. E quando viaggiano in forme sostenibili (a piedi, in bicicletta, acquistando in piccoli negozi locali eccetera) la maggior parte dei viaggiatori ha una migliore immagine di sé e un rapporto più empatico coi luoghi visitati. Inoltre, trae da questi viaggi l’ispirazione ad agire in modo simile anche nella vita di tutti i giorni.

Solo un quarto è stanco di sentir par-

Due colonne romane e mezza a Nyon

Alle 10.45 verso la metà di maggio arrivo a Nyon. Noviodunum, un tempo, al centro della colonia romana fondata verso il 50 o il 49 avanti Cristo. Il soggetto di oggi si è appena rivelato un buco nell’acqua. Ero venuto qui per un aggeggio-gioco balneare gigante che faceva furore negli anni Trenta sulla spiaggia di Ouchy, una specie di boa di due metri di diametro con un albero navale-scala sul quale i bagnanti si arrampicavano facendo pendere il tutto per poi tuffarsi nel lago. Ripescata nell’agosto 2017, quest’invenzione di un ingegnere di Berneck, vicino al lago di Costanza, tale Rudolf Frei, dimenticata sul fondo del Lemano a centoventidue metri di profondità, era stata collocata nel cortile all’entrata del Musée du Léman. Eppure, notizia di un attimo fa a cui non importerà a nessuno, ora si trova in un magazzino «per un restauro». Dal tono vago della signora

alla cassa però, a proposito della data di ritorno, sembrava che se ne fossero finalmente liberati. Venuto a Nyon per niente, vago smarrito sul quai infestato da sciami di moscerini. La sensazione di un pugno di mosche in mano si dissolve quasi subito: delle colonne romane incontrate per caso, una mezzoretta fa, nel tragitto per andare al museo del Lemano, mi sono rimaste negli occhi. Ritorno sui miei passi e la prima impressione è confermata, anzi. A Roma colonne così forse te le tirano dietro eppure qui, in quella posizione, inquadrando il lago in quel modo, sono qualcosa di singolare. Mediterranizzano tutto d’un tratto, con il contrasto del Monte Bianco innevato in lontananza e intorno, al posto dei soliti pini marittimi, tanti ippocastani. Esplanade des Marronniers si chiama infatti questo luogo. Al volo stabilisco la planimetria degli ippocastani anco-

Sport in Azione

ra in fiore che tengono compagnia a queste colonne scanalate di ordine corinzio che si stagliano un po’ irreali nel contesto lemanico. Cinque ippocastani sono di una certa età, due non giovanissimi, altri cinque giovincelli, totale dodici. Ventiquattro ore dopo – studiato questo posto per tutta la notte, nel mio campo base segreto, un alberghetto desueto a Évian, cercando ogni notizia possibile su internet e affinando la ricerca con alcuni libri trovati in biblioteca – ritorno al cospetto delle due colonne romane e mezza (401 m) a Nyon. Scoperte, a pezzi, da Edgar Pelichet (1905-2002) – talentuoso archeologo cantonale autodidatta, ex avvocato e fumatore accanito di Brunette i cui pacchetti morbidi, appiattiti a dovere, sono stati ritrovati da una giovane stagista pochi anni fa nelle anfore del Museo romano –in rue Delafléchère durante gli scavi

Quasi come se fossero segreti di Stato

Navigo in rete per ore a caccia di dati che mi illustrino la situazione finanziaria dei 14 club di hockey della National League. Mi imbatto in un panorama poverissimo di cifre, frutto perlopiù di ipotesi formulate da blogger, non provenienti da fonti ufficiali. Scopro, ad esempio, che l’Ajoie, con i suoi 7,2 milioni di budget annuo, è il più povero della Lega, ma mi sorge spontaneo interrogarmi sui recenti acquisti del Club giurassiano. Sul fronte opposto, un sito mi racconta degli oltre 20 milioni del bilancio degli ZSC Lions, neocampioni svizzeri. D’altro canto, poco sotto inciampo in un articolo in cui si dice che quattro anni fa il Berna beneficiava di un budget di 25 milioni di franchi. Era l’anno del lockdown e dell’annullamento del campionato. La stagione precedente, gli Orsi avevano conquistato il titolo, ma da allora hanno rimediato prevalentemente

lare di cambiamenti climatici e non crede agli argomenti degli scienziati. Semmai c’è una diffusa sensazione che le proprie scelte individuali siano irrilevanti e si tende a dimenticare la questione quando si pianifica o prenota un viaggio. Dipende in parte dalla natura stessa delle vacanze, un tempo sospeso e per definizione slegato dagli assilli quotidiani. Ma questa comprensibile e naturale inclinazione è parecchio rafforzata dalla sensazione che imprenditori turistici e destinazioni non stiano facendo abbastanza. Oltre un terzo degli intervistati si chiede che senso abbia viaggiare in modo più sostenibile in destinazioni che non condividono la stessa preoccupazione. E quasi metà rivolge critiche simili a Tour Operator e altri intermediari. Soprattutto niente Green Washing, ovvero un ecologismo solo di facciata. Proprio Booking, in seguito a pressioni degli organi di controllo,

ha soppresso una (generosa?) certificazione interna di sostenibilità attribuita alle strutture aderenti, affidandola invece a enti terzi.

Anche l’Unione europea ha avviato un’indagine su venti compagnie aeree, ipotizzando che molte delle politiche ambientali pubblicizzate (compensazione della CO2 emessa attraverso investimenti in progetti ambientali o l’utilizzo di carburanti speciali) non siano basate su evidenze scientifiche o diano l’impressione (errata) che si possa volare senza inquinare, semplicemente pagando una quota aggiuntiva. Il contenimento del cambiamento climatico insomma richiede sia un comportamento individuale più attento (viaggiare meno, meglio, più a lungo) sia un ruolo decisivo di governi, imprenditori e destinazioni. Richiede soprattutto azioni concrete, una comunicazione trasparente, impegno, onestà.

svolti tra il 1939 e il 1944. E rimesse in scena qui, dopo averle rimontate pezzo per pezzo, con lo sfondo del Lemano e le fronde di alcuni ippocastani ottocenteschi, in occasione del bimillenario di Nyon, sabato cinque luglio 1958. Adesso, nonostante il prato dell’Esplanade sia recintato perché appena seminato, stufo di contrattempi, m’infilo di lato, come un granchio, in un esiguo spazio lasciato libero e raggiungo, in punta di piedi, le colonne in stile flaviano. S’innalzano nel cielo minaccioso. Frammento di un forum secondario della Colonia Iulia Equestris, caduto in rovina e dissotterrato da Pelichet nei pressi di un mitreo ipogeo. E ricomposto, in occasione del bimillenario del cinquantotto festeggiato tenendo per buona la data stabilita dall’illustre Theodor Mommsen nella sua Storia di Roma (1854). L’anastilosi di questo pezzo di

colonnata in calcare giurassiano del 50 dopo Cristo è opera dell’architetto-tennista (tre volte campione svizzero negli anni Cinquanta, trentacinque incontri giocati in coppa Davis tra singolo e doppio e perlopiù persi) Paul Blondel (1925-2013). Se da vicino, aguzzando la vista, si colgono le foglie di acanto del capitello, è da una certa distanza che si gusta meglio questa rovina-puzzle: messa in questo punto partorisce un paesaggio nuovo, magari molto da cartolina, però, per me, di puro incanto straniante. Non mi stanco di assaporare il contrasto tra il lemanico e l’angolo di mondo pseudo-Brindisi. Di certo gioca un suo ruolo, il pezzetto di trabeazione in bilico, con tanto di pregevole fregio vegetale. «Da nessun’altra parte in Svizzera, si trova un esempio più bello dell’arte flavia» mi dice una bambina prodigio a spasso con il suo bulldog francese di nome Juno.

delle grosse delusioni. Vuoi dire che il montante a loro disposizione sia sceso vertiginosamente ed è per questo che hanno ceduto il passo a Zugo (due volte), Ginevra-Servette, e Zurigo? Insomma, avrei voluto costruire l’articolo sul rapporto tra denaro e successo. Missione impossibile, quasi come se avessi voluto indagare su delicatissimi segreti di Stato. Come se mi fossi imbattuto in allenatori e giocatori che si scambiano informazioni tattiche con la mano davanti alla bocca per nascondere il labiale. Nel tanto vituperato calcio italiano, trovo facilmente il salario di tutti i giocatori di serie A, nonché i bilanci (quasi sempre in rosso) di tutte le società. Se volessi sapere quanto guadagnavano Michael Spacek ad Ambrì o Markus Granlund a Lugano, dovrei rivolgermi ai diretti interessati.

In fondo si tratta di questioni private, ma di interesse pubblico, come lo

sono, ad esempio, quelle di tutti i top manager, dei quali conosciamo compenso annuo e bonus. Immagino che la discrezione serva a evitare confronti interni che a volte possono risultare imbarazzanti. Un giocatore mediocre con un agente scafato potrebbe guadagnare più di un collega più forte, che ha un impresario meno astuto. L’hockey svizzero è per contro prodigo di dati quando si tratta di magnificarne l’impatto sul pubblico. Nulla di più facile che scoprire che la nostra Lega, con i suoi 2,6 milioni di spettatori durante la Stagione regolare, è la più seguita d’Europa. E se il Berna, con la sua media di 15’490 presenze a partita, ha perso la leadership continentale a favore del Kölner Haie, abbiamo pur sempre molte altre squadre svizzere ben posizionate in classifica. Pensiamo, tanto per citare un caso, che il «povero» Ambrì-Piotta è a un solo passo dalla Top 10 europea con

i suoi 6463 spettatori a partita. Oppure che lo Zurigo, dominatore della Regular Season ne ha collezionati 11’244, il Fribourg-Gottéron, secondo, 9047. Note meno liete sono quelle che risuonano per l’Hockey Club Lugano, 11esimo su scala nazionale con una media di 5071 presenze alla Cornèr Arena. L’idea originaria di questo articolo mi era venuta pensando al fatto che il Bienne, lo scorso anno, e il Losanna questa stagione, sono giunti all’atto conclusivo dei play-off, sfiorando persino l’impresa di rivincere il titolo (per i seelanders), o di conquistarlo la prima volta, (per i vodesi). Uno scenario che potrebbe fungere da stimolo anche per le due ticinesi. Per il Lugano in primis, più abituato alla navigazione d’altura nei mari agitati dei play-off. Ma anche per i leventinesi, perché no?

Vi si erano avvicinati 25 anni or sono. Nulla vieta che l’obiettivo possa quan-

to meno essere vagheggiato. Se ce l’hanno fatta Bienne e Losanna, perché non alimentare speranze anche a sud delle Alpi? Questo era il mio rudimentale ragionamento. Tuttavia, dai frammenti di notizie catturate in rete, fino a prova contraria ufficiale, scopro che le due società sconfitte nelle due ultime finali, non sono molto lontane, quanto a budget, dai paperoni della Lega, Zurigo, Zugo, Berna. Ma questo non deve impedire a Lugano e Ambrì-Piotta di sognare e di perseguire obiettivi che possano sembrare eccessivamente ambiziosi. Ci sono aspetti, nella gestione di un club sportivo, che vanno al di là delle mere questioni finanziarie. Professionalità, scelte oculate dello staff, organizzazione, spirito di gruppo, fattore mentale, strategie motivazionali, e magari anche un pizzico di fortuna, possono essere una molla capace di spingere molto in alto.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 21 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 23 TEMPO LIBERO / RUBRICHE ◆ ●
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ATTUALITÀ

La debolezza dell’Italia

Le crisi belliche in atto in Ucraina e Medio

Oriente mettono in discussione le basi stesse della sicurezza e dello sviluppo dello Stivale

Intervista a Elisabeth Baume-Schneider

La consigliera federale si schiera contro le due iniziative sulla salute al voto il 9 giugno e illustra le sue idee per contenere i costi della salute

Pagina 29

Sui privilegi dei consiglieri federali

Il Nazionale ha respinto una mozione che chiedeva un’analisi della situazione e un confronto con altre rimunerazioni

Pagina 31

Ursula von der Leyen: il momento della verità

Potentissime ◆ Ritratto della presidente della Commissione europea che aspira alla rielezione in un clima non troppo favorevole

Ursula von der Leyen (nella foto) ha un percorso in salita davanti a sé. Troppo accentratrice, disinvolta nell’uso del potere. Efficace anche, ma questo passa in secondo piano per le capitali europee che devono decidere della sua rielezione alla guida della Commissione europea, dopo cinque anni in cui la conservatrice tedesca è riuscita ad avere successo sia nella missione impossibile di farsi conoscere dai cittadini Ue – il 75% sa chi sia e che faccia abbia – sia in quella, altrettanto spericolata, di dare un tono decisamente europeo alle risposte ai considerevoli problemi che il blocco ha affrontato dal 2019, pandemia e Ucraina in primis.

Molti le rinfacciano l’arroganza dimostrata in varie situazioni e ricordano che tutto è possibile da qui al 6-9 giugno

Le obiezioni sono molte e ruotano tutte intorno alla maniera in cui la sessantacinquenne ex ministra della Difesa, medica poliglotta e madre di sette figli, ha amministrato la cosa europea, comportandosi più come una capa di Stato che come la leader di un insieme disomogeneo di ben ventisette Paesi. Sebbene sia la candidata di punta, quella con più chances di farcela, ministri e diplomatici gettano acqua sul fuoco degli entusiasmi e non mancano di rinfacciarle l’arroganza dimostrata in varie situazioni, ricordando che tutto è ancora possibile da qui al 6-9 giugno, data in cui i circa 450 milioni di cittadini europei andranno alle urne. E l’esito del vertice del Partito popolare europeo (PPE) che si è tenuto nel marzo scorso a Bucarest e nel quale avrebbe dovuto essere incoronata in maniera trionfale come Spitzenkandidatin, candidata di punta, è lì a parlare di spaccature, visto che rispetto a un numero di delegati che doveva essere ben maggiore (737) a votare sono stati alla fine solo in 499 e 400 si sono espressi a favore di von der Leyen. Questo vuol dire che un delegato su cinque è stato contro di lei, oltre al fatto che in quella circostanza il francese Michel Barnier, ex commissario ed ex negoziatore Ue per la Brexit, si è rifiutato di appoggiarla per un secondo mandato, accusandola di aver permesso che si sviluppasse un «inutile e pericoloso confronto tra la produzione agricola e l’ambiente» con un Green Deal ambizioso e inviso alla Francia rurale e alla destra che cerca di intercettarne le esigenze. Sebbene di schieramento diverso rispetto al presidente Emmanuel Macron, Barnier, con le sue parole, ha dimostrato quanto la Francia sia decisa a far cadere molto dall’alto qualunque eventuale appoggio alla candidata tedesca, cercando di ottenere il massimo

con traccheggiamenti strategici. Non che von der Leyen – ed è questa un’altra delle accuse che le vengono rivolte – si sia dimostrata restia a fare concessioni, come quelle degli ultimi mesi sul glifosato, un erbicida controverso, e sulla protezione dei lupi. Lo stesso ha fatto sui migranti, con un occhio ai partiti di estrema destra che secondo i sondaggi dovrebbero avere molto più spazio nel prossimo Parlamento europeo. Se all’inizio del suo mandato predicava un approccio basato sulla solidarietà e la cooperazione, ora vuole triplicare la capacità di Frontex per mettere in sicurezza i confini e ha detto che «il concetto di Paese terzo» in cui mandare i richiedenti asilo, come fatto dal Regno Unito con il Ruanda, è «già presente nella legislazione europea». Parole che hanno suscitato l’indignazione di molti conservatori moderati, decisi a non prendere questa strada e soprattutto turbati dalla eccellente relazione di lavoro instaurata da von der Leyen con la premier ita-

liana Giorgia Meloni, che all’estero viene considerata senza sfumature di estrema destra e per questo una compagnia indesiderabile da un punto di vista delle alleanze. Nella recente visita a Roma le due leader non si sono incontrate, così come da Forza Italia ci sono stati segnali di freddezza, a riprova di una situazione delicata.

Parecchi conservatori moderati sono turbati dall’eccellente relazione instaurata da von der Leyen con Giorgia Meloni

«Mio padre spesso parlava dell’Europa come se fosse parte della nostra famiglia», ha dichiarato la candidata del PPE per sottolineare le sue credenziali europeiste, ma sulla sua presidenza pesano episodi di gestione fin troppo famigliare e confidenziale dell’istituzione da lei guidata. Uno per tutti è lo scambio di messaggi sul

cellulare con il Ceo di Pfizer, Albert Bourla, durante la pandemia di Covid-19, culminato nell’acquisto di vaccini per circa 20 miliardi di euro. Un episodio a dir poco opaco e oggetto di un’indagine da parte della procura europea, Eppo, che ha preso in mano il dossier aperto dalla procura di Liegi per «interferenza nelle funzioni pubbliche, distruzione di sms, corruzione e conflitto di interessi». Un dettaglio che ha gettato ombra su una gestione per il resto piuttosto brillante della pandemia, alla quale è stata data una risposta europea con fondi per 800 miliardi di euro, i cui resti sono ora utilizzati per la difesa Ue e per aiutare l’Ucraina. Poi c’è l’appoggio incondizionato dato a Israele, con tanto di visita, all’indomani degli attentati del 7 ottobre: una mossa che ha indispettito Spagna, Belgio e la diplomazia Ue, visto che non era stato concordato. L’ultimo passo falso è stato dare il ruolo da inviato Ue per le piccole e medie imprese a Markus Pie-

per, eurodeputato della CDU, senza che avesse tutte le credenziali a posto: per questo hanno protestato ben quattro membri di una Commissione in cui l’atmosfera è sempre stata tesa. La leader, secondo i suoi detrattori, ha la tendenza a prevaricare sui commissari e anche sui capi di Stato e anche la sua campagna lo dimostra, visto che ha trasformato il suo capo di gabinetto in coordinatore della sua marcia verso la rielezione, lasciando vuoto un ufficio chiave di Bruxelles e trasferendo altri alti funzionari a lei fedelissimi verso l’impresa elettorale. Quando è stata eletta cinque anni fa, il Parlamento era diverso, più favorevole a von der Leyen sulla carta, eppure è passata con un margine minimo e con l’appoggio di Polonia e Ungheria. Per questo la presidente si starebbe dedicando a una «diplomazia personale» un po’ troppo spinta, per fare regali di fine mandato alle varie parti in vista di un futuro in cui possa restare quello che è già: potentissima.

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 21 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 25
Keystone
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Il motore della Russia

Prospettive ◆ Una lunga guerra al servizio dell’economia e della propaganda

Una nuova offensiva in Ucraina, e un terremoto di nomine al Cremlino: Vladimir Putin ha aperto il suo nuovo mandato, il quinto, con una determinazione a vincere la guerra. Nessun segnale di distensione: all’Occidente sono state di nuovo inviate una serie di minacce nucleari, «le nostre forze strategiche sono sempre pronte a intervenire», ha promesso il presidente russo alla parata militare per la festa della vittoria sul nazismo, il 9 maggio, circondato da veterani della Seconda guerra mondiale accanto a reduci del fronte ucraino, molti dei quali accusati di crimini contro la popolazione civile a Bucha e in altre città ucraine. Poche ore dopo, ai bombardamenti incessanti di Kharkiv si è aggiunta una offensiva di terra, che ha costretto le autorità ucraine a ordinare l’evacuazione dai villaggi di quella che era rimasta la «zona grigia» tra il confine con la Russia e il territorio controllato da Kiev. La cittadina di Vovchansk in pochi giorni è stata quasi rasa al suolo dall’artiglieria e, nonostante le truppe russe siano per ora non sufficienti a espugnare la seconda città ucraina, i suoi abitanti temono che Kharkiv, martellata da bombe e missili russi, sia stata condannata da Putin a «diventare una seconda Aleppo», come dice il suo sindaco Igor Terekhov.

Vladimir Putin ha licenziato due fedelissimi rimasti al suo fianco per un quarto di secolo: un ribaltamento di regime

Gli esperti militari, ucraini e internazionali, si stanno chiedendo se l’improvvisa avanzata dei russi su Kharkiv sia l’esordio di un secondo fronte, insieme a quello principale nel Donbass, dove la pressione delle truppe di Putin ha permesso di fare nelle ultime settimane piccoli ma costanti avanzamenti, o sia soltanto un diversivo per costringere Volodymyr Zelensky a spostare parte delle sue già non ricche risorse altrove, mentre il capo dello spionaggio militare ucraino Kyrylo Budanov teme un attacco da una terza direttrice, a Sumy, nel nord. Ma forse le ragioni dell’avanzata russa sono da cercarsi a Mosca, visto che è iniziata proprio alla vigilia di

quello che era partito come un leggero «rimpasto» del Governo, quasi un aggiustamento «tecnico» in occasione dell’inizio del «Putin 5», per rivelarsi un autentico ribaltamento del regime. Il dittatore russo ha «licenziato» due suoi fedelissimi rimasti al suo fianco per un quarto di secolo, Sergei Shoigu e Nikolai Patrushev. Il primo, ministro della Difesa dal 2012 nonostante non avesse fatto nemmeno un giorno di leva, è stato l’esecutore e l’autore dell’invasione dell’Ucraina nel 2022, ed era rimasto in carica nonostante l’evidente fallimento dell’offensiva su Kiev e il conflitto con il capo del gruppo Wagner Evgeny Prigozhin, che ne aveva chiesto a gran voce il licenziamento. Il secondo, segretario del Consiglio di sicurezza ed ex capo dei servizi segreti FSB, era famoso per le sue teorie cospirazioniste antioccidentali, ma soprattutto per essere un uomo del quale Putin non aveva mai fatto a meno, quanto di più vicino a un numero due in un regime di stampo monarchico. Erano stati proprio gli uomini dell’FSB, del suo quinto dipartimento, a promettere a Putin che l’Ucraina avrebbe spalancato le braccia ai soldati russi e che il suo popolo non vedeva l’ora di tornare sotto l’ala di Mosca: un errore di giudizio clamoroso che ha in buona parte determinato l’inizio della guerra.

L’impressione infatti è che l’allontanamento dei due falchi sia stato da parte di Putin una tardiva punizione per il fallimento della «guerra lampo» ucraina. Shoigu è stato spostato al posto di Patrushev, al Consiglio di sicurezza, che a questo punto probabilmente tornerà a essere un organismo consultivo di facciata, dove vengono parcheggiati i cortigiani dismessi: il vicesegretario è l’ex presidente e premier Dmitri Medvedev, declassato a poco più di un propagandista. Il 72enne Patrushev ha ottenuto invece una carica di assistente del presidente, con delega alla cantieristica, che appare come un umiliante prepensionamento di un uomo considerato tra i più potenti di Mosca. Come ricompensa, Putin ha promosso suo figlio Dmitri da ministro dell’Agricoltura a vicepremier, ma di vice il primo ministro Mikhail Mishustin ne ha ben dieci, e il pettegolezzo moscovita che dava Patrushev Jr. come possibile

Debolissima Italia

L’analisi ◆ Le crisi belliche mettono in discussione le basi stesse della sicurezza e dello sviluppo

Lucio Caracciolo

L’Italia è insieme alla Germania il Paese europeo più spiazzato dall’invasione russa dell’Ucraina e dalle sue conseguenze. Rispetto a Berlino, Roma dispone per cultura ed esperienza storica di una molto maggiore adattabilità all’imprevisto, guidata da un talento per la flessibilità piuttosto speciale. Ma la crisi bellica, finora mitigata, mette in questione le basi stesse della sicurezza e dello sviluppo in Italia. Se la partita ucraina e quella mediorientale si prolungheranno per anni, nessuno può scommettere sulla sua leggendaria capacità di gestire per vie informali gli sconvolgimenti geopolitici, sociali ed economici in corso.

Così come Gibilterra verso l’Atlantico, dunque gli Stati Uniti, mercato di elezione dell’export tricolore. Non deve quindi stupire che la Marina militare italiana partecipi attivamente alla repressione della minaccia houthi. Anche sparando, ciò che per le abitudini di Roma non è affatto normale. A queste vulnerabilità, che specie sul fronte energetico Roma condivide con diversi Paesi europei, si sommano altre debolezze strutturali.

«delfino» del presidente appare a questo punto definitivamente archiviato. Anche perché Putin non sembra avere alcuna intenzione di ritirarsi o di scendere a compromessi. La nomina alla Difesa del 65enne economista Andrei Belousov non sembra infatti un segnale di distensione.

La missione di Andrei Belousov, oggi alla Difesa, è quella di legare industria, Governo ed esercito in un meccanismo unico

È vero che l’ex ministro dello Sviluppo economico non è un falco dichiarato, ma è vero anche che non solo non ha mai contestato ovviamente la guerra, ma ha anche promosso una militarizzazione dell’economia russa riesumando il vecchio slogan sovietico «tutto per il fronte». È un «tecnico» convinto delle ragioni politiche del putinismo, e la sua missione – in quella che, dopo lo stanziamento a Kiev del pacchetto di aiuti americano e dell’aumento cospicuo di quelli europei, diventa una guerra di resistenza, dove vincerà chi ha più mezzi e risorse – è quella di legare industria, Governo ed esercito in un meccanismo unico. Il nuovo vicepremier Denis Manturov ha dichiarato alla Duma che l’industria bellica russa ha assunto, in poco più di un anno, 500 mila nuovi lavoratori, con 850 fabbriche riconvertite dalla produzione civile a usi bellici, e aumenti salariali fino al 60%.

La guerra è il nuovo motore dell’economia russa, e per quanto è evidente che sia uno sforzo che non potrà durare a lungo – le entrate dall’esportazione di gas dopo le sanzioni europee sono collassate, e quelle dalla vendita del petrolio, prevalentemente in Asia, visibilmente ridotte – serve nell’immediato a comprare il consenso di buona parte della popolazione. Le manette che continuano a scattare ai polsi dei viceministri della Difesa fanno pensare a un cambio totale ai vertici militari. Il Cremlino vuole un’economia più efficiente e un esercito meno corrotto, perché si sta preparando a una guerra lunga, nella quale non ha nessuna intenzione di fare passi indietro.

Premessa: nelle guerre contemporanee, combattute sul fronte economico a colpi di sanzioni e contro sanzioni, chi è autosufficiente ha un enorme vantaggio. Il principale errore di calcolo da parte di Washington e degli europei è stato di contare sulle sanzioni per piegare Mosca. Ora, la Russia è insieme agli Stati Uniti l’unico Paese al mondo a godere dell’autosufficienza alimentare ed energetica. Questo mette Putin al riparo dagli effetti più gravi della rottura delle relazioni economiche (peraltro non illimitata), soprattutto energetiche, con il mercato europeo.

L’Italia è invece fra i Paesi più esposti ai ricatti o alle fiammate protezionistiche e autarchiche tipiche dei tempi di guerra. È infatti un Paese geograficamente collocato al centro di un mare semichiuso, il Mediterraneo, che risente in modo particolare delle tensioni e dei combattimenti in corso nell’arco che dal Mar Nero si spinge fino al Mar Rosso. Siccome dipende quasi totalmente dalle importazioni per il suo fabbisogno anzitutto energetico e ha bisogno di accedere alle rotte oceaniche per raggiungere i mercati mondiali cui la sua economia votata all’export è legata, le guerre attuali ne mettono in questione interessi vitali. La differenza fra Italia e Francia, per esempio, sotto questo profilo, è strutturale: lo Stivale non ha affaccio atlantico, dunque oceanico, come invece l’Esagono, che dispone fra l’altro, grazie ai possedimenti d’oltremare sparsi in ogni Continente, del più vasto spazio marittimo fra tutte le potenze mondiali. Sotto questo profilo, i conflitti mediorientali riaccesi dopo Gaza sono percepiti da Roma quali minacce esistenziali. Nella visione geopolitica italiana, lo stretto mare che dal Canale di Suez sfocia nell’Oceano Indiano, al di là di Bab al-Mandab, è «Mediterraneo allargato». Meglio, Medioceano: valvola che connette l’Italia all’Indo-Pacifico, ovvero alle regioni più vibranti dell’economia globale.

In primo luogo l’Italia dipende al 100% dagli Stati Uniti per la propria sicurezza in caso di attacco nemico. Lo ha pubblicamente dichiarato il ministro della Difesa, Guido Crosetto, quando ha ammesso che «non siamo in grado di difenderci da soli». Sogni sulla difesa europea a parte, la penisola italiana è tuttora sede del più ampio schieramento militare statunitense in Europa dopo quello incardinato in Germania. Con basi, assetti di intelligence e depositi di bombe atomiche a stelle e strisce che ne fanno un bersaglio per chi volesse colpire le truppe americane in Europa. Questo problema è oggi moltiplicato dal clima di guerra, che vede fra l’altro l’Italia impegnata sul fronte ucraino via forniture di armi a Kiev e su quello mediorientale nel contrasto agli houthi. Ma se in altri tempi si poteva immaginare – o ci si poteva illudere – che Washington sarebbe intervenuta a sostegno di alleati aggrediti, oggi nessuno ne può essere certo. Il disimpegno non troppo graduale dal teatro europeo per concentrarsi su quello indopacifico in funzione di contenimento della Cina lo conferma. Infine, ulteriore macro problema: l’Italia sta perdendo popolazione da almeno dieci anni. Oggi è ridotta a meno di 59 milioni. E gli indicatori demo-biologici avvertono che si tratta della popolazione più anziana (47 anni l’età mediana, in crescita) di un continente già stravecchio (42 anni) in confronto al resto del mondo, specialmente dell’Africa (18 anni), da cui l’Italia è separata dallo Stretto di Sicilia. Non occorrono speciali arti socio-psicologiche per stabilire che una popolazione anziana e culturalmente conservatrice – gli italiani restano parte dei privilegiati di quel Nord del mondo che da tempo immemore domina il pianeta – trova difficoltà nel reagire alle sfide. Il tempo erode la flessibilità italiana. Tutto questo dovrebbe spingere gli italiani a rendersi conto che il tempo delle rendite di posizione è scaduto. E che occorre accettare di assumersi responsabilità, anche militari, fino a ieri impensabili. La pace, ormai lo abbiamo capito tutti, non è un diritto umano. È anzi, per parafrasare Renan, plebiscito di ogni giorno.

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«La scelta migliore non è sempre quella più cara»

Berna ◆ La consigliera federale Elisabeth Baume-Schneider si schiera contro le due iniziative sulla salute in votazione il 9 giugno Su «Azione» illustra le sue ricette per combattere i premi sempre più elevati delle casse malati

Christian Dorer

La sala riunioni del suo predecessore, Alain Berset, ha lasciato il posto a un salotto verde con un divano. Alla parete sono appesi dipinti dell’artista giurassiano Augustin Rebetez. Un collaboratore posa sul tavolino un sontuoso mazzo di fiori preso dal suo ufficio.

Elisabeth Baume-Schneider, parliamo di salute. Come si mantiene in forma?

Ogni volta che ho tempo sono all’aperto: in giardino, a fare escursioni o un giro in bicicletta... Ma lo ammetto: con una bici elettrica. In ufficio faccio sempre le scale. Mi piace essere in movimento, con le mie idee e fisicamente.

Con quale frequenza effettua controlli medici?

Il mio medico direbbe: troppo raramente. Ma ogni tanto faccio degli accertamenti. Mia madre è morta di cancro, quindi appartengo a un gruppo a rischio. La prevenzione è importante perché aiuta a rimanere in salute e conviene anche dal punto di vista economico: costa molto meno che quando ci si ammala.

L’onere dei premi delle casse malati è in cima alla classifica delle preoccupazioni della popolazione. Tre tesi sul perché non cambia niente. La prima: tutti guadagnano moltissimi soldi, quindi nessuno vuole cambiare nulla. È una spiegazione riduttiva. Ciò che conta è che disponiamo di un eccellente sistema sanitario in cui tutte le persone hanno accesso a delle buone cure. È anche un investimento in una società prospera.

Ciononostante, i premi delle assicurazioni malattia pesano sul portafoglio.

Sì, bisogna agire: dobbiamo eliminare i doppioni – qui c’è un potenziale di risparmio – e creare trasparenza, in modo da poter pianificare quali costi possono essere tenuti

Le due iniziative

Il 9 giugno saranno sottoposte al voto due iniziative popolari: il freno ai costi del Centro chiede di attuare misure di risparmio se l’aumento dei premi delle casse malati supera nettamente l’incremento dei salari. L’iniziativa per premi meno onerosi del PS chiede che i premi delle casse malati non superino il 10% del reddito; il resto dovrebbe essere coperto dallo Stato. Il Consiglio federale e il Parlamento raccomandano di respingere entrambe le iniziative.

sotto controllo e quali diventeranno più onerosi, perché le persone invecchiano o perché ci sono nuovi farmaci, ad esempio contro il cancro.

Seconda tesi: chi è malato vuole ricevere le cure migliori possibili. Quindi, anche se le persone si lamentano dei costi, in realtà sono abbastanza soddisfatte del sistema.

Sono d’accordo. Ora dobbiamo fare in modo che il nostro sistema sanitario rimanga di buona qualità e allo stesso tempo che i costi siano sostenibili. Si tratta di un compito che i partner tariffali, i Cantoni e la Confederazione devono risolvere insieme.

Questo porta alla terza tesi: nessun politico fa proposte serie di risparmio perché, ad esempio, se si chiude un ospedale regionale non si viene rieletti.

Questo è un po’ esagerato. Esistono esempi di chiusure di ospedali, ad esempio a San Gallo o a Berna. Ma si tratta di un tema con una forte carica emotiva e circolano tante idee sbagliate: molti pensano che la vicinanza a un ospedale sia fondamentale. In realtà la facilità di accesso a una rete di medici di base è molto più importante.

La popolazione svizzera è sempre più anziana. Quanto fa aumentare i costi questo fattore?

È un fattore decisivo e non è una sorpresa. Sarebbe sbagliato mettere le diverse generazioni l’una contro l’altra. Gli anziani hanno contribuito per tutta la vita alla nostra società, quindi adesso non si può dire che i loro costi medici siano troppo elevati.

Tuttavia, sorge la domanda: quanto dovrebbe costare un anno di vita in più? Non si può porre la questione in questi termini. Medico e paziente devono stabilire insieme ciò che è meglio fare, e la scelta migliore non è sempre quella più cara. Spesso è ancora un tabù, ma sarebbe utile che all’interno della famiglia si discutesse apertamente e precocemente delle misure di prolungamento della vita che si desiderano o meno alla fine dell’esistenza.

L’iniziativa del partito il Centro per un freno ai costi sarà sottoposta al voto il 9 giugno: se l’aumento dei costi della sanità è nettamente superiore all’incremento dei salari, la Confederazione deve prendere provvedimenti. Perché lei è contraria?

Il meccanismo è troppo rigido. Inoltre collegarlo ai salari non ha senso: le persone invecchiano, la medicina fa progressi. Ciò comporta un aumento dei costi. Tuttavia l’orientamento dell’iniziativa è corretto, ed è per questo che c’è un controprogetto che ritengo intelligente: i fornitori di servizi – come i medici e gli ospedali – devono rendere trasparenti i costi e il loro sviluppo. Quattro anni dopo potremo trarre un bilancio e, se sarà il caso, adottare le misure necessarie.

Breve biografia della ministra

La consigliera federale sessantenne del PS dirige il Dipartimento federale dell’interno ed è responsabile dei temi sanitari. È cresciuta in una fattoria nel Giura. Ha studiato economia e scienze sociali a Neuchâtel e ha lavorato come assistente sociale, consigliera di Stato e direttrice di un istituto di formazione superiore. È membro del Consiglio federale dall’inizio del 2023. Il marito è istruttore di guida e la coppia ha due figli adulti.

Sembra un po’ vago... Avrà un effetto perché il Parlamento concorda sulla necessità di contenere la crescita dei costi. L’iniziativa invece promette troppo: se invecchiamo e vogliamo sempre ricorrere alle terapie più recenti, i costi tenderanno ad aumentare.

Negli ultimi dieci anni i premi sono aumentati del 31% ma i salari solo del 6%.

Quando collasserà il sistema? Il sistema non collasserà. Ma sono necessarie misure per garantire che i costi rimangano sostenibili.

Quali sono le sue ricette più importanti?

Creare reti per un’assistenza coordinata, eliminare i doppioni e organizzare l’intero percorso terapeutico da un’unica fonte. C’è poi la cartella informatizzata del paziente, che documenta la storia clinica del paziente e assicura che i trattamenti non vengano eseguiti due o tre volte. Anche gli ospedali, le casse malati e i medici hanno una grande influenza attraverso le loro tariffe.

Gli oppositori del freno ai costi avvertono che il sì porterebbe a una medicina a due velocità, il che significa che non tutti gli assicurati riceverebbero tutte le prestazioni. È così o si tratta di eccessivo allarmismo?

La verità sta nel mezzo. All’estero le persone con un’assicurazione normale a volte devono aspettare molto a lungo per avere un appuntamento. Se votiamo a favore, ciò potrebbe accadere gradualmente anche qui. Se risparmiamo troppo, da qualche parte verranno a mancare delle prestazioni.

Il 9 giugno sarà sottoposta al voto anche l’iniziativa del PS per premi meno onerosi: vuole limitare l’onere dei premi al 10% del reddito, mentre il resto sarà coperto dallo Stato. Il Consiglio federale è contrario. Perché una famiglia che ne beneficerebbe dovrebbe votare no?

Naturalmente ogni famiglia deve pensare al proprio budget. E rispetto i diversi punti di vista su questa iniziativa. Ma non bisogna dimenticare che nulla è gratis. Una vittoria del sì comporterebbe spese miliardarie per la Confederazione e i Cantoni. Per il finanziamento sarebbero necessarie nuove entrate fiscali o grandi sacrifici in altri settori. Ci sarebbero discussioni difficili su dove risparmiare: nell’agricoltura, nell’aiuto allo sviluppo, nell’esercito, nelle università, nelle assicurazioni sociali? Allora questi temi potrebbero improvvisamente essere in cima alle preoccupazioni insieme all’assicurazione sanitaria.

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Consiglieri federali, troppi privilegi?

Svizzera ◆ Il Nazionale ha respinto una mozione che chiedeva un’analisi della situazione e un confronto con altre rimunerazioni

La pubblicazione della nuova scala degli stipendi dei dirigenti dell’UBS (poi approvata dalla maggioranza degli azionisti, riuniti in assemblea a Basilea) ha sollevato la solita ondata di critiche in vari ambienti svizzeri, in parte attenuate dai confronti con i dirigenti di grandi imprese estere e anche svizzere, come ad esempio la Novartis. Nel caso UBS non si è mancato di far notare che per ben due volte la grande banca ha beneficiato dell’aiuto della Confederazione, dimenticando volentieri gli antecedenti e il seguito di queste operazioni. Nel caso Novartis si è invece messo in evidenza il rapporto con i crescenti prezzi dei medicamenti.

Evidentemente non sono mancati i riflessi politici e, forse non a caso, è arrivata in Parlamento la discussione di una mozione dell’UDC sulla «Riduzione dei privilegi del Consi-

Per 5000 franchi l’anno

Gli stipendi del primo Consiglio federale, nato con la Costituzione del 1848, erano di 5000 franchi all’anno, cui si aggiungeva un appartamento gratuito. Nel 1900 erano saliti a 15’000 franchi ma senza l’appartamento. Nel 1918 i consiglieri federali ricevevano 25’000 franchi all’anno. Stipendi che provocavano spesso l’abbandono della funzione a favore di un posto di diplomatico o di direttore di organizzazioni internazionali. In altri casi invece si verificavano elezioni di magistrati molto giovani che poi restavano a lungo in Governo, probabilmente anche perché non c’erano le pensioni (informazioni tratte da Urs Altermatt, Ricerca storica in tre volumi sul Consiglio federale dal 1848 al 1919, NZZ libro, Zurigo).

glio federale», che chiedeva non necessariamente una riduzione dell’appannaggio dei consiglieri federali, ma certamente un esame della situazione e un inevitabile confronto con altre rimunerazioni, per altro non sempre confrontabili. Si è così potuto sapere che il salario di base di un consigliere federale è di 472’958 franchi l’anno, ma che i vari privilegi annessi lo fanno salire di parecchio.

Fra questi ultimi si possono ricordare il forfait di 30’000 per le spese personali, la pensione, dopo almeno quattro anni di servizio, corrispondente alla metà del salario annuale, l’abbonamento gratuito per le ferrovie e il telefono, l’auto di rappresentanza con autista, un’auto di servizio per uso personale, l’abbonamento gratuito per le teleferiche e anche per le giornaliere (nel frattempo modificato), infine anche il posto riservato allo Stadttheater di Berna. Particolarità tutta svizzera: per le auto di servizio una percentuale dell’11% del prezzo d’acquisto viene considerata nel reddito lordo imponibile.

Da sempre solleva discussioni la rendita di pensione di 236’000 franchi, che non viene finanziata dal diretto interessato, per cui viene considerata parte dello stipendio. Per questo, tenendo conto anche di altre prestazioni finanziarie minori, i cosiddetti «privilegi» di un consigliere federale giungono oggi a circa 1,1 milioni di franchi all’anno. È troppo, è troppo poco? La risposta dipende dal confronto con altre rimunerazioni (per altro non facilmente confrontabili) e dai criteri personali di chi vuole fare i confronti.

Di solito si usano per i manager parametri quali la complessità e la grandezza dell’azienda, la funzione concreta dell’interessato, il livello di rimunerazione di funzioni analoghe in settori confrontabili e l’even-

tuale rimunerazione di funzioni alternative. Nei confronti di capi di grandi aziende quotate in borsa, un consigliere federale guadagna meno, e questo non solo nei confronti di UBS o Novartis. Secondo un’indagine recente, le 17 maggiori aziende svizzere pagavano ai dirigenti, in media, 7,5 milioni di franchi l’anno (salario mediano). Anche il salario mediano delle 60 aziende di media grandezza, con 1,4 milioni di franchi era superiore a quello di un consigliere federale.

Qualche considerazione a parte meritano anche le rimunerazioni dei capi delle aziende un tempo federali e ora privatizzate (ma il cui capitale è in mano in tutto o in parte alla Confederazione). Le FFS pagano, 1,004 milioni, la Posta 1,036 milio-

ni, ma Swisscom (ormai indipendente) ben 1,854 milioni. Se si considera invece la media di altre 74 piccole aziende (sempre quotate in borsa) si vedono cifre di 865’000 franchi, poco più della Suva (817’000), della Finma (736’000), della media delle casse malati più generose (682’000) o della Radio TV (603’000). Le cifre comprendono anche i contributi alla cassa pensione.

Nei confronti si deve comunque tener conto della diversità delle funzioni. In fondo un Consigliere federale è solo un settimo della direzione generale, ma è soggetto a una forte esposizione mediatica, popolare e quindi a critiche frequenti, per cui la vita privata è fortemente limitata. Sotto questi aspetti il livello di rimunerazione è fortemente inferiore

a quello di possibili alternative, anche se la funzione comporta un prestigio non valutabile in denaro soltanto. Forse per questo i candidati al Governo federale di solito non mancano, anche se talvolta ci si può chiedere se i candidati sono all’altezza del compito, oppure se sarebbero in grado di gestire una grande azienda. Domanda che resterà sempre senza una precisa risposta, poiché la scelta dei governanti non risponde ai criteri usati per le scelte dei dirigenti di grandi aziende. Il Consiglio federale, anche se direttamente interessato, non crede che si debba cambiare qualcosa della situazione attuale. Il Consiglio nazionale, anche se con una maggioranza non molto significativa (98 a 85), ha quindi respinto la mozione sui «privilegi» del Governo.

Contro attacchi e discriminazioni al lavoro

L’iniziativa ◆ Due associazioni svizzere – Rezalliance e Strukturelle – chiedono alle Nazioni Unite di inserire nel calendario ufficiale il 24 maggio come Giornata internazionale contro le molestie e per l’inclusione nel mondo professionale

Giovani stagiste o apprendiste invitate dai superiori a cene e aperitivi che di professionale non hanno nulla. Estremamente interessate al posto di lavoro talvolta accettano, confondendo il confine tra ciò che è lecito e quello che non lo è. Impiegate, professioniste che quotidianamente si trovano confrontate con atteggiamenti sessisti di diverso genere. Dai commenti che si credono galanti alle espressioni quali: «Lavori anche di sera/nei giorni festivi? Non dovresti stare coi tuoi figli, accudirli?», «Chi se la sposa una che non è mai a casa?!». Passando attraverso parole e concetti inenarrabili espressi sulle chat tra colleghi/e.

Sono tutte situazioni che si verificano in Ticino, ce lo dice l’Associazione Equi-Lab, in prima linea nella lotta contro le discriminazioni e le molestie sul posto di lavoro (www.equi-lab.ch), che aggiunge: «Sentiamo anche di cameriere ai piani trascinate nelle stanze d’albergo da ospiti che pretendono “servizi” supplementari. Come pure di assistenti di cura a domicilio che subiscono attenzioni indesiderate da par-

te di utenti. Insomma, quando si parla di tutela in ambito professionale bisogna pensare non solo a situazioni di disagio create da colleghi o superiori, ma anche da clienti. Un tema ancora più delicato da affrontare». Di certo il contesto lavorativo può essere insidioso ed è necessario agire in maniera più incisiva su molteplici livelli. Ne sono convinte Rezalliance e Strukturelle, due associazioni svizzere che, su impulso di Joëlle Payom (Rezalliance) e in collaborazione con Maya Dougoud (Strukturelle), nel 2022 hanno lanciato la Giornata internazionale contro le molestie e per l’inclusione nel mondo del lavoro (https://24may.org). L’idea è stata portata da Payom, Dougoud, Zita Küng e Maria Bonina (Strukturelle) a New York lo scorso marzo, in occasione della 68esima edizione della Commissione sullo status delle donne (CSW68), il più importante incontro annuale dell’ONU sull’uguaglianza di genere e l’emancipazione femminile. Le attiviste hanno chiesto alle Nazioni Unite di inserire nel calendario ufficiale il 24 maggio. Payom ha raccontato come è nata l’idea della gior-

nata internazionale, la presidente di Strukturelle Dougoud ha presentato tre casi di mobbing che da anni sono oggetto di lunghe cause giudiziarie in Svizzera e Küng ha illustrato il sistema giuridico elvetico e il lungo percorso per il riconoscimento del diritto di voto alle donne. Durante la CSW68 – ricorda Bonina – l'Associazione delle Nazioni Unite di New York, la Women's Bar Association dello Stato di New York

Le molestie nel mondo del lavoro –dice l’ONU – schiacciano lo spirito e rimangono un affronto ai principi consolidati dei diritti umani. (Unsplash)

e la Medical Women's International Association hanno presentato un gruppo di esperti che hanno condiviso le loro storie personali e nuove iniziative per rafforzare le istituzioni con una prospettiva di genere ed eliminare le molestie sul posto di lavoro, nonché per fornire culture di inclusione, appartenenza e avanzamento di carriera. «Le molestie nel mondo del lavoro – dice l’ONU – sono un ostacolo primario alla crescita professionale in

quanto schiacciano lo spirito e rimangono un affronto evidente ai principi consolidati dei diritti umani, del diritto internazionale e della nostra umanità. Le molestie non affrontate, e non eliminate, riflettono la mancanza di volontà di creare sistemi e infrastrutture che sostengano le vittime e impediscano altri attacchi». «Discriminazioni e molestie sul posto di lavoro – osserva Bonina – sono un fenomeno grave e diffuso in tutto il mondo, in tutte le categorie professionali, dalle cameriere alle avvocate. E spesso non viene denunciato, per paura di ritorsioni o di perdere il posto. A volte con gravi conseguenze sulla salute, fisica e mentale. Istituire una giornata mondiale in questo senso può aiutare a rendere più consapevoli le vittime ma anche le organizzazioni e le istituzioni, in modo da rendere più efficace la lotta». Mentre si attende la decisione dell’ONU, la Giornata internazionale contro le molestie e per l’inclusione nel mondo del lavoro è già stata celebrata a Ginevra (2023), quest’anno sono previste iniziative a Bruxelles (2324 maggio) e nel 2025 a Parigi.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 21 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 31
L’attuale Consiglio federale, da sinistra: il cancelliere Viktor Rossi, Elisabeth BaumeSchneider, Ignazio Cassis, Karin KellerSutter, Viola Amherd, Guy Parmelin, Albert Roesti e Beat Jans. (Keystone)
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Il Mercato e la Piazza

Il Ticino è una grossa calamita per le aziende, ma quali?

Come si sa il corpo dei contribuenti di un Cantone è formato da due categorie di persone: le persone fisiche e le persone giuridiche. Attualmente in Ticino al centro delle discussioni vi è la tassazione delle persone fisiche in seguito al referendum lanciato contro la riforma fiscale, approvata qualche mese fa dal Gran consiglio. Tuttavia di recente anche le persone giuridiche hanno ricevuto una certa attenzione da parte dei media. Due notizie pubblicate nel corso delle ultime settimane hanno infatti indotto a riflettere sul rapporto tra l’attrattiva economica del nostro Cantone e il carico fiscale che devono sopportare le persone giuridiche che vi si sono istallate. La prima notizia veniva dal Centro competenze tributarie della SUPSI e precisava che, per le aziende, il fisco ticinese è tra i più cari della Svizzera. La seconda informava invece che il Ticino attrae aziende dal resto della Svizzera con la

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forza di una grossa calamita. Dobbiamo questa informazione a una statistica pubblicata da CRIF SA, un’azienda privata specializzata nella gestione dei rischi. La stessa sostiene che, nel 2023, il Canton Ticino avrebbe conosciuto, dopo il Vallese, il saldo positivo più alto nella migrazione di aziende all’interno della Confederazione.

Da noi l’immigrazione di aziende avrebbe superato di 71 unità l’emigrazione. Tenendo conto del fatto che l’effettivo delle aziende attive nel Cantone si avvicina alle 40’000 unità, lo spostamento dovuto al saldo positivo del movimento migratorio intercantonale non sembrerebbe a prima vista essere molto importante. Attenzione però: l’effettivo delle aziende attive nel Cantone cresce molto lentamente. Ogni anno si creano un po’ più di 2000 nuove aziende e se ne chiudono quasi altrettante. Il saldo positivo della demografia aziendale ticinese varia quindi, salvo casi

eccezionali, tra le cento e le duecento unità annuali. Di conseguenza il saldo dei movimenti intercantonali del 2023 potrebbe rappresentare quasi la metà dell’aumento dell’effettivo delle aziende realizzato lo scorso anno in Ticino. Mettendo assieme queste due notizie possiamo concludere che, nonostante si trovi nelle prime posizioni della classifica nazionale per quel che riguarda il carico fiscale delle aziende, il Ticino è stato nel 2023 tra i Cantoni più attrattivi per le aziende che hanno cambiato di domicilio all’interno della Svizzera. Non sappiamo se questo risultato sia un dato eccezionale oppure venga a confermare una tendenza che si sta manifestando da anni. Purtroppo sull’entità e sulle ragioni delle migrazioni intercantonali e internazionali di aziende sappiamo poco. Comunque le informazioni fornite dall’inchiesta della CRIF SA indicano che il nostro Cantone resta, all’interno dei confi-

Cento anni dall’assassinio di Matteotti

Giacomo Matteotti, di cui ricorre tra poche settimane il centenario dell’assassinio (10 giugno), sarebbe stato un leader naturale della socialdemocrazia europea. Se fosse stato vivo nel secondo dopoguerra, avrebbe potuto dialogare alla pari con figure come l’inglese Clement Attlee e il tedesco Willy Brandt. Era rigoroso eppure pragmatico, dotato di una visione internazionale, competente in economia. Tra le sue responsabilità, Mussolini ha anche quella di aver privato il Paese di figure – Giovanni Amendola, Antonio Gramsci, Giacomo Matteotti, Carlo Rosselli assassinato con il fratello Nello – che avrebbero contribuito a costruire un’Italia migliore. Il Duce ha distrutto una classe politica a suon di bastonate – si pensi solo ai cattolici, don Sturzo costretto all’esilio, De Gasperi e Gronchi fuori gioco per 20 anni, don Giovanni Minzoni assassinato – per sostituirla con un ceto me-

diocre, ottuso e xenofobo, autoritario e violento, selezionato in base all’obbedienza e non all’intelligenza. Matteotti era di Fratta Polesine, all’epoca una delle zone più povere d’Italia. Fame, malattie, analfabetismo, emigrazione: un abitante su tre tenta la sorte in Sud America. Nel 1914, al congresso provinciale del partito di Rovigo, incontra per la prima volta Benito Mussolini e capisce subito di avere davanti un uomo privo di scrupoli. Matteotti è un riformista, Mussolini un massimalista: non gli interessa migliorare le condizioni dei lavoratori, gli interessa la rivoluzione, almeno a parole. In realtà quel che gli preme è il potere. Alle elezioni del 1919 Matteotti è eletto deputato, entra nella commissione Finanze e Tesoro. Il partito socialista a Rovigo è al 70%, l’anno dopo conquista tutti i 63 Comuni del Polesine. Matteotti studia moltissimo. Condanna gli eccessi del

Il presente come storia

Montagne

ni nazionali, una localizzazione tra le più interessanti. E questo dovrebbe rallegrare le nostre autorità cantonali, in particolare il ministro delle Finanze sempre alla ricerca di nuovi contribuenti. Per saperne di più bisognerebbe però poter conoscere che tipo di aziende sono quelle che mutano di domicilio all’interno della Svizzera. Nel caso specifico sarebbe interessante conoscere se le aziende che dal resto della Svizzera immigrano in Ticino sono o meno buone contribuenti. Questo perché, in fatto di gettito d’imposta, non sempre la quantità e la qualità vanno a braccetto. Anche a questo proposito scarseggiamo tuttavia di indicazioni. Quello che possiamo constatare è che, nel corso degli ultimi dieci anni, mentre il numero dei contribuenti persone giuridiche ha continuato ad aumentare, il gettito delle loro imposte è quasi sempre diminuito. Ecco i dati: nel 2010 si contavano 23’778 contribuenti perso-

ne giuridiche; nel 2020 il loro numero era salito a 29’819 segnando quindi, in 10 anni, un aumento pari al 25%. Nonostante ciò il totale delle imposte pagate dalle persone giuridiche in Ticino è diminuito nel periodo indicato da 269,1 a 234,2 milioni, una diminuzione pari al 13%. Nel medesimo tempo quindi il gettito d’imposta per persona giuridica si è ridotto del 30% circa. Due i fattori all’origine di questa tendenza negativa. Dapprima la ristrutturazione del settore finanziario con la scomparsa di alcuni grossi contribuenti. In seguito il fatto che i contribuenti che li hanno sostituiti, fra i quali le aziende che hanno spostato il loro domicilio fiscale in Ticino, possiedono, di regola, gettiti fiscali minori. Sembrerebbe così che da noi, rispetto al gettito fiscale delle persone giuridiche, prevalga una variante della legge di Gresham stando alla quale il contribuente cattivo scaccerebbe quello buono.

biennio rosso. Di fronte alle violenze fasciste, invita i socialisti a evitare ritorsioni, a confidare nella giustizia e nello Stato. Nel gennaio 1921 gli squadristi lo aggrediscono per la prima volta, a Ferrara. La moglie gli scrive di stare attento ma nello stesso tempo sa già quello che lui farà: «Mi è difficile persuadermi che arrivato a questo punto non ti è ammessa alcuna viltà, anche se questo dovesse costare la vita». Il 10 marzo 1921 Matteotti prende la parola alla Camera per denunciare i crimini dei fascisti. Farà lo stesso nel maggio 1924, due anni dopo la marcia su Roma. Il discorso gli costa la vita. Il pomeriggio del 10 giugno 1924 cinque assassini aspettano Giacomo Matteotti sotto casa, in lungotevere Arnaldo da Brescia, nel centro di Roma. Uno è Amerigo Dumini. Lo afferrano, cercano di trascinarlo verso la loro auto, ma lui dimostra il suo coraggio anche nell’ultima occasione: si dibatte, ten-

povere e montagne ricche

L’abbandono della montagna ha alimentato un lungo dibattito fin dalla seconda metà dell’Ottocento, con un’intensificazione nel secondo dopoguerra, epoca in cui assunse proporzioni giudicate irreversibili. Nel 1953 il direttore dell’Ufficio di statistica Elmo Patocchi illustrava le dinamiche in atto con queste parole: «Il Ticino è, di tutti i Cantoni svizzeri, quello in cui il fenomeno dello spopolamento si è affermato con maggiore crudezza. Esso ebbe inizio con le migrazioni in massa verso la metà del secolo XIX. Intieri villaggi, quasi intiere valli si svuotarono, perdendo gli elementi più validi. Una, due generazioni vennero a mancare. Come potevano nascerne altre? Come poteva mantenersi, continuare la vita?». Governo, Parlamento, partiti e associazioni provarono in tutti i modi a tamponare l’emorragia, varando provvedimenti volti ad irrobustire il settore primario (agricoltura,

allevamento, selvicoltura). Si trattava innanzitutto di migliorare i metodi di sfruttamento, sia in pianura sia sui pascoli alti, e di favorire un uso più razionale del suolo (raggruppamento dei terreni). Ma poi occorreva battere strade nuove, e qui entrava in linea di conto la formazione in quota di piccoli insediamenti industriali, aziende che avrebbero permesso di trattenere in loco la manodopera, istituendo proficue sinergie intersettoriali (primario+secondario). Esempio virtuoso era considerato il caso della Cima Norma di Dangio (Blenio), la fabbrica di cioccolato fondata al principio del secolo scorso e che rimase in attività fino al 1968. Ma proprio la fine di questo esperimento industriale indusse le autorità a rivedere approccio e strategia. Il risultato fu, nel 1974, il varo della Legge federale all’aiuto agli investimenti nelle regioni montane (Lim), uno strumento pensato in un’ottica

regionalistica, ossia come intreccio di relazioni che non si arrestavano al perimetro dei singoli comparti. Ciononostante la montagna non è riuscita a risollevarsi come ci si augurava. Il calo demografico e l’invecchiamento dei (pochi) abitanti rimasti hanno innescato una reazione a catena che ha investito e smagliato tutto il tessuto sociale, dalle scuole alle parrocchie, dai negozi alle poste, dalle osterie alle stazioni ferroviarie. Si è insomma via via disgregato quell’insieme di servizi di prossimità che per secoli ha mantenuto in vita le comunità montane, rafforzandone lo spirito di appartenenza, ciò che Patocchi chiamava la sfera «psicologica e spirituale». Ad accelerarne il declino ha poi provveduto il disimpegno del Dipartimento militare federale, riducendo al minimo caserme, arsenali, fortificazioni e aerodromi. L’impazzimento del clima ha inferto il colpo di grazia, vanifican-

ta di mettersi in salvo, fugge lungo la scaletta che scende al fiume. Lo colpiscono alla nuca. Matteotti sviene. Lo portano di peso nella Lancia, che parte verso Ponte Milvio. Lui riprende conoscenza, perde sangue dalla bocca, tenta di liberarsi. Uno dei sequestratori, probabilmente Albino Volpi, lo minaccia con un pugnale, poi lo colpisce, due volte, all’inguine e al torace. Gli assassini proseguono la corsa verso Nord, scavano in fretta una buca in un bosco della Quartarella, a Riano Flaminio. La sera stessa Dumini avverte il Duce. Due giorni dopo i quotidiani danno la notizia della scomparsa di Matteotti. Comincia una tragicommedia di pessimo gusto: Mussolini finge di non sapere nulla. Mentre l’Italia è pervasa da un’ondata di commozione popolare, il dittatore chiede ai suoi di mettere in giro una voce: Matteotti è scappato all’estero. Alla fine il corpo viene ritrovato. Gli

assassini sono arrestati. La dittatura vacilla, Croce ed Einaudi firmano il manifesto degli intellettuali antifascisti. Ma l’opposizione è debole e divisa; il re non molla Mussolini. Così il Duce approfitta del delitto Matteotti per realizzare il suo progetto: imporre una dittatura. Il giro di vite è spietato. Si ritirano i passaporti, nessuno potrà espatriare senza il consenso del dittatore. Addio sindaci, arriva il podestà nominato dal regime. Istituiti il tribunale speciale e la polizia segreta. Ristabilita la pena di morte. Sciolti tutti i partiti, tranne quello di regime. Espulsi 142 deputati di opposizione. Oggi a Roma, cent’anni dopo, non è stato possibile affiggere una lapide dove Matteotti viveva e dove è stato rapito, che lo definisse «vittima del fascismo». I condomini non hanno voluto e li comprendo. Fare professione di antifascismo oggi in Italia può diventare un problema.

do gli sforzi profusi nell’ammodernamento degli impianti di risalita. Per un attimo è sembrato che le paure indotte dalla recente pandemia favorissero un ritorno alla montagna e un suo (parziale) ripopolamento: una rinascita trainata dal potere delle tecnologie telematiche. Di fatto non è stato così. In sede di bilancio si deve sommessamente concludere che il telelavoro non ha attecchito come molti auspicavano, anche per sgravare la rete stradale e ridurre l’occupazione degli uffici. Il contesto urbano continua ad esercitare un’elevata forza magnetica, sottraendo alle valli la risorsa fondamentale: il fattore umano, la sola risorsa che permette ai progetti di camminare e di affermarsi. È un fenomeno, lo sappiamo, che affligge l’intera fascia alpina e buona parte degli Appennini. Ovunque autorità e circoli intellettuali riflettono come ridare ossigeno alla montagna, con quali iniziative e con

quali soggetti. Impresa non facile, come testimoniano le ricerche che negli ultimi anni sta conducendo a Mendrisio il Laboratorio di storia delle Alpi, sotto la direzione di Luigi Lorenzetti e Roberto Leggero. L’ultimo volume, uscito per Donzelli, si occupa proprio dei servizi di prossimità come beni comuni nelle aree alpine e appenniniche sfibrate dall’emigrazione. Ma come sappiamo esiste anche una montagna ricca, ad esempio la mezzaluna turistica che dall’Engadina si estende fino all’Oberland bernese passando per Andermatt. Un cristallo di agi e benessere riservato all’élite mondiale, che tuttavia finisce per impedire agli autoctoni di accedere al mercato immobiliare. Ma un territorio trapuntato di seconde case e di letti freddi per buona parte dell’anno è destinato a trasformarsi in una corte recintata, svuotata di saperi, tradizioni, storia, un luogo anonimo e inautentico.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 21 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 33 ATTUALITÀ / RUBRICHE ◆ ●
di Aldo Cazzullo
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di Orazio Martinetti

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PIACERI CULINARI

Grill

Grigliare come in Argentina?

Finora non hai mai osato preparare i tagli di carne più grossi? Qui ti mostriamo come fanno i professionisti della griglia

T-bone steak con salsa pebre

Piatto principale per 4 persone

1 mazzetto di cipollotti

3 spicchi d’aglio

2 pomodori carnosi

1 mazzetto di coriandolo

1 cucchiaino di pepe di Cayenna

1 dl di succo di limetta

6 cucchiai d’olio d’oliva

2 cucchiaini di fleur de sel pepe dal macinapepe

2 bistecche alla fiorentina di ca. 650 g ciascuna

1. Trita finemente i cipollotti. Unisci l’aglio schiacciato. Riduci i pomodori a dadini. Trita grossolanamente il coriandolo. In una scodellina mescola gli ingredienti tritati con il pepe di Cayenna. Aggiungi il succo di limetta e 2/3 dell’olio d’oliva. Condisci con la metà del sale e pepe.

2. Accendi il grill a 220 °C. Spennella la carne con l’olio restante. Condisci le bistecche con il sale restante e pepale. Grigliale da entrambi i lati per ca. 12 minuti a fuoco alto diretto, fino a raggiungere la temperatura al cuore di 52 °C. Copri le bistecche, oppure avvolgile nella carta alu e lasciale riposare per 5 minuti. Servi la carne con la salsa.

Consigli utili

Per una cottura al bleu la temperatura interna dev’essere di 45 °C, al sangue 52 °C, media al sangue 55 °C, per una cottura media 60 °C e ben cotta > 70 °C. Puoi servire la carne con aglio grigliato: scalda il grill a 200 °C. Dimezza una testa d’aglio in senso orizzontale e spennella le due superfici di taglio con olio, poi grigliale a fuoco medio per 15-20 minuti.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 21 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 36
Ricetta
Testi, ricette e immagini: Migusto

Salsa chimichurri

Ricca d’aglio e prezzemolo, questa salsa originaria dell’Argentina si prepara fredda ed è un accompagnamento delizioso per carne e pesce alla griglia.

Alla ricetta

Entrecôte di manzo con chimichurri

Grigliata alla perfezione, l’entrecôte di manzo è servita con il chimichurri, una tradizionale salsa argentina che dona una nota extra di sapore alla carne.

Ricetta

Pancetta di maiale croccante alla griglia

Piatto principale per 6 persone

Salsa Pebre

Salsa per 4 persone

1 mazzetto di cipollotto

3 spicchi d’aglio

2 pomodori carnosi

1 mazzetto di coriandolo

1 cucchiaino di pepe di Cayenna

1 cucchiaino di fleur de sel

4 cucchiai d’olio d’oliva

1 dl d’aceto di vino rosso

Trita finemente i cipollotti e l’aglio. Riduci i pomodori a dadini e trita grossolanamente il coriandolo. Mescola tutto con il resto degli ingredienti in una ciotola. Ideale sul pane e con la carne alla griglia.

Consiglio utile

L’aceto di vino rosso può essere sostituito anche con il succo di limetta.

1,2 kg di pancetta di maiale, ordinabile in anticipo dal macellaio Migros

2 cucchiaini di sale marino grosso

1 cucchiaino di timo secco

1 cucchiaino di cumino

1 cucchiaino di bacche di ginepro

1 cucchiaino di pepe in grani

½ mazzetto d’erbe aromatiche, ad es. origano o prezzemolo

50 g di senape granulosa

Accendi il grill a 160 °C. Tampona la carne con carta da cucina. Con un coltello affilato incidi la cotenna a scacchiera e sfregala con la metà del sale. Nel mortaio pesta finemente il timo con il cumino, le bacche di ginepro, il resto del sale e il pepe. Sfrega la carne con la miscela di spezie, tralasciando la cotenna. Griglia la pancetta di maiale, con la cotenna verso l’alto, per ca. 60 minuti a fuoco indiretto, finché la temperatura interna della pancetta non raggiunge 75 °C. Gira la carne e continua la cottura sulla cotenna per ca. 10 minuti a fuoco diretto, finché la cotenna non diventa bella croccante. Trita le erbe aromatiche grossolanamente e mescolale con la senape. Taglia la pancetta di maiale e servila con la senape alle erbe aromatiche.

Consiglio utile

Le temperature elevate (220280 °C) sono ideali per rosolare o grigliare a fuoco diretto; gli alimenti si accomodano sulla griglia direttamente sulla fonte di calore, la brace. La cottura a fuoco indiretto richiede temperature medie (180-220 °C), gli alimenti sulla griglia non vanno posti direttamente sulla fonte di calore e il coperchio del grill è abbassato.

azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 37
Alla ricetta Ricetta
Più
ricette per il grill su migusto.ch

Preparazione

Se la carne viene riscaldata con una marinata, questa va applicata sempre prima e la carne va riposta nuovamente in frigorifero. Toglila poi dal frigorifero circa un’ora prima di grigliarla, in modo che possa respirare.

Alimentazione del grill

In Sudamerica si usa prettamente la legna o la carbonella affinché la carne sviluppi un aroma affumicato. Se a casa hai un grill a gas, puoi condire la carne con sale affumicato per insaporirla maggiormente. Non appena il grill è acceso, prepara la mise en place: è pronto tutto ciò che serve per il barbecue? In tal modo non dovrai andare in cucina a prendere il pepe o il piatto per gli alimenti grigliati, rischiando che la carne si carbonizzi.

Spazio sul grill

Se si grigliano pezzi di dimensioni diverse o più tipi di carne, pesce e verdure contemporaneamente, non si può tralasciare una buona gestione dello spazio e del tempo. Verifica quindi in anticipo la quantità di calore (diretto, indiretto) necessaria per ciascun pezzo e il tempo di cottura. L’ideale sarebbe poi fare uno schizzo con le tempistiche, in modo che nulla vada storto. Qui trovi tutto quello che devi sapere sul metodo di preparazione, sulla durata e sulla tecnica giusta: migusto.migros.ch/it/storie/ cosi-si-cuoce-la-carne-alla-griglia.

Un gadget per tutti

Le professioniste e i professionisti del barbecue e tutti coloro che vogliono diventarlo non possono fare a meno di un gadget: il termometro per carne o per barbecue. Se si conosce la temperatura interna della carne, si può capire se è cotta o se ha bisogno di qualche minuto in più.

PIACERI CULINARI

Grill

Carne alla griglia: come cuocerla correttamente

Tempo di riposo dopo la cottura

Mentre si mescola l’insalata e le e gli ospiti prendono posto, la carne può riposare sotto uno strato di carta d’alluminio per almeno dieci minuti. In questo modo le fibre si rilassano e il succo penetra all’interno. I pezzi restano dunque belli succosi e non si seccano (così) rapidamente.

Richieste speciali?

Se hai domande sulla quantità di carne, sulla preparazione o se intendi grigliare un pezzo di carne speciale come, p. es., una bistecca Dry Aged T-Bone, al bancone della carne della Migros troverai i consigli giusti.

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anche i pezzi più grandi vengano alla perfezione: la giusta preparazione e altri consigli garantiscono che la tua grigliata sia un successone
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Testo: Dinah Leuenberger
Immagine: Getty Images
Quanto è cotta la carne?
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in forno, togli prima la carne e poi eventualmente rimettila in forno. Temperatura massima: 120 °C
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la temperatura della carne durante
preparazione

CULTURA

Faccia a Faccia

Fino al 21 luglio al LAC di Lugano una mostra omaggia Ernst Scheidegger e i suoi ritratti d’artista

Pagina 41

Il diavolo di Mary MacLane È uscito in italiano il diario che la scrittrice americana pubblicò nel 1902 e negli USA fu censurato

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Intervista a Sheldon Suter Il batterista ticinese racconta il suo lavoro di ricerca musicale nel mondo delle percussioni

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L’eredità di Monte Verità a Le Locle

Cannes omaggia le donne Grandi ovazioni per Meryl Streep premiata con la Palma d’oro e al centro di una gremita masterclass

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Intervista ◆ Nicoletta Mongini, direttrice cultura della Fondazione Monte Verità, racconta la mostra che unisce i lavori di un gruppo di artisti contemporanei ispirati dal genius loci e dall’aura femminile della collina delle utopie

Alessia Brughera

A cavallo tra il XIX e il XX secolo un gruppo di spiriti liberi e anticonformisti, composto da idealisti, artisti, riformatori, vegetariani e anarchici provenienti da tutta Europa, elegge il Monte Monescia quale luogo adatto per realizzare il sogno di vivere senza condizionamenti esterni e in modo più salutare per il corpo e per l’anima stando a contatto con la natura. Cosa resta oggi di quell’oasi unica e seducente che ha ospitato una colonia antesignana di molti orientamenti e valori contemporanei? La mostra La scia del monte ou les utopistes magnétiques, organizzata al Musée des Beaux-Arts di Le Locle, si interroga sull’eredità lasciata da quell’esperienza rivoluzionaria e utopistica, raccogliendo le opere di ventisei artisti ispirati dal Monte Verità. Parliamo della rassegna con Nicoletta Mongini, direttrice cultura della Fondazione Monte Verità e curatrice dell’esposizione insieme a Federica Chiocchetti, direttrice di MBAL.

Monte Verità è stato per diversi aspetti un’esperienza precorritrice di molte idee attuali. Qual è il lascito delle visioni che l’hanno animata?

Con la mostra di Le Locle abbiamo constatato che a Monte Verità gli artisti contemporanei continuano a ricevere suggestioni e sensazioni, trasformate poi in nuovi linguaggi e in nuove espressioni. Monte Verità è un luogo che ancora oggi è capace di stimolare idee, prospettive e visioni inedite. Gli artisti chiamati a partecipare alla rassegna sono stati ispirati da alcune delle sue figure più importanti così come dall’energia del posto, dalla sua natura e da temi quali il femminismo, aspetto particolarmente rilevante nell’esperienza monteveritiana. Per questa mostra siamo partiti dal concetto di genius loci: il «genio del luogo» di Monte Verità che trasmette le sue memorie di libertà e di anticonformismo. Sappiamo bene quanto questo monte sia stato sacralizzato. La rassegna, però, è nata per dare voce a quegli artisti che si sono immersi nel suo genius loci trascorrendo qui periodi di residenza o di lavoro.

La presenza femminile a Monte Verità è una sorta di filo rosso che attraversa la mostra. Quanto sono state importanti le donne monteveritiane per il femminismo?

Monte Verità, nei primi del Novecento, era un luogo dove le donne avevano la possibilità di esprimersi in piena libertà, una condizione che difficilmente si poteva riscontrare in altri contesti. Per questo motivo hanno potuto realmente lasciare

un segno. Se ripercorriamo la storia troviamo molti nomi femminili, cosa non scontata per l’epoca. Qui per le donne c’era davvero l’occasione di manifestare senza remore il proprio modo di essere e di pensare.

Ida Hofmann, una delle fondatrici di Monte Verità, ci ha lasciato un’importante testimonianza di cosa sono stati, tra idealismo, ecologia e femminismo, i primi anni di vita della comunità…

Ida Hofmann è stata la principale regista del vivere a Monte Verità. Era una donna estremamente colta, parlava sette lingue. A quei tempi si interrogava già su tante questioni relative alla condizione femminile e combatteva per la parità di genere.

Rifiutava i luoghi comuni e soprattutto l’idea della donna come appendice di un uomo. Dalle pagine delle sue memorie, che tra l’altro la casa editrice Casagrande ha da poco ripubblicato e tradotto per la prima volta in italiano, si evince il suo impegno in questo senso. La sua visione femminista era sorretta dalla piena consapevolezza delle differenze tra uomo e donna ma anche dalla convinzione che i loro diritti dovessero essere uguali. La Hofmann sfidava anche le formalità. All’epoca per la donna era d’obbligo indossare il corsetto e tenere i capelli raccolti: lei rifiutava fermamente queste con-

venzioni vestendo libera, senza alcuna costrizione per il corpo, e con i capelli sciolti. In mostra a Le Locle c’è un’opera dell’artista Ingeborg Lüscher intitolata Das Hemd (nella foto) ispirata proprio al pensiero della fondatrice di Monte Verità: questo lavoro è modellato sulle camicie indossate dai primi abitanti della colonia e reca un testo della Hofmann, radicale e ironico insieme, sull’inutilità della stiratura, incombenza a cui le donne potevano secondo lei ribellarsi scioperando. Ida Hofmann aveva inoltre un approccio molto serio a tutti gli altri temi della comunità, basato su ricerche e studi approfonditi. Spesso infatti partiva con il compagno Henri Oedenkoven per incontrare in tutta Europa medici e naturopati, così da proporre a Monte Verità teorie e tecniche che non fossero solo velleità ma che avessero basi scientifiche. In occasione della mostra è stata pubblicata Les voix magnétiques, una raccolta illustrata di citazioni delle figure femminili di Monte Verità.

Quali altre donne di Monte Verità sono evocate dalle opere degli artisti in mostra?

Sicuramente c’è Olga Fröbe-Kapteyn, fondatrice del famoso circolo Eranos, personaggio femminile che ha creato in questo angolo di Svizzera un cenacolo intellettuale

allora impensabile. La Fröbe è arrivata in Ticino la prima volta per il sanatorio e ha poi deciso di fermarsi qui andando a vivere a Casa Gabriella a Moscia. È stata veramente una donna visionaria che ha avuto l’idea, inconsueta per quei tempi, di affrontare ogni tematica in maniera completa, multidisciplinare. Ai suoi simposi, che cercavano di comparare il pensiero occidentale a quello orientale, invitava antropologi, scienziati, filosofi, scrittori… Il suo era un approccio inedito di grande valore. La Fröbe era anche un’artista e, difatti, in mostra a Le Locle è presente una sua opera a cui si è ispirato il duo italiano The Cool Couple per un lavoro che ha rivisitato le sue tavole di meditazione attraverso l’intelligenza artificiale. Tra le donne di Monte Verità ci sono state anche Sophie Tauber-Arp, artista poliedrica e geniale che si è cimentata con varie espressioni artistiche, la ballerina Isadora Duncan, donna emancipata che ha sfidato il mondo proponendo una danza che esaltava la spontaneità dei movimenti, e ancora Marianne Werefkin, pittrice di grande levatura che ha vissuto l’arte come missione. Tutte figure accomunate dalla voglia di esprimersi in libertà. Da loro, per la rassegna di Le Locle, si sono lasciati suggestionare artisti quali Francesca Gagliardi, Riccardo Arena e Luca Mengoni.

Tra i protagonisti dell’esposizione c’è Una Szeemann, figlia di Harald Szeemann, visionario curatore che nel 1978 organizzò la celebre mostra Monte Verità. Le mammelle della verità. Che cosa ha preparato l’artista per questa rassegna? Si può dire che Una Szeemann sia cresciuta a Monte Verità. È una figura importante che ha raccolto l’eredità spirituale e artistica del padre e che ha sempre avuto un rapporto profondo con questo luogo. Il motivo per cui nella rassegna ha una sezione dedicata è proprio perché rappresenta il legame con il genius loci originario di Monte Verità e con quello di oggi. In mostra, tra le altre opere, c’è un omaggio ad alcuni degli oggetti che ospitiamo in Casa Anatta, gli abiti di Charlotte Bara. La sua scultura She Who Wanders at Night, del 2024, allude allo spirito della celebre ballerina che nel Teatro San Materno vicino a Monte Verità aveva ideato coreografie utilizzando danze sacre e mitiche di tutte le culture, interpretandole con movenze fluide che lasciavano il corpo completamente libero di esprimersi.

Dove e quando La scia del monte ou les utopistes magnétiques. Musée des Beaux-Arts – Le Locle. Fino al 15 settembre 2024. Orari: me-do 11.00-17.00. www.mbal.ch

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 21 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 39
Pagina Ingeborg Lüscher, La camicia/ Das Hemd, 1981. Pigmenti, carta impermeabilizzata e colla per legno su tela di cotone, 212 x 329 cm. (© The Estate of Harald Szeemann, in prestito permanente al Museo Casa Selma, Monte Verità, Ascona)

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I ritratti d’artista di Ernst Scheidegger

Mostre ◆ Al LAC fino al 21 luglio si può ammirare l’esposizione a cura di Tobia Bezzola e Taisse Grandi Venturi

Nato come vetrinista e illustratore, Ernst Scheidegger (1923-2016) si formò come fotografo tra il 1945 e il 1948 nella celebre classe di fotografia di Hans Finsler alla Kunstgewerbeschule di Zurigo, fucina di molti talenti. Qui ebbe anche l’occasione di lavorare con Alfred Willimann, grafico che applicava la fotografia alla pubblicità, e con l’artista Max Bill.

Diventato affermato fotografo di reportage per Magnum (1952), presente nei maggiori settimanali del tempo, Scheidegger è conosciuto per essere diventato un editore di successo (1962) e anche un gallerista (1971-1992).

Una lunga carriera e un’ampia presenza sulla scena artistica che in parte ha nuociuto storicamente alla sua considerazione strettamente artistica, in un’epoca in cui si vedevano i fotografi-fotogiornalisti e in seguito anche i fotografi di moda – come degli eroi romantici contemporanei per eccellenza.

L’esposizione a Lugano, a cura di Tobia Bezzola e Taisse Grandi Venturi, è la seconda tappa arricchita della mostra al Kunsthaus di Zurigo che l’anno scorso ha reso omaggio a Ernst Scheidegger per i cento anni dalla nascita. Realizzato in collaborazione con quest’ultima importante istituzione e con la fondazione omonima dell’artista, il percorso espositivo si snoda in due sezioni ben distinte.

La prima presenta scatti inediti collocabili nel primo decennio del secondo dopoguerra (1945-55). Rispetto a ciò che conosciamo di Scheidegger appare qui, nella sua dimensione più

autentica, ovvero come un fotografo di notevole caratura, capace di sommare la qualità formale dell’immagine tipica di Werner Bischof, di cui fu assistente e amico, alle poesia e liricità della vita quotidiana tipica di un Gotthard Schuh, fotografo svizzero centrale degli anni Trenta, di cui Scheidegger fu il successore come direttore editoriale del supplemento illustrato «Wochenende», della «Neue Zürcher Zeitung» dal 1960 al 1989.

La seconda sezione, ben delineata e distinta, è quella del ritratto d’artista, che spesso l’artista realizzava su commissione delle riviste d’arte dell’epoca o per l’illustrazione di cataloghi delle gallerie del tempo – come Cahier d’Art e XXème Siècle. È una fase più riflessiva, nata dall’abbandono del fronte caldo delle guerre dopo la morte di Bischof e Capa nel 1954, due tragedie che lo trascinano in una crisi esistenziale e lavorativa. In questo momento appare importante l’aiuto del maestro e amico Max Bill, artista tra i più influenti in Svizzera, che gli fornisce occasioni di dedicarsi all’insegnamento e ad altri progetti istituzionali legati alla promozione delle arti. Nel ritratto d’artista, Scheidegger si muove con grande tatto: restituisce gli autori senza retorica o intenti celebrativi, anzi riprende i grandi nomi – l’elenco sarebbe lungo e comprende decine di personalità – con discrezione al limite dell’invisibilità. In esposizione, ad esempio, si possono ammirare Verena Loewensberg e Fritz Glarner e vedere come si muovono e si mostra-

no, quasi ignari della presenza dell’autore e dello scatto. Ritratti spesso mentre lavorano, in pieno flusso creativo, i protagonisti appaiono più attenti a quello che stanno facendo, in nessun caso disturbati dalle riprese del fotografo. Ad esempio, Jean Arp, i cui scatti lo vedono completamente assorto nell’osservazione del Berger de Nuages. Assai suggestive anche le immagini degli atelier, tra cui il bellissimo scatto dello studio progettato da lei stessa a Meudon, alle porte di Parigi, di Sophie Taeuber-Arp, lasciato intatto dal marito ci-

tato precedentemente, com’era al momento della morte dell’artista nel 1943 – un luogo d’arte sospeso e poetico, tristemente immutato. Ma il vertice insuperato in questo ambito è senza dubbio la nota amicizia con Alberto Giacometti (1901-1966), nata durante il servizio militare nei Grigioni nel 1943, prima di diventare fotografo, e proseguita intensamente negli anni a seguire, in molte riprese e anche in un celebre documentario trasmesso in esposizione: da questo rapporto nasceranno delle immagini insuperate, intense e indimenticabili

La rivincita musicale dei favolosi anni 80

Musica ◆ Molti degli artisti contemporanei guardano a quel periodo ricchissimo di musica e di innovazioni

Se con un’immaginaria macchina del tempo tornassimo indietro agli anni 80, potremmo rivivere una stagione musicale straordinaria, ma forse ci sorprenderemmo del giudizio che i contemporanei, soprattutto i cosiddetti esperti, davano degli artisti che dominavano le classifiche.

Finita la fiammata del punk, esauritasi l’esuberante trasgressione della disco music, conclusasi l’epoca d’oro del progressive, in molti pensarono di trovarsi in una stagione di riflusso e di superficialità, sancita dall’inizio dell’era del video-clip che obbligava gli artisti ad avere un’immagine accattivante che facesse presa sul pubblico televisivo. Le star che avevano definito a vari livelli l’era del rock erano o scomparse o in (apparente) declino. Ci sorprenderemmo soprattutto a leggere le recensioni dell’epoca che vedevano tra gli artisti più odiati i Queen, giudicati un clone kitsch dei Led Zeppelin, i Police, visti come dei bellocci imitatori del punk, o gli AC/DC, marchiati come finiti dopo la morte del loro cantante Bon Scott. «L’unica emozione che mi provocano i Queen è il fervente desiderio che Brian May si tagli i capelli» scriveva nel 1985 uno spocchioso critico della rivista inglese «Melody Maker» (nella foto la copertina dell’album The Miracle del 1989). Per non parlare di artisti che erano ritenuti in crisi. La svolta mistica di Bob Dylan venne vissuta come un tradimento, le sperimentazioni di Lou Reed e Neil Young furono viste come falli-

mentari tentativi di rimanere giovani. «Un vampiro senza denti sul viale del tramonto» sentenziò un giornalista parlando dell’ex leader dei Velvet Underground. Non si salvò neppure David Bowie, «vendutosi» alla musica ballabile con l’album Let’s Dance Col senno di poi non possiamo che sorridere, interpretare la contemporaneità non è mai facile. Ma c’è da chiedersi come mai ai Grammy Awards del 1981 trionfò Christopher Cross e vennero ignorati due album che hanno fatto la storia come The Wall dei Pink Floyd o Back in Black degli AC/DC.

Gli anni 80 hanno avuto però, nel tempo, la loro rivincita. Lo dimostra il crescente numero di documentari, libri, spettacoli e film dedicati a quella stagione. A gennaio Netflix ha presentato il documentario La notte che ha cambiato il pop che ricorda la straordinaria session che portò nel gennaio 1985, all’incisione del brano benefico We Are The World, scritto da Lionel Richie e Michael Jackson e registrato a Los Angeles, sotto la regia di Quincy Jones, da quasi tutte le più grandi star dell’epoca come Bruce Springsteen, Stevie Wonder, Billy Joel, Diana Ross e Cindy Lauper (Prince rifiutò e l’emergente Madonna non venne invitata). Michael Jackson era reduce dal successo portentoso di Thriller, Lionel Richie aveva venduto 10 milioni di copie con Can’t Slow Down, Springsteen aveva appena finito un trionfale tour per il lancio di Born in the U.S.A. Quin-

cy Jones ritenne indispensabile appendere un cartello con scritto: «Lasciate il vostro ego all’entrata». Le tante star in realtà si comportarono benissimo e il successo dell’iniziativa sarà la premessa dell’evento Live Aid organizzato da Bob Geldof per l’estate successiva. Uno dei cantanti presenti a quella session fu il rocker Huey Lewis, noto in Europa soprattutto per la hit The Power of Love colonna sonora di Ritorno al Futuro. Il suo repertorio è il filo conduttore del musical The Heart of Rock and Roll che ha debuttato le scorse settimane a Broadway. Un altro nuovissimo documentario Thank you, Goodnight (distribuito dalla piattaforma Disney+) celebra

come, tra le molte, il ritratto in primissimo piano che fu presente sulla banconota da centro franchi. Non solo: invisibile presenza acquisita, titolare di un lasciapassare dato dalla sua amicizia, con un passo leggero come quello di un gatto, l’obiettivo di Scheidegger poté muoversi liberamente all’interno del piccolo universo dello scultore, lo studio di Rue Hippolyte-Maindron al numero 46, lasciandoci delle testimonianze uniche di uno dei luoghi più creativi del Novecento (come quella in foto in cui Alberto Giacometti dipinge Isaku Yanaihara, 1959) La mostra, sempre in questa seconda sezione di ritratti, da qui il nome Faccia a Faccia, presenta altresì tutta una serie di opere di straordinaria qualità provenienti in gran parte dal Kunsthaus di Zurigo. In particolare colpisce il magnifico ritratto di Ernst Scheidegger eseguito da Giacometti negli inverni tra il 1958 e il 1959. Dopo quella su Werner Bischof, con questa mostra il MASI contribuisce a scrivere una nuova pagina della fotografia svizzera che sappiamo essere meritevole di tanti nuovi approfondimenti.

Dove e quando Faccia a Faccia. Giacometti, Dalí, Miró, Ernst, Chagall. Omaggio a Ernst Scheidegger. Fino al 21 luglio al LAC di Lugano. Orari: ma-me-ve 11.00-18.00; gio 11.00-20.00; sa, do, festivi: 10.00-18.00. www.luganolac.ch

invece i Bon Jovi che, dalla metà degli anni 80, suggellarono il successo di un hard rock che sapeva conquistare il pubblico con grinta e melodia. Una moda musicale che fu definita, non senza sarcasmo, «hair metal», facendo riferimento alle capigliature vaporose dei cantanti che all’epoca divennero icone di stile. Quell’epopea è raccontata nell’esilarante libro Nothin’ But a Good Time (uscito in italiano per le edizioni Il Castello) che rievoca senza censura fasti ed eccessi di quel mondo grazie a centinaia di testimonianze dei protagonisti.

Più che essere rivalutati, gli eighties forse non sono mai finiti. Springsteen continua ad essere uno

degli artisti live più seguiti del pianeta facendo concorrenza a Taylor Swift che potrebbe essere sua nipote. Sarà anche al centro di un nuovo film biografico proprio dedicato alla sua evoluzione creativa negli anni 80, così come raccontata nel libro Deliver Me from Nowhere di Warren Zanes. Il ruolo del Boss sarà interpretato da Jeremy Allen White, uno tra i nomi più richiesti di Hollywood dopo il successo della serie The Bear. Intanto sappiamo che già da diverso tempo il regista J.J. Abrams è al lavoro per produrre, per conto di Netflix, una fiction in più puntate dedicata alla storia di un’altra band che nacque in quel decennio: gli U2. La serie dovrebbe essere scritta da Anthony McCarten che ha già firmato la sceneggiatura del biopic dei Queen Bohemian Rhapsody. Bono è reduce dal successo editoriale della sua auto-biografia Surrender e la band irlandese ha alzato l’asticella della spettacolarità degli show dal vivo con i concerti, tutti sold-out, tenuti nell’avveniristica Sfera di Las Vegas. Non solo memoria. Tanti artisti di oggi si ispirano alla musica di quegli anni, dal produttore re Mida Max Martin, il vero burattinaio del pop contemporaneo, a star come Lady Gaga, The Weeknd o Dua Lipa. Non è quindi solo un effetto nostalgia. Gli anni 80 furono ricchissimi di musica e di innovazioni stilistiche e tecnologiche e in tutte queste rievocazioni c’è più sorpresa e scoperta che malinconia.

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Estranei a noi stessi

Saggio ◆ Esemplare la narrazione di Rachel Aviv dedicata alla malattia mentale e ai protagonisti della sua cura

Se si dovesse identificare una lingua e un’area geografica cui attribuire un primato, quello di avere creato e di praticare con maestria superiore il genere del saggio narrativo, il nitrito suonerebbe altissimo nella direzione del mondo anglosassone e degli Stati Uniti in special modo. In questo Stranieri a noi stessi, traduzione di Claudia Durasanti, la più volte premiata giornalista del «New Yorker» Rachel Aviv parte come narratrice di una inusuale esperienza personale di anoressia infantile del tipo meno diffuso. Per poi accostare i casi psichiatrici di quattro altre persone, delle quali racconta la malattia sparendo letteralmente dalla narrazione e sostenendosi con un tanto imponente quanto discreto apparato di note, richiamate semplicemente con il numero della pagina, assenti del tutto gli apici a testo tipici del saggio. Leggere Stranieri a noi stessi è esperienza estetica superiore; e se la vita è, come si usa dire, un succedersi continuo di empatie narrate, leggere questo libro è semplicemente la vita.

L’autrice assume il ruolo immaginifico di filtro e di tramite invisibile delle storie raccontate e il nostro compito è quello di leggerle con profitto e gratificazione

Il racconto della malattia mentale è progetto che seduce e spesso si ha l’impressione che l’impresa sia tutto sommato abbordabile. Le insidie sono però innumerevoli, e gli ostacoli stanno tutti lì ben saldi. Basti pensare al potenziale eccesso di complicità con quelle esistenze così dolenti, al carattere liquido e non definitivo degli stati d’animo, alla difficoltà evidente di trovare le parole, al procedere zoppicante delle vicende retrostanti, all’epilogo talora drammatico di alcune di quelle vite. Rachel Aviv sceglie una via oltremodo ardita: quella di privilegiare quattro storie a loro modo paradigmatiche, perché i loro protagonisti

paiono quasi esemplificare destini più grandi di loro. Il nefrologo Ray Osheroff subisce in prima persona uno scontro tra scuole che agitava la seconda parte del secolo passato, la psicanalisi allora imperante ma precaria di fronte ai successi delle pratiche neurobiologiche, della prescrizione degli psicofarmaci. La parabola di Bapu pone il problema di chiederci se l’approccio psichiatrico sia da considerare in sé, universale, biologico e indipendente dalle culture o dalle religioni, o se siano in gioco questioni di punti di vista, di prospettive antropologiche. «Nella schizofrenia troppa religione non va bene. Ai miei pazienti dico: ’Non datevi alla filosofia. Studiate cose pratiche. È meglio che far vagare la nostra mente’. Leggevamo solo libri occidentali, inglesi e tedeschi e americani. Non avevamo autori indiani. All’epoca, nessuno psichiatra indiano era capace di scrivere un libro».

Naomi è nera e le sue opportunità di accedere a cure mediche e specialistiche sono diminuite e precarie. Laura è vittima del ben noto e sperimentato succedersi vertiginoso e malefico di medici e di farmaci: ne farà esperienza abbondante e variegata, giungendo ad assumere in successione diciassette diversi psicofarmaci e perdendo qualsiasi percezione adeguata di sé. Chiude la serie e il cerchio iniziale il rendiconto del destino di Hava, compagna di reparto della narratrice in quella così precoce anoressia di inizio libro. In mezzo, tutto il fiorire di saggistica narrativa che, come detto, configura uno stile e un genere esclusivo di quel mondo della letteratura.

Poi ci sono le note. Sono trenta pagine di rinvii, frutto di anni e anni di studio e di incontri con le persone. C’è il riferimento ai diari, agli articoli di giornale, al materiale archivistico, ovviamente alla letteratura scientifica, agli atti del processo intentato da Ray alla clinica accusata di insistere cocciutamente con la psicoanalisi, le memorie e i referti medici, il libro che lo stesso Ray ha pianificato in molti anni per far sapere al mondo delle pene sofferte. Le pagine dei «diari redatti a

Il diavolo di Mary

Diario ◆ È uscito in italiano il testo della MacLane

Laura Marzi

L’attesa del diavolo di Mary MacLane, pubblicato in italiano da Ago Edizioni con la traduzione e la postfazione di Sofia Artuso, è un libro che uscì a Boston nel 1902 e nel giro di poche settimane, prima che venisse censurato, vendette oltre 100’000 copie. Considerato che tutt’oggi negli USA specialmente in alcuni stati, anche dei classici vengono banditi perché considerati pericolosi per la moralità di lettrici e lettori, certamente, leggendo questo diario di una diciannovenne del Montana, non stupisce che il testo sia stato ritirato dal mercato agli inizi del XX secolo.

Mary MacLane, in queste pagine che raccontano tre mesi della sua vita nella cittadina di Butte, evoca «il Diavolo» costantemente e da qui deriva appunto il titolo del libro: è a lui che chiede che finalmente giunga la tanto attesa felicità, è con lui che cerca di fare dei patti: le bastano due giorni di gioia e in cambio è disposta ad accettare tutto ciò che non sopporta. È molto divertente, a tal proposito, la preghiera che fa affinché lui la liberi dalle cose che odia di più: giarrettiere, calze di filo di scozia, uomini coi baffi e sguardi insistenti…

mano, scritti soprattutto in tamil (con incursioni in sanscrito) che la nuora di Bapu ha scoperto in una credenza a casa di Bapu dopo la sua morte», sono ottocento; le lettere sono un centinaio. I referti medici e i verbali della polizia nel caso di Naomi sono ancora un centinaio e sono migliaia i dati derivati dagli archivi dei pronto soccorso cui si è rivolta tutte quelle volte.

Ancora di Naomi si conservano e sono stati consultati un quaderno di appunti di più di cento pagine e altri materiali; Naomi «ripuliva regolarmente la sua cella e mandava lettere, quadernini, disegni e libri alla sorella Toma, che li ha custoditi a casa sua a Chicago. Dopo il rilascio di Naomi, Toma ha trasferito tutte le lettere e gli altri scritti della sorella in tre enormi sacchi della spazzatura. Questo libro attinge a due di quei sacchi; il terzo era sommerso tra altri oggetti e Toma non è riuscita a recuperarlo». Certo è che colpisce sempre, in relazione a queste tristi esistenze, la produzione scritta, debordante e ossessiva.

La sensazione complessiva è di trovarsi di fronte a una storia che poggia sulle solide e tutto sommato consolanti basi della verità, tangibile e verificabile in qualsiasi momento e in qualsiasi direzione. L’autrice assume il ruolo immaginifico di filtro e di tramite invisibile delle storie raccontate e il nostro compito è semplicemente quello di leggerle con profitto e gratificazione, ringraziando di potere avere davanti un così risplendente materiale estetico.

«Anni prima, durante un periodo di semidegenza, Hava aveva scritto nel suo diario che si sentiva come la tartaruga che cerca di attraversare la strada in Furore. Con “occhi crudeli e beffardi”, la tartaruga si trascina sul suolo caldo, persino dopo essere stata colpita al guscio da un camioncino ed essersi rovesciata a pancia all’aria fuori dalla carreggiata. La tartaruga si raddrizza e piano riprende il cammino».

Bibliografia Rachel Aviv, Stranieri a noi stessi, Iperborea, Milano, 2024.

Secondo Mary MacLane «nulla su questa terra può soffrire come una donna giovane e completamente sola»

Non è solo questo ricorrere costante alla figura del diavolo, che già sarebbe bastato, a rendere stupefacente e scandaloso il libro scritto oltre un secolo fa. In queste pagine Mary MacLane si scaglia più volte contro il matrimonio, descrivendolo come un’istituzione utile solo alla continuazione di una vita in catene per le donne e di un’esistenza ipocrita per gli uomini. Per lei non esiste «in questo mondo spietato, qualcosa di sublime quanto l’amore puro di una donna verso un’altra donna». La donna in questione è Fanny Corbin, che è stata la sua docente di lettere al liceo, alla quale lei si riferisce con il soprannome di «ragazza anemone» e che avrebbe voluto poter sposare, garantirle una vita felice. Per farlo, MacLane è consapevole che avrebbe dovuto essere un uomo, cosa che non le sarebbe affatto dispiaciuta visto che nelle prime pagine si paragona a Napoleone, inveendo contro il destino che invece l’ha fatta nascere femmina.

Secondo MacLane, infatti, «nulla su questa terra può soffrire come una donna giovane e completamen-

te sola». Si tratta di un tema che torna frequentemente nel diario, quello del dolore che connota l’esistenza di una donna, specialmente una come lei, cioè «un genio». Sono numerose le volte in cui la ragazza si autodefinisce tale, arrivando addirittura a sostenere che le capita molte volte di leggere un libro domandandosi se sarebbe in grado di scrivere qualcosa di meglio e arrivando molto spesso alla conclusione che potrebbe farcela senza problemi. Si tratta di un atteggiamento solo all’apparenza arrogante: Mary MacLane ha diciannove anni quando scrive queste pagine ed è giustamente spregiudicata come la sua età richiede. A essere stupefacente è che lei riesca a esprimersi così nella sua epoca, quando questo tipo di audacia e di sfrontatezza non erano neanche immaginabili per una donna. L’eccezionalità della sua voce e del coraggio si manifestano anche nei frequenti riferimenti che MacLane fa al suo corpo, alla sua bellezza e al piacere che ne può derivare, quando per esempio cammina e percepisce la forza delle sue gambe o quando mangia. La ragazza sostiene infatti di conoscere «l’arte del buon mangiare» che consisterebbe nel cibarsi solo «quando si ha fame e si devono fare piccoli bocconi». Segue una descrizione lunga e accurata dell’esperienza estatica che, praticando questa arte, può diventare mangiare un’oliva.

La necessità di cercare di godere della vita nutre dalle radici l’ispirazione di MacLane che si scaglia contro la moderazione, contro la concezione ancora dominante secondo la quale è meglio sapersi frenare, anteporre la morale al desiderio, limitarsi… Si tratta esattamente del modo di vivere che MacLane definisce come «il Nulla che fa della vita una tragedia». Per lei bisognerebbe ammirare Mescalina e tutte coloro – sono pochissimi gli esempi rimasti nella Storia e nella storia della letteratura – che hanno anteposto le voglie al loro dovere.

Mary MacLane morì a quarantotto anni, suicida, in una stanza d’albergo: dopo che il suo libro fu censurato il successo svanì improvvisamente e lasciò il posto all’illusione, ma se ciò che ha scritto è vero, è evidente che il patto che voleva stringere è stato rispettato, che i due giorni di felicità per cui avrebbe rinunciato a tutto ci sono stati e poi: «Perché ci si dovrebbe vergognare di qualcosa?»

Bibliografia

Mary MacLane, L’attesa del diavolo, Ago Edizioni, Roma, 2024.

Mary MacLane (Wikipedia)

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La performance come ricerca creativa

Personaggi ◆ Sheldon Suter che in questi giorni suona al Festival del jazz di Sciaffusa ci racconta il suo

Alessandro Zanoli

Osservare Sheldon Suter mentre assembla la sua batteria è un’esperienza sorprendente. A partire dalla monumentale grancassa, un pezzo storico che arriva addirittura dall’orchestra del Teatro Apollo di Lugano, il suo set percussivo si compone, tra le varie cose, di due cetre, un rullante in ottone, piccoli gong, scodelline in bronzo di varie misure (sono campane tibetane) e addirittura di un giradischi portatile. La sua ricerca nel campo dei suoni è quotidiana, praticata anche attraverso minuziose ricerche nei mercatini dell’usato. Il tutto per dar forma a un’idea musicale che va ben oltre il già complesso insieme di strumenti che offre la batteria. L’esercizio serve ad assecondare una concezione musicale estremamente originale, in un percorso di studio che l’artista ha intrapreso da tempo e che qui ci racconta mentre si prepara al Festival jazz di Sciaffusa, dove suonerà il 23 maggio.

Sheldon Suter, colpisce molto la sua idea di registrare un disco, Berceuses Et Nocturnes, (Shhpuma, 2023) di ninne nanne per le sue figlie, realizzate con una speciale batteria…

È vero, è il risultato di uno sviluppo compiuto negli anni, magari anche la testimonianza di un mio rapporto conflittuale con la batteria, una mia ricerca per ottenere dei suoni lunghi. Ad esempio la mia grancassa ha una forma particolare, stretta, con due pelli non sintetiche; è uno strumento antico che ho trovato dai rigattieri. Nel disco ho usato campane tibetane suonate con l’archetto, ho studiato l’uso della cetra con timbri diversi. Insomma, in questo modo il suo suono diventa armonico, anche se fondamentalmente a me interessa il timbro degli strumenti.

Con che logica li combina?

Ci sono particolari motivazioni per le strutture sonore che nascono. Si tratta di impasti costruiti ad orecchio, partendo dalle simpatie tra certi timbri, che trovo interessanti. C’è spesso un aspetto che va verso la trance ipnotica, poi elementi molto minimali, trame che crescono e poi scompaiono. In fondo è come se aspettassi di essere sorpreso dai suoni. Nel costruire il brano la forma iniziale è improvvisata. In fase di preparazione mi registro costantemente, prendo degli appunti, e poi ogni giorno riparto da dove ho finito la sera prima.

Cosa ci fa un giradischi in un set di percussioni?

È un giradischi portatile di cui si può modificare le velocità. Sono andato alla ricerca di vecchi «schellack» a 78 giri, nei mercatini dell’usato. Non è solo musica classica, ci sono anche delle rarità, dischi usati per sonorizzare film, cose strane, amatoriali. Faccio girare il disco a diverse velocità; da 78 vai ai 16. Nel mio album c’è un pezzo in cui uso un coro di cosacchi… sono piccoli pezzetti ma danno grandi sorprese. Registrandomi e riascoltandomi, con un microfono o col telefonino, avevo fatto un test per capire se il suono poteva avere una consistenza tale da essere messo in un disco. Ho fatto venire un tecnico del suono in studio e abbiamo registrato in modo professionale: lì mi sono stupito, in particolare della grancassa, con frequenze bassissime e un suono che si

mantiene per 5-6 secondi. Da lì la decisione di registrare all’auditorio Stelio Molo.

Le composizioni si basano su ritmi precisi?

Certi brani hanno un metro di 5/8 o di 7/8, ma sono molto diluiti; nella registrazione effettuata all’Auditorio dello Studio Radio di Besso ho usato il riverbero della sala, e il ritmo è scandito, ma si diluisce proprio a dipendenza del timbro dello strumento. Poi cerco di elaborare anche la forma della percussione: in vari pezzi sperimento l’opposizione tra tempo tenuto con una mano e rubato con l’altra; a volte percuoto con un battente il kalimba e con l’altra mano sfrego il Glockenspiel con l’archetto. Si creano questi strati di suoni, che vengono orchestrati, proprio come una band.

Quali altri strumenti ci sono nel suo set?

Ho cominciato a usare la cetra dal vivo, ne ho due. Poi uso un organetto indiano, che aziono con una gamba. Uso anche l’armonica bocca, che ho modificato per avere dei microintervalli. La cetra è suonata con l’archetto, per fare suoni lunghi, delle specie di cluster. La difficoltà è avere l’indipendenza di tutti gli arti sui vari strumenti, specialmente quando le mani tengono tempi diversi come in certe tradizioni musicali etniche. La performance non è semplice improvvisazione ma è una ricerca creativa: non è solo un gioco.

Come reagisce il pubblico alla sua proposta solista?

Penso che dal vivo sia interessante vedere la mia performance: per ora ho fatto pochi concerti, sono ancora in rodaggio. Ho notato quali sono i pezzi che funzionano e quali meno. I brani sono molto tranquilli e la gente entra in trance, si rilassa. Quando finisce il pezzo spesso non ha l’istinto di applaudire; sul disco i brani durano pochi minuti, tre o quattro, al massimo sei mentre dal vivo li collego senza interruzione. Ho in mente le composizioni, che conosco a memoria, e la scaletta, ma poi ogni volta è diverso.

Che musica sta ascoltando, di questi tempi?

Sto ascoltando cose pop, un po’ di elettronica, un musicista canadese che si chiama Caribou, oppure Roisin Murphy: è musica che mi interessa. Il mio setting si sta sviluppando integrando l’elettrico tramite degli effetti e vorrei fare canzoni ancora più minimali. Ascolto anche jazz: mi piace riascoltare Don Cherry e Jon Appleton che facevano dell’elettronica molto particolare: poi Anthony Braxton con Wadada Leo Smith e Leroy Jenkins, e poi i grandi batteristi come Tony Oxley.

Lei organizza anche concerti… Sto organizzando un piccolo festival nel Locarnese, Éther, per portare le persone ad ascoltare proposte musicali di nicchia in località suggestive come nella cappella Gruppaldo o nella natura presso il mulino del Brumo. L’edizione dello scorso anno è andata benissimo, c’erano 90 persone per concerto, anche se la cappella è piccolissima la gente rimaneva fuori ad ascoltare. Lo farò ancora riproponendo questo mix musicale a 360 gradi.

Torniamo a parlare della sua batteria…

La voglia di trasformare la batteria è condivisa da molti batteristi nella storia del jazz. Se si guarda alle origini, la batteria stessa è un assemblaggio: il rullante è europeo, i piatti sono asiatici, di origine turca e cinese, i tom sono africani, e il tutto è stato assemblato in America. Era una sperimentazione di timbri dall’inizio, che poi

si è espansa. Io ho cercato con l’uso dell’archetto e altre tecniche di trovare vari sistemi per prolungare il suono. Una delle mie invenzioni è un filo attaccato con una ventosa alla pelle del tamburo. Si fa suonare il filo tendendolo e sfregandolo con l’archetto: il tamburo diventa una specie di banjo suonato come un violino. Tempo fa era venuto Jost Meier, compositore svizzero molto noto, che voleva fare

un pezzo di percussioni per un quartetto di Berna. Veniva da me per farsi mostrare varie possibilità di produzione di suoni. Qualche tempo dopo, quando l’ho rivisto disse: «Purtroppo non siamo riusciti a riprodurre quei suoni che avevi inventato».

Informazioni

Si può leggere l’intervista integrale sul sito www.azione.ch

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Il grande omaggio di Cannes alle donne

Cinema ◆ Meryl Streep ha aperto la 77esima edizione del Film festival ed è stata la protagonista di un’affollatissima masterclass

Assoluta protagonista della 77esima edizione del Festival di Cannes è stata l’attrice, tre volte premio Oscar e 21 nomination, Meryl Streep. Omaggiata il primo giorno con la Palma d’oro alla carriera da una sala in visibilio che le ha regalato una standing ovation d’eccezione, l’attrice americana, iconica protagonista di memorabili pellicole come Kramer contro Kramer (1979), La mia Africa (1985), I ponti di Madison County (1995) e Il Diavolo veste Prada (2006) ha regalato momenti di vera emozione e di grande cinema.

Se durante l’apertura della rassegna è stata omaggiata del premio e da un toccante discorso di Juliette Binoche – che a un certo punto si è anche commossa ricordando che la Streep ha cambiato il modo di vedere le donne nel mondo del cinema e ha dato loro una nuova immagine – il giorno seguente si è dedicata al pubblico in un’affollata masterclass. Sollecitata dal giornalista Didier Allouche è partita ricordando la sua prima volta a Cannes, nel 1989. «Quando venni mi dissero che dovevo avere nove guardie del corpo per proteggermi. Ma io non ero abituata, negli Stati Uniti non ne avevo. Poi, una volta qui, mi accorsi dell’affetto delle persone e del caos che si creava. All’epoca, non c’erano le transenne di oggi e la gente poteva tranquillamente avvicinarsi. Tornata in albergo tremavo, non sono una rockstar, a casa avevo una vita normale, mi occupavo di tre figli e non ero abituata a tutto questo clamore».

Meryl Streep ha poi ricordato l’esperienza di Kramer contro Kramer «L’abbiamo girato in un momento particolare, era l’inizio della emanci-

pazione femminile e quella pellicola trattava, appunto, del divorzio di una donna che voleva essere indipendente e per la prima volta affrontò la paternità in modo non scontato. In particolare, mi ricordo che sul monologo finale – ha aggiunto Streep – abbiamo discusso parecchio perché volevamo qualcosa di efficace. Il regista aveva scritto una versione, Dustin Hoffman una seconda e io una terza. Alla fine, scelsero la mia», ha evidenziato soddisfatta l’attrice.

«Fu davvero meraviglioso lavorare con Clint Eastwood. Un grande professionista. Si svegliava alle cinque del mattino per poi avere il tempo di andare a giocare a golf»

Passando a un’altra storica pellicola, Il cacciatore di Michael Cimino, Streep ha confessato: «Mentre giravo non avevo coscienza dell’importanza che avrebbe avuto quell’opera. Per me era un lavoro su un tema che mi toccava particolarmente in quanto un mio amico che all’epoca era stato arruolato in Vietnam tornò tossicodipendente e con diversi altri problemi». Rispondendo a un’altra sollecitazione Streep, sorridendo, ha messo in evidenza un altro elemento: «È vero, non mi si vede molto in quel film, ma vi ricordate che c’ero. Probabilmente perché quella era l’epoca in cui nei film c’era sempre una sola donna e quindi era più facile ricordarselo».

Quello fu il primo film nel quale l’attrice ha cantato. «Infatti, ma la musica è sempre stata una parte im-

portante per me perché credo che attraverso di essa si riesca a stabilire un contatto più profondo con gli altri esseri umani e il loro cuore. Da ragazza presi lezioni di musica d’opera e quindi anche da attrice avevo una base sulla quale lavorare. Detto ciò, vi confesso che l’opera non mi è mai piaciuta particolarmente, preferivo il rock».

Pure La scelta di Sophie è stato un grande successo di Meryl Streep e lei, di quel film, ha ricordato che il regista Alan J. Pakula non faceva ripetere troppo le scene agli attori. In quell’occasione si era creato un grande rapporto con il cast e soprattutto con la bambina presente nel film: «Ora credo sia diventata una donna di successo, mi sembra lavori nella finanza». Arrivando a La mia Africa, ricordando di quando si innamorò di Robert Redford per come le lavava i capelli, l’attrice si è lasciata andare rammentando un paio di aneddoti capitati sul set. «Mi ricordo che abbiamo girato vicinissimo agli ippopotami e non era un luogo del tutto sicuro. Dovevo fare delle scene intime con Robert Redford ed ero un po’ nervosa dalla situazione, ma lui è stato bravissimo e molto tenero. Mi ricordo anche che, un altro giorno, un grosso insetto mi entrò nella camicetta e non voleva più lasciarmi; si vede che si trovava bene. Per fortuna, dopo che aveva scorrazzato un po’ sotto i miei vestiti decise di andarsene senza pungermi». Anche di Clint Eastwood ha un bel ricordo. «Fu davvero meraviglioso lavorare con lui. Un grande professionista, molto serio e organizzato sul set. Pensate che si svegliava alle cinque del mattino per aver poi il tempo, una volta terminate le riprese di quel

giorno, di andare a giocare a golf. Ma sul set non girava una mosca perché lui era tranquillo, ma esigente. Solo una volta lo sentii urlare, perché qualcuno disturbava fuori campo. Fu l’unica occasione, da quel momento tutti rimasero concentrati al massimo per la durata delle riprese». Venendo all’ultima parte della sua carriera, Meryl Streep ha parlato anche del film su Margaret Thatcher The Iron Lady. «Ho opinioni politiche diverse dalle sue, ma quello fu un film che parlava dei suoi ultimi giorni al potere e soprattutto di una donna che tornava umile e umana. Mi ha entusiasmato lavorare su di lei, ma sicuramente un film sulla sua politica si deve ancora realizzare». L’ultimo accenno l’ha fatto a Don’t Look Up, del 2021, di Adam McKey. «Non ave-

«Fanny Ardant è molto rock and roll»

vo una parte da protagonista, ma è stata un’esperienza molto divertente e Adam è un regista che riesce a far passare messaggi, anche molto duri, attraverso lo humour».

E a proposito del ruolo e della posizione delle donne nel mondo del cinema, ha espresso tutta la sua stima per le colleghe produttrici Natalie Portman, Reese Whiterspoon e Nicole Kidman: «Sono così ammirata da loro. Anche io ho una società, ho prodotto bambini». Meryl Streep infatti è madre di quattro figli e nonna di cinque nipoti.

L’attrice sarà sicuramente ricordata come la vera regina di questa edizione. Sia per la sua allure da star d’altri tempi, sia per l’innata semplicità e normalità con la quale si pone al pubblico e ai cinefili.

Cinema ◆ Tamer Ruggli, regista svizzero-egiziano, racconta il suo film Retour en Alexandrie con Nadine Labaki e Fanny Ardant

Retour en Alexandrie, il film debutto di Tamer Ruggli che vede protagoniste Fanny Ardant e Nadine Labaki, da qualche giorno è approdato nelle sale ticinesi. Presentato anche al Zurich Film Festival e alle Giornate di Soletta, il film vede la collaborazione di Marianne Brun per la sceneggiatura e del regista egiziano Yousri Nasrallah (uno dei maggiori cineasti nordafricani, noto per Al medina – La città) e racconta la storia della quarantenne psicologa Soussi, detta Sue, che vive nella Svizzera francese e riceve l’inattesa telefonata dalla zia Indij in cui apprende del malore che ha colpito l’anziana madre. Sue torna in Egitto, da dove era fuggita 20 anni prima, e trova un Paese cambiato. Incontra un tassista – ingegnere di formazione – che fa quattro lavori diversi e visita il negozio di vestiti raffinati dove si serviva la madre. Intanto si affacciano personaggi che la accompagnano a Il Cairo e ad Alessandria, in una società che quasi non esiste più. Retour en Alexandrie è un melò, un road-movie e una commedia, sul fare i conti con sé stessi, il passato e le persone care, che cita espressamente Thelma&Louise

Tamer Ruggli, il film nasce dalle storie della sua famiglia, ce ne parla? Sono metà svizzero e metà egizia-

no, mia madre apparteneva alla vecchia aristocrazia egiziana. Ho sempre sentito raccontare le sue storie, con la nonna gelosa della sua bellezza. Mi sono ispirato pure ai miei ricordi d’infanzia tra Cairo e Alessandria.

La protagonista trova la capitale diversa da come l’aveva lasciata e deve riscoprirla. Soussi conosce la città ma deve impregnarsi di nuovo dell’ambiente. Le serve un momento di acclimatazione, per riapprendere i codici sociali. Mi piace pensare il film come un romanzo di formazione a un’età adulta, Soussi cambia e diventa una persona migliore.

C’è un tono nostalgico in questo Egitto rivolto al passato.

La nostalgia è un sentimento onnipresente in Egitto, anche attraverso le canzoni.

A proposito di canzoni, Parlez-moi de lui di Dalida ricopre un ruolo importante nella vicenda.

Mi piace utilizzare la musica per aggiungere un significato. La canzone parla di un amore impossibile, è anche un riferimento alla storia della madre con il capitano francese. Dalida era italiana, ma crebbe in Egitto e il suo francese aveva un accen-

to egiziano. Anche il destino tragico della cantante ha che fare con la madre del film.

Come avete coinvolto Nasrallah nella scrittura del film?

Yousry è entrato nella fase avanzata della sceneggiatura. Sua sorella è amica di famiglia di mia madre, ne ho sempre sentito parlare fin da piccolo anche se non lo conoscevo. Durante la scrittura la coproduttrice francese ha pensato di contattarlo, perché Yousry conosce questo ambiente sociale ed era importante il contributo del suo sguardo.

A parte l’incontro con il tassista, che accenna alle difficoltà della vita nell’Egitto di oggi, non si parla della contemporaneità.

L’Egitto di oggi non era il nucleo della storia, l’autista del taxi è moderno, ma il film è ambientato in un microcosmo privilegiato. Non aveva senso fare riferimenti all’Egitto di oggi, che si vede molto nel cinema arabo odierno. Per me è stato importante Caramel di Nadine Labaki, il primo film arabo in cui identificarmi, che parlava di sentimenti.

Così ha coinvolto Labaki. Ho pensato subito a Nadine, mi ha ispirato tanto con i suoi primi lavori. Per me è importante immagina-

re le attrici mentre scrivo. Avevamo un amico in comune, l’ho contattata mentre era nominata all’Oscar per Cafarnao, era molto stressata per quegli impegni, ma ha letto la sceneggiatura e ha accettato. Le piace tanto fare l’attrice, mentre recita mette da parte l’essere regista. Le ho lasciato libertà di improvvisazione ed è stata molto brava. Anche con Fanny Ardant ho fatto così, contattandola tre anni prima di girare. Ardant è molto rock&roll, molto generosa, aiuta i registi esordienti. Poi non guarda i suoi film finiti, vive per l’esperienza delle riprese, voleva girare in Egitto, è stata quattro settimane con noi, si interessava alla gente e agli ambienti.

In qualche modo è anche un film di fantasmi. Direi più di ricordi, che fanno parte della nostra vita, perché l’infanzia ci forma. La protagonista ritrova emozioni con cui non voleva più confrontarsi, i traumi d’infanzia e d’amore. Com’è nato l’omaggio a Thelma&Louise? Mi piaceva il rosa per l’auto (nella foto), un colore femminile in una storia femminile. L’auto è stata trovata in Egitto dai miei collaboratori. Thelma&Louise è un film di donne e d’azione, fa parte del mio universo. Anche se ci sono poche scene sulla strada, il mio film è un road-movie, un viaggio verso il passato.

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Pane
da forno 9 Offerte valide dal 21.5 al 27.5.2024, fino a esaurimento dello stock.
e prodotti
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Lasagne La Trattoria prodotto surgelato, verdi o alla bolognese, per es. verdi, 2 x 600 g, 6.90 invece di 10.40, (100 g = 0.58) conf. da 2 33%

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Deliziose sul toast Hawaii o un piatto di riso Casimiro

Sofficini M-Classic surgelati, al formaggio, agli spinaci o ai funghi, 2 x 8 pezzi, 960 g, (100 g = 0.86) conf. da 2 30%

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e cura del corpo 16 Nivea Sun in conf. assortite per es. spray Kids Sensitive IP 50 con doposole, il set, 19.50 invece di 27.–, (100 ml = 4.88) 27% 6.95 Shampoo per capelli grassi o antiprurito, Head & Shoulders 250 ml, (100 ml = 2.78) 20x CUMULUS Novità 3.95 Sapone liquido antibatterico Le Petit Marseillais 300 ml, (100 ml = 1.32) 20x CUMULUS Novità 3.70 Crema mani I am Sensitive 100 ml 20x CUMULUS Novità 7.85 invece di 10.50 Prodotti per la doccia Axe per es. Africa, 3 x 250 ml, (100 ml = 1.05) conf. da 3 25% Cura per capelli Pantene Pro-V Miracles Molecular shampoo, balsamo e siero, per es. shampoo Bond Repair, 250 ml, 7.95, (100 ml = 3.18) 20x CUMULUS Novità 3.70 Crema mani e maschera 2 in 1 Repair I am 100 ml 20x CUMULUS Novità Deodoranti Rexona per es. roll-on Cotton Dry 72h, 2 x 50 ml, 5.60 invece di 7.–, (100 ml = 5.60) conf. da 2 20% 4.95 Nivea Floral Love Body Lotion 250 ml, (100 ml = 1.98) 20x CUMULUS Novità
Bellezza

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Tutto l'assortimento Zoé

(Sun e prodotti per la cura delle labbra esclusi), per es. Crema da giorno rassodante Q10 IP 15, 50 ml, 11.60 invece di 14.50, (10 ml = 2.32)

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Tutto l'assortimento Secure (confezioni multiple e sacchetti igienici esclusi), per es. Ultra Normal, FSC®, 20 pezzi, 5.– invece di 6.20

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Dentifricio anticarie o Sensitive, Elmex per es. anticarie, 3 x 75 ml, (100 ml = 4.87)

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Maschere per occhi

Garnier Skin Active vitamina C o caffeina, il pezzo

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Trattamento viso Garnier

fluido quotidiano BHA + Niacinamide e crema notte gel ialuronico, per es. fluido quotidiano BHA + Niacinamide, 40 ml, 17.45, (10 ml = 4.36)

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Prodotti per l'igiene orale Meridol per es. spazzolino morbido, 6.80 invece di 8.60, (1 pz. = 3.40)

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Novità

Dual Serum Nivea Q10 Expert e Invisible Fluid Nivea Sun per es. Dual Serum Q10 Expert, 30 ml, 24.95, (10 ml = 8.32)

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CUMULUS

Novità

Veet Men Total Pro per es. crema depilatoria, 200 ml, 11.95, (100 ml = 5.98)

Per depilare la parte superiore del corpo e le gambe

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Profumi di primavera e oggetti pratici per la cucina

Tutti i detersivi Elan (confezioni multiple e speciali escluse), per es. Spring Time in conf. di ricarica, 2 l, 6.50 invece di 12.95, (1 l = 3.24)

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Sacchetti multiuso o carta da forno, Tangan per es. sacchetti multiuso N° 13, 2 litri, 2 x 100 pezzi, 2.85 invece di 3.60

Tutto l'assortimento Handymatic Classic (sale rigeneratore escluso), per es. Classic Tabs, 65 pezzi, 11.60 invece di 14.50

Tovagliette e tovaglioli, Kitchen & Co. disponibili in diversi motivi, il set Hit Pellicola salvafreschezza, foglio d'alluminio o carta da forno, Tangan per es. carta da forno N° 33, FSC®, 3 x 15 m, 5.– invece di 7.50

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