Li chiamano fenomeni post trapiantali e chi li studia si interroga sulla «memoria» del cuore
Perché Trump tiene duro su molti aspetti della sua politica protezionista? Chi lo sostiene?
ATTUALITÀ Pagina 13
Pensieri sospesi su Israele
CULTURA Pagina 21
La sensualità ellittica di Casorati, in mostra al Palazzo Reale di Milano, è più forma che desiderio
Una passeggiata primaverile nel Malcantone, lungo il prezioso Sentiero dell’acqua ripensata
TEMPO LIBERO Pagine 34-35
Vivere a telegiornali spenti
Ci lasciamo alle spalle una Pasqua che molti di noi avrebbero trascorso volentieri a telegiornali spenti. L’attualità sbraita obbrobri continui e, se davvero puntiamo a qualcosa che somigli alla pace, ci tocca chiudere gli occhi e cercarla dentro di noi. «Fermate il mondo voglio scendere», diceva l’indimenticabile Mafalda, personaggio dei fumetti creato dalla penna e dall’arguzia di Quino. Serve un po’ di silenzio: fisico, perché l’inquinamento acustico è micidiale anche da noi, come racconta Stefania Hubmann a pag. 8, e mentale, perché a furia di ingurgitare cronache di violenza, ricatti e brutture, l’ultimo rifugio dell’uomo, credente e non credente, è lo spirito. Lo dice anche il regista Amos Gitai, nell’intervista che gli ha fatto Viviana Viri a pag. 25, riferendosi alle storture del Medio Oriente: «I miei pensieri sono costantemente rivolti a ciò che sta accadendo nella regione, sebbene non appartenga a nessuna
fede religiosa, a volte ho la sensazione che dovrei fermare tutto e iniziare a pregare». Pregare per cosa? Forse anche solo per celebrare, laicamente, la resurrezione della natura in primavera. Che ci sia qualcosa di bello e verdeggiante da vedere, qualcosa che ci ricordi che la vita vince sempre, anche dopo le Settimane poco sante e molto cruente dei giorni più tempestosi. Cent’anni or sono, prima che nascesse lo Stato di Israele, crocevia e patria d’elezione delle religioni monoteiste, ci credevano anche il teorico ebreo della filosofia del dialogo Martin Buber, il fondatore dell’università ebraica Yehuda Magnes e Gershom Scholem, promotore dello studio accademico moderno della Kabbalah. Tre personalità che, con l’appoggio di un certo Albert Einstein, ebreo d’origine come loro, proprio nel 1925 avevano creato il movimento Brit Shalom, Patto per la pace, che auspicava la creazione di uno Stato binazionale dove ebrei e arabi avreb-
bero goduto degli stessi diritti. Fermate il mondo, anzi riavvolgete il tempo che vorrei scendere nel 1925 e ripartire da lì. Ma ci vuole fede, nell’Uomo e in Dio (per chi ci crede), per immaginare un immediato futuro di gioia e speranza collettiva, come quella che si respirava alla fine degli anni Ottanta, quando, crollato il Muro di Berlino, sembrava dover iniziare una nuova era, anzi una fascinosa New Age, colma di armonia, utopie realizzate, peace and love globali che innaffiavano i teneri germogli dei nostri sogni facendoli lentamente sbocciare. Era meglio fermarsi lì, al magnifico 1989, perché poi, sulla linea della storia sono piombati l’11 settembre del 2001 e il suo inesaurito scontro di civiltà, la crisi dei subprime del 2008, la pandemia di Covid del 2019 e adesso fate voi: tra le nefandezze disponibili la scelta è ampia e variegata. Oppure, andando di nuovo a ritroso nel tempo torniamo all’altro ieri, alla Pasqua che per una
volta cadeva lo stesso giorno sia per i cattolici (e i protestanti) sia per gli ortodossi, un’occasione per provare a risorgere dai pantani dell’odio come fratelli. Invece, nelle medesime ore, a distanza di migliaia di chilometri, alle celebrazioni pasquali pregavano i credenti convinti che il Vangelo sia la Magna Carta contro ogni forma di violenza e sopraffazione, come pure quelli persuasi che sganciare bombe sull’Ucraina sia una «guerra santa» contro l’influenza occidentale, che il Patriarca di Mosca Kirill considera «decadente e satanica». Facendo inorridire, immaginiamo, lo stesso Signore davanti al quale folle di sinceri fautori della pace e circoli di mandanti delle stragi continuano a inginocchiarsi con infinita devozione. Ma viviamo giorni strani e crudeli e non ci stupiremmo che anche lassù, in Cielo, gli angeli abbiano spento per qualche momento il televisore per godersi, serafici, il silenzio celeste e le tiepide nuvole di primavera.
Viviana Viri Pagina 25 Keystone
Carlo Silini
Quando Dutti fonda la Migros, la Svizzera è così
100 anni Migros ◆ Nel 1925 scarseggiavano frigoriferi ed elettricità, di ferie ce n’erano poche e si doveva lavorare molto
Pierre Wuthrich
Quando si immagina la Svizzera del 1925, si è tentati di pensare a un Paese improntato a una semplice vita contadina. Un errore. «Un secolo fa era uno dei Paesi più industrializzati del mondo», precisa Matthieu Leimgruber (52), professore di storia all’Università di Zurigo. «Già a partire dal 1880, grazie a industrie come quella tessile, dell’orologeria e anche del turismo si venne a determinare un grande slancio dell’economia.»
Negli anni Venti, dopo la Prima guerra mondiale, la Svizzera tornò rapidamente a crescere, fino al crollo delle borse della grande crisi del 1929. Nonostante la situazione economica favorevole, le disuguaglianze erano grandi. La Svizzera non era una società consumistica e ben pochi parteciparono al clima dei «ruggenti anni Venti». Quel clima frivolo di ottimismo e prosperità era più un cliché che una realtà, spiega lo storico. «Solo una minoranza di ricchi ballava regolarmente il Charleston». È però vero che quel decennio fu caratterizzato dall’americanizzazione della società: furono introdotti il jazz come pure nuove tecniche di produzione e distribuzione, che ispirarono Gottlieb Duttweiler (Dutti) nella fondazione della Migros.
La classe operaia rialza la testa
A livello politico, nella prima metà degli anni Venti la Svizzera visse un periodo di tensione. Si trattava di far fronte alle conseguenze della Prima guerra mondiale. «Durante lo sciopero generale del novembre 1918, 250’000 lavoratori scesero in piazza per chiedere migliori condizioni di lavoro e una migliore politica sociale. In quell’occasione fu mobilitato l’esercito per sedare lo sciopero», spiega Leimgruber.
La maggioranza borghese al potere ricorse a una dura repressione. I leader dello sciopero generale vennero processati. In questo clima la presa di potere di Mussolini nel 1922 fu vista da molti conservatori come un salutare ritorno all’ordine. Un anno dopo la grande borghesia zurighese ricevette Hitler, che cercava denaro per il suo partito reazionario; questo accadeva due anni prima che pubblicasse il Mein Kampf Bisognerà attendere il 1925 perché in Svizzera torni una certa calma politica. «L’introduzione di elezioni basate sul sistema proporzionale ha portato a una rappresentanza più equa dei partiti», spiega Matthieu Leimgruber.
Un Paese poco popolato
La Svizzera aveva 3’940’000 abitanti, oggi ne ha più di 9 milioni. Nelle città viveva meno del 30% della popolazione, cioè circa 1,1 milioni di persone. Oggi nelle aree urbane vive più del 75% della popolazione.
2,2 figli per donna
La media nazionale del numero di figli per donna era di 2,2. Questa cifra è inferiore a quella registrata durante il baby boom tra il 1946 e il 1964 (fino a 2,7 figli per donna). Nel 2023, il numero di figli per donna era di 1,3.
I settori fiorenti
hanno dato al Paese un grande impulso economico
Attenzione, tubercolosi!
Nel 1925, l’aspettativa di vita era di 61 anni per le donne (86 anni nel 2023) e di 58 anni per gli uomini (82 anni nel 2023). La causa di morte più comune era rappresentata da malattie infettive come la tubercolosi, e non da arresti cardiovascolari o tumori, come avviene oggi.
Settimana di 50 ore
Un operaio qualificato guadagnava circa 12 franchi al giorno e lavorava poco meno di 50 ore alla settimana: già questo costituiva un progresso conquistato con dure lotte. Prima dello sciopero generale del 1918, gli orari di lavoro di quasi 60 ore erano ancora comuni.
Le ferie una rarità
Le ferie erano un lusso e non erano regolate dalla legge. Quasi sempre si lavorava sei giorni alla settimana. Solo dopo la Seconda guerra mondiale la maggior parte dei lavoratori dipendenti ha ottenuto un minimo di due settimane di ferie all’anno. Nel 1966 le ferie retribuite sono state inserite nella legge federale.
Tanta birra
Nel 1925 in Svizzera si consumavano circa 50 litri di vino e 55 litri di birra pro capite, una quantità significativamente inferiore rispetto al 1900 (rispettivamente 89 e 62 litri). Nel 2024, il consumo di vino è stato di 33,7 litri di vino a persona. I bevitori di birra, invece, sono più assetati oggi che in passato: l’anno scorso il consumo pro capite è stato di oltre 60 litri.
della metà del proprio budget per il cibo. Oggi per cibo e bevande si spende solo il 6% del reddito lordo. Nel 1925 un chilogrammo di farina bianca costava circa 80 centesimi. Potrà non sembrare molto, ma per guadagnarli si doveva lavorare in media 30 minuti. Oggi per comprare un chilo di farina, che costa circa 2 franchi, bastano mediamente 3 minuti di lavoro.
Treni veloci
La rete ferroviaria svizzera era estesa quasi quanto quella odierna e l’elettrificazione era molto più avanzata rispetto ai Paesi vicini. Nel 1928 il 55% della rete era già elettrificato. Cent’anni fa per percorrere la tratta Yverdon-Losanna occorrevano 33 minuti. Oggi il viaggio in treno tra le due città dura 26 minuti.
Viva il cinema, viva Chaplin!
La maggior parte delle persone non poteva permettersi le vacanze. La radio, invece, era in rapidissimo sviluppo e stava diventando un mezzo di comunicazione di massa. Il cinema (muto) era molto popolare. Nel 1925 uscì La febbre dell’oro di Chaplin.
No alle auto
All’inizio del XX secolo le automobili erano molto malviste. Si riteneva infatti che producessero troppa polvere e rumore, tanto che su un certo numero di strade ne era vietata la circolazione. Nei Grigioni le auto rimasero vietate in tutto il cantone addirittura fino al 1925.
Si sviluppa la sicurezza sociale
Né elettricità né riscaldamento centralizzato
Negli anni 20 del Novecento solo pochissime economie domestiche erano allacciate alla rete elettrica. Si cucinava a legna o a gas. Non c’erano frigoriferi, lavastoviglie o televisori, e i telefoni erano ancora merce rara: nel 1920 c’erano tre apparecchi ogni 100 abitanti. Bisognerà attendere fino agli anni 50 perché gli elettrodomestici diventino accessibili al grande pubblico.
L’amore per il pendolarismo
Il 1925 è stato l’anno in cui le FFS hanno trasportato per la prima volta nella loro storia più di 100 milioni di passeggeri; nel 2024 questa cifra ha superato i 507 milioni. Per inciso, anche Gottlieb Duttweiler era profondamente legato alla ferrovia. È infatti su un treno che nel 1911 conosce Adele Bertschi, che diverrà sua moglie.
Un chilo di farina per 80 centesimi
Una famiglia doveva spendere più
Il 6 dicembre 1925 il popolo svizzero – all’epoca cioè solo gli uomini – approva un nuovo articolo costituzionale che pone le basi dell’Assicurazione vecchiaia e i superstiti (AVS) e dell’Assicurazione per l’invalidità (AI). Il testo di legge viene adottato nel 1947. L’assicurazione per invalidità viene introdotta nel 1960.
Iscriviti subito
A teatro a prezzi come 100 anni fa Per festeggiare il suo centenario la Migros invita agli spettacoli di DAS ZELT. In quindici città svizzere verranno rappresentati nove spettacoli diversi, dai comici alla magia, dalla danza contemporanea alla pantomima. Ogni biglietto costa 9 franchi. È quanto costava un ottimo posto all’Opernhaus di Zurigo nel 1925. Il tuo spettacolo preferito è già andato esaurito? Nessun problema. Una parte dei biglietti viene venduta solo poco prima dello spettacolo stesso.
Informazioni e date:
Agricoltori che caricano un carro di fieno
L’industria tessile si è sviluppata precocemente nell’alta valle della Töss, nel Canton Zurigo, grazie all’energia idroelettrica.
Fine del turno alla Escher Wyss di Zurigo: la forza lavoro era prevalentemente maschile.
SOCIETÀ
Folle o normale?
Una mostra al Museo storico di Basilea ripercorre 150 anni di storia della psichiatria
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Contadini per solidarietà Il progetto Caritas Impegno Alpestre cerca volontari per aiutare le famiglie contadine di montagna
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Di rumore ci si ammala L’inquinamento fonico ha delle conseguenze sulla salute e genera costi sanitari
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La misteriosa «memoria» del cuore
Funghi spaziali
Si studia un materiale nato da funghi siciliani che protegge dalle radiazioni dello spazio profondo
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Medicina e filosofia ◆ Domande aperte sui fenomeni post trapiantali nelle persone che hanno ricevuto l’organo da un donatore
«Odiavo la musica classica, ma ora la adoro: tranquillizza il mio cuore e la ascolto tanto. Non penso dipenda dal mio nuovo cuore perché il donatore, un ragazzino dai quartieri, non ascolterebbe mai questa roba, piuttosto musica rap. Dopo il trapianto riesco persino a fischiettare musiche classiche che non ho mai ascoltato in vita mia! Come posso conoscerle?». Queste le parole di un signore al quale è stato trapiantato il cuore (da: Pearsall et al., Changes in Heart Transplant Recipients That Parallels the Personalities of their Donors, 2000, pag. 68). È convinto che questa sua inedita passione per la musica classica non dipenda dal suo nuovo cuore. Ma una ricerca permette di scoprire che il donatore è un ragazzo di 17 anni che perde la vita mentre si reca a lezione di musica, e muore abbracciato alla custodia del suo violino. Un’altra testimonianza di fenomeni post trapiantali è descritta da Claire Sylvia nel suo libro Con il cuore di un altro (ed. Mondadori) nel quale racconta di avere 47 anni quando subisce un trapianto di cuore e polmoni. L’operazione riesce ma, una volta guarita, Claire comincia a sentirsi diversa. Indaga sulle abitudini del donatore e si rende conto di avere «assorbito» le caratteristiche del giovane il cui cuore ha sostituito il suo: «Scopro di essere diventata ghiotta di cibi che prima detestavo, ad esempio la birra; preferisco le tinte pastello e non indosso più l’arancione e il rosso squillante che prima prediligevo; comincio a comportarmi con un’aggressività e una sicurezza un tempo a me sconosciute; d’un tratto amo andare in moto, e cinque mesi dopo l’operazione faccio un sogno sorprendente dove incontro un ragazzo di nome Tim». Al risveglio Claire è certa si tratti del suo donatore e va alla ricerca di una spiegazione con l’aiuto di medici, biologi e teologi, trovandola: «Tim, il mio donatore, adorava bere birra, amava i giri in moto, era energico e assertivo ed era deceduto in un incidente con la moto che tanto amava». Sono solo due delle storie riportate da alcuni pazienti trapiantati di cuore, che poi trovano riscontro reale nelle ricerche su vita, temperamento e abitudini del donatore. «Siamo davanti a dei casi molto particolari, interessanti e abbastanza rari (osservati solo sul 6% circa dei trapiantati di cuore, e non di altri organi), ma che testimoniano una perfetta corrispondenza tra quella che è stata la vita del donatore e quella che ora è la vita del paziente trapiantato di cuore». Così esordisce la dottoressa Chiara Legnaro, filosofa, illustrando la sua ricerca The Dark Side of the Heart. Coscienza, filosofia e medicina alla luce dei trapianti di cuore in una conferenza tenutasi lo scorso mese di gennaio al Centro di Ricerca in Etica Clinica dell’Università degli Studi dell’Insubria. Sul-
la base dell’accurato studio delle testimonianze e dei relativi riscontri, la sua ricerca sui cosiddetti «fenomeni post trapiantali» parte dal seguente presupposto: «E se il cuore fosse il ponte tra corpo, mente e coscienza?
E se il cuore fosse il ponte tra corpo, mente e coscienza? Se lo chiede la filosofa Chiara Legnaro nei suoi studi che si basano sulle testimonianze di pazienti trapiantati di cuore
Questo mio lavoro attraversa i sottili confini tra le più recenti scoperte della medicina, della filosofia e della fisica, esplorando come i trapianti di cuore possano riscrivere il rapporto tra corpo e mente: un viaggio unico e rivoluzionario per riscoprire il cuore non solo come organo della vita, ma come custode dell’identità e del suo significato più profondo». Per cominciare, Legnaro osserva che «stando alla letteratura medica, questi episodi in cui sono trasferite dal donatore al trapiantato caratteristiche emotive e sensoriali, un nuovo gusto musicale, la passione per un cibo prima mai amato, il riconoscere il fami-
gliare del proprio donatore senza sapere che è lui, accadono solo con il cuore e sono avvertiti anche da parenti, amici e coniugi dei pazienti trapiantati». Un tema molto forte che la filosofa esplora con accuratezza scientifica, escludendo dapprima altre plausibili cause: «Nei pazienti riceventi non sono presenti patologie psichiatriche; questi fenomeni non derivano da conoscenze pregresse sul donatore perché il paziente non ha nessuna informazione su di lui; non sono sovrapponibili con disturbi di personalità (hanno un quadro sintomatologico diverso da questi casi); non sono sovrapponibili con effetti collaterali dei farmaci immunosoppressori (basterebbe sospendere la terapia per veder scomparire gli effetti e così non è)». La nostra interlocutrice si interroga su una «memoria cellulare» del cuore, una sorta di USB che potrebbe conservare ricordi nelle sue cellule («microtuboli, RNA, DNA»): «Questi ricordi potrebbero essere trasferiti al ricevente attraverso uno scambio di esosomi, in quanto la neurocardiologia ha dimostrato che il cuore ha un piccolo cervello con 40mila neuroni che elaborano informazioni e comunicano con il cervello principale. L’ipotesi è che queste connessioni potrebbero trasferire memorie e in-
fluenzare la personalità. Ma ciò risulta difficile dato che, nel trapianto, parecchie connessioni nervose vengono interrotte e ci vuole molto tempo perché solo qualcuna di esse sia ripristinata nel ricevente». L’ipotesi successiva riguarda il campo elettromagnetico del cuore (Wi-Fi) di cui l’HearthMath Institute, uno dei principali esperti mondiali in materia, conferma l’esistenza: «È 5000 volte più intenso di quello del cervello e influenza la fisiologia interna del corpo (coerenza cardiaca), l’ambiente e le persone circostanti fino a un raggio di 3 metri!». Un dato di fatto che porta a scoprire i limiti del materialismo e della medicina fino ad oggi noti: «Le ragioni materialistiche neurologiche e cellulari faticano a spiegare pienamente la complessità e la rapidità dei fenomeni post trapiantali, spesso trascurando l’esperienza soggettiva. Ma come può quest’ultima emergere da processi puramente fisici? Il difficile problema della coscienza risiede nel fatto che il materialismo fatica a colmare questo divario esplicativo». Legnaro accenna dunque alla fisica quantistica e al fisico Federico Faggin, inventore del microprocessore (infinitamente piccolo) e studioso dell’infinitamente grande dell’universo, dal-
la fisica allo spirito: «Nel 2022 Faggin spiega che la fisica quantistica suggerisce che la coscienza potrebbe non essere confinata nel cervello: il campo elettromagnetico del cuore potrebbe agire come un’antenna per informazioni non-locali, e la coscienza potrebbe essere un aspetto fondamentale di un campo unificato che si estende oltre i corpi e i cervelli individuali. I fenomeni post trapiantali potrebbero essere una manifestazione di questa interconnessione sfidando la separazione della coscienza individuale, e aprendo possibilità per il trasferimento di informazioni oltre i meccanismi biologici conosciuti». Accertati e verificati scientificamente i fatti, la relatrice invita a una nuova comprensione del cuore: «Questi fenomeni ci costringono a riconsiderare la natura dell’identità personale, la relazione tra corpo mente spirito per comprendere la quale è necessaria una visione olistica». Fra le domande aperte: «Perché questi fenomeni toccano solo alcuni pazienti? Che cos’è veramente la morte? E cosa la vita? Come cambia il consenso informato alla donazione di organi? Come supportare i pazienti trapiantati lungo questa esperienza?». E conclude: «Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?».
Maria Grazia Buletti
Preparato fresco per te ogni giorno
Novità ◆ In tutte le filiali Migros è stata introdotta una gamma di prodotti freschi di elevata qualità. Lasciati tentare!
«Preparato fresco per te» è sinonimo di prodotti appena fatti, genuini, facili da approntare, realizzati con cura utilizzando ingredienti selezionati di alta qualità. Pensati per soddisfare tutti i palati, sono pronti per essere consumati o necessitano solo di una breve preparazione; pertanto, sono perfetti per chi non vuole rinunciare al buongusto malgrado il poco tempo a disposizione. Questa gamma di prodotti, disponibile al reparto macelleria di tutti supermercati Migros in oltre venti varietà – p.es. dal roastbeef alla tartare di manzo, dal carpaccio di manzo al cordon bleu, fino alle fettine impanate –, viene confezionata quotidianamente con passione alfine di garantire la massima freschezza e qualità.
Tempo di asparagi!
Attualità ◆ I primi asparagi della stagione sono sempre molto apprezzati per il loro sapore delicato
Alla Migros sono ora disponibili in diverse varietà
La nuova gamma di prodotti freschi per ogni gusto, esigenza e occasione
• Arrosto di manzo all’inglese al naturale o con salsa tartare
• Carpaccio di manzo al naturale o con rucola e grana
• Tartare di manzo al naturale o piccante
• Saltimbocca di maiale
• Fettine impanate di pollo, maiale, vitello o tacchino
• Polenta al naturale
• Cordon bleu di pollo, tacchino o maiale
• Hamburger di manzo
• Tacchino o vitello tonnato
• Manzo in salsa verde
• Canapè gamberetti e salmone, uova e tonno o asparagi e salmone
Dal gusto deciso, gli asparagi verdi crescono in superficie, alla luce del sole. L’alta percentuale di clorofilla in essi contenuta conferisce agli ortaggi il tipico colore verde. Possono essere consumati senza essere pelati.
Gli asparagi bianchi hanno un sapore più delicato rispetto ai cugini verdi. Sono coltivati al riparo dalla luce in terriccio leggero e sabbioso. Dal momento che la loro buccia risulta più spessa e legnosa, vanno pelati per tutta la loro lunghezza.
La scelta ideale per chi preferisce i prodotti particolarmente sostenibili. Gli asparagi biologici sono coltivati senza l’impiego di pesticidi o concimi chimico-sintetici, nel rispetto di severi standard di qualità. Alla Migros sono ottenibili sia asparagi verdi che bianchi da agricoltura bio.
La stagione degli asparagi va da marzo a giugno. In primavera sono disponibili anche asparagi verdi di provenienza locale, coltivati sul Piano di Magadino, contrassegnati con il marchio Nostrani del Ticino.
Gli asparagi sono poveri di calorie, ma ricchi di vitamine, sali minerali e fibre alimentari. Gli asparagi possono essere cucinati in svariati modi. Il modo più semplice è quello di bollirli per una decina di minuti in acqua salata e un pizzico di zucchero. Una volta cotti, possono essere semplicemente serviti con un filo d’olio, un goccio di limone e una salsina. Ma gli asparagi sono una prelibatezza anche gustati per arricchire un risotto, aggiunti ad una frittata, grigliati o salatati in padella come contorno, in insalata crudi o leggermente sbollentati oppure sottoforma di zuppa.
Tante gustose ricette con gli asparagi su
Migros Losone aperta di domenica
Attualità ◆ Da domenica 27 aprile 2025 anche la filiale locarnese sarà aperta dalle 8.00 alle 19.00. A seguire quella di Mendrisio Borgo, che introdurrà l’apertura domenicale a partire dall’11 maggio 2025
Le aperture domenicali di diversi supermercati di Migros Ticino offrono alla clientela maggiore flessibilità nell’organizzare i propri acquisti, a maggior ragione quando il tempo è poco durante la settimana. Ai diversi punti vendita Migros già aperti nel rispetto della legge cantonale sull’apertura dei negozi, ora si aggiunge anche la filiale di Losone, situata in via dei Pioppi 2. Inaugurato il 30 marzo 2023, questo punto vendita ha permesso di rafforzare e completare idealmente la presenza di Migros in questa zona strategica del Locarnese.
Gestito da Marco Ruberto, il negozio propone un assortimento ben equilibrato di food e non food, con un particolare occhio di riguardo per i prodotti freschi e regionali. L’offerta include anche un’ampia scelta di prodotti pronti al consumo a marchio Migros Daily, come pure un forno per la cottura del pane che assicura panificati freschi fino alla chiusura del negozio, senza dimenticare il comodo reparto macelleria con banco a servizio. Il gerente e i suoi motivati collaboratori saranno felici di accogliervi anche di domenica!
A proposito: la prossima filiale Migros che introdurrà l’apertura domenicale sarà quella di Mendrisio Borgo, a partire dall’11 maggio 2025!
Aper ture domenic ali
seguenti filiali
Vieni a trovarci! Migros, la tua spes a di qualità tutti i giorni della settimana.
Migros Losone è pronta ad accogliervi anche di domenica.
Mostre ◆ Il Museo storico di Basilea ripercorre 150 anni di storia della psichiatria, a partire dall’apertura della clinica cantonale «Friedmatt»
Arrivo quasi per caso al Museo Storico di Basilea, non mi aspettavo che fosse ospitato nella suggestiva chiesa sconsacrata di Barfüsserkirche. Attraverso rapidamente le sale, sfiorando i frammenti della danza macabra, il gabinetto numismatico, l’incredibile Wunderkammer e le tappezzerie medievali, fino a trovarmi davanti all’ingresso della mostra temporanea Verrückt Normal («Follemente normale»): un’esposizione che ripercorre gli ultimi 150 anni di storia della psichiatria, a partire dalla clinica cantonale basilese «Friedmatt», inaugurata nel 1886 come manicomio con oltre duecento posti letto e oggi facente parte della clinica psichiatrica universitaria.
La mostra riflette su come il concetto di normalità sia mutevole e come il confine tra salute e malattia mentale si sia evoluto insieme alla società
All’ingresso, una gigantesca stampa lenticolare ricorda quelle cartoline zigrinate di una volta. A seconda della prospettiva, l’immagine cambia, ponendoci di fronte alla domanda: folle o normale? Una questione di sguardo, di percezione. Ed è proprio su questo confine sottile che si sviluppa l’intero percorso espositivo. La prima parte offre un ampio excursus storico, mostrando come il concetto di normalità è mutevole e come il confine tra salute e malattia mentale si è evoluto insieme alla società. La scenografia di alcune sale evoca l’architettura austera degli ospedali psichiatrici del secolo scorso, mentre oggetti e strumenti raccontano l’evoluzione dei trattamenti. Un mazzo di chiavi con un fischietto per dare l’allarme ci riporta al periodo «custodialistico», quando lo scopo principale dei manicomi e degli «asili per i pazzi» era soprattutto quello di isolare i pazienti dalla società.
Si passa poi all’epoca della medicalizzazione. In una sala, strumenti che oggi sembrano usciti da una stanza delle torture: siringhe per la «malarioterapia» (un metodo che
prevedeva di infettare i pazienti con la malaria per ottenere effetti collaterali apparentemente benefici), vasche per bagni bollenti o gelidi, fino all’armamentario medico utilizzato per la controversa cura insulinica di Sakel, che induceva stati comatosi per stimolare miglioramenti nei pazienti. Sono esposti anche gli attrezzi per la lobotomia, pratica che si innesta profondamente nella storia della psichiatria svizzera: lo psichiatra Gottlieb Burckhardt ne fu un precursore, praticando lobotomie sui pazienti dell’ospedale psichiatrico del canton Neuchâtel. Grande spazio è dedicato all’elettroshock, entrato nell’immaginario collettivo anche grazie al film del 1975 Qualcuno volò sul nido del cuculo: mi impressionano particolarmente i filmati che confrontano la brutalità delle pratiche degli anni 40 e 50 con le moderne terapie elettroconvulsive, oggi ancora utilizzate ma con criteri più controllati. Anche alle nostre latitudini molte di queste tecniche erano applicate con convinzione nelle cliniche private e nei padiglioni immersi nel verde del parco di Casvegno a Mendrisio.
Essendo Basilea patria delle grandi case farmaceutiche, non poteva mancare una sezione dedicata agli psicofarmaci con decine di scatole, pillole e boccette colorate allineate nelle vetrine. L’introduzione del «Largactil» alla fine degli anni 50 segnò una svolta epocale, dando inizio a quella che fu definita una «rivoluzione silenziosa»: si poteva dare una risposta chimica alla sofferenza mentale, con il risultato che, in breve tempo, le ur-
la nei padiglioni psichiatrici si spensero, lasciando spazio a un silenzio innaturale.
La mostra non ignora le tante pagine oscure di questa vicenda, come le sperimentazioni condotte in vari ospedali psichiatrici svizzeri, recentemente portate alla luce da commissioni di storici. Tra il 1940 e il 1980, in diverse strutture a Basilea, Lucerna e nel Canton Turgovia, numerosi pazienti furono sottoposti, senza il loro consenso, a sperimentazioni con farmaci ancora non autorizzati. O ancora il periodo in cui alla guida della clinica di Basilea ci fu il dottor Ernst Rüdin, aderente al partito nazionalsocialista, che ebbe poi un ruolo determinante nell’elaborazione delle leggi naziste sull’eugenetica. Ad accompagnare la mostra, un podcast in sei episodi pubblicato ogni terzo giovedì del mese, disponibile sulle principali piattaforme. Racconta le storie di nove persone ricoverate all’ospedale psichiatrico di Basilea tra il 1879 e il 1984, dando voce a vicende reali attraverso ricostruzioni, documenti storici e testimonianze dirette. L’ultima sezione della mostra ci catapulta nel presente, con interviste a pazienti, medici e operatori che affrontano il tema della salute mentale da diverse prospettive. Come vivono oggi le persone che soffrono di un disturbo psichico? Quali sono le sfide delle istituzioni preposte alla cura della salute mentale? Esiste ancora la «contenzione»? E che forme ha preso? Spesso tendiamo a ignorare queste tematiche finché non ci toccano da vicino, ma la psichiatria riguarda tutte e tutti e questa esposizione, visitabile fino alla fine di giugno, ci propone di prenderci il tempo per una riflessione. Un viaggio emozionante che mi porta a riflettere sulla sottile linea tra normalità e follia, su cui tutti camminiamo ogni giorno.
Dove e quando
Verrückt Normal, Historisches Museum Basel – Barfüsserkirche, Barfüsserplatz 7, Basilea Orari: ma-do 10.00-17.00. Fino al 29 giugno 2025 www.hmb.ch/follementnormal
Olmo Cerri
Imparare a fare il fieno per solidarietà
Volontariato ◆ Il progetto Caritas Impegno Alpestre cerca persone disponibili ad aiutare le famiglie contadine di montagna in Svizzera
Guido Grilli
Do ut des. Dare per ricevere. Il motto latino restituisce magnificamente il senso a monte del progetto Caritas Impegno Alpestre: sostenere attivamente nel lavoro quotidiano le famiglie contadine di montagna di tutta la Svizzera che si trovano in situazioni difficili. In che modo? Il sodalizio colloca volontari di tutte le età ai quali vengono garantiti vitto e alloggio e tanto altro (come vedremo) e i proprietari degli alpeggi, dal canto loro, ricevono per una o più settimane un aiuto concreto nell’economia della loro attività: dall’impiego in stalla, alla gestione dei pascoli, alla fienagione, al sostegno come baby sitter.
Caritas Impegno Alpestre si batte così a favore della sicurezza sociale e dell’integrazione delle persone vulnerabili e al contempo promuove la solidarietà e lo spirito di amicizia e preserva i nobili princìpi delle aziende alpestri. Spiega Jessica Pillet, responsabile per il Ticino e la Svizzera francese, che raggiungiamo telefonicamente a Losanna: «La situazione permane difficile per le famiglie contadine di montagna, confrontata sempre di più ai cambiamenti climatici. Periodi di siccità o, al contrario, di grandi piogge rendono difficile la gestione delle mucche in altura». Di qui la volontà di tendere una mano verso le imprese in difficoltà. Quali criteri devono essere soddisfatti per poter aderire alla vostra piattaforma e sperare nel sostegno dei volontari? «È importante certificare un bisogno reale. Le aziende devono certificare di non essere in grado di impiegare personale oltre a quello attivo nell’impresa. Noi incontriamo le famiglie per capire bene qual è la loro situazione, che è sempre diversa l’una dall’altra. Chiaramente il nostro aiuto con l’impiego di volontari si limita al periodo primavera-estate, e non può estendersi su tutto l’arco dell’anno». Ma come si traducono concretamente in sostegno le esperienze dei volontari? «I volontari non hanno formazioni nel mondo agricolo, si prodigano dunque in compiti semplici che possono essere appresi facilmente. Abbiamo una bella eterogeneità di volontari: più o meno un terzo sono perlopiù studenti dai 18 ai 30 anni, ma ci sono anche diversi impiegati d’ufficio che decidono di dedicare una delle loro quattro o cinque settimane di vacanza alla solidarietà, desiderosi di
stare all’aria aperta e confrontarsi con lo sforzo fisico. Un altro terzo è rappresentato da prepensionati o pensionati che vogliono ancora spendere la loro buona forma e svolgere qualcosa di utile. Tra questi ultimi c’è anche chi ha già lavorato nella propria vita in vigneti o in fattorie e sono dunque abituati a questo genere di attività.
L’esperienza di vivere una o più settimane con una famiglia rappresenta un’occasione umana e sociale sia per i volontari sia per i contadini».
Enea, 18 anni: Sono partito per imparare il francese e ho imparato a fare il formaggio, il fieno, a pulire la stalla e a raggruppare le mucche
Veniamo ai numeri. «L’anno scorso in Svizzera abbiamo sostenuto circa 130 famiglie. Ad oggi sono una settantina le famiglie contadine che hanno richiesto aiuto, di cui tre in Ticino. I profili sono sul nostro sito Internet (www.impegnoalpestre.ch) ed è possibile iscriversi e aderire al progetto principalmente da aprile a settembre e scegliere personalmente l’alpeggio in cui essere destinati, interfacciandosi direttamente con i contadini. Noi ogni anno cerchiamo dai 1000 ai 1200 volontari. L’80% si impiega per
una settimana». Ospitare degli sconosciuti in casa propria per le famiglie contadine non dev’essere facile. «In effetti. Ma poi quando inizia la conoscenza, le famiglie si aprono. Ricevono, ma danno anche tanto ai volontari, desiderosi di vivere una vita così diversa dalla loro, di essere a contatto con la natura». Quali tipi di mansioni vengono perlopiù richieste? «Recuperare le mucche all’alpeggio, pulire i materiali dopo la mungitura, raccogliere il fieno, aiutare a mettere le recinzioni, talora preparare da mangiare. La famiglia si adatta comunque alle competenze dei volontari, tra bisogni e motivazioni». Registrate anche rinunce? «Qualche volta capita. Come in tutte le relazioni umane può succedere che non si vada d’accordo o che l’impegno immaginato non corrisponda alle aspettative, ma sono l’eccezione. La maggior parte delle esperienze sono molto positive».
In Ticino tra le realtà che si sono rivolte al progetto di Caritas Impegno Alpestre in attesa di volontari ci sono Albertine e Luca Ferracin del caseificio Grom a Capriasca (www.gromealperompiago.com) e i loro quattro figli. «È il secondo anno che aderiamo» – dichiara Albertine. «L’anno scorso è stata una piacevole scoperta, abbiamo avuto una dozzina di volontari. Nessuno di loro aveva pratica, eppure tutti ci hanno dato una grandissima mano,
Un omaggio alla Verzasca
Le mucche
dell’azienda agricola
capriaschese di Albertine e Luca Ferracin; sotto, Albertine mentre fa il formaggio.
fornendoci una grande prova, è stato davvero bellissimo. L’estate è però stata funestata dall’incendio divampato il 28 agosto: la nostra azienda agricola a Bidogno, sotto l’alpe Rompiago, alle pendici del monte Bar, è stata completamente distrutta dalle fiamme, sprigionatesi probabilmente da un cortocircuito. Per fortuna tutti gli animali si trovavano all’alpe e nessuno è rimasto ferito, però abbiamo perso l’azienda che adesso stiamo cercando di ricostruire e tutte le nostre mucche sono in gestione da altri contadini». Ma con il ritorno della bella stagione
si ricomincia? «Sì, la transumanza è prevista a maggio. Torneranno all’alpe con la nostra dozzina di vacche e con un’altra trentina di un altro contadino della regione». Quali sono le difficoltà del vostro settore oggi? «La cosa più ardua è trovare persone che abbiano voglia di svolgere il nostro lavoro e di affrontarlo tutti i giorni. È un carico di lavoro molto importante mungere mattina e sera. E poi noi abbiamo deciso di trasformare tutto il latte per l’azienda, vale a dire nel caseificio che ora non abbiamo più dopo l’incendio. Oggi abbiamo salvato il formaggio dell’alpe che per fortuna si trovava in alto. Gestiamo anche un apiario e produciamo miele di montagna. All’alpe possediamo un agriturismo con prodotti bio, con una terrazza panoramica per trenta persone e dieci posti letto, aperta da maggio –il 3 avrà luogo l’inaugurazione – fino a settembre. Né io né Luca siamo di famiglia contadina, da sei anni siamo attivi nel settore, io dopo l’incendio lavoro in parte anche come infermiera, mentre mio marito era professore di lettere. Amo la mia professione di contadina: è un lavoro duro che non arricchisce, ma dà un compenso umano impagabile e di bellezza inestimabile. Andare a prendere le mucche per mungerle, il suono delle campane, il vitello che nasce…».
E di questa alchimia sa qualcosa Enea Sangiorgio, 18 anni, studente del liceo di Savosa, che la scorsa estate ha preso parte al progetto di Caritas Impegno Alpestre trascorrendo un intero mese in una famiglia contadina del Vallese con caseificio e alpeggio, a circa 2000 metri di altitudine, dove intende tornare per alcune settimane. Un bilancio entusiasmante, dunque? «Assolutamente. Sono partito principalmente per imparare il francese e ho trovato questa soluzione: ho imparato a fare il formaggio, il fieno, a pulire la stalla e tutta la struttura, a raggruppare le mucche. Ne avevamo 55, non tutte erano loro ma anche di altri contadini. Mi è piaciuto tantissimo. È stata un’esperienza completamente nuova, sempre a contatto con la natura, ero a tutti gli effetti membro del team. Ma non mi è mai sembrato di lavorare, mi sentivo come in vacanza. Sul mio telefonino conservo ancora le foto di albe e tramonti impareggiabili. E se ho scelto questo luogo è proprio per il paesaggio. Una meraviglia».
Territorio ◆ Chiara e Giuseppe Brenna raccontano in un volume gli itinerari e gli alpi da Mergoscia a Vogorno
«Uno sguardo alla carta geografica ci mostra la Verzasca come la sola valle del Cantone Ticino completamente circondata da territorio ticinese: Valmaggia, Leventina, Riviera e Locarnese. E come già venne notato, se paragoniamo il Ticino a una dolce pesca, la Verzasca ne sarebbe il nocciolo scabro e duro».
Così scriveva Giovanni Bianconi che Giuseppe Brenna cita all’inizio del suo volume Alpi di Val Verzasca scritto insieme alla moglie Chiara e pubblicato nella collana «Sui sentieri dei padri» da Salvioni Edizioni. Giuseppe Brenna a 72 anni rimane un punto di riferimento per chi ama la montagna e la civiltà contadina, un pozzo di conoscenze ed espe-
rienze che non smette di trasmettere, alimentare, osservare e indagare con vera passione e dedizione. Nel tempo ne sono nate opere monumentali dedicate al nostro territorio, come quest’ultimo volume che raccoglie 157 itinerari per 247 tra alpi con i relativi corti e altri luoghi particolari, documentati da un apparato iconografico costituito da ben 738 fotografie e 39 cartine. Il viaggio che Brenna ci invita a seguire è in senso orario: si parte dal luogo più a sud del versante destro della Val Verzasca, ossia Mergoscia, e si termina con gli alpi di Vogorno. Ad accompagnarci nel cammino racconta Brenna sono alcuni libri «che ci hanno trasmesso passione e gran-
di, specifiche conoscenze» come appunto quelli dell’amato Bianconi. Il volume è ricchissimo di notizie storiche legate ai luoghi e alla vita della popolazione che li abitava. Si parla dell’emigrazione che ha segnato così tanto la valle e sono riportate e analizzate alcune lettere degli emigrati. Ma si sofferma anche su particolari curiosi come le iscrizioni scolpite sulle rocce o l’origine dei nomi di luoghi. Aròca, ad esempio, è l’Alpe Rocca nel dialetto di Mergoscia con un ovvio riferimento al termine rocca da attribuire alla parte rocciosa che sovrasta le cascine e le protegge dalle valanghe. Non c’è dubbio che Chiara e Giuseppe Brenna la Verzasca ce l’abbia-
no nel cuore. D’altronde Chiara per vent’anni ha anche gestito un’azienda agricola con capre a Brione Verzasca e all’Alpe Rozzera «provando così un po’ le fatiche e le emozioni degli antenati». Questo volume è il loro omaggio non solo a questa terra impervia e bellissima ma soprattutto, scrivono, «all’opera monumentale dei Verzaschesi realizzata sulle montagne». Il loro sguardo ci invita a ricordare gli antenati e a rispettare le terre che ci hanno lasciato, perché come scrive Anna Gnesa: «La valle è casa nostra. Se sappiamo conservarla, in un tempo sempre più affollato e avvelenato vi potremo, con consapevolezza nuova, ritrovare le sorgenti». /B.M.
Il rumore dà fastidio e fa ammalare
Inquinamento fonico ◆ La giornata annuale di sensibilizzazione, prevista il 30 aprile, si concentra sulle conseguenze dell’esposizione al rumore sulla salute e sui costi sanitari. Nel frattempo nelle strade di Locarno è in funzione il rumorometro
Stefania Hubmann
«Rumore!» oppure «Grazie!» Sono i due messaggi visivi che appaiono ai conducenti di veicoli a motore il cui passaggio è registrato dal rumorometro, apparecchio simile al «radar amico» che invece della velocità segnala il superamento di una soglia di rumore impostata a 83 deciBel (dB). Obiettivo: rendere attento chi guida che sta provocando, magari involontariamente, un picco di rumore molesto. Come per altre forme di rispetto con al centro il comportamento individuale, la via per ridurre l’inquinamento fonico passa anche dalla consapevolezza dei propri atti. Il rumorometro in dotazione al Cantone Ticino è posato questo mese a Locarno, dove dal 18 marzo circa ogni due settimane cambia via di rilevamento. Dal 2021 il dispositivo è utilizzato in vari Comuni quale strumento complementare agli interventi strutturali per ridurre l’inquinamento acustico generato dalle strade, fonte principale di questo tipo di inquinamento che può provocare importanti ripercussioni sulla salute. La giornata annuale contro il rumore, in calendario mercoledì 30 aprile, si concentra nel 2025 su queste conseguenze: il rumore fa ammalare e genera alti costi sanitari. Il problema del rumore è sempre d’attualità e la giornata d’azione internazionale lo ricorda dal lonta-
no 1996. La Svizzera vi aderisce dal 2005 attraverso quattro enti promotori – Cercle Bruit (Associazione dei responsabili cantonali per la prevenzione del rumore), Società svizzera di acustica, Medici per la protezione dell’ambiente e Lega svizzera contro il rumore – sostenuti dall’Ufficio federale dell’ambiente e dall’Ufficio fede-
rale della sanità pubblica. Ogni anno attraverso manifesti ed eventi mirati gli organizzatori attirano l’attenzione su un aspetto dell’inquinamento fonico. Quest’anno nel mirino vi è il traffico stradale che risulta al primo posto quale fonte di rumore eccessivo, seguito a livello nazionale da ferrovia, traffico aereo e poligoni di tiro.
Al centro del manifesto il disegno del cuore umano con lo slogan «Il rumore fa ammalare». Altre due frasi completano il messaggio rivolto alla popolazione: «Si muore anche per il rumore del traffico» e «La calma fa bene – anche al cuore». Per quanto riguarda la salute, i promotori spiegano sul sito www.cerclebruit.ch, come il rumore sia fonte di stress, disturbi il sonno e influisca appunto sul cuore e sulla psiche, precisando che «in Svizzera, ogni anno, circa 500 decessi legati a malattie cardiovascolari sono attribuibili agli effetti del rumore del traffico». Non va inoltre sottovalutato l’impatto economico negativo del baccano che si manifesta attraverso le spese sanitarie e la perdita di valore degli immobili esposti a fonti di inquinamento fonico. Da precisare che viene definito molesto il rumore, corrispondente al valore limite d’immissione, che oltrepassa i 60 dB di giorno e i 50 nelle ore notturne in una zona residenziale. In caso di superamento dei valori d’allarme (70 dB di giorno e 65 di notte), viene considerato urgente intervenire con misure di risanamento.
È pertanto sulle strade che pure in Ticino si concentra gran parte degli sforzi per ridurre le immissioni foniche, le quali interessano una larga fetta della popolazione. Il Cantone riferisce che da recenti stime poco più del 25% della popolazione risulta esposta a immissioni foniche, dovute alle strade cantonali e comunali, superiori ai valori limite stabiliti dall’Ordinanza federale contro l’inquinamento fonico (OIF). Ennio Malorgio, capo dell’Ufficio della prevenzione dei rumori del Dipartimento del territorio, spiega ad Azione lo stato attuale dei lavori. «Tra il 2019 e il 2020 è stata approvata la fase prioritaria del risanamento fonico di diverse strade cantonali e comunali per Mendrisiotto e Basso Ceresio, Bellinzonese e Locarnese-Vallemaggia, Riviera e Valli, Luganese. L’analisi che ha preceduto la presentazione dei progetti ha permesso di identificare circa 220 km di strade cantonali in 72 Comuni sui quali intervenire con la posa di un asfalto fonoassorbente. Al momento sono stati realizzati circa 178 km che riguardano centri abitati e vie con forte traffico. Grazie a questi lavori la situazione fonica migliora in modo significativo. Appena posata, la nuova pavimentazione riduce di circa 5-6 dB il rumore percepito. Con il passare del tempo il suo effetto dimi-
nuisce, ma a dieci anni di distanza in genere la riduzione è ancora pari a circa 3 dB, ciò che equivale a un dimezzamento del traffico».
Un altro provvedimento che interviene con successo alla fonte del problema è rappresentato dalle riduzioni di velocità. Malgrado queste misure, il comportamento dei conducenti può continuare ad avere effetti negativi sulle emissioni foniche, in particolare per quanto riguarda i picchi di rumore. Le accelerazioni brusche e una velocità sostenuta a marce basse, sono esempi di stili di guida che provocano rumori superiori agli 83 dB (impostati sul rumorometro) corrispondenti al rumore di una strada con traffico molto intenso. Per questo motivo ci si affida al rumorometro quale mezzo di sensibilizzazione. Precisa al riguardo Ennio Malorgio: «Si tratta di uno strumento complementare che registra il rumore a bordo strada in tempo reale. Se per la velocità il conducente può contare su un’indicazione visiva sul proprio veicolo, per il rumore questa informazione non è disponibile. Di conseguenza molte persone alla guida di un’automobile o di una moto a volte non si rendono nemmeno conto del rumore evitabile che generano, sovente pur rispettando il limite di velocità. Il rumorometro serve ad acquisire consapevolezza, incoraggiando una successiva modifica del comportamento». Sulle strade ticinesi l’apparecchio è presente dal 2021 con un impiego a turni. Ancora il capo dell’Ufficio della prevenzione dei rumori: «Disponiamo di un unico apparecchio messo volentieri a disposizione dei Comuni che possono chiedere di utilizzarlo a rotazione. Dopo Locarno dovrebbe essere installato a Bodio. I dati rilevati sono già stati in parte richiesti dall’Ufficio federale dell’ambiente che li utilizzerà per analisi a livello svizzero». Giunto in Svizzera nel 2019 dalla Germania dove è stato sviluppato, l’apparecchio è in grado di rilevare più categorie di veicoli ed è generalmente impostato sulla soglia di 83 dB. In questi anni è stato acquistato da diversi Cantoni, tra cui il Ticino che è stato un precursore. Malgrado il loro ruolo preponderante, le strade non sono le uniche importanti fonti di eccessivo rumore al quale è esposta la popolazione. Altre cause, sempre legate alla mobilità, come la ferrovia e il traffico aereo non sono però di competenza dei Cantoni, bensì della Confederazione. L’Ufficio della prevenzione dei rumori si occupa comunque da parte sua di altri generatori di inquinamento fonico rilevante come ad esempio i poligoni di tiro, anch’essi nella lista dei rumori più fastidiosi. «Anche in questi casi –spiega Ennio Malorgio – sono possibili interventi volti a limitare le emissioni foniche (tunnel fonoassorbenti nel luogo dello sparo) affiancati, laddove attuabili, da accorgimenti a livello di costruzione come la realizzazione di piccole colline o di protezioni foniche. Gli impianti non idonei devono essere risanati, operazione che ha già interessato alcuni poligoni di tiro ticinesi. Come per gli altri casi, le misure antirumore sono sempre valutate con tutti gli attori coinvolti e quelle attuate corrispondono alla sintesi di una ponderazione dei rispettivi interessi».
In Sicilia crescono funghi spaziali
Tecnologia ◆ Basilio Busà e lo Space Team della Sapienza di Roma vogliono creare con i funghi cresciuti o coltivati nella zona dell’Etna un rivoluzionario materiale in grado di proteggere gli astronauti dalle radiazioni dello spazio profondo
Clara Valenzani
«Funghi»: una parola che probabilmente fa pensare alla cucina, o al massimo ad Amsterdam e alla Thailandia. Difficile associarla ad una navicella spaziale. Eppure è quello che Basilio Busà, 50 anni da Trecastagni (Catania), sta provando a fare: creare con i funghi cresciuti o coltivati nella zona dell’Etna un rivoluzionario materiale in grado di proteggere gli astronauti dalle radiazioni dello spazio profondo. Il progetto potrebbe risolvere uno dei problemi a cui gli scienziati non hanno ancora trovato soluzione, ovvero come garantire la sicurezza di chi si avventurerà oltre la Luna; la proposta nasce dalla collaborazione tra il siciliano, odontoiatra votato allo studio della biologia, e lo Space Team della Sapienza di Roma, un gruppo studentesco che si occupa di progetti aerospaziali, arrivato finalista nel 2024 alla competizione internazionale CanSat sovrintesa dalla Nasa.
Il micelio è versatile: cresce nello stampo desiderato e intrecciato ad altri elementi che ne migliorano la robustezza
«Le esplorazioni oltre il largo raggio, quelle che superano i 15mila km dalla Terra e le Fasce di Van Allen, le zone intorno al nostro pianeta, ad oggi non sono fattibili - spiega Basilio - lo spazio profondo ha un tasso di radiazioni ionizzanti così alto che per un essere umano sarebbe come esporsi a radiografie continue, potenti a tal punto da alterare il DNA. Per questo è necessario trovare dei materiali che funzionino da schermo lungo il tragitto». Il biologo mostra un mattone alto 20 cm: è realizzato con il micelio, l’apparato di filamenti simili a radici che genera il fungo. La base è stata creata dalla specie Ganoderma Lucidum o da quella Shiitake. La prima cresce sui castagni etnei, la seconda viene coltivata da Basilio in una cava dismessa usata per l’estrazione di materiale vulcanico; entrambi i funghi sono
di origine orientale e noti per le loro proprietà officinali. I test hanno dimostrato che il blocchetto è in grado di proteggere da una serie di raggi, compresi quelli X.
Edoardo Malatesta, team leader 23enne dello Space Team, conferma: «La sfida principale è ridurre lo spessore del prodotto finale, ma il micelio, quando è ancora vivo e mantiene la sua parte acquosa, scherma dalle radiazioni. Anche la Nasa sta portando avanti studi analoghi per trovare un’alternativa agli elementi attualmente usati: piombo, tungsteno, alluminio. Hanno pensato a dei gusci esterni alle navicelle riempiti d’acqua, ma sarebbero complicati da gestire». Il tema principale è quindi arrivare ad avere un materiale sottile, leggero e resistente; una sottostruttura che compatti e stabilizzi il micelio, rendendolo efficace. «Con Basilio stiamo portando avanti diverse linee di ricerca - prosegue EdoardoIl prossimo test avverrà sul prototipo di un’ala di aereo di circa un metro e mezzo, costruita con un biomateriale composito in cui al micelio abbiamo affiancato una fibra di carbonio e una struttura in titanio. Più il materiale è fine e durevole, più aumenta il ventaglio delle future applicazioni, andando ad esempio ad includere protezioni per satelliti e rover, spesso danneggiati dalle tempeste di sabbia. È importante investire nello spazio: ora abbiamo una nuova generazione di astronauti italiani (Cristoforetti, Parmitano, Nespoli) e non dobbiamo perdere il posto guadagnato durante le missioni spaziali».
Il micelio può essere un alleato fondamentale: è versatile e cresce nello stampo desiderato, anche su dimensioni molto estese e intrecciato ad altri elementi che ne migliorano la robustezza. L’importante è che, fino al momento in cui si deciderà di essiccarlo per ottenere un prodotto più compatto, lo si nutra per non farlo morire. Ma cosa mangia un micelio?
Legno e cellulosa; e qui ricompare la Sicilia: Basilio utilizza come nutrimento per le coltivazioni fungine i residui della lavorazione dei castagni locali, alberi antichi e imponenti
che ombreggiano le pendici dell’Etna. In questo modo, inoltre, si evita di bruciare gli scarti non utilizzati per la produzione di mobili o parti della casa, diminuendo l’impronta del carbonio.
Un’altra linea di ricerca è quella sulla bioluminescenza o, dice Basilio, sull’«illuminare con esseri viventi»: in tutto il mondo esistono infatti oltre 70 specie di funghi luminosi. «Il meccanismo funziona come quello di
I funghi Panellus Stipticus (a sin.) e Omphalotus Nidiformis (a des.) fotografati nel laboratorio di Basilio Busà nel picco di luminescenza (Valentina Brancaforte).
una lucciola: viene prodotta luciferina, una sostanza che attraverso reazioni chimiche rilascia energia in forma di luce finché il fungo sopravvive. Non sappiamo ancora perché questo avvenga, forse è semplicemente una condizione relativa all’esistenza dell’organismo, così come gli umani producono calore». Nel suo laboratorio, il ricercatore analizza alcuni ceppi a lento crescimento del Nord America (Panellus Stipticus) che emettono luce per quattro, cinque mesi di seguito, senza richiedere alcun apporto nutriente. Una condizione unica: «In Sicilia abbiamo un fungo simile, ma illumina solo per una settimana». Luminosi o no, funghi e micelio - una volta finalizzata la fase test del progetto aerospaziale, che durerà almeno per tutto il 2025 - potrebbero essere utilizzati in molti modi. Le potenzialità sono già state riconosciute dall’Agenzia Spaziale Europea, che ha proposto a Basilio e ai ragazzi dello Space Team un gemellaggio con un laboratorio californiano di biologia e ingegneria spaziale, oltre a una proposta economica per una fondazione di ricerca a Catania promossa da Eht (ente che studia le tecnologie innovative). Tra le applicazioni che potremmo vedere in futuro ci sono i «cappotti» riadattati come materiale isolante per le case, le protezioni per gli oggetti fragili come le bottiglie di vino, l’impiego come componenti di pale eoliche o piccole turbine. Alla fine, come commenta Basilio, «bisogna anche rimanere coi piedi per terra: la ricerca deve mirare in alto, ma se emergono opportunità per la vita di tutti i giorni, meglio. Sarebbe bello produrre contenitori per le uova con il micelio… però con quelli, mi sa che non si cambia il mondo».
Basilio Busà ritratto nel salone di casa sua con in mano i biomattoni di micelio, componenti con cui costruisce le arnie per le sue api (Valentina Brancaforte).
I team leader dello Space Team dell’Università La Sapienza di Roma, da sinistra: Edoardo Malatesta, Giulia Lo Iacono, Tommaso Onali (Valentina Brancaforte).
6.95 Spiedini Tandoori Planted
5.95 Beyond Burger Jalapeño Flavour
ATTUALITÀ
Cinquant’anni di Amnesty in Ticino Piergiorgio De Lorenzi, uno dei fondatori del Gruppo 48, ricorda l’impegno e le lotte in difesa dei diritti umani
Pagina 15
Così la Cina affronta la guerra dei dazi Le conseguenze del «Liberation day» in Asia, dove Pechino sta estendendo ancora di più la sua influenza
Pagina 16
La dissidente russa in America
Kseniia Petrova è una scienziata fuggita da Mosca che rischia di essere rimpatriata a causa delle leggi anti-immigrati
Pagina 17
I perdenti americani della globalizzazione
Stati Uniti ◆ Come siamo arrivati a questo punto? E perché Trump tiene duro su molti aspetti della sua politica protezionista, pur concedendo una tregua negoziale di novanta giorni ai Paesi europei?
Federico Rampini
Al lungo elenco dei nemici di Donald Trump possiamo aggiungere, ormai ufficialmente, anche il presidente della sua banca centrale. Jerome Powell, capo della Federal Reserve, ha espresso una dura requisitoria sugli effetti dei dazi: secondo lui è probabile che essi aumentino l’inflazione americana e pure la disoccupazione. È quindi uno scenario di «stagflazione», l’esatto opposto di quella età dell’oro che Trump aveva promesso nel giorno del suo giuramento. Powell ha aggiunto che il mestiere della banca centrale è diventato molto più difficile in questo scenario: se alza i tassi per contrastare l’inflazione, peggiora la disoccupazione, e viceversa.
Ma come siamo arrivati a questo punto? E perché Trump tiene duro su molti aspetti della sua politica protezionista, pur concedendo una tregua negoziale di 90 giorni ai Paesi europei? Affermare che la globalizzazione ha impoverito l’America, che gli accordi per la riduzione delle barriere commerciali sono stati usati da altre Nazioni (Cina, Messico, Germania, Giappone) per «fottere» gli Stati Uniti – come sostiene Trump – è naturalmente falso. La classe dirigente americana sapeva quel che faceva quando negli anni Novanta negoziò trattati come il Nafta con Canada e Messico, o l’adesione della Cina all’Organizzazione mondiale del commercio. Non erano ingenui i leader americani che firmarono quegli accordi, non fecero regali agli altri.
Barack Obama e Karl Marx
Però la stagione d’oro della globalizzazione non fu tale per tutta l’America e per tutti gli americani. L’apertura delle frontiere – alle merci come all’immigrazione – ha sempre avuto effetti potenti sulla distribuzione interna delle risorse. In ogni epoca storica e in ogni Paese. Ha creato dei vincitori e dei perdenti. È del resto quel che si deduce dall’indice statistico Gini che misura le diseguaglianze. La globalizzazione ha reso l’America più ricca nel suo insieme, l’ha proiettata verso un livello di benessere senza precedenti nella storia. Allo tempo stesso ha accentuato le diseguaglianze, per cui alcuni americani non l’hanno affatto vissuta come un periodo fausto. Tra i vincitori: molte aziende multinazionali, gran parte della finanza; e tutte quelle élite qualificate della forza lavoro che hanno avuto accesso a mercati globali e quindi hanno visto salire i propri redditi (un caso classico sono i talenti informatici della Silicon Valley, ma con loro tante altre professioni di fascia alta). Tra i perdenti: parte della classe operaia Usa, che ha soffer-
to per un doppia concorrenza, quella dell’operaio cinese pagato molto meno di lui in Cina, e quello dell’immigrato messicano pagato meno di lui in America stessa. Questo mondo dei perdenti americani della globalizzazione iniziò a ribellarsi votando per Ross Perot nel 1992; scendendo in piazza a Seattle contro il Wto nel 1999; simpatizzando con Occupy Wall Street oppure con il Tea Party Movement dopo la crisi del 2008; infine votando per Trump. Ma è utile ricordare che Barack Obama seppe per qualche tempo intercettare pezzi di questa protesta: bisogna andarsi a rivedere un memorabile dibattito televisivo nella campagna per la nomination democratica del 2008: in cui Obama attaccava George W. Bush (e spiazzava da sinistra la rivale Hillary Clinton) per non aver controllato l’immigrazione clandestina, e quindi per aver favorito i profitti dei padroni a scapito dei salari operai. Obama riprendeva il pensiero classico di Karl Marx: ne La questione irlandese alla fine dell’Ottocento aveva analizzato l’immigrazione come una leva potente in mano ai capitalisti inglesi per indebolire la loro classe operaia. È un tema che il partito democratico ha tentato di non abbandonare a Trump. L’ex consigliere strategico di Joe Biden, Jake Sullivan, teorizzava una politica estera e del commercio «fatta su misura per i lavoratori americani» (perciò Biden mantenne i da-
zi del primo Trump, e vi aggiunse la politica protezionista affidata agli aiuti di Stato). Le voci della sinistra più radicale, alla Bernie Sanders, ammutoliscono quando si tratta di criticare i dazi.
Il conflitto per la distribuzione del reddito nazionale è andato in scena quando le lobby di Big Tech hanno ottenuto esenzioni per le importazioni di computer e telefonini, molti dei quali vengono fabbricati in Cina dalle multinazionali Usa come Apple. I nostalgici dell’Età aurea delle liberalizzazioni sono loro: sono quelli che stanno al vertice della piramide delle diseguaglianze misurata dall’Indice Gini. Trump si ritrova a fare da mediatore o arbitro fra queste due Americhe: se ascolta il top management delle multinazionali, la guerra dei dazi sarà breve e si concluderà con dei compromessi; se ascolta la base operaia il danno per gli altri Paesi sarà superiore. In ogni caso il bilancio finale lascerà qualche traccia sui rapporti fra le classi sociali all’interno degli Stati Uniti. Per capire il mondo dei dazi, per cercare di prevedere le prossime mosse di Donald Trump, a chi ci dobbiamo affidare? Decifrare l’America no-global di destra impone uno sforzo di aggiornamento culturale. A parte il personaggio del presidente, che spesso agisce d’istinto, e si lascia guidare da convinzioni «primitive» (la sua prima intervista pro-dazi risale al 1987), i ve-
ri teorici del protezionismo esistono. Vista la loro influenza nella Nazione più ricca e potente del pianeta, questi intellettuali organici alla destra vanno presi sul serio. Altrimenti non si capisce perché il partito dei dazi ha prevalso finora sui cosiddetti oligarchi –Musk in testa – che questi dazi non li vogliono affatto. Alla ricerca di una «teoria dei dazi», un punto di riferimento è il think tank American Compass, di area MAGA (Make America Great Again). Uno dei suoi studiosi di punta ne è il fondatore, è il giovane economista Oren Cass. Leggerlo è utile per capire le convinzioni profonde di un’America che da tempo si sente tradita, truffata, e oggi decide di voltare le spalle a quella globalizzazione che fu una sua creatura (o per meglio dire, una creatura del suo establishment). Ecco il pensiero di Oren Cass: «Donald Trump dà il meglio di sé quando si appropria di una posizione di buon senso che, per di più, risulta corretta, lasciando sconcertati gli esperti tecnocrati intenti a imporre al Paese una visione che appare assurda e si rivela, in effetti, sbagliata. La sua insistenza nell’inquadrare le prossime mosse della sua amministrazione in materia di commercio in termini di “reciprocità” ne è un esempio perfetto. Gli Stati Uniti, secondo la logica di Trump, abbracceranno il libero scambio solo nella misura in cui anche
i loro partner commerciali lo faranno e solo se ne deriverà un commercio reale, concreto, genuino. “Ma non funziona già così?”. No, assolutamente no. La reciprocità dovrebbe essere il fondamento del sistema commerciale internazionale, ma molti Paesi hanno ignorato questa aspettativa e gli Stati Uniti hanno ripetutamente chiuso un occhio. Per far continuare la festa, gli economisti hanno costruito una narrazione in cui la reciprocità era superflua. Lasciamo che gli altri si comportino come vogliono, diceva il racconto, gli Stati Uniti trarranno comunque beneficio aprendo il proprio mercato a tutti. Trump ha ripetutamente chiarito che la sua frustrazione riguarda lo squilibrio commerciale: gli Stati Uniti hanno un deficit annuo di 1000 miliardi di dollari, che riflette beni prodotti all’estero per il nostro consumo, che acquistiamo inviando in cambio proprietà di immobili e aziende, debito del Tesoro che rappresenta semplicemente un “pagherò”. In questo modo erodiamo simultaneamente la nostra capacità industriale nel breve termine e inviamo all’estero i diritti sulla nostra prosperità futura. Come ha osservato l’imprenditore-economista Warren Buffett: “Il nostro Paese si è comportato come una famiglia straordinariamente ricca che possiede un’enorme fattoria… Giorno dopo giorno, abbiamo venduto pezzi della fattoria e aumentato l’ipoteca su ciò che ancora possediamo”».
Al lungo elenco dei nemici di Trump (nella foto) possiamo aggiungere anche il presidente della sua banca centrale, Jerome Powel. (Keystone)
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Quella lettera profumata per Xi Jinping
Anniversari ◆ Piergiorgio De Lorenzi, uno dei fondatori del gruppo ticinese di Amnesty International, ricorda i cinquant’anni di impegno in difesa dei diritti umani. «Pare si stia verificando una regressione. Arrivano segnali inquietanti da tutto il globo»
Romina Borla
«Quando Amnesty International (AI) è arrivata in Ticino, alla metà degli anni 70 del 900, molti Paesi dell’America Latina erano nella morsa della dittatura: il Brasile, il Paraguay, l’Uruguay, l’Argentina, il Cile… Anche altre realtà del cosiddetto Terzo mondo e dell’est europeo hanno visto l’avvento di regimi totalitari ferocissimi. Mobutu nello Zaire (oggi Repubblica democratica del Congo), Marcos nelle Filippine, solo per fare degli esempi. A seguire un’ondata di miglioramento. Ma adesso pare si stia verificando una regressione. Arrivano segnali inquietanti da tutto il globo, anche dai Paesi cosiddetti occidentali quali l’America. Per questo AI, purtroppo, continua ad esistere: i diritti umani non sono garantiti. A Gaza come in Ucraina. Lo slancio è sempre quello degli inizi, nonostante la rabbia e la frustrazione continuiamo a lavorare. Invece di demoralizzarci, il contesto ci sprona ad impegnarci di più».
Dalla sua fondazione il Gruppo Ticino 48 ha anche «adottato» oltre quaranta prigionieri/e di coscienza
A parlare è Piergiorgio De Lorenzi, 84 anni, ex docente a Lugano e Chiasso, tra i soci fondatori del Gruppo Ticino 48 di Amnesty International, che ha festeggiato 50 anni di attività. Il nostro interlocutore ripensa a quel periodo: «Il nostro messaggio era difficile da far passare in un contesto di Guerra fredda. Nessuno capiva bene come si potesse rimanere neutrali. O ti schieravi con il “primo mondo” – il cosiddetto mondo capitalista – oppure parteggiavi per il “secondo”, quello comunista, se però non tifavi per il “terzo mondo”, ovvero i Paesi in via di sviluppo. Abbiamo fatto una fatica tremenda a far capire il nostro punto di vista. Ovvero la difesa della singola persona: poco importa chi fosse, che ideologie avesse sposato, il suo genere, il colore della pelle o il suo credo… Si trattava di un essere umano e come tale aveva dei diritti inalienabili riconosciuti dalla legislazione internazionale. Questa idea era in un certo senso rivoluzionaria, anche negli ambienti che avrebbero dovuto essere più sensibili alla tematica...». Insieme ai compagni di avventura Paolo Bernasconi, Dick Marty e altri, viene a sapere di AI e del primo gruppo svizzero attivo a Ginevra, un contesto «frizzante» anche per la presenza di molte organizzazioni internazionali. «Diversi dipendenti di quegli enti capivano il punto di vista di Amnesty – osserva – la difesa del singolo individuo, specie quello a cui nessuno pre-
Due azioni promosse a Lugano da AI: contro la pubblicità sessista (2014) e «Guantanamo in piazza» (2007).
sta attenzione. Abbiamo difeso anche i Mandela e i Sacharov, certo, però a noi interessava soprattutto il sacerdote cattolico incarcerato nel Vietnam comunista, la casalinga indonesiana sotto il regime di Suharto, il desaparecido cileno ecc.».
Per aiutarli – sottolinea l’intervistato – è necessario prima «studiare». Parte tutto da una segnalazione, che può arrivare in maniera inaspettata.
De Lorenzi cita il caso degli uiguri, un’etnia turcofona di religione musulmana che vive nella regione autonoma del Xinjiang, nel nord ovest della Cina, perseguitati da Pechino perché ritenuti «pericolosi», dei sovversivi. «Le industrie farmaceutiche occidentali, anche svizzere, producono in Cina i test di gravidanza. Talvolta sono i prigionieri ad occuparsi degli imballaggi: qualche uiguro infila nella scatola, insieme al bugiardino, anche una richiesta di aiuto…». Comunque, la segnalazione avvia un lavoro di indagine certosino: AI raccoglie informazioni da ogni fonte disponibile, le incrocia e confronta più volte, per rendere il rapporto che infine viene stilato «inconfutabile». Prima di pubblicare il documento con accuse precise – aggiunge il nostro interlocutore – questo viene inviato alle autorità «incriminate» per
una loro presa di posizione: «Se sta in piedi ne prendiamo atto, altrimenti la sconfessiamo». Questa procedura ha lo svantaggio di richiedere tempo. «La fretta non va di pari passo con l’accuratezza delle informazioni diffuse». In seguito si passa all’azione: lettere, chiamate, campagne sui media ecc. Dalla sua fondazione nel 1974, il Gruppo Ticino 48 ha anche «adottato» oltre 40 prigionieri/e di coscienza, ottenendo per alcuni/e di loro la liberazione. De Lorenzi ci spiega come funziona: «Si chiede il dossier al
L’avvocato Peter Benenson e i prigionieri dimenticati
La missione di Amnesty International (AI) è quella di difendere i diritti umani (trenta secondo la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948), abolire la tortura e la pena di morte, fare pressione per liberare i numerosi prigionieri politici che affollano le carceri di tutto il mondo.
L’idea di creare un’organizzazione indipendente che si batta contro le ingiustizie – si legge sul libro-bilancio di recente pubblicazione «Una voce per i diritti umani. Cinquant’anni di Amnesty International in Ticino» (a cura di Giacomo Müller) – risale al 1960, quando un giovane avvocato inglese, Peter Benenson, legge di due studenti portoghesi arrestati a Lisbona per aver criticato la dittatura di António Salazar. Il 28 maggio 1961 Benenson pubblica sul domenicale londinese «The Observer» una lettera aperta – intitolata «The Forgotten Prisoners» – con la quale esorta le persone comuni ad esercitare pressio -
ni sui Governi scrivendo lettere che richiedano il rilascio immediato dei «prigionieri dimenticati» (tra i quali i due giovani portoghesi). L’articolo ottiene un enorme riscontro: viene ripreso da una trentina di testate in vari Paesi e in breve tempo migliaia di persone aderiscono all’azione di protesta. Da questo «appello per l’amnistia» nasce AI (1962). La sede del suo Segretariato internazionale è Londra, ad oggi l’organizzazione conta su oltre 3 milioni di membri, sostenitori/rici e simpatizzanti in 150 Paesi. Ogni intervento inizia sempre con un’accurata ricerca di informazioni (che parte dopo una segnalazione di abuso dei diritti umani). Poi, in base agli interlocutori e agli obiettivi da raggiungere, si sceglie la strategia più adatta da seguire: lobbying a livello politico, campagne di sensibilizzazione su un determinato tema, azioni urgenti (appelli a favore di persone la cui integrità fisi-
con i loro aguzzini: nessuna presa in giro, non si deve mostrare disprezzo. È necessario essere furbi: per ottenere qualcosa e perché, in fondo, anche se di un farabutto si tratta, è un essere umano e in quanto tale va rispettato». Altro elemento fondamentale: la creatività. «Bisogna inventare dei “trucchetti” per portare avanti la causa», racconta De Lorenzi. «Una volta abbiamo scritto ad Obama per un prigioniero di Guantanamo (carcere ancora oggi in funzione). Abbiamo deciso di usare un inglese shakespeariano (ma mandiamo gli scritti sempre in diverse lingue) in modo che chi avesse letto la lettera avrebbe pensato che lo scrivente fosse colto e importante, un vip insomma. Così è stato: i burocrati hanno mandato avanti la richiesta, forse perché non volevano prendersi la responsabilità di respingere qualcosa di grosso, e così via fin dove doveva arrivare: alla fine il detenuto è stato liberato». Pure la pazienza non deve mancare: non è infrequente che nessuno replichi all’appello. «Una volta però abbiamo ricevuto una risposta», ricorda l’attivista. «Avevamo scritto una lettera a Xi Jinping per un prigioniero di coscienza. Sul foglio mi era caduta qualche goccia di acqua di colonia, mi stavo facendo la barba. L’ho comunque spedita: un funzionario cinese mi ha risposto: “Grazie per il profumo”!».
Segretariato generale, ci si documenta in profondità sulla situazione del Paese e sulla persona da aiutare. Si inviano poi delle lettere alle autorità con l’intento di convincerle a cambiare rotta, perché è anche nel loro interesse». Per riuscirci ci vuole competenza, dice l’intervistato. «Non si tratta di scrivere cartoline di auguri. Si deve comprendere a fondo la situazione, cercare anche di mettersi nei panni di chi condanna, ricostruire il perché lo fa. Bisogna essere empatici, sia con le persone che si vogliono sostenere, sia
ca o la vita stessa corrono un pericolo imminente), appelli internazionali o prigionieri del mese (casi di detenzione prolungata di prigionieri di opinione) e gli action file (l’adozione da parte di un gruppo locale di uno o più prigionieri/e di coscienza, persone scomparse o condannate a morte). Senza dimenticare il Rapporto di attività annuale attraverso cui AI informa sulla situazione dei diritti umani in ogni singolo Paese. Il primo gruppo svizzero vede la luce a Ginevra nel 1964; in Ticino AI arriva nel 1974, quando viene fondato a Rivera il Gruppo Ticino 48 (la cifra indica che si tratta del 48esimo gruppo di Amnesty in Svizzera). Sottogruppi: Lugano, Bellinzona, Locarno e Mendrisio (restano attivi i primi due). Un fiore all’occhiello del Gruppo 48: l’idea di inviare agli interessati cartoline illustrate con un testo prestampato da spedire alle autorità del Paese in cui si sa che i diritti umani dei/delle prigionieri/e vengono violati.
Uno degli ultimi casi che il sottogruppo di Lugano ha preso a carico riguarda Ilham Tothi, un professore universitario di economia uiguro condannato all’ergastolo nel 2014 per separatismo, dopo un processo lampo, un’accusa che viene spesso utilizzata in Cina contro gli uiguri che si espongono in prima persona per denunciare le violazioni dei diritti umani nei confronti del proprio popolo. L’altro sottogruppo rimasto, quello di Bellinzona, ha «adottato» una giornalista russa in prigione per aver criticato l’operazione speciale di Putin in Ucraina. De Lorenzi ricorda anche importanti battaglie combattute sotto il vessillo AI, come quella contro il commercio mondiale di armi, per la parità tra i generi e quella contro le Pretoriali, le terribili carceri sotterranee che accoglievano le persone fresche di fermo di polizia nei vari distretti ticinesi. «Gabbie minuscole e disumane – spiega il nostro interlocutore – che sono state abolite nel 2006 in quanto ritenute inadeguate a ospitare detenuti e in contrasto con il rispetto dei diritti umani. Il Gruppo 48 ha contribuito al cambiamento, nonostante lo statuto prevedesse che le sezioni potessero segnalare le violazioni dei diritti umani avvenute nel proprio Paese ma non occuparsi delle ricerche o fare campagna direttamente. Con questa regola l’organizzazione intendeva proteggere i propri membri da possibili ritorsioni da parte delle autorità e mettere al riparo se stessa da eventuali interessi nazionali che avrebbero potuto compromettere la sua indipendenza (ora questa regola è applicata con minore rigidità). Quindi abbiamo dovuto chiedere ad un esterno – né ticinese né svizzero – di firmare il nostro rapporto che sconfessava le Pretoriali… E alla fine abbiamo vinto». Più delle battaglie, però, sono le persone ad essere rimaste attaccate alla memoria di De Lorenzi. Che non ha mai smesso di impegnarsi con tutte le sue forze: «Sono ancora attivo, questi sono incarichi a vita, specialmente perché non sono remunerati». Sorride.
Libro pubblicato a fine 2024, a cura di Giacomo Müller. Il simbolo di AI: una candela avvolta da filo spinato.
Così la Cina affronta la guerra dei dazi
Prospettive ◆ Le conseguenze del «Liberation day» in Asia, dove Pechino sta estendendo ancora di più la sua influenza
Giulia Pompili
Per ora la Cina sta vincendo la battaglia, soprattutto sull’opinione pubblica internazionale. Usa le vignette, i meme, ma anche le dichiarazioni ufficiali per dimostrare una cosa semplice: l’autoritarismo di cui ci avete sempre accusato, le pratiche di bullismo commerciale, gli strumenti punitivi sull’immigrazione, adesso siete voi a usarli. E in effetti, da quando è iniziata la guerra dei dazi del presidente americano Donald Trump, il 2 aprile scorso con quello che ha definito il «Liberation day», Pechino ha deciso di rispondere volta per volta a ogni aumento di tariffe da parte americana, fino a quando la leadership cinese non si è dimostrata «l’adulto nella stanza», la potenza responsabile: ha detto che non avrebbe reagito più a un gioco di azioni e reazioni. Era un bluff, naturalmente, perché la Cina ha risposto al 145% di dazi americani alle sue merci, con il 125% di dazi propri per le merci americane, dimostrando di essere in grado di mettere in pericolo l’economia americana, per esempio puntando a un’anonima svendita dei titoli di Stato – la Cina è il terzo detentore di debito pubblico americano. Perfino quando sul sito della Casa Bianca è apparso il dato secondo cui le importazioni dalla Cina verso gli Stati Uniti sono soggette a tariffe fino al 245 per cento, il portavoce del Ministero degli Esteri cinese Lin Jian ha risposto ai giornalisti che gli chiedevano un commento: «Dovete portare questo numero alla parte americana per avere una risposta». Pechino sta replicando al caos di Trump con una linea chiara e coerente: non vogliamo combattere questa guerra, anche se potremmo farlo. Quando l’11 aprile scorso l’America ha deciso di esentare dai dazi contro la Cina diversi materiali tecnologici cruciali, tra cui smartphone e hard disk, in molti hanno capito che la debolezza americana di fronte alla seconda economia del mondo è evidente, perché i grandi colossi tecnologici statunitensi come Apple, Microsoft e Nvidia di fatto dipendono dalla Cina non solo per le vendite, ma soprattutto per
I dazi secondo Trump (il 2 aprile)
la produzione. Ma questo non ferma l’incertezza che si percepisce in Asia a causa delle nuove politiche della Casa Bianca. Se l’obiettivo primario di Donald Trump è il contenimento dell’economia cinese, il presidente americano nella sua caotica politica se l’è presa molto anche con altri Paesi asiatici, che adesso si trovano in una posizione sempre più complicata: i dazi sono sospesi per novanta giorni, e adesso è il tempo dei negoziati.
L’esempio più eclatante è quello del Giappone, che dipende per la sua difesa dall’America, e per questo ha stretti legami anche economici con il Paese – è il principale investitore straniero negli Stati Uniti. Ma a Tokyo sono stati imposti dazi del 24 per cento, una «punizione» faticosa da digerire, tanto che il primo ministro Shigeru Ishiba ha inviato subito il suo ministro per lo Sviluppo economico a negoziare, ancor prima di pensare
a una rappresaglia. Anche il Vietnam ha scelto la via più facile, quella del dialogo: l’aliquota tariffaria «reciproca» del 46 per cento imposta da Trump sulle merci importate dal Vietnam è entrata in vigore il 9 aprile, ed è rimasta per poche ore, prima della riduzione/sospensione al 10 per cento per tutti.
I grandi colossi tecnologici statunitensi – come Apple, Microsoft e Nvidia – di fatto dipendono dalla Cina Il leader vietnamita To Lam era stato uno dei primi a telefonare alla Casa Bianca per chiedere udienza, e Trump aveva accolto la preghiera con soddisfazione. Il Paese asiatico è un caso di successo economico, ma il suo equilibrio si regge sulla cosiddetta «diplomazia del bambù», e cioè con un metodo di flessibilità fra l’Ameri-
Trump fa precipitare le Borse.
ca e la Cina. Grazie a questa capacità vietnamita, per anni diverse aziende cinesi hanno investito in Vietnam e hanno beneficiato delle esportazioni da Ho Chi Minh City a dazi bassissimi verso gli Stati Uniti. E ora la leadership del Paese deve fare i conti con una decisione non facile: Washington chiede di eliminare le corsie preferenziali di cui godono le aziende cinesi in cambio dell’eliminazione dei dazi.
A metà aprile ad Hanoi è arrivato il leader cinese Xi Jinping, come parte di un già programmato viaggio nel Sud-est asiatico. Ed è proprio da lì, con un simbolismo notevole, che il presidente cinese ha fatto un discorso sull’apertura dei mercati che, secondo diversi analisti, è stato ascoltato anche da molti altri Paesi della regione: la Cina è una potenza responsabile e stabilizzatrice, ha detto Xi, ed è pronta a fare la sua parte. Alla tappa successiva in Malaysia, Xi ha ripetuto più
Mi conviene puntare sulle azioni svizzere?
o meno le stesse cose. Sono soprattutto i Paesi del Sud-est asiatico a sapere che Trump ha, in teoria, una finestra temporale al potere. Xi Jinping è leader senza limiti. Ed è forse anche per questo che all’ultima riunione dell’Asean, l’Associazione dei Paesi del Sud-est asiatico, i ministri dell’economia dei dieci Paesi della regione hanno deciso di «non imporre alcuna misura di ritorsione in risposta ai dazi statunitensi», perché «la comunicazione aperta e la collaborazione saranno cruciali per assicurare una relazione equilibrata e sostenibile». Nel frattempo però, la Cina sta lavorando a un trattato di libero scambio con i Paesi Asean che potrebbe essere firmato prima del previsto. E sempre di trattati commerciali hanno parlato già all’inizio di aprile i rappresentanti dei governi di Cina, Giappone e Corea del Sud. Perché la politica «punitiva» americana va di pari passo anche a un potenziale disimpegno americano nel settore della difesa, e questo, per Paesi tradizionalmente alleati di Washington come Tokyo e Seul, è un problema difficile da affrontare. «Per cinque anni l’Amministrazione Biden ha lavorato alle alleanze. A Trump sono bastate due settimane per distruggere la fiducia», dice un diplomatico a Tokyo. Lo sa bene Taiwan, l’isola che la Cina rivendica come proprio territorio e che vorrebbe prendersi senza mai escludere l’uso della forza: anche contro le importazioni da Taiwan l’America ha imposto il 32 per cento di dazi, e per il Governo di Taipei – non riconosciuto ufficialmente dall’America né dalla maggior parte dei Paesi nel mondo – significa dover negoziare nelle retrovie, aumentare gli investimenti su suolo americano e cedere parte del suo principale asset strategico: la tecnologia e la produzione dei microchip.
È una partita delicatissima quella che si sta giocando in Asia, che riguarda non solo il commercio ma anche la sicurezza. Trump sembra pronto a correre il rischio, ma la Cina sta già sfruttando l’occasione.
La consulenza della Banca Migros ◆ Il mercato azionario del nostro Paese si è dimostrato relativamente stabile anche in fasi di volatilità
I dazi punitivi del Governo statunitense mettono sotto pressione il commercio mondiale e di conseguenza i mercati azionari globali. Non è chiaro come si evolverà la politica doganale, anche in seguito ai dazi di ritorsione. In periodi come questi, il mercato azionario svizzero resta un grande punto di riferimento: si è infatti dimostrato relativamente stabile anche in fasi di volatilità. Negli ultimi 50 anni le azioni svizzere hanno conseguito un rendimento medio annuo del 9,4%, quasi identico a quello delle azioni statunitensi (9,6%).
Ecco i motivi a favore degli investimenti nel mercato azionario svizzero
Condizioni quadro stabili La Svizzera è nota per la sua stabili-
tà politica, il basso debito pubblico e un’economia solida e ben diversificata. Tutti questi fattori creano un contesto affidabile per gli investimenti.
Aziende forti con una presenza globale
Molte aziende svizzere, come Nestlé, Novartis o Zurich Insurance, sono leader a livello globale nei rispettivi settori e generano gran parte del loro fatturato all’estero. Questo contribuisce alla diversificazione internazionale. Per ridurre l’impatto dei dazi statunitensi bisognerebbe mantenere prudenza nei confronti delle aziende che servono principalmente il mercato americano, a meno che queste non dispongano di propri impianti di produzione oltreoceano.
Carattere difensivo
Il mercato azionario svizzero è con-
siderato difensivo, poiché molte aziende operano in settori resistenti alle crisi (sanità, generi alimentari
o assicurazioni). Ecco perché, di frequente, le azioni svizzere risentono meno delle fluttuazioni, soprattutto nelle fasi di turbolenza dei mercati.
Moneta forte Il franco svizzero è una delle valute più stabili del mondo e funge spesso da copertura contro le oscillazioni valutarie. Inoltre un franco forte aumenta il potere d’acquisto delle imprese svizzere all’estero, consentendo loro di acquistare materie prime e servizi a prezzi più convenienti e di migliorare la propria competitività.
Dividendi elevati
Sul mercato azionario svizzero, in particolare nell’SMI, vi sono numerose imprese che distribuiscono ogni anno dividendi elevati agli investitori. Ciò è possibile solo grazie a bilanci solidi, modelli di business
promettenti e un’elevata redditività. I dividendi sono preferibili soprattutto nei periodi di volatilità: garantiscono un reddito regolare e riducono le perdite in caso di crolli delle quotazioni.
Chi desidera proteggere il proprio portafoglio trova nelle azioni svizzere un buon contrappeso al mercato statunitense, perlopiù orientato alla crescita.
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Barbara Russo, consulente alla clientela presso la Banca Migros ed esperta in tematiche d’investimento.
La dissidente russa nell’America di Trump
Usa ◆ Una scienziata, fuggita da Mosca per evitare la persecuzione, rischia di essere rimpatriata a causa delle leggi anti-immigrati
Angela Nocioni
Mentre la guerra in Ucraina continua – e Kiev proroga la legge marziale fino al 6 agosto, sospendendo il ciclo elettorale – vi raccontiamo la storia di Kseniia Petrova, una scienziata russa trentenne con un contratto alla Harvard medical school. L’università statunitense l’ha voluta per i suoi studi all’avanguardia sulla duplicazione e l’autoriparazione cellulare. La giovane è anche una dissidente anti-putiniana: è scappata da Mosca per sfuggire alle persecuzioni del Cremlino e dal febbraio scorso è in cella negli Stati uniti, a Richmond, in Louisiana. Un funzionario doganale dell’aeroporto internazionale Logan di Boston – ha di recente raccontato il «New York Times» – le ha annullato il visto e l’ha accusata di non aver dichiarato campioni di embrioni di rana che aveva portato in valigia dalla Francia. Una violazione di questo tipo è di solito considerata lieve ed è punita con una multa fino a 500 dollari. Invece il funzionario ha applicato le nuove norme di Trump per respingere gli stranieri e ha avviato la procedura di incarcerazione.
Lei è diventata una migrante senza documenti, una tra le migliaia di detenuti per questa ragione da quando Trump è entrato in carica
Petrova ora è detenuta in un casermone con altre 90 donne migranti, per lo più lavoratrici latinoamericane. Ci sono solo 5 toilettes in totale. Lei, in cella, legge libri sullo sviluppo cellulare e, quando le viene concesso, gioca a scacchi con le altre prigioniere in attesa. Gli oppositori di Putin sparsi nella diaspora, dopo la stretta del regime sul dissenso, hanno preso posizione: se gli Stati Uniti consegnano una scienziata dissidente al presidente russo varcano una soglia simbolica di grande significato politico.
Intanto l’Immigration and Customs Enforcement ha negato due volte la richiesta di libertà vigilata presentata dall’avvocato della scienziata, sostenendo che c’è un rischio di fuga e che la ragazza è una minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti. In questa storia c’è un dettaglio clamoroso che illumina alcuni aspetti degli Stati uniti nell’era Trump: da Harvard non si sono levate grida di protesta. Al «New York Times» che chiedeva informazioni, una portavoce dell’ateneo ha risposto laconica che l’università «sta seguendo da vicino i rapidi cambiamenti nel panorama della politica dell’immigrazione e
le implicazioni per i suoi accademici e studenti internazionali, ed è in contatto con l’avvocato di Petrova su questa questione». Ma non ci sono state mobilitazioni, marce, iniziative pubbliche di denuncia. Alcuni ricercatori della stessa università nemmeno sono stati informati, dicono di aver avuto la notizia dell’arresto dai colleghi della Petrova che hanno lanciato un appello attraverso GoFundMe per aiutarla a pagare le spese legali.
La giovane scienziata è sempre stata una attivista anti-putiniana. Quando le è stato offerto un contratto in un laboratorio di un centro all’avanguardia e le è stato chiesto di promettere che non avrebbe pubblicato critiche a Putin sui social media ha rifiutato. Il 24 febbraio 2022, quando Putin ha inviato colonne di carri armati russi in Ucraina, era in piazza a Mosca. Il 2 marzo è stata arrestata, accusata di violazione amministrativa, multata e rilasciata. Ha abbandonato la Russia due giorni dopo.
Leonid Peshkin, ricercatore senior presso il Dipartimento di biologia dei sistemi di Harvard, era alla ricerca di qualcuno a cui affidare gli studi sulle fasi più precoci della divisione cellulare. I fenomeni che avvengono in questo momento sono più facili da osservare nelle uova della rana Xenopus, che sono grandi e resistenti. Il team di Peshkin è interessato agli spermatozoi, agli ovuli e a come riparano i danni man mano che l’embrione si sviluppa. Avevano bisogno di qualcuno che padroneggiasse allo stesso modo l’apprendimento automatico nell’autoriparazione delle cellule e la biologia cellulare. Hanno assunto Petrova per questo, lei è arrivata in quel gruppo di studio nel maggio del 2023.
A febbraio, quando è stata fermata, stava tornando da una vacanza in Francia, dove era andata a sentire un concerto. Peshkin, il suo capo ad Harvard, collabora con un laboratorio di Parigi, dove uno dei tecnici aveva scoperto come tagliare sezioni finissime di un embrione di rana. Nessuno ad Harvard sapeva come farlo, Peshkin ha pensato che campioni di alta qualità avrebbero notevolmente accelerato il suo lavoro. In un paio di occasioni i suoi colleghi francesi avevano cercato di spedire i campioni di embrioni per posta, ma gli embrioni arrivavano troppo danneggiati per poter essere usati. Peshkin ha quindi chiesto a Petrova di essere lei a portarli in America.
La scienziata è atterrata a Boston il 16 febbraio scorso. Al controllo passaporti un funzionario ha esaminato il visto J-1 che Harvard le aveva dato e che la identificava come ricercatrice
biomedica. Il funzionario ha timbrato il suo passaporto, quindi l’ha ammessa nel Paese. Mentre si dirigeva verso il ritiro bagagli, un agente della pattuglia di frontiera le ha chiesto di perquisire la sua valigia. Lei ha spiegato che non conosceva le regole. L’agente è stato gentile e le ha detto che poteva andarsene. Poi un altro funzionario è entrato nella stanza e il tono della conversazione è cambiato. Le ha fatto domande dettagliate sui campioni, sulla sua storia lavorativa e sui suoi viaggi in Europa. Le ha poi detto che annullavano il suo visto e le
ha chiesto se temeva di essere rispedita in Russia. «Sì, ho paura di tornare in Russia», ha affermato lei secondo una trascrizione del Dipartimento della sicurezza nazionale fornita dal suo avvocato. «Ho paura che la Federazione russa mi uccida per aver protestato contro il Governo». Il suo avvocato difensore sostiene che il servizio doganale e di protezione delle frontiere non ha il potere di annullare il visto. Ha riconosciuto che Petrova aveva violato le norme doganali, ma ha detto che si trattava di un’infrazione lieve, punibile con
la confisca e una multa. Petrova era stata legalmente ammessa negli Stati Uniti prima che il Governo creasse lo «status di immigrazione indebita» che ora è la base della sua detenzione. Un portavoce del Dipartimento della sicurezza nazionale, alla domanda del «New York Times» sul motivo per cui il visto di Petrova fosse stato annullato, ha detto che l’ispezione aveva rilevato fiale di cellule staminali embrionali nel suo bagaglio senza permessi adeguati. «L’individuo è stato arrestato legalmente dopo aver mentito agli agenti federali sull’introduzione di sostanze biologiche nel Paese», ha detto il portavoce. «I messaggi sul suo telefono hanno rivelato che stava progettando di contrabbandare i materiali attraverso la dogana senza dichiararli. Ha consapevolmente violato la legge e ha preso misure deliberate per eluderla». Quando l’agente della pattuglia di frontiera ha annullato il visto di Petrova, lei è diventata una migrante senza documenti, una tra le migliaia di detenuti/e per questa ragione da quando Trump è entrato in carica. Dal centro di detenzione di Richwood sta aspettando un’udienza in cui presenterà il suo caso di domanda d’asilo a un giudice dell’immigrazione. Se verrà respinta verrà rimpatriata, con tutte le conseguenze del caso. Chissà se nel frattempo l’Università di Harvard avrà deciso se e come intervenire.
Il 24 febbraio 2022, quando Putin ha invaso l’Ucraina, Kseniia Petrova (nella foto) era in piazza a Mosca.
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Il Mercato e la Piazza
Un momento di incertezza straordinariamente alta
Durante il mese di marzo, partendo dai dati disponibili per il primo trimestre, gli istituti di previsione rivedono le loro previsioni per l’anno in corso. Quest’anno i loro comunicati sono stati influenzati dalla grande incertezza che pesava e pesa sul divenire della congiuntura da quando il presidente americano ha deciso di introdurre gravi dazi sulle importazioni del suo Paese. Per il KOF del Politecnico di Zurigo l’insicurezza è ora «straordinariamente alta». Partendo dall’ipotesi che la guerra commerciale non peggiori, l’istituto di ricerca prevedeva, per l’economia del nostro Paese, un tasso di crescita del Pil pari all’1,4% nel 2025 e uno dell’1,9% nel 2026. Anche la Banca nazionale svizzera faceva precedere le sue nuove previsioni dall’avvertimento stando al quale «le prospettive economiche per il mondo e per la Svizzera sono diventate, a cau-
In&Outlet
L’America
sa degli sviluppi commerciali e geopolitici in atto, sensibilmente più insicure». Il gruppo di esperti della Segreteria di stato dell’economia (Seco) ha poi riveduto le sue previsioni «a causa della situazione molto incerta», abbassando leggermente i tassi di crescita del Pil. Per il 2025 dall’1,5% di dicembre all’1,4%, per il 2026 dall’1,7% all’1,6%. Anche in questo caso la nuova previsione si basa sull’ipotesi che la guerra commerciale non peggiori. Per coprirsi le spalle però la Seco ha anche sviluppato due scenari alternativi. Uno poco desiderabile che parte dall’ipotesi che il conflitto commerciale con gli Usa provochi un rallentamento significativo della congiuntura internazionale influenzando così in modo negativo l’evoluzione delle esportazioni del nostro Paese. L’altro scenario è positivo. Parte dall’assunzione che l’incremento straordi-
nario della spesa pubblica che sarà indotto, in Germania e in altri Paesi europei, dai nuovi programmi di riarmo, stimoli anche le esportazioni della Svizzera, imprimendo un colpo d’acceleratore alla congiuntura della nostra economia. Stando alla Seco, in marzo, lo scenario negativo era maggiormente probabile di quello positivo. Possiamo solamente aggiungere che, un mese dopo, la probabilità in questione non è certamente cambiata. Se l’economia rallenterà la sua marcia che cosa succederà in materia di disoccupazione e di inflazione? Ricordiamo dapprima che la revisione delle previsioni di dicembre 2024 è stata fatta quando ancora non si conoscevano le intenzioni del presidente Trump rispetto alle importazioni dalla Svizzera. La revisione verso il basso del tasso di crescita del Pil è avvenuta più perché il clima di insicurezza, che già allo-
che si isola è destinata a perdere
Sembra che Trump sui dazi abbia cambiato idea. Spaventato dal crollo delle Borse, ha fatto retromarcia, parlando genericamente di «pausa». Alla fine qualche legnata all’Europa finirà per darla. E con la Cina continuerà a fare la faccia feroce. Ma la reazione così negativa dei mercati ha fatto breccia nell’animo del presidente. Se invece deciderà di insistere su questa linea suicida, Trump rischia una grave sconfitta alle elezioni di mid term, tra un anno e mezzo. La forza degli Usa è innanzitutto nel loro sistema di alleanze, stipulate secondo la strategia dell’impero romano: diversi popoli, diversi patti; con gli Stati Uniti sempre in posizione di forza, grazie anche a quelle basi militari che parte dell’amministrazione Trump vorrebbe chiudere.
L’isolamento politico, militare, commerciale non è nell’interesse dell’America. I dazi sono un disastro, im-
mediato e futuro. Immediato perché rappresentano di fatto una tassa sui consumi degli americani, destinata ad aumentare i prezzi e deprimere le Borse. Futuro perché una perdita di centralità dell’America nel sistema internazionale indebolisce la sua arma più formidabile: la guida della rivoluzione digitale. Certo, i dazi si applicano sul formaggio e sulle auto più che sui beni immateriali. Ma se gli Usa perdessero l’egemonia tecnologica e commerciale a vantaggio della Cina, dell’India, di un’Europa improbabilmente ma sperabilmente risvegliata, anche l’egemonia politica e culturale sarebbe a rischio. La rivoluzione del nostro tempo, da Internet all’intelligenza artificiale, è stata guidata dalla Silicon Valley. È una leggenda quella per cui i padroni della Silicon Valley sarebbero democratici convertiti al trumpismo; e non solo perché Bill Gates, a suo tempo, sostenne Bu-
sh junior. I padroni della Silicon Valley hanno solo deciso di fare politica in prima persona, senza l’intermediazione del partito e del leader al Governo. J.D. Vance è il loro «Manchurian candidate», l’uomo dalla bella storia personale che loro dirigono. I dazi sono un modo di parlare a quello che Vance è stato: un «hillbilly», un esponente delle classi popolari legate alla vecchia economia produttiva, che l’autarchia di Trump vorrebbe rilanciare. Ma se tornano acciaierie e industrie automobilistiche, serviranno nuovi operai; e quindi nuovi immigrati. Come quelli che Trump fa deportare in catene davanti a fotografi e cameramen. All’apparenza i dazi non toccano quello che Vance è diventato, non danneggiano i signori della tecnofinanza che in lui si riconoscono. Ma alla lunga un’America che si isola è destinata a perdere la sua egemonia. Altro che America di nuovo grande.
Incontrare Trump al Dazio grande
Trump è ubiquo e colonizza le nostre giornate. Dormiamo con Trump, mangiamo con Trump, sogniamo Trump. Forse un giorno ci apparirà nelle vesti di arcigno gabelliere davanti al Dazio grande di Rodi-Fiesso, a chiedere chi sei, dove vai, cosa trasporti… Un salto indietro nei secoli, quando le comunicazioni erano difficoltose e i pedaggi da versare (pontatico ecc.) frammentati e vessatori. Solo nel corso dell’Ottocento si arriverà nei singoli Stati europei ad uniformare condizioni e tariffe («Zollvereine»), al fine di favorire gli scambi, perlomeno all’interno del perimetro nazionale. Rimanevano i dazi alle frontiere, che però non affluivano più nelle casse dei singoli Cantoni, ma nei forzieri della Confederazione. I costituenti regolarono la vertenza agli articoli 23 e 24 della Costituzione federale, promulgata il 12 settembre del 1848. «I dazj sono di competenza federale».
E poi: «La Confederazione ha il diritto di far pagare ai confini svizzeri un dazio di entrata, di uscita e di transito». Il trasferimento degli introiti dal Cantone all’amministrazione centrale non piacque naturalmente al Ticino, che per ripicca non approvò la nuova Costituzione (e lo stesso fece con la revisione totale del 1874). Il ritorno irruente dei dazi è visto dagli apostoli del libero commercio come fumo negli occhi. Vale la pena di ricordare che la Svizzera continua a far parte dell’«Associazione europea di libero scambio» (AELS), fondata nel 1960 in un’ottica di alternativa alla CEE. La stella polare rimaneva comunque il «free trade», ossia la riduzione progressiva di ogni barriera, palese od occulta, che potesse ostacolare le relazioni commerciali tra un Paese e l’altro. Dottrina liberista pura, riflesso commerciale dell’economia di mercato, un sistema basato sull’i-
ra vigeva, ispirava un atteggiamento di prudenza, piuttosto che in seguito alla quantificazione effettiva delle possibili conseguenze negative dei nuovi dazi. Comunque già allora si prospettava che la diminuzione del tasso di crescita del Pil avrebbe fatto crescere la disoccupazione. Il tasso di disoccupazione per il 2025 sarebbe cresciuto dal 2,4% del 2024 al 2,8% (secondo la valutazione fatta dalla Seco) o, secondo la valutazione con i criteri ILO, dal 4,3% al 4,7%. Ovviamente la crescita della disoccupazione potrebbe essere anche maggiore nelle aziende e nelle economie delle regioni in cui l’esportazione verso gli Stati Uniti è particolarmente importante. Per esempio, per il Ticino, tenendo presente questa circostanza, la perdita di posti di lavoro potrebbe variare tra le 750 e le 1500 unità. Di conseguenza il tasso di disoccupazione (calco-
lato con i criteri ILO) potrebbe addirittura aumentare di circa l’1%. Il tasso di inflazione, misurato con la variazione dell’indice dei prezzi al consumo, dovrebbe invece rimanere stabile. Il KOF prevede un aumento dallo 0,5% del 2024 allo 0,6% in media quest’anno. Il basso tasso di rincaro potrebbe indurre una diminuzione del tasso di interesse e dei tassi ipotecari. Tutto sommato, nonostante la revisione verso il basso di diversi indicatori importanti, le previsioni macroeconomiche del mese di marzo non descrivono ancora una situazione preoccupante. Il momento congiunturale è reso però particolarmente difficile dalla mancanza di informazioni precise sulle intenzioni dell’amministrazione Trump. Se nei prossimi mesi non fa marcia indietro in materia di introduzione di nuovi dazi non possiamo che aspettarci il peggio!
Se nell’era della globalizzazione un Paese che ha il 4% degli abitanti della Terra produce ancora il 26% della ricchezza mondiale, non è per via dei dazi. È perché attira le migliori intelligenze del pianeta, oltre a manodopera a basso costo. È perché ha convertito i popoli sconfitti in alleati. Ha basi militari ovunque. Conosce i dati di quasi ogni abitante del mondo. Ha il primato delle comunicazioni e delle informazioni.
È la fabbrica dei sogni e delle idee, nello spettacolo e nella scienza: se c’è un caso letterario, una serie tv, un’invenzione high tech, un vaccino o una medicina nuova vengono dall’America. Ed è inclusiva e aperta alle diversità. Nessuno di questi atout da solo è decisivo. Tutti insieme rappresentano un’arma formidabile: l’apertura al mondo. Forse non è un caso che il Nasdaq, l’indice delle aziende high tech, abbia perso più ancora del Dow
Jones, quello dell’economia tradizionale. Perché si comincia dal vino e dall’acciaio, e si finisce con l’egemonia tecnologica, che oggi più che mai coincide con quella culturale, politica, economica, militare. Il potere più importante non è quello sui territori, ma sulle anime. Poi certo un’egemonia, un impero è anche un fatto di sopraffazione, una fonte di ingiustizie. Gli Usa sono il Paese più ricco del pianeta ma hanno il Terzo mondo in casa, il record del numero dei carcerati, milioni di poveri del tutto abbandonati a se stessi. I dazi vorrebbero parlare all’America profonda, ma Trump non intende affatto usare la leva fiscale per redistribuire la ricchezza o almeno assistere gli indigenti: la sua idea è che il welfare americano debba essere pagato dagli esportatori stranieri. Di fronte a tutto questo, l’Europa può fare poco. Restiamo in attesa.
niziativa dei singoli attori (capitalisti e mercanti), con una presenza minima dello Stato (funzione sussidiaria). Il passaggio alla globalizzazione, sul finire del secolo scorso, è stato rapido, come naturale conseguenza della caduta della cortina di ferro. Quindi niente più impedimenti alla libera circolazione di capitali, merci, servizi e persone tra i Paesi aderenti al GATT (Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio) e al WTO (Organizzazione mondiale del commercio). Chi commercia non guerreggia, si sosteneva, e per qualche anno la formula ha dato buoni risultati. Ma non tutto è andato com’era negli auspici. Sfruttando il differenziale nel costo del lavoro, molte aziende hanno deciso di trasferire i loro impianti nell’ex blocco orientale, oppure nelle fasce di recente industrializzazione dell’estremo Oriente. Il capitale finanziario si è costruito un universo tutto
suo, sganciandosi dall’economia reale (parafrasando un celebre libro di Piero Sraffa, si potrebbe dire che ha prodotto denaro a mezzo di denaro). La dislocazione ha desertificato molti distretti dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti, facendo infuriare la «working class» espulsa dalle fabbriche. Un processo che ha scombinato anche le tradizionali appartenenze politiche, ingrossando le file delle formazioni di destra, le quali non hanno esitato a cavalcare lo scontento e il rancore a fini elettorali. La globalizzazione ha senz’altro giovato alle élites nomadi, la «superclass» che sorvola il territorio anziché mettervi radici, ma ha penalizzato i lavoratori stanziali cresciuti nell’era dello Stato-previdenza o «Welfare State». Ora il rilancio dei dazi promette di ripristinare gli equilibri scardinati dal mercato mondiale. Per qualcuno è un’occasione provvidenziale, un’op-
portunità per riossigenare le economie nazionali, secondo criteri non dettati dai burocrati di Bruxelles. In questo clima sono rispuntati concetti come «autarchia», «protezionismo», «sovranità» (alimentare, energetica, farmaceutica), tutte vie che a prima vista paiono rassicurare un’opinione pubblica sempre più impaurita e disorientata. Il dazio, insomma, come soluzione per rimettere in moto gli ingranaggi arrugginiti delle singole economie, tramite l’iniezione di nuovi capitali e generosi investimenti in conoscenza e tecnologia. Il che potrebbe anche funzionare, se i flussi economici che vediamo quotidianamente all’opera non fossero strettamente interconnessi, sia sul piano merceologico, sia sul piano della forza-lavoro. Un’interdipendenza che rischia di vanificare anche le migliori intenzioni. Ma sicuramente il daziere Trump non mancherà di sorprenderci ad ogni nostro risveglio…
di Angelo Rossi
di Aldo Cazzullo
di Orazio Martinetti
Da provare subito! L’acqua proteica che ti rinfresca.
CULTURA
Il principe e ’U Caravaggiu
La tela della Natività, dopo essere passata tra le mani di criminali e padrini, potrebbe trovarsi in Ticino
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Dal Golem a Gaza Il regista Amos Gitai costruisce un discorso in cui il ricordo diventa strumento di resistenza e visione
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La geografia del minimo Nel nuovo libro di Maurizio Cucchi la poesia si fa corpo sensoriale e traccia memoriale
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Bi-Tà: il corpo come variabile Bianca Berger trasforma lo spazio in un esperimento matematico da mettere in scena con la danza
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Vellutate curve e altre forme di intransigenza
Mostre ◆ La pittura di Casorati e la centralità del nudo come campo di resistenza all’avanguardia spettacolare e alla censura borghese
Sarà che quando abbiamo visitato la mostra di Felice Casorati a Milano avevamo ancora nelle orecchie le recenti esternazioni di Trump che hanno sdoganato anche nel mondo tradizionalmente prudente e felpato della diplomazia internazionale la volgarità irridente, brutale e oscena dello slang, ma aggirandoci nelle sale di Palazzo Reale non abbiamo potuto fare a meno di notare la frequenza con la quale l’artista nato a Novara nel 1883 ha indugiato, nei suoi nudi, proprio su quella parte anatomica che secondo il presidente americano i leader di mezzo mondo farebbero la fila per baciargli dopo la minaccia dei dazi.
La duplice rotondità vellutata delle natiche è in effetti un motivo plastico privilegiato della pittura casoratiana e fa la sua comparsa già in alcune opere degli esordi. Lo si ritrova, ad esempio, in quelle Signorine del 1912 che, come ha giustamente osservato Lionello Venturi, è indubbiamente il suo quadro migliore del periodo che precede la Prima Guerra Mondiale. Nella versione iniziale di questo dipinto, le natiche nude di una delle quattro figure femminili che vi campeggiano in primo piano si riflettevano nello specchio ovale posto dietro i suoi piedi, costituendo un preciso riferimento a uno degli armigeri che affiancano il Santo nelle quattrocentesche Tentazioni di Sant’Antonio di Bernardo Parentino, come riferito dallo stesso artista all’amico Pietro Gobetti. Il senso della decenza d’inizio Novecento non era però quello dell’America di oggi, per cui, quando, dopo essere stata esposta alla Biennale del 1912, l’opera venne acquistata per la collezione di Cà Pesaro da Nino Barbantini, Casorati fu costretto a modificare il dipinto, attenuando la scandalosa rotondità dell’efebico ma prorompente «fondoschiena» riflesso nello specchio (della versione iniziale rimane testimonianza grazie a una fotografia).
La centralità e la fedeltà al genere del nudo, quasi esclusivamente femminile, che attraversa tutte le stagioni della pittura di Casorati se da un lato riflette il confronto con il vero che ha luogo nell’intimità e nella solitudine dello studio (non a caso è proprio questo il titolo di uno dei suoi capolavori che andrà perso nell’incendio del Glaspalast di Monaco nel 1931), dall’altra è frutto di un costante dialogo che l’artista intrattiene con i grandi modelli della storia dell’arte, partendo da Botticelli e arrivando fino a Ingres e Cézanne. D’altronde, come scriveva nel 1940 Albino Galvano che di Casorati era stato allievo, il nudo gli offriva «una forma elementare, categorica, simile a quella delle scodelle, delle uova e dei libri» e soprattutto «la possibilità di un tono uniforme e di un insieme di linee ellissoidali» che sono una costante della sua pittura. Ecco, tra le
linee ellissoidali, così tipiche della pittura di Casorati, accanto alle scodelle vuote e alle uova vanno indubbiamente collocate anche le natiche femminili che non a caso coincidono con il fulcro compositivo di alcuni tra i suoi dipinti più importanti come Meriggio del 1923, Concerto del 1924, Ragazze dormienti del 1927, Donne del 1926-27. Eppure, la sensualità levigata e morbida di queste forme tondeggianti non sembra aver colpito particolarmente la pruderie dei suoi contemporanei, visto che l’accusa che gli veniva rivolta era quella di praticare una pittura cerebrale, decorativa e, aggettivo che più di ogni altro gli dava fastidio, neoclassica. Come ricorda lo stesso Casorati nei suoi pochi scritti, quasi sempre modulati su un calibratissimo registro narrativo, la sua pittura spesso accusata di arcaismi e passatismi, nasceva in realtà da un’aspirazione alla modernità che però rifiutava quelle che lui considerava le facili strade delle avanguardie, in particolare la ricerca fine a se stessa del nuovo e lo sperimentalismo esasperato che considerava unicamente una conformistica e provinciale adesio-
ne alle mutevoli parole d’ordine imposte dal frenetico susseguirsi degli ismi. Per lui era più importante cercare le possibilità di un rinnovamento della pittura restando dentro la tradizione, ossia rimanendo fedele all’essenza immutabile dell’atto pittorico. Allo stesso tempo però Casorati non era nemmeno interessato – è sempre lui a dirlo – «ai pittori legati a un passato sempre più lontano, che si adagiano pigramente su schemi scontati, su ritorni, su restaurazioni, su ripetizioni inutili e noiose». Da questo suo intransigente rifiuto a fare gruppo sia con gli uni sia con gli altri deriva l’impressione di una solitudine e di un isolamento dell’artista nel contesto italiano, che sono veri solo in parte. Negli anni Venti, infatti, anche se rimase sostanzialmente autonoma, la sua pittura venne iscritta e ottenne importanti riconoscimenti a livello europeo nel contesto di quelle ampie e variegate tendenze che pur avendo tratti comuni hanno preso nomi diversi quali Metafisica, Realismo magico, Neue Sachlichkeit.
Per arrivare agli spazi silenti, all’aria tersa e alle figure immote e assorte dei
suoi capolavori degli anni Venti, Casorati aveva però dovuto lottare a lungo con se stesso, recuperando il valore plastico della linea dai grandi protagonisti del Rinascimento toscano, da Masaccio a Botticelli a Piero della Francesca. Alla pittura, Casorati si era infatti avvicinato da autodidatta nei primi anni del Novecento – dopo aver abbandonato lo studio della musica che gli aveva causato una grave malattia nervosa – dimostrando fin da subito una facilità di esecuzione e un virtuosismo non comuni. Paradossalmente fu proprio contro questa sua facilità che fu costretto a lottare per tutta la vita. Il naturalismo iniziale rischiava infatti di scivolare facilmente in un puro esibizionismo tecnico e in un estetismo vuoto che non a caso lo fecero accostare da molti critici a uno dei trionfatori delle Biennali di quegli anni: lo spagnolo Ignacio Zuolaga. La scoperta delle avanguardie europee, in particolare della Secessione viennese, negli anni veronesi quando si legò alla cerchia degli artisti raccolti attorno a Cà Pesaro, lo portò poi a sviluppare per breve tempo un linearismo
lirico, spettrale e decadente, in cui si avvertono forti le suggestioni di Klimt, ma anche di Kandinsky e di Adolfo Wildt. Pure in questa fase però la tentazione della decorazione, come riconosceva lo stesso Casorati, continuava a incombere sulla sua pittura. L’antidoto gli fu infine offerto dall’approdo nel primo Dopoguerra a una pittura in cui la linea definiva volumetrie semplificate ma precise, neo-quattrocentesche, che la luce avvolgeva in un’atmosfera sospesa, magica e modernissima. Nell’arco di un decennio, quello della grande stagione casoratiana, videro così la luce in rapida successione una serie notevole di capolavori, tra scene d’interni, ritratti e nudi femminili, le cui precise e setose forme ellittiche, queste sì, varrebbe la pena, almeno idealmente, mettersi in fila per baciare. Dove e quando Casorati, Milano,
fino al 29 giugno 2025. Orari: ma, me, ve, sa e do 10.00-19.30; gio 10.00-22.30; lunedì chiuso. Info: www.palazzorealemilano.it
Palazzo Reale,
Meriggio, 1923, olio su tavola, 119 x 130 cm (Archivio fotografico del Museo Revoltella –Galleria d’Arte Moderna, Trieste).
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Caravaggio e il principe di mafia
Furti d’arte ◆ «La Natività? Cercatela in Ticino», dicono i pentiti, dopo aver fatto i nomi di chi se la passò per non essere indagato
Andrea Galli
Scivolando di mano in mano fra quelle mafiose, il Caravaggio sequestrato nel 1969 e da allora mai più ritrovato (che infine si pensa sia oggi in Svizzera, Canton Ticino nel dettaglio, ma a casa di chi davvero non si sa – magari proprio da te che stai leggendo), entrò a contatto con le dita affusolate le unghie rifinite la pelle morbida, insomma con le mani del «principe» di mafia. Ovvero il fu Stefano Bontate allevato dai padri gesuiti che l’ebbero quale studente modello ed entusiasta, e poi cresciuto uomo poliglotta, curioso, di mente aperta e sveglia, di modi cortesi e affascinanti, nemico dichiarato e rivale acerrimo nelle faide dei boss di Totò Riina e su ordine di quest’ultimo fatto assassinare quand’era il 1981; un uomo, Bontate, denominato «il falco» rimandando egli una certa fierezza a cominciare dallo sguardo con quegli occhi che erano strette e lunghe fessure e quella bocca dalle piccole e serrate labbra, un uomo che amava definirsi «principe» non avendo nulla di nobile nel sangue, proprio nulla, pur animando egli i salotti della borghesia non soltanto siciliana, viaggiando ovunque in Italia e nel mondo, innamorato per prime di Roma e della Toscana, a visitare le mostre e incantarsi innanzi ai dipinti, e ancora incontrando pittori e gioiellieri e scultori e altri artigiani raffinati per esempio fabbricanti di vestiti e tappeti; un uomo, Stefano Bontate, imparentato con una deputata democristiana, abile conversatore, intimo di comici e di attori, che ambiva al bello, alla qualità dei momenti, all’arte del cibo e a quella del vino, alla lettura e al rapporto tattile con l’oggetto-libro, e insieme, insieme a tutte queste qualità, era un essere luciferino e feroce, spietato, decretava e dava morte in ordine sparso e diffuso.
Un boia di mafia, come certificato dalle sentenze passate in giudicato. Dopodiché nella storia infinita della Natività, unica opera palermitana del Caravaggio realizzata tra il 1600 e il 1609, e sparita nella notte del 18 d’ottobre 1969 dall’oratorio di San Lorenzo a Palermo nella zona della Kalsa, quartiere centrale della città, di mosaici bizantini e vivacità e colori della vita tutta che ha reso e renderà in eterno ebbro di creatività qualsiasi artista o anche suvvia non artista che si trovi a transitare, aromatica, densissima, dunque si diceva nella storia infinita della Natività sembra acclarato, in virtù di testimonianze di collaboratori e pentiti, di verifiche incrociate degli inquirenti, dell’opera di sintesi della Commissione parlamentare anti-mafia, il coinvolgimento dei padrini.
Ma non da subito in quanto all’inizio l’opera, una pala di grandi dimensioni di tre metri per due, forse venne arraffata da gentaglia che campava di furti e non era affatto organica alla criminalità organizzata, non figurava nell’elenco ufficiale dei suoi soldati; poi certamente, pure fruendo purtroppo d’una certa lentezza nelle indagini, magari anche di una iniziale sottovalutazione nell’ignoranza rispetto al tesoro depredato oppure nella convinzione che la caccia non sarebbe stata faticosa; del resto come rimarcato dalla medesima Commissione parlamentare vi furono una scarna raccolta di informazioni e una progressione poco incisiva delle forze dell’ordine. Ma sempre meglio tardi che troppo tardi e la Procura di Palermo a un certo punto battezzò il recupero della Natività quale obiettivo fra i primi da raggiungere, sicché i magistrati procedettero, stavolta con furia, all’ascolto a tappeto di mafiosi arre-
stati, e una sorta di parere comune, al netto delle presunte verità uscite dalle bocche velenose e infide dei mafiosi stessi, indirizzò le ricerche verso Bontate e la sua famiglia.
Quel Caravaggio era transitato dal «principe» e di sicuro posizionato in soggiorno ed esibito in faccia ai periodici ospiti illustri fra i quali primeggiavano alti prelati e politici, poiché se non l’organizzazione del furto, che
conviene ripeterlo fu piuttosto un’azione spontanea di balordi, quantomeno la gestione successiva della tela ricadde senza troppi dubbi investigativi sul mandamento mafioso di Santa Maria del Gesù, giustappunto capeggiato da Bontate. ’U Caravaggiu, così chiamavano l’opera a Palermo, non sostò a lungo dal «principe» il quale, ammesso l’avesse posseduto in via temporanea, se
Dal ponte che crolla all’albero che vola
ne disfò a sua volta cedendolo a fratelli di mafia, fin quando, stando a sentire il resoconto d’un pregiudicato, saltò fuori un presunto trafficante di opere d’arte di origine svizzera, anziano d’età. Il Caravaggio, che risultava sfilacciato sulle parti laterali dopo che qualcheduno aveva tolto la cornice senza particolare perizia, un po’ come veniva, forse manovrando con una lametta da barba, era stato portato in Canton Ticino, a Lugano nella fattispecie, e consegnato a quel trafficante che pare agisse per altri. La mafia altro non aggiunse. Quel tizio, appena vide il dipinto, reagì nel seguente modo (il racconto è del mafioso collaboratore di giustizia incaricato di svolgere la trattativa): «Guardava il Caravaggio, mi ha chiesto il permesso se poteva restare un po’ di più a guardarlo, gli sono spuntate le lacrime».
Si disse nel tempo – la mafia cercò di propagare queste voci – che la Natività fosse stata bruciata, che fosse stata distrutta e buttata in una discarica, seppellita sottoterra, mangiata dai ratti, tante se ne dissero, ma tante, ed erano manovre dei mafiosi per togliersi di dosso le indagini, «siccome ero stressato dalle situazioni… Avevano ammazzato i miei familiari… Con Falcone notte e giorno… Non si stancava mai Falcone… Si è presentata un’altra personalità, un colonnello, e gli ho detto “L’ho bruciato io personalmente”, gliel’ho detto per non essere più disturbato». Parole di Francesco Marino Mannoia, che fu alle dipendenze di Bontate, classe 1951, collaboratore di giustizia, vivente, detto «il chimico» per le capacità non comuni nel raffinare l’eroina. Morto il capo, celebrati i funerali del «principe», divenne un fedelissimo del suo assassino, Totò Riina.
Fotografia ◆ Cronaca visiva di mezzo secolo in una mostra dedicata a Luisoni che, sfidando il tempo, ha documentato i cambiamenti del Mendrisiotto
Giovanni Medolago
Ha compiuto pochi mesi fa 80 anni, 50 dei quali dedicati da artigiano / artista / fotografo al suo Mendrisiotto. Attento testimone dei cambiamenti intervenuti in questo mezzo secolo e altrettanto attento a non cadere nella trappola della nostalgia dei tempi che furono, ha sottolineato con le sue immagini vuoi le bellezze vuoi le magagne della sua terra. La Valle di Muggio in particolare, dove Giovanni Luisoni è approdato dopo l’adolescenza trascorsa a Stabio. Oramai innumerevoli le sue pubblicazioni, dove spesso la prefazione è affidata all’amico Alberto Nessi, il quale lo ha definito «un cacciatore d’immagini». Un cacciatore curioso, che ti scopre un ritratto di Cristoforo Colombo incorniciato dal telaio di una finestra e minacciato dall’edera; paziente quanto basta per aspettare sia il momento clou della demolizione del vecchio ponte di Castel San Pietro, sia per documentare un «Albero che vola» da far invidia al realismo magico di Gabriel G. Marquez! La pazienza, tuttavia, Luisoni la testimonia forse soprattutto nella sua tenacia, volta alla ricerca della luce giusta con cui poi giocare col suo amatissimo bian-
co&nero in una baraonda di ombre e chiarori.
Al cantore per eccellenza del nostro sud, la galleria fotografica più a nord del Ticino – Casa Donetta a Corzoneso – dedica una personale, (Cinquant’anni a passo d’uomo) accompagnata da tre immagini scattate dal «Rubertun». Una mostra che sottolinea ancora una volta il rispetto che Luisoni nutre nei confronti dei suoi soggetti, ritratti con un’empatia tale che potrà sfuggire solo allo spettatore più distratto. È ad esempio commovente l’immagine della vedova che veglia sulla lapide del marito nel cimitero di Erbonne, sulle falde italiane del Generoso. Nettamente più distesa, ovviamente, l’atmosfera d’amicizia che si percepisce nel ritratto del grafico Max Huber, sorridente e sornione nella sua casa di Sagno. Riguardo alla sua maestria nel gestire il b&n, Luisoni raggiunge forse l’apice con gli «Scolari», colti durante una lezione di disegno all’aperto su una stradina di Morbio: un groviglio di chiaroscuri!
Altra peculiarità che ci sembra di poter cogliere negli stilemi di Luisoni, è la sua voglia di frapporre volen-
tieri davanti all’obbiettivo un ostacolo (vuoi un minaccioso e prepotente muro, oppure una più discreta rete metallica, o ancora un velo, appena) per
poi svelarci quanto ci sia oltre questi ostacoli. All’insegna del carpe diem possiamo tranquillamente situare «Al
pallone sulla via»: un contrasto aereo tra due ragazzini che si contendono il pallone.
Non poteva infine mancare un omaggio a quella civiltà contadina che il suo maestro Guido Pedroli documentò nella sua apoteosi di metà Novecento. Luisoni sembra volerne ritardare la scomparsa definitiva: scova un taglialegna definito addirittura «Tritatutto» o la casa dove si producono ancora i famosi furmagin da la Val da Mücc . Con due diagonali a tagliare l’inquadratura, ecco poi il rientro alle stalle di una decina di mucche, pacificamente in fila indiana.
Dopo il finissage in Val di Blenio, le stesse foto – epperò con l’aggiunta di qualche inedito – saranno proposte a partire dal 17 maggio al Museo Etnografico della Valle di Muggio a Cabbio.
Dove e quando
Cinquant’anni a passo d’uomo, La Valle di Muggio di Giovanni Luisoni Casa Rotonda di Casserio/Corzoneso Sa e do dalle 14.00 alle 17.00 (chiuso il 19 e 20 aprile). Fino al 4 maggio.
Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d’Assisi, dipinto a olio su tela di Caravaggio, è scomparso nel 1969. (Cuppoz)
Al pallone sulla via di Giovanni Luisoni, 1968.
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* Azione 20% su tutto l’assortimento di prodotti per l’igiene femminile e l’incontinenza, a partire da 2 pezzi; dal 22 aprile al 5 maggio (escl. confezioni multiple, o.b., sacchetti igienici e M-Budget).
Quelle perdite involontarie
L’incontinenza colpisce molte persone. Con i prodotti per l’igiene è possibile ritrovare sicurezza e benessere. Ed è possibile agire per ridurre al minimo le perdite di urina.
1
Rafforzare il pavimento pelvico
L’allenamento mirato dei muscoli del pavimento pelvico contrasta l’incontinenza. Questi sport rafforzano il pavimento pelvico: camminare, nuotare, andare in bicicletta.
2 Mangiare in modo equilibrato
Alcuni alimenti possono avere un effetto negativo sull’incontinenza. I cibi piccanti producono urine pungenti e irritano la vescica. Lo stesso vale per i cibi acidi.
3 Bere a sufficienza
Se i reni ricevono troppi pochi liquidi, l’urina si concentra e irrita la vescica. Anche contro l’incontinenza si consiglia quindi di bere almeno due litri al giorno.
4 Utilizzare un prodotto protettivo
L’incontinenza non deve necessariamente ridurre la qualità di vita. I prodotti protettivi garantiscono una maggiore sicurezza nella vita quotidiana. Così potrai dedicarti a tutte le tue attività preferite in modo rilassato.
La Società svizzera per l’incontinenza offre ulteriori consigli e consulenza: inkontinex.ch
Dentro le crepe della società israeliana
Intervista ◆ Il regista israeliano Amos Gitai indaga sull’eredità ebraica, sull’illusione della salvezza e sulla necessità di un nuovo linguaggio per comprendere il conflitto
Viviana Viri
Da oltre quarant’anni, Amos Gitai indaga la complessità del contesto mediorientale con uno sguardo particolare, capace di racchiudere mondi diversi, fatti di esili e partenze senza ritorno. Dal documentario House (1980), dedicato alla storia di una casa di Gerusalemme ovest, appartenuta a una famiglia palestinese e poi riassegnata a una famiglia di ebrei algerini, al suo ultimo film, Why War (2024, presentato anche alla Mostra del Cinema di Venezia) – una pellicola che si interroga sulle radici della guerra –sino alla pubblicazione di A Private Glossary (Rizzoli, 2025), in cui ha raccolto alcune delle riflessioni che accompagnano la sua filmografia; un glossario intimo, che ripercorre la sua vita e il suo percorso artistico. Lo abbiamo intervistato.
Non è un periodo facile… Quello che vivo in questo momento è un rapporto profondamente contraddittorio. Da un lato, mi sento legato alla grande eredità della cultura ebraica, che ha portato così tante idee straordinarie alla nostra civiltà; dall’altro, sono sconvolto dal modo in cui i politici contemporanei hanno tradito i principi fondanti della nostra cultura. In Israele oggi ci troviamo di fronte a una realtà politica difficile: manca una figura capace di avere coraggio, e persino ottimismo, nonostante tutto ciò che sta accadendo in Medio Oriente. Qualcuno che sappia guardare avanti, tendere la mano e creare un dialogo. L’assenza di una visione di questo tipo è drammatica. In questo contesto, il film che ho dedicato all’assassinio di Yitzhak Rabin diventa un vero e proprio atto civico. Il suo ultimo film, Why War è una riflessione universale sulla guerra, ma l’urgenza di realizzarlo è legata agli eventi del 7 ottobre e a quanto accaduto in seguito. Quali sono le sue considerazioni oggi, a un anno e mezzo di distanza?
Penso che questo sia un momento estremamente triste per il Medio Oriente, per israeliani e palestinesi. È fondamentale che cerchino di intraprendere nuove strade nelle loro vite, perché non possono continuare a perpetuare questo conflitto senza fine, che porta con sé soltanto distruzione. I miei pensieri sono costante-
mente rivolti a ciò che sta accadendo nella regione, sebbene non appartenga a nessuna fede religiosa, a volte ho la sensazione che dovrei fermare tutto e iniziare a pregare.
La sua intera filmografia indaga questi eventi, in che modo il suo percorso personale ha influenzato le sue scelte?
Quella che ho deciso di intraprendere circa quarant’anni fa è stata una sorta di missione. Avrei dovuto seguire le orme di mio padre e diventare architetto, ma poco dopo i vent’anni fui chiamato a prestare servizio come riservista nella guerra del Kippur. Al mio ritorno, dopo essere sopravvissuto all’abbattimento dell’elicottero su cui viaggiavo, sentii il bisogno di trovare un mezzo che mi permettesse di raccontare in modo più diretto ciò che accadeva nella mia regione. Mi interrogo di continuo su come sia possibile portare avanti la produzione artistica e culturale in un luogo che vive perennemente in uno stato di crisi. È come stare seduti su un vulcano in continua eruzione. L’intera situazione, il modo disumano in cui le persone si comportano le une con le altre, va oltre qualsiasi cosa si possa esprimere a parole. Credo che l’arte non possa cambiare la realtà nell’immediato, ma possa lasciare una traccia indelebile: questo è il suo potere. Penso sempre a ciò che ha fatto Picasso: con Guernica, ha impresso nella memoria collettiva l’orrore dei bombardamenti nazisti e fascisti sulla città basca. Fortunatamente o sfortunatamente, non possiamo cambiare il corso della storia, ma possiamo far sentire la nostra voce. Fare cinema o teatro non significa trasformare all’istante la realtà, ma influenzare il modo in cui alcune persone la percepiscono. E questo è già un inizio.
Una delle peculiarità di Why War è l’assenza di immagini di guerra: il film preferisce la parola come strumento per esplorare i meccanismi e le origini della violenza. Quanto influisce il modo in cui la guerra viene raccontata sulla percezione della realtà?
Ho realizzato un film sulla guerra senza mostrarne le immagini perché credo che i media, trasmettendo di continuo scene di conflitto, finiscano
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a volte per alimentarlo. Se, da israeliano, vedo senza sosta storie di rapimenti e stupri, questo non può che aggravare la mia percezione della realtà. Se, da palestinese, assisto ogni giorno alla distruzione di Gaza e al massacro di un numero incalcolabile di persone, come posso desiderare che tutto questo finisca? Il modo migliore per raccontare la guerra non è concentrarsi sul conflitto, ma cercare di mostrare delle alternative: modi in cui le persone possano relazionarsi, superando la convinzione che i rapporti di forza siano l’unico strumento possibile. Anche l’Europa, non molto tempo fa, ha vissuto due guerre mondiali costate la vita a milioni di persone, solo per giungere alla consapevolezza che i conflitti possono essere risolti senza ricorrere alla guerra. Eppure, osservando ciò che sta accadendo oggi, sembra quasi che alcuni abbiano dimenticato quella lezione. Spero che le persone riescano finalmente a comprenderlo.
Why war esplora inoltre il rapporto tra le scelte individuali e il contesto sociale e politico, cercando di comprendere perché la guerra continui a essere vista come una risposta ai conflitti.
Il film riflette su un carteggio tra Einstein e Freud, in cui, già novant’anni fa, si interrogavano sulle ragioni per cui gli esseri umani faces-
sero la guerra. Questa domanda resta attuale ancora oggi: perché persone intelligenti ricorrono alla violenza per risolvere i conflitti, invece di trovare altre soluzioni? Io non mi schiero da nessuna parte. Condanno le atrocità commesse da Hamas, così come la distruzione che sta avvenendo a Gaza. Il mio sguardo non è etnocentrico: provo vicinanza e senso di giustizia nei confronti di entrambe le parti.
Nei suoi film sono presenti numerosi riferimenti personali e familiari, legati a un altro tema centrale della sua ricerca: l’identità ebraica. Parte della corrispondenza relativa alla storia di mia madre si trova al Centro Primo Levi di New York ed è stata raccolta in un libro: Storia di una famiglia (Bompiani, 2012). I suoi genitori fuggirono dalla Russia dopo l’ondata di pogrom scatenata dal fallimento della Prima Rivoluzione Russa. Mia madre nacque nel 1909, lo stesso anno in cui fu fondata Tel Aviv, sorta accanto alla città palestinese di Giaffa. Quella generazione di uomini e donne non aveva uno Stato, ma possedeva una forte identità. Erano ebrei, ma non osservanti. Non erano religiosi, eppure amavano profondamente la loro identità e riuscirono a vivere in un luogo che sentivano loro, un posto che avevano contribuito a costruire ben prima della nascita dello Stato di Israele.
Non avevano bisogno che qualcuno spiegasse loro cosa significasse avere un’identità ebraica, né sentivano il bisogno di spiegarlo ad altri. Da queste persone possiamo trarre grandi lezioni sull’identità: sono una fonte inesauribile di ispirazione. Grazie a loro possiamo riflettere, creare il nostro percorso e la nostra strada, guidati proprio dal nostro passato.
Lei ha dedicato una trilogia al Golem, Nascita di un Golem (1990), Lo spirito dell’esilio (1992), Il giardino pietrificato (1993), una figura piena di significato nella mitologia ebraica. Cosa rappresenta per lei? Il Golem raffigura una grande simbologia legata all’identità, poiché è la risposta a un’oppressione. È stato creato come un simbolo per permettere alla popolazione ebraica di liberarsi e salvarsi dai loro oppressori. Tuttavia, se non viene trattato con cautela, se questo artificio non viene maneggiato con attenzione, si corre il rischio di essere distrutti, e in fondo è proprio quello che sta accadendo. Si tratta del rapporto tra ciò che creiamo e i suoi effetti, che può portarci al progresso o, al contrario, alla distruzione stessa. Ho discusso di questi temi con Jean-Luc Godard poco prima della sua morte; lui era molto affascinato dalla Cabala. Credo che in queste riflessioni si possa trovare qualcosa che ci salvi.
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Identità smarrite nel quotidiano
Poesia ◆ Con La Scatola Onirica, Cucchi esplora la fragilità della memoria, della lingua e dei legami umani
Guido Monti
Nel nuovo libro di Maurizio Cucchi, La Scatola Onirica (Lo Specchio, Mondadori; candidato al Premio Strega Poesia 2025) torna tutta quell’idea dello scrivere che muove il grande autore sin dai suoi esordi poetici e anche poi via via nelle forme narrative, che non può che intendersi se non come attività di scavo attraverso gli arnesi dei sensi, educati sin dalla giovinezza a essere sempre adiacenti alle cose del mondo. Sonde rabdomanti che captano l’accadere minimo del sempre incerto, talvolta tragicomico quotidiano riportato in verso nella sua molteplice contraddittorietà: «E allora vado io in mentale / escursione nei tempi in cerca di tracce / in luoghi sparsi e minimi partendo / in un circuito di radici nella domestica / geografia del minimo / da Cascina Spagnola località / corpi santi di Pavia… / […]». Quasi il lettore diviene parte del teatro naturale che va disegnandosi nella pagina. Un’esplorazione del quotidiano attraverso le sue fratture, dove la poesia si fa strumento per cogliere la fragilità della vita vissuta
Dicevamo attività di scavo e certo essa non può che prendere l’abbrivio da quel territorio minimo lombardo fatto di piccole comunità costituitesi nei tempi delle generazioni e dove, risalendo da individuo a individuo, si ricompone un’origine, un legame. La terra appunto, ha in qualche modo, l’umore di queste donne e uomini che vollero fortissimamente fondarvi qualcosa; il poeta richiamando il linguaggio degli antropologi difatti titola
la prima sezione, Quartiere di lignaggio. Tutto questo esserci e permanere, si invera altresì nel nomen familiae, come elemento quasi di un’antropologia appunto della identità: «E io son lì sorridente o quasi / allibito / davanti al cartello stradale che introduce / a un villaggio, a un primo agglomerato / con il nome di, niente meno, / Casa Cucchi e poi mi informo. / […]». Così come il lignaggio, anche il linguaggio viene costruendosi e cambiandosi nel corso dei secoli, quasi di essi ne sussuma quei larghi giri di fonemi sempre in movimento per l’aria. E con sorprendente gioco inverso però, Sabatino, personaggio caro al poeta e che si palesa nelle pagine, è ossessionato invece dalla ricerca di quel momento d’inizio vicino «all’afasia», da dove forse la parola prese spunto. Tutto questo, Cucchi ce lo dice dall’unico fronte che riconosce e ama, quello dell’incontro. Il cercatore è lì, con Sabatino ma anche con gli altri anonimi personaggi, nel vasto territorio, si sporca nel fango e quasi per attrito, il grande spirito delle generazioni che vi abita, gli va dentro e lo fa parlare con parole a lui del tutto in apparenza sconosciute.
Ma in questo libro sono tante le ricerche che avanzano di pari passo: quella, per esempio, sulla povertà e precarietà dei legami ed ecco allora ricomparire la traduzione della poesia così moderna, del grande scrittore francese duecentesco Rutebeuf ma anche quella su talune amicizie, che segnarono irreversibilmente il tempo di un rapporto dentro un territorio, nella sezione Dediche e devozioni Ecco allora che memoria, è anche rievocazione di una relazione, magari ritraversando i punti cardinali della
città di Milano. Lo sguardo si apre a uno slargo, riparte un sorriso, un dialogo, un ammonimento perduto: «Cammino, ancora un po’ trasognato, / nei tuoi luoghi in città, e dunque volta a volta / Fiori Chiari, San Gregorio, Fatebene – / fratelli, nell’attesa e nell’ansia / di vederti, chissà, magari spuntare / da un portone per un mio nuovo abbraccio. / […]».
Lo sviluppo davvero acuto in questo libro è però il rapporto che c’è tra emozione trascritta del vivere quotidiano e visione trasfigurata, anche e non solo, di tutto questo, nella dimensione del sogno. Quasi il poeta viva due vite, quella dell’osservatore diurno ma anche dello spettatore notturno di ulteriori visioni che portano in un luogo ambiguo che dà però nuove interpretazioni al vivere. Lì in quel tempo mediano, si riconosce o forse non si riconosce un individuo, uno spazio, tutto appare sì definibile
Immagine della copertina del libro di Maurizio Cucchi, La Scatola Onirica (Lo Specchio, Mondadori)
ma al tempo immediatamente indefinibile. Ecco, per Maurizio Cucchi ogni cosa fugge nelle forme, nulla è immobile, nel sogno come certo nella realtà; ma anche nella sezione L’immagine, La parola dove il verso si sofferma nella descrizione emozionata delle opere dei grandi artisti del Novecento, l’autore sembra ancora suggerirci, che anche il colore immette in uno spazio onirico e al tempo pensante, dove il confine cromatico dei segni, delle forme, spinge l’osservatore a un punto di commozione e comprensione del reale, assolutamente nuovo e rivelatore. Ecco le suggestioni scaturite dall’opera Il Sacco, di Alberto Burri: «[…] / Lacerazioni dove si incrostano i residui / in tracce del quotidiano esserci, in una strana / geografia umilissima che allude, / che allude e insieme ci racconta, / racconta questo precario nostro sacco / di pensieri, di sentimenti e cose».
Una lotta sinonimo di abbandono
E poi infine dai colori della tela, ecco nell’ultima sezione, far capolino quelli del cielo, cinema in movimento dalle forme precarie e incerte, dove come osservatori di passaggi celesti, si è abbandonati a un senso di piccolezza e inquietudine ma anche di ricezione assoluta per il nostro essere, per chi sappia davvero recepire: «C’è chi si aggira con lo sguardo al suolo / e dunque a capo chino e chi invece / osserva diversamente il mondo / in cui si trova immerso e scruta, perlustra / lassù i disegni fantastici e insondabili / di minute particelle…/[…]». Ecco, Maurizio Cucchi ci consegna con la Scatola onirica, un libro tra i più acuti degli ultimi anni, ove confluiscono anche talune poesie già pubblicate tra il 2021 e 2022 in altri volumi. Egli traversa, ancora una volta, l’aperto della vita intesa come continuo accadere, con parole che mantengono lo spessore della vibrazione, la commozione dello stupore, anche l’indignazione talvolta, per un corpo sociale che come diceva il suo caro amico e maestro, Giovanni Raboni, non è divenuto mai pienamente comunità. Un libro, mi si permetta, che contiene anche un invito, forse involontario, per tutti i lettori di vivere per ricercare; cosa? magari le tracce di un amore, un’amicizia, una parola, un viso perduto dietro una fotografia, un quadro, nella scia di un sogno. Non arrendersi in questa multiforme attività di scavo, l’unica che ci renda davvero degni costruttori di una memoria e quindi di una civiltà.
Bibliogragia
Maurizio Cucchi, La Scatola Onirica, Lo Specchio, Mondadori, 2025.
Pubblicazione ◆ Olga muore sognando è un ritratto familiare e politico, nel quale le scelte di due fratelli si intrecciano con le ambizioni di una madre militante
Laura Marzi
Olga muore sognando della scrittrice statunitense di origini messicane Xochitl Gonzalez, pubblicato da Fazi Editore con la traduzione in italiano di Giuseppina Oneto, è un romanzo familiare, ma lo è in un modo decisamente eccentrico. I protagonisti di questa storia sono Olga e suo fratello Prieto: lei organizza matrimoni per persone molto ricche e lui è un membro del Congresso degli Stati Uniti d’America. Il romanzo attraversa in modo non lineare diverse fasi della loro vita, da quando sono ragazzini e abitano con la nonna a Brooklyn al presente della storia in cui sono due persone adulte, di circa quarant’anni.
Quando Olga aveva dodici anni e Prieto quindici la loro madre Blanca li ha abbandonati per dedicarsi interamente alla lotta politica per liberare Portorico dal controllo statunitense, i due ricevono regolarmente lettere da lei ma non l’hanno mai più vista. Lei sa tutto delle loro vite grazie a una rete di compagni di lotta che tengono d’occhio le mosse dei suoi figli e soprattutto con l’aiuto dell’amica e compagna di militanza Karen, mentre loro non sanno neanche dove abiti la madre. Il padre è morto di AIDS quando Prieto non aveva ancora vent’anni, era un tossicodipendente e ha contratto la
malattia a causa dell’uso di una siringa infetta.
Sembra la trama di una storia estremamente drammatica, e lo è, ma il tono in cui Xochitl Gonzalez la racconta è talmente vitale che l’impressione di chi legge non è quella di trovarsi di fronte al racconto di una tragedia familiare, bensì a un intreccio di vite decisamente appassionante. L’ingrediente che l’autrice utilizza per scrivere un romanzo che nonostante le tematiche non è affatto angosciante è quello dell’ironia e dell’equilibrio tra momenti di dolore e altri di sollievo, esattamente come avviene nella vita reale.
L’obbiettivo di Blanca è condurre i suoi figli sulla strada della ribellione, per questo è estremamente delusa della scelta di Olga di tralasciare i suoi talenti: la sua intelligenza e la sua forza, per dedicarsi al lavoro della wedding planner, con l’aggravante che i matrimoni che organizza sono quelli degli statunitensi WASP, cioè di coloro che Blanca considera il nemico. Anche Prieto la delude molto: in un primo momento aveva sperato che lui avesse la stoffa per dedicarsi alla causa portoricana, ma quando il figlio, proseguendo nella sua carriera politica, dà prova di essere pronto a forti compromessi
con il potere, Blanca decide che lui è un «lombriz»: nient’altro che un verme. Il racconto delle vite di Olga e di Prieto dimostra come la loro madre non sappia nulla della difficoltà della figlia di riuscire a vivere dignitosamente negli Stati Uniti, né del fatto che Prieto viene ricattato da un gruppo di imprenditori che vuole fare speculazione edilizia nel suo quartiere, Brooklyn, e lo minaccia di rivelare la sua omosessualità. Il romanzo racconta in effetti la parabola che i due devono compiere per liberarsi del fantasma della loro madre e della paura più profonda che hanno: «Buon Dio, ti prego,
Immagine della copertina del libro di Xochitl Gonzalez, Olga Muore sognando (Fazi Editore)
fa sì che io possa provare di nuovo cosa significa essere amati». Il romanzo di Xochitl Gonzalez è anche una storia politica, non solo per il racconto della vicenda di Portorico e degli scandali dopo l’uragano Maria (2017), ma perché ci mette di fronte ai cambiamenti avvenuti nel modo stesso di intendere l’impegno civile e politico, dagli anni Settanta a oggi. Blanca è una donna che non ha voluto fare passi indietro rispetto a quegli ideali che la portavano alle manifestazioni in piazza e per questo finisce per abbandonare la sua famiglia e diventare latitante. La storia di Prieto ci racconta invece di
come la politica si sia legata a filo sempre più stretto con gli interessi economici e di quanto lo spazio per gli ideali sia diventato inesorabilmente più esiguo. Inoltre, il romanzo di Gonzalez ci offre uno spaccato di una parte della popolazione statunitense che di rado è protagonista dei romanzi che vengono tradotti in italiano, i cosiddetti latinos, coloro che nelle elezioni del 5 novembre scorso hanno votato in maggioranza Donald Trump. Infine, questo libro ha il merito indiscusso di affrontare un tema fondamentale nella letteratura, il rapporto con la madre, e di farlo in modo del tutto originale. Blanca se ne è andata, è una guerrigliera e non ama i suoi figli a prescindere, perché loro la deludono rispetto a ciò che per lei è più importante, cioè la lotta per la liberazione di Portorico, ma Olga e Prieto crescono con l’amore del loro padre, fino a un certo punto, e poi della nonna, degli zii. Per Gonzalez infatti «è un mito della maternità che il tempo trascorso nell’utero instilli nella madre una comprensione a vita dei figli».
Bibliografia
Xochitl Gonzalez, Olga muore sognando Fazi Editore, 2024, pp. 432.
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Geometrie del possibile
Spettacoli ◆ Con Bi-Tà il calcolo delle probabilità diventa corpo, ritmo, scelta, in uno spazio dove ogni variabile è presenza
Giorgio Thoeni
Una parete bianca è lo sfondo sul quale verranno via via scritte a mano delle cifre predisposte per essere calcolate secondo formule prestabilite. Una fune gialla pende lunga dal soffitto con dei segni colorati a cadenzarne la lunghezza. Infine, delle carte contrassegnate Bi, le rosse e Tà, le blu. Quelle carte verranno mostrate su indicazione dell’artista durante la sua esibizione e inizialmente nascoste sotto le sedie della platea. Sono gli elementi che appartengono in buona parte alla struttura scenografica (Prisca Grandi) che accompagna l’esibizione di Bianca Berger, danzatrice locarnese laureanda in Matematica all’Università di Bologna, alle prese con il suo spettacolo-performance Bi-Tà. Dopo la pre-education di un anno presso la Copenhagen Contemporary Dance School e la formazione allo Studio XL di Reggio Emilia, Bianca Berger consegue la laurea in Danza e Coreografia alla Scuola Nazionale Danese di Performing Arts a Copenaghen sotto la direzione di Rasmus Ölme. Già ospite nel 2023 del Teatro San Materno con Fermati al limite, una sua prima produzione sempre legata alla matematica, nel 2024 è in cartellone con Bi-Tà al Festival Internazionale del Teatro di Lugano. Più recentemente l’abbiamo incontrarla allo spazio Elle di Locarno. Corporatura minuta, sguardo vivace e intelligente indice di una spontaneità gioiosa e contagiosa, la giovane Bianca Berger (1998) ci accoglie al termine del suo spettacolo, 45 minuti danzati (benissimo, con una precisione diremmo matematica) e anche raccontati per mettere in campo la sua visione della probabilità con la complicità di una materia che, insieme con la danza, da sempre la coinvolge: lo studio della matematica.
Cominciamo dal titolo.
Bi-Tà è un estratto della parola probabilità. L’esibizione è nata dall’idea di voler fare entrare il pubblico in uno spazio astratto di probabilità dove ci fosse il minor riferimento possibile a un teatro o a una casa, da qui la scelta
di fare tutto bianco o grigio; ma volevo anche mettere qualche colore così ho scelto il giallo, il rosso e il blu che sono molto semplici.
Oltre alla danza, lo spettacolo si avvale di cifre, formule e calcoli: non tutti però hanno molta famigliarità con la Matematica…
Infatti, prima di tutto cerco di spiegare che cos’è un concetto matematico in generale facendo degli esempi. Nel mio caso, oltre alla probabilità c’è la funzione, nel caso specifico ho scelto quella binomiale (nella teoria della probabilità è una variabile usata per dare una dimensione di probabilità al numero di successi ottenuti eseguendo un certo numero di prove di uno stesso esperimento, NdR). Una funzione che calcola la probabilità di avere un evento, dato un certo numero che ho determinato in base alle persone presenti in sala. L’altra variabile è legata al numero delle carte rosse che ci sono, quanti spettatori si alzano in piedi mostrandole e quanti poi scelgono l’ordine rosso-blu. I valori che saltano fuori vengono ulteriormente divisi per due, che è la probabilità di avere un rosso o un blu. Il tutto elevato alla potenza equivalente al numero di spettatori in sala. L’intero calcolo, che è laborioso, viene eseguito precedentemente dal computer analizzan-
do le cifre che ho già inserite, sulla base dei biglietti venduti, quindi le presenze, con il numero delle carte colorate messe a disposizione.
E la fune gialla che incombe sulla scena?
Siccome mi rendo conto che è difficile far capire al pubblico che cosa sto facendo, ho inserito un riferimento fisico. La fune rappresenta un intervallo di numeri che vanno da 0 a 100%.
I segni colorati sulla fune corrispondono a una frazione e ognuna di esse corrisponde ai miei movimenti nello spazio. Quindi c’è una relazione fra quei segni e la danza.
Una coreografia, dunque, che si scompone e assume una caratteristica precisa in base ai segni colorati sulla corda che sono il risultato del calcolo delle probabilità nello spazio. Si assiste così a una somma di sequenze calibrate, studiate nei dettagli accompagnate da una suggestiva presenza musicale (Metunar).
C’è una danza legata a uno stile, a una qualità, che rappresenta i numeri da un terzo a due terzi e un’altra che rappresenta i numeri da zero a un terzo.
Uno spettacolo di danza dove la matematica in un certo senso è un alibi complesso, intelligente e funzionale…
La Matematica è legata alla mia formazione ma entra nella mia danza anche perché quando creo una coreografia devo trovare una giustificazione e quella materia mi aiuta molto nel definire quando fare una cosa e quando interagire con il pubblico.
In questo spettacolo a un certo punto si parla di verità…
La verità di questo spettacolo è quando, danzando, sento di essere veramente in connessione con questo spazio di probabilità. Spero proprio che il pubblico riesca a entrarvi lasciandosi alle spalle la dimensione quotidiana per interagire con la matematica in un modo diverso.
Collisioni che generano materia e umanità
Dal calcolo delle probabilità all’universo dei quanti il salto non è poi così assurdo: basta rimanere a teatro e in ambito scientifico. Se Bianca Berger ci ha accompagnato a passi di danza alla scoperta del mondo delle probabilità, la Markus Zohner Arts Company ci ha accolto al Teatro Foce di Lugano con una narrazione legata alla Fisica quantistica, materia dove a danzare non è un corpo umano ma sono particelle che a gran velocità raccontano il comportamento della
materia. È la traccia di Collisions, recente creazione della compagnia che si avvale della drammaturgia di Patrizia Barbuiani in scena con Luca Massaroli, co-autore dei testi con Markus Zohner, interprete e regista. Se la Fisica è la scienza che studia i fenomeni naturali, Collisions alterna l’ambito scientifico dello scontro fra particelle con l’esito di altri impatti, situazioni dove prevalgono storie di casualità, gioia, dolore, amore e coincidenze. Lo spazio sce-
Là dove la terra vibra
Documentari ◆ Il canto del respiro di Simona Canonica nasce dalla maternità e si apre al mondo
Nicola Mazzi
Premessa. Questo documentario va assolutamente visto in una sala cinematografica, meglio ancora se dotata delle tecnologie più avanzate. Sul piccolo schermo – anche se di ultima generazione – rischia infatti di perdere parte del suo fascino e della sua forza immersiva.
La locarnese Simona Canonica, classe 1981, ha realizzato un film al tempo stesso profondamente personale e sorprendentemente universale. Partendo da un’esperienza intima come la maternità, ha saputo dar voce alla natura e alla connessione che lega ogni essere umano a essa.
Presentato in anteprima al recente Visions du Réel di Nyon, Il canto del respiro sarà in concorso al Trento Film Festival dal 25 aprile al 4 maggio, e con ogni probabilità continuerà il suo percorso in altre rassegne cinematografiche, prima di approdare su Play Suisse. Il canto del respiro è un documentario che esplora il legame tra il respiro degli esseri viventi e la Natura. Si tratta di un viaggio profondo e avvolgente che attraversa tre Paesi e altrettante culture, fondendole in un flusso narrativo continuo e naturale, privo di cesure. Lo spettatore si sposta da un paesaggio all’altro senza strappi, seguendo un ritmo che è quasi quello del respiro stesso.
In Australia, un discendente dei nativi attraversa il Paese per tramandare la memoria del suo popolo e la forza ipnotica del suono circolare del didgeridoo (uno strumento naturale aborigeno). In Mongolia, un giovane va alla ricerca della vibrazione primordiale della propria voce, guidato da un saggio anziano. In Italia, nel cuore del bosco di Paneveggio in Trentino, un abete rosso custodisce e rivela la propria musica interiore, attraverso il passaggio delle stagioni.
Guardando quest’opera – e il termine non è usato a caso – si percepisce chiaramente il desiderio profondo della regista di coinvolgere lo spettatore in un’esperienza sensoriale totale, quasi ancestrale. È un po’ come tornare bambini, quando i sen-
si si risvegliano e aprono la porta al mondo. Il canto del respiro riesce a evocare questa sensazione originaria, per chi è disposto a guardare e ad ascoltare con attenzione autentica.
Le parole sono rare e misurate: qualche insegnamento degli anziani ai giovani su come usare la voce, qualche scambio tra adulti sull’origine dei suoni. Il linguaggio verbale resta sullo sfondo, come una cornice che spiega e suggerisce, ma non sovrasta. Il cuore dell’opera risiede nell’esperienza visiva e sonora. La stessa Simona Canonica spiega così la sua intenzione: «Il film intende raccontare un percorso di presa di consapevolezza delle potenzialità del respiro. Il respiro, che da millenni si manifesta in vibrazioni, suoni e canto: tessuto dell’essere e filo invisibile che tutti ci unisce e ci lega. Un movimento continuo dell’inspirare ed espirare, dell’ascoltare e rispondere, del dare e ricevere». Un’idea nata durante la gravidanza: «Mentre il mio corpo cambiava, la mia sensibilità all’ascolto aumentava. Ascoltavo mia figlia crescere dentro di me, percepivo il mio respiro e il modo in cui l’ossigeno le arrivava. Cercavo di capire se fosse sveglia o dormisse, se sorridesse o piangesse. Ma, soprattutto, cantavo per lei. Il canto mi ha permesso di entrare in una connessione più profonda e consapevole con il mio corpo, con le persone e con il mondo intorno a me», racconta la regista. Anche dal punto di vista formale, il film si distingue per originalità e rigore. L’attenzione è tutta rivolta alle immagini e ai suoni, e la macchina da presa compie spesso un passo indietro: resta immobile, discreta, per lasciare spazio alle immagini e ai suoni. Ma in alcuni momenti si fa più audace: si muove con lente carrellate – come nella scena in cui si ascolta la voce dell’abete rosso – oppure si alza in volo, offrendo visioni dall’alto in movimento. Soluzioni tecniche che, senza essere mai invadenti, rafforzano la chiarezza e l’intensità del messaggio: il canto del respiro.
nico è circondato dal pubblico, sul pavimento immagini computerizzate mostrano particelle incanalate in un acceleratore. Zohner, camice bianco, spiega e agisce sulla consolle delle luci e dei suoni mentre il pubblico si passa di mano in mano una pallina rossa e una blu. Barbuiani e Massaroli raccontano incontri e scontri, situazioni che generano umori, simpatie e drammi. Una teatralizzazione della scienza che potrebbe piacere al Cern.
alleAccanto terme Leukerbaddi
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Bianca Berger durante lo spettacolo Bi-Tà
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1Perché il calzone si chiama così?
«Calzone» è sinonimo di «gamba dei pantaloni». Purtroppo oggi non è più possibile ricostruire esatta mente cosa abbia a che fare con la pizza ripiegata su se stessa. Forse è un’allusione al carattere da asporto: a differenza della pizza, il calzone può essere facilmente portato via e mangiato camminando. Questo perché la salsa, il formaggio e gli altri ingredienti non sono sulla superficie ma all’interno, protetti dalla pasta.
2Da dove proviene il calzone?
La Campania e la Puglia sono le due regioni che dichiarano con più veemenza di esserne il luogo d’ori gine. Di conseguenza, gli hotspot del calzone si trovano nelle città di Napoli e Lecce. Si può tuttavia ipotizzare che pietanze simili siano diffuse da tempo in tutta l’Italia meridionale. I vantaggi pratici rispetto alla pizza sono evidenti. Il calzone è menzionato per la prima volta per iscritto in un libro sugli usi e costumi di Napoli pubblicato nel 1853.
GUSTO
Conoscenze
Qualcuno in un qualche momento da qualche parte nel Sud Italia. Non si sa con precisione. Il motivo invece è noto: perché il calzone è semplicemente più pratico della pizza
3
Cosa c’è dentro?
Come per tutto il cibo in Italia, le differenze regionali sono notevoli. A Napoli, oltre agli ingredienti tipici della pizza, il calzone contiene anche ricotta e salame napoletano tagliato a fette sottili. A Lecce, invece, ci si
attiene alla salsa di pomodoro e alla mozzarella, anche se spesso il calzone non viene cotto al forno, ma fritto nell’olio. Poiché l’impasto si gonfia rapidamente e alla fine assomiglia a una piccola pancia, viene chiamato anche «panzerotto». In Sicilia, il calzone è ripieno di prosciutto cotto.
4
Cosa c’è sopra?
In realtà niente, ed è per questo che è così facile da portare con sé e mangiare in giro senza sporcare. È quindi sorprendente che, almeno nei ristoranti, si servano anche calzoni con aggiunte sulla pasta. Anche l’autorità non ufficiale della pizza di Napoli, l’Associazione Verace Pizza Napoletana, scrive nelle sue linee guida: «Sulla parte esterna si depone un poco di pomodoro, ancora una spolverata di formaggio». E poiché la salsa di pomodoro è rossa e il formaggio è bianco, e quindi manca solo il verde per creare il tricolore italiano, alcune pizzerie aggiungono anche del pesto di basilico.
5
Quali sono le ultime tendenze per quanto riguarda il calzone?
Rispetto alla pizza, i pizzaioli sembrano molto più timidi quando si tratta di innovare il calzone. Uno dei più coraggiosi è Franco Pepe, il cui ristorante Pepe in Grani è stato eletto la migliore pizzeria del mondo nel 2023. A Caiazzo, a nord di Napoli, serve un calzone con impasto tradizionale e scarola riccia, filetti di alici, capperi e olive nere.
Testo: Kian Ramezani
Prodotto a mano in Italia
Calzone al prosciutto Da Emilio 2 x 120 g Fr. 5.40
Yoko Ono e John Lennon
Lei era famosa come performance artist, lui era il membro più indecifrabile dei Beatles. Si sono incontrati per la prima volta a Londra nel 1966, sono diventati una coppia nel 1968, nel mese di maggio, e si sono sposati nel 1969. Poco dopo, seguiti dai giornalisti, sono rimasti a letto per giorni manifestando a favore della pace nel mondo. Insieme volevano cambiare il mondo.
Barbie e Ken
La più famosa bambola giocattolo femminile e Ken sono diventati una coppia nel 1961. Il segreto della loro lunga relazione? Forse l’atteggiamento positivo verso la vita dei due personaggi dal sorriso permanente o la loro ambizione professionale: Barbie diventa, tra l’altro, astronauta e pompiere, Ken pilota e campione olimpico.
LIFESTYLE
Coppie perfette
Coppie imbattibili
Successo in tandem: diverse coppie del mondo dello spettacolo, dello sport e della politica che hanno raggiunto ciò che il nuovo mitico gelato Duo con l’orso e la foca della Migros deve ancora ottenere.
Testo Angela Obrist
Siegfried e Roy
Sono i maestri dell’impossibile: il mago Siegfried e il domatore Roy. I loro spettacoli erano un mix di illusionismo, tigri bianche e abiti scintillanti, il loro teatro d’azione la città dei casinò: Las Vegas. La loro ricetta per il successo? La diligenza! Tra il 1990 e il 2003, questa coppia di innamorati di lunga data collezionò circa 5750 esibizioni.
e Venus Williams
Le stelle del tennis americano hanno dominato le classifiche mondiali grazie a numerose vittorie nei tornei, hanno celebrato il successo in campo anche come giocatrici di doppio e si sono battute per l’uguaglianza. In mezzo allo scompiglio, le sorelle sono rimaste unite da un legame indissolubile. «Facevo tutto quello che faceva Venus», ha detto Serena a proposito della sorella maggiore.
20 x
Stanlio e Ollio
Il duo comico americano-britannico
Stan Laurel e Oliver Hardy è apparso insieme davanti alla macchina da presa 107 volte a partire dagli anni Venti. Se la sono presa con il mondo causando piccoli e grandi disastri. Così facendo, «Stanlio e Ollio» hanno creato un umorismo universalmente comprensibile di cui si ride ancora oggi.
Thelma e Louise
La casalinga Thelma e la sua amica cameriera Louise sono stufe della loro vita quotidiana e vogliono partire per un weekend. Ben presto le due sono in fuga dalla polizia. Uscito nel 1991, il film «Thelma & Louise» celebrava l’indipendenza e l’amicizia tra donne e dimostrava che anche i personaggi femminili possono essere al centro di un film d’azione.
Foca e orso
I due sono presenti nel reparto surgelati della Migros dal 1975. Per celebrare il cinquantesimo anniversario, la foca e l’orso si fondono in un delizioso mix di gelato alla vaniglia e al cioccolato: il gelato orso marino. Scommettiamo che anche questa nuova variante sarà presto un cult?
Serena
TEMPO LIBERO
L’incanto di un paesaggio domestico
Un progetto semplice per trasformare una cassetta in un giardino verdeggiante da terrazzo, con l’aiuto di ghiaia, corda e piante grasse raccolte a mano
Sport: premi, proteste e altre priorità Sorprendono le rivendicazioni milionarie nel tennis che non sembrano giustificabili se si pensa ai premi minimi nel ciclismo: qualche riflessione fuori dal campo
Il Sentiero dell’acqua ripensata
Itinerario ◆ Un’escursione nel Malcantone alla scoperta di testimonianze storiche e ambienti naturali, che vedono protagonista l’acqua e i suoi rapporti con l’uomo
«Il piccolo principe attraversa il suo nuovo mondo e incontra un mercante d’acqua, che gli racconta di aver inventato una pillola contro la sete. “È una pillola straordinaria, se ne inghiotti una alla settimana non senti più il bisogno di bere e così risparmi, hanno calcolato gli esperti, cinquantatré minuti la settimana». Il piccolo principe, un po’ perplesso, chiede al mercante, “ma che cosa te ne fai di questi cinquantatré minuti?” Il mercante gli risponde, “ne fai quello che vuoi”. Allora il piccolo principe lo guarda e gli dice, “se avessi cinquantatré minuti da spendere, camminerei adagio adagio verso una fontana…”». Detto questo, l’uomo dal grande cappello di paglia si fa taciturno, si avvicina lentamente alla fontana, allunga la mano, riempie un bicchiere di acqua e la beve con lunghi sorsi tranquilli.
Me lo vedo ancora Renzo Franzin, mentre compie quel gesto semplice e primordiale, ma così debordante di significati. Era il 2003, l’Anno internazionale dell’acqua, che ci aveva beffardamente riservato una siccità da far paura. Scomparso prematuramente due d’anni dopo, Renzo Franzin, giornalista, saggista, poeta e ambientalista veneto, era stato il fondatore e il direttore del Centro Internazionale della Civiltà dell’Acqua. (Vedi articolo correlato).
L’avevo incontrato, pensate un po’, a Sabbione, in quella Val Bavona devastata circa un anno fa, nel mese di giugno, proprio da questo elemento, tanto fondamentale per tutti gli esseri viventi quanto potenziale causa di immani catastrofi naturali. Chissà se c’è ancora, la fontana di Sabbione, e chissà se potremo tornare a dissetarci con la sua acqua limpida, rinnovando un gesto essenziale e vitale, non solo biologicamente, ma anche culturalmente, antropologicamente. Un gesto che esprime la volontà di ristabilire una gerarchia dei valori, privilegiando quelli semplici, autentici e primordiali. Li stiamo perdendo, oggi, questi valori, come abbiamo perso la cognizione del legame genuino che ci unisce all’acqua. Per questo è importante che l’uomo si riappropri del vero rapporto con questo elemento, che sappia comprenderne la preziosità. In fondo non ci vuole molto, basta pensarci, all’acqua, oppure… ripensarla. È quanto hanno fatto, nel Duemila, i Comuni di Sessa e Monteggio, creando un percorso inteso a stimolare una riflessione sui rapporti tra l’uomo e l’acqua nel passato e nel presente, così come a valorizzare le testimonianze storiche e gli ambienti naturali presenti sul loro territorio. Nato per sottolineare l’inizio del nuovo millennio, lo hanno chiamato il Sentiero dell’acqua ripensata, nel senso di «pensata an-
cora una volta e pensata in modo nuovo, perché la conoscenza e la coscienza del passato e dei suoi rapporti con il presente consentono di affrontare in modo costruttivo un futuro che è già cominciato».
Il sentiero si sviluppa lungo buona parte del corso della Pevereggia, che mi dà il benvenuto con l’allegro scrosciare delle sue cascate, il cui millenario defluire ha smerigliato pazientemente il gradino roccioso, che separa la piana di Sessa da quella di Molinazzo di Monteggio, dove il torrente va a sfociare nella Tresa. La più alta, la Luèra, si getta nel Bùsen, una profonda gola che si apre ai piedi del Mulino Trezzini. Alimentato dall’acqua della Pevereggia, che continua a scorrere nella roggia scavata nella pietra, l’antico mulino è ormai un guscio con le occhiaie vuote, ma i muri hanno ancora un’aria solida e un luccicante tetto in lamiera ne dovrebbe impedire il degrado. All’interno, alcune macine sono al loro posto, altre, ridotte in pezzi, giacciono sul pavimento. Si respira un’atmosfera intima e silenziosa, che alleggerisce il peso del ricordo di un’industriosità dignitosa ormai da tempo tramontata. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, per l’esattezza, da quando Bernardino Trezzini, l’ultimo mugnaio, fermava definitivamente la grande ruota. Poco lontano, una curiosa costruzione s’innalza avvolta dalla vegetazione. È il Camino Baglioni, che ricorda l’effimera gold rush malcantonese, quando a Sessa e ad Astano si cercò di cavare qualche brancata d’o-
Itinerario
Partenza e arrivo: Sessa (378 mslm) Il mio itinerario parte dal posteggio di fronte al cimitero di Sessa, dove c’è anche la fermata dell’autopostale. All’altezza del vicino incrocio tra via Ponte Tresa e via Mött, un viottolo scende tra i muretti di cinta di un paio di proprietà. Dopo poche decine di metri entra nel bosco dove un cartello indica il percorso da seguire. Dislivello totale: circa 180 metri Lunghezza del percorso: 8,5 km Tempo di percorrenza: 2.30 h (senza le soste) Difficoltà: facile e adatto anche alle famiglie con bambini. Si tratta di un percorso in buona parte pianeggiante, a eccezione di due o tre brevi salite. Percorribile in tutte le stagioni.
Illustrazione del percorso descritto. (Romano Venziani)
Romano Venziani, testo e foto
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ro dalle profondità della montagna. Il camino è la parte terminale del condotto che, partendo dalla Fonderia nella valle della Tresa, risaliva il ripido pendio e serviva a filtrare l’anidride arseniosa prodotta dalla lavorazione del materiale di scavo e dall’estrazione del prezioso minerale, attenuando gli effetti nocivi del gas per gli uomini e l’ambiente.
Il sentiero ora sale accompagnato dal suono costante del torrente e delle sue cascate. Un paio di tavole illustrate ricordano altrettante leggende del Malcantone, come La vendetta del pecoraio, che spiega ricorrendo al fantastico la formazione della gola della Pevereggia, opera dell’Arcangelo Gabriele, il quale, per vendicare il torto subito da un pecoraio per mano di un signorotto del luogo, sgretolò con la sua spada le rocce che trattenevano il lago di Sessa, le cui acque si riversarono nella valle della Tresa, lasciandosi alle spalle una piana limacciosa e malsana, «che restò così per diversi secoli fino alla bonifica».
Leggende antiche si intrecciano al suono cristallino delle cascate e alla quiete che accompagna ogni passo lungo il sentiero
Superata la gola, il percorso si fa più tranquillo e segue il margine meridionale della campagna, che si distende da Sessa fino al confine con l’Italia. Incontro la vecchia latteria di Monteggio, costruita nel 1889 proprio lì in un angolo d’ombra accanto al torrente, di cui sfruttava l’acqua per raffreddare il latte e separarlo dalla panna, mentre la corrente della Pevereggia azionava la zangola per produrre il burro. Una giovane amazzone è assorbita dallo schermo dello smartphone, seduta in sella a un pacifico cavallo sauro con gli zoccoli a mollo, che mi guarda passare con aria pensosa. Continuo a seguire il ruscello, che scorre con un mormorio sommesso
Il Poeta dell’acqua
«Una goccia d’acqua che cade su un ghiacciaio in montagna, per riapparire in una risorgiva in pianura impiega dai dieci ai quindici anni, mi disse l’uomo dal grande cappello di paglia. E lungo questo suo viaggio sotterraneo, trasporta con sé tutto il senso della terra, che noi chiamiamo banalmente sali, minerali, eccetera, ma che sono il corpo della terra. Quindi, quando l’acqua riappare nella sorgente, è un’acqua santificata da questo viaggio e, sgorgando, racconta la memoria della terra».
Lo chiamavano il Poeta dell’acqua, Renzo Franzin, per quella sua passione civile, che lo ha portato a lasciarci pagine e testimonianze straordinarie e attuali su tutti i temi che riguardano quel bene comune che è l’oro blu: dal suo valore nella storia, ai conflitti per il suo possesso, dal risparmio idrico, alla tutela dei paesaggi fluviali, dalla riconquista di una smarrita civiltà dell’acqua, alla profusione dei suoi simbolismi.
Di fiumi e acque, Renzo, sapeva tutto, e voleva che tutti, e in particolare le giovani generazioni, si avvicinassero con occhi nuovi all’acqua, questa grande sconosciuta, ne riconoscessero la preziosità e la proteggessero.
C’eravamo seduti su una vecchia panchina di pietra, quando lui riprese il filo del discorso. «L’acqua è forse il
fra tappeti di Centocchio dei boschi.
A volte l’acqua indugia in una pozza su cui chiazze di cielo galleggiano come brillanti ninfee. Ora la Pevereggia è uno strascico verdognolo e attraversa la zona protetta delle Bolle, toponimo che non lascia dubbi sulla natura del luogo. È un biotopo di notevole importanza naturalistica, brulicante di vita animale e vegetale.
Uscendo dal bosco, il sentiero abbandona il ruscello, che si indovina laggiù, nascosto da quella fila di alberi che taglia obliquamente la campagna. Lo sguardo prende fiato e si allarga su
tutta la piana di Sessa. Una mandria di mucche sonnecchia attorno a due mangiatoie rigonfie di fieno, più lontano una macchia gialla di ginestre in fiore e un cavallo al pascolo, qualche stalla e, sul lato opposto, i villaggi di Suino, Bonzaglio e Sessa. Poche centinaia di metri e mi ritrovo in un altro ambiente naturale umido, le Bollette, un’interessante nicchia ecologica piena di vita. Una folata di profumo invitante mi investe arrivando in uno slargo del bosco. All’ombra di grandi alberi, una famigliola si prepara al picnic piantonando
nutrimento principale del mito, elemento primordiale e dominante che informa il racconto mitologico di tutte le civiltà, dalla più piccola alla più grande, senza eccezioni. È sorgente di vita e fertilità, è culla della creazione. Ma anche il suo opposto, l’acqua cancella, annienta ciò che non è gradito agli Dei, è punizione divina, che si abbatte sull’uomo con il diluvio universale. Psicologicamente è il simbolo degli strati più profondi e inconsapevoli della personalità». L’uomo ha forse dimenticato o sottovalutato il suo rapporto con questo elemento vitale, parte della sua creazione, gli faccio io.
una griglia su cui sfrigola non so quale prelibatezza.
Sono ormai a ridosso del confine e lì c’ è Termine, con la sua chiesetta e lo strambo campanile, il vecchio lavatoio coperto e la fontana, alimentati da inizio Novecento dal piccolo acquedotto consortile, che aveva portato in paese quell’acqua così utile e preziosa per la gente e le bestie.
Il sentiero discende ora nel bosco e attraversa i vasti prati di Cassinone, un tempo ambiente paludoso, dove a metà Ottocento si estraeva la torba con cui si produceva carbone.
Poi, nel 1878, arriva quel lungimirante ingegnere fatto da sé, progettista del ponte-diga di Melide, della strada dell’Onsernone e altro ancora, Pasquale Lucchini, che bonifica i terreni consegnandoli all’agricoltura.
M’imbatto nel valico di Palone, una dogana di cui ignoravo l’esistenza, messa lì a guardia di un vuoto da Far West, su cui aleggia un’immobile coperta d’afa.
«La rivoluzione industriale ha prodotto una separazione netta tra l’acqua e l’uomo, perché, per la prima volta, ha usato in maniera massiccia e definitiva l’acqua come risorsa e come fonte di energia. E l’ha obbligata a percorsi, a presenze e a forme diverse da quelle che aveva nel passato. L’ha tolta dalle sue sedi naturali, l’ha catturata, intubata e usata nelle macchine per produrre nuovi Dei, come l’elettricità. È un’acqua che non si vede più. E questa separazione tra la possibilità di vedere l’acqua e di viverla, che si è tradotta poi nella nostra urbanistica, nel nostro abitare, nel tom-
bamento dei fossi, nella chiusura dei canali e dei fiumi che attraversavano i paesi, e via dicendo, ha allontanato l’uomo da questa specularità, da questa dimensione autentica, anfibia, che gli è propria fin dall’inizio».
È necessario quindi che l’uomo si riappropri di un rapporto più autentico con l’acqua. «Io penso che sia giustissimo oggi porre tutta una serie di questioni, che riguardano un uso diverso dell’acqua – continuò Renzo – meno sprechi, più possibilità di considerarla un bene prezioso, però immagino anche che c’ è un rapporto dell’uomo con l’acqua che va al di là del bisogno biologico. L’uomo ha la necessità di vedere l’acqua e di introiettarla nel proprio orizzonte interiore, perché questo elemento, che ha in sé caratteristiche opposte a quella materiale della stabilità della carne o della materia in senso lato, è necessario per definire ciò che non è materiale in noi. Noi abbiano bisogno dell’acqua come una delle chiavi del linguaggio per parlare di qualcosa che supera noi stessi. Istintivamente, abitare sulla riva dell’acqua, con tutte le conseguenze che questo ha dal punto di vista dell’instabilità, dell’incertezza, dei rischi, allena la mente, allena il cuore a un modo diverso di concepire il rapporto con la natura e col mondo».
Il percorso risale per poche decine di metri la collina di Sceré e riprende a scorrere più o meno pianeggiante verso Suino offrendo una bella vista sulla Piana di Sessa. Eredità, questa, dei ghiacciai, che ritirandosi quindicimila anni or sono hanno lasciato dietro di sé un lago, poi prosciugato quando una ciclopica frana (e non l’arcangelo Gabriele) ha aperto il varco del Bùsen e fatto defluire l’acqua verso la valle della Tresa.
All’improvviso m’imbatto di nuovo nella Pevereggia, ormai ridotta a poca cosa, che si intravvede appena nell’intrico verde di una valletta. A Suino imbocco via Fontanéta e via Alambicco chiari rimandi alla vocazione agricola del villaggio. E infatti dopo pochi passi mi ritrovo a camminare tra i filari ordinati di un paesaggio vignato dominato dal Cassinòtt, un vecchio edificio rurale, sorto nella prima metà dell’Ottocento accanto a un ruscello e a una sorgente di acqua potabile. Curiosi pali bianchi spuntano qua e là, con delle scritte, Paesaggi, Testimoni, Riflessi, Germogli, Fragranza e brevi commenti su biodiversità, colture, prodotti, interazione tra natura e agricoltura. Sono i pali indicatori di una campagna promossa dall’associazione Contadine & contadini svizzeri.
Sul coperchio di una vecchia botte, un’altra scritta evoca invece un messaggio più allettante e immediato I vini di Miriam, vendita diretta. Mentre addento un panino penso che un buon bicchiere di rosso non guasterebbe, in sua mancanza mi avvicino alla fontana scavata nel legno, congiungo le mani in un gesto semplice e primordiale e bevo una lunga sorsata di acqua chiara prima di riprendere il cammino.
Un piccolo giardino segreto
Crea con noi ◆ Per arricchire i nostri terrazzi, si può realizzare una composizione di piante grasse, corde e cassette
Giovanna Grimaldi Leoni
Le piante grasse, con le loro forme particolari e la capacità di adattarsi a diverse condizioni, sono perfette per creare una composizione utile ad abbellire il terrazzo e che sia anche di facile cura. Inoltre, sono facilmente reperibili durante una passeggiata: basta allenare lo sguardo e cercarle tra i muretti, dove spesso crescono spontanee. In pochi passaggi, trasformerete materiali semplici in una mini-oasi verde. Creando il vostro piccolo giardino segreto.
Procedimento
Pulite accuratamente la cassetta di legno, rimuovendo eventuali etichette e residui. Rivestite l’esterno con la
corda naturale, fissandola con colla a caldo o vinilica ogni 15 cm circa e prestando particolare attenzione agli angoli. Continuate a coprire tutta la superficie in legno, procedendo in modo uniforme e compatto. Quando i bordi laterali termineranno, avvolgete la corda attorno ai quattro angoli, assicurandovi che il rivestimento risulti omogeneo.
Create ora un fondo drenante, ricoprite l’interno della cassetta con una plastica e distribuite sul fondo uno strato uniforme di sassolini o ghiaia. Questo aiuterà a evitare ristagni d’acqua.
Versate ora un mix di terra e sabbia, adatto per piante grasse, riem-
Giochi e passatempi
Cruciverba
Le scimmie nella foto sono originarie dell’… Come si chiamano? Quale particolarità hanno? Troverai il resto della frase e le risposte alle domande, a cruciverba ultimato, leggendo le lettere evidenziate.
(Frase: 5, 7 – 4, 7)
ORIZZONTALI
1. Rendono gentile la gente
3. Nome di donna
8. Est senza fine
10. Bagna Rostov
12. Si dimostra persistendo
14. La nota Muti
16. Un articolo
17. Se si pesca... si mette al fresco
18. Un trampoliere
20. Termine da tennisti
21. Spirito dei boschi
22. Le iniziali dell’attore Placido
23. Battuta vincente a tennis
25. L’attore Connery
27. Si ripetono nel fidanzamento
28. Il cognome di Al Bano
30. La matrigna di Elle
31. Il nome di Teocoli
VERTICALI
1. Simulacri
2. Pronome personale
4. Fa sport agonistico
5. La minore delle isole Cicladi
6. Desinenza di diminutivo femminile
7. Le iniziali dell’attrice Argento
piendo la cassetta fino a circa 2 cm dal bordo.
Disponete le vostre piantine in modo armonioso, alternando forme, colori e altezze per un effetto naturale e interessante. Nel farlo cominciate inserendo le piante più grandi e, se necessario, aggiungete altra terra per stabilizzarle.
Potete arricchire la composizione con alcuni pezzi di corteccia, così da creare una cornice naturale. Una volta soddisfatti della disposizione, per creare un maggior contrasto e per ottenere un effetto estetico migliore, coprite le parti di terra visibili con ghiaia o sassolini decorativi.
Per un tocco più rifinito, realizzate una treccia di corda, lunga quanto il perimetro della cassetta e applicatela con la colla a caldo lungo tutto il bordo superiore.
Completate aggiungendo un’etichetta realizzata a mano o con l’uso degli stampini.
Cura e manutenzione
Posizionate la vostra cassetta in un luogo luminoso, meglio se all’esterno, per esempio in terrazzo.
Annaffiate moderatamente solo quando il terreno è completamente asciutto o vaporizzate le piante con uno spruzzino per evitare ristagni di acqua.
Con questo metodo, potrete creare bellissimi mini giardini di piante grasse, perfette per decorare casa o
Materiale
• Cassetta di legno della frutta
• Corda di iuta naturale spessa
• Colla a caldo o colla vinilica forte
• Forbici
• Plastica trasparente
• Sassolini o ghiaia per drenaggio
• Terra mista a sabbia per piante grasse
• Pezzi di corteccia decorativi
• Piante grasse di diverse varietà
• Stampini per decorare l’etichetta (opzionale)
• Plastica trasparente
(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
8. Pronome poetico
9. Batte la forbice a morra cinese
11. Gemelle in gonna
13. Si trasforma il bolo
15. Epoche della Terra
18. Preposizione
19. Le separa la «L»
20. Il segnale dello starter
21. Sommo ingegno
22. Basso, meschino in inglese
24. Si alzano... piano, piano
25. Si vendono in coppia
26. Fan dello sposo uno sponsor
29. Centro della Mauritania
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku cliccando sull’icona «Concorsi», homepage in alto a destra Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano . Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
Sudoku
Soluzione della settimana precedente SI PARTE!! – La ferrovia più lunga del mondo collega la…
Viaggiatori d’Occidente
Oltre la crescita del numero di turisti
A partire da due secoli or sono, quando ancora eravamo povera gente, il turismo ha traghettato la Svizzera verso la modernità e il benessere, lasciando poi spazio a nuovi settori quali finanza, farmaceutica, meccanica di precisione. A livello nazionale il turismo conta oggi solo per circa il 3% del prodotto interno lordo (anche se occupa molto più spazio nell’immagine della Svizzera nel mondo). In Ticino tuttavia ha conservato una maggiore importanza, così come nei Grigioni, in Vallese, Canton Lucerna o Canton Berna; da noi il settore turistico rappresenta circa il 12% dei posti di lavoro e il 10% del PIL. Anche per questo se ne discute molto. Per esempio nelle scorse settimane le previsioni meteo e il tasso di occupazione delle camere d’albergo per la Pasqua sono stati sviscerati in ogni dettaglio. In particolare l’aspetto economico ha rego-
larmente il sopravvento su ogni altra prospettiva. Minime flessioni di pochi punti percentuali, del tutto fisiologiche, sono considerate presagi di sventura.
Ci aspettiamo poi che le presenze crescano ogni anno, senza mai chiederci veramente quale sia il giusto numero di turisti per il cantone. Personalmente credo che abbiamo già raggiunto da tempo la cosiddetta soglia di carico, sociale e ambientale, oltre la quale i turisti provocano più problemi che opportunità. E quindi certo possiamo differenziare i mercati, privilegiare alcune provenienze (o esperienze), ma al fondo dovremmo tacitare quell’eterna insoddisfazione.
C’è anche un’altra ragione. Del turismo ci piacciono i guadagni, molto meno altri aspetti essenziali quali l’incontro con altre culture, la diversità di abitudini, mettersi in discussio-
Cammino per Milano
Villa Necchi Campiglio
La prima volta che ne ho sentito parlare è stato in treno, incontrando per caso un decennio fa, la Hewitt. La mia professoressa preferita del liceo stava andando a Milano per i capelli e mi consigliò, estasiata da una recente visita, di andare a Villa Necchi Campiglio. Opera di Piero Portaluppi (1888-1967), architetto incontrato nelle nostre traiettorie milanesi in via Jan, la vidi nel 2019 un giorno d’estate. Ricordo la stella-finestra intagliata nel marmo. La villa abitata un tempo dalle sorelle Necchi – famiglia che ha fatto fortuna con la ghisa – e il marito di una delle due, si trova, nascosta tra gli alberi, in via Mozart. Proprio di fronte a Palazzo Fidia di cui vi ho riportato quindici giorni fa impressioni e storia.
Aperta al pubblico nel maggio 2008 come casa-museo, dopo essere stata donata al Fondo Ambiente Italiano da Gigina Necchi (1901-2001), nasce
nel 1935. Restaurata con cura dal nipote di Portaluppi, la villa delle Gigine, come venivano chiamate le sorelle Necchi – Nedda (1900-1993) il nome della più riservata e timida che andava matta per i gatti e l’arte moderna – e il marito della Gigina, Angelo Campiglio (1891-1984) più noto a tutti come il Nene. L’antipasto è la portineria: sulla strada – in ceppo, granito, marmo, mimetizzandosi con il muro di cinta – sfuggevole avamposto attraverso il quale potete assaggiare la sobria eleganza della villa invisibile ai passanti. La mia piccola gioia vera però è rivedere la veranda-salotto d’angolo, a tutto vetro. Noto solo oggi, da vicino, la pergola a losanghe, classico motivo portaluppiano che ritorna, se non ricordo male, nei copricaloriferi e altrove. Dettaglio da niente, in confronto al cuore della villa dove si esprime, protetto dal verde lucido dei
Sport in Azione
ne. Spesso la questione viene affrontata dal punto di vista dell’ospitalità. Il nostro cantone, si dice, al fondo sarebbe poco ospitale, al di là di una cortesia di facciata. C’è del vero, credo, in questa impressione, nel senso che a volte manca la volontà di cogliere in tutta la sua portata la sfida rappresentata dalla presenza degli stranieri. Oggi più che in passato i visitatori non cercano solo dei servizi, ma un incontro, una condivisione, una reciproca scoperta. Se manca questo interesse da parte nostra, anche legittimamente, è una ragione di più per contenere la crescita del turismo ai numeri attuali.
Anche l’organizzazione dell’offerta è un poco autoreferenziale: quanti visitatori sanno che il Cantone è suddiviso in quattro regioni principali, ciascuna gestita da un’Organizzazione Turistica Regionale (OTR)? Ben pochi credo, considerato che molti visi-
tatori scavalcano con disinvoltura nelle due direzioni anche il confine con la vicina Italia e si muovono in una più ampia regione dei laghi. Una minore enfasi sugli aspetti economici aiuterebbe anche nelle scelte strategiche. Negli anni Settanta, con la regia di un giovane Marco Solari, fu elaborata una nuova immagine del Ticino «Terra d’artisti», spostando l’attenzione da stereotipi folcloristici a una rappresentazione più autentica e ricca del territorio. Nasce allora quel turismo culturale che ha trovato nel LAC la sua naturale evoluzione. Fu una scelta giusta? Io lo credo, anche se naturalmente il turismo culturale ha costi maggiori rispetto al tradizionale turismo ambientale e dà minori soddisfazioni sul piano delle entrate, perché la scena è estremamente competitiva e ogni grande città lotta per conquistare e difendere un suo spazio. Anche in questo caso consi-
derazioni strettamente economiche non ci avrebbero portato dove felicemente siamo. Lo stesso discorso vale per il Locarno Film Festival, la nostra manifestazione più importante e conosciuta. Qualche tempo fa, in occasione di una tavola rotonda, ascoltavo il direttore operativo Raphaël Brunschwig giustificare il contributo pubblico annuale di 3,4 milioni di franchi sottolineando minuziosamente il vario indotto generato dal festival. Ma abbiamo davvero bisogno di questa minuziosità contabile? Non ci basta Piazza Grande colma di pubblico, in larga parte ticinese? I grandi eventi dovrebbero prima di tutto piacere a noi, rispecchiare le nostre passioni, per essere poi proposti e condivisi coi visitatori. Solo i Paesi poveri cercano di assecondare in tutto e per tutto le aspettative dei turisti; ma noi poveri non siamo, non più.
foglioni della magnolia secolare non ancora in fiore, tutto il lusso severo: l’entrata scenografica. Otto gradini semielissoidali in marmo carnico argentato, il cui eco si ritrova sopra, sulla pensilina della stessa forma dove sono inserite, a filo, otto luci. In mezzo, museale, la porta a vetri e ottone. È incorniciata da altro marmo più chiaro, in tinta con il ceppo bergamasco beige, la cui grana irregolare graziosissima parte lì accanto, incastonando le due finestrone vista piscina. La piscina, astrale, con i bordi-panchina in travertino e il getto continuo stile fontana, varrebbe già da sola la pena, a maggior ragione in questi giorni di aprile, quando attorno ci sono papaveri multicolori. Così vicina all’entrata, acuisce ancora di più la scenografia spontanea della villa dove hanno girato gran parte di Io sono l’amore (2009) di Guadagnino: inguar-
Ditemi, che cosa vorreste ancora?
Immagino che siate d’accordo, se affermo che non stiamo vivendo uno dei periodi più felici nella storia recente del nostro pianeta. Tra conflittualità palesi, conflittualità latenti, prospettive economiche preoccupanti per i più poveri, che lottano per un salario minimo o anche solo per un posto di lavoro, c’è poco da stare allegri. Provano inquietudine persino i più ricchi, che, saranno anche fastidi grassi, in un battibaleno vedono andare in fumo miliardi di investimenti in borsa. Come reagire? Tirando la cinghia, alleandosi e facendo la voce grossa, studiando altri modelli economici in controtendenza, accettando una differente redistribuzione di risorse e ricchezze? Non ho risposte. Ho tuttavia interiorizzato una dose abbondante di stupore e di disappunto, quando ho letto che, in questo periodo iper travagliato, i migliori tennisti al mondo rivendicano l’au-
mento dei premi nei grandi tornei. Si sono messi in campo campioni del calibro di Jannik Sinner, Coco Gauff, Aryna Sabalenka e Novak Djokovic. Quest’ultimo, tempo fa, aveva fondato una nuova associazione di giocatori con lo scopo di opporsi ai vertici del tennis mondiale, rei di distribuire una quota insufficiente di denaro ai veri protagonisti della loro amata disciplina. Dal canto suo la WTA (Women’s Tennis Association) lotta per la parità dei premi tra uomini e donne. Questi campioni si sono attivati indirizzando una lettera ai dirigenti dei quattro Grandi Slam (Australian Open, Roland Garros, Wimbledon e US Open), e hanno ottenuto un incontro che si terrà prossimamente ai margini del Master 1000 di Madrid. Oltre a più denaro, chiedono un maggior coinvolgimento nelle decisioni che riguardano le competizioni, soprattutto per quanto concerne la sa-
lute dei giocatori. Rivendicazione, quest’ultima, che mi pare legittima. Sulle questioni finanziarie, mi permetto di dissentire. In primo luogo, perché i quattro Majors, senza sollecitazioni esterne, ogni anno aumentano il loro Monte Premi. Quest’anno, agli Australian Open, sono stati distribuiti 49 milioni di franchi (+11,5%), di cui 1,6 milioni al vincitore e alla vincitrice. 67mila franchi sono stati invece destinati a chi è stato eliminato al primo turno. La situazione non si discosta di molto negli altri tre grandi appuntamenti, anzi! A Parigi, lo scorso anno, chi ha alzato il trofeo al cielo ha intascato un assegno di 2,280 milioni, cifra che sale a 2,9 milioni a Wimbledon, 3 milioni tondi agli US Open, il torneo più remunerativo grazie al suo monte premi complessivo di 63 milioni di franchi. In tutti e quattro gli Slam, gli eliminati al primo turno se ne vanno a casa con un bottino tutto
dabile per recitazione e trama, qualcosa forse si salva solo grazie a questa ambientazione, scelta anche per il farsesco-kitsch-trash The House of Gucci (2021) di Ridley Scott. Se non altro, entrambi i film, confermano l’entrata come punto cruciale. Nessuno dei due però inquadra il dettaglio assoluto, dove tutto si sdrammatizza: quasi in asse all’ingresso, su in cima, una piccola stella-finestra, richiamo anche al planetario Hoepli qui vicino. Naturale l’insistenza filmica per la hall, tutta in radica, sbaciucchiata ora qua e là dai riflessi: snodo successivo drammaturgico. Da dove lancio lo sguardo sulla balaustra, sempre in radica, della scala: l’intrico ritmico sta tra doppio meandro e zigzag. Trotterello a sinistra e m’infilo nella veranda, «lo spazio più mitteleuropeo della villa» osservano nel librone Nelle case (2023) di Enrico Morteo e Orsina Simona Pierini. Il verde apri-
le fuori entra dentro e si somma ai vasi di piante nello spazio tra le vetrate, diventando così jardin d’hiver-soggiorno di un verde totale. In tinta, perdipiù, con il divano e l’intarsio a tartan del pavimento: marmo verde Roja e marmo verde Patrizia. La porta scorrevole in alpacca, forata geometricamente, impressiona e le fa compagnia il Puro folle o Parsifal (1930) in bronzo di Adolfo Wildt che schiaccia una gorgone con il Graal. Volo sulle scale su di sopra per ricercare la stella: trafitta di luce è in uno dei bagni. «Ci sono più bagni che camere» dice una a suo marito. Intercetto un’altra voce sul campo, guida del FAI: «I soldi veri li avevano le Necchi». Fuori cerco i lampi nel marmo carsico, nero fumo, che torna e continua nella zoccolatura. Trovo la meridiana, in faccia al tennis. Torno alla piscina dove nessuna delle Gigine, pare, si sia mai tuffata.
sommato considerevole, compreso fra i 64mila franchi di Wimbledon e gli 84mila del torneo statunitense.
A termine di paragone, per incassare quest’ultima somma, un fenomeno dominante come Marco Odermatt, dovrebbe imporsi in 2 prove di Coppa del Mondo, e aggiungervi anche un 2° posto. Alle rivendicazioni avanzate dalla parte femminile, possiamo replicare che il tennis è la disciplina sportiva in cui la parità di genere è maggiormente presa in considerazione, nonostante la durata inferiore delle partite. Non mi stupirei se invece scendessero in piazza ciclisti e cicliste. Loro, in strada, ci stanno già per natura. A sudare e a faticare con qualsiasi condizione di tempo, ma con gratificazioni ridicole, se paragonate a quelle che elargisce il tennis. Il monte premi globale del Tour de France, senza dubbio la corsa più ricca del calendario, distribuisce 2,140 milioni di
franchi, 465mila dei quali spettano al vincitore. Ebbene, il Tadej Pogačar di turno, per intascarli, deve lavorare in luglio, con temperature che vanno dai 45 gradi afosi del Midi o della Francia profonda, ai 5 del Galibier in una giornata di pioggia. Lo deve fare sull’arco di 21 tappe in 23 giorni, rimanendo in sella, attento, concentrato, messo sottopressione dai rivali, per un totale di circa cento ore. Allo stesso tempo, la signora Katarzyna Niewiadoma, cavalca la sua bici per meno giorni e per meno ore, ma la sua vittoria alla Grande Boucle del 2024 le ha fruttato la «cospicua» somma di franchi 46’500. Volete mettere con i 3 milioni intascati dalla signora Aryna Sabalenka a Flushing Meadows?
Le cifre sono figlie del cambio effettuato il giorno in cui ho scritto l’articolo. Rispetto a quando leggete ci potrebbe essere stata qualche piccola variazione. Ma la sostanza rimane.
di Claudio Visentin
di Oliver Scharpf
di Giancarlo Dionisio
Hit della settimana
Acqua minerale Ap roz
Settimana Migros Approfittane e gusta
Bontà a tutto tondo con tante vitamine
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Migros Ticino
Asparagi bianchi Extra Germania, mazzo da 1 kg 25%
14.95 invece di 19.95
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invece di 2.–Foglia di quercia verde e rossa Ticino, al pezzo 25%
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Deliziosi anche nelle insalate e nei drink
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Lamponi Spagna/Portogallo/Marocco, vaschetta, 250 g, (100 g = 1.18) 21%
3.95
Erbe aromatiche Migros Bio disponibili in diverse varietà, Ø 13 cm, il vaso 20%
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20x
2.40 Mozzarella Infusione al basilico Galbani 125 g, (100 g = 1.92)
3.10
Le fettine di pollo sono ideali per preparare i pulled chicken burger, in quanto sono prive di pelle e cartilagini. Grigliale a fuoco medio per circa 15 minuti da ogni lato. Trasferiscile poi in una ciotola e sfilaccia la carne con due forchette. Condisci con salsa BBQ e farcisci un panino per hamburger insieme a una foglia d'insalata e cipolle. Buon appetito! CONSIGLIO DEGLI ESPERTI 2.80
Pesce e frutti di mare
Baciati dal mare
33%
Pacific Prawns ASC o frutti di mare misti, Costa prodotto surgelato, in conf. speciale, per es. Pacific Prawns ASC, 800 g, 19.80 invece di 29.60, (100 g = 2.48)
25%
8.95
invece di 12.–
Filetti di orata con pelle M-Classic, ASC d'allevamento, Turchia, 350 g, in self-service, (100 g = 2.56)
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Filetti di pangasio Pelican, ASC prodotto surgelato, in conf. speciale, 1,5 kg, (100 g = 0.73)
41%
13.95
invece di 23.80
Trancio di salmone M-Classic, ASC d'allevamento, Norvegia, 400 g, in self-service, (100 g = 3.49)
Pronto da gustare in 15 minuti
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Pesce fresco Anna's Best in vaschetta per la cottura al forno
filetto di salmone al limone e coriandolo, filetto di merluzzo con pistacchi e filetto di salmone selvatico con aneto, per es. filetto di salmone al limone e coriandolo, ASC, d'allevamento, Norvegia, 400 g, 9.95 invece di 12.95, in self-service, (100 g = 2.49)
Pane e prodotti da forno
Biscotti freschi discoletti, nidi alle nocciole o biscotti al cocco, per es. discoletti, 3 x 207 g, 7.90 invece di 9.90, (100 g = 1.27) conf. da 3 20%
Il nostro pane della settimana: segale, farina bigia e sobrie note di lievitazione dominano il sapore di questo pane. La crosta è croccante, la mollica soffice.
12.90 invece di 19.50
Leckerli finissimi in conf. speciale, 1,5 kg, (100 g = 0.86) 33%
5.95 Brezel pronti da infornare IP-SUISSE 8 pezzi, 500 g, (100 g = 1.19)
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Pane d'altri tempi cotto su pietra Migros Bio
500 g, prodotto confezionato, (100 g = 0.79)
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2.44
2.05
Migros Ticino
pezzi
Prodotti freschi e pronti
Piatti particolarmente veloci
Garantite come quelle fatte in casa
Le ultime novità dal centenario della Migros.
Gelato al caffè ricoperto di cioccolato
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4.95 Gelato da passeggio Mini Exotic prodotto surgelato, 6 x 54 ml, (100 ml = 1.53)
Jerry's,
Gelato alla Nutella prodotto surgelato, 470 ml, (100 ml = 1.69)
Dolci e cioccolato
Tentazioni a volontà
conf. da 9 25%
8.80
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Kägi Fret
9 x 50 g o 3 x 128 g, per es. 9 x 50 g, (100 g = 1.96)
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Tutti i Ragusa per es. Classique, 5 pezzi, 125 g, 4.60 invece di 5.75, (100 g = 3.68) 20%
22.20 Tavolette di cioccolato Lindt assortite, 10 x 100 g
Biscotti rotondi Chocky M-Classic al cioccolato o al latte, 3 x 250 g, (100 g = 0.92)
Tutto l'assortimento Blévita per es. Gruyère AOP, 6 x 38 g, 2.95 invece di 3.95, (100 g = 0.86)
in conf. speciale, 1 kg 36%
9.50 invece di 14.88
conf. da 10
a partire da 2 pezzi
Bibite fresche per dissetarsi
Con batteri acidolattici
Bontà da sgranocchiare Snack e aperitivi
Snacketti
Ay, caramba, che offerte!
Passata, sughi e pesti, bio, Alnatura disponibili in diverse varietà, per es. sugo al basilico, 340 g, 1.80 invece di 2.25, (100 g = 0.53) 20%
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Salse Bon Chef
alla panna, al curry, alla cacciatora o ai funghi, per es. alla panna, 3 x 20 g, 3.30 invece di 4.95, (10 g = 0.55)
conf. da 3 20%
Tutti i tipi di olio Alnatura, bio per es. olio extra vergine di oliva, 500 ml, 6.80 invece di 8.50, (100 ml = 1.36) 20%
Ricco assortimento di prodotti messicani dal sapore autentico
a partire da 2 pezzi 20%
Tutto l'assortimento Fiesta Del Sol per es. tortillas integrali, 8 pezzi, 320 g, 3.36 invece di 4.20, (100 g = 1.05)
Funghi misti o funghi prataioli, M-Classic 3 x 200 g, per es. funghi misti, 9.80 invece di 12.30, (100 g = 1.63)
20x
Novità
La forma a spirale della pasta aiuta a raccogliere il sugo
2.95
Pasta Garofalo gnocchi di patate o fusilli bucati lunghi, 500 g, (100 g = 0.59)
CUMULUS
Tutti i cereali Alnatura, bio per es. crunchy di avena ai frutti di bosco, 375 g, 2.56 invece di 3.20, (100 g = 0.68) 20%
& Mayo e Senape Inferno
Tutte le gallette di riso, di lenticchie e di mais Alnatura, bio per es. gallette di riso al miele, 3 x 32 g, 1.48 invece di 1.85, (100 g = 1.54)
Sapore caraibico, a basebiologicid'ingredienti
9.95 invece di 13.91 Nocciolata bio 650 g, (100 g = 1.53)
di mango Sun Queen
Per la bellezza da dentro e da fuori
Tutto l’assortimento Elmex (confezioni multiple escluse), per es. dentifricio anticarie, 75 ml, 3.92 invece di 4.90, (100 ml = 5.23)
Prodotti per la cura del viso o del corpo o creme multiuso, Nivea per es. struccante per occhi per trucco resistente all'acqua, 2 x 125 ml, 8.90 invece di 11.90, (100 ml = 3.56)
Protezione per denti e gengive
Tutto l’assortimento Meridol (confezioni da viaggio e confezioni multiple escluse), per es. dentifricio, 75 ml, 4.12 invece di 5.15, (100 ml = 5.49) a partire da 2 pezzi
conf. da 2 25%
Balsami trattanti o prodotti per lo styling dei capelli, Nivea per es. spray per capelli Diamond Volume, 2 x 250 ml, 7.40 invece di 9.90, (100 ml = 1.48)
e integratori alimentari per più vitalità e mobilità
Tutto l'assortimento Axanova (Axamine escluso), per es. Power Patch, 7 pezzi, 11.96 invece di 14.95, (1 pz. = 1.71) a
Tutto l'assortimento Nivea (confezioni da viaggio, confezioni multiple e set regalo esclusi), per es. siero antimacchie Luminous 630, 30 ml, 24.71 invece di 32.95, (10 ml = 8.24) a partire da
Tutto l'assortimento per l'igiene intima e l'incontinenza femminili (confezioni multiple, o.b. e sacchetti igienici esclusi), per es. salvaslip Bodyform Air Molfina, 46 pezzi, 1.40 invece di 1.75
Pigiami fantastici e biancheria comoda
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Batteria di padelle Pro Kitchen & Co. per es. padella a bordo basso, Ø 24 cm, il pezzo, 34.97 invece di 49.95
l'assortimento di stoviglie Kitchen & Co. in porcellana e in vetro (prodotti Hit, bicchieri e bicchieri da tè esclusi), per es. tazza verde, il pezzo, 3.47 invece di 4.95
Cose belle per il soggiorno e il micio di casa
invece di 9.95 Phalaenopsis, 2 steli disponibili in diversi colori, Ø 12 cm, il vaso
Prezzi imbattibili del weekend
3.30
4.90
Offerte dell’anniversario
Tutto l'assortimento Pampers (confezioni multiple escluse) 50%
1.75 invece di 3.55 Bistecche di lonza di maiale marinate Grill mi, IP-SUISSE per 100 g, in self-service 50%