Virginia Stagni di The Adecco Group analizza l’approccio al lavoro della Generazione Z
Come ha reagito la Svizzera ai dazi americani e quali sono le strade percorribili per uscire dall’impasse
ATTUALITÀ Pagina 13
Nel Locarnese un doppio omaggio all’artista Niele Toroni, «il pittore delle impronte di pennello»
CULTURA Pagina 21
Camminando verso la Pasqua
Si chiama Astro Bot ed è la mascotte PlayStation in grado finalmente di sfidare Mario
TEMPO LIBERO Pagina 39
La parità di genere in senso inverso
Quando si parla di parità di genere l’argomento viene declinato quasi esclusivamente per sottolineare i vergognosi e innegabili squilibri che colpiscono le donne. Suona perciò paradossale il reclamo presentato la scorsa settimana da un avvocato di Zurigo alla Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) che chiede ai giudici europei se il servizio militare obbligatorio per gli uomini, intesi come maschi, non sia contrario alla parità di trattamento tra i sessi. Se, in altre parole, non sia profondamente ingiusto che solo gli uomini siano obbligati a regalare allo Stato 18 settimane della loro vita per la scuola reclute, più sei corsi di ripetizione da tre settimane ciascuno, e le donne no (a meno che non siano loro a volerlo).
A suo modo di vedere, non esistono ragioni oggettive per cui solo i maschi debbano essere tenuti a passare tutto quel tempo sotto la corvée delle armi. Il genere è un falso criterio, proprio
come la religione o l’etnia. Poco importa che finora le donne fossero considerate meno «adatte» alla vita in caserma: quelle che l’hanno fatto a titolo volontario dimostrerebbero l’esatto contrario. A suo avviso, ciò viola il divieto di discriminazione previsto dalla Costituzione federale e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Non so se andrei a scomodare le sacre Carte del diritto nazionale e internazionale per difendere questa tesi, in fondo basterebbe il buon senso. Del resto, passo passo, anche in questo ambito il clima sta cambiando: è noto, infatti, che in futuro anche le ragazze potrebbero partecipare alla giornata di orientamento obbligatoria per il servizio nelle forze armate. Il Consiglio federale si è buttato in un secondo tentativo di modifica della Costituzione ordinando un progetto di consultazione in questo senso. E la Conferenza governativa per i servizi militari, di protezione civile
e antincendio e l’Associazione svizzera delle società militari accolgono con favore il progetto. Anche perché sperano di aumentare gli effettivi dell’esercito e le donne son un «mercato» nuovo e interessante.
L’ipotesi successiva, cioè l’obbligo per le donne al servizio militare o alla protezione civile è stata declinata in due varianti presentate dal Governo di Berna in gennaio. Se ne discuteva già negli anni 50, ma solo ora sembra emergere come un’assoluta necessità del nostro Paese. Segno che ancora oggi la convinzione che gli uomini vengano da Marte e le donne da Venere è culturalmente profonda, con le infinite conseguenze ad essa correlate: dai mestieri considerati tipicamente – se non esclusivamente – maschili o femminili, ai pretesi tratti distintivi del carattere a seconda del sesso. A dispetto di certe tendenze manichee di ritorno, l’era del mondo nettamente
separato in due sessi ognuno relegato nel proprio ambito «naturale» è stata rimessa in discussione da un pezzo. Questa rivoluzione delle identità non comporta solo una più decisa lotta a tutela delle donne, dei gay, delle lesbiche, dei trans e dei gender-fluid. Esige che il metro della parità venga applicato a tutti i segmenti della società, quindi anche ai maschi. In uno di questi due modi tra loro antitetici: o imponendo l’obbligo del servizio militare/civile anche alle donne o, al contrario, togliendolo anche agli uomini. L’argomento è delicato, visto che fino ad oggi le disparità di genere nella gran maggioranza dei casi sono state inflitte alle donne dagli uomini, condizioni salariali e possibilità di carriera nel mondo lavorativo incluse. Ma è certo che se ci si batte per una credibile parità di genere bisogna poterlo fare in un senso come nel senso opposto.
Leonardo Marchetti e Enrico Martino Pagine 23 e 34-35
Enrico Martino
Carlo Silini
BancaStato Walking Mendrisiotto festeggia dieci anni di vita!
Sponsoring ◆ Domenica 27 aprile 2025 una grande giornata all’insegna del movimento all’aria aperta, della compagnia e del divertimento
BancaStato Walking Mendrisiotto è sostenuto dallo sponsor principale BancaStato, dal co-sponsor Migros Ticino e con il supporto dalla città di Mendrisio. L’evento e tutte le partenze sono previste presso il Centro Manifestazioni Mercato Coperto di Mendrisio, a pochi minuti a piedi dalla stazione FFS. Un’edizione da non perdere con splendidi percorsi, pranzo offerto a tutti gli iscritti e animazioni!
Tre «nuovi» percorsi
In occasione dei 10 anni dell’evento gli organizzatori hanno deciso di proporre tre nuovi splendidi percorsi immersi nel verde che ripercorrono le località toccate nella prima edizione del 2015.
Concorso
«Azione» mette in palio 10 iscrizioni per Mendrisiotto Walking 2025. Per partecipare al concorso inviate una mail a giochi@azione.ch (oggetto: «Walking 2025») entro domenica 20 aprile 2025. Nella mail non dimenticate di indicare i seguenti dati: nome / cognome, Via / cap + città, data di nascita, e-mail, percorso, categoria (walking / nordic / walk&dog)
Walk&Dog
Per gli amici a 4 zampe e i propri accompagnatori è prevista la categoria «Walk&Dog» (valida su tutti i percorsi) che prevede oltre al pacco gara classico: il pettorale con nome del padrone e del cane e la ciotola-ricordo.
Dopo dieci anni di successi, l’appuntamento è ormai diventato una tradizione per tutto il territorio
Iscrizioni
Le iscrizioni sono possibili online tramite www.walkingmendrisio.ch oppure su www.biglietteria.ch e sul posto. La quota d’iscrizione include: t-shirt in tessuto tecnico, buono pasto per la zona pranzo dell’evento, pettorale con nome, carta giornaliera Arcobaleno (2a classe, tutte le zone Ticino e Moesano, valida il giorno dell’evento, codice inviato via email), rifornimenti e servizio sanitario lungo il percorso. Per la categoria «Walk&Dog» è inoltre prevista una ciotola-ricordo per il cane e il pettorale con nome del cane e del padrone.
I tracciati proposti per l’edizione 2025 sono tre: Famiglia (3.6 km): facile, pianeggiante e accessibile a tutti (anche con carrozzine e passeggini), Ca-
stello (9.2 km): media difficoltà e 360 m di salita totale si snoda tra campagna e vigneti dei comuni di Castel S. Pietro e Salorino; Salorino (12.1 km): splendi-
Un quarto di secolo insieme
Anniversari ◆ Congratulazioni e un «grazie» a collaboratrici e collaboratori di Migros Ticino che festeggiano i 25 anni in azienda
25 anni sono un quarto di secolo, e permettono di sviluppare un rapporto particolare con il datore di lavoro.
Nadia Balzarini
Nadia Balzarini è una fiorista diplomata. E questa sua passione per i fiori in Migros la vive da 25 anni.
Nadia, quale è il suo ruolo all’interno di Migros Ticino?
Sono stata assunta come fiorista diplomata. Ho sempre lavorato al reparto fiori e, in caso di necessità, anche alla cassa. Da quando il reparto fiori è stato congiunto con il banco accoglienza, mi occupo anche di tutte le questioni relative alla clientela. Lavoro a Sant’Antonino.
25 anni sono un quarto di secolo: cosa le piace maggiormente del suo lavoro dopo tutti questi anni?
Ho sempre amato la possibilità di dedicarmi ai fiori. Il feedback dei clienti per i consigli dispensati e le composizioni realizzate in questi anni mi hanno sempre riempita di orgoglio e di soddisfazione.
Quali sono le sfide che l’aspettano per i prossimi 25 anni?
In questi anni Migros è stata al passo con i tempi e ciò ha richiesto dei cambiamenti. Personalmente, ho sempre cercato di rinnovarmi e di adattarmi alle nuove situazioni. Il mio più grande desiderio è che il reparto fiori sia mantenuto e io possa continuare a svolgervi le mie mansioni.
Cosa augura a Migros nell’anno dell’anniversario?
100 anni sono un traguardo importante: a Migros auguro di cuore di raggiungere gli obiettivi che si è prefissata quest’anno.
Cosa rappresenta Migros per lei? Migros non rappresenta solo una fonte di soddisfazione personale, ma è anche un’opportunità di crescita professionale. L’azienda, infatti, offre diverse opportunità lavorative.
Claudia Caccialanza
Claudia, quale è il suo ruolo all’interno di Migros Ticino? Lavoro in cassa.
25 anni sono un quarto di secolo: cosa le piace maggiormente del suo lavoro dopo tutti questi anni? Del mio lavoro mi piace soprattutto il ruolo, nonché la possibilità di potere lavorare in un team affiatato e fidato. È per questo che dopo venticinque anni amo ancora ciò che faccio.
Quali sono le sfide che l’aspettano per i prossimi 25 anni? Ormai tra non molto mi aspetta il pensionamento.
Cosa augura a Migros nell’anno dell’anniversario?
A Migros auguro di restare leader sul mercato ancora per tanti anni, malgrado la concorrenza.
E per lei personalmente, cosa rappresenta Migros? È stata un ottimo datore di lavoro.
do dal punto di vista panoramico, per i più allenati (484 m di salita!) per scoprire le bellezze di Corteglia, Castel S. Pietro, Obino, Salorino e Somazzo.
Informazioni www.walkingmendrisio.ch
Riorganizzato il marketing
Info Migros ◆ Le quattro cooperative Migros della Svizzera occidentale concentrano le loro attività di marketing
Le cooperative Migros della Svizzera occidentale (Migros Ginevra, Migros Vallese, Migros Vaud e Migros Neuchâtel-Friburgo) e Migros Supermercati SA (MSM) in futuro collaboreranno ancora di più per rendere più interessante l’offerta Migros in questa regione. A tal fine, fondano a partire dal 1° luglio 2025 Migros Marketing Romand SA (MMR). Sarà così possibile centralizzare e ottimizzare la gestione dei prodotti, in modo da reagire alle esigenze in rapida evoluzione della clientela. Un assortimento su misura per la Svizzera romanda migliorerà ulteriormente l’esperienza di acquisto e aumenterà la quota di mercato in questa regione.
MMR avrà sede a Ecublens (VD). Il suo Consiglio di amministrazione è composto da rappresentanti delle cooperative partecipanti, di MSM e di Migros Logistique Romande SA (MLR). Bertrand Salamin, che gestisce il progetto da novembre 2024, ne assumerà la direzione. Entro la fine di giugno 2025 saranno occupati circa 30 posti vacanti presso MMR e ogni cooperativa manterrà anche posizioni per la gestione dei prodotti regionali. Il processo per ricoprire le varie posizioni è in corso. Migros sostiene le collaboratrici e i collaboratori che non passeranno alla nuova organizzazione in modo che possano trovare un’alternativa all’interno o all’esterno della Migros.
Claudia Caccialanza
Lavora per Migros Ticino dal 7 marzo 2000
Nadia Balzarini
Lavora per Migros Ticino dal 17 aprile 2000
Un appuntamento particolarmente amato e seguito, e non solo dagli abitanti del Mendrisiotto: nella foto, immagine da un’edizione passata. (Foto Garbani)
SOCIETÀ
L’obsolescenza programmata
L’invecchiamento di Pc e smartphone coglie impreparata la maggior parte dei cittadini. Ne parliamo con l’informatico Mattia Corti
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Mar Morto, un lago agonizzante
La crisi climatica e lo sfruttamento delle sue acque stanno facendo scomparire il lago più salato del pianeta
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Mondoanimale, la salute dei gatti
La castrazione degli esemplari domestici e randagi è fondamentale per il bene della popolazione felina
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Il lavoro visto con gli occhi della Generazione Z
Il caffè dei genitori ◆ I giovani hanno un nuovo approccio alla vita professionale e anche nuove pretese, quali le ricadute per le aziende e per la società? Ne abbiamo parlato con l’esperta Virginia Stagni
Storie della buonanotte per bambine ribelli. 100 ragazze di oggi per il mondo di domani, che raccoglie le storie di giovani donne che stanno plasmando il futuro in vari campi (ed. Mondadori, ottobre 2022), già le riconosceva il ruolo di mentore e grande ispiratrice per la Generazione Z «grazie alle sue idee e alla sua grande intraprendenza che la rendono un esempio di professionista di alto livello». Virginia Stagni, classe 1993, nota per essere stata la manager più giovane nella storia del quotidiano britannico «Financial Times» con il compito di scovare nuove idee per attrarre lettori under 30, dal settembre 2023 è dirigente responsabile delle strategie di marketing per l’Italia di The Adecco Group, l’agenzia di lavoro con sede a Zurigo e attiva in oltre 60 Paesi che fornisce lavoratori temporanei alle aziende, le aiuta a trovare candidati per posizioni a tempo indeterminato, le supporta nella gestione delle risorse umane e offre corsi di aggiornamento e riqualificazione. Comprendere gli interessi dei giovani e il loro approccio al mondo del lavoro è diventato dunque il cuore della professione di Stagni. L’abbiamo invitata a Il caffè dei genitori per aiutarci a capire se e come lo scenario lavorativo – e forse anche la società – possano essere trasformati dal nuovo approccio della Generazione Z. Un atteggiamento che, come raccontato nell’ultima puntata della rubrica Le parole dei figli, si riflette nel quiet quitting : un’espressione inglese, ormai divenuta il nuovo mantra dei più giovani, che indica l’idea di limitarsi al minimo indispensabile sul lavoro. Un concetto che si traduce in messaggi chiari: «il lavoro non è la tua vita», «il tuo valore non dipende dalla produttività», «ciò che conta davvero è l’equilibrio tra vita privata e professionale», insieme alla «salute mentale». La chiacchierata con Stagni si sviluppa su tre aspetti: che cosa c’è dietro le pretese degli Gen Z, (altrimenti definiti zoomer), quali sono le sfide che il nuovo approccio comporta per le aziende, le ricadute possibili per la società.
Dalla celebre favola di Esopo La volpe e l’uva, in cui la volpe, dopo aver cercato invano di raggiungere un grappolo d’uva, se ne va dicendo «Tanto è acerba!», Stagni ha tratto una lezione importante: è spesso più facile accusare le circostanze che affrontare le difficoltà e ammettere i propri fallimenti. Tuttavia, come afferma al Caffè dei genitori, «quello che a mio parere può sembrare un disinteresse nelle attività lavorative della Generazione Z non è un alibi per stare un passo indietro. Non credo nella “politica del lamento” e sono convinta che la maggior parte dei miei coetanei non lo sia. Piutto-
sto, penso che i più giovani, anche nel mondo del lavoro, siano guidati da un forte principio identitario: non è tanto il prestigio della banca, del brand o del giornale a motivarli, quanto la ricerca del mestiere per sé, ovvero un lavoro che rispecchi appieno la propria identità. Un aspetto su cui questa generazione è più esigente di quella dei genitori e ancora di più dei nonni, attirati soprattutto dal famoso posto fisso o in un luogo prestigioso».
I giovani della Gen Z sembrano essere alla ricerca soprattutto di un lavoro che rispecchi appieno la propria identità
Il rifiuto di mansioni extra non retribuite sottolinea il valore del tempo, che non può essere dato per scontato, soprattutto quando c’è l’esigenza di coprire le spese quotidiane, come l’affitto. La difesa del work-life balance (l’equilibrio tra vita e lavoro) è strettamente legata alla cura del benessere mentale. Inoltre, la definizione di sé passa sempre più attraverso le proprie passioni, che diventano strumenti per sviluppare competenze utili anche nel contesto professionale. «Ecco perché, dietro la “rivendicazione dei diritti” tipica della Gen Z – sottolinea Stagni – c’è soprattutto il bisogno di chiarez-
za sul proprio percorso professionale: “Qual è il mio ruolo? Quanto vengo retribuito? Quali sono le prospettive di crescita?”. Se la risposta del datore di lavoro non è convincente, allora arrivederci!».
La differenza con la mentalità di sacrificio e dedizione totale tipica delle generazioni precedenti è notevole. Conferma «The Economist», una delle riviste di economia, politica e attualità più influenti al mondo, in un articolo del 16 aprile 2024 dal titolo «La Generazione Z è incredibilmente ricca»: «Considerate il gruppo che ha preceduto la Gen Z: i millennial, nati tra il 1981 e il 1996. Molti sono entrati nel mondo del lavoro in un periodo in cui il mondo era sconvolto dalla crisi finanziaria globale del 2007-09, durante la quale i giovani hanno sofferto in modo sproporzionato. Work Bitch di Britney Spears, una canzone popolare pubblicata nel 2013, aveva un messaggio intransigente per i giovani millennial: se vuoi cose belle, devi faticare. I giovani della Gen Z che hanno finito gli studi affrontano circostanze molto diverse. La disoccupazione giovanile nel mondo ricco, pari a circa il 13%, non è mai stata così bassa dal 1991. Le canzoni popolari riflettono lo spirito del tempo. Nel 2022 il protagonista di una canzone di Beyoncé si vantava: “Ho appena lasciato il lavoro”. Sembra che i mil-
lennial siano cresciuti pensando che un lavoro fosse un privilegio e si siano comportati di conseguenza. Sono deferenti verso i capi e desiderosi di compiacere. Gli zoomer, al contrario, sono cresciuti credendo che un lavoro sia fondamentalmente un diritto, il che significa che hanno un atteggiamento diverso».
Più zoomer, meno boomer : il numero di Gen Z che lavorano a tempo pieno con il loro mindset (insieme di credenze, atteggiamenti e schemi mentali che influenzano il modo in cui una persona interpreta la realtà, affronta le sfide e prende decisioni) sta per superare il numero di baby-boomer a tempo pieno, quelli nati dal 1945 al 1964, le cui carriere stanno volgendo al termine. Cosa comporta, chiediamo col caffè dei genitori a Virginia Stagni, tutto ciò? Le nuove sfide per le aziende non sono legate solo al rischio di boomer-stumping che, tradotto letteralmente, sta per «mettere in imbarazzo il boomer» con un linguaggio a lui incomprensibile (vedi Le parole dei figli del maggio 2024). «Le aziende devono sviluppare capacità più che mai importanti –spiega Stagni –. Due su tutte: l’attitudine a ingaggiare lo Gen Z in un progetto che senta anche proprio, che vuol dire farlo sentire una “risorsa” e non un “numero”; e la chiarezza sul percorso di crescita professionale».
Per fare capire cosa intende, Stagni usa anche la propria esperienza personale raccontata in mille interviste: «La forte importanza che le nuove generazioni danno al bilanciamento tra vita privata e lavoro è innegabile. Qualcosa che prescinde l’insoddisfazione legata al salario, e riguarda più la personalità, i desideri e le aspirazioni. Non mi sono trasferita in Italia perché desideravo cambiare vita, ma sono tornata perché c’era un’ottima opportunità di lavoro che andava a soddisfare diversi miei bisogni che non sono tangibili. Credo sia primario sentirsi realizzati in un disegno di visione che va al di là della mansione quotidiana. I datori di lavoro fanno bene il loro mestiere quando riescono a far vedere cosa c’è oltre la job description, ossia la descrizione di una posizione lavorativa all’interno di un’azienda».
È possibile immaginare un futuro, ci siamo chieste infine a Il Caffè dei genitori, in cui la divisione delle responsabilità di figli e casa sia più equa? Meno sfruttamento sul lavoro e vite più equilibrate vorrà dire, di conseguenza, anche maggiore parità? Stagni ne è convinta: «Ci saranno sicuramente nuovi equilibri, i segnali ci sono già». Se così fosse il cambiamento nel modo di lavorare potrebbe scatenare una vera e propria rivoluzione socio-culturale. Chissà.
Due le sfide per le aziende: saper coinvolgere i giovani in un progetto che sentano anche proprio e fare chiarezza sul percorso di crescita professionale. (Freepik.com)
Simona Ravizza
La tavola pasquale della tradizione
Attualità ◆ Per molti a Pasqua il capretto al forno non può mancare, ma anche l’agnello è particolarmente apprezzato dai buongustai. Intervista ad Alberto Lucca, macellaio presso il rinnovato supermercato di Serfontana, che ci parla un po’ di sé, delle sue esperienze e di cosa va per la maggiore a Pasqua
Alberto Lucca, quando ha iniziato a lavorare alla Migros e quali sono sue mansioni?
Sono stato assunto alla Migros come macellaio banconiere nel 1998 e, dopo aver lavorato in diverse altre filiali, da oltre dieci anni sono responsabile merceologico dei banchi a servizio macelleria, formaggio e pesce del supermercato di Serfontana.
Cosa le piace di questa professione e cosa la motiva maggiormente?
Di questa professione amo il contatto con la clientela e il fatto di contribuire a soddisfare le sue esigenze in modo personalizzato e competente, offrendo sempre qualità e freschezza, servendo in maniera professionale e con simpatia. La motivazione che mi spinge quotidianamente è quella di costruire rapporti di fiducia che durano nel tempo.
Come si trova nel nuovo reparto macelleria del Serfontana?
Benissimo. Il nuovo reparto è davvero bello, moderno e funzionale. Permette di lavorare con efficienza e offre sicuramente un’esperienza d’acquisto migliorata per i nostri clienti.
Quali sono i consigli più richiesti dalla clientela?
Quelli che riguardano i metodi di preparazione dei vari tipi di carne e sui modi e tempi di cottura.
Per la prossima Pasqua, quali sono le specialità che consiglierebbe?
Sicuramente per tradizione il capretto al forno da noi è sempre mol-
Alberto Lucca, macellaio presso Migros
Serfontana, per Pasqua consiglia il tradizionale capretto e i racks d’agnello. (Flavia Leuenberger)
to gettonato, ma anche tagli dell’agnello come i racks e le lombatine riscuotono un buon successo, grazie al loro sapore delicato. Con la classica ricetta del capretto pubblicata in questa pagina, la riuscita è garantita!
Cosa caratterizza in generale la carne venduta alla Migros?
La carne della Migros si distingue per l’alta qualità, la provenienza controllata e il rispetto di rigorosi standard di benessere animale nell’allevamento. La maggior parte dell’assortimento di carne fresca proviene dalla Svizzera. / I.L.
Soprattutto nei paesi del Sud Europa, il capretto arrosto è particolarmente diffuso come piatto tradizionale pasquale. Spesso consumata tra marzo e maggio, la carne di capretto è simile a quella dell’agnello da latte. È una carne bianca molto tenera e dal sapore delicato, che si presta bene per cotture arrosto, al forno o in padella, per esempio condita con rosmarino, salvia, aglio, olio e burro. La carne di capretto dovrebbe essere consumata ben cotta ma non oltre il necessario, per mantenere tutta la sua tenerezza e il suo sapore caratteristico.
La ricetta Capretto al forno
Ingredienti per 4 persone
• 2 – 2.5 kg di capretto tagliato
• 2 cucchiai d’olio d’oliva extravergine
• 4 rametti di rosmarino
• 2 foglie di salvia
• 4 spicchi d’aglio
• 100 g di burro
• ½ litro vino bianco secco
• sale e pepe
Preparazione
1. Preriscaldare il forno a 170-180 °C.
2. In una pentola, rosolare per bene il capretto nell’olio d’oliva.
3. Dimezzate l’aglio, privatelo del germoglio verde e tagliatelo a fettine. Staccate gli aghi dai rametti di rosmarino e uniteli al capretto, assieme all’aglio.
4. Salate la carne. Unite il burro a tocchetti e mescolate il tutto.
5. Cuocete il capretto nel forno per ca. 90 minuti.
6. Bagnate con il vino e continuate la cottura per ca. 20-30 min.
7. Regolate di sale e pepe.
Buon Appetito !
Per gli amanti del pesce
Attualità ◆ Anche a Pasqua le specialità ittiche della Migros arricchiscono la tavola di piatti deliziosi e raffinati
Azione 10%
Il Venerdì Santo per molte persone è sinonimo di pesce. Le specialità ittiche accostate con raffinatezza a verdure di stagione ed erbette aromatiche trasformano la tavola primaverile in un tripudio di sapori e colori. Per la gioia degli amanti della buona cucina, ma che prestano attenzione anche alle scelte alimentari, nel suo assortimento, Migros offre pesce proveniente da fonti sostenibili. Garanti di questo impegno sono per esempio le certificazioni ASC per pesce derivante da acquacoltura responsabile secondo elevati standard ambientali e sociali; MSC per una pesca selvatica rispettosa degli habitat marini e Migros Bio, sinonimo di pesce e frutti di mare allevati secondo severi criteri biologici.
Un servizio competente
I nostri esperti del banco pesce Migros di Serfontana, Lugano, Agno e S. Antonino sono a disposizione della clientela per consigliarla in modo qualificato e personalizzato. Che si tratti di scegliere i prodotti più adatti alle proprie esigenze culinarie o di richiedere suggerimenti mirati su preparazione e ricette, siamo qui per aiutarti con un’ampia selezione di opzioni e consigli.
Su tutto l’assortimento di pesce al banco (esclusi gli articoli già in azione)
dal 15.4 al 19.4.2025
La ricetta Medaglioni di merluzzo e salmone affumicato allo zafferano
Piatto principale per 4 persone
• 1 dl di vino bianco
• ½ bustina di zafferano
• 2,5 dl di panna semigrassa per salse
• sale, pepe
• 500 g di filetti dorsali di merluzzo
• 200 g di salmone affumicato, ad es. Sockeye
• 1 cucchiaino di senape dolce
• 1 cucchiaino d’olio di girasole
Preparazione
Scaldate il vino con lo zafferano.
Unite la panna e condite con sale e pepe. Versate la salsa in una pirofila ampia. Scaldate il forno statico a 180 °C. Asciugate i filetti di pesce. Accomodate le fette di salmone su un foglio di carta da forno sovrapponendole leggermente e formando una lunga striscia. Spennellatele di senape e cospargetele di pepe. Accomodate i filetti di merluzzo sul salmone affumicato e avvolgeteli nel salmone. Tagliate il rotolo in medaglioni spessi 2 cm. Accomodateli nella salsa allo zafferano con la superficie di taglio rivolta verso l’alto. Irrorate i medaglioni d’olio. Cuoceteli in forno per 10-15 minuti. Cospargete di pepe.
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Le macchine invecchiano (troppo) in fretta
Tecnologia ◆ La chiamano «obsolescenza programmata» e trova impreparata la maggior parte dei cittadini
Ne parliamo con Mattia Corti, informatico sistemista indipendente
Matilde Casasopra
C’era una volta, nemmeno tanto tempo fa, un mondo nel quale quando si comperava qualcosa – una lavastoviglie piuttosto che un’automobile o un televisore – quell’oggetto, costato sacrifici e risparmi, durava se non per una vita intera, almeno per una trentina d’anni. C’era una volta, nemmeno tanto tempo fa, un mondo nel quale i conti si pagavano a fine mese allo sportello dell’ufficio postale e le ricevute venivano conservate in appositi contenitori. C’era una volta. Poi, nel giro di pochi anni, tutto ciò è stato pressocché cancellato a velocità supersonica. L’informatica – lo sapevate che il nome deriva dal francese informatique, unione delle parole information (informazione) e automatique (automatica)? – fa il suo ingresso nella vita quotidiana dei cittadini del mondo occidentale e, anno dopo anno, determina la terza rivoluzione industriale, attraverso quella che è comunemente nota come rivoluzione digitale. Ormai «digitalizzazione» è diventata la parola magica in ogni situazione e davanti a qualsivoglia problema. Ma… cosa significa digitalizzazione? Wikipedia dice che è il processo di conversione che, applicato alla misurazione di un fenomeno fisico, ne determina il passaggio dal campo dei valori continui a quello dei valori discreti. Ovvero? Un esempio può aiutare a capire meglio la situazione: le lancette di un orologio analogico si muovono con continuità (valore continuo), mentre un orologio digitale mostra il tempo con scatti successivi di numeri (valore discreto). È all’interno di questo processo di conversione dall’analogico al digitale che si è insinuata una nuova strategia, quella dell’obsolescenza programmata. La lavastoviglie, l’automobile, il computer, la televisione e il telefonino servono fino a quando il mercato non produce/propone un nuovo modello che, in teoria, risponde a nuovi bisogni. A farne le spese, visto che la strategia è ormai applicata in tutti gli ambiti, ciascuno di noi. È però il fronte tecnologico quello sul quale molti cittadini si trovano ad essere maggiormente indifesi. Tutti ormai abbiamo un telefonino, o un laptop, un computer, un tablet. Tanto per fornire, con un esempio, la dimensione del problema: a febbraio 2025, Windows 10 risulta installato su oltre il 50% dei computer desktop a livello mondiale. È a tutti questi utenti che una mattina è arrivato – o sta per arrivare – un messaggio: caro/a utente, a ottobre Windows 10 non sarà più supportato. Clicca qui: ti assistiamo nel passaggio al nostro nuovo mondo. Si clicca e… per molti ecco la sorpresa: purtroppo il tuo dispositivo non è in grado di supportare le novità del programma. Soluzione? Cambialo. A pensarci bene è normale che sia così. Se un telefonino durasse più di un x numero di anni chi ne comprerebbe uno nuovo?
Una domanda tormenta però quelli che, come me, provengono dal mondo del «c’era una volta»: non si può fare niente per evitare di acquistare nuovi dispositivi ed entrare nel circolo, davvero poco magico, dei figli dell’obsolescenza programmata? Ci siamo rivolti, per una risposta a
Come migliorare la sicurezza online
Over 65 ◆ Ha preso il via un ciclo di conferenze dedicato alla prevenzione delle truffe digitali e alla condivisione di esperienze
Barbara Manzoni
questa e altre domande, a un informatico sistemista indipendente che, tra software, hardware, server e programmi vari ci vive da quasi una quarantina d’anni. Il suo nome è Mattia Corti, classe 1972, tra i suoi clienti ci sono piccole e medie aziende, ma anche molti over 60 che sì, hanno imparato a usare gli strumenti del mondo digitale, ma ne ignorano il funzionamento dietro le quinte.
Mattia Corti, l’ultimo ad entrare nella famiglia dell’obsolescenza programmata è stato Windows di Microsoft. Pare che, a partire da ottobre 2025, saranno in molti a dover sostituire il proprio computer. Perché?
Diciamo che nel caso di Microsoft non si tratta proprio di obsolescenza programmata, o lo è solo in parte.
A partire da ottobre, infatti, Windows 10 perderà il suo supporto, cioè non beneficerà più di alcun aggiornamento, soprattutto di sicurezza, rendendo il sistema vieppiù esposto agli attacchi informatici. Così si rende necessario aggiornare il computer a Windows 11, che però per la prima volta nella storia di Microsoft chiede requisiti minimi molto esosi, in particolare un hardware non più vecchio di 7 anni. In particolare chiede il supporto per TPM 2.0, cioè uno standard di sicurezza che fornisce funzionalità crittografiche a livello hardware. Ecco perché non si può parlare proprio di obsolescenza programmata, in quanto questi requisiti diventano fondamentali, oggi, in un mondo in cui la sicurezza informatica è basilare e, come dimostra la cronaca quasi giornaliera di attacchi, panne, furti di dati eccetera, ancora piena di falle. Quindi scopriremo solo in futuro se anche Microsoft, come fa Apple da sempre, ha inserito l’obsolescenza programmata nella sua politica aziendale.
C’è qualcosa che si può fare per evitare la «rottamazione» del proprio fedele PC?
Si possono aggirare i requisiti minimi. Per un informatico l’azione non presenta particolari problemi, che esistono però per un utente normale. Un informatico è infatti in grado di aggiornare il sistema da Windows 10 a 11 quasi su qualsiasi PC,
ma ad ogni avanzamento di versione – come dalla 22H3 alla 22H4 – sarà necessario eseguire l’aggiornamento manualmente. Senza contare che in futuro potrà diventare sempre più difficile bypassare i requisiti minimi. Lo stesso discorso vale per Apple: esistono patch apposite che permettono di aggiornare con successo addirittura a Sequoia (l’ultimo sistema Apple) tutti i Mac diciamo dal 2013 in su. In entrambi i casi sono però operazioni difficili per un utente normale.
Capisco e vedo che l’obsolescenza programmata non dà solo problemi: agli informatici come lei dà di che vivere, ma… che possibilità ci sono per noi altri di non essere triturati da questo sistema?
Parte della risposta l’ho data prima: ci sono modi per aggirare l’obsolescenza programmata, ma solo con l’aiuto di un informatico o di un utente avanzato. Ciò apre però un grande discorso sulla carenza della scuola e dello Stato nel formare cittadini capaci di usare i propri dispositivi informatici senza esserne vittime: i ragazzini del nostro laboratorio, a 13 anni, sono in grado di aggiornare il proprio vecchio computer a Windows 11 senza problemi, ma il 99,99% della popolazione no. E, personalmente, resto sempre perplesso nel guardare una società basata sulla tecnologia – dove addirittura i pagamenti e i dati sensibili dell’utente vengono trattati con l’informatica – abbandonare i propri cittadini in balia di un mondo che non capiscono e ai quali nessuno ha insegnato o insegna a padroneggiare.
Tutto ciò vale anche per l’Intelligenza artificiale?
L’Intelligenza artificiale non aiuterà certo i dispositivi a durare di più: parliamo di un campo in piena evoluzione, che a ogni passo avanti chiederà requisiti hardware sempre superiori. Abbiamo già ad esempio microprocessori contenenti chip dedicati all’elaborazione dell’IA, come i nuovi Intel Ultra Core con il chip NPU (Neural Processing Unit), ma tenendo conto dello sviluppo supersonico di questa tecnologia c’è da aspettarsi una scalata dei requisiti
«Mio padre ha pensato di richiedere una carta di credito prepagata da utilizzare per gli acquisti online al posto della sua classica carta di credito. Dice che se gli “rubano” i dati della carta la somma che possono sottrargli è limitata. Ho cercato di spiegargli che la sicurezza online va tutelata in altro modo ma non so se mi ha capita». A raccontarmi la vicenda è una mia coetanea, il padre è un ottantenne in forma e piuttosto aggiornato sull’uso dei dispositivi digitali, eppure il sentimento che prevale sembra sia l’incertezza. Anche le organizzazioni attente ai bisogni della popolazione della terza età, Pro Senectute Ticino e Moesano, ATTE, GenerazionePiù, AILA-OIL, Generazioni&Sinergie e Opera Prima, sono consapevoli di quanto la sicurezza digitale sia centrale oggi nella vita degli over 65. Per questo motivo in collaborazione con la Polizia cantonale hanno organizzato, per i prossimi mesi, un ciclo di incontri informativi utili alla prevenzione delle truffe digitali.
Laura Tarchini, responsabile comunicazione di Pro Senectute Ticino e Moesano, conferma che, secondo uno studio di Pro Senectute Svizzera che sarà presentato a giugno, oggi il 74% di chi ha più di 65 anni è in grado di navigare online, e un numero crescente di anziani utilizza quotidianamente smartphone e applicazioni. «La tendenza la vediamo anche nel quotidiano – continua Laura Tarchini – le persone ci contattato sempre più tramite la mail oppure all’interno dei nostri corsi di sport si creano chat di gruppo. Molte persone anziane fanno già i pagamenti online tramite l’applicazione del proprio istituto bancario, insomma approfittano dei vantaggi della digitalizzazione, vantaggi che però bisogna sfruttare con consapevolezza. E proprio di questo si parla nel ciclo di incontri appena avviato, perché tutti possiamo ricevere mail di phishing e dunque è meglio essere vigili e all’erta. Inoltre i temi trattati prendono spunto proprio dai casi di truffe reali».
Secondo i dati della statistica criminale svizzera si osserva un aumento dei reati digitali nel 2024 (+34%). Di questi, il 93,9% riguarda la cybercriminalità economica, con un incremento dei casi di phishing (+56,2%) e dei reati di abuso di sistemi di pagamento online, carte prepagate o abuso di identità di terzi (+104,8%). Partendo da questa analisi, la Polizia cantonale ha dunque scelto di trattare alcuni aspetti generali, spiegare i principali reati digitali e poi soffermarsi sulle diverse tipolo-
Calendario eventi 2025
• 15 aprile, Chiasso, ore 15.00, Sede ATTE Chiasso
(Via Generale E. Guisan 17)
• 24 aprile, Locarno-Solduno, ore 14.00, Centro diurno Insema (Via D. Galli 50)
• 14 maggio, Monteceneri, ore 14.00, Centro diurno di Rivera (Via Capidogno)
• 28 maggio, Val Mara (Melano) ore 14.00, Sala del Consiglio comunale (Via Cantonale 89)
gie di truffa (truffa dell’investimento, truffa dell’anticipo, romance scam o truffa amorosa). Le conferenze saranno tenute dal sergente Patrick Cruchon, al quale abbiamo domandato se ci sono truffe digitali che toccano in particolare la popolazione anziana e quali sono i suggerimenti più semplici per evitare brutte sorprese. «Le truffe digitali – ci spiega Cruchon – sono lineari, cioè toccano tutti, indistintamente dall’età, chiaramente è più facile che ne sia vittima qualcuno meno avvezzo alle nuove tecnologie. Il primo suggerimento che diamo è che non tutto quello che è verosimile è vero. Di principio è meglio avere una sana diffidenza. Poi assolutamente usare delle password complesse, da conservare in sicurezza (a questo proposito segnalo un nuovo flyer pubblicato da Prevenzione svizzera della Criminalità e consultabile sul sito www.skppsc.ch/it/).
Bisogna inoltre avvisare immediatamente se il proprio account è stato violato o se si ha il sospetto che sia stato violato. È fondamentale poi aggiornare regolarmente tutti i dispositivi. Infine bisogna essere coscienti che ogni sito di una certa rilevanza ha una pagina dedicata alle disposizioni di sicurezza. Segnalo anche che sul sito della Polizia cantonale ci sono consigli utili per tutti https://www4.ti.ch/di/pol-new/ prevenzione/prevenzione». Queste conferenze nelle intenzioni degli organizzatori, oltre che un modo per informare e sensibilizzare, sono un’occasione per condividere esperienze in un momento di scambio reciproco. Un aspetto questo, sottolinea Patrick Cruchon, particolarmente importante sia perché l’esperienza diretta e reale tende ad essere più incisiva, sia perché a volte «condividere aiuta a liberarsi di un peso che tenere dentro non fa bene».
• 12 giugno, Bellinzona, ore 14.00, Centro abitativo e di cura Tertianum (Via San Gottardo 99)
• 11 settembre, Mendrisio, ore 14.00, Casa delle Generazioni (Via C. Pasta 2)
• 23 ottobre, Biasca, ore 14.00, Il Centro (Via A. Giovannini 24)
Aggiornare il proprio computer serve a mantenere gli standard di sicurezza basilari. (Freepik.com)
Il sergente Patick Cruchon durante la prima conferenza del ciclo (Pro Senectute)
Il Mar Morto si prosciuga, ha bisogno di cure
Insostenibilità ◆ La crisi ambientale unita allo sfruttamento delle sue acque sta facendo scomparire il lago più salato del mondo
La guerra e le tensioni geopolitiche della regione non fanno che aggravare la situazione
Luigi Baldelli, testo e foto
L’anziano cameriere di un resort, nella sua linda camicia bianca e pantaloni neri d’ordinanza, guardando la riva del Mar Morto oramai lontana una trentina di metri mi dice: «Quando da giovane ho iniziato a fare questo mestiere i turisti potevano mangiare con i loro tavoli a pochi metri dal bagnasciuga e gli alberghi e i ristoranti si affacciavano sulle rive. Le spiagge sabbiose che vedi oggi, erano ricoperte di acqua». Poi, indicando con la mano nodosa un punto più in basso, mi dice ancora: «Vedi, arrivava fino a lì. E in tutti questi anni si è ristretto, diventando ogni giorno più piccolo, l’acqua si allontana sempre di più». Fa per andarsene, ma poi si ferma di nuovo e aggiunge: «Io sono oramai troppo vecchio per vedere come andrà a finire, ma per quello che ho visto in tutti questi anni non credo che sarà una cosa bella il futuro di questo lago».
Il Mar Morto, che in realtà è un lago, è lo specchio d’acqua più salato del pianeta ed è certamente un fenomeno geologico unico. È chiamato in questo modo perché nella sua acqua, a causa dell’alta concentrazione di sale, non sopravvivono forme di vita, ma solo microbi. Si trova a più di 400 metri sotto il livello del mare e rappresenta la depressione più profonda della terra, risultato dell’evaporazione millenaria delle sue acque. Già nell’antichità erano noti i benefici sulla salute dopo un bagno nelle sue acque salate. Ancora oggi è meta di locali e turisti che trovano giovamento immergendosi al suo interno, o facendo i fanghi a bordo riva.
Il Mar Morto si abbassa di circa un metro all’anno; negli ultimi 50 anni ha ridotto la superficie da 950 a 600 km quadrati
Il Mar Morto è però anche un lago in grande sofferenza a causa della crisi climatica e dello sfruttamento da parte dell’uomo. Alimentato dal Giordano, il fiume biblico dove fu battezzato Gesù, oggi si è infatti trasformato in un disastro ambientale. Lungo 320 chilometri, segna il confine tra Giordania, Israele, Siria e Palestina, occupando parte di un’area geografica che soffre la scarsità d’acqua, per cui esso rappresenta l’unica fonte per uso domestico, ma anche per l’intera agricoltura che si sviluppa lungo il suo corso. L’inquinamento che ne deriva, per non parlare dei liquami che vi vengono riversati, ha ridotto il flusso del Giordano, passando da 1,3 miliardi a 30 milioni di metri cubi nell’arco di 50
Mar Morto, Giordania; sotto, alcuni turisti si cospargono di fango sulle rive del Mar Morto e lavaggi con l’acqua del Giordano.
anni. La conseguenza è presto detta: il Mar Morto ha subito un drastico abbassamento del livello, con una velocità di circa un metro all’anno, riducendo la sua superficie da 950 a 600 km quadrati, per l’appunto, negli ultimi 50 anni. A questo bisogna aggiungere il bilancio negativo tra evaporizzazione e acqua immessa, in quanto i cambiamenti climatici e il riscaldamento globale comportano un innalzamento delle temperature e un aumento dell’evaporizzazione stessa.
La sorte sembra accanirsi contro questa bellezza della natura, perché ad aggravare il problema ci si mette anche la scarsità di piogge con la conseguente e crescente siccità che colpisce il Medio Oriente, già afflitto da altre guerre che non quelle ambientali. Come detto, tuttavia, l’uomo non è esente da colpe verso i danni causati al grande lago salato. Se da una parte lo danneggia con lo sfruttamento incontrollato del fiume Giordano, dall’altro agisce un abuso anche direttamente con le industrie minerarie, lungo le coste israeliane e giordane, che pompano acqua dal Mar Morto, per farla evaporare in apposite vasche e isolare i minerali di cui è ricco il bacino.
Tra questi minerali ci sono: la potassa, utilizzata come fertilizzante agricolo; il magnesio, usato nell’industria automobilistica; e il bromuro, adoperato nei pesticidi. Secondo la EcoPeace Middle East – un’organizzazione che riunisce ambientalisti israeliani, palestinesi e giordani – le
attività di estrazione minerarie della israeliana Dead Sea Works e della giordana Arab Potash Company, più precisamente i loro bacini industriali di evaporizzazione solare, sarebbero responsabili del 30-40% del consumo delle acque del Mar Morto.
L’acqua viene pompata al nord, dove il bacino è più profondo e tale estrazione, secondo i dati, provoca una perdita di oltre 84 miliardi di litri d’acqua all’anno. L’insieme di questi ingredienti ci mostra una fotografia dell’allarmante situazione in cui versa il Mar Morto, e gli studi fatti da scienziati e geologi dicono che se non si interviene al più presto, il rischio che questo specchio d’acqua possa scomparire nei prossimi 50 anni è davvero reale. Già nel 2014 la rivista «Time» lo aveva messo nell’elenco dei luoghi da visitare prima della sua scomparsa. E la situazione oggi è aggravata dal fatto che il Mar Morto si trova in una regione in cui guerre e tensioni geopolitiche ostacolano gli sforzi per contrastarne il prosciugamento. Lo ha dichiarato poco tempo fa all’agenzia di stampa France Presse l’idrologo Nadav Tal dell’ufficio israeliano della Ong ambientalista EcoPeace che ha sottolineato che «la cooperazione regionale è la chiave per salvare il Mar Morto». Non è inusuale vedere lungo le rive del Mar Morto fatiscenti alberghi abbandonati, scheletri di hotel e ristoranti che una volta si specchiavano nelle acque del lago, mentre oggi sono lontani e circondati da sabbia e ster-
paglie. La profondità dell’acqua nella parte sud del bacino oramai è di pochi metri. Questo grave processo di prosciugamento, (dove le previsioni più drastiche prevedono il totale ritiro del Mar Morto entro il 2050), come conseguenza ha provocato un ulteriore danno ambientale, quello che viene chiamato «sinkholes», cioè le doline, la nascita di veri e propri crateri. Questi fenomeni carsici avvengono perché con il ritiro dell’acqua le rive del lago sono sempre più asciutte e ciò comporta lo sciogliersi degli strati sotterranei di sale, che scomparendo lasciano crateri che si ingigantiscono a causa degli sprofondamenti del suolo. Alcuni sono solo di pochi metri di diametro, mentre altri, molto più grandi, hanno inghiottito porzioni di alberghi e case.
I turisti, che provengono da tutto il mondo per godere delle tante proprietà benefiche e curative del Mar Morto, non si pongono certo il problema del futuro del lago. Li si osserva lungo le spiagge mentre prendono sole oppure galleggiare dondolati dalle onde. L’elevata salinità dell’acqua, aumentata a causa delle forti evaporizzazioni, la rende così densa che è impossibile nuotare. Le proprietà benefiche dell’acqua portano molti di loro a fare queste «vacanze curative» per alleviare patologie come artrite, vitiligine e psoriasi. Stesso discorso per i trattamenti naturali con i fanghi che si possono fare lungo la riva e che sono di grande effetto per la pelle.
Sparsi ovunque si trovano contenitori pieni di fango ed è normale vedere uomini e donne completamente ricoperti di palta marrone, che sembrano degli strani esseri venuti da un altro mondo, beneficiare di questa poltiglia. Del resto sembra che anche la regina Cleopatra si bagnasse nel Mar Morto per curare il suo aspetto e la sua bellezza e godere dei suoi benefici sulla salute.
Ma a godere di una cura speciale dovrebbe essere lo stesso Mar Morto: in tutti questi anni sono stati portati avanti diversi progetti e idee, che faticano però a trovare sbocchi concreti. Tra questi, l’idea su cui si lavora da circa 20 anni è quella di costruire un canale che porti acqua salata da Aqaba sul Mar Rosso fino al Mar Morto. Il progetto prevede anche un impianto di desalinizzazione per ottenere acqua dolce, mentre l’acqua rimanente, ancora più salata, sarà fatta confluire nel Mar Morto; inoltre è prevista la costruzione di una centrale elettrica. Come detto, sono però passati già circa 20 anni da quanto il progetto è finito sul tavolo di discussione tra i vari Paesi che si affacciano sul Mar Morto, e ancora oggi non sembra ci si muova verso la sua realizzazione in tempi brevi. Non mancano d’altronde alcune critiche che si levano al riguardo, anche in merito alla portata d’acqua che confluirà nel bacino: secondo gli esperti, oltre a essere un progetto invasivo e costoso, alzerebbe il livello dell’acqua solo di pochi metri. Un altro proponimento utile a porre un rimedio al problema parte da più a monte e cioè dal naturale fornitore del Mar Morto, il fiume Giordano. Sembrerebbe essere un progetto più sostenibile e più attento all’ambiente, e avrebbe a che fare con la razionalizzazione e la riduzione dei consumi dell’acqua del fiume, contenendo gli sprechi sia in ambito civile sia industriale.
Tale riduzione dovrebbe essere compensata dall’aumento dell’utilizzo di acqua desalinizzata del mare. A ciò seguirebbe una maggiore apertura della diga sul lago Tiberiade – che si trova lungo il corso del Giordano e a monte del Mar Morto – e un minor prelievo delle industrie minerarie presenti sulle coste del bacino. Ma anche quest’altra idea, portata avanti da diversi anni, ad oggi, dopo riunioni, incontri, convegni, studi e progetti, rimane solo sulla carta.
La situazione è davvero critica. E di non facile risoluzione. La calura del pomeriggio mi costringe alla sosta in un chiosco ai margini della strada che scavalla le rive del lago.
Un beduino sul dorso di un cammello passa lento. Il ragazzo che mi porta la bibita mi chiede perché sono lì. E alla mia risposta, «per vedere questa meraviglia che rischia di scomparire», mi guarda prima strano, poi con voce bassa e triste mi dice: «lo so, purtroppo. E noi non stiamo facendo niente per salvarlo». Si sistema i capelli neri, accende una sigaretta e continua: «Goditi questa vista fino a che puoi. Io lo vedo tutti i giorni ma non mi sento fortunato per questo». Dopo qualche secondo di silenzio gli chiedo il perché, mentre l’ultima luce arancione del tramonto illumina il suo viso.
Informazioni
Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.
Per il bene del micio e della popolazione felina
Mondoanimale ◆ La castrazione dei gatti domestici e randagi è fondamentale per la loro salute: le considerazioni e i suggerimenti della Protezione Svizzera degli Animali
Maria Grazia Buletti
Pare provocatorio chiedersi se in Svizzera e in Ticino ci siano troppi gatti domestici, ma secondo gli esperti non vi sono dubbi sull’incremento esponenziale del numero dei felini negli ultimi anni. Una tendenza che si è ulteriormente accentuata negli anni della pandemia (ciò vale per tutti gli animali domestici). Un’attitudine globale, suffragata dalle statistiche di The Ecology Global Network che attualmente indicano tra 600 milioni e un miliardo il numero totale di gatti al mondo, dei quali circa 100 milioni selvatici, 480 milioni randagi e 373 milioni stimati domestici. Su incarico dell’Ufficio federale della sicurezza alimentare e veterinaria (USAV), uno studio condotto dal Veterinary Public Health Insititute indica che la Svizzera si difende altrettanto bene con approssimativamente a 225mila esemplari la presenza di felini selvatici (incustoditi) e domestici in Svizzera. L’incremento esponenziale del numero di gatti tocca anche il Ticino: i dati registrati sulla banca ANIS indicano che in otto anni i gatti registrati con microchip sono praticamente triplicati. Ciononostante, il nostro cantone non si posiziona nei primi posti per numero di gatti presenti sul territorio, piazzandosi solo a metà della classifica in cui domina Zurigo con 120mila gatti registrati e chiude Appenzello Interno con sole poche centinaia. Va ricordato che questi numeri riflettono solo una parte della realtà, in quanto relativi ai gatti che sono stati dotati di microchip e registrati sulla banca dati nazionale. Ciò significa che in alcuni cantoni il tasso di gatti può essere maggiore rispetto a quelli censiti. Ad ogni modo e in termini assoluti, le ultime stime valutano il numero di felini «ticinesi» tra gli 80 e i 100mila esemplari. Dati che, al di là di tutto, testimoniano il grande legame che abbiamo nei confronti di questi animali che, insieme ai cani, fanno parte del quotidiano di tantis-
Christine Nöstlinger Nel ducato in fiamme San Paolo (Da 11 anni)
Sono usciti da poco due romanzi di quella che può essere considerata la più celebre autrice di lingua tedesca per ragazzi dell’ultimo mezzo secolo: Christine Nöstlinger. Austriaca, nata nel 1938 e morta nel 2018, ci ha lasciato storie deliziose, sia di genere fantastico sia realistico, sempre pervase di humour e sottile ironia, anche quando narrano di temi tutt’altro che da ridere, come la guerra, che lei visse negli anni della sua infanzia e che seppe raccontare con una limpida, caustica, disarmante (è il caso di dirlo) prospettiva bambina. Come avviene nel romanzo Nel Ducato in fiamme, tradotto ora per la prima volta in italiano per San Paolo. La sapiente traduzione di Anna Patrucco Becchi ha saputo rendere in italiano tutta l’incisività della scrittura della Nöstlinger, la grazia schietta e «impertinente» della voce narrante della piccola protagonista, che guarda il mondo degli adulti con quell’acutezza mista a stupore che solo i bambini hanno. Inoltre, la
Al contrario di quanto comunemente si pensi, i gatti castrati sono ottimi cacciatori perché non devono più investire le energie nelle lotte di territorio o per allevare la prole (Freepik. com)
simi svizzeri e ticinesi. D’altra parte, non possiamo esimerci dal pensare ad alcune inevitabili ripercussioni che comporta il loro aumento esponenziale degli ultimi anni. Sul tema si sono seriamente chinati l’USAV e la Protezione Svizzera degli Animali (PSA), con considerazioni, suggerimenti e soluzioni adeguate e necessarie per una convivenza che sappia preservare la salute dei nostri beniamini felini. Con l’obiettivo del «bene del vostro micio e della popolazione felina», la PSA si allinea all’USAV con il motto «Castrazione anziché soppressione dei gatti», invitandoci a riflettere sul fatto che: «Le riproduzioni incontrollate possono portare a cucciolate indesiderate che, a loro volta, possono essere pericolose sia per la madre sia per i cuccioli appena nati. Esse contribuiscono an-
che alla sovrappopolazione felina, con l’aumento del rischio di abbandono, abuso o uccisione». Sono i motivi per i quali il sodalizio si impegna attivamente nella castrazione dei gatti randagi che indica come «metodo più rispettoso degli animali per impedirne la prole indesiderata». Si rimanda alla responsabilità dei detentori di gatti domestici con una profonda convinzione: «La castrazione dei gatti domestici e randagi ha un’importanza fondamentale per proteggere la loro salute e il loro benessere». D’altronde, l’articolo 25 cpv. 4 dell’Ordinanza sulla protezione degli animali (OPAn) USAV riporta chiaramente che «il detentore di animali deve adottare i provvedimenti del caso per evitare che questi si riproducano in modo incontrollato».
Due gli argomenti salienti citati
dalla PSA a favore della castrazione: «I gatti castrati vivono notevolmente più a lungo; l’impulso di cercare un partner viene a mancare e, con esso, i pericoli a cui esso si espone girovagando per strada (traffico, ferite dovute alle baruffe coi rivali, malattie contagiose). Inoltre, il numero di gatti è sufficientemente elevato e sta di fatto che tanti sono randagi, mentre molti attendono un’adozione nelle pensioni per animali. Castrando il proprio gatto si impedisce che la popolazione prolifichi in queste condizioni disagiate e, contemporaneamente, aumentano le possibilità di trovare casa e collocazione per i gatti dei pensionati per animali». Ai detrattori di questo metodo di controllo delle nascite, si chiede di riflettere. «La castrazione non comporta degli svantaggi, ma solo pregiudizi al riguardo. Uno dei più
comuni è quello secondo cui il gatto castrato aumenta di peso perché si muove meno. Se un gatto diventa o meno in sovrappeso dipende piuttosto dal suo proprietario e dalla quantità di cibo che riceve. È invece vero che nei gatti castrati talvolta si forma la pancia “cascante” riconducibile a una debolezza della pelle e dei tessuti connettivi e, quindi, nulla ha a che vedere con il sovrappeso».
Altro preconcetto da smentire è che i gatti castrati non riescono più a catturare i topi: «Una leggenda senz’altro sfatata dal fatto che l’impulso della caccia non ha niente a che fare con quello di fecondazione. Al contrario, i gatti castrati sono spesso i cacciatori migliori perché non devono più impiegare le loro energie nelle lotte di conquista del territorio o per allevare la prole». Un’altra convinzione infondata riguarda il fatto che un gatto debba assolutamente figliare almeno una volta altrimenti assumerebbe strani comportamenti: «Si tratta di nostre proiezioni e, quindi, del nostro modo di interpretare gli istinti animali, basandoci sull’esperienza umana». Rassicurazioni giungono anche sulla presunta pericolosità della pratica di castrazione: «Di norma è un intervento di routine che non presenta pericoli. Per i gatti maschi (incisione microscopica nelle sacche dei testicoli) è un’operazione ancora più semplice di quanto lo sia per le femmine alle quali, per estrarre le ovaie, è praticata un’incisione sulla parete dell’addome, successivamente ricucita con un paio di punti». Interventi che possono essere affrontati da animali sani senza alcun problema, è la rassicurazione della PSA che chiude il discorso con un’ipotetica panoramica della crescita dei gatti se si escludesse la castrazione: «Considerato che una coppia di gatti annualmente mette al mondo due nidiate, e per ciascuna sopravvivono tre cuccioli, dopo sette anni da noi si avranno oltre 420mila gatti!».
scrittura originale presenta frequenti forme gergali tipiche della cultura austriaca, e la traduttrice ha saputo fare scelte opportune, lasciandole quando era il caso o invece adattandole in altre occasioni, come ad esempio nel titolo, che in italiano ha addirittura una risonanza gaddiana, e che ai giovani lettori potrà evocare un mondo in rovina e in cambiamento, mentre in tedesco evocava una celebre filastrocca infantile, Maikäfer, flieg : «Maggiolino vola via! Papà in guerra già s’avvia…». La Nöstlinger pubblica questo romanzo nel 1973, ma i fatti che racconta sono ispirati alla sua infanzia, e risalgono al 1945, in una Vienna sotto le bombe e con
l’Armata Rossa alle porte, e quindi in premessa ci avverte che, se la filastrocca Maikäfer, flieg è per i bambini contemporanei appunto solo una filastrocca, «i bambini di allora sapevano esattamente quello che stavano cantando. Papà si era avviato davvero in guerra». Così è per Christel, la bambina protagonista, che con la mamma e la sorella sfolla in campagna, nella villa estiva di una ricca signora trasferitasi in Tirolo, che aveva bisogno di personale che si prendesse cura della sua casa. Comincia così l’avventura quotidiana di Christel, una sorta di strana «vacanza» in cui i bambini possono anche sfuggire allo sguardo degli adulti, e nelle loro libere esplorazioni riflettere e farci riflettere su molte cose, senza nascondere quelle più cupe, come la preoccupazione per i nonni rimasti a Vienna, o per i soldati russi accampati in villa che di notte si ubriacano, o per quello che è uno dei personaggi più toccanti del romanzo, Cohn, cuoco dell’esercito, ebreo di Leningrado, mite, miope e saggio, emarginato dai soldati ma molto amato dalla piccola protagonista, che con il suo sguardo limpido sa vedere oltre la superficie.
Christine Nöstlinger
Che c’importa di Re Cetriolo
La Nuova Frontiera Junior (Da 9 anni)
Un altro romanzo di Christine Nöstlinger appena uscito, e presentato anch’esso alla recente Bologna Children’s Book Fair, è Che c’importa di Re Cetriolo. Era già uscito in italiano in precedenza ma si tratta comunque di una novità perché torna in libreria con una nuova traduzione, affidata anche in questo caso ad Anna Patrucco Becchi, che anche qui si destreggia ad esprimere ottimamente in italiano tutta l’ironia lessicale della Nöstlinger. Qui siamo in un ambito completamen-
te diverso dalla storia di guerra di cui parlavamo prima, perché, pur in una situazione realistica di partenza - quotidiane gioie e fatiche di una famiglia composta da papà, mamma e tre figli - irrompe improvvisamente un personaggio buffo, ingombrante e fantastico, il Re Cetriolo (il Gurkenkönig) del titolo. Con sommo sconcerto la famiglia se lo trova sul tavolo della cucina a chiedere asilo in quanto, racconta, è stato scacciato dai sudditi in rivolta, dal suo regno «nella cantina inferiore» della casa, quella dove non si va mai, ma che non a caso costituisce uno di quegli underground fantastici di cui è ricca la letteratura per l’infanzia. Ad ogni modo, il Re Cetriolo si rivela da subito una presenza invadente e molesta, anche se il papà sembra subirne il fascino, e così pure il fratellino più piccolo, mentre Wolfgang, il fratello di mezzo e io narrante, non si fa intimidire e cerca di venire a capo della questione, con l’aiuto della sorella maggiore. Un romanzo che nel suo surreale brio non nasconde un senso etico-politico, e che esprime, anch’esso, quella che è una delle cifre più peculiari della scrittrice austriaca, e cioè il saper raccontare il mondo con la limpidezza senza sconti dello sguardo bambino.
Viale dei ciliegi
di Letizia Bolzani
L’altropologo
Pensare a motore
Kumasi è la seconda città del Ghana. Situata al centro del Paese è la sede dell’Asantehene, il Re di una vasta confederazione di stati e staterelli tradizionali che fu una spina nel fianco ai tempi della colonizzazione britannica. Oro, oro e oro: viene ancora estratto in abbondanza dalle profondità e ora anche in superficie, con risultati devastanti per l’ambiente e la salute degli abitanti.
Lungo la strada per il Nord, alla periferia della città, si trova la località nota in tutto il Ghana come Magazine – il Magazzino. Che non è una rivista a stampa come nell’inglese ufficiale, ma una sequenza ininterrotta lunga un paio di chilometri di rivendite di pezzi di ricambio per veicoli di ogni tipo: motori, sospensioni, scatole del cambio, pneumatici, carburatori… –oppure pezzi, semplicemente «pezzi», in purezza. Di cosa, come quando e perché lo sanno solo quelli che «quel pezzo» particolare cercano e trovano
dopo ore e giorni di ricerca. S’intende: qualche principio d’ordine c’è – o meglio, tenta faticosamente di imporsi… Mercanti e mediatori dotati di memoria evidentemente sovrumana sono in grado di indirizzare più o meno vagamente gli esploratori/avventori verso laggiù dove ci sono i motori Volvo o mezzo chilometro indietro dove invece vendono pneumatici di seconda mano SAAB… Al momento trionfano cataste di ricambi giapponesi, Toyota in testa, ma vanno forte anche pezzi, frammenti e schegge dei tricicli tipo Vespa Piaggio: piramidi di ferramenta in via di ossidazione terminale. Fino ad una trentina d’anni fa c’era un settore del Magazine che ancora vendeva pezzi di ricambio FIAT: nella memoria del vostro Altropologo è ancora ben saldo il ricordo della carcassa di una Topolino issata come una bandiera in cima alla catasta come fosse il segnavento del campanile di casa. Al Magazine ci passai una mezza
La stanza del dialogo
Il tradimento,
giornata assieme al mio meccanico personale. Esploratori postmoderni che si aprivano il varco in una giungla di metallo irta di pericoli, eravamo alla ricerca di un carburatore per la mia Honda 650 Dominator. Dan, il mio meccanico, mentore e guida, aveva insistito che si andasse a cercarlo perché – sosteneva – valeva ancora la pena provare a rimettere in strada quel catorcio a due ruote che era ormai diventata la mia gloriosa compagna di avventure. Ricordo il caldo bestiale di quella stagione delle piogge: i ristagni d’acqua nei pezzi di ricambio favorivano il proliferare di una popolazione di zanzare inferocite… «Dan, non ce la faccio più… lasciamo perdere! Tanto ho deciso che la moto la lascio qui… Il piano era di tornare al Nord in moto ma così, senza carburatore, costa di più caricarla su un camion che venderla qua e tornare noi col camion». Avevo sudato anche le lacrime per piangere, ero alla fine: «E coi
tra rabbia, tristezza e tanti dubbi
Cara dottoressa Vegetti Finzi, mi rivolgo a lei perché mi sento smarrita, come se il terreno sotto i miei piedi si fosse improvvisamente sgretolato. Sono sposata da dieci anni con Luca, un professore universitario che ho sempre considerato una persona seria, leale e dedita alla nostra famiglia. Abbiamo due figli piccoli e una vita che, fino a poco tempo fa, mi sembrava solida e felice. Tutto è cambiato quando, una sera, ho visto un messaggio sul suo cellulare. Era di una sua studentessa, una ragazza giovane e brillante, come lui stesso mi aveva descritto in passato. Le parole erano inequivocabili: un’intimità che non avrebbe dovuto esistere, un’ammissione che mi ha trafitto il cuore. Ho affrontato Luca, e dopo un iniziale tentativo di negare, ha ammesso tutto. Si è innamorato di lei, mi ha detto, senza volerlo, senza cercarlo. Non so come rea-
gire. Da un lato, c’è la rabbia per il tradimento, per la facilità con cui ha messo a rischio la nostra famiglia. Dall’altro, c’è la tristezza di vedere l’uomo che amo confuso, quasi in colpa per ciò che prova. Mi ha giurato che non vuole lasciarmi, che vuole salvare il nostro matrimonio, ma io non riesco più a fidarmi. Mi chiedo: è possibile ricominciare, vale la pena lottare per qualcosa ormai incrinato? Ho paura di perdere tutto: lui, la nostra famiglia, la vita che abbiamo costruito. Ma ho anche paura di rimanere in un rapporto dove la fiducia è stata spezzata. Cosa devo fare? Come posso superare questo dolore e decidere cosa è meglio per me e per i nostri figli? Grazie per il suo ascolto. / Laura
Cara Laura, la tua lettera mi ha commossa, perché racconta una storia che tocca il
La nutrizionista
cuore di molte coppie, soprattutto quando il tradimento si intreccia con dinamiche di potere e vulnerabilità, come nel caso di un professore e una studentessa. La scoperta è stata per te un fulmine a ciel sereno, un evento che ha scosso le fondamenta della tua vita e della tua identità. Luca si è trovato coinvolto in una situazione che ha messo alla prova il suo equilibrio emotivo e la sua capacità di mantenere i confini del rapporto coniugale. Tuttavia, il fatto che abbia ammesso il suo errore ed espresso il desiderio di rimediare è un segnale che merita attenzione. La prima cosa che ti suggerisco è di prenderti del tempo per elaborare il dolore che stai provando. Non c’è fretta di prendere decisioni definitive. Solo comprendendo le tue emozioni potrai affrontare la situazione con maggiore chiarezza.
di Cesare Poppi
soldi che prendiamo compriamo una cassa di birra gelata, poi ci pensiamo». Dan mi aveva guardato con quei suoi occhi un po’ malinconici, poi provò a dire qualcosa. Era affetto da una forma di balbuzie estrema. Quando poi si emozionava riusciva solo ad emettere, nello sforzo, una sorta di sibilo intermittente, infine il volto gli si illuminava di un sorriso come per scusarsi… e io avevo già capito tutto. Dunque avevo appena alzato la mano per comunicargli – appunto – che avevo compreso tutto (cosa di preciso non so, ma capivo che non fosse d’accordo con la mia vigliacca rinuncia) e risparmiare a lui lo sforzo e a me l’imbarazzo, quando se ne uscì con un versaccio trionfale mentre puntava un grumo di ruggine là, laggiù sotto la pila di ferramenta c’era il Carburatore Honda Dominator. Dan pensava a motore. Nel senso che aveva fatto missione della sua vita riparare i motori così come un chirurgo
Finzi
Luca ha ammesso di essersi innamorato di un’altra, ma ha anche espresso il desiderio di salvare il vostro matrimonio. Questo è un punto di partenza, ma non è sufficiente. Per ricostruire la fiducia, è necessario che entrambi vi impegniate in un dialogo sincero e profondo. Chiedigli di spiegare non solo cosa è accaduto, ma anche perché è accaduto. Spesso il tradimento nasce da una mancanza di comunicazione, da un vuoto non riconosciuto. Tuttavia, non dimenticare che il perdono non è un obbligo, ma una scelta. Se decidi di perdonare, devi farlo con consapevolezza, sapendo che il percorso di riconciliazione richiederà tempo e pazienza. Se invece senti che il tradimento ha spezzato qualcosa di irrimediabile, non aver paura di prendere una strada diversa. L’amore per sé stessi
L’alimentazione e la salute delle ossa e della cartilagine
Gentile signora Laura, da tempo purtroppo soffro di dolori articolari, fatico a muovermi e dopo aver fatto molte analisi e controlli sembra che io abbia una degenerazione della cartilagine e delle ossa e i medici ora stanno cercando le cause e una diagnosi. Ho 72 anni, desidero ancora essere attivo e indipendente ma questi dolori mi rendono tutto difficile, fatico a muovermi perché la degenerazione mi ha preso le ginocchia, le anche e le spalle quindi passo molto tempo seduto sul divano e mi muovo poco con l’aiuto di un bastone e quindi temo pure che i mio peso possa aumentare, sono probabilmente già obeso. Non voglio andare avanti così, mi sto attivando per trovare una soluzione e mi rivolgo a lei col desiderio di sapere se posso seguire un’alimentazione specifica che mi aiuti magari a rigenerare le parti danneggiate e avere meno dolori. La ringrazio per una gentile risposta. / Paolo
Egregio signor Paolo, mi dispiace molto per i suoi dolori e
spero possa trovare presto una causa e una cura che l’aiuti a stare meglio. In generale posso dirle che purtroppo col passare dell’età a tutti possono iniziare a vedere degenerare e indebolirsi le ossa e il tessuto connettivo; è giusto però fare degli accertamenti per capire se ci sono anche delle malattie che possono accelerare o peggiorare questo processo. Per quel che concerne l’alimentazione essa può dare effettivamente un prezioso aiuto con alcuni nutrienti vitali come vitamine, minerali e antiossidanti, che svolgono un ruolo importante nella salute delle ossa e della cartilagine. Per le ossa ormai tutti sanno che il calcio e la vitamina D aiutano ad averle forti, e quindi è bene consumare latticini, verdure verdi, cavolo cotto, yogurt, kefir, broccoli cotti, pak-choi (cavolo cinese), formaggio, mandorle (che sono ricche di calcio), mentre olio di fegato di merluzzo, sardine, salmone,
sgombro, tonno, latte, uova e funghi sono ricche di vitamina D. È pure importante passeggiare al sole, perché il movimento e il peso rendono l’osso e le articolazioni più forti mentre il sole stimola la produzione della vitamina D. Altri due nutrienti vitali implicati nella salute delle ossa sono il magnesio, che è necessario per attivare tutti gli enzimi che metabolizzano la vitamina D nel corpo e il potassio, che aiuta a neutralizzare l’acido nel corpo in modo che il calcio non venga perso dalle ossa. Le patate dolci sono una grande fonte per entrambi questi nutrienti. Le altre sono gli spinaci, l’avocado, la banana, le bietole, i semi di zucca, le mandorle, i fagioli neri, i fichi, il cioccolato fondente, la zucca, il salmone, le barbabietole.
Per sostenere il tessuto connettivo si possono mangiare cibi che aumentano il collagene. Cibi ricchi di collagene sono nello specifico tagli di carne
decide di sacrificare la sua per la vita dei pazienti. Conservava quei quattro attrezzi consunti da anni di usura che era riuscito a rimediare, chissà come e dove, in un vecchio fradicio e puzzolente otre di pelle di capra. Ne emergeva – ricordo – un gigantesco martello autocostruito, modello «fabbro del villaggio», che chiamava in servizio più spesso che no: la martellata su un pezzo recalcitrante era come il taglio di bisturi, magistrale e risolutore, di un chirurgo di fama. Il problema è che funzionava. Dan era in grado di tenere in strada motori che altrove sarebbero stati condannati al forno fusorio senza passare dal via. Lui non si arrendeva mai. Con la determinazione di un trainer deciso a far vincere alla sua mummia le Olimpiadi di Corsa nel Sacco.
Mi informano che lo hanno trovato morto, riverso su un motore che stava riparando. Aveva non più di quarant’anni. God bless you, Dan.
è altrettanto importante dell’amore per l’altro. Infine, ricorda che la crisi può essere un’opportunità per crescere, sia individualmente che come coppia. Come scrivevo in La stanza del dialogo: «Le relazioni sono un viaggio continuo, fatto di alti e bassi, di momenti di luce e di ombre». Ciò che conta è non perdere di vista il rispetto reciproco e la volontà di restare padre e madre dei vostri figli. Con l’augurio che tutto si risolva per il meglio.
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a info@azione.ch (oggetto «La stanza del dialogo»)
piena di tessuto connettivo come l’arrosto, il petto e la bistecca di manzo. Tuttavia, un elevato apporto di carne rossa non è raccomandato per la salute. Troviamo il collagene nella gelatina animale e nel brodo di ossa. Si ritiene inoltre che diversi alimenti ad alto contenuto proteico alimentino la produzione di collagene perché contengono gli amminoacidi che producono collagene, glicina, e idrossiprolina. Questi includono pesce, pollame, carne, uova, latticini, legumi e soia. La produzione di collagene richiede anche sostanze nutritive come lo zinco che si trova nei crostacei, nei legumi, nelle carni, nelle noci, nei semi e nei cereali integrali; e la vitamina C da agrumi, bacche, verdure a foglia verde, peperoni e pomodori. Altri nutrienti che hanno dimostrato di sostenere e riparare legamenti e tendini sono il manganese, presente nelle noci, legumi, semi, cereali integrali, verdure a foglia verde, gli
Omega-3, la vitamina A (che troviamo nel fegato), carote, patate dolci, cavoli, spinaci, albicocche, broccoli, zucca invernale, la Vitamina C e il sulfuro, contenuto in verdure crocifere (broccoli, cavolfiore, cavolo, rape, cavoletti di Bruxelles, pak-choi, aglio, cipolla, porri, erba cipollina) e in uova, pesce, pollame. Insomma, caro signor Paolo, come vede, dispone davvero di un’ampia scelta per ovviare al suo fastidioso problema. Come sempre, tengo a precisare che l’assunzione degli alimenti presentati non costituisce la cura alla sua patologia, ma può essere un valido aiuto sia a fronteggiarne l’insorgere che a far fronte ai dolori.
Informazioni
Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a info@azione.ch (oggetto «La nutrizionista»)
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ATTUALITÀ
Stati Uniti in grossa crisi
Il Paese è la prima vittima della rivoluzione che il presidente Trump sta cercando di attuare
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Focus sui femminicidi
Anche in Svizzera si diffondono, sempre più, narrazioni sommerse inneggianti alla violenza di genere
Ferite che non si rimarginano
Ibrahima Lo, oggi anche scrittore, ricorda il viaggio infernale che lo ha portato dal Senegal in Italia
Sugli stupri di guerra
Le violenze sessuali sono una delle armi più terribili nei conflitti, e colpiscono tutti i generi
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Dazi americani, come ne esce la Svizzera?
Diplomazia ◆ Nei confronti di Washington Berna sa di poter esibire delle buone carte ma Donald Trump resta imprevedibile e le strade da percorrere piuttosto accidentate
Sono giorni davvero tumultuosi. Dazi e contro-dazi, annunci, smentite e qualche frase grossolana, con Donald Trump che parla persino del suo fondoschiena e di baci in arrivo un po’ da tutto il mondo per convincerlo a scendere a più miti consigli. Arduo capire chi abbia avuto la meglio nell’improvviso voltafaccia del presidente. Se sia stato l’effetto di quei presunti baci o se a farsi valere siano state piuttosto le pressioni giunte dalla corte di miliardari che lo ha portato al trono lo scorso 20 gennaio. Con Elon Musk che ha dato dell’illustrissimo ad uno dei consiglieri più fidati del presidente in materia di tariffe doganali. Oppure, ancora, se a spingerlo a cambiare idea siano state le pressioni di Wall Street e i tonfi dei mercati di tutto mondo, basti dire che in una settimana la borsa svizzera ha bruciato i guadagni incassati nel corso dell’intero 2024.
The Donald si è rimangiato tutto o quasi, concedendo al mondo un «time out» di novanta giorni per trovare soluzioni
Terremoti che hanno portato anche ad una forte pressione al ribasso sulle obbligazioni pubbliche statunitensi, non certo un bel segnale per un Paese altamente indebitato come gli Stati Uniti. Sta di fatto che all’improvviso The Donald si è rimangiato tutto o quasi, concedendo al mondo un «time out» di novanta giorni, ufficialmente perché 75 Paesi – tra cui anche la Svizzera – si sono detti pronti a negoziare con lui, non solo sui dazi ma anche su altre questioni, come per esempio gli ostacoli tecnici al commercio o quelle che Trump chiama «manipolazioni monetarie».
Tre mesi di tempo concessi ai «Paesi approfittatori» per cercare di trovare delle soluzioni che riescano a calmare le acque, con un dazio di base del 10% che rimarrà comunque in vigore per tutte le merci in entrata negli Stati Uniti. E con una guerra commerciale incandescente con la Cina, fatte salve altre e improvvise sterzate, perché anche Pechino «vuole un accordo ma non sa da che parte iniziare, sono persone orgogliose», ha fatto sapere l’inquilino della Casa Bianca mercoledì scorso, poche ore dopo aver messo fine, seppur provvisoriamente, alla guerra commerciale che aveva aperto con il mondo intero, mercoledì 2 aprile, il «giorno della liberazione». E la Svizzera dentro tutto questo guazzabuglio? Come ne esce, o meglio come sta tentando di uscirne? Nei confronti di Washington, Berna sa di poter esibire delle buone carte, ad iniziare da un dato di fatto che fa da cor-
nice a tutta questa problematica. Dal primo gennaio dell’anno scorso il nostro Paese non applica più nessun dazio sulle importazioni, ad eccezione di quelle che riguardano i prodotti agricoli. La Svizzera inoltre è il sesto Paese investitore negli Stati Uniti, il primo se si considera solo il settore della ricerca e dello sviluppo. Negli Usa gli imprenditori elvetici hanno creato quasi mezzo milione di posti di lavoro, con stipendi medi che si aggirano attorno ai 130mila dollari all’anno. «Salari di tutto rispetto», ha fatto notare di recente la presidente della Confederazione, Karin Keller Sutter. Il problema sta nel fatto che nelle prime settimane del regno di «Donald II», Berna non è riuscita a giocare queste carte sul tavolo giusto.
A poco è valsa in febbraio una prima, discreta, visita a Washington di Helene Budliger Artieda, la segretaria di Stato per l’economia. Ci voleva decisamente di più. E il Consiglio federale se ne è accorto solo con la doccia fredda del «Liberation day» e di quei dazi posti al 31%, con Trump ad indicare la Svizzera tra i Paesi da punire, su un cartellone di quelli che si trovano al massimo al mercato del pesce. Il giorno successivo, il 3 aprile, il Consi-
glio federale ha dovuto ammettere la sua impotenza per non essere riuscito, perlomeno fino a quel momento, a raggiungere il presidente degli Stati Uniti e la sua ristretta cerchia di consiglieri. Un’ammissione che aveva suscitato diverse critiche, con il Consiglio federale accusato di passività, e anche di ingenuità, in un frangente così delicato.
Il Consiglio federale ha dovuto ammettere la sua impotenza per non essere riuscito a raggiungere il presidente degli Stati Uniti
Da lì è poi scattata un’operazione diplomatica su più livelli per cercare di far capire a Trump che la bilancia commerciale con il nostro Paese è sì a sfavore degli Stati Uniti ma che ci sono diversi altri fattori da tenere in considerazione nei rapporti tra gli Stati Uniti e la Svizzera. Helene Budliger Artieda è tornata a Washington per intensificare la sua azione di lobbista, anche con l’aiuto di un’agenzia specializzata in pubbliche relazioni. A quanto pare da Berna sono partite telefonate anche all’ex ambasciatore
americano in Svizzera, Ed McMullen, persona molto vicina a Trump, che in un’intervista rilasciata alla «Sonntagszeitung» ha assicurato di essere già al lavoro per aiutare il nostro Paese. Mosse che hanno permesso a Guy Parmelin, il nostro ministro dell’economia, di avere un colloquio con Jamieson Greer, il nuovo responsabile dell’Ufficio americano per il commercio estero. Un primo approccio, a cui ha fatto seguito, mercoledì scorso, la telefonata di Karin Keller Sutter a Donald Trump. In tutto 25 minuti, uno scambio di vedute in cui la presidente della Confederazione ha spiegato la posizione della Svizzera «e pure le possibilità che ci sono per cercare di raggiungere gli obiettivi che si prefissano gli Stati Uniti. Abbiamo concordato di proseguire i colloqui nell’interesse di entrambi i Paesi», ha scritto KKS su X. Un colloquio che per il «Washington Post» potrebbe persino aver pesato sulla successiva decisione di Trump di bloccare l’aumento dei dazi. Prima di quella telefonata il Consiglio federale aveva deciso di creare un «comitato di pilotaggio», sotto la direzione del ministro degli esteri Ignazio Cas-
sis, con il compito di curare le relazioni con gli Stati Uniti. Una struttura che avrà anche un inviato speciale negli Usa, si tratta dell’ambasciatore Gabriel Lüchinger, al momento responsabile della divisione sicurezza del Dipartimento federale degli affari esteri. Nel 2024 Lüchinger è stato la figura trainante nell’organizzazione della Conferenza del Bürgenstock sull’Ucraina e vanta parecchi contatti a Washington. Il Governo gioca dunque questa ulteriore carta, che permette a Ignazio Cassis di prendere la guida delle operazioni e che sembra relegare ad un ruolo di comprimario il ministro dell’economia Guy Parmelin. Nei prossimi tre mesi il nostro Paese non può permettersi passi falsi, dovrà trovare il giusto equilibrio tra le richieste di Trump e la difesa dei propri interessi. E qui c’è chi parla di un possibile aumento degli investimenti elvetici in terra americana e forse anche di qualche concessione sull’importazione di beni agricoli pur di evitare dazi da capogiro. Con una certezza: l’assoluta imprevedibilità di Trump, da cui, come ha detto KKS un paio di settimane fa, sono arrivati calcoli che lasciano pensare che 1+1 possa fare anche 3.
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Karin Keller-Sutter, a destra, ha avuto uno scambio telefonico di 25 minuti con Trump, a sinistra Guy Parmelin. (Keystone)
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Le donne scelte da Trump
Stati Uniti ◆ Dalla «wrestler» Linda McMahon all’intransigente Karoline Leavitt, passando per Pam Bondi e la «pericolosa» Kristi Noem
Cristina Marconi
È innanzitutto una questione di immagine: se intorno a te hai poche donne in posti di potere, è bene che facciano cose vistose, d’impatto. E se non sono competenti e qualcuno lo fa notare, basta gridare, senza vergogna, al maschilismo con quell’aria di spiccia sufficienza con cui Donald Trump sta facendo perdere la pazienza al mondo, ai mercati, agli imprenditori, alle persone normali, a chi ha sempre creduto che l’America fosse già «great» e ora, davanti alle ultime evoluzioni, non sa più cosa pensare.
La figura più solida è sicuramente quella di Susie Wiles, prima chief of staff donna della storia degli Stati Uniti
Un terzo dell’amministrazione in carica è formata da donne, ma sono lontani i tempi in cui una competentissima Condoleezza Rice poteva sconvolgere il mondo con il suo cinismo come segretaria di Stato di George W. Bush, ma anche con la sua complessa storia intellettuale, dall’università iniziata a 15 anni alla conoscenza profonda dell’ex Unione Sovietica. Qui si tratta di accettare che a occuparsi dell’Istruzione, e quindi del futuro del Paese, sia la persona che ha reso il wrestling uno sport diffuso e amato, e pazienza se violenza, sessismo e steroidi siano stati un modello nefasto per generazioni di ragazzini: Linda McMahon, insieme all’ex marito, ha fatto i miliardi tra sponsor e merchandising e ora sta a lei smantellare il dipartimento di cui è stata messa a capo, quello dell’Education, con l’obiettivo di ridare in mano il dossier ai singoli Stati, senza nessuna esperienza in materia, ma con un passato in cui si è prestata a teatrini ben poco pedagogici come quello in cui dava un calcio nell’inguine all’ex marito o quell’altro in cui prendeva a schiaffi e metteva a terra sua figlia Stephanie. Tutto per finta, per carità, ma insomma.
Oppure affidare l’Intelligence nazionale a Tulsi Gabbard, ex deputata democratica e addirittura sostenitrice di Bernie Sanders, una che poi, nel
2020, dopo essersi ritirata dalle primarie democratiche ha fatto una virata a destra di quelle davvero brusche: è diventata repubblicana e ha iniziato a fare l’opinionista su «Fox». Senza vera esperienza nel settore, al di là dell’essere stata nelle commissioni parlamentari, ora Gabbard guida 17 organismi di intelligence e non ha trovato niente da dire quando i dettagli sugli attacchi agli houthi nello Yemen sono stati condivisi nella famosa chat con il giornalista dell’«Atlantic». Ma proseguiamo.
La figura più solida è sicuramente quella di Susie Wiles, prima chief of staff donna della storia degli Stati Uniti e decisa nell’affermare che intorno a Trump ci siano «donne forti e intelligenti». Descrive il suo lavoro come l’esercizio di «una sorta di controllo sul fatto che i treni stiano sui binari e arrivino in orario, in modo che gli esperti in materia, e in particolare il presidente e il vicepresidente, possano fare quello che devono per aggiustare il Paese». I commenti pesanti, ineleganti del presidente nel corso della sua lunga vita – alcuni sono ormai arcinoti, altri continuano a saltare fuori – non sembrano disturbare un elettorato femminile che stavolta si è lasciato conquistare e che preferisce essere rappresentato da poche figure dal profilo tradizionale – sono quasi tutte curatissime, pettinatissime, con i boccoli e le ciglia finte, devote vestali dell’estetica trumpiana, ma anche della sua etica – che non da donne pronte a condividere il palco con altre istanze, come quella LGBTQ+, o altre tematiche ritenute «woke».
La religione è sempre presente, come dimostra il vistoso crocifisso che indossa sempre Karoline Leavitt, la responsabile per la stampa più giovane di sempre, 27 anni, ex stagista della precedente portavoce ai tempi del primo mandato. Nel frattempo, ha anche avuto un figlio, l’estate scorsa, dal marito di 32 anni più grande, ed è tornata al lavoro dopo appena 4 giorni perché il 13 luglio hanno sparato a Trump e lei ha pensato che il suo posto fosse accanto al presidente. Per Leavitt a Trump «non importa se sei un uomo o una donna, con
Stati Uniti in crisi
Prospettive ◆ Il Paese è la prima vittima della rivoluzione che vuole il suo presidente
Lucio Caracciolo
C’è un solo punto fermo nei primi cento giorni di Trump alla Casa Bianca. L’America ha perso la sua credibilità nel mondo. Quello che prima era un parametro universalmente riconosciuto, da amici e nemici, oggi sembra in balìa delle onde o degli umori del suo presidente. Al di là di qualsiasi sommovimento geopolitico, economico o finanziario, in questione è ormai il primato americano. Il primato, non l’egemonia. L’egemonia è già una fase passata. Washington pensa di rimanere il «numero uno», ma forse non lo è nemmeno più. Detto altrimenti, l’America è la prima vittima della rivoluzione che Trump sta cercando di attuare nel suo Paese.
Gli americani non si riconoscono reciprocamente tali, si vedono semmai come appartenenti a questa o quella tribù
litari e delle alte burocrazie in genere è poco visibile ma violenta. Tanto che non si può escludere che prima o poi qualcuno, proveniente da quelle profondità, attenti nuovamente alla vita del presidente. Inoltre, Trump non ha calcolato un altro fattore: Musk non si limita a licenziare persone a suo dire inutili e costose, ma quando e dove può installa al loro posto suoi fedelissimi. Un esempio fra i molti è la Nasa, celebre istituzione pubblica deputata alla ricerca e allo sviluppo della scienza e delle tecnologie relative al cosmo, ormai infeudata al padrone di Starlink. Solo un esempio della compenetrazione crescente tra imprenditoria privata e istituzioni pubbliche, dove sono i capitalisti a politicizzarsi. Ma avviene anche il contrario, considerando che ormai ciò che in America resta della democrazia si profila sempre più come plutocrazia. Se non hai i soldi non vai da nessuna parte, certamente non al Congresso o nell’amministrazione del presidente.
figli o senza figli. Vuole solo la persona che lavora di più e la migliore per quel lavoro. Ed è questo che lo rende un grande capo». La ragazza ha molto potere e ha escluso dalla sala stampa i rappresentanti delle testate che non hanno accettato di ribattezzare il Golfo del Messico «Golfo d’America», non risponde a chi specifica i pronomi con cui vuole essere chiamato in fondo alla mail e ha detto ai vecchi giornalisti di farsi da parte, perché il mondo è degli influencer e dei podcaster.
E poi ci sono i due pezzi da novanta, la bionda Pam Bondi che guida il dipartimento di Giustizia dopo essere stata la procuratrice capa della Florida e aver difeso Trump al processo per l’impeachment nel 2020. Anche lei era democratica fino al 2000, poi con il tipico zelo dei convertiti ha sostenuto le false accuse di frode elettorale, si è messa a lottare contro i diritti LGBTQ+ e le cure sanitarie per tutti e ora porta avanti la sua linea durissima sul crimine, chiede la pena di morte per Luigi Mangione (accusato d’aver assassinato il 4 dicembre 2024 Brian Thompson, ceo della compagnia di assicurazione sulla salute United Healthcare) e si dedica al suo compito di «Make America Safe Again».
Sono quasi tutte curatissime, pettinatissime, con i boccoli e le ciglia finte, devote vestali dell’estetica trumpiana
Quella che ha avuto più visibilità ultimamente è stata Kristi Noem, segretaria per la Sicurezza interna, e quindi responsabile di frontiere e dogane, rappresentante del lato più muscolare del messaggio trumpiano. Si mette le uniformi, visita i centri di detenzione, lascia che le lunghe extension corvine le ricadano su tenute dal sapore militare mentre dietro di lei sfilano spettacoli disumani, e fa gaffes pericolose: nell’ultima aveva un fucile puntato per sbaglio contro la testa di una guardia di frontiera con cui si era messa in posa. La mano era vicina al grilletto.
Negli Stati Uniti stanno venendo al pettine contemporaneamente troppi nodi che non sono più gestibili. Innanzitutto la crisi di identità: gli americani non si riconoscono reciprocamente tali, si vedono semmai come appartenenti a questa o quella tribù. La crisi di identità si riflette anche a livello politico. Democratici e repubblicani sono famiglie variopinte ma non comunicanti. Cominciano a esserlo persino al loro interno. Per esempio, ancora non si sente un’autorevole voce democratica che si impegni a capire come mai la crisi del suo partito abbia portato Trump al potere. In parole povere, manca senso critico e soprattutto autocritico. L’incomunicabilità investe anche le élite economiche e finanziarie. Ad esempio, nel campo trumpiano la posizione, peraltro spesso incerta, di Musk è molto diversa da quella dei padroni dell’intelligenza artificiale riuniti da Trump in un improbabile trust da 500 miliardi, che dovrebbe permettere agli Stati Uniti di continuare a prevalere sulla Cina in questa tecnologia strategica.
La battaglia decisiva si combatte nello Stato profondo. Trump ha affittato Musk per distruggerlo, attribuendogli la responsabilità di questa operazione estremamente delicata e pericolosa, nella certezza di potere scaricare il padrone di Tesla a operazione compiuta. Ma lo Stato profondo, struttura tipicamente imperiale, non può essere semplicemente distrutto con un colpo di mano. La reazione di strutture di intelligence, mi-
L’avversaria principale di Trump e degli Stati Uniti è considerata la Cina. Certo, Pechino ha i suoi enormi problemi, economici quindi anche politici. Ma può contare sulle debolezze dell’America per guadagnare posizioni e credibilità nel mondo. I dazi abbastanza indiscriminati e variabili imposti da Trump alle principali economie asiatiche, Giappone in testa, facilitano la formazione di una sfera di influenza cinese in Asia. Ovvero il principale obiettivo strategico della Repubblica popolare.
La Cina può contare sulle debolezze dell’America per guadagnare posizioni e credibilità nel mondo
I recenti approcci tra Cina, Giappone e Corea del Sud – Paesi storicamente nemici – rappresenta proprio la risposta, quasi inevitabile, di Paesi asiatici geopoliticamente avversi a Pechino di fronte alle intimidazioni di Trump. Chi sta peggio di tutti, in quel contesto, è Taiwan. I cinesi aumentano la pressione e le provocazioni militari, contando sul grado impressionante di smarrimento che regna a Taipei in seguito alla svolta negli Stati Uniti.
Quanto agli europei, più divisi che mai, stanno cominciando a capire che l’ombrello americano non funziona più (ammesso e non concesso che abbia mai funzionato). Ognuno deve ritagliarsi uno spazio di sicurezza ed economico in base alle proprie forze e capacità. Non proprio l’Europa ideale.
Karoline Leavitt, giovane responsabile per la stampa. (Keystone)
Svizzera, uccidere le donne e parlarne
Il commento ◆ Aumenta la violenza di genere, tra una narrazione mediatica edulcorata e quella sommersa inneggiante alla violenza
Simona Sala
«Le parole sono importanti», recitava una frase ormai diventata iconica di Palombella Rossa, vecchio film di Nanni Moretti. «Le parole sono confuse», ci verrebbe da aggiungere, pensando a come, nell’ambito della narrazione della violenza di genere, se da una parte per descrivere certi fenomeni si casca sempre nella stessa scelta, dall’altra ogni giorno nascono definizioni nuove, soprattutto nel linguaggio giovanile votato all’odio. Il tragico fenomeno dei femminicidi che contrappunta la cronaca della nostra era, dunque, se ancora e molto spesso viene descritto come «delitto passionale», o «dramma famigliare», o addirittura «raptus», in una contestualizzazione che contribuisce a indebolirne la drammaticità, la violenza e la vigliaccheria, è associato con frequenza sempre maggiore a una terminologia nuova, la cui esistenza si è rivelata al più tardi dall’apparizione sulla piattaforma Netflix dell’osannata serie di Philip Barantini, Adolescence, e che annovera tra i propri vocaboli termini come incel, chad, blackpill, redpill ecc. Nella serie di quattro puntate interamente girate in piano sequenza (togliendo a nostro avviso mordente alla storia, ma questa è un’altra questione) si tenta di sondare la vita sommersa di, appunto, un adolescente che ha ucciso una compagna di classe. Una storia ambientata nel Regno Unito meno lontana da noi di quanto vorremmo pensare, come ci insegna la cronaca
recente che ha visto l’uccisione di due giovanissime ragazze in Italia, l’omicidio di una madre e di sua figlia a Lucerna, quello di una donna nei boschi di Lodrino, e potremmo continuare a lungo. Il fil rouge che accomuna queste morti sembrerebbe una diffusa forma di odio di genere, spesso riassumibile nell’acronimo incel: involuntary celibataire. Un chiaro riferimento a quella fetta di uomini che individua nelle donne, nel loro esistere ed essere, la causa della propria solitudine, di quel celibato involontario, che autoalimenta forme d’odio sempre più estreme.
In Svizzera dall’inizio dell’anno sono state assassinate 12 donne, contro le 11 italiane, e ciò con una notevole differenza demografica
Pochi giorni orsono qualche centinaio di dimostranti si sono dati appuntamento davanti a Palazzo federale, denunciando un’impennata di omicidi di donne, in un contesto sociale che non sembra dare segni di miglioramento, e che probabilmente non può ospitarne perché non vi è abbastanza sostegno politico. Da una parte, a proteggere le donne, non vi è di certo il Codice penale svizzero, per molti aspetti obsoleto e dunque non in grado di comprendere fenomeni più recenti in ambito perse-
cutorio, come quello del revenge porn Dall’altra, manca quella che viene invocata da tutti i fronti, ossia un’educazione in grado di prevenire la violenza di genere con tutte le sue tragiche diramazioni. Se però il Codice penale si può aggiustare, intervenendo laddove necessario, pur nella consapevolezza che non sempre le leggi possano davvero essere dei deterrenti al crimine, in campo educativo la questione si fa più complessa. A chi spetterebbe il compito? Di nuovo alle scuole, in un presupposto che ritiene le famiglie sempre più assenti? E chi – ma soprattutto con quali mezzi – si dovrebbe occupare del mondo sommerso in cui i ragazzi sempre più spesso si inabissano, alla ricerca di sodali che rafforzino la loro frustrazione, sottoponendosi così a una sorta di «radicalizzazione di genere»?
Dopo l’omicidio delle ventenni italiane, oltre alle frasi di cordoglio per le vittime e i loro cari, sui social sono apparsi anche messaggi inneggianti all’iperviolenza di genere, una specie di corrispettivo di quel «W Turetta» (il killer di Giulia Cecchettin, le cui 75 coltellate all’ex fidanzata sono state definite dai giudici frutto di inesperienza e non di crudeltà) spuntato nei bagni del Liceo di Barletta e che, fortunatamente, ha scatenato la sana rivolta degli studenti. Anche da noi sono sempre più i giovanissimi maschi che si rifugiano in gruppi Telegram o Reddit, finendo per infilarsi nei cosiddetti rab-
bit hole, sorta di percorsi virtuali digitali che, in ottemperanza agli algoritmi, finiscono per trascinare gli utenti all’interno di bolle radicalizzate e alla velocità della luce rimbalzano termini nuovi come, appunto incel, chad (l’uomo che ha successo con le donne), blackpill (l’impossibilità dei giovani maschi di cambiare il proprio status) eccetera. Le realtà nascono e si formano intorno al linguaggio, da esso vengono infatti plasmate. Sui linguaggi della narrazione mediatica, così co-
me sul Codice penale, c’è senza dubbio un margine di intervento, mentre il discorso si fa più difficile quando ci si addentra nei mondi sommersi di cui sopra, e di cui la serie ci ha indicato solamente la porta di ingresso. A noi, ora, spetterebbe scardinarla e infilarci con prepotenza in una realtà d’odio su cui non siamo al momento in grado di esercitare alcun controllo. Come dimostrano i numeri: in costante aumento il numero dei femminicidi, in costante diminuzione l’età degli assassini.
Bucato pulito, lavatrice fresca !
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Tavola periodica che indica il significato delle singole emoji per gli adolescenti. (forworkingparents.com)
«Le mie ferite non si rimarginano mai»
Migrazione ◆ Ibrahima Lo – il giovane che ha ispirato il film di Matteo Garrone Io capitano – ricorda il viaggio infernale che lo ha portato dal Senegal in Italia. Le prigioni in Libia, i morti nel deserto o in mare e il dolore di Farah
Angela Nocioni
Di recente un ragazzino migrante di 14 anni è stato trovato senza vita in un riale, a Balerna. Mancava all’appello dal Centro federale d’asilo da alcuni giorni. Il caso ha scosso non poco l’opinione pubblica e riportato al centro del dibattito la questione dei minori non accompagnati che arrivano nel nostro Paese e non solo. Anche per questo, in onore di questa vita spezzata, vi proponiamo il racconto di un altro giovane migrante, che è stato solo un po’ più «fortunato». «Sono del Senegal, sono arrivato da solo per mare in Sicilia che avevo 16 anni. Ho dovuto riprendere il mio percorso di studi in Italia, a casa mia non studiavo più. Ora sono uno scrittore. Ho scritto due libri, La mia voce e Pane e acqua». Ibrahima Lo ha 24 anni, è dal suo libro Pane e acqua che il regista Matteo Garrone ha tratto ispirazione per il film Io capitano Ibrahima è mingherlino e sorridente. Ci racconta il suo viaggio dal Senegal all’Italia: «Sono partito che ero piccolo e i motivi sono questi: quando avevo 10 anni mia madre è morta in un incidente stradale, perché non c’erano i soccorsi, quando ne avevo 15 anni è morto mio padre». Il deserto del Sahara è un altro cimitero con tanti morti, persone che urlano i nomi dei loro genitori e dei loro dei, poi muoiono
«Lui aveva il diabete, era povero, non poteva curarsi. Lavorava per sopravvivere. Quando è andato in ospedale i medici gli hanno detto che con questa malattia non puoi mangiare certi cibi, non puoi mangiare tanto riso, tanto zucchero, perché non vanno d’accordo con il diabete. Quando mio padre è tornato dall’ospedale ha detto che non poteva smettere di mangiare quei cibi perché soldi per comprare altro non c’erano. Io continuavo a sopravvivere ma lui è morto. Quan-
do ero piccolo sognavo di diventare giornalista, per il fatto che sono nato in una famiglia povera, ho visto l’ingiustizia dentro casa: mia madre è morta per la mancanza di servizi di pronto soccorso in un Paese che ha tanto oro e petrolio; mio padre è morto perché non poteva curarsi. Il sistema sanitario nel Paese è debole. Queste ingiustizie mi hanno invogliato a diventare giornalista, per dare voce a quelli che non hanno voce e per combattere quello che non va. Mio papà mi ha detto: sai che è una strada lunga e devi camminare tanto sopra alle spine? E quando è morto ho capito perché parlava delle spine». Come detto, il nostro interlocutore ha dovuto lasciare presto la scuola: «Per un anno vedevo i miei amici che andavano a scuola e io non potevo; lì rischiavo di finire in strada e fare il delinquente o un lavoro con qualcuno che mi sfruttava. Un giorno un mio amico, figlio di un’amica di mia madre, mi ha detto: “Ibra, tu non puoi continuare a fare questa vita, ci sono persone che sono andate in Europa e stanno riuscendo a vivere, io ti aiuto se vuoi andare”. Lui sta bene economicamente perché suo padre ha un negozio dove vendono i cellulari; quel giorno mi ha offerto un biglietto per andare in Mali e in Niger, mi ha detto che la strada era da fare prima in autobus, poi in pick-up e poi in gommone per l’Italia. Per me andava bene, ma non potevo dirlo a mia zia perché non mi avrebbe lasciato partire. E lui mi ha detto: “Inventiamo qualcosa per la zia, diciamo che andiamo in vacanza”. Lui è rimasto in Senegal e io sono partito da solo». Ha attraversato i confini di Senegal, Mali, Niger ed è giunto in Libia. «Prima di arrivare lì c’è il deserto, il deserto del Sahara non lo raccontano mai, lì è un altro cimitero con tanti morti, persone che urlano i nomi dei loro genitori e dei loro dei, poi muoiono. L’ottavo giorno l’acqua era finita. Giravo i miei occhi e ve-
devo solo deserto, chiedevo ai miei compagni “come facciamo a trovare acqua?”, ci hanno detto “aspettate, aspettate”. Abbiamo aspettato una giornata intera e faceva caldissimo, io facevo la mia preghiera perché
pensavo che non sarei tornato a abbracciare mia zia o le tombe dei miei genitori, ho pensato che la mia vita finiva lì. Quando poi abbiamo visto che stavamo arrivando in Libia dicevamo tra noi “quello è il nostro paradiso”, lì potremo mangiare e bere acqua dopo 9 giorni che mangiavamo solo poco cuscus e latte in polvere. Invece ci hanno fatti entrare in una casa: muro lungo, camera piccola. Eravamo 45 persone, ci hanno messo lì dentro e dicevano una frase che suona più o meno così “onfluss onfluss?”. Vuol dire “dove hai i soldi?”. Non capivo perché dovevamo pagare: eravamo prigionieri. Poi ci hanno portato in un’altra prigione dentro il portabagagli di una Mercedes, ci spingevano dentro per avere più spazio. Quando sono sceso i miei piedi non hanno retto e sono caduto ed è lì che ho capito: ora sono all’inferno. In quella prigione la vita era un pezzo di pane e un bicchiere d’acqua al giorno; i libici sono venuti un
giorno e hanno detto: “Voi siete stati venduti e per uscire dovete pagare soldi”. Noi abbiamo chiesto: “Come possiamo pagare così?”. Loro hanno detto che dovevamo dare un numero da chiamare per far mandare a loro soldi; io avevo il numero del mio amico Mohammed nelle mutande e gliel’ho dato. C’erano due nigeriani e un gambiano che non avevano il numero di nessuno. Li hanno messi davanti a noi e li hanno picchiati, poi gli hanno sparato davanti ai nostri occhi. Quindi hanno cominciato a picchiare noi. Cercavo di proteggermi la testa, dopo che sono andati via ho guardato mio corpo e c’era tanto sangue dappertutto».
Nelle prigioni Ibrahima Lo ha vissuto cinque mesi. Un mese il viaggio per arrivare in Libia e cinque mesi in gabbia. «Poi mi hanno messo su una piccola imbarcazione, sono partito, e ho visto tanta gente che moriva in mare. Mi ricordo di persone che erano salite e piangevano forte. In francese ho chiesto a un uomo perché piangeva e lui mi ha risposto: “Ho perso mia moglie e mia figlia. Quando il gommone si è rovesciato ho guardato a sinistra, c’era mia moglie, a destra c’era la mia bambina, poi tutte e due sono finite in acqua e sono sparite in fretta; mi sono salvato da solo”. Quella ferita dentro il suo cuore non potrà mai guarire. Io che sono un giovane e sono passati degli anni, ora ne ho 24, ogni volta che dormo mi tornano le immagini che ho vissuto in quel periodo. Ancora devo lottare contro questa malattia del dolore che ho nel cuore e nella testa. Le mie ferite non si rimarginano mai perché ogni giorno, quando faccio la doccia, tocco il mio corpo che mi fa ricordare l’inferno subito. Le persone uccise, i bambini morti davanti ai miei occhi, e Farah, una donna che violentavano tutti i giorni dentro il carcere. Lei me lo raccontava perché io ero il più piccolo e lei aveva fiducia in me».
Piroghe usate da pescatori e migranti sulla spiaggia di Fass Boye, in Senegal. (Keystone)
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Se la guerra è combattuta sul tuo corpo
Conflitti ◆ Le violenze sessuali: una delle armi più terribili dall’Ucraina al Bangladesh, passando per Ruanda, Bosnia e Congo
Francesca Marino
Ci sono argomenti per cui, anche per chi vive di parole, trovare le parole sembra quasi impossibile. L’orrore, come il dolore profondo, difficilmente si esprime a parole. Lo ritrovi negli sguardi persi dei sopravvissuti, nel linguaggio di un corpo che è stato spezzato, violato e poi rimandato per strada. Lasciato a continuare ad esistere nel mondo quando la vita, quella dell’anima, quella dello spirito, lo ha abbandonato da un pezzo.
Lo stupro, strumento di umiliazione e di annientamento del «nemico», non conosce differenze di genere
Le parole escono frammentate, di frequente incoerenti. Spesso la mente rifiuta di tornare a quelle immagini. Immagini di guerra, di devastazione. Immagini di momenti in cui la guerra è stata combattuta non tra case e strade, ma sul tuo corpo. Perché lo stupro, quello adoperato come vera e propria arma di guerra e di pulizia etnica, come strumento di umiliazione e di annientamento non solo fisico ma anche psicologico, culturale e morale del «nemico», non conosce (o non conosce più) differenze di genere. E nonostante leggi internazionali e convenzioni, nonostante sull’argomento siano state spese migliaia di parole e scritte tonnellate di carta, continua a essere utilizzato in guerra come strumento per incutere paura, come vera e propria strategia militare per terrorizzare le comunità aggredite e distruggere la loro dignità.
Il caso più recente, raccontato da «Le Monde» (leggi box in basso), è quello della Russia, e dell’uso sistematico dello stupro come vera e propria arma di guerra adoperato nei confronti della popolazione Ucraina: nei confronti di donne, bambini e uomini. Difficile fornire dei numeri precisi, perché molti stupri, specie quelli ai danni di uomini e ragazzi, non vengono nemmeno denunciati o riportati. La vergogna, l’umiliazione, creano attorno ai crimini di guerra una vera e propria coltre di silenzio che contribuisce alla sostanziale impunità dei colpevoli.
Lo Statuto di Roma classifica lo stupro e altre violenze sessuali come crimini contro l’umanità e crimini di guerra
Un recente rapporto stilato dalla rappresentante speciale del Segretario generale dell’Onu per la violenza sessuale nei conflitti, Pramila Patten, elenca 18 Paesi in cui le persone – soprattutto donne e minori – vengono stuprate in guerra, e nomina 12 eserciti e forze di polizia e 39 attori non statali. Le Convenzioni di Ginevra del 1949 riconoscono la violenza sessuale durante i conflitti in termini generali. Lo Statuto di Roma (della Corte penale internazionale) classifica lo stupro e altre forme di violenza sessuale come crimini contro l’umanità e crimini di guerra, a seconda del contesto in cui vengono commessi. In determinate circostanze, la violenza sessuale può essere classificata come un crimine di tortura o un atto di genocidio. Vari altri organismi nazionali e internazionali hanno condannato l’uso della violenza sessuale nei conflitti: ma quasi mai i colpevoli sono stati portati davanti a un tribu-
nale o davanti a una corte militare. Ci sono voluti più di 50 anni per portare alla luce uno dei primi casi registrati nel XX secolo di stupro utilizzato come «arma di guerra applicata consapevolmente»: durante il conflitto che portò alla nascita del Bangladesh nel 1971, campi di stupro di tipo militare furono istituiti in tutto il Paese. Le stime indicano che il numero di donne bengalesi violate è compreso tra 200’000 e 400’000, e si tratta di una stima «prudente». D’altra parte, l’esercito pakistano non ha mai per-
so il vizio: lo stupro viene adoperato sistematicamente nei confronti delle donne beluci arrestate e fatte sparire dall’intelligence e dall’esercito. E la lista degli orrori è ancora lunga e copre gran parte del mondo.
Nel 2017 oltre 700’000 musulmani rohingya sono scappati per sfuggire al genocidio in Myanmar: tra loro c’erano migliaia di donne e bambini che avevano subito orribili violenze sessuali per mano dei soldati birmani. Migliaia di donne sono state vittime di stupro nella guerra civile
L’uomo non riesce a difendersi? È colpa sua...
«In Ucraina il tabù dei crimini sessuali commessi sugli uomini dall’armata russa», questo il titolo di un articolo uscito su «Le Monde» il 7 aprile scorso in cui si legge: «Le violenze sessuali sono utilizzate da Mosca come una forma di tortura nella quasi totalità dei centri di detenzione, in Russia e nelle zone occupate». Solo qualche cifra, citata dal media: in un rapporto pubblicato il 31 dicembre 2024, l’Alto commissariato dell’Onu per i diritti umani (OHCHR) ha documentato 370 casi di violenze sessuali, oltre il 68% delle vittime erano di sesso maschile (252 uomini e 2 minori). La grande maggioranza di questi crimini (306) è stata perpetrata in carcere dai «membri delle forze armate russe, le autorità incaricate dell’applicazione della legge e i servizi penitenziari». D’altro canto, l’Ufficio del procuratore generale d’Ucraina ha recensito, finora, 344 casi di violenze sessuali legate al conflitto, di cui 124 contro uomini. Mentre, dopo l’inizio dell’invasione russa nel 2022, il 52% dei prigionieri di guerra (237 su
454 detenuti interrogati dopo la loro liberazione) ha subito anche violenze sessuali («stupro, tentativi di stupro, minacce di stupro e castrazione, colpi o scariche elettriche sulle parti genitali, nudità forzata ripetuta e umiliazioni sessuali», specifica l’OHCHR), mentre il 95% di loro ha subito torture o maltrattamenti. I russi impiegherebbero questi metodi anche nei territori occupati e sul campo di battaglia. Gli esperti ritengono che questi dati siano in gran parte sottostimati. Già, perché le testimonianze dei «sopravvissuti» sono rare. Le violenze sessuali – spiega «Le Monde» – hanno la particolarità di rinchiudere le vittime nel silenzio. «Per gli uomini uscire da questo mutismo è talvolta più difficile». Perché nella cultura, non solo in Ucraina, c’è l’idea che un uomo debba essere forte e coraggioso, debba sapersi difendere (se non ci riesce, è colpa sua). «Dopo l’invasione russa queste qualità sono state ancora più valorizzate». Perciò parlarne è ancora più difficoltoso. / Red.
del Sud Sudan. La guerra civile dello Sri Lanka è terminata nel 2009, ma i membri della minoranza tamil affermano di essere ancora spesso vittime di torture, compresi gli stupri, quando vengono presi di mira dalle forze di sicurezza. Il Ruanda, la Bosnia e la Repubblica Democratica del Congo hanno tutti sperimentato la violenza sessuale come strumento di guerra. La stessa tecnica è stata adoperata da Boko Haram in Nigeria, che ha violentato, torturato e poi venduto migliaia di persone sequestrate nei villaggi e nelle scuole. E la stessa strategia è stata adottata per anni in Siria dai macellai dell’Isis nei confronti delle donne Yazidi. Oltre 7000 donne sono state sequestrate, stuprate, messe incinta, usate come schiave sessuali per remunerare i combattenti, vendute sul mercato globale del sesso in veri e propri mercati di schiavi. Molte sono state liberate, altrettante sono ancora disperse, probabilmente in campi di detenzione come Al-Hawl, nel nord-est della Siria, insieme ai terroristi dell’Isis. Una è stata liberata di recente dall’esercito israeliano a Gaza, dove viveva da anni come schiava di un dirigente locale di Hamas.
E quello di Hamas e della violenza perpetrata nei confronti delle donne israeliane è uno dei capitoli più difficili da raccontare. «Quello a cui ho assistito in Israele sono scene di indicibile violenza perpetrate con una brutalità scioccante», ha dichiarato ancora Patten, la rappresentante speciale del Segretario generale delle Nazioni unite per la violenza sessuale nei conflitti. «È stato un catalogo delle forme più estreme e disumane di uccisione, tortura e altri orrori». Secondo il rapporto, sono stati recuperati diversi corpi, nudi dalla vita in
giù, per lo più «donne con le mani legate e colpite più volte, spesso alla testa». E questa non è nemmeno l’immagine peggiore che si possa evocare parlando di ciò che è successo il 7 ottobre 2023.
Quello di Hamas e della violenza perpetrata nei confronti delle donne israeliane è un capitolo difficile da raccontare
I corpi parlano e raccontano la loro storia, a cui fanno eco i racconti dell’orrore dei sopravvissuti. Eppure, in questo caso, le donne israeliane sono state due volte vittima: vittime prima di violenze indicibili, e poi vittime di un conflitto ideologico giocato sulla loro pelle. Ci sono voluti mesi prima che le Nazioni unite si decidessero a stilare il rapporto che conferma ufficialmente le violenze subite. E ancora, c’è chi dubita di ciò che è davvero successo nonostante le immagini siano state in gran parte messe in Rete dagli stessi terroristi di Hamas. Così come, sempre per motivi ideologici, molti si rifiutano di credere alle vittime e di denunciare ciò che succede alle donne nelle prigioni afghane o iraniane. E così, nonostante i nostri presunti altissimi standard morali, nonostante leggi e convenzioni internazionali, le guerre, che siano fisiche o ideologiche, che siano di conquista o di difesa, oltre i confini o guerre civili, si combattono ancora sullo stesso campo di battaglia adoperato per secoli da tutti i predatori del passato: soprattutto il corpo delle donne (anche se non solo). Ed, esattamente come in passato, nessuno viene davvero sanzionato per questo.
Tributo alla resistenza ucraina nella regione di Donetsk mentre si diffondono le notizie delle violenze perpetrate dalle forze russe ai danni di donne, uomini e minori. (Keystone)
CULTURA
Una Pasqua da ridere Uno sguardo alla tradizione del risus paschalis, curioso fenomeno liturgico medievale
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Il tratto immortale di Hokusai Un racconto di fatica e dedizione, dove il Maestro giapponese diventa un simbolo d’arte
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Lo specchio rovesciato Fleur Jaeggy riesce a nominare le emozioni anche più indicibili con affilata freddezza stilistica
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Tracce di piume e omicidio Giustizia e critica sociale nella micro serie TV The Residence, che vede in video la detective Cupp
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Niele Toroni, il pittore delle impronte di pennello
Mostre ◆ Locarno ripercorre la sua carriera artistica, Ascona mette in luce il suo sodalizio con Harald Szeemann
Alessia Brughera
«Noi non siamo pittori»: era iniziato da pochi giorni l’anno 1967, quando, in occasione del Salon de la Jeune Peinture di Parigi, Niele Toroni, insieme a Daniel Buren, Olivier Mosset e Michel Parmentier, manifestava apertamente con questa dichiarazione polemica la sua volontà di non sottostare ai dettami convenzionali dell’arte, scegliendo invece di portare avanti un’indagine che avesse come unico obiettivo la restituzione di una pittura oggettiva, sistematica, embrionale. Pochi mesi prima, i quattro artisti avevano fondato il gruppo BMPT, nato proprio in opposizione alla tradizione pittorica consolidata e proteso verso una ripartenza «da zero» che ridefinisse gli statuti del dipingere. Malgrado la breve durata di questa esperienza (un solo anno), ciò che destava interesse era il bisogno di Toroni e compagni di sfidare un sistema che riponeva troppe aspettative nel valore estetico dell’arte. Il modo di lavorare del gruppo veniva così ridotto a pratiche ripetitive e predeterminate: alla base della creazione artistica non c’era più la ricerca di uno stile distintivo e inimitabile ma l’adozione di un processo sempre uguale e anonimo. E per negare con ancor più forza le consuetudini su cui si reggevano la qualità e la funzione dell’arte, i quattro pittori erano soliti scambiarsi i dipinti tra loro, facendosi beffe dei concetti di originalità e unicità dell’opera. Dopo lo scioglimento del BMPT, Toroni è l’unico a portare avanti con incondizionata fedeltà ed estrema caparbietà questo modus operandi, mettendo in atto una metodologia rigorosa basata sull’applicazione di impronte di pennello n.50 ripetute a intervalli regolari di trenta centimetri sulla superficie. Dal 1967 a oggi il suo protocollo è rimasto immutata espressione del desiderio di Toroni di demistificare l’arte attraverso un approccio essenziale, anti virtuosistico, svincolando l’atto creativo dalle sue zavorre ideologiche e «lavorando per lasciare che la pittura lavori su sé stessa». Attraverso questo procedimento così sistematico in cui gli unici elementi che apportano variazioni all’opera sono il colore e il supporto (dalla tela al legno, dalla carta di giornale agli spartiti musicali, dai tessuti fino ad arrivare alle pareti di edifici), Toroni coinvolge tutte le componenti specifiche del linguaggio pittorico, facendo delle proprie creazioni una sorta di compendio dell’essenza stessa del dipingere. Ecco allora che per lui l’artista non ha il compito di interpretare la realtà esterna o di narrare il proprio vissuto: ciò che conta è il gesto artistico al di fuori di ogni urgenza espressiva. Non a caso uno dei maestri più amati da Toroni è Jackson Pollock, «la cui pittura racconta solo di essere stata lanciata».
A dispetto di chi lo ha criticato per la ripetitività della sua produzione, Toroni ha dimostrato nel corso dei decenni la validità del proprio credo artistico non cedendo mai alla spasmodica ricerca del nuovo. Anzi, proprio per questo motivo i suoi «lavori-pittura», come egli stesso definisce le sue opere, si sottraggono al concetto di temporalità, di sequenzialità, impedendo la distinzione di un prima e di un dopo a favore di un inizio che si compie all’infinito.
Originario di Muralto, emigrato a Parigi nel 1959 e diventato una delle figure più importanti della scena artistica contemporanea internazionale, Toroni, pur nella sua pertinace coerenza, non manca di confrontarsi con artisti di ogni epoca, traendo di continuo spunti su cui riflettere: ama il Giotto della Cappella degli Scrovegni a Padova e il Piero della Francesca della Madonna del parto di Monterchi; apprezza i maestri russi Malevič e Rodčenko, gli esponenti del Bauhaus e Mondrian; conosce Jean Arp, per cui lavora alla fine degli anni Sessanta nei mesi estivi che trascorre a Locarno da Remo Rossi; a Parigi ammira le opere di Jean Tinguely, Yves Klein e Hans Hartung, che lo interessano nonostante le preoccupazioni artistiche di questi pittori siano lontane dalle sue; frequenta Jesús-Rafael Soto, Marcel Broodthaers e Balthasar Burkhard.
A Niele Toroni, oggi ottantotten-
ne, il Ticino dedica due mostre: una grande retrospettiva dal titolo Niele Toroni. Impronte di pennello n. 50, dal 1959 al 2024, allestita negli spazi del Museo Casa Rusca di Locarno (fino al 17 agosto 2025), e l’esposizione Omaggio a Niele Toroni e Harald Szeemann, ospitata presso il Museo Comunale d’Arte Moderna di Ascona (fino all’11 maggio 2025), entrambe curate dal critico e storico dell’arte Bernard Marcadé.
Si tratta di due rassegne di particolare rilevanza poiché omaggiano un artista che in patria, nonostante non sia mai venuto a mancare un suo forte legame con la terra natia, non ha goduto dell’ampio riconoscimento avuto invece a livello internazionale. A dimostrare ciò basti pensare che Toroni ha esposto con costanza nei più grandi musei del mondo (dal Centre Pompidou di Parigi al MoMA di New York), mentre nel nostro Cantone la sua ultima mostra istituzionale risale al 1991, anno in cui, proprio ad Ascona, Harald Szeemann ha curato la prima personale ticinese del pittore.
A Locarno sono state radunate ottanta opere circa che testimoniano l’intero arco dell’attività di Toroni, dagli anni Cinquanta a oggi. La retrospettiva ha il merito di presentare non solo alcuni pezzi emblematici della produzione dell’artista ma anche lavori che documentano le sue sperimentazioni antecedenti al trasferimen-
to a Parigi o che sono stati realizzati per amici e collezionisti ticinesi. Sono soprattutto queste opere, emerse da una scrupolosa ricerca sul territorio e in molti casi esposte per la prima volta in un museo, a costituire la parte di maggior interesse della rassegna poiché restituiscono una visione intima e completa del pittore. Tra le creazioni giovanili più rappresentative troviamo il piccolo Errore di gioventù del 1959 corretto nel 2017 e Omaggio a Paolo Uccello, quest’ultimo un acrilico datato 1965 che esprime l’ammirazione dell’artista per il grande maestro italiano. D’impatto, poi, è la serie Sans titre del 1984, costituita da cinque Impronte di pennello n.50 ripetute a intervalli regolari di 30 cm realizzate da Toroni su carta da lucido, a cui sono accostate altrettante grandi fotografie in bianco e nero di Balthasar Burkhard. Ad Ascona il focus sul sodalizio intellettuale tra Toroni e Szeemann è stato sviluppato attraverso l’esposizione di alcuni dipinti e la presentazione di fotografie e di documenti di vario genere, tra cui lettere e cartoline, che testimoniano il profondo rapporto di amicizia e stima, non scevro di ironia, che legava le due figure. Sono tutti materiali che danno risonanza all’opera murale permanente eseguita dall’artista all’interno del museo in occasione della già menzionata mostra del 1991. Un lavoro, questo, che si pone come esempio significativo
della capacità del pittore di realizzare interventi che rispettano il contesto in cui si inseriscono ma che allo stesso tempo riescono a esprimere appieno la loro valenza estetica. «Semplice, facilmente imitabile da altri, ma, come tutte le cose semplici, molto complesso, pieno di vita, pieno di sorprese, pieno di perfidia, pieno di gioco», così proprio Szeemann si era espresso in merito alle iconiche impronte di pennello del «metodo Toroni». Un metodo che nel corso dei decenni si è alimentato di un valore originario mai tradito e, anzi, riproposto ogni volta come fosse la prima. Forse perché, come ha affermato lo stesso Toroni, il suo obiettivo è sempre stato quello di «continuare a cercare di fare pittura. Pur essendo sempre più convinto che l’arte non si lasci fare».
Dove e quando
Niele Toroni. Impronte di pennello n.50, dal 1958 al 2024. Museo Casa Rusca, Locarno. Fino al 17 agosto 2025. Orari: ma-do 10.00-16.30. www.museocasarusca.ch Omaggio a Niele Toroni e Harald Szeemann. Museo Comunale d’Arte Moderna, Ascona. Fino all’11 maggio 2025.Orari: ma-sa 10.00-12.00 / 14.0017.00; do 10.30-12.30. www.museoascona.ch
Il riso della Pasqua tra fede, tradizione, sovversione
Feuilleton ◆ Una manifestazione di gioia, ma anche un rituale di passaggio che permetteva ai fedeli di riconciliarsi con la vita
Leonardo Marchetti
Il risus paschalis, fenomeno liturgico documentato nel Medioevo, solleva questioni complesse riguardo al rapporto tra religione, comicità e cultura popolare. L’epistolario di Giovanni Ecolampadio, teologo e umanista tedesco, e Wolfgang Fabricius Capito (anch’egli umanista, teologo e riformatore tedesco), risalente ai primi decenni del XVI secolo, ne fornisce una delle prime testimonianze critiche, rivelando il dibattito tra chi lo riteneva un espediente retorico utile per rendere più efficace la predicazione e mantenere alta l’attenzione dei fedeli e chi, come Ecolampadio, lo considerava una pratica degradante, incompatibile con la sacralità della liturgia e potenzialmente pericoloso per la corretta trasmissione del messaggio cristiano. Procediamo con ordine. Con risus paschalis s’intende un’usanza secondo cui in ambito germanofono i predicatori, durante la celebrazione pasquale, introducevano elementi comici, spesso salaci, per suscitare il riso dei fedeli. L’idea, se ha ragione Michail Bachtin nel suo celebre studio L’opera di Rabelais e la cultura popolare, era probabilmente che la risata rappresentasse una rinascita gioiosa dopo le privazioni quaresimali, una sorta di ritorno alla vita simbolico, in cui il corpo e la mente venivano liberati dalle costrizioni del lungo periodo di penitenza e astinenza imposto dalla Chiesa. Bachtin, filosofo e critico letterario russo (1895-1975), è noto per le sue ricerche sulla cultura carnevalesca nel Medioevo e nel Rinascimento, nelle quali ha messo in evidenza come il riso collettivo svolgesse una funzione liberatoria e rigenerativa, rovesciando temporaneamente le gerarchie sociali e permettendo una partecipazione più attiva della comunità. La risata, in questo contesto, assumeva una funzione catartica, liberatoria, quasi sacrale, perché metteva in scena il trionfo della vita sulla morte, della resurrezione sulla sofferenza. Bachtin collega questo tipo di riso alle festività popolari medievali, in cui l’elemento carnascialesco rovesciava l’ordine costituito, permettendo alla comunità di esprimere un senso di rinnovamento e rigenerazione. Il riso pasquale, dunque, poteva essere inteso non solo come una manifestazione di gioia, ma come un vero e proprio rituale di passaggio che, attraverso il sovvertimento momentaneo della seriosità liturgica, permetteva ai fedeli di riconciliarsi con la vita e di partecipare attivamente alla celebrazione della resurrezione.
L’ambito geoculturale del risus paschalis si colloca principalmente nell’Europa medievale e rinascimentale, con particolare diffusione nell’area germanica, nelle regioni alpine e in alcune zone dell’Italia settentrionale e centrale. Tuttavia, tracce di questa pratica si riscontrano anche in Francia e nei Paesi Bassi, dove le tradizioni carnevalesche e festive avevano forti legami con la cultura ecclesiastica locale. La pratica del riso liturgico, con le sue sfumature paro-
diche e burlesche, si inseriva a ogni modo in una più ampia tradizione europea di rituali legati alla sovversione temporanea dell’ordine sacro, come le Feste dei Folli, la Messa dell’Asino e altre celebrazioni in cui elementi comici e grotteschi venivano momentaneamente tollerati all’interno dello spazio sacro. Pratiche in cui, come sottolinea Jean-Claude Schmitt in La ragione delle figure: Riso, festa e riti nel Medioevo (1992), si ricorreva al riso da una parte per sovvertire temporaneamente l’ordine ecclesiastico senza minacciarlo strutturalmente, mentre sotto un altro aspetto si controllavano e si canalizzavano le energie sociali all’interno di un quadro regolato dalla Chiesa (si veda su questo aspetto Jacques Le Goff in Tempo della Chiesa e tempo del mercante, 1977, in cui si esplora tra le altre cose il rapporto tra riti festivi, cicli liturgici e momenti di ribaltamento dell’ordine sacro).
Il risus paschalis è un fenomeno liturgico che prevede l’inserimento di elementi comici nella celebrazione pasquale
In contesti come quelli sopracitati, il risus paschalis assumeva caratteristiche diverse a seconda delle specificità culturali e delle influenze locali: mentre in alcune aree era strettamente legato alla predicazione, in altre diveniva un vero e proprio spettacolo collettivo con la partecipazione attiva dei fedeli.
Per Ecolampadio, invece, uomo del suo tempo, questo comportamento degenerava in esibizioni oscene e grottesche da parte dei predicatori, lontane dallo spirito religioso, tra cui la simulazione di atti burleschi, sessuali, eccetera che a suo dire gettavano ombra sulla dignità della liturgia. D’altro canto, Fabricius Capito, pur riconoscendo tali eccessi, ne difendeva la necessità pragmatica: senza il risus paschalis, si legge nelle sue risposte a Ecolampadio, la predicazione avrebbe rischiato di cadere nel vuoto, priva dell’attenzione popola-
Redazione Carlo Silini (redattore responsabile)
Simona Sala
Barbara Manzoni
Manuela Mazzi
Romina Borla
Ivan Leoni
re. Questo argomento trova riscontro nella tradizione medievale degli exempla, storie aneddotiche usate dai predicatori, specialmente francescani e domenicani, per rendere il messaggio cristiano più accessibile e coinvolgente. Nel riso, in sostanza doveva riconoscersi uno strumento pedagogico e pastorale.
Ecolampadio, invece, esprime perplessità sull’origine di questa tradizione. Chiedendo a diversi interlocutori, non riceve risposte convincenti. Alcuni difendono il risus paschalis come parte della gioia pasquale, altri lo collegano all’eutrapelia, virtù aristotelica che valorizza il giusto equilibrio tra serietà e scherzo. Tuttavia, la sua indagine rivela che tale usanza era ormai radicata a tal punto da non suscitare più interrogativi sulle sue origini.
L’analisi antropologica del fenomeno permette tuttavia di cogliere connessioni con pratiche rituali più ampie, ben oltre le ipotesi di Bachtin. George Minois, nel suo libro Storia del riso e della derisione (2000), osserva per esempio che nel cosiddetto «Medioevo» il riso aveva una funzione sociale e rituale, spesso impiegata per esorcizzare la paura della morte e ristabilire un ordine simbolico. Alfonso Maria di Nola, antropologo e storico delle religioni, approfondisce dal canto suo il legame tra riso, oscenità e crisi nel suo studio Antropologia religiosa (1976), in cui analizza diversi miti e tradizioni religiose, evidenziando come in alcuni contesti mitico-rituali la risata scaturisca dall’ostensione dei genitali da parte di una divinità femminile, atto che interromperebbe un momento di crisi cosmica e si configurerebbe di conseguenza come un importante strumento di reintegrazione dell’ordine dopo un evento destabilizzante. Si vedano il mito della dea giapponese Uzume che, danzando e sollevandosi la veste, riesce a far uscire Amaterasu dalla caverna in cui si era rifugiata, ripristinando l’ordine cosmico. Oppure Baubo che, mostrando le proprie parti intime alla disperata Demetra in cerca della figlia, la fa ridere e le
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permette di riprendere la ricerca della figlia Persefone. La morte rappresenta uno di tali eventi, e le reazioni rituali ad essa spesso comprendono manifestazioni di riso e oscenità. Di Nola documenta come, in diverse culture, il lutto sia accompagnato da gesti e parole sconvenienti, capaci di ribaltare simbolicamente la tragedia della perdita. Esempio ne sono le veglie funebri in Italia e in Europa, in cui non mancano canti osceni, danze e scherzi, tutti elementi che appaiono anche in pratiche rituali medievali come la Messa dell’Asino e la Festa dei Folli, già menzionate, basate sulla sovversione temporanea dell’ordine gerarchico. Questa dinamica di inversione si potrebbe applicare anche al risus paschalis: il riso osceno, così inteso, romperebbe la cupezza della Settimana Santa a celebrazione della vittoria della vita sulla morte. La resurrezione di Cristo, evento che sovverte l’ordine naturale spezzando il dominio della morte, trova nel riso una sua espressione simbolica. Il risus paschalis, con la sua carica di eccesso, parodia e oscenità, si inserirebbe in questa logica di ribaltamento e di rinnovamento.
Un ulteriore elemento di riflessione emerge dal confronto con il riso biblico. L’episodio di Abramo e Sara, che ridono alla promessa divina di una discendenza nonostante la loro vecchiaia, è significativo: qui il riso segna il paradosso della fede e della potenza creatrice di Dio. L’interpretazione cristiana ha distinto il riso di gioia (Abramo) dal riso di incredulità (Sara), riconoscendo comunque in esso un segno della relazione tra l’uomo e il divino.
In questa prospettiva, il risus paschalis potrebbe essere inteso non come una semplice degenerazione di costumi, ma come un’eredità di pratiche rituali arcaiche in cui il riso esprime una connessione profonda con il sacro. Maria Caterina Jacobelli, nel suo studio Il risus paschalis e la teatralità della liturgia (2012), suggerisce che il fenomeno possa essere interpretato come una metafora del
Angelo sorridente, Cattedrale di Reims. (Eric Santos/ Wikimedia Commons)
piacere sessuale in quanto espressione della gioia divina. L’autrice esplora poi il legame tra il risus paschalis e la tradizione del Cantico dei Cantici, mettendo in evidenza come il piacere, spesso rimosso dalla dimensione sacra, possa invece essere parte integrante dell’esperienza religiosa e della celebrazione pasquale. Jacobelli si sofferma inoltre sulla valenza simbolica della teatralità liturgica medievale, sottolineando come il riso fosse un elemento in grado di conciliare il divino con l’umano.
Tuttavia, vi sono altre letture possibili.
Alcuni studiosi, come il già citato Jean-Claude Schmitt (Rire et religion au Moyen Âge, 2002) e Arnold van Gennep (I riti di passaggio, 1909), vedono ad esempio il risus paschalis come una forma di sopravvivenza di rituali pagani di rinnovamento stagionale, in cui il riso aveva una funzione propiziatoria e rigenerativa. Altri, come Peter Burke (La cultura popolare nell’Europa moderna, 1978), lo considerano una strategia di controllo sociale: la Chiesa, tollerando temporaneamente il riso osceno, permetteva ai fedeli di sfogare le proprie tensioni in un contesto regolato, evitando che questi comportamenti emergessero in altri momenti dell’anno.
Questa pluralità di interpretazioni evidenzia come il risus paschalis, ormai scomparso, non sia stato un fenomeno univoco, ma un crocevia in cui si intrecciano elementi teologici, antropologici e sociali. La tensione tra l’accettazione e la condanna di questa pratica riflette un dilemma più ampio sulla gestione del sacro e sulle modalità di coinvolgimento dei fedeli. Se infatti il riso è un atto culturale, esso ha svolto storicamente un ruolo centrale nel modo in cui le società hanno affrontato la morte, la fede e la speranza nella rinascita. Dopotutto, come afferma Georges Bataille in L’erotismo (1957): «Il riso, il pianto e l’estasi sono momenti di comunicazione estrema, in cui l’uomo si sottrae alla propria solitudine per fondersi con il sacro e con la comunità».
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GUSTO
Conoscenze
Chil’ha inventato?
Il coniglietto di cioccolato
No, non è stata un’invenzione svizzera, bensì tedesca
Il merito di aver inventato il coniglio pasquale di cioccolato non spetta a una sola persona. Questa festosa bontà è infatti il risultato di una lunga tradizione ed evoluzione, tanto nella produzione del cioccolato quanto nelle usanze di celebrazione della Pasqua. Quella di scambiarsi dei doni pasquali apparve attorno alla metà del XVII secolo. A quei tempi gli aristocratici e i ricchi si facevano regali sontuosi, come uova d’oro e di porcellana o anche di cioccolato, allora merce elitaria. Il coniglietto di cioccolato come lo conosciamo oggi è probabilmente nato in Germania. Lì, nel XIX secolo, alcuni fabbricanti presero a realizzare per la Pasqua delle figure di cioccolato e tra le più apprezzate vi era quella del coniglio, per via dello stretto legame
dolce quartetto da Migros
di questo animale con questa festa. Ma perché proprio il coniglio è così legato alla Pasqua? Per quanto esso non compaia nel racconto biblico, è stato però ipotizzato che fosse associato alla dea germanica della primavera, Ostara. Il coniglio è infatti un simbolo di fertilità e rappresenta la nuova vita. In virtù di ciò era quanto mai adatto alla Pasqua cristiana, quando si celebra la resurrezione di Gesù. Col passare del tempo, l’animale simbolo della nuova vita è diventato il nostro Coniglietto di Pasqua, quello che nasconde le uova per i bambini e che sia grandi che piccini amano sbocconcellare sotto forma di figurina di cioccolato.
Testo: Dinah Leuenberger
Un
Cioccolato al latte Frey Bunny 60 g Fr. 4.50
Il tratto immortale del grande Hokusai
Graphic novel biografiche ◆ L’opera e il mistero del leggendario disegnatore giapponese in una narrazione dal respiro internazionale
Benedicta Froelich
C’è da scommettere che, se interrogati a bruciapelo, in molti, soprattutto tra le giovani generazioni, affermerebbero di non conoscere davvero il nome di Hokusai; eppure, la maggior parte di queste persone ha, in realtà, molta più familiarità con il lavoro del grande artista giapponese di quanto non si creda. Ripensandoci adesso, appare, in effetti, quantomeno implausibile che un disegno a firma di un maestro nipponico vissuto a cavallo tra il diciottesimo e diciannovesimo secolo sia divenuto una vera e propria icona pop, destinata a essere riprodotta su poster, taccuini e perfino tazze da colazione; eppure, la splendida xilografia nota come La Grande Onda di Kanagawa rimane a tutt’oggi uno dei lavori artistici più universalmente noti, secondo solo alla Notte Stellata di Van Gogh. Tuttavia, sono in pochi, anzi pochissimi a conoscere la vera (e assai travagliata) storia non solo di quest’opera immortale, ma anche dello stesso Hokusai, la cui vita rappresenta tuttora un mistero pressoché insondabile.
Non solo un omaggio all’artista, ma un viaggio visivo che cattura l’essenza del suo spirito e della sua dedizione al disegno
A tale lacuna tenta di porre rimedio una graphic novel che, come sempre più spesso accade ai migliori prodotti fumettistici provenienti dalla vicina penisola, ha riscontrato un certo successo a livello internazionale, essendo stata tradotta in più lingue e avendo raccolto lusinghiere recensioni anche oltreoceano: si tratta del volume Hokusai – L’anima del Giappone, firmato da Francesco Matteuzzi ai testi e Giuseppe Latanza alle matite, ed edito nel 2021 da Rizzoli, che da allora ne ha realizzato molteplici edizioni. Un lavoro che, fin dal titolo, mostra chiaramente come l’obiettivo principale degli autori sia quello di offrire, tramite il racconto della vita del Maestro, una sorta di analisi e «spiegazione» della cultura tradizionale giapponese nella sua accezione più autentica. Del resto, si può dire che Hokusai sia, in effetti, responsabile della creazione di una certa «caratterizzazione» del Giappone all’interno dell’immaginario collettivo, in grado di trascendere il periodo storico al quale l’artista
appartiene per divenire davvero universale e fruibile anche da un pubblico occidentale. In termini di divulgazione, il compito che questa graphic novel si prefigge non è quindi dei più semplici, sebbene la coppia di autori appaia ben equipaggiata per affrontarlo (Matteuzzi non è nuovo a progetti fumettistici di tema artistico, avendo già firmato la biografia Banksy, mentre Latanza, da parte sua, ha alle spalle il volume Surrealismo). Forse proprio per questo, il comic book si concentra su un aspetto molto spesso sottovalutato dell’arte grafica in generale, ovvero, la grande integri-
tà del personaggio di Hokusai, il quale, «prescelto» per l’attività artistica fin da giovanissimo, si troverà confrontato a più riprese con le esigenze commerciali del tempo, e costretto a mettere alla prova la forza delle proprie convinzioni: il che permette ai lettori di apprezzarne l’atto di coraggio nel rinunciare alla sicurezza garantitagli dalle posizioni da disegnatore fisso presso le varie «scuole» di pittura della città di Edo (la futura Tokyo), per scegliere invece di scommettere tutto sul suo talento, concedendosi il lusso di controllare il proprio destino artistico come libero professionista.
Allo stesso tempo, ciò che più traspare dalla narrazione grafica è l’immensa fatica (anche fisica) che un vero «artigiano del tratto» si trova a dover affrontare nel momento in cui, quasi eroicamente, si siede ogni giorno al proprio tavolo per realizzare un qualsiasi progetto. Fatica che ci viene mostrata in tutta la sua eroica perseveranza dai disegni accurati e dettagliati di Latanza, il quale tratteggia quasi amorevolmente l’espressione contrita che adorna il volto di Hokusai mentre è chino sui suoi disegni, e perfino le gocce di sudore che gli imperlano continuamente la fronte. Una fatica che durerà una vita intera, portandolo a realizzare opere di struggente bellezza – come le sue Trentasei vedute del monte Fuji, di cui la Grande onda è solo la prima della serie.
Questa assoluta dedizione al proprio lavoro è riflessa nell’attenta combinazione tra la sobria narrazione di Matteuzzi e le illustrazioni di Latanza: in tal senso, è particolarmente suggestiva la scena in cui, davanti a un pubblico ammaliato, l’artista realizza un ritratto di Buddha in inchiostro di china delle dimensioni di circa duecento metri quadrati – il tutto in tempo reale, e con il semplice ausilio di una scopa utilizzata a mo’ di
pennello sul gigantesco foglio sotto i propri piedi. E sebbene non sia certo facile imbastire un intero fumetto biografico su una figura della cui vita privata non si sa poi molto, la decisione di Matteuzzi di gestire la sceneggiatura in modo esplicitamente documentaristico risolve in parte il problema, conferendo al fumetto un carattere istruttivo e offrendo utili approfondimenti su molti elementi della società giapponese dell’epoca: al punto che perfino la scelta di utilizzare ampie didascalie narrative per guidare il lettore attraverso le usanze del tempo di Hokusai risulta efficace, conferendo una certa autorevolezza alla messa in scena. Tuttavia, l’altra faccia della medaglia è rappresentata dall’accezione fortemente didattica che tale scelta conferisce alla graphic novel, la quale potrebbe risultare un po’ ostica per il lettore casuale, spezzando il ritmo del racconto e impedendo una totale identificazione con il protagonista, il quale rimane per certi versi un attore, nelle cui emozioni e percezioni risulta piuttosto difficile immedesimarsi davvero.
Tuttavia, ciò non pregiudica il valore artistico dell’opera, poiché quel che L’anima del Giappone riesce a trasmettere con maggior forza non ha davvero a che fare con i dettagli storici, quanto piuttosto con l’anima di Hokusai: è la magia che risiede nel gesto artistico del Maestro per come evidenziato dai molti splash panel a doppia pagina che lo immortalano al lavoro, e nelle movenze aggraziate del suo pennello e della mano che, instancabile, lo guida. Momenti carichi di una grande dignità, che si trasforma in autentica sacralità nelle scene in cui Hokusai raggiunge una vera e propria comunione e simbiosi con il disegno tra le sue mani, quasi assurgendo a uno stato di coscienza superiore grazie alla propria arte. E in questo, in fondo, consiste il vero lascito di un artista immortale: nella natura vitale e vibrante della passione e abnegazione che lo hanno animato, e nel profondo amore che a tutt’oggi traspare da ogni linea e curva da lui tracciate.
Bibliografia
Francesco Matteuzzi (testi) e Giuseppe Latanza (illustrazioni), Hokusai – L’anima del Giappone Rizzoli, 2021.
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Da questa of fer ta sono esclusi gli ar ticoli
La mossa del gatto e l’arte del distacco
Ritratto ◆ Nella letteratura di Fleur Jaeggy, in un gioco di distanze emerge un mix di precisione glaciale e tensione emotiva
Mara Travella
Chiunque abbia già osservato un gatto giocare con la propria preda – una farfalla, una lucertola, una piuma – si sarà accorto che vi è un che di crudele, leggermente sadico e allo stesso tempo estremamente naturale (così com’è giusto che sia per gli animali) nel suo comportamento: il gatto, infatti, dopo aver atteso il momento giusto per l’assalto e aver ripetutamente artigliato il proprio bottino, rinuncia al colpo finale. Si allontana, la coda dritta, attirato da tutt’altro.
L’immagine dell’animale che, dopo essersi divertito con la sua preda, abbandona repentinamente il suo punto di interesse, si trova annidata in Sono il fratello di XX (Adelphi, 2014), e si presta benissimo a illuminare la poetica della zurighese Fleur Jaeggy; un’autrice – insignita quest’anno del Gran premio svizzero di letteratura –a cui la critica ha riconosciuto sin dal suo romanzo d’esordio, Il dito in bocca (Adelphi, 1968), la precisione nella scrittura, la capacità di utilizzare frasi brevi, taglienti come piccole schegge sottopelle che, anche a distanza, continuano a far male.
Tornando al gatto, Jaeggy sceglie nel suo racconto un termine tedesco per definire il comportamento del felino: Übersprung, ovvero «volgersi altrove, passare ad altro»; e, poche righe di seguito, afferma che tra i modi mentali dello scrivere (e in questo, appunto, c’è molto di suo) vi è da una parte l’evasione e, allo stesso tempo, «la caccia», la ricerca della preda, o parola, perfetta. La voce della protagonista del suo romanzo più fortunato, I beati anni del castigo (Adelphi, 1989), asserisce qualcosa di analogo: «Sono soltanto le distrazioni, la vaghezza, la distanza, che ci avvicinano al bersaglio, è il bersaglio che ci colpisce».
Leggere le opere dell’autrice elvetica significa dunque entrare in confidenza con questo movimento di avvicinamento e insieme allontanamento
dal proprio campo d’interesse. Ricerca del dettaglio, volontà di rivelare la carne sotto la pelle, desiderio di nominare le emozioni anche più spiacevoli e, parallelamente, capacità di mantenere la distanza di sicurezza adeguata dal mondo, quasi conservando una parete divisoria. Per definire lo stile dell’autrice, la critica ha impiegato il parallelismo con il freddo, e per questa ragione si è parlato di punto di vista «glaciale», impietoso. Jeaggy, al freddo ha abituato le sue lettrici e i suoi lettori e, attraverso i suoi numerosi romanzi e racconti, si è addentrata in spazi chiusi e spesso asettici cui si accompagnano personaggi altrettanto criptici, mantenendo sempre, sotto l’apparente tranquillità, un’atmosfera sinistra, di morte imminente.
Il gioco del doppio
È noto come il primo romanzo di Jaeggy, Il dito in bocca (1968), sia stato apprezzato e in seguito passato all’A-
delphi dall’autrice austriaca Ingeborg Bachmann, a cui di nuovo nell’ultima raccolta adelphiana (quella del gatto) è dedicato un altro breve racconto, il quale narra la tragica morte di Bachmann avvenuta in seguito a un incendio in casa sua. Tra le due donne si instaura un’affinità letteraria e un’amicizia intensa, carica di complicità, risate e silenzi. È proprio il silenzio quello che caratterizza le rare interviste rilasciate dall’autrice, restìa a rivelare qualcosa di sé.
E l’assenza di parole definisce sovente anche le relazioni tra i personaggi dei suoi libri: il non detto si fa carico di simbologie e allusioni, in un gioco di assenze-presenze che inquieta e travolge. Di frequente sono inoltre le coppie a essere protagoniste delle sue storie – si pensi, a X. e a Frédérique de I beati anni (Adelphi, 1989), ai gemelli nell’omonimo racconto della raccolta La paura del cielo (Adelphi, 1994), al padre e alla figlia di Proleterka (Adelphi, 2001), a fratello e sorella in Sono
il fratello di XX (Adelphi, 2014) – richiamando attraverso il binomio l’alternarsi e il sovrapporsi tra realtà e apparenza. Tra gli oggetti continuamente evocati nelle sue pagine non si può dunque che trovare lo specchio, simbolo per eccellenza del doppio.
Come una burattinaia
Tali rapporti, indagati senza timore di toccare i sentimenti più spiacevoli e meschini, non possono che situarsi all’interno di geografie opprimenti, non di rado elvetiche. Il paesaggio bucolico di certe campagne svizzere è infatti sfondo prediletto di diverse sue storie e «La Confederazione» è più volte citata, non senza ironia, come la detentrice della ragione ultima («La Confederazione così ha organizzato. Nel migliore dei modi», si legge nel racconto La vecchia vanesia). Le passeggiate intorno al lago o il giro di un’isola, da felice evasione si trasformano in un «idillio ossessivo». Gli spazi prediletti di Fleur Jaeggy ritornano richiamandosi all’interno delle sue opere; così la clinica dove è morto Robert Walser, citata in apertura de I beati anni è evocata nell’ultima raccolta di racconti.
Nella narrativa di Jaeggy gli spazi borghesi si rivelano come prigioni. Sono luoghi in cui vige una ferrea routine, una disciplina (sovente religiosa e di stampo cattolico-protestante) che protegge e annienta, registrata concentrando l’attenzione sui dettagli minimi («la selvaggia clandestinità delle cose semplici», come è definita dalla voce narrante di Una moglie). A portare in avanti la narrazione sono dunque moti quasi impercettibili, dialoghi brevissimi, azioni che avvengono nello spazio di una parola. Come una burattinaia (la metafora delle marionette non è anodina) la voce narrante controlla le figure sulla sce-
na: ogni movimento, ogni emozione è misurata, precisa, definita. Un critico come Padre Giovanni Pozzi, non per nulla, aveva individuato nella sineddoche la figura retorica favorita dall’autrice, la parte per il tutto, sintomatica di tale ricerca dell’essenziale.
Una feroce allegria
Come già nell’ossimoro che dà titolo al libro dell’1989 (I beati anni del castigo), lo stile dell’autrice è continuamente giocato sulle opposizioni: ogni affermazione può essere contraddetta, dietro ogni gesto anche gentile può celarsi la minaccia, non esiste verità se non quella che viene raccontata. Le sue protagoniste sono spesso donne, spesso adolescenti, come se l’autrice avesse individuato nell’adolescenza il tempo ideale cui far corrispondere vicende in continuo mutamento: quale migliore periodo, se non quello tra l’infanzia e l’età adulta, per descrivere il fluttuare delle emozioni? Costellata di figure quasi marmoree, di descrizioni in cui qualcosa sempre stride, l’opera jaeggiana, pur avendo come riferimento luoghi reali, pare come sospesa nel tempo, fuori dal tempo. Anche questo, in definitiva, contribuisce a rendere sempre attuali le sue storie, e godibile la loro lettura. Fleur Jaeggy non ha smesso di confrontarsi con lo stare sempre in bilico, ponendo molti interrogativi e dando poche risposte, e questo, credo, è proprio solo alla grande letteratura.
Bibliografia
Sempre presso Adelphi, sono stati pubblicati: Il dito in bocca (1968), L’angelo custode (1971), Le statue d’acqua (1980), I beati anni del castigo (1989), La paura del cielo (1994), Proleterka (2001), Vite congetturali (2009), Sono il fratello di XX (2014).
Il ritorno della natura nel paesaggio urbano
Fotografia ◆ Alla Fondazione Rolla di Bruzella il bianco e nero di Pino Musi è sceneggiatura involontaria di un futuro possibile
Gian Franco Ragno
Se da giovanissimo è stato più vicino all’antropologia e al teatro d’avanguardia (con il libro Maschere e persone, presente alla Biennale di Venezia nel 1982), più tardi, negli anni Novanta, si è dato all’interpretazione di architetture passate e presenti, dalla classicità alla contemporaneità, iniziando anche una fruttuosa collaborazione con Mario Botta. Parliamo del fotografo Pino Musi, di cui alcune opere da ieri, grazie alla Fondazione Rolla, sono esposte al Kindergarten di Bruzella, in Valle di Muggio.
Nato a Salerno nel 1958, Pino Musi è artista e fotografo italiano, attualmente operante a Parigi. Il suo strumento di espressione privilegiato è un elaborato e calibratissimo bianco e nero – mentre i suoi soggetti spaziano lungo un ampio arco di materie. Nel 1992, la sua ricerca visiva intorno alla figura dell’architetto italiano Giuseppe Terragni è stata esposta nel primo spazio dedicato all’arte contemporanea di Phil e Rosella Rolla, lo spazio Borgonovo33 a Como, un ambiente estremamente suggestivo ricavato all’interno della chiesa sconsacrata di Santa Caterina.
Pino Musi è autore altresì di numerosi libri d’artista e insegnante; le sue opere sono presenti in molte collezioni pubbliche e private dedite alla fotografia contemporanea, tra cui la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino.
Le immagini presentate al Kindergarten di Bruzella fanno parte di un progetto inedito dal titolo Phytostopia: esse sono state raccolte durante i rari spostamenti nelle città deserte (Fran-
cia, Belgio e Italia) durante i mesi di lockdown nella primavera del 2021. Si tratta di muri a fuoco, cortili, palazzi e altre costruzioni dove la vegetazione urbana riprende, riconquista e in una certa misura invade nuovamente gli spazi fortemente antropizzati della città. Tutto ciò in un periodo strettamente limitato, quasi a renderci partecipi di una vitalità biologica in pieno contrasto con quei giorni vuoti, immobili, in cui tutti noi – abituati alla corsa
continua di impegni – vivemmo una nuova dimensione spazio-temporale. Come cita il testo che accompagna l’esposizione e il piccolo catalogo di Michael Jakob, professore anche all’Accademia di Mendrisio, la natura addomesticata della città, da confinata e disciplinata qual era, ha potuto prendersi momentaneamente una rivalsa, ha potuto liberarsi dando luogo a una «bellezza inattesa», la stessa che il fotografo italiano congela in attente riprese. Sembra di assistere a una versione contemporanea e attualizzata di alcune immagini dei primi esploratori delle rovine precolombiane inghiottite nella foresta, come quelle di Désiré Charnay (1828-1915), esposte poi nel 2007 in una delle prime mostre fotografiche (Le Yucatan est ailleurs) al nuovo museo di antropologia Quai Branly, oggi intitolato a Jacques Chirac. Parte del loro fascino – oltre a una mirabile composizione, una raffinatissima scala di grigi e la ricchezza dei dettagli – risiede in una vibrazione quasi sinistra: sembra di essere in presenza di uno scenario apocalittico, una sorta di anticipazione di un mon-
do senza di noi – mancando infatti la figura umana – e quindi, anche, di un mondo dopo di noi come intera specie umana. È un progetto contenuto e denso, in esposizione abbiamo un insieme di undici fotografie che si tengono fortemente legate l’una all’altra proprio grazie a questo filo tematico. Per la loro ventiquattresima esposizione, segno di grande continuità della proposta nella fotografia contemporanea, la Fondazione Rolla propone una sorta di sceneggiatura involontaria, per opera di Pino Musi, richiamante tanta letteratura fantascientifica e distopica attualmente di nuovo in voga – l’illustrazione di ciò che racconta uno dei pensatori più influenti del presente, Yuval Noah Harari, che preconizza un’umanità presto superata dalla tecnologia.
Dove e quando
Pino Musi, Phytostopia, Fondazione Rolla, Bruzella. Fino al 14 settembre 2025. Ogni seconda domenica del mese dalle 14.00 alle 18.00 e su appuntamento. Entrata libera. Per info: www.rolla.info
Immagine di copertina del romanzo La paura del cielo. (Adelphi)
Manuale di ornitologia applicata all’indagine
Netflix ◆ Nella nuova serie TV The Residence, la detective Cupp osserva, interroga e deduce, mentre la trama si sporca di sarcasmo ideologico
Manuela Mazzi
Ha una straordinaria memoria spaziale, come la cincia di montagna che è capace di ricordare le migliaia di nascondigli dove depone semi e insetti da consumare durante l’inverno. E – grazie alla minuziosa attenzione per i dettagli – sa distinguere un Zampagrossa golagialla, raro uccello africano, da uno Sturnella orientale, specie comune nel Maryland, nonostante condividano il medesimo petto giallo. Lei è Cordelia Cupp, e giallo è anche il genere della micro-serie TV, The Residence, di cui è protagonista: detective al servizio del capo del Dipartimento della polizia metropolitana di Washington DC, è un’appassionata ornitologa dal fiuto infallibile e lo sguardo clinico, che non ha nulla da invidiare alla sua illustre «progenitrice», Miss Marple. Ci troviamo all’interno della residenza più famosa del mondo, vale a dire la Casa Bianca dove, durante una cena diplomatica importante con politici australiani, avviene un omicidio. Proprio qui, Theodore Roosevelt, negli anni della sua presidenza, compilò liste dettagliate degli uccelli che avvistava nei giardini, pubblicando nel 1908 Birds seen in the White House grounds and about Washington dove elencò ben 93 specie, le stesse che vorrebbe riuscire a spuntare dalla propria lista di birdwatching la detective chiamata a risolvere il delitto.
Diciamolo subito, la miniserie piace: è nella top dieci di Netflix da settimane. Uscita nella primavera di quest’anno, è composta da otto episodi, di sessanta minuti, e purtroppo è già stato annunciato che non ci sarà una seconda stagione.
Lei è caparbia, attenta al dettaglio, sagace, disinteressata alle attività umane, fine indagatrice, per lei non esistono sospettati, ma solo situazioni o persone interessanti, interroga senza fare domande, si prende il suo tempo, non si china nemmeno davanti al Presidente degli Stati Uniti d’America. Riuscitissima anche la struttura narrativa incrociata, in cui le testimonianze dei protagonisti in tribunale rimandano agli eventi accaduti nella Casa, con analessi perfettamente congeniate.
Fin qui tutto bene. Chi ama il giallo classico – che sembra tornare sempre più in voga, dove non servono lo splatter e azioni spericolate per creare tensione narrativa – godrà molto nel guardare The Residence, sebbene qualche filo, ahinoi, resti pendente, e ci convince poco il movente dell’assassino, ma son peccati veniali che si fan perdonare grazie al mood ironico, sarcastico e affilato… tranne quando quest’ultimo si riflette in maniera critica nei confronti del mondo maschile. A che pro? Non lo abbiamo capi-
to; forse solo perché è di moda farlo… L’intera serie, di fatto, è piena di allusioni e pregiudizi gratuiti, sin dalle prime battute di Cordelia Cupp: «Però! Ci sono tanti maschi […] Un altro maschio, o Gesù, ma quanti maschi vi servono?». Tutti maschi che appaiono incapaci, tonti, deboli,… anche quando tentano di fare il loro: «Sto cercando di proteggerla», dice la spalla non voluta della detective, che risponde con rabbia trattenuta ma severa: «Ho sopportato molti uomini oltremodo stupidi, ma questa è la cosa più ridicola che abbia mai sentito». «Non mi mentì, non mi disse niente,
non fece nessuna delle cose fastidiose che fanno gli uomini perché tu non ti senta in un certo modo», spiega una sospettata parlando di un maschio che le risparmiò tentativi di consolazione. E non si trattiene nemmeno la cuoca: «Questo posto non è che un vecchio e merdoso country club in cui non cambia mai nulla eccetto il Presidente; ma chi se ne accorge, tanto sono tutti maschi!».
Nessuna di queste battute, e di tante altre, sono narrativamente funzionali; ne deduciamo che son messe lì solo per testimoniare un chiaro risentimento verso il patriarcato (compren-
sibile), con offese esplicite e gratuite (meno comprensibile; basti pensare ai dialoghi tra Cordelia Cupp e l’anziana signora del piano di sopra che ogni volta che si riferisce al presidente americano, lo chiama «il marito di mio figlio», e quando la detective precisa: «Il presidente?», l’anziana si porta sistematicamente alla bocca una mano per bloccare uno strappo di vomito). Il risultato è un’opera che, sfruttando il suo carattere pop e di larga fruizione, si carica di una retorica pericolosa: l’invito, inequivocabile, è quello di perpetuare un discorso discriminatorio, caldeggiando l’offesa verso tutti i maschi, indistintamente, non per agire una difesa del genere, con determinazione, ma scambiando di posto i ruoli offensivi. Una scelta che, secondo noi, potrebbe rischiare di spostare sul versante sbagliato (v. dalla parte del torto) quelle lotte femministe che rivendicano rispetto e parità. In questo senso, The Residence non è solo un giallo avvincente e ricco di citazioni e divertimenti, ma anche uno specchio critico – e al contempo inquietante –della nostra società, in cui il confine tra difesa, provocazione e offesa morale si fa sempre più sottile. E se Cordelia Cupp ama gli uccelli più degli esseri umani, non c’è da stupirsi: almeno loro sanno ancora distinguere un canto da una predica.
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In fin della fiera
Ballando sui materassi
Nel 1956, a 19 anni, conquisto il diploma di perito fotografo e rimedio un primo lavoro come fotoreporter presso un’agenzia di Torino. Scoprirò presto che non fa per me: sono timido, impacciato, non ho i riflessi pronti. Però la breve e sfortunata esperienza mi offre l’occasione di incontrare una campionessa di Lascia o raddoppia?, l’allora programma televisivo a quiz condotto da Mike Buongiorno. Il titolare dell’agenzia mi affida due incarichi importanti e, dice lui, delicatissimi. Il primo: partire il giorno dopo alle cinque di mattina con un pullman che porta a Cervinia i pubblicitari italiani riuniti a Torino per il loro congresso, e lì fotografarli. Il secondo incarico: indossare l’abito scuro e andare la sera stessa in un night club della città. Lì, a una certa ora, ignoti accompagnatori avrebbero condotto la signorina Maria Luisa Garoppo, tabaccaia di Casale Monferrato, campionessa a La-
Voti d’aria
scia o raddoppia? A un certo punto della serata, il pavimento della sala sarebbe stato ricoperto di materassi a molla con i clienti del night esortati a ballarci sopra a dimostrazione della loro indistruttibilità. Per la prima volta mettevo piede in un night. Mi presento con il mio abito blu e l’armamentario fotografico (la batteria del flash era enorme e pesantissima da portare a tracolla) alle 20 e 30. Le schiene bianche dei camerieri seduti a un tavolo m’informano che stanno cenando. Mi fanno accomodare sul bordo dell’area danze. Inizia l’attesa. Alle 22 arriva l’orchestrina di cinque elementi che iniziano a scaldare gli strumenti. Alle 22 e 30 arrivano i primi clienti. Le 23, mezzanotte: della signorina Garoppo neanche l’ombra. Non avrò mica sbagliato night? No, perché il gestore è informato di tutto. Ogni minuto calcolo quanto tempo mi resta per tornare a casa, togliermi il ve-
stito buono, indossare gli indumenti di montagna e gli scarponi e presentarmi al parcheggio del pullman in partenza alle cinque per Cervinia; dormire? Neanche a parlarne. A mezzanotte e mezza, finalmente, fa il suo ingresso trionfale la Garoppo accompagnata da due cavalieri elegantissimi, i capelli stirati e lucidi di brillantina. Siedono di fronte all’area riservata ai ballerini. Ogni volta che un ballo termina e le coppie tornano ai tavoli, il muro dei corpi si dirada e io scorgo il trio con i calici alzati. Alle due meno un quarto vengono stesi sul pavimento i materassi. I presenti, con gridolini di eccitazione, si lanciano nelle danze, oscillando come ubriachi sulle povere creature. Tutti meno una persona, la signorina Garoppo resta inchiodata alla sedia. Trascorre un’altra mezz’ora. Uno degli accompagnatori si sveglia e la invita a ballare; afferro macchina e flash ma lei riesce miracolosamente a ballare
Il miracolo della Gatta Cenerentola
A chi non conosce Roberto De Simone (7+) non basterebbe dire che è stato l’autore dell’opera musicale italiana più importante del secondo Novecento: La Gatta Cenerentola, presentata nel 1976 al Festival di Spoleto con la Nuova Compagnia di Canto Popolare. Non basterebbe, perché De Simone, nato a Napoli nel 1933 e morto il 6 aprile scorso, è stato molte cose: compositore sì, regista sì, drammaturgo sì, ma anche arrangiatore di musica antica, studioso di tradizioni popolari, antropologo, etnologo, musicologo. Un «affascinante intreccio di filologia e creatività»: questo, come ha scritto Mauro Bersani, è stato il suo tratto principale. Rigore e fantasia. Era un Pasolini napoletano, provocatorio, arrabbiato, scomodo. Dopo aver studiato pianoforte e composizione al conservatorio, si trovò a vivere anni durissimi, inclassificabile com’era dal punto di vista ar-
tistico e politico: cercò di cavarsela con la musica leggera e suonando nelle pizzerie, già da giovane aveva esperienza ed erudizione delle tradizioni antiche, e già allora era ostile all’oleografia meridionale, spaghetti-pizza-mandolino, quella promossa negli anni Cinquanta dalla politica del sindaco-armatore Achille Lauro. De Simone decise di rimanere nella sua città a fare resistenza contro gli stereotipi: non una resistenza esplicitamente politica, ma piuttosto culturale e cioè politica nel senso più nobile. Sempre alla ricerca del punto di confluenza tra anima colta e anima popolare, tra l’arte degli artisti laureati e mondo magico-religioso, tra tradizioni barocche e modernità, tra linguaggi antichi, diletto e slang contemporanei delle province e delle periferie. Dalle ricerche etnomusicali De Simone tirò fuori dal cappello, nel 1967,
A video spento
L’intelligenza
su quelle tre o quattro mattonelle libere dai materassi. I due tornano a sedersi. Le tre e un quarto! Fra meno di due ore parte il pullman! L’orchestra tace per i suoi dieci minuti di riposo. Mi decido: afferro macchina e flash, attraverso ondeggiando il mare di materassi, mi avvicino al tavolo dei tre, faccio un inchino: «Mi perdoni, signorina Garoppo, non vorrei disturbarla, ma fra meno di due ore parte il pullman per Cervinia». Lei, che prima mi aveva dedicato un mezzo sorriso, si volta perplessa verso i suoi due cavalieri i quali si stringono nelle spalle. E torna a fissarmi con uno sguardo interrogativo. Rifaccio la spiegazione (quanta pazienza ci vuole!): «Il fatto è che vede, signorina Garoppo, io non posso andare a Cervinia con questo vestito, devo prima passare da casa a cambiarmi. Ma non posso andare a casa se prima non le ho fatto nemmeno una foto». La signorina Garoppo sorride, finalmente
ha capito e comunica ai suoi cavalieri il risultato a cui è pervenuta: «Vuole farmi una fotografia» e a me, con un sorriso radioso: «Faccia pure». Ancora non ci siamo. Riprovo: «Il fatto è che, vede signorina, la foto, se non le dispiace, dovrei farla mentre balla su uno dei materassi stesi per terra». Un urlo. La Maria Luisa Garoppo, tabaccaia esperta di tragedia greca, lancia un urlo e tutti si voltano e guardano me che a mia volta fisso con lo sguardo le mie scarpe. La signorina Garoppo prende fiato e mi addita al pubblico ludibrio: «Lui vuol farmi cacciare via dal quiz! Il signor Mike mi ha avvertito: se esce ancora una mia foto pubblicitaria mi mandano via!». Io indietreggio, sentendomi addosso gli occhi di tutti i presenti, traballando sui materassi, la macchina e la batteria del flash mi sbattono sui fianchi e penso che quello del fotoreporter non è il mio mestiere…
la prodigiosa Nuova Compagnia di Canto Popolare, un gruppo di giovani amici musicisti, tra cui Eugenio Bennato e Carlo D’Angiò (che nel 1976 andranno a formare i Musicanova con Teresa De Sio). Erano gli anni in cui Edoardo Bennato confessava di sentirsi un «Rinnegato» (titolo di una sua celebre canzone), perché suo fratello Eugenio lo accusava di ignorare la tradizione, anche se tradizione significava non fedeltà nostalgica al passato ma ripresa e rielaborazione. La Gatta Cenerentola (8+ su 6: è uno degli spettacoli teatrali più incantevoli che abbia mai visto!) è stata un apice mirabolante che fondeva con la musica colta le tammurriate, le villanelle e le moresche popolari, mescolando, sempre in dialetto, ritualità liturgiche antiche, canti pagani di auspici alla fecondità della terra, invocazioni al sole, imprecazioni plebee di puttane e di lavan-
artificiale e il pensiero critico
Sarà vero che l’uso dell’intelligenza artificiale (IA) per risolvere i nostri problemi influirà sul nostro pensiero critico? Impigrendosi, non più sollecitato a confrontarsi con il difficile e l’imprevisto, il nostro cervello non evolverà più e sarà prigioniero delle «macchine»?
Se la domanda la poniamo all’IA (ChatGpt ) veniamo rassicurati: «L’intelligenza artificiale può avere un impatto sul pensiero critico, ma dipende da come viene utilizzata. Se ci affidiamo troppo all’IA per prendere decisioni, risolvere problemi o rispondere a domande, possiamo rischiare di ridurre la nostra capacità di pensare autonomamente e criticamente. L’IA, infatti, è progettata per analizzare enormi quantità di dati e offrire risposte rapide, ma non sempre è in grado di considerare tutte le sfumature, i contesti o le implicazioni morali di una situazione, come farebbe un essere umano che esercita il pensiero critico. D’altra parte, se usata in modo consape-
vole e complementare, l’IA può anche stimolare il pensiero critico, offrendoci nuove informazioni, prospettive e strumenti per analizzare problemi in maniera più approfondita. È fondamentale che le persone sviluppino abilità di discernimento e imparino a utilizzare l’IA in modo consapevole, chiedendosi sempre se le risposte fornite dall’IA sono complete e veritiere, e se rispecchiano un’analisi approfondita». In sintesi, l’IA non erode il pensiero critico di per sé, ma, se non usata con attenzione, potrebbe renderci meno inclini a mettere in discussione ciò che ci viene presentato. È la classica risposta di buon senso, che ricalca quelle date nel corso degli anni, fin dai tempi della nascita della scrittura, a chi temeva che l’evoluzione tecnologica avrebbe svigorito la nostra capacità di pensare autonomamente e in maniera critica. Però… C’è sempre un però, questa volta sotto forma di una relazione presentata da
Microsoft e Carnegie Mellon nel corso dell’ultima edizione della più importante conferenza internazionale che si svolge annualmente sui temi della Interazione Umano-Macchina, CHI 2025, e che ha coinvolto 319 lavoratori della conoscenza (knowledge workers), quali professionisti dell’informazione, creativi, insegnanti, sviluppatori, chiedendo loro come e quando utilizzano strumenti di IA generativa come ChatGpt, Copilot o Dall-e. Ne riferisce Federico Cabitza, professore associato di Interazione Uomo-Macchina all’Università di Milano-Bicocca: «Sebbene queste nuove modalità possano sembrare un progresso, in realtà presentano anche qualche lato oscuro. Il rischio è che, nel tempo, la nostra capacità di risoluzione dei problemi si possa come atrofizzare, come conseguenza di un fenomeno che gli esperti chiamano cognitive offloading, trasferimento cognitivo, ovvero la delega sempre maggiore
daie, con scambi di genere tra femmine e maschi; una miscela di solenne, terribile, comico e osceno in cui le varianti della narrazione orale contadina si intrecciavano con la favola secentesca inserita da Basile nel Cunto de li cunti. Dove la matrigna finiva con il collo spezzato dentro una cassapanca. Tutt’altra storia rispetto alla Cenerentola nota ai bambini.
Nella sua casa di Posillipo, piena di statue e statuette, oggetti sacri, santi e madonne ovunque, libri antichi e polverosi sugli scaffali e sulle poltrone, presepi sui tavoli, De Simone ti accoglieva come una specie di mago (sdentato), piccolo e diritto: tirava fuori dagli armadi sacchetti di plastica con dentro centinaia di nastri registrati dalla viva voce di vecchi narratori popolari e messi insieme per circa vent’anni di infaticabile cammino. Ne vennero fuori, per Einaudi, nel 1994,
due volumi con 99 fiabe campane (tradotte dallo stesso De Simone), dove l’eros peccaminoso (e incestuoso) si intreccia ancora una volta con il riso sboccato, incursioni nell’oltretomba e apparizioni mortuarie. Sarebbe seguito, nel 1998, un aureo volume sul presepe popolare, in cui De Simone rivelava l’origine precristiana, notturna e infera, di figure e simbologie. Uno degli obiettivi polemici preferiti da De Simone era, pasolinianamente, il perbenismo piccolo-borghese, in cui metteva anche Eduardo De Filippo e il manierismo che ne derivò: quel teatro che si esprimeva, secondo lui, in un dialetto adattato e naturalista, estraneo ai toni alti e a volte sguaiati, ai lazzi e alla platealità dei vecchi comici dell’arte. Resterebbe molto da aggiungere. E a chi non conosce De Simone non basta aver letto questo breve (e insufficiente) ritratto (auto-voto 4-).
delle attività mentali a uno strumento esterno. Questo è tutt’altro che un fenomeno nuovo: è noto che le calcolatrici abbiano atrofizzato le nostre capacità di calcolo mentale, i navigatori satellitari le nostre capacità di orientamento, e i motori di ricerca un certo tipo di memoria dichiarativa (il cosiddetto effetto Google). È lecito chiedersi cosa possa capitare alla nostra capacità di argomentare, di confrontare fonti, di pensare in modo originale se ci abituiamo a ricevere risposte pronte e ben formulate. Questo può avere ripercussioni ancora maggiori in quei contesti professionali dove l’expertise umana è considerata preziosa e necessaria, come la medicina o altre professioni liberali, in cui si ritiene che anni di studi e pratica siano necessari per raggiungere e mantenere un livello di prestazioni accettabile». Le questioni etiche e legali legate all’uso di questa tecnologia in ambito scientifico – e non solo – non si contano sulle dita di due mani: suc-
cede sempre così, quando una tecnologia innovativa, dalle numerose funzionalità e aperta a un vasto ventaglio di utilizzi, irrompe nella nostra vita quotidiana. Siamo di fronte a un bivio esistenziale. L’IA conquisterà spazi sempre maggiori che oggi sono ancora occupati dalle nostre personali attività cerebrali e dalle nostre già bistrattate facoltà mentali. Più si delegano a un dispositivo meccanico le attività della mente e più la mente impigrisce fino a tendere all’atrofia. L’automazione non diminuisce, aumenta l’alienazione. Nonostante la fatica sprecata, un individuo che guida un’automobile è più libero di uno che ne è guidato. Oppure, come suggerisce Federico Cabitza e come c’è da augurarsi, andremo incontro a una trasformazione del ruolo cognitivo dell’essere umano. Il lavoro intellettuale non scomparirà, ma si sposterà su un altro livello, quello in cui da esecutori diventiamo supervisori.
di Aldo Grasso
di Paolo Di Stefano
di Bruno Gambarotta
Pasqua
Così bello può essere il brunch
Il massimo a Pasqua: la colazione con gli amici e la famiglia è talmente ricca che va avanti fino al pomeriggio
Uova farcite
Queste mini delizie indiavolate preparate con uova sode farcite con tuorlo, maionese, senape e tabasco sono ideali come antipasto, aperitivo o fingerfood.
Insalata di ramolaccio e mela con trota affumicata
Antipasto, per 4 persone
400 g di ramolaccio
1 mele dolce con la buccia rossa, ad es. Pink Lady
1 mazzetto di ravanelli
2 filetti di trota affumicati di ca. 60g
Salsa
½ limone
6 cucchiai d’olio di colza
1 cucchiaino di zucchero a velo
4 rametti d’aneto sale pepe
1. Per la salsa, grattugiate la scorza del limone e spremete il succo. Mescolate la scorza e il succo di limone con l’olio e lo zucchero a velo.
2. Mettete da parte un poco d’aneto per guarnire. Tritate il resto dell’aneto e aggiungetelo alla salsa. Condite con sale e pepe.
3. Tagliate il ramolaccio e la mela con la buccia in quattro parti. Quindi con una mandolina, tagliate il ramolaccio, la mela e i ravanelli a fettine sottili di ca. 2 mm. Mescolate subito le fettine con la salsa e lasciate macerare per ca. 5 minuti.
4. Spezzettate i filetti di trota e disponeteli sull’insalata. Guarnite con l’aneto messo da parte.
Ciambella pasquale
Dolce sorpresa pasquale: la morbida pasta lievitata è farcita con una crema al semolino e al quark, della frutta candita ed è addolcita da una glassa al limone.
Torta
pasqualina
Una torta salata da gustare tutto l’anno, non solo per Pasqua. Il fiore all’occhiello: le uova sode che spiccano su un morbido letto di spinaci e cipolla.
Tortine di Pasqua
Pasticceria dolce
Per 6 pezzi, 6 stampi di ca. 11 cm Ø
1 baccello di vaniglia
1 limone
3,5 dl di latte
1 cucchiaio di zucchero
70 g di riso per risotto, ad es. a chicchi medi
2 uova
4 cucchiai di gelatine di ribes
1 cucchiaino di zucchero a velo
Pasta frolla
160 g di farina
1 presa di sale
2 cucchiai di zucchero
50 g di burro, freddo, o margarina
1 uovo
2 cucchiai di succo di limone farina per spianare
1. Per la pasta, mescolate la farina, il sale e lo zucchero. Unite il burro a cubetti e lavorate gli ingredienti tra le dita fino a ottenere un impasto friabile. Unite l’uovo e il succo di limone e impastate velocemente. Coprite e mettete in frigorifero per 30 minuti.
2. Incidete per il lungo il baccello di vaniglia e raschiate i semini. Grattugiate finemente la scorza del limone e portate il tutto a ebollizione con il latte e lo zucchero. Unite il riso e fate sobbollire a fuoco basso per ca. 20 minuti mescolando di continuo, per evitare che il riso bruci. Estraete il baccello di vaniglia e lasciate raffreddare.
3. Scaldate il forno statico a 180 °C. Separate le uova. Incorporate i tuorli all’impasto di riso. Montate a neve gli albumi e uniteli.
4. Spianate la pasta frolla su poca farina in uno strato di 3 mm. Ricavatene dei dischi di ca. 13 cm Ø e rivestite gli stampi.
5. Spennellate i fondi con la gelatina, distribuite l’impasto di riso e lisciate. Cuocete nella metà inferiore del forno per ca. 25 minuti.
6. Fate raffreddare e spolverate con lo zucchero a velo.
Tartare di salmone affumicato con aneto
La tartare di salmone affumicato è splendida come antipasto o aperitivo. Aneto fresco, cipollotti e pernod compongono un vero e proprio bouquet di sapori.
Ricetta
Altre ricette pasquali su migusto.ch
Mengen kalkulieren
der Planung des kurz überschlägt, wie Essen und Getränken wird, vermeidet viele
So viel rechnet man pro
Brötchen oder 150 g Brot
Tee oder Kaffee, unbegrenzt Wasser bis 80 g Charcuterie
Calcolare le quantità
Konfitüre oder Honig
Joghurt oder Müesli 2 Stück Kuchen oder Muffins
Se quando si organizza un brunch si calcolano bene le quantità di cibo e bevande, si eviteranno molti resti. Per persona si calcolano:
• 2 panini o 150 g di pane
• 5 dl di tè o caffè, più una quantità illimitata di acqua
• da 50 a 80 g di salumi
ATTUALITÀ
Ostern
Pasqua
Un festino senza resti
Tolles Fest ohne Rest
Lo
teme chi invita: che gli ospiti tornino a casa con la fame. Di solito però gli avanzi del brunch sono tanti. Ma non per forza dev’essere così.
Die Angst jedes Gastgebers: Jemand könnte hungrig nach Hause gehen.
Meist aber bleiben vom Brunch reichlich Reste übrig. Das muss nicht sein.
Die Tage danach
Hart gekochte Eier, die vom Brunch übrig bleiben, können zurück in den Kühlschrank und in den folgenden Tagen zum Beispiel für einen Brotaufstrich oder Salat eingeplant werden. Zopfreste lassen sich in Scheiben einfrieren oder zu Fotzel ten verarbeiten – so wird aus einem Rest ein neues Highlight auf dem Frühstückstisch.
Il dopo-brunch
Köstliches konzentrieren reichen beim Brunch einige Highlights, die den Gästen in Erinnerung bleiben: Pancakes, tolles Müesli mit Früchten, Avocadotoast. Vieles sich schon am Vorabend vorbereiten, etwa der ZopfPancake-Teig, auch das das alles wird sogar wenn es am Vorabend vorbereitet wurde.
• 15 g di marmellata o miele
• 150 g di yogurt o müesli
• 1 o 2 fette di torta o muffin
Puntare sulla bontà
Bastano alcune prelibatezze per rendere il brunch memorabile: pancake, un müesli fantastico, un toast all’avocado. Molte cose possono essere facilmente preparate la sera prima, come la pasta per la treccia o l’impasto per i pancake e anche il müesli. Anzi, certi cibi preparati con anticipo sono ancora migliori!
Pietanze vegetariane e vegane
Vegetarisches
Veganes
Vegetarier oder Veganer unbedingt etwas für sie einplanen. Das muss nicht nur für sie sein: Vegane Pancakes schmecken auch allen anderen, ein Müesli kann beispielsweise mit einem Mandeloder veganem Kokoszubereitet werden. Auch pflanzliche Milchalternaneben der herkömmlichen für Kaffee und Tee erfreut mittlerweile nicht nur Veganer.
Se tra gli invitati vi sono persone vegetariane o vegane, bisogna pensare anche a loro. Ma non solo a loro però: i pancake vegani piacciono a tutti e il müesli può essere preparato anche con una bevanda alle mandorle o dello yogurt di cocco vegano. Presentare un’alternativa vegetale al latte accanto al latte normale per il tè e il caffè può far piacere anche a chi non segue una dieta vegana.
Jeder nimmt etwas mit Wer sich verkalkuliert und besonders viele Reste hat, kann seinen Gäste anbieten, etwas für den nächsten Tag mit nach Hause zu nehmen. Kleine Behälter oder Plastiksäcke bereithalten – Reste vom Birchermüesli oder Salat finden immer dankbare Abnehmer.
Le uova sode rimaste del brunch possono essere conservate in frigorife ro e utilizzate nei giorni successivi, ad esempio per preparare una crema da spalmare o un’insalata. La treccia restante può essere invece congelata a fette o usata per il french toast, trasformando così i resti in un ulteriore prelibatezza per la colazione.
A ognuno qualcosa
Se si sbagliano i calcoli e i resti sono tanti, è possibile chiedere ai propri ospiti di portarsi a casa qualcosa per il giorno dopo. Tieni a portata di mano piccoli contenitori o sacchetti di plastica. Gli avanzi di birchermüesli o d’insalata sono sempre benaccetti.
Ganztägiges Frühstück
Colazione tutto il giorno
In einigen Restaurants ist es zum Trend geworden, ganztägig Frühstück anzubieten. Wenn der Brunch so gemütlich ist, dehnt man ihn einfach aus. Wer bleibt, darf sich gern weiter bedienen; wer Pläne hat, geht. Das sind die besten Feste – und ganz nebenbei leert sich das Buffet.
In alcuni ristoranti è diventata una tendenza proporre la colazione per tutta la giornata. Se il brunch è piacevole, basta allungarlo. Chi rimane può continuare a servirsi, chi invece ha un impegno se ne va. Sono questi i momenti migliori, e in più il buffet si svuota.
Testo: Claudia Schmidt
Text: Claudia Schmidt
Pura bontà italiana
Fine dadolata di cuori di carciofo Ideale come antipasto o spuntino, all’ingrediente principale vanno aggiunti, pomodori secchi, prezzemolo e rucola
Il piccolo robot che conquista PlayStation Il nuovo gioco, Astro Bot, propone molti livelli, ognuno dei quali è un piccolo mondo da esplorare, con sorprese, collezionabili e meccaniche sempre nuove
Prove di passione nel Venerdì dei penitenti
Guatemala ◆ Tra santi, vulcani e cucuruchos, la sacra teatralità di Antigua avvolge nel rito e nel mistero la Semaña Santa
Enrico Martino, testo e foto
Nell’atmosfera ancora umida della notte le prime luci dell’alba scaldano Ponzio Pilato che discute con uno dei due ladroni mentre Caifa chiama casa con il cellulare. Tutto si ricompone in un istantaneo miracolo al sordo rullio dei tamburi quando dall’atrio «giallo torta di nozze» della chiesa de La Merced esce ondeggiando un immenso palanchino sormontato da un Nazareno in tunica rossa, caricato da secoli di masochistico penitenziarismo ispanico e avvolto da fiumi d’incenso sparsi da centinaia di turiboli che roteano pericolosamente nell’aria. Lo sostengono a turno oltre ottanta cucuruchos, i penitenti infagottati nelle tuniche moradas, il viola di rigore, accompagnati da una marcia funebre e attorniati da centurioni e soldati romani dall’aria inequivocabilmente maya. Perché gli «autoctoni» possono fare i soldati romani, i cattivi per antonomasia, ma i penitenti no, per tradizione appartengono alle famiglie decentes come si dice qui, quelle
per cui appartenere a una delle numerose hermandades, le confraternite di penitenti, è da sempre il segno inconfondibile di appartenenza a una casta. Magari da pagare a caro prezzo, come la bambina che, trasudando lacrime e sudore, sfodera uno sguardo omicida: se solo potesse, fulminerebbe chi l’ha convinta a trascinare per le strade acciottolate di Antigua una delle tante Vergini Addolorate che accompagnano la Semaña Santa più spettacolare dell’America Latina.
La Domenica delle Palme
Quella che potrebbe essere ritenuta una delle poche feste capaci di unire questo Paese dalle anime troppo spesso contrastanti, inizia ufficialmente la Domenica delle Palme quando le contadine maya si affannano a intrecciare rami di foglie di palma sui sagrati delle chiese. Lo fanno da secoli, più precisamente dal 1543 quando
andò in scena la prima processione, e da allora poche città dell’America Latina hanno saputo conservare così gelosamente le tradizioni dell’epoca coloniale come ha fatto Antigua. L’illusione è perfetta, un roman-
tico scenario di pieni e di vuoti, di quinte teatrali nobilitate da antichi blasoni, orfani di un tempo in cui erano l’orgoglio della corona di Spagna. Potrebbe essere l’Andalusia di qualche secolo fa, ma per cambiare con-
tinente basta alzare gli occhi verso un anfiteatro di vulcani color cenere, una cintura di fuoco che ha pietrificato per sempre Antigua, trasformandola in un salto repentino nel sedicesimo secolo quando Diego Iñiguez, uno dei primi cronisti della colonia, scriveva: «Sentendosi qui uno isolato dal mondo e vicino al cielo…».
I conquistadores che non badavano a spese nell’affibbiare nomi così lunghi da sembrare titoli nobiliari l’avevano battezzata Muy Noble y Muy Leal Ciudad de Santiago de los Caballeros, tanto per far capire ai maya chi comandasse senza però fare i conti con i vulcani che nel 1773, dopo un micidiale sequel di terremoti inesorabili come lame di rasoio, li avevano definitivamente convinti a trasportare la capitale a Ciudad de Guatemala. La magia però è rimasta, annidata in ogni pietra di facciate che sembrano un teatro barocco e nella cupola squarciata di una cattedrale che finisce direttamente nel cielo.
Durante la Settimana Santa, nello scenario teatrale di Antigua, tra palazzi coloniali
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Una preghiera per i vulcani
Ha sempre sedotto tutti, anche senza bisogno di scenografici incensi, questo precario paradiso dove chiunque, anime in pena o no, si è affannato a supplicare i santi del suo paradiso che i vulcani non si svegliassero di cattivo umore. Un onirico rito collettivo officiato ogni anno soprattutto durante la Semaña Santa quando migliaia di penitenti si attorcigliano per giorni e notti in percorsi serpentiformi creando un gigantesco e inestricabile ingorgo di santi, Cristi ricoperti di sangue, Madonne dallo sguardo languidamente emaciato e visioni ondeggianti di penitenti velate che trasudano sudore e sensualità.
Felipe: «Un tempo era fede, oggi è solo un rivaleggiare in vestiti e i proprietari delle catene alberghiere sono tra i più generosi nelle offerte alle confraternite»
Alla fine, si imbottigliano tutti irreparabilmente nella Plaza Mayor dove un negozio di elettrodomestici invece di inutili adesivi di polizie private dagli improbabili nomi hollywoodiani si fregia di un ben più significativo «Questo locale è protetto dallo Spirito Santo». Forse ne avrebbero bisogno anche le comitive di gringos un po’ provati che cercano penosamente di mimetizzarsi tra i locali ostentando rami di palma come se fossero ventagli andalusi.
Il penitente Felipe e le discoteche
Quando chiedo in spagnolo a un cucurucho, «dov’è la velacion?», una di quelle interminabili veglie pasquali che si susseguono nelle chiese di Antigua, lui mi risponde con un «no entiendo» dall’accento irresistibilmente anglosassone. Avrei dovuto capirlo subito dagli occhialini rotondi e dalla faccia troppo pallida, i gringos si stanno infiltrando persino nelle hermandades, le più tradizionali istituzioni di Antigua. «Una volta durante la Settimana Santa ad Antigua la musica non era permessa neanche di sera e le discoteche si sono impadronite della città» sbotta seduto a un tavolo del Comedor Tipico Antigueño, Felipe, penitente viscerale per molti anni. «Un tempo era fede, oggi è solo un rivaleggiare in vestiti e i proprietari delle catene alberghiere sono tra i più generosi nelle offerte alle confraternite».
La velaciòn
Il timore dell’ennesima Gringotenango, l’ironico soprannome che i guate-
maltechi affibbiano alle località vampirizzate da colonie di statunitensi a caccia di sole ed esotismo, si dissolve pochi minuti dopo quando un improvviso suono di pifferi segnala una velaciòn. All’interno della chiesa i campesinos scesi dai villaggi aggrappati alle falde dei vulcani si affollano commossi davanti agli apocalittici dipinti naif che ripercorrono le tappe della Passione come se fossero tavole di un cartoon con tutti gli effetti speciali del caso. Lampi e tuoni scuotono le quinte di un tempestoso mare di cartapesta su cui galleggia precariamente il Nazareno, mentre musiche celestiali accompagnano «buoni», quasi sempre bianchi con i capelli biondi, e peccatori, rigorosamente di pelle scura, insidiati da assatanati demoni che si affacciano dal buco di un fondale di cartapesta.
Tappeti di segatura e petali
La Settimana Santa di Antigua va vissuta la notte del giovedì, quando nessuno va a dormire e la popolazione affolla le strade per decidere con animate discussioni quali sono le alfombras più belle, i tappeti di segatura colorata e petali di fiori che coprono il selciato delle strade su cui passeranno le processioni. La gente li progetta per settimane con riunioni allargate di famiglia in cui viene minuziosamente discusso ogni particolare. «Una notte di lavoro e tutto verrà distrutto in un minuto all’alba del Venerdì Santo, è la tradizione señor », è solo l’inizio di una lunga giornata in cui va in scena una barocca teatralità ritualizzata, celebrata da un andirivieni implacabile di processioni, da quelle famose per spettacolarità e numero di penitenti a quelle più dimesse e quasi intime.
Quello che non cambia sono i costumi, arrivati direttamente dalla Spagna al seguito della Conquista nel sedicesimo secolo per diventare rapidamente appannaggio di creoli e nobili. Ogni colore, ogni particolare si carica di un significato simbolico a partire dal termine cucurucho, «cartoccio», che si riferisce alla lunga tunica morada indossata durante la Semaña Santa, eccetto il Venerdì Santo quando qualche hermandad sfoggia ancora il nero tradizionale, mentre alcuni gruppi di palestinos si vestono come al tempo della Gerusalemme biblica.
La mantellina utilizzata il Giovedì Santo è bianca in ricordo dell’istituzione dell’Eucarestia mentre la cintura simboleggia l’autoflagellazione in voga nell’epoca coloniale. Il volto un tempo era coperto da un cappuccio a cono che lasciava scoperti solo gli occhi, un look sempre più raro dopo essere stato a lungo proibito per evidenti motivi durante le numerose dittature del ventesimo secolo. Tutte le hermandades hanno un loro in-
no, suonato all’inizio e alla fine della processione mentre le marce funebri sono fondamentali per mantenere la cadenza. Ogni giorno commemora un episodio della Passione, dall’entrata a Gerusalemme la Domenica delle Palme alla Domenica di Pasqua quando si celebra la Resurrezione. Il lunedì c’è un attimo di tregua ma si riparte in un pathos crescente, il martedì con una processione de La Merced e il mercoledì con quella riservata ai bambini, il Giovedì Santo iniziano le grandi processioni con San Cristòbal El Bajo e San Francisco El Grande. Un crescendo che raggiunge il suo parossistico zenit il Venerdì Santo con decine di processioni che si muovono in un apparente caos che nasconde un’organizzazione quasi militare e si acquietano solo nell’ora sacra della siesta per ricominciare quando le ombre della sera scacciano l’ultimo sole e Antigua sfodera un fascino spudorato che lascia insensibili solo penitenti e soldati romani.
«Quelli di San Felipe spaccano il minuto, mica come questi che partono con ore di ritardo» commenta sconsolato un tamburino nell’interminabile attesa della Consagrada imagen del Señor Sepultado de la Escuela de Cristo tra i sogghigni di approvazione dei maya prezzolati per spingere decine di carretti che portano a spasso una surreale versione semovente della
Via Crucis scolpita nel legno. Visioni che svaniscono nella notte, mentre due cucuruchos commentano sfiniti «Fino all’anno prossimo è fatta», forse lo pensano persino le statue dei santi che si affacciano dai grandi retablos, gli altari dorati di una Spagna assetata di autoflagellazione che scivolano lentamente nell’ombra mentre le navate diventano oscuri labirinti.
Il ritorno della calma
Fuori, tornata la calma, ogni angolo di questa ciudad de los misterios racconta storie sinistre e fantastiche di anime in cerca della pace eterna, soprattutto Calle de las Animas dove si possono incontrare carretti tirati da mule senza testa, dame con occhi senza orbite e, con un po’ di fortuna, la Llorona, la «piagnona» che si aggira disperata piangendo i figli perduti. Malmaritate e ragazze dovrebbero stare attente a un piccoletto con un gran sombrero, el sombreron che prima si esibisce in una serenata poi, se una di loro gli dà corda, annoda i capelli della malcapitata con una treccia che non si scioglie mai più. Guai poi a tagliarsi la chioma, perché lui si vendica rubandole l’anima. Calle del Desengaño è frequentata dal fantasma della figlia del conquistador Pedro de Alvarado, uccisa dal marito che l’ave-
va scoperta proprio qui abbracciata a un amante. Per chi alza un po’ troppo il gomito c’è poi il cadejo, uno strano cane bianco che rastrella senza pietà nottambuli ubriachi tra le numerose cantinas che punteggiano l’omonima strada intitolata a questo cattivissimo cane in versione mitologica. Arroganti capitani, vescovi dall’oscura sensualità, avventurieri, austere monache e poveracci se ne sono andati per sempre, ma Antigua nasconde ancora mondi stranianti, bozzoli di pietra protetti da svolazzanti angeloni che nascondono malinconici giardini in cui vivono le loro vite segrete i Panzas Verdes, le antiche famiglie locali chiamate ironicamente così in tutto il Guatemala per la loro sfrenata passione per gli avocados I loro, più che cognomi, sono i biglietti da visita di un’inarrivabile casta di discendenti degli hidalgos spagnoli protetti da un passato che nessuno potrà mai comprare. Perché quelle mura corrose da secoli di storie ti guarderanno sempre dall’alto, come un verdadero Panza Verde nascosto dietro il suo cappuccio da cucurucho guarda i turisti che si illudono di diventare parte di questo inarrivabile teatro mobile.
Informazioni
Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.
Ricetta della settimana - Tartare di carciofi e pomodori secchi
Ingredienti
Antipasto
Ingredienti per 4 persone
1 vasetto di cuori di carciofo sott’olio da 285 g
80 g di pomodori secchi sott’olio
1 scalogno
½ mazzetto di prezzemolo
2 c di capperi
1 peperoncino rosso
20 g di pinoli di cedro sale
20 g di rucola
1 limone, circa
Preparazione
1. Estraete i carciofi e i pomodori dall’olio, fateli sgocciolare bene, poi tamponateli con carta da cucina.
2. Per la decorazione finale tagliate una fettina di carciofo per ogni porzione e mettetele da parte.
3. Riducete a dadini di 5 mm il resto dei carciofi e i pomodori.
4. Tritate lo scalogno e il prezzemolo.
5. Sciacquate i capperi, private il peperoncino dei semi e sminuzzate entrambi finemente.
6. Tostate i pinoli senza grassi.
7. Mescolate tutti gli ingredienti preparati e regolate di sale. Con l’ausilio di un coppapasta di circa 9 cm di diametro distribuite le tartare nei piatti. Sfilate il coppapasta con cura.
8. Sminuzzate la rucola e disponetela al centro delle tartare. Guarnite con le fette di carciofo messe da parte e completate con un po’ di scorza di limone grattugiata.
Consiglio utile
Accompagnate le tartare con un uovo al tegamino e pane tostato.
Preparazione: circa 30 minuti
Per porzione: circa 4 g di proteine, 12 g di grassi, 4 g di carboidrati, 160 kcal
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Prova subito & fai
Una galassia di sorprese a più livelli
Videogiochi ◆ Astro Bot sfrutta al massimo il DualSense, mescolando nostalgia e invenzione in un platform irresistibile
Kevin Smeraldi
Per tre decenni, Sony ci ha offerto un catalogo sconfinato di titoli PlayStation di altissimo livello, ma è sempre mancata una mascotte platform (a piattaforme) capace di raggiungere le vette regolarmente toccate da Mario di Nintendo. Ci hanno provato con Crash Bandicoot e Jak and Daxter, senza tuttavia eguagliare tale fama. Ora, però, è arrivato un vero sfidante. Con decine di livelli variopinti e abilità sperimentali, l’ultima avventura di Astro proietta il piccolo robot sotto i riflettori, mettendo al suo fianco un cast di eroi del passato PlayStation, per offrire ore di divertimento allo stato puro.
Con una progettazione che reinventa le meccaniche, Astro Bot mantiene l’equilibrio tra innovazione e omaggio ai classici
Astro Bot si impone come un platform creativo, magistralmente realizzato e intriso di nostalgia. Forse non raggiunge sempre la stravagante creatività di capolavori come Super Mario Galaxy o Odyssey, ma è difficile considerarlo un difetto, dato che raramente si vedono simili slanci d’inventiva al di fuori dei confini Nintendo. Ciò che Team Asobi è riuscito a creare evoca con successo lo spirito di quei grandi platform, dando vi-
ta a livelli originali e ricchi di stile. Astro Bot sfrutta le meraviglie del DualSense come nessun altro titolo finora. I grilletti oppongono resistenza, le vibrazioni percorrono i pollici, le gocce di pioggia solleticano i palmi. Ci siamo ritrovati a dondolare involontariamente guidando l’astronave di Astro con i controlli di movimento; il tutto accompagnato da fantastici suoni che fuoriescono direttamente dal controller, portando l’esperienza di gioco su un altro livello. Sebbene manchi un tema musicale iconico (un «tormentone»), la colonna sonora accompagna l’avventura con una qualità deliziosa.
Musica che fa da sfondo ai livelli, i quali, pur apparendo semplici all’inizio, si aprono presto rivelando profondità e segreti intriganti. La maggior parte segue un percorso abbastanza lineare, ma alcuni si spingono oltre, offrendo aree quasi sandbox piacevolmente intricate dove andare a caccia di collezionabili. Non si raggiunge mai l’apertura dei livelli di Mario Odyssey, ma ci sono comunque abbastanza anfratti in cui perdersi. Si possono persino scoprire interi livelli extra all’interno di altri livelli, con punti di teletrasporto nascosti come tesori sepolti che conducono a nuove zone nella «Galassia Perduta». Questo genere di struttura «a matrioska» garantisce una scorta continua di sorprese durante le circa nove ore di gioco principali.
Giochi e passatempi
Cruciverba
La ferrovia più lunga del mondo collega la … Sai quanti chilometri è lunga? Potrai terminare la frase e rispondere alla domanda, risolvendo il cruciverba e leggendo nelle caselle evidenziate. (Frase: 4, 3, 2, 6 – 11)
ORIZZONTALI
1. Deve bastare per tutta la vita...
5. Recipiente con larga imboccatura
10. Finì così Savonarola dopo l’impiccagione
12. Il nome del pittore Klee
13. Le iniziali dell’attore Gassman
15. Nero, oscuro
17. Negazione inglese
18. Lo dà il mossiere
20. Inconsueta, inusuale
22. L’attrice Valle
23. Raganelle arboree
24. Due di fiori
25. Le iniziali dell’attore Solfrizzi
26. Preposizione
28. Privi di spessore
30. Nome femminile
Alcune delle sorprese più gradite sono i nuovi poteri che Astro acquisisce. Il movimento base del nostro robottino è eccellente: salto, doppio salto e planata trovano il giusto equilibrio tra leggerezza e precisione. Ma sono le abilità temporanee specifiche di ogni livello a rendere tutto davvero entusiasmante, come ad esempio i guanti «Rana Gemella», con le loro lingue appiccicose che permettono di dondolarsi come fossero un rampino. Essendo anche caricati a molla, possono respingere i proiettili nemici facendoli esplodere in faccia all’avversario. Un’altra meccanica interessante è quella del topo, che riduce Astro a
dimensioni minuscole, attivando una sorta di modalità Toy Story per arrampicarsi su mensole e foglie giganti in cerca di segreti. Il gioco non si adagia mai sugli allori, introducendo nuove idee e gadget fino all’ultimo atto. Sebbene alcune meccaniche vengano riutilizzate un po’ più spesso, quando questi poteri ricompaiono in livelli successivi vengono ricontestualizzati e dotati di usi leggermente diversi.
Al di fuori di boss e miniboss, la varietà dei nemici inizialmente non sembra eccezionale. Alcuni sono dipinti di colori diversi o vestiti a tema con l’ambiente, ma si sconfiggo-
no tutti con le solite combinazioni di salti e colpi. Più avanti, però, il campionario si arricchisce di volti molto più amichevoli: oltre 150, per la precisione! Personaggi dall’immenso catalogo PlayStation sono approdati nel mondo di Astro sotto forma di altri bot. Tra questi troviamo i Lombax da Ratchet and Clank, un certo cane rapper da PaRappa , e molti altri. Numerosi personaggi PlayStation appaiono come brevi e affascinanti cameo, ma una manciata assume ruoli di supporto più consistenti. Non si sa mai dove potrebbero spuntare, e sono proprio questi leggeri tocchi di ironia e umorismo a mantenere vivo il tono giocoso di Astro Bot per tutta la sua durata, rendendo questo titolo magico grazie a un’elegante mescolanza di nostalgia e nuove idee. Astro Bot ci ha fatto sorridere ininterrottamente, dall’inizio alla fine. Grazie a una collezione di livelli dall’inventiva inesauribile e abilità incredibilmente divertenti, dona gioia senza mai risultare monotono o ripetitivo. Questo titolo è una vera e propria festa per chi porta PlayStation nel cuore, offrendo uno scrigno colmo di nostalgia giocabile. Team Asobi ha creato un platform con mascotte che compete quasi alla pari con i migliori lavori di Nintendo, e questo è forse il complimento più grande che si possa fare. Voto: 9/10.
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
32. Per la chiesa cattolica è la Santa del 16 settembre
VERTICALI
1. L’arma di Fred Flintstone
2. Ci... seguono in cucina
3. Vale in mezzo
4. Vendita all’incanto
6. Un grido dell’acrobata
7. Non sono all’altezza
8. Uno come Antonio Cannavacciuolo
9. Sormontato dal tabernacolo
11. Lo Jacopo foscoliano
14. Un liquore
16. Antica lingua francese
19. Un anno a Parigi
21. È fissato alla pedivella
25. Le iniziali dell’attore Costa
27. Si usa per evitare ripetizioni
28. Regione montuosa del Marocco
29. Termine di diminutivo maschile plurale
30. Con... «tare» vale... trasformare
31. Le iniziali della cantante Amoroso
Soluzione della settimana precedente RADICE DALLE MILLE PROPRIETÀ
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku cliccando sull’icona «Concorsi», homepage in alto a destra Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano . Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
Hit della settimana
–
Settimana Migros
2.80
invece di 5.–Lombatina d'agnello M-Classic per 100 g, in self-service 44%
2.45 invece di 3.50 Fragole Spagna/Italia, vaschetta da 500 g, (100 g = 0.49) 30% 15. 4 – 21. 4. 2025
2.65
invece di 5.–Filetto di maiale M-Classic Svizzera, per 100 g, in self-service 47%
1.54
invece di 2.20 Le Gruyère piccante AOP circa 250 g, per 100 g, prodotto confezionato 30%
a partire da 2 pezzi 30%
Capsule Café Royal e Delizio e sfere di caffè CoffeeB in confezioni grandi, per es. Café Royal Lungo, 36 pezzi, 10.47 invece di 14.95, (100 g = 5.51)
11.60 invece di 19.40 Mega Star prodotto surgelato, Almond, Vanilla o Cappuccino, 12 x 120 ml, (100 ml = 0.77)
Freschezza naturale
7.95
invece di 10.95
Asparagi verdi Spagna/Italia, mazzo da 1 kg
4.95 Maionese Kewpie 338 g, (100 g = 1.46)
5.95
invece di 7.95
Gamberetti interi cotti M-Classic, ASC
350 g, in self-service, (100 g = 1.70)
4.95 invece di 6.55 Mirtilli e lamponi
Spagna/Portogallo/Marocco, vaschette, 2 x 250 g, (100 g = 0.99)
1.–invece di 1.45 Mele Gala Svizzera, vaschetta da 500 g, (100 g = 0.20)
2.20 invece di 2.95 Banane Fairtrade, Migros Bio Colombia, al kg, (100 g = 0.22)
2.75
Migros
Tutto per un succulento menù pasquale
6.90
6.95 invece di 9.95
1.50
Pesce e frutti di mare
Che si mangia Venerdì Santo?
Filetto dorsale di salmone affumicato d'allevamento, Scozia, 300 g, in self-service, (100 g = 3.97) 40%
11.90
invece di 19.90
32%
8.95
invece di 13.20
Merluzzo Skrei M-Classic, MSC pesca, Atlantico nordorientale, 2 pezzi, 300 g, in self-service, (100 g = 2.98)
Senza pelle e senza lische
30%
17.75
invece di 25.50
Filetti di salmone dell'Atlantico Pelican, ASC prodotto surgelato, 750 g, (100 g = 2.37)
41%
9.95
invece di 16.90
Filetti di salmone senza pelle M-Classic, ASC d'allevamento, Norvegia, 380 g, in self-service, (100 g = 2.62)
Prodotti freschi e pronti
Piatti pronti e
sfiziosi
Pasta Anna's Best, refrigerata fiori asparagi e ricotta, gnocchi al basilico o spätzli alle verdure, in conf. multiple, per es. fiori, 3 x 250 g, 11.75 invece di 14.85, (100 g = 1.57)
conf. da 3 33%
Lasagne Anna's Best, refrigerate alla bolognese o alla fiorentina, in confezioni multiple, per es. alla bolognese, 3 x 400 g, 7.90 invece di 11.85, (100 g = 0.66)
20%
Tutti i cake Petit Bonheur per es. cake al cioccolato, 420 g, 4.16 invece di 5.20, prodotto confezionato, (100 g = 0.99)
20%
Tutti i rotoli e i mini rotoli non refrigerati, Petit Bonheur per es. rotolo ai lamponi, 330 g, 3.44 invece di 4.30, prodotto confezionato, (100 g = 1.04)
a partire da 2 pezzi 20%
Madeleine Petit Bonheur con burro svizzero o gocce di cioccolato, per es. con burro svizzero, 220 g, 2.24 invece di 2.80, prodotto confezionato, (100 g = 1.02)
La crème de la crème
Yogurt Saison e M-Classic disponibili in diverse varietà, per es. Saison ribes/ limetta/rabarbaro, 6 x 200 g, 4.50 invece di 4.80, (100 g = 0.38)
Benecol Emmi fragola, mirtillo e lampone, per es. fragola, 6 x 65 ml, 4.60 invece di 5.75, (100 ml = 1.18) a partire da 2 pezzi
Tutti i formaggi Da Emilio per es. Grana Padano grattugiato Da Emilio, 2.51 invece di 2.95, (100 g = 2.02) 15%
2.05 invece di 2.60 Fontal artigianale italiano per 100 g, prodotto confezionato
1.85
Formaggio fresco alla doppia panna o Dippi, Kiri in conf. speciale, per es. formaggio fresco doppia panna, 24 porzioni, 432 g, 7.90 invece di 9.90, (100 g = 1.83)
2.30 Gouda a fette M-Classic 12 fette, 250 g, (100 g = 0.92)
3.60 Le Gruyère grattugiato maxi AOP 250 g, (100 g = 1.44)
Selezione di affettati svizzeri per il buffet di Pasqua
15.90
invece di 19.90
Piatto festivo Gruyère carne secca, prosciutto crudo e pancetta cruda, Svizzera, 233 g, in self-service, (100 g = 6.82) 20%
4.95 invece di 6.20
Piatto grigionese Spécialité Suisse prosciutto crudo, carne secca, pancetta cruda e Grisoni, Svizzera, per 100 g, in self-service
3.20 invece di 4.10
Prosciutto cotto Gran Riserva Rapelli, IP-SUISSE per 100 g, in self-service 21%
Tutti i Caprice des Dieux e i Caprice des Anges (formato maxi escluso), per es. Caprice des Dieux, 300 g, 4.76 invece di 5.95, (100 g = 1.59)
5.20 invece di 6.55
Caprice des Dieux in conf. speciale, 330 g, (100 g = 1.58)
Il tradizionale dolce di Pasqua italiano
Torta di carote e tranci di torta di carote per es. tranci di torta di carote, 2 pezzi, 140 g, 2.80 invece di 3.50, prodotto confezionato, (100 g = 2.00) 20%
La Colomba Classica San Antonio 120 e 300 g, per es. sacchetto da 300 g, 4.40 invece di 5.50, (100 g = 1.47) 20%
a partire da 2 pezzi 30%
Tutte le confetture Fruits Suisses e Satin, Belle Journée per es. Fruits Suisses ai frutti di bosco, IP-SUISSE, 350 g, 3.40 invece di 4.85, (100 g = 0.97)
conf. da 6 40%
Orangina
Original, Zero o Rouge, 6 x 1,5 l, 6 x 500 ml e 6 x 250 ml, per es. Original, 6 x 1,5 litri, 8.28 invece di 13.80, (100 ml = 0.09)
da 3 33%
La Semeuse Mocca, in chicchi o macinato 3 x 500 g, per es. macinato, 28.– invece di 41.85, (100 g = 1.87)
20%
Tutte le bevande Biotta, non refrigerate
3.96 invece di 4.95, (100 ml =
conf.
Così non è solo il coniglietto di Pasqua a saltare... di gusto!
a partire da 2 pezzi 50%
Aceto balsamico di Modena Ponti 500 ml, 2.40 invece di 4.80, (100 ml = 0.48)
2.50 Zuppa di cipolle Knorr con cipolle arrostite 61 g, (10 g = 0.41)
Maionese, Thomynaise, senape dolce o concentrato di pomodoro, Thomy per es. maionese à la française, 2 x 265 g, 4.45 invece di 5.60, (100 g = 0.84) conf. da 2 20% 1.90 Asia Noodles Spicy Chicken Knorr 73 g, (10 g = 0.26) 20x CUMULUS Novità
Condimento liquido vegano per un sapore umami
20x CUMULUS Novità
5.95 Seasoning Yondu
275 ml, (100 ml = 2.16)
7.50 invece di 12.50 Spaghetti Agnesi 5 x 500 g, (100 g = 0.30)
da 6
Tonno M-Classic, MSC in olio e in salamoia, 6 x 155 g, per es. in olio, 9.35 invece di 11.70, (100 g = 0.78)
Pasta Migros Bio (prodotti Alnatura e Demeter esclusi), per es. penne integrali, 500 g, 1.72 invece di 2.15, (100 g = 0.34)
5.25 invece di 7.50
3 x 700 g, (100 g = 0.25) conf. da 3
Passata di pomodoro Longobardi
16.50 invece di 22.–Mini pizze Piccolinis Buitoni prodotto surgelato, in confezione speciale, al prosciutto o alla mozzarella, 40 pezzi, 1,2 kg, (100 g = 1.38)
Tutti i tipi di farina Migros Bio da 1 kg (prodotti Alnatura, Demeter e Regina esclusi), per es. farina per treccia, 3.04 invece di 3.80, (100 g = 0.30) a partire da 2 pezzi
Un brindisi alla primavera
Tutti gli sciroppi Migros Bio 500 ml, per es. ai fiori di sambuco, 3.– invece di 3.75, (100 ml = 0.60)
Ora al gusto di frutto del drago e fragola
20x CUMULUS Novità
Dragon 10 x 200 ml e 200 ml, per es. 10 x 200 ml, 4.95, (100 ml = 0.25)
1.80
2.70
Capri-Sun mango & maracuja 330 ml, (100 ml = 0.55)
Capri-Sun Mystic
Gatorade Cool Blue o Orange Zero, 500 ml, (100 ml = 0.54)
conf. da 6 40%
Pepsi Regular, Zero, Cherry Zero e decaffeinata, 6 x 1,5 litri, 6 x 500 ml o 6 x 330 ml, per es. Regular, 6 x 1,5 litri, 7.50 invece di 12.50, (100 ml)
20x CUMULUS Novità
Schweppes Wild Berry
6 x 500 ml, 500 ml, 6 x 1 litro e 1 litro, per es. 6 x 500 ml, 11.90, (100 ml = 0.40)
20x CUMULUS Novità
da 6 33%
Evian in confezioni multiple, per es. 6 x 1,5 litri, 4.42 invece di 6.60, (100 ml = 0.05)
20x CUMULUS Novità
Coca-Cola Cherry
4 x 250 ml e 250 ml, per es. 4 x 250 ml, 4.20, (100 ml = 0.42)
2.10 Shine o Reload, Focus Water 500 ml, (100 ml = 0.42)
Una rinfrescante botta di caffeina e vitamine
20x CUMULUS Novità
2.50
Ramonade 330 ml, (100 ml = 0.76)
conf.
Nocco
Evviva, è di nuovo tempo di gelato
partire da 2 pezzi –.60 di riduzione
Tutti i biscotti Créa d'Or per es. Florentin, 100 g, 3.20 invece di 3.80
11.15
7.60
invece di 11.40
Rocher o Choco Carré, M-Classic per es. Rocher, 3 x 100 g, (100 g = 2.53) conf. da 3 33%
al cioccolato fondente Franui prodotto surgelato, 150 g, (100 g = 5.00) 20x
a
Lamponi
5.95
Little Moons ai lamponi prodotto surgelato, 6 pezzi, 192 g, (100 g = 3.10)
6.30
Crème d'Or Exotic prodotto surgelato, 500 ml, (100 ml = 1.26)
20x CUMULUS
5.95
Little Moons alla vaniglia prodotto surgelato, 6 pezzi, 192 g, (100 g = 3.10)
5.95
Little Moons al cocco prodotto surgelato, 6 pezzi, 192 g, (100 g = 3.10) 20x
6.30
Crème d'Or alla panna acidula prodotto surgelato, 500 ml, (100 ml = 1.26)
3.60
Crème d'Or Coupe Danmark prodotto surgelato, 170 ml, (100
LO SAPEVI?
Crème d’Or è la nostra marca propria di gelati particolarmente cremosi prodotti con soli ingredienti naturali. La panna e il latte provengono dalla Svizzera.
L’assortimento comprende classici come vaniglia, cioccolato e stracciatella, ma sorprende anche con creazioni sempre nuove e innovative come le varietà «Almond Salted Caramel» o «Exotic».
Snack e aperitivi
Croccanti squisitezze da condividere
a partire da 2 pezzi –.30 di riduzione
Tutti i salatini da aperitivo Party per es. cracker alla pizza, 150 g, 2.80 invece di 3.10, (100 g = 1.87)
conf. da 3 33%
In confezioni XXL
6.30
Paprika o Nature, in conf. XXL Big Pack, 380 g, (100 g = 1.66) 22%
Chips Zweifel
invece di 8.08
Tortine al formaggio M-Classic prodotto surgelato, 2 x 12 pezzi, 2 x 840 g, (100 g = 0.71) conf. da 2 20%
12.–
invece di 15.–
Sun Queen gherigli di noci, noci di anacardi o noci miste, per es. gherigli di noci, 3 x 130 g, 7.– invece di 10.50, (100 g = 1.79)
L’essenziale per l’estate
Per un corpo curato e una chioma fluente
a partire da 2 pezzi 30%
Tutto l'assortimento pH balance (confezioni multiple e da viaggio escluse), per es. gel doccia, 250 ml, 2.80 invece di 3.50, (100 ml = 1.12) a partire da 2 pezzi 20%
Tutto l'assortimento Maybelline per es. mascara Sensational Sky High, il pezzo, 13.97 invece di 19.95
invece di 14.25
Addio danni, Forti & brillanti o Vitamine & forza, per es. Addio danni, 3 x 300 ml, (100 ml = 1.11)
Shampoo Fructis
Tutto l’occorrente per la casa
48%
Detersivo per bucato in polvere o Discs, Persil in confezioni speciali, per es. in polvere per colorati, 4,5 kg, 24.95 invece di 48.56, (1 kg = 5.54)
40%
Tutti gli ammorbidenti Exelia per es. Florence, in conf. di ricarica, 1,5 litri, 4.17 invece di 6.95, (1 l = 2.78)
50%
Detersivo per bucato in gel o Power Bars, Persil in confezioni speciali, per es. Kraft Gel Universal, 3,6 litri, 24.95 invece di 51.80, (1 l = 6.93)
Carta per uso domestico Twist
Deluxe, Classic o Recycling, in conf. speciali, per es. Deluxe, FSC®, 12 rotoli, 13.40 invece di 19.20 30%
Pratici per mantenere l'ordine
Contenitori pieghevoli disponibili in diverse misure, per es. 15 x 9,8 x 5,7 cm, 0,7 litri, rosa, il pezzo, 2.35 invece di 2.95 20%
9.95 Contenitore pieghevole professionale con maniglie morbide
48 x 34,5 x 23,5 cm, 32 litri, il pezzo
a partire da 2 pezzi
Cestelli o detergenti per WC Hygo in confezioni multiple o speciali, per es. Ultra Power Extreme, 2 x 750 ml, 7.90 invece di 9.90, (1 pz. = 3.95)
per stoviglie Handy Original 3 x 750 ml, (100 ml = 0.20)
Fiori e giardino
invece di 12.95
Piante verdi in vaso a forma di coniglietto pasquale
disponibili in diverse varietà, Ø 13 cm, il vaso
disponibili in diversi colori, mazzo da 30, il mazzo
19.95 invece di 24.95
Phalaenopsis Cascade, 2 steli, in vaso di ceramica, con decorazione disponibile in diversi colori, Ø 12 cm, il vaso
Rose nobili Fairtrade disponibili in
colori, mazzo da 9, lunghezza dello stelo 60 cm, il mazzo
Prezzi imbattibili del weekend
da questo giovedì a domenica
4.70
invece di 7.90
Entrecôte di manzo al pezzo IP-SUISSE per 100 g, in self-service, offerta valida dal 17.4 al 20.4.2025 40%
2.90 invece di 4.90
Paesi Bassi, vaschetta da 500 g, (100 g = 0.58), offerta valida dal 17.4 al 20.4.2025 40%
Pomodori Aromatico
Succhi freschi Andros, refrigerati
75 cl e 1 l, disponibili in diverse varietà, per es. succo d'arancia, 1 litro, 4.06 invece di 5.80, (100 ml = 0.41), offerta valida dal 17.4 al 20.4.2025