Azione 15 del 7 aprile 2025

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edizione 15

MONDO MIGROS

Pagine 2 / 4 – 5

SOCIETÀ Pagina 3

l’Intelligenza artificiale applicata in campo medico: il progetto CAFEIN del CERN

Il dissenso di chi, in Israele, è stufo del conflitto e il dramma dei palestinesi che continua

ATTUALITÀ Pagina 11

A Milano Palazzo Reale celebra l’Art déco, fenomeno del gusto creatosi tra le due guerre

CULTURA Pagina 17

La Storia che riecheggia a Lugano

Damiano Zemp spiega il progetto nazionale per far crescere la boccia paralimpica in Svizzera

TEMPO LIBERO Pagina 27

L’eterno braccio di ferro tra giudici e politici

I politici sono vittime dei giudici ideologizzati? Considerando che molti sostenitori di questa dottrina non sono stinchi di santo, verrebbe da rispondere no. Sentire certi disinvolti capi-popolo che hanno palesemente gabbato la legge, definirsi vittime sacrificali della magistratura politicizzata, manco fossero fiori di campo, porterebbe a schierarsi dalla parte dei giudici. Ma c’è caso e caso.

Partiamo da Marine Le Pen. Condannata a quattro anni di carcere, di cui due sospesi, e cinque anni di ineleggibilità per appropriazione indebita di fondi pubblici europei tra il 2004 e il 2016, la tempestosa leader del Rassemblement National più che dei magistrati filo europeisti è vittima di se stessa. Dopo aver predicato negli anni passati un inasprimento delle pene proprio contro i politici che si sono macchiati dei medesimi reati per i quali oggi è stata giudicata (ne chiedeva l’ineleggibilità a vita), ora è stata presa con le mani nella marmellata.

E adesso come può attribuire la ragione ultima della propria condanna ai giudici «nemici»? Vero che personalmente non ha intascato un centesimo. Ma, in democrazia, stornare 2,9 milioni di euro per undici anni, creando un sistema di impieghi fittizi che consisteva nel far lavorare per il proprio partito assistenti parlamentari dei deputati europei con i soldi del contribuente europeo – fino a prova contraria, e vedremo se salterà fuori nel processo d’appello – era e resta un reato cristallino. Anche quando a commetterlo è la figura politica più influente di Francia. Diverso il caso di Călin Georgescu, candidato populista alle presidenziali romene, giunto in testa ai sondaggi con il 40% al primo turno in novembre, che si è visto respingere il ricorso contro la decisione dell’Ufficio elettorale nazionale di escluderlo dalle Presidenziali di maggio. L’accusano di aver truccato la campagna elettorale con l’aiuto della Russia. Accuse

partite – guarda caso – a ridosso della sua probabile vittoria elettorale. Ma – a parte la negazione dei crimini contro l’umanità – in regime democratico nessuno può essere condannato per le proprie opinioni personali. Georgescu non ci piace, è un inquietante filorusso e preferiremmo di gran lunga un leader amico dell’Europa, ma non può essere perseguitato per le sue idee. Ha ragione il giornalista Marco Travaglio: «Sono preoccupato che i cosiddetti democratici pensino di difendere la democrazia abolendo le elezioni. Non sono democratici quelli che aboliscono le elezioni ogni volta che le perdono. Perché? Perché danno ragione a quelli che dicono che la democrazia è finta, e che quindi ne possiamo fare a meno». Un altro caso in cui la legge mette in salamoia i politici riguarda il sindaco di Istanbul, Ekrem İmamoğlu, arrestato per corruzione e favoreggiamento al terrorismo, con proteste e scontri di piazza (ne parla Romina Borla con

Francesco Mazzucotelli a pag. 13). Che strano: İmamoğlu è il principale rivale del presidente Erdoğan per le Presidenziali del 2028. Secondo Amnesty International contro di lui è in atto una strumentalizzazione di vaghe accuse per perseguitare gli oppositori politici al regime. Il controllo del Governo su media, magistratura e dissidenti, soprattutto dopo il fallito colpo di stato del 2016 è infatti maniacale. İmamoğlu, quindi, non è tanto vittima dei giudici, ma del «sistema Erdoğan». La Francia è una democrazia di lungo corso, la Romania una democrazia adolescente e fragile, la Turchia una democrazia nella forma ma un’autocrazia nella sostanza. In un regime democratico la magistratura può anche sbagliare, ma è l’unico contrappeso istituzionale in grado di controllare le devianze della politica. In un regime antidemocratico la magistratura è invece una clava nelle mani dei «servitori del popolo» per polverizzare i propri avversari.

Carlo Silini e Leonardo Marchetti Pagine 20-21
Carlo Silini
Gustave Courbet, Funerale a Ornans (1849-1850)
Musée d’Orsay, Google Art Project

L’atteso ritorno di slowUp Ticino, per una giornata senz’auto

Sponsoring ◆ Domenica 13 aprile torna l’evento gratuito e unico nel suo genere, con la chiusura al traffico motorizzato lungo un tracciato tra Bellinzona e Locarno

Persán rileva il Gruppo Mibelle

Info Migros ◆ I marchi più popolari resteranno disponibili

L’edizione 2025 si snoderà nuovamente tra Bellinzona e Locarno su un percorso di 50 km interamente chiuso al traffico motorizzato. Le modalità restano le medesime: i partecipanti possono muoversi liberamente lungo il tracciato (rispettando il senso di marcia) in bicicletta, coi pattini, a piedi o con qualsiasi altro mezzo senza motore. Possono decidere se percorrere l’intero tracciato, oppure solo una parte, così come pure entrare e uscire in qualsiasi punto del percorso. A rendere la manifestazione una vera e propria festa saranno le soste presenti nei vari comuni che proporranno animazioni, ristorazione e intrattenimenti vari.

Il percorso e tutte le soste

Il tracciato resta simile a quello degli scorsi anni: attraverserà i comuni di Bellinzona, S. Antonino, Cadenazzo, Cugnasco-Gerra, Gordola, Tenero-Contra, Minusio, Muralto e Locarno e sarà chiuso al traffico motorizzato dalle ore 10.00 fino alle 17.00 per permettere ai partecipanti di spostarsi tranquillamente in bicicletta, coi pattini, a piedi o altri mezzi senza motore. Lungo il percorso

saranno presenti 13 punti di animazione, di cui 11 con ristorazione. La maggior parte delle soste sono gestite da associazioni ricreative locali che proporranno intrattenimenti e animazioni per grandi e piccini. Non mancheranno inoltre le «soste agricole», ovvero aziende agricole presenti sul percorso che in occasione dell’evento apriranno le loro porte ai partecipanti e organizzeranno attività. Le aziende agricole in questione sono Aerni (Piano di Magadino) e Ponzio (S. Antonino). Novità 2025 è la nuova sosta a Camorino (Corrida Village) che proporrà ristorazione e animazioni per i più piccoli.

Migros a slowUp

Anche Migros sarà protagonista di slowUp con diverse manifestazioni a Sant’Antonino.

• R istorante: menù tradizionali, ma anche vegetariani e vegani.

• Infrastrutture e servizi: WC e WC disabili, posteggi, Samaritani.

• Attività: animazioni e giochi per bambini, arrampicata, musica con DJ e guggen.

• Stand espositori: Migros e Strade sicure con Polizia Cantonale. La Polizia cantonale vi aspetta sul piazzale del Centro Commerciale Migros a Sant’Antonino con lo stand informativo del progetto di prevenzione Strade Sicure. I visitatori e le visitatrici avranno l’opportunità di mettere alla prova le proprie abilità sulle due ruote, partecipare ad attività coinvolgenti, scoprire il Posto

Comando Mobile della Polizia cantonale e prendere parte a un entusiasmante concorso a premi.

• Da non perdere: giochi, divertimento e foto ricordo attendono tutta la famiglia nella zona Famigros.

• Special Guest: il mitico Camion Migros.

Indicazioni pratiche

• Sul sito web dell’evento sono ottenibili informazioni utili per coloro che intendono partecipare, ma pure consigli per i domiciliati lungo il percorso o per coloro che avessero necessità di spostarsi in automobile nella regione nel corso della giornata.

• Chiusura strade: il percorso slowUp è completamente chiuso al traffico motorizzato per l’intera durata della manifestazione (10-17.00) ed è proibito l’accesso di qualsiasi veicolo; esclusi i servizi di pronto soccorso (ambulanza, pompieri e poli-

Quattro volte Media Blenio

zia). In caso di preventivato utilizzo dell’auto si consiglia di posteggiare al di fuori del tracciato la sera precedente l’evento.

• Muoversi sul percorso: sul percorso ci si può muovere liberamente e al proprio ritmo seguendo la direzione di marcia e l’apposita segnalazione. Siete liberi di entrare e uscire dal tracciato in qualsiasi punto, così come di percorrere l’intera distanza o solo parte di essa. Per ragioni di sicurezza i partecipanti sono invitati a mantenere una velocità adeguata, ai ciclisti si consiglia una velocità massima di 25 km/h e di indossare il casco. Rispettate gli altri partecipanti, mantenete la destra della careggiata e superate a sinistra. Se vi arrestate sul percorso, fermatevi a bordo strada e non ostacolate chi vuole proseguire.

Informazioni www.slowup.ch

Sponsoring ◆ Il 21 aprile si torna a correre nella suggestiva Valle del Sole con quattro diverse gare

Il prossimo lunedì 21 aprile le strade di Dongio si animeranno di nuovo con il Giro Media Blenio, giunto alla sua 41esima edizione. Un appuntamento imperdibile per chi ama la corsa, lo sport e il divertimento.

Dal 1985 il lunedì di Pasqua è sinonimo di Giro Media Blenio

Nel corso di quest’ultimo anno il Comitato organizzatore del Giro Media Blenio si è rinnovato con l’ingresso di nuovi membri provenienti dalla regione e accomunati dall’entusiasmo e dall’impegno nel pro-

Concorso

«Azione» mette in palio 5 iscrizioni gratuite (5 o 10 km a scelta) per la 41esima edizione del Giro Media Blenio (21 aprile 2025). Per partecipare al concorso inviare una mail a giochi@azione.ch (oggetto: «Media Blenio») indicando i vostri dati (nome, cognome, data di nascita, e-mail, cellulare, gara scelta, indirizzo postale e taglia maglietta) entro domenica 13 aprile 2025. Buona fortuna!

muovere e consolidare questa storica manifestazione.

La giornata offrirà quattro competizioni pensate per coinvolgere tutti, dai corridori esperti ai più piccoli. La gara principale resta la sfida sui 10 km, un classico che attraversa i paesaggi suggestivi della Media Valle di Blenio, toccando i paesi di Dongio, Corzoneso Piano, Ludiano e Motto. Per chi cerca una distanza più breve, invece, il tracciato di 5 km è la scelta perfetta. Un’opportunità per mettersi alla prova senza affrontare la sfida più lunga, mantenendo comunque l’adrenalina della competizione e il fascino del paesaggio. Per quest’anno il Comitato ha deciso di non riproporre il walking.

Il pomeriggio sarà invece dedicato ai più piccoli con il MiniGiro, un momento pensato per avvicinare le nuove generazioni al mondo della corsa e per far vivere le emozioni della gara anche ai giovani atleti in un ambiente festoso e famigliare.

A chiudere la giornata in grande stile ci penserà il Grand Prix, la gara professionistica che vedrà protagonisti atleti di alto livello pronti a sfidarsi in un’appassionante corsa fino all’ultimo metro. Un vero spettacolo per il pubblico, che potrà ammirare la velocità e la determinazione dei campioni da vicino.

Un’immagine di una scorsa edizione.

Quest’anno il Comitato ha pensato di proporre anche una serie di eventi a margine della giornata di gare, infatti, grazie all’installazione di un campo da Padel, vi sarà l’occasione per tutti di scoprire uno degli sport più in voga del momento e per divertirsi. Inoltre, sabato sera, il capannone a Dongio ospiterà una grande festa organizzata dal gruppo ricreativo del

Persán rileva il Gruppo Mibelle e diventa uno dei maggiori operatori mondiali nel settore dei marchi privati e della produzione per conto terzi. L’acquisizione comprende tutti i dipendenti e le sedi. Questa partnership consentirà al Gruppo Mibelle di continuare la sua strategia di crescita di successo. È stata conclusa una partnership strategica tra Migros e Mibelle per garantire la disponibilità dei popolari marchi propri. La multinazionale Persán, leader di mercato in Europa nei settori della cura della casa e della persona, sta acquisendo il Gruppo Mibelle, compresi tutti i dipendenti e le sedi in Svizzera, Francia, Regno Unito, Paesi Bassi, Stati Uniti e Australia. Gowoonsesang Cosmetics Co, Ltd, la filiale sudcoreana del Gruppo Mibelle, non fa parte della transazione in quanto è stata acquisita da L’Oréal S.A., come comunicato nel dicembre 2024. Con questa transazione, Persán e il Gruppo Mibelle diventeranno uno dei maggiori operatori mondiali nei settori delle private label e della produzione per conto terzi.

Il responsabile dell’Industria Migros, Matthias Wunderlin, ha sottolineato: «Siamo molto felici di aver trovato un nuovo proprietario estremamente competente e competitivo per il Mibelle Group». L’acquisizione del Gruppo Mibelle è un’importante pietra miliare nell’espansione internazionale di Persán. Con i 1.400 dipendenti del Gruppo Mibelle, Persán sta crescendo fino a diventare un’azienda con più di 3.000 dipendenti e un fatturato di oltre un miliardo di euro. Le due aziende sono in sintonia in termini di competenze, tecnologia e mercati. Il Gruppo Mibelle porta con sé una cultura caratterizzata dalla lunga storia di Migros, con un’attenzione particolare alla sostenibilità e ai progressi tecnologici. L’amministratore delegato di Persán Antonio Somé si rallegra dell’acquisizione del Gruppo Mibelle, che lo aiuterà a rafforzare la sua presenza internazionale e ad accedere ad aree tecnologicamente avanzate. Peter Müller, CEO del Mibelle Group, vede dei vantaggi nel rafforzamento delle relazioni con i clienti esistenti e nell’ampliamento della gamma di prodotti grazie a ulteriori competenze.

I marchi propri più popolari, come «I am», «Handy» e «Zoé», prodotti dal Gruppo Mibelle, continueranno a essere disponibili presso Migros. Migros e il Gruppo Mibelle hanno avviato una partnership strategica con accordi di fornitura a lungo termine per i segmenti della cura della casa, della cura della persona e dell’alimentazione. Ciò significa che il Gruppo Mibelle rimarrà un importante fornitore strategico per Migros anche in futuro.

Corpo Pompieri Acquarossa: un’occasione perfetta per scaldare i motori e godersi una serata di allegria in compagnia.

Per maggiori informazioni e iscrizioni www.mediablenio.com

Ticino

SOCIETÀ

Proteggere gli animali selvatici

Gli spazi naturali possono essere compromessi dalla rete autostradale e ferroviaria: il ruolo dei corridoi faunistici

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Media: i giornali e la sfida digitale

Intervista a Katrin Gottschalk, vicedirettrice e responsabile del digitale del quotidiano tedesco «taz»

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L’animazione nelle case per anziani Diversificate, personalizzate e in continua evoluzione: le attività proposte ai residenti sono molto di più di un semplice intrattenimento

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IA e medicina, fra potenziale e timori

Salute ◆ Al CERN si testa una piattaforma di rete federata per assistere medici e pazienti in diagnosi e prognosi delle malattie

Oggi gli algoritmi sono entrati nel linguaggio corrente e sempre più persone si domandano se siano infallibili o, peggio, pronti a commettere errori di devastante sopraffazione sull’essere umano (che peraltro li ha generati) riducendo così il tema dell’Intelligenza artificiale (IA) alla contrapposizione della tecnologia contro l’umanità. Innanzitutto, occorre risalire al significato stesso di algoritmo, cuore pulsante ed evolutivo dell’IA, che deriva dal nome del matematico arabo Muhammad Ibn Musa al-Khuwarizmi vissuto a Baghdad nel nono secolo, e indica una successione di istruzioni per risolvere un problema, cioè per ottenere un preciso risultato a partire da un certo numero di dati iniziali. Interessanti sono le riflessioni esposte a una recente conferenza pubblica tenutasi a Milano lo scorso febbraio dal Presidente dell’Accademia Commercialisti della città meneghina Fausto Turco che ha invitato a non percepire l’IA come un’entità separata e, talvolta, antagonista: «Dovremmo iniziare a considerarla come un alleato che, se correttamente integrato, potrebbe migliorare e potenziare le nostre abilità in ogni ambito, offrendoci strumenti per affrontare sfide che prima erano considerate insormontabili». È un’analisi oggettiva che pone al centro gli strumenti offerti dall’odierna tecnologia (fra cui proprio l’IA) quali estensioni né buone e neppure cattive delle nostre capacità, bensì: «Pronte a essere modellate e usate come meglio crediamo perché, in fin dei conti, la scelta dell’uso che ne facciamo è nelle nostre mani e sempre a noi spetta la responsabilità di decidere come e quando usare questi potenti strumenti». Significativa la sintesi di Intelligenza Artificiale proposta dai ricercatori dell’Istituto di ricerche farmacologiche milanese Mario Negri: «L’Intelligenza artificiale è la capacità di una macchina di “ragionare, apprendere e risolvere problemi” proprio come la mente umana, combinando una grande quantità di dati mediante precise istruzioni (ed ecco gli algoritmi) che la macchina apprende in modo automatico». Al centro del discorso sta il fatto che di IA si parla oramai da molti anni, anche se oggi si è ripreso a discuterne in seguito alla produzione di un’enorme mole di dati e alla successiva disponibilità di computer in grado di elaborarli: «Aggiungiamo anche l’evoluzione dei software di IA che, da semplici sistemi tradizionali basati su comportamenti prevedibili (input forniti dall’operatore), oggi sono progrediti grazie al machine learnig (tecnica che addestra i computer, i quali imparano continuamente un’enorme mole di dati che vengono loro forniti)». E le potenzialità di questi algoritmi si estendono anche

all’ambito medico nel quale pure se ne parla parecchio, ma la meraviglia «futuristica» è custodita e progredisce al CERN di Ginevra, grazie al progetto CAFEIN: una piattaforma di «rete federata» per lo sviluppo e la diffusione di modelli di analisi e previsione basati sull’IA per rapporto all’applicazione nella medicina.

Molte le applicazioni concrete, come ad esempio un algoritmo per l’analisi delle risonanze magnetiche

Ne abbiamo parlato proprio con l’ingegner Luigi Serio, responsabile e ricercatore principale presso il Dipartimento delle Tecnologie del CERN: «Questa piattaforma di rete federata serve allo sviluppo e alla diffusione di modelli di analisi e previsione basati sull’IA ed è un nuovo strumento per assistere medici e pazienti nell’analisi, nella diagnosi e nella prognosi delle malattie. Si basa sull’integrazione di dati clinici e dei pazienti in un’infrastruttura di apprendimento federata e ospitata dal CERN, consentendo di costruire in modo collaborativo con l’IA modelli di analisi e previsio-

ne basati su dati clinici e su pazienti eterogenei, senza compromettere la privacy dei dati». Parecchie le applicazioni concrete in cui si traduce il progetto come, ad esempio, lo screening tool per l’analisi delle risonanze magnetiche presso l’Università di Atene e Brno dove un algoritmo supporta il lavoro dei radiologi, consentendo un’analisi rapida e accurata delle immagini e una selezione di quelle che contengono patologie con una identificazione precisa delle zone sospette, spiega Serio: «Per queste università è stato sviluppato un algoritmo capace di analizzare le risonanze magnetiche, facilitando così il lavoro del radiologo in situazioni di elevato carico: lo strumento inizia dall’immagine più bassa del cranio e procede verso l’alto, evidenziando potenziali patologie e fornendo al medico un’analisi iniziale rapida e dettagliata. Con un singolo database, l’algoritmo raggiunge una precisione che va dal 70 all’80%, ma con il sistema di Federated Learning la percentuale sale fino all’88%, aiutando il radiologo a individuare anche le immagini che devono essere trattate con priorità». Tra i progetti in corso c’è il TRUSTroke: «È un’iniziativa che sfrutta l’IA per valutare lo stato dei pazien-

ti e prevenire disabilità dovute all’ictus, e quello sullo screening del tumore alla prostata e al seno». Questa disponibilità di dati in ambito medico è quindi cresciuta enormemente così come le fonti dalle quali essi provengono e gli esempi in cui già si usa l’IA in medicina sono parecchi, come pure riferiscono all’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, confermando ciò che l’ingegner Serio ha mostrato: «Il campo in cui si stanno facendo più progressi è quello diagnostico, in particolar modo nell’area oncologica, respiratoria o cardiologica: dopo aver istruito una macchina nell’interpretare immagini fornite tramite radiografie, ecografie, TAC, elettrocardiogrammi e da esami di analisi di campioni di tessuti biologici, è possibile identificare con un buon grado di affidabilità patologie tumorali, cardiovascolari, dermatologiche e respiratorie». E ancora: «La medicina supportata dall’IA sarà sempre meglio in grado di suggerire il modo migliore nella gestione o trattamento dal punto di vista farmacologico». Dal canto suo, Serio sottolinea che un’altra area sulla quale si sta lavorando molto nella ricerca e nell’allenamento degli algoritmi della Federated Learning è quella le-

gata ai sistemi di predizione in grado di identificare possibili patologie ancora prima che si manifestino: «Ad esempio, strumenti simili permetteranno di predire con un’accuratezza e in anticipo di parecchi anni lo sviluppo di un tumore del polmone». Per concludere, ci affidiamo alle considerazioni del nostro interlocutore: «Il progetto CAFEIN del CERN rappresenta una pietra miliare nell’evoluzione dell’analisi dati e dell’IA, nel quale operazione, controllo e verifica sulla nostra rete garantiscono non solo la salvaguardia della privacy dei pazienti, ma permettono pure di promuovere un uso etico e globale della ricerca nel settore sanitario. Un approccio che migliora non solo le capacità nella ricerca di modelli diagnostici e terapeutici, ma si estende anche alla progettazione di sistemi per Paesi in via di sviluppo dove la carenza di personale esperto rappresenta un ostacolo significativo». D’altra parte, è opportuno riflettere sul fatto che non bisogna immaginare l’Intelligenza artificiale come qualcosa che andrà a sostituire il medico: gli strumenti saranno pure «intelligenti», ma le decisioni finali rimangono allo specialista per questioni etiche, deontologiche e di responsabilità.

La piattaforma ospitata dal CERN consente di creare modelli di analisi e previsione basati su dati clinici e su pazienti eterogenei (Freepik.com)
Maria Grazia Buletti

La colomba di S. Antonino

Attualità ◆ Il dolce pasquale della Migros viene confezionato in Ticino per tutta la Svizzera in diverse varianti

Dalla colomba classica in diversi formati a quella senza canditi, dalle colombelle ideali per la merenda alla finissima colomba artigianale firmata

Sélection: con le specialità pasquali di produzione propria Migros la tavola festiva non può che presentarsi ricca e variata. Tutti questi dolci tipici sono prodotti da diversi anni per tutta la Svizzera presso il panificio Migros di S. Antonino, il quale vanta una grande esperienza nel confezionamento di prodotti da forno d’eccellenza nel rispetto di rigorosi standard di qualità, sicurezza alimentare e sostenibilità. Ma cosa rende queste colombe «Made in Ticino» così speciali? «Le nostre specialità pasquali seguono fedelmente la ricetta tradizionale e sono realizzate con ingredienti di alta qualità, accuratamente selezionati dai nostri specialisti per offrire un gusto autentico e irresistibile ai consumatori», spiega Cristina Piccapietra, responsabile aziendale della sede di S. Antonino della Fresh Food & Beverage Group. «Al-

Colomba Artigianale

Sélection

500 g Fr. 14.96 invece di 18.70 20% fino al 14.4.2025

tro elemento distintivo è sicuramente l’utilizzo del nostro lievito madre, che viene rinfrescato da oltre 50 anni. Questa pratica consente una fermentazione lenta dell’impasto, esaltando le proprietà organolettiche del prodotto finito, che si distingue per il suo gusto e profumo caratteristici, l’alveolatura delicata e ben strutturata che offre un equilibrio tra densità e leggerezza e una migliore conservabilità». Come già accennato in precedenza, accanto alle colombe tradizionali, la gamma annovera anche la colomba artigianale della linea premium Sélection, un prodotto che si distingue per la ricchezza degli ingredienti, nella fattispecie frutta secca come albicocche, noci comuni e fichi. Un prodotto che regala certamente un’esperienza culinaria speciale durante la festività. «Le nostre colombe, prodotte localmente e offerte con un eccellente rapporto qualità-prezzo, sono accessibili a tutti, senza alcun compromesso sulla qualità», conclude Cristina Piccapietra.

Take Away Migros Cassarate aperto la domenica

Attualità ◆ Dal 13 aprile

Per la gioia di chi apprezza la freschezza Migros ogni giorno, siamo lieti di informare la gentile clientela che da questa settimana il Take Away Migros della filiale di Cassarate apre le sue porte anche la domenica, dalle ore 8:00 alle 19:00. Che si tratti di una ricca colazione, di un corroborante pranzetto oppure di uno spuntino sfizioso, ognuno troverà di che soddisfare i propri gusti, grazie a una scelta ben calibrata di proposte fresche e di qualità. Non mancheranno per esempio diverse varietà di pizze, insalate, pane fresco, senza ovviamente dimenticare l’apprezzata caffetteria, pasticceria e briocheria.

Colomba classica San Antonio 1 kg Fr. 14.80
Colombella San Antonio 120 g Fr. 2.70
Flavia Leuenberger
Offerta colazione
Un motivo in più per visitare il Take Away Migros Cassarate è l’imperdibile offerta colazione a soli CHF 6.30, valida in esclusiva solo la domenica. La proposta include una brioche vegana o farcita, una bevanda calda a scelta e un succo di frutta.

Concorso VOI Migros Partner Lugano-Roncaccio

Attualità ◆ Il grande concorso organizzato in occasione dell’apertura del nuovo negozio premia tre vincitrici della regione

Lo scorso 13 marzo, in occasione dell’inaugurazione del terzo supermercato di quartiere in franchising VOI Lugano-Roncaccio in via Sorengo 25, sono state organizzate per la clientela tutta una serie di attività, omaggi e offerte speciali dedicate a grandi e piccini, tra cui un grande concorso che metteva in palio tre carte regalo del valore di CHF 500.–, CHF 200.– e CHF 100.–.

A estrazione avvenuta, la fortuna ha sorriso a tre vincitrici provenienti dal Luganese – Valeria De Casali (1° premio), Gloria Zavaritt (2° premio), Silvia Ruffieux (3° premio) – le quali negli scorsi giorni hanno potuto ritirare il premio direttamente dalle mani del gerente del punto vendita Fidan Kelmendi.

Congratulazioni!

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La vincitrice del premio principale Valeria De Casali, riceve la carta regalo da CHF 500.- da Fidan Kelmendi, gerente di VOI Migros Partner LuganoRoncaccio.

Corridoi faunistici a favore della biodiversità

Territorio ◆ La costruzione della rete autostradale e ferroviaria compromette i grandi spazi vitali necessari agli animali selvatici In Svizzera si è puntato sui passaggi faunistici, a che punto siamo?

Raimondo Locatelli

I lavori sono quasi conclusi tra Lumino e San Vittore e la rinaturazione lungo la A13 ha comportato la costruzione di un passaggio faunistico sull’autostrada all’altezza di San Vittore (l’apertura è prevista il prossimo autunno). I passaggi faunistici non sono una novità, se ne parla seriamente sin dagli anni Novanta. Una perizia – fatta allestire negli anni 1997-1999 da Stazione ornitologica svizzera, Società svizzera di biologia della fauna e Ufficio federale dell’ambiente – evidenziava la necessità di garantire alla fauna selvatica una sufficiente possibilità di movimento sul territorio attraversando strade nazionali e ferrovie ad alta velocità munite di recinzioni. Molti corridoi naturali per la fauna selvatica di importanza sovraregionale e regionale risultano, infatti, interrotti o compromessi dalla costruzione della rete autostradale ma anche dall’espansione degli agglomerati urbani e delle aree costruite.

Strutture sovraregionali: situazione precaria

L’indagine indicava che 47 (16%) dei 303 corridoi per la fauna selvatica di importanza sovraregionale erano interrotti, dunque inutilizzabili; inoltre, la funzionalità di oltre la metà dei corridoi (171, pari al 56%) risultava da parzialmente a fortemente pregiudicata e solo un terzo circa (85, 28%) era ritenuto intatto. Così distribuiti i corridoi per la fauna di importanza sovraregionale: 128 (42%) sull’Altopiano, 84 (28%) nelle Alpi, 56 (18%) nel Giura e 35 (12%) nelle Prealpi. In totale, 78 corridoi di importanza sovraregionale, la cui funzionalità dipendeva da un’opera costruttiva specifica per la fauna selvatica, come un sopra o sottopassaggio per animali selvatici: in pratica, rimanevano 64 corridoi da risanare con un’opera costruttiva, di cui 51 da ripristinare con impegno maggiore.

D’altronde, la costituzione di reticoli ecologici sovraregionali rientra fra i compiti della «Strategia paneuropea per la promozione della diversità biologica e paesaggistica», approvata dai ministri dell’ambiente nel 1995 e alla quale la Svizzera ha aderito con un programma per gli anni

1996-2005, impegnandosi a costituire e mantenere sistemi di zone di protezione della natura e del paesaggio collegati fra loro. Il progetto «Corridoi per la fauna selvatica in Svizzera» è una delle basi per la realizzazione di un reticolo ecologico nazionale, divulgato all’inizio di questo secolo.

Alla lente le proposte di intervento in Ticino

Sono molte le località e le proposte d’intervento nel Ticino. Ad Airolo (Motto Bartola e Foppa) c’è un corridoio che allaccia Leventina e Val Bedretto, con cervi migratori sotto i viadotti della strada del Gottardo, in zona perturbata da attività militari, agricoltura, turismo e circolazione. Il Passo del San Giacomo sulla Nufenen è fra i migliori corridoi fra Val Bedretto e Val Formazza, idem la zona in direzione di Ulrichen quale relazione tra Alto Vallese e Ticino, e stessa valenza per la zona più a nord di Airolo con il Passo del San Gottardo tra Canton Uri e Grigioni. Nella zona di Quinto (Ambrì e Tre Cappelle), tra i due versanti della Leventina in presenza di strada e ferrovia, si impongono almeno impianti di segnaletica attiva. Anche a Giornico (Biaschina) analoga constatazione. A Biasca, all’imbocco del Brenno, in connessione fra Leventina e Blenio, occorre proteggere la piccola fauna, mentre nella zona di Malvaglia (Lesgiüna) – a causa del corridoio bruscamente interrotto fra i due versanti della Valle di Blenio – si registrano molti animali periti in strada; la Valle di Blenio è importante, sia per il Passo del Lucomagno in direzione della Valle di Medel, sia per il Passo della Greina con percorso obbligato per ungulati sempre tra Ticino e Grigioni. Attorno a Claro (Gnosca e Moleno), problemi delicati a protezione della fauna selvatica, con urgenza di concreti provvedimenti. Nel Piano di Magadino, a Gudo, presente un percorso permanente della fauna (animali grossi ma anche piccoli) nei trasferimenti tra regione montagnosa e pianura, mentre i territori di Aurigeno-Gordevio sono un passaggio obbligato tra i versanti boschivi della Vallemaggia e la zona alluvionale dei Saleggi. Altre segnalazioni: il

comparto del Ceneri a Rivera con la connessione attorno a Sigirino a causa della cesura procurata dalla N2, e il comprensorio di Croglio-Monteggio lungo la Tresa quale trait-d’union tra Malcantone e Italia.

Rete autostradale e ferrovia, principali cause di cesura

E oggi? Molti corridoi faunistici, osserva il capo dell’Ufficio cantonale caccia e pesca Tiziano Putelli, sono compromessi o interrotti da interventi costruttivi specie da parte della rete autostradale, procurando varie interruzioni, vere e proprie separazioni all’interno di varie zone, con la necessità – per mitigare la mortalità di selvaggina e di fauna anche piccola –di installare recinzioni o ostacoli, con l’impegno rivolto alla creazione di passaggi faunistici, sì da ripristinare il più possibile i corridoi originari. Impresa però titanica non solo per i costi elevatissimi, ma anche perché si tratta di inghippi non facilmente risolvibili dal profilo tecnico, dovendo intervenire con «cerotti» nonché l’inserimento di rampe e percorsi permanenti. Le recinzioni, non di rado, non bastano e comunque, in presenza di manufatti imponenti, i corridoi si rivelano indispensabili per la funzione di interconnessione e il ruolo di infrastruttura di portata ecologica.

Alcuni esempi significativi a favore della fauna

Altro rapporto, nel 2020, dell’UFAM: non si discosta granché da quello citato sopra, rilevando che in Svizzera ci sono ben 304 corridoi faunistici di importanza sovraregionale frammentati, con la constatazione che sia i grandi animali selvatici (come caprioli e cervi), sia quelli di media taglia (volpi e conigli), ma anche i piccoli anfibi e pipistrelli hanno bisogno di spostarsi per nutrirsi e riprodursi. Amara la conclusione: 47 corridoi (16%) inservibili, oltre la metà (171 corridoi, pari al 56%) notevolmente compromessa, poco meno di un terzo (86 corridoi, 28%) intatto. Nell’ultimo ventennio, l’USTRA – con UFAM e Cantoni – lavora intensamente nel risanare i corridoi interrotti, promuovendo importanti passaggi faunistici lungo le Strade nazionali, come appunto i lavori quasi conclusi sulla A13. Un altro progetto significativo di ormai imminente attuazione nel contesto del Parco fluviale Saleggi-Boschetti è la realizzazione di una pozza multifunzionale nei pressi del Centro sportivo di Sementina e, soprattutto, un ponte ecologico (o faunistico) per consentire l’attraversamento sopra la strada cantonale che affianca il comparto, in modo da migliorare il collegamento

tra il Piano di Magadino e il versante montano.

Da citare pure il noto passaggio faunistico studiato da AlpTransit a compensazione ambientale per la costruzione della galleria di base del Ceneri e in presenza del grave impatto procurato dal deposito di Sigirino, in modo da consentire gli spostamenti degli animali selvatici nella zona che collega i due versanti della valle: è ubicato al cosiddetto «Dosso» di Taverne. E ancora: a Claro, come pure alla Lesgiüna è stata posata la segnaletica luminosa attiva, collegata a sensori che rilevano la presenza di animali nelle vicinanze della strada, così che gli automobilisti siano indotti a ridurre la velocità. Fra i passaggi faunistici a carattere locale citiamo: un passaggio faunistico nei pressi del Golf a Losone, strutture analoghe tra il San Giorgio e il Monte Generoso, nonché nella Valle della Motta; nell’ambito della sistemazione idraulica del Roncaglia in zona «Fornace» (Comuni di Novazzano e Mendrisio, quartiere di Genestrerio) è appena stato ripristinato un corridoio faunistico e di migrazione per collegare i biotopi umidi lungo il Laveggio (Colombera, Molino, Pra Vicc) a Prato Grande e – attraverso la Valle della Motta – quelli del basso Mendrisiotto (Torazza, Pra Coltello e Seseglio), considerata l’elevata presenza di anfibi e altra piccola fauna terrestre.

Cosa si dice nella Legge sulla caccia

Anche la consultazione sulla revisione dell’Ordinanza sulla caccia contempla un capitolo su «Corridoi faunistici», insistendo sull’Inventario di quelli di importanza sovraregionale che «servono a garantire nel lungo periodo la migrazione della selvaggina lungo assi di interconnessione tra gli spazi vitali», per cui «Confederazione e Cantoni provvedono affinché la funzionalità dei corridoi faunistici sia garantita e non venga compromessa da altri utilizzi». In questo contesto, l’accento è posto in particolare su un delicato aspetto, ovvero che le recinzioni (elettriche mobili e fisse, a griglia metallica, ecc.) non abbiano a ledere «il rispetto della fauna selvatica».

Il corridoio faunistico di Sigirino è un grande prato sopra la strada che consente ai selvatici di transitare nella zona in tutta sicurezza (Giorgio Bonomi)

I giornali e la sfida digitale, il caso della «taz»

Media ◆ Intervista a Katrin Gottschalk, vicedirettrice del giornale tedesco che ci racconta come è stato affrontato il passaggio dall’edizione su carta al digitale senza rinunciare alla presenza nelle edicole

Nel panorama mediatico tedesco della carta stampata di qualità c’è un giornale che da tempo spicca più di altri perché sembra non essere toccato dalla crisi. Si tratta del settimanale tedesco «Die Zeit» che in una delle sue ultime edizioni ringrazia i lettori per la loro fedeltà visto che con 628’086 esemplari venduti si conferma al primo posto tra i media di approfondimento raggiungendo tra l’altro il più alto numero di abbonamenti nella storia del giornale con 480’118 abbonati.

Fatta eccezione per «Die Zeit», il quadro generale però non è meno critico che altrove. I numeri ci dicono che la diffusione di quotidiani e domenicali in Germania è scesa dalle 30,2 milioni di copie del 1995 agli 11,5 milioni di copie del 2023 (Fonte: Statista). E se il settimanale tedesco diretto da Giovanni Di Lorenzo fa parlare di sé per la sua ottima resistenza al trend generale del mercato, ce n’è un altro che nelle ultime settimane sta facendo parlare di sé per la sua audacia visto che è la prima testata tedesca che ha deciso di compiere il grande passo: abbandonare la carta e puntare quasi esclusivamente sul digitale. Si tratta della «taz», «die Tageszeitung», il quotidiano berlinese di sinistra fondato nel 1978 sostenuto e finanziato da una cooperativa di lettori-editori. Le due condirettrici Barbara Junge e Ulrike Winkelmann hanno infatti annunciato che a partire da ottobre del 2025 l’edizione cartacea quotidiana della «taz» smetterà di esistere. Al suo posto si punterà su vari prodotti digitali e sull’edizione cartacea del weekend. Per saperne si più ne abbiamo parlato con la vicedirettrice e responsabile del digitale Katrin Gottschalk che ha seguito i lavori da vicino.

Katrin Gottschalk, da tempo lavoravate a questa transizione dal cartaceo al digitale. Perché avete deciso di attuarla proprio adesso? Ci eravamo dati degli obiettivi da raggiungere. Quando ne avevamo parlato in passato puntavamo al cosiddetto Scenario 2022 partendo dal presupposto che per allora non avrebbe più avuto senso stampare ancora un giornale. Le previsioni ci dicevano che la tiratura si sarebbe ridotta troppo e i costi sarebbero stati troppo elevati. Sapevamo quindi di dover creare e investire in altri prodotti migliorandoli e ottimizzandoli sino al punto in cui senza un quotidiano cartaceo i nostri lettori e le nostre lettrici avrebbero avuto delle valide alternative con le quali nel frattempo sviluppare già una certa familiarità. Questo era quanto ci eravamo prefissati per il 2022. Poi lo sviluppo tecnologico della nostra applicazione ha richiesto più tempo del previsto ed è arrivata la pandemia

che ha fatto sì che la tiratura – per noi come per altri giornali – rimanesse stabile.

Dunque la transizione è slittata di qualche anno, ma quali sono stati gli obiettivi che vi eravate proposti di raggiungere per il momento x?

Volevamo che la transizione non avvenisse in un momento di difficoltà, volevamo anticipare i tempi, essere noi a scegliere il momento giusto. Questo significava farci trovare pronti soprattutto finanziariamente e dunque essere sostenibili anche senza l’edizione quotidiana cartacea. Abbiamo formulato degli obiettivi molto concreti da realizzare: lanciare il nuovo sito (cosa che abbiamo appena fatto: www.taz.de), raggiungere un buon risultato con lo sviluppo della nostra app, ricevere una buona valutazione, un riscontro favorevole dai nostri lettori e dalle nostre lettrici, far sì che la nostra nuova edizione settimanale si affermasse sul mercato e tra i lettori.

Dunque l’edizione cartacea del weekend si è trasformata in un’edizione settimanale sul modello di «Die Zeit»?

Esatto, la nostra è un’idea di giornale che esce al weekend ma è disponibile al chiosco tutta la settimana dove vogliamo continuare ad avere una presenza fisica e per questa presenza l’edizione settimanale ci sembra il formato perfetto. Funziona, ci siamo accorti che il numero degli abbonamenti è salito arrivando oggi a 13’500 abbonati. Dunque tutti questi punti che ho elencato dovevano realizzarsi per poterci permettere di fare il grande passo ma c’era anche un’altra condizione imprescindibile che si doveva verificare e cioè che finanziariamente avessimo le risorse necessarie per una transizione che non lasciasse indietro nessuno. Non volevamo che lo stop all’edizione cartacea quotidiana equivalesse a dei licenziamenti o alla riduzione della nostra redazione. Dovevamo essere solidi e lo siamo. In altre parole voleva dire raccogliere più abbonamenti dai nostri nuovi servizi e prodotti come l’abbonamento all’edizione settimanale o all’edizione digitale del giornale o alla combinazione dei due. Dovevamo raggiungere il numero di 30’000 abbonati che infatti abbiamo raggiunto. Inoltre puntavamo ad avere 40’000 sostenitori paganti tramite le donazioni libere e siamo a quota 39’500, quindi per fine 2025 confidiamo di raggiungere l’obiettivo.

Quali sono le fragilità del vecchio sistema – quello della stampa quotidiana del giornale – che vi hanno fatto andare in questa direzione? Naturalmente sono i costi di stampa, collegati a questi il rincaro del prezzo della carta e i costi di spedizione. Va

considerato che per una testata sovraregionale siamo piccoli, abbiamo una tiratura per 16’500 abbonati in tutta la Germania. Per noi significa un grande sforzo e grandi spese visto che tra l’altro inviamo ormai solo tramite la posta perché affidarci a un corriere oggi ci costerebbe di più. Inoltre non siamo autonomi perché non abbiamo un centro stampa. C’è stato un caso lo scorso anno in Baden Württemberg per cui il giornale locale al quale ci appoggiavamo per la stampa ha spostato il suo centro stampa altrove dove costava meno ma per noi seguirli significava mettere in conto tutta una serie di costi aggiuntivi per un aumento complessivo di 40’000 euro per 150 abbonati in quella regione. Essere piccoli ci rende chiaramente più vulnerabili.

Quando qualche anno fa qui sulle pagine di «Azione» avevamo parlato delle vostre strategie ricordo che per raggiungere i lettori più giovani puntavate molto su Instagram. È ancora così?

Il target di lettori giovani a cui aspi-

riamo continua a trovarsi su Instagram. Dagli abbonamenti che abbiamo sappiamo che i nostri abbonati più giovani scelgono in particolare il formato cartaceo settimanale del nostro giornale o il sito, dunque la nostra webtaz. Con più giovani ci riferiamo ai quarantenni, non ai ventenni. Va anche detto, per fare una giusta comparazione, che gli abbonati all’edizione cartacea quotidiana in media hanno 65 anni, quelli che seguono la versione digitale sono sui 55 anni. Da quest’anno abbiamo rafforzato la nostra presenza anche su TikTok.

Non abbiamo parlato della pubblicità… Nel nostro caso le inserzioni rappresentano una fetta inferiore al 10% delle entrate complessive che ha a che fare anche con il fatto che un giornale di sinistra è poco attrattivo per gli inserzionisti – purtroppo. Questo però non vuole dire che siamo indipendenti dal mercato pubblicitario che, anzi, ha già portato la «taz» ad attraversare diverse crisi.

Paradossalmente – con la transizione da quotidiano a settimanale siamo diventati più interessanti per gli inserzionisti.

Impegno politico, identità forte, attenzione alla vostra comunità di lettori, trasparenza potremmo dire sono gli ingredienti principali del vostro giornale e del vostro lavoro? Sì, e sono anche parte della nostra storia sin dalla fondazione. Ci piace ricordare che siamo stati i primi in Germania a fare e a promuovere il crowdfunding, lo abbiamo fatto ancora prima di avere il nostro primo abbonato. È dipeso dal fatto che la «taz» non ha mai avuto un unico grosso proprietario in grado di finanziarla. Ancora oggi – dopo 20 anni – possiamo contare su una cooperativa di lettori-editori per i quali proviamo un senso di gratitudine perché senza di loro il giornale non esisterebbe. E ci teniamo a dirlo e a dimostrarlo in tanti modi.

Tornando alla vostra decisione di non più stampare l’edizione cartacea quotidiana della «taz» a partire da ottobre si tratta di un passo al quale in realtà molti pensano ma che nessuno – per ora – sembra avere il coraggio di fare… Perché? Ogni editore è diverso e per molti –soprattutto per gli editori più grandi o per quelli che fanno parte di un’azienda che può contare anche su un azionariato – le possibilità sono diverse. A differenza del nostro caso, non devono calcolare in modo così preciso, hanno altri margini. L’unico prodotto del nostro editore è la «taz» e proprio per questo – ora che i tempi sono cambiati ed è chiaro che è necessario cambiare il tipo di economia aziendale – sentiamo una certa pressione. In generale mi augurerei che per le testate regionali cartacee ci fossero delle sovvenzioni statali. Grazie alle numerose telefonate che regolarmente conduciamo con i nostri lettori e le nostre lettrici sappiamo che molti ci sostengono e ci seguiranno in questa nostra scelta, in questa nostra transizione. Sappiamo anche però che molte persone non hanno un cellulare e non vogliono averlo e a casa non hanno nemmeno un computer. Trovo che a 70 anni non debba essere obbligatorio adattarsi a una nuova cultura tecnologica; d’altra parte è chiaro che in questo modo una parte di pubblico si perde per strada e si crea un gap informativo, cosa che trovo fatale. Detto questo noi siamo convinti della nostra transizione e vado orgogliosa del fatto che siamo i primi a farla. Ma per il pubblico, per la Germania e per la democrazia di questo Paese mi augurerei che per i giornali ci fossero delle sovvenzioni statali a garantirne l’esistenza nel formato cartaceo.

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Katrin Gottschalk è vicedirettrice e responsabile del digitale del quotidiano berlinese «taz» (Anja Weber)

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Molto più di un semplice intrattenimento

Case per anziani ◆ Pranzi a tema, pizza party, uscite, redazione di un mensile, incontri con bambini delle elementari: le attività dell’animazione evolvono e migliorano la qualità di vita dei residenti. Gli esempi di Sorengo e Acquarossa

Andare a prendere l’aperitivo in una casa per anziani, portarvi i bambini per attività in comune con i residenti e, in un flusso opposto, esempi di uscite di questi ultimi per andare al ristorante o a fare shopping. L’animazione nelle case per anziani evolve parallela alle nuove abitudini che si instaurano nella società e sulla base dei cambiamenti riguardanti la tipologia dei residenti, in città come nelle valli seppur con le peculiarità dei rispettivi contesti sociali. Al centro rimangono sempre da un lato la persona anziana in quanto individuo con caratteristiche ed esigenze proprie e dall’altro la relazione che il personale instaura con lei. Creatività, attenzione e flessibilità sono i concetti che abbiamo visto applicati sul terreno, visitando una casa per anziani situata nella periferia luganese e una nell’alto Ticino, più precisamente Al Pagnolo a Sorengo e La Quercia ad Acquarossa. Nella Svizzera italiana sono presenti circa settanta case per anziani. Bar, ma anche panetterie, preasili, esposizioni d’arte e ulteriori eventi animano questi luoghi dove vivono numerose persone in età molto avanzata o giovani anziani colpiti da patologie degenerative. La realtà quotidiana è diversificata, arricchita da numerose proposte. L’animazione in senso stretto segue un programma, ma in un’accezione più ampia è ovunque sull’arco della giornata con l’obiettivo di favorire la socializzazione e più in generale il benessere della persona. Nessuno è obbligato a nulla, nessuno è escluso, grazie proprio a questa attenzione e anche alla figura professionale del o della specialista in attivazione che lavora in modo mirato con il singolo o piccoli gruppi. La collaborazione si estende al reparto cura e, a dipendenza delle necessità, ad altri servizi.

«Accompagniamo gli anziani offrendo attività che rispettano il loro vissuto e i loro desideri, ciò richiede un intenso lavoro di team»

Al Pagnolo di Sorengo partecipiamo a una riunione di redazione del giornalino mensile. «Nell’Informatore del Pagnolo è inserito il programma delle attività per il quale c’è sempre molto interesse» spiega l’animatrice Loredana Moroso. «È redatto quasi esclusivamente dai residenti con ad esempio ricette, poesie e brevi biografie di personaggi famosi. Alcuni partecipanti scrivono al computer, altri a mano. L’impiego delle nuove tecnologie è un cambiamento che interessa anche le case per anziani. Non pochi residenti utilizzano i vari dispositivi, qualcuno persino l’Intelligenza artificiale, chiedendo aiuto quando si trova in difficoltà».

Loredana Moroso lavora Al Pagnolo da quando la struttura – gestita dai Comuni di Sorengo, Collina d’Oro e Muzzano e con 63 posti letto – è stata aperta nel 1986. Ha quindi vissuto in prima persona l’evoluzione del settore animazione al quale è giunta dopo aver iniziato come assistente geriatrica. «Nei primi anni – ricorda – i residenti erano in media più autonomi. Oggi si trasferiscono qui in una fase più avanzata della vita e quindi molti di loro con meno risorse». L’animazione, che può contare sul supporto di diversi volontari, si è progressivamente intensificata con l’estensione degli ora-

ri sull’arco della giornata e inglobando i giorni festivi. «Le attività manuali – spiega l’animatrice – sono sempre presenti, ma in trasformazione. Inoltre momenti aggregativi che un tempo erano più spontanei, come l’aperitivo, ora vanno promossi». Tombola e musica sono molto apprezzate, così come le uscite. Prosegue l’intervistata: «Durante la bella stagione si va a pranzo in un ristorante o a mangiare un gelato al pomeriggio. Organizziamo pure altre offerte esterne come la visita al LAC o alla falconeria a Locarno. Diversi enti elaborano proposte ad hoc per gli anziani facendocele pervenire». Esterno significa anche giardino – al Pagnolo è in corso un rifacimento per realizzare un’area verde sensoriale – utilizzato a livello di gruppo per il giardinaggio (aiuole rialzate, fiori) e incontri conviviali (pizza party). Talune proposte conoscono per determinati ospiti un risvolto personalizzato con l’intervento di Tiffany Biancardi, specialista in attivazione che gestisce ad esempio la lettura in tedesco e il cruciverba nella medesima lingua. A Sorengo i residenti formano infatti una comunità sempre più multiculturale. Ogni attività si basa sugli interessi e sulle caratteristiche delle persone alle quali è destinata. Spiega Tiffany Biancardi: «Il focus dell’attivazione, che rientra nel settore della cura, è terapeutico e si realizza a livello individuale o di piccoli gruppi il più omogenei possibile. I giochi di memoria e l’ascolto di musica classica sono due esempi del nostro programma». Aggiunge al proposito: «Quest’ultima iniziativa è gestita da un residente al quale io fungo più che altro da supporto, per cui raggiunge un duplice obiettivo legato al singolo e al gruppo». Le attività delle due collaboratrici comunque si intrecciano, come nella riunione di redazione, con il comune obiettivo di valorizzare le risorse di ogni persona.

Un intreccio ancora più marcato caratterizza l’animazione nella casa per anziani La Quercia di Acquarossa, che ospita pure un Centro diurno. Questa caratteristica e la sua posizione a metà valle la rende un punto di riferimento per la comunità locale. «Quando le persone anziane si trasferiscono qui come residenti – spiega Patrizia Arcioli, responsabile dell’accoglienza, dell’animazione e del Centro diurno –in genere conoscono bene la casa e sono già integrate».

Anche ad Acquarossa giungiamo mentre è in corso un’attività, una proposta ludica per stimolare la memoria. La mattinata, come a Sorengo, è di solito più strutturata, mentre il programma del pomeriggio lascia spazio alla partecipazione dei visitatori, primi fra tutti i familiari. Prosegue la responsabile dell’animazione: «Accompagniamo gli anziani (78 residenti fissi e 2 in soggiorno temporaneo) offrendo attività che rispettano il loro vissuto e i loro desideri, in modo da conferire un senso a ogni giornata. Essendo la casa suddivisa in tre aree con un diverso grado d’indipendenza delle persone e tenendo conto della presenza del Centro diurno, l’animazione è articolata e impostata su un intenso lavoro di team. Questo permette ad ognuno di impegnarsi in ciò che preferisce e ai più intraprendenti di partecipare anche a due attività differenti sull’arco di una mattinata». Pranzi a tema, cene organizzate come al ristorante, movimento, musica, decorazioni per celebrare gli even-

ti stagionali sono alcuni esempi delle proposte elaborate da Patrizia Arcioli e dai suoi collaboratori sulla base delle aspettative dei residenti. Anche qui ci sono giochi sempre apprezzati come la classica tombola. Un’altra similitudine, che accomuna in generale le case per anziani, è la possibilità di mantenere piaceri compromessi dalla minore mobilità. «Le uscite sono un

aspetto importante, soprattutto per le nuove generazioni di anziani – precisa Patrizia Arcioli – abituate ad andare al ristorante e a fare acquisti. Proporle significa anche stimolarle a prepararsi con cura e ciò piace molto in particolare alle donne. Tutti apprezzano inoltre l’incontro mensile con gli allievi della scuola elementare di Olivone. Il progetto non si limita alle visite,

ma è finalizzato all’elaborazione di una storia e alla sua rappresentazione. Uno scambio intergenerazionale arricchente per tutti».

Attiva da quindici anni nell’animazione della casa per anziani della valle di Blenio, Patrizia Arcioli ha pure lei una parte del trascorso professionale legata al settore sanitario. «I nostri progetti si sviluppano anche in relazione alle nuove forme di terapie non farmacologiche sempre con al centro ogni persona nella sua unicità».

Partendo dalla biografia del singolo, lavorando sulla relazione e dimostrando sensibilità e duttilità, l’accompagnamento dei residenti nelle case per anziani punta a mantenerli il più attivi possibile, favorendo la socializzazione. Da parte di tutto il personale capire quando e come incoraggiarli è essenziale per garantire il rispetto della loro personalità, pur nella consapevolezza che non esiste maggiore soddisfazione del sapere di aver contribuito concretamente a un progetto. Come traspare dai principi che guidano il settore dell’animazione questa componente è in continua evoluzione arricchendosi di proposte innovative per rispondere ai bisogni della comunità. Non va quindi identificata con il semplice intrattenimento, ma come parte essenziale per migliorare la qualità di vita dei residenti.

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ATTUALITÀ

Riflessioni sui dazi americani

I possibili scopi della mossa da lungo tempo annunciata del presidente Donald Trump e quali conseguenze a lungo termine potrebbe avere

Focus sulla Turchia

Dopo l’arresto del sindaco di Istanbul sono scoppiate numerose proteste, duramente represse dalle autorità.

E ora? Intervista allo storico Francesco Mazzucotelli

Israele e la difesa della democrazia

Il punto ◆ Chi si oppone all’autoritarismo di Netanyahu non può ignorare le atrocità commesse a Gaza come in Cisgiordania

Lo scorso 18 marzo Israele ha sorpreso Gaza con un attacco militare che ha posto fine alla già fragilissima tregua con Hamas. Insieme ai civili di Gaza, a farne le spese sono gli ostaggi israeliani il rilascio dei quali era previsto per la seconda fase dell’accordo, così come le loro famiglie che per mesi avevano scongiurato una ripresa dei combattimenti. Secondo i sondaggi, circa il 70% della popolazione si dichiara attualmente favorevole alla fine del conflitto, una percentuale elevata, che racconta la stanchezza degli israeliani, l’empatia nei confronti degli ostaggi, ma anche dei soldati che da un anno e mezzo portano sulle spalle il peso più gravoso.

Il dissenso dell’opinione pubblica non sembra tuttavia sortire alcun effetto sul Governo Netanyahu che insiste nel perseguire una linea violenta, la cui matrice sembra riconducibile ad interessi di natura prettamente politica. Non è da escludersi, per esempio, che dietro alle nuove azioni militari a Gaza si sia celata anche la necessità del primo ministro di persuadere il ministro Ben Gvir, e altri esponenti del sionismo religioso, a rientrare nella coalizione. Il consenso di questi ultimi è stato infatti fondamentale per scongiurare la caduta del Governo al momento dell’approvazione del bilancio annuale votato il 25 marzo. Si tratta di un bilancio problematico che favorisce coloni e ultraortodossi, scaricando i costi della guerra sul resto della popolazione che fa le spese di tagli e rincari.

Il 70% della popolazione si dichiara favorevole alla fine del conflitto, una percentuale che racconta la stanchezza degli israeliani

Nel frattempo avanza senza pudore anche la famigerata riforma giudiziaria che lavora incessantemente per sbarazzarsi degli ultimi baluardi della democrazia. A finire nel mirino della coalizione nelle scorse settimane sono stati soprattutto Ronen Bar, capo dello Shin Bet, la procuratrice generale Gali Baharav Miara e i giudici della Corte Suprema. Con la rimozione controversa di Bar, la mozione di sfiducia a carico della procuratrice e l’approvazione di una legge che politicizza la scelta dei giudici dell’Alta Corte di Giustizia, Netanyahu ha provocato ulteriormente la componente liberale del Paese, già esasperata dalla questione del mancato arruolamento effettivo degli ultraortodossi nonostante le migliaia di cartoline spedite ai giovani in età di leva. Così, se dal 7 ottobre le proteste contro il Governo si erano indebolite a favore di quelle a sostegno de-

gli ostaggi, da qualche settimana le manifestazioni davanti alla Knesset, il Parlamento di Gerusalemme e nei pressi del Quartier Generale di Tel Aviv, hanno luogo senza sosta, nonostante la ferocia inaudita della polizia contro i civili. Le forze dell’ordine sono attive anche in Cisgiordania, che continua ad essere teatro di violenza e di morte. Ma la sostanziale impunità degli aggressori ebrei che assalgono ormai quotidianamente le popolazioni palestinesi soprattutto nell’area di Hevron, getta luce sull’ambiguità del sistema giuridico israeliano proprio nel momento in cui la Corte Suprema sembra essere uno dei pochi attori dotati del potere di contrastare Netanyahu nelle sue iniziative più criticabili. Minacciato dai processi a suo carico, per i quali in queste settimane è chiamato a deporre presso il Tribunale di Tel Aviv, il primo ministro israeliano è sempre più coinvolto anche nello scandalo del «Qatargate» che ha subito un’impennata lunedì scorso con l’arresto di Jonathan Uri-

ch, suo consigliere senior per i media, ed Eli Feldstein, suo portavoce militare. I due sono accusati di contatto con un agente straniero, riciclaggio di denaro, accettazione di tangenti, frode e abuso di fiducia come parte di un’indagine sui legami tra l’ufficio del primo ministro israeliano e funzionari del Qatar. Netanyahu, che lunedì era in tribunale per testimoniare nei suoi casi di corruzione e frode, è stato costretto a lasciare l’aula per deporre nella vicenda che coinvolgeva i suoi confidenti, a loro volta difesi dal suo avvocato in palese conflitto di interesse.

Minacciato dai processi a suo carico, Netanyahu è sempre più coinvolto anche nello scandalo del «Qatargate»

Tra le poche armi rimaste agli israeliani per contrastare quello che a diversi osservatori sembra un regime, vi sono il rifiuto dei riservisti di rispon-

dere alla prossime chiamate, l’attuazione di scioperi che paralizzino l’economia del Paese e l’acquisizione di autonomia da parte delle autorità locali rispetto al potere centrale, soprattutto in campi come l’istruzione che pagano maggiormente il prezzo del clima anti-liberale che impronta le decisioni del Governo in carica. Intanto, ad esprimere preoccupazione per l’erosione della democrazia e la repressione della libertà di espressione si levano in questi giorni le voci più influenti del Paese, dai rettori delle università, ai vertici dell’economia e dei sindacati, fino a noti esponenti dell’intelligence. Tuttavia, la narrazione che accompagna le proteste israeliane continua a soffrire dello stesso paradosso. Dopo 18 mesi nei quali è in corso uno sterminio, manifestare in difesa della democrazia ignorando sistematicamente le atrocità commesse a Gaza come in Cisgiordania è inconcepibile, così come lo è la totale assenza delle voci «occupazione» e «palestinesi» dalla retorica di chi sale sul pal-

co in nome della libertà. Non si tratta solo del lavaggio di cervello mediatico al quale per altro gli israeliani sono sottoposti quotidianamente, bensì di un’educazione e un indottrinamento che cominciano in età scolare e che richiederanno molto tempo per venire sradicati anche qualora ve ne sarà la volontà.

Sorge quindi il dubbio che sia proprio questa contraddizione intrinseca a compromettere l’efficacia delle proteste, indebolendole, mentre una maggiore onestà intellettuale e inclusività garantirebbero l’appoggio di altri settori della popolazione come gli ebrei osservanti e i palestinesi, rispettivamente demonizzati e ignorati, suscitando anche una maggiore empatia nei Paesi esteri. Insomma, la strada è ancora in salita e, benché molte delle iniziative di Netanyahu sembrino una sorta di aggressivo colpo di coda di un uomo braccato, è impossibile pronunciarsi sulle tempistiche, calcolando anche la variabile Trump nota per la sua proverbiale imprevedibilità.

Non c’è pace nel campo rifugiati di Jabalia, nel nord della Striscia di Gaza. (Keystone)
Sarah Parenzo
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Dazi americani: torniamo coi piedi per terra

L’analisi ◆ I possibili scopi della mossa poco a sorpresa del presidente Trump e quali conseguenze a lungo termine potrebbe avere

Il mondo sembra scoprire il protezionismo ora, come se lo avesse inventato Donald Trump. Molti decretano che nel «Liberation Day», quel 2 aprile in cui il presidente degli Usa ha annunciato raffiche di super-dazi (vedi foto), «la globalizzazione sia finita». Che la svolta sia reale, non c’è dubbio. La presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ha parlato di uno «shock per l’economia globale». Perfino un Paese come la Svizzera, di solito al riparo dagli scontri tra schieramenti geopolitici, si è vista penalizzare con dazi del 31% le sue esportazioni verso gli Stati Uniti. Un amico di Trump, Benjamin Netanyahu, ha cercato di abbracciare la logica della «reciprocità» eliminando tutti i dazi sul made in Usa; in cambio ha ottenuto sì uno sconto, ma i dazi americani sulle esportazioni israeliane sono comunque stati fissati al 17%. Un altro Paese che si considera filoamericano, il Vietnam, è stato fra i più castigati: Trump vuole impedire che la Cina lo utilizzi, come fa con il Messico, per farvi transitare le proprie esportazioni cambiando etichetta di provenienza.

A giudicare dalle reazioni ufficiali tutti sembrano sorpresi e costernati, tutti si dicono indignati, tutti promettono di difendersi e in certi casi di vendicarsi con rappresaglie adeguate. In mezzo a tanto frastuono si rischia di scambiare lo «psicodramma» per realtà. Ritornare con i piedi per terra è indispensabile. Stupefacente è lo stupore. Trump aveva promesso i dazi in campagna elettorale, anche se non era stato necessariamente chiaro sulla loro altezza e ampiezza di applicazione. Però i Paesi colpiti hanno avuto almeno un anno per prepararsi. Pensavano che scherzasse? Che fosse tutto un bluff? Ma se c’è una cosa su cui Trump è abbastanza prevedibile, è proprio questa: tende a mantenere le promesse fatte in campagna elettorale.

I protezionismi mascherati

Il protezionismo, peraltro, non lo inventa lui. La Comunità europea nacque come una fortezza protezionista negli anni 50, e per certi aspetti è rimasta fedele alle origini: basta pensare alla politica agricola comunitaria. Con il passare dei decenni il protezionismo europeo si è evoluto, ha imparato a travestirsi da «ambientalismo» e da «salutismo»: così tante barriere europee contro i prodotti americani non sono fatte di dazi, bensì di regole sanitarie e tutele dei consumatori. Non è un caso che Trump abbia fatto calcolare i suoi dazi in base a un principio di reciprocità che tiene conto di tutte le forme di discriminazione che colpiscono le merci americane. Un criterio che però, secondo molti analisti, tra cui quelli di «Le Monde», non è né scientifico né basato su un vero rapporto di reciprocità. I protezionismi mascherati, in ogni caso, sono una specialità della Cina. Quando nel 1999-2001 negoziò il suo ingresso nell’Organizzazione mondiale del commercio (World Trade Organization, Wto), la Repubblica popolare ottenne un trattamento privilegiato: era un Paese molto povero e le fu concesso di proteggersi dalla concorrenza occidentale con robuste barriere. Pechino ha sempre avuto dazi molto più alti di quelli americani, ma ci ha aggiunto molte altre barriere, con giustifi-

cazioni e pretesti che vanno dalla sicurezza nazionale alla protezione dei consumatori, ma col risultato di essere un mercato molto chiuso. La forma più devastante di protezionismo cinese, per gli effetti sulle Nazioni occidentali, è stato l’obbligo per le aziende straniere che investono in Cina di scegliersi un socio locale al quale trasferire il proprio know how. Così la Cina ha saccheggiato i segreti industriali occidentali fino a diventare più competitiva di noi.

La consapevolezza di questi squilibri e storture stava crescendo in America da molti anni. La decisione di voltare pagina rispetto all’Età aurea della globalizzazione (quella segnata dai grandi accordi di libero scambio) era ormai bipartisan, univa democratici e repubblicani. Non a caso Joe Biden mantenne in vigore tutti i dazi del primo Trump, ne aggiunse di suoi, e aprì un altro fronte delle guerre commerciali con la politica industriale a base di sussidi per le aziende straniere che vanno a produrre in America. Il capo dei consiglieri di Biden per la sicurezza, Jake Sullivan, aveva teorizzato «una nuova politica estera e una politica commerciale fatte su misura per la classe operaia»: con quella espressione intendeva dire che l’era dei grandi accordi di liberalizzazione dei commerci aveva tradito gli interessi della classe operaia americana, l’aveva impoverita, aveva smantellato il settore manifatturiero, ed era urgente cambiare strada. Biden e Kamala Harris si vantavano di aver iniziato a rilocalizzare industrie sul suolo Usa, riportandovi oltre due milioni di posti di lavoro operai. Tutto questo serve a ricostruire il contesto storico del «Liberation Day» di Trump: non un fulmine a ciel sereno, ma il compimento di una correzione di rotta degli Stati Uniti, in buona parte condivisa dal Partito democratico.

Bisogna rassegnarsi a questa nuova realtà. Per molti decenni il mondo ha visto Paesi come la Cina, il Giappone, la Germania, l’Italia, farsi trainare dall’America usando il mercato americano come sbocco per le proprie esportazioni. Quei Paesi che hanno adottato modelli di sviluppo trascinati dall’export, hanno compresso i propri consumi interni, usando i consumi degli americani come motore della propria crescita. L’America spendacciona distribuiva il proprio potere d’acquisto al mondo intero. Quella divisione dei compiti non viene più accettata dagli americani, a quanto pare. È ora che gli altri ne traggano le conseguenze. La prima a reagire nel modo razionale è stata la Germania del nuovo cancelliere Friedrich Merz che ha deciso di diventare spendacciona a sua volta, col piano di investimenti pubblici da mille miliardi: si candida cioè a sostituire almeno in parte la domanda americana con domanda tedesca. La Cina prima o poi dovrà rassegnarsi a fare qualcosa di simile.

Per adesso siamo nella fase «teatrale» dello scontro, in cui ogni leader deve urlare il proprio sdegno per dimostrare ai propri elettori di curare i loro interessi. Poi si dovrà passare all’azione. Che non potrà limitarsi a rappresaglie e ritorsioni: poiché il commercio mondiale è stato asimmetrico per decenni, l’America ha il coltello dalla parte del manico, negandosi agli altri, facendo venir meno il proprio potere d’acquisto, può infliggere danni che gli altri non possono

restituire se non in misura assai ridotta. Resta da capire se i dazi servono allo scopo di Trump. E a quale scopo. Trump ha sempre mantenuto una grande ambiguità. Ha parlato dei dazi in almeno tre versioni ben distinte. Primo: come una tassa che gli serve a fare cassa, prelevando ricchezze dal resto del mondo per restituirle agli americani sotto forma di sgravi fiscali. Secondo: come strumenti negoziali, per costringere gli altri Pae-

si alla reciprocità cioè ad abbassare le loro numerose barriere protezioniste e a diventare più aperti. Terzo: come strumenti per costringere le multinazionali americane o straniere a venire negli Stati Uniti a fabbricare i loro prodotti, quindi a reindustrializzare l’America e a riportare lì milioni di posti di lavoro che erano stati delocalizzati altrove. Ognuno di questi usi dei dazi incontra dei problemi. A cominciare da un problema generale: i

dazi non possono servire a tutt’e tre queste funzioni. O l’una o l’altra. Per esempio, perché il gettito fiscale dei dazi sia molto elevato (obiettivo uno) l’America deve continuare a importare tanto, e questo contraddice l’obiettivo numero tre (produrre in casa). La sfida della reindustrializzazione in parte può essere vinta da Trump – come aveva cominciato a vincerla Biden – però resterà irraggiungibile in molti settori manifatturieri. Il costo del lavoro Usa è comunque troppo alto e l’America non avrà mai abbastanza operai per sostituire quelli cinesi, vietnamiti, messicani (a meno di riaprire le frontiere a un’immigrazione massiccia, cosa che Trump non vuole). Resta aperta invece la possibilità che i dazi come strumento negoziale servano a qualcosa. Come ha dimostrato Israele abbassando subito i suoi dazi sulle importazioni made in Usa, ogni Paese o blocco di Paesi (come l’Ue) «ha la coscienza sporca», anche quando urla e s’indigna contro il protezionismo di Trump, perché ha tante barriere esplicite o inconfessate. Ora comincia una fase in cui alla sceneggiata delle proteste si affiancheranno le concessioni. I Paesi stranieri troveranno degli alleati preziosi in quelle lobby americane che non vogliono pagare più care le importazioni. Forse anche i consumatori americani faranno sentire la loro voce, se i dazi dovessero alimentare nuova inflazione.

Turchia, il malcontento arriva da lontano

Lo storico ◆ Francesco Mazzucotelli ci spiega la crisi che attanaglia il Paese dominato da Erdoğan e scosso da imponenti proteste

L’arresto del sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoğlu, con le accuse di «corruzione» e «terrorismo», ha scatenato un putiferio in Turchia: un’ondata di manifestazioni di piazza, soprattutto nelle grandi municipalità, alla quale è seguita la dura repressione da parte delle autorità (arresti, violenze di diverso tipo, ulteriore blocco dei media ecc.). Come interpretare questi avvenimenti? «La notizia dell’arresto del principale sfidante politico del presidente Recep Tayyip Erdoğan è stata una sorta di detonatore, in un contesto di malessere diffuso», osserva Francesco Mazzucotelli che insegna Storia del Vicino Oriente all’Università di Pavia. «Stanno venendo al pettine nodi che la politica turca si trascina da tempo. Il primo: l’insoddisfazione della cittadinanza confrontata con una situazione economica molto negativa che si protrae da una decina d’anni. Con la pandemia, le guerre nel Mar Nero e nel Mediterraneo orientale, che hanno causato l’aumento del costo delle materie prime, la situazione è anche peggiorata. L’inflazione galoppa e la lira turca continua a perdere valore. Questo ha portato all’erosione del potere d’acquisto di una parte significativa della popolazione turca, anche del ceto medio, che non ce la fa più». Al malcontento economico si aggiunge quello legato alla gestione dei migranti. In Turchia vivono ancora circa tre milioni di rifugiati siriani, fuggiti alla guerra civile scoppiata nel 2011 che ha portato alla caduta del regime di Bashar al-Assad (2024). Spiega Mazzucotelli: «Inizialmente, e per motivi strumentali, Ankara ha promosso una politica di “dispersione urbana” dei profughi (insediamenti “liberi” e non nei campi di accoglienza); ma questa presenza è divenuta ingombrante, faticosa, e ha dato origine a forme di rigetto accentuate, a tensioni forti tra una parte della popolazione turca – stremata

come detto dalla crisi economica – e i rifugiati».

Infine c’è da considerare l’opposizione, da parte di alcuni segmenti della popolazione, alla politica sempre più autoritaria e repressiva di Erdoğan. «Un fenomeno che non è nato ieri», afferma l’intervistato. L’AKP –che inizialmente riuniva componenti più o meno tradizionaliste e si poneva come movimento di centrodestra – dal 2015 ha accentuato la sua tensione nazionalistica. Si è intensificata la logica autoreferenziale di Erdoğan, che già all’epoca mirava a una riforma presidenziale. Col passare del tempo si sono susseguite diverse crisi: dalle grandi proteste del 2013 contro l’autoritarismo (Gezi Park), al tentato golpe militare del 2016. Tutti avvenimenti che hanno reso sempre più forte ed evidente il piano accentratore di Erdoğan che nel 2014 era diventato presidente. Ora tutto passa dalla sua persona che ha imbastito legami sempre più stretti con l’estrema destra.

Trump ed Erdo˘gan parlano la stessa lingua, concepiscono le relazioni tra Paesi come relazioni tra leader

«In ogni caso negli attuali cortei di protesta si trova di tutto», sottolinea Mazzucotelli. «Dai gruppi nazionalisti a quelli religiosi, passando per l’estrema sinistra, e su tutto campeggia la questione curda che continua ad avere un ruolo forte nella politica turca. Alcuni manifestano per le condizioni economiche, altri per la questione dei migranti, intellettuali e studenti scendono in piazza per le idee di libertà e democrazia». L’opposizione è frammentata. Mentre fuori gioco, almeno per ora, rimane Imamoğlu. «Faceva paura ad Erdoğan perché è un personaggio popolare e carismatico; inoltre la posizione di sindaco di

Istanbul – che dà grande visibilità e potere – è un trampolino di lancio per la politica nazionale. Ma la forza di Imamoğlu sta soprattutto nel suo essere a cavallo tra mondi diversi. Proviene infatti da un partito di centro e “laico” ma anche da una famiglia conservatrice e religiosa (difende posizioni di destra su temi quali la migrazione ad esempio), catturando consensi in ogni schieramento politico». Se non rientrerà in corsa gli scenari rimangono aperti; le elezioni presidenziali sono previste per il 2028…

Una personalità da tenere in considerazione è Özgür Özel, leader del Partito repubblicano del popolo (CHP), che rappresenta la principale alternativa all’AKP e ha lanciato appelli nel contesto delle manifestazioni. «Resta da capire se il CHP riuscirà a creare una sorta di accordo politico con il Partito democratico, prima noto come HDP, che rappresenta gli interessi dei curdi nel sud est della Turchia. E se emergerà il profilo di una personalità convincente che incarni una vera alternativa ad Erdoğan. Altrimenti, pur con il malcontento interno che talvolta esplode, la situazione rischia di rimanere bloccata».

D’altro canto, dice l’esperto, è mol-

Voglio stilare un budget. Quali sono gli errori da evitare?

to difficile che Erdoğan retroceda. Le argomentazioni che ha usato a margine delle proteste sono le stesse del 2013 (Gezi Park). Il suo approccio rimane di stampo autoritario e paternalista: «Capisco, siete arrabbiati, vi ascolto, ma se andate in piazza siete balordi, teppisti e terroristi». «È improbabile che cambi le proprie posizioni politiche. È il suo stile, il suo modo di affrontare la politica ed è la sua visione del mondo». Inoltre – continua Mazzucotelli – Erdoğan continua a presentarsi come il leader assertivo che gioca un ruolo importante su diversi tavoli in politica internazionale (anche in Africa, dalla Libia alla Somalia). L’unico che riesce a dialogare allo stesso tempo con Putin e Zelensky e ha svolto un ruolo di mediazione nella crisi tra Mosca e Kiev (pensiamo solo alla firma di un accordo nel 2022, sotto l’egida delle Nazioni Unite, per sbloccare l’export di grano ucraino attraverso il Mar Nero). «Si è anche intestato il merito del cambio politico in Siria e della vittoria dell’Azerbaigian contro i secessionisti armeni nel 2023». Una parte di realtà e molta retorica, insomma. E dall’esterno qualche punto di domanda sorge, dice l’intervistato: «Di sicuro la Turchia è

presente su diversi tavoli di negoziato, ma ci sta in maniera ambigua, cinica e spregiudicata. E in alcune situazioni – come quella in Siria – è forse troppo presto per parlare di una vittoria. Il nuovo leader siriano è certamente più vicino ad Ankara rispetto ad al-Assad ma a Damasco la situazione è tutt’altro che stabilizzata e chiara». Parliamo ora dell’America. «Mi ha colpito molto il fatto che Elon Musk sia intervenuto bloccando gli account su X di alcuni membri dell’opposizione anti-Erdoğan, una presa di posizione chiara. Dal canto suo Trump ha dichiarato: “Erdoğan è un bravo presidente”, ma sappiamo che nel giro di 24 ore potrebbe cambiare idea. Il punto però è un altro: si tratta di una modalità di concepire le relazioni internazionali in maniera personalistica, molto diversa a quella a cui siamo abituati. Questi personaggi si trovano bene tra di loro perché parlano la stessa lingua. Trump ed Erdoğan considerano le relazioni tra Paesi come relazioni tra leader. Possono confliggere su alcuni argomenti (Palestina-Israele ad esempio) ma la grammatica delle relazioni internazionali, il vocabolario che usano sono gli stessi: ce la vediamo noi due. Se questa cosa funzionerà lo vedremo, ho qualche perplessità». Infine l’Europa che in questo contesto, come in tanti altri, riesce a dire poco. «Il rapporto Ue Turchia è incartato. È stato fortemente condizionato dall’accordo del 2016 sui migranti al confine con la Grecia e la Bulgaria. Ora l’Ue e alcuni singoli Paesi si limitano a ribadire alcune affermazioni di principio: difesa della libertà di espressione, condanna della repressione dei manifestanti ecc. Niente di più. Così come in altre situazioni, emergono poi sempre forti divergenze tra i Paesi europei e questo impedisce all’Unione di assumere una posizione chiara, stabile e comune. Si va in ordine sparso, facendosi portare dal corso degli eventi».

La consulenza della Banca Migros ◆ Molti sottovalutano le loro spese effettive e credono di avere più risorse disponibili, altri non tengono conto delle possibili emergenze. I consigli dell’esperto

Un budget ben ponderato aiuta a tenere sotto controllo le finanze e a mettere da parte i soldi per le cose importanti. Ma gli errori possono insinuarsi rapidamente, ecco i cinque più comuni.

Percezione distorta

Molte persone sottovalutano le loro spese effettive. Ciò si traduce in aspettative irrealistiche sulla quantità di denaro disponibile.

Soluzione: si dovrebbero annotare tutte le entrate e le uscite nell’arco di alcuni mesi. In questo modo è possibile calcolare un valore medio per un mese standard. I relativi modelli sono disponibili, ad esempio, su budget-consulenza.ch.

Nessuna riserva di emergenza

Spese impreviste, come fatture me-

diche o costi per riparazioni, possono mettere a dura prova il budget. Una riserva di emergenza può porre rimedio alla situazione, ma spesso è troppo limitata.

Soluzione: ogni persona dovrebbe avere almeno tre spese mensili da parte, le famiglie un po’ di più. La soluzione ideale consiste in tre riserve: una destinata alle emergenze minori, come la riparazione di elettrodomestici difettosi, la seconda per pagare le imposte e le assicurazioni, la terza per gli acquisti occasionali.

Costi nascosti

Quando si pianifica il budget, è facile dimenticare alcuni costi, ad esempio gli abbonamenti o le adesioni ad associazioni che vengono addebitati una volta all’anno, ma anche le spese per i viaggi e i generi alimentari.

Soluzione: chi vuole evitare sorpre-

se dovrebbe controllare regolarmente il proprio budget per individuare eventuali costi nascosti o dimenticati. Appuntarsi dei promemoria aiuta a rispettare i termini di disdetta.

Mancanza di flessibilità

Le condizioni di vita cambiano continuamente, sia che si tratti di un cambio di lavoro, di un trasloco, di una nascita in famiglia o di altri eventi personali. Molti dimenticano di modificare il proprio budget.

Soluzione: la verifica e l’adeguamento periodici del budget garantiscono che quest’ultimo sia in linea con la propria situazione di vita e con gli obiettivi finanziari. Una consulenza finanziaria a 360°, ad esempio presso la Banca Migros, consente di fare chiarezza al riguardo.

Trascurare gli obiettivi a lungo termine

La nuova auto o la ristrutturazione della cucina sono inclusi nel budget, ma lo è anche la previden-

za per la vecchiaia o un corso di formazione professionale? Chi si concentra solo su traguardi a breve termine corre il rischio di trascurare obiettivi di vita più grandi. Soluzione: una buona pianificazione del budget tiene conto anche degli obiettivi a lungo termine e indica il potenziale di risparmio. Per sostenere efficacemente la previdenza per la vecchiaia e la costituzione di un patrimonio può essere sufficiente versare contributi regolari, anche di modesta entità, nel pilastro 3a o in un piano di risparmio in fondi.

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Barbara Russo, consulente alla clientela della Banca Migros.
Özgür Özel e la folla che protesta a Istanbul alla fine di marzo. (Keystone)

Il Mercato e la Piazza

Le conseguenze della mondializzazione

Sull’evoluzione delle economie europee dovrebbe aver influito, nel corso degli ultimi 50 anni, il fenomeno della mondializzazione. Non esiste una definizione condivisa del fenomeno. Ma al centro di molte delle definizioni in circolazione sta la perdita di importanza delle frontiere nazionali come ostacolo alla circolazione delle persone, dei beni e dei servizi. Anche rispetto ai fattori determinanti della mondializzazione non c’è unità di dottrina.

Molti autori mettono tuttavia in evidenza il ritorno ai cambi flessibili in seguito all’abbandono, avviato nel 1971 dagli Stati Uniti, degli accordi di Bretton Woods, il moltiplicarsi degli accordi commerciali multilaterali e le trasformazioni nei trasporti e nelle comunicazioni internazionali indotte dal digitale, soprattutto nell’ultimo decennio del passato secolo. Tre sono le conseguenze principali di que-

Affari Esteri

Stati

ste modificazioni del quadro entro il quale operavano le economie europee fino alla fine degli anni Sessanta dello scorso secolo.

La prima è stata la perdita di importanza degli Stati nazionali nel governo dei flussi delle loro economie e il crescere invece di importanza delle multinazionali nella gestione degli stessi. La seconda è rappresentata dall’aumento di importanza della concorrenza – soprattutto a livello internazionale – che ha indotto gli addetti ai lavori a occuparsi sempre di più di come si sviluppava la produttività nelle loro economie e di come questo sviluppo incideva sulla competitività delle stesse. Si può infine affermare che le migrazioni internazionali di lavoratori e delle loro famiglie rappresentano – non solo in Europa – la terza importante conseguenza della mondializzazione. Ovviamente la mondializzazione, con

il retrocedere dei dazi, ha provocato anche una forte crescita dei flussi internazionali di beni e servizi, i flussi insomma registrati dalla bilancia commerciale. Tuttavia, come mettono in evidenza i critici della mondializzazione, questa crescita non è stata accompagnata da uno sviluppo parallelo del Prodotto interno lordo (Pil) delle diverse economie.

A livello di aggregati mondiali si è potuta osservare – se le statistiche di cui disponiamo sono affidabili – la seguente evoluzione. Nel 1960 commercio internazionale e Prodotto interno lordo dell’insieme delle economie del mondo si equivalevano.

A partire dal 1970 però i volumi del commercio internazionale hanno cominciato a crescere più rapidamente di quelli del Prodotto interno lordo delle economie mondiali. Così, nel 2000, il tasso di crescita del commercio internazionale era già superiore

Uniti: la risposta dei democratici

Nel giardino delle rose della Casa Bianca, annunciando i dazi americani a tutto il mondo, Donald Trump ha portato sul palco «i lavoratori» del settore metallurgico e automobilistico, quelli che, nel suo piano, avranno il massimo beneficio dal «Liberation day», il giorno in cui l’America si è fatta protezionista, ha «ucciso la globalizzazione» e si è vendicata di tutti i maltrattamenti globali che pensa di aver subito. Quegli stessi lavoratori, in particolare i sindacalisti dell’Automotive, qualche anno fa avevano accolto l’allora presidente Joe Biden, che nel 2020 avevano votato, come il loro protettore e salvatore, ma ora hanno riservato voti ed elogi a Trump. Gran parte del dibattito politico in corso nell’America più polarizzata di sempre si può riassumere in questa immagine e in questo scivolamento ingenuamente fiducioso della working class verso il trumpismo. Ed è da qui che il Partito democratico,

nel suo abisso di impopolarità dopo la batosta elettorale di novembre, vuole –anzi deve – ripartire. Lo fa nelle piazze e lo fa nel palazzo. Bernie Sanders, ex candidato presidenziale dei democratici ufficialmente senatore indipendente, ha già riempito palazzetti e comizi con il suo tour «Fighting oligarchy» iniziato a fine febbraio. Già nel 2017, quando Trump era stato eletto la prima volta, Sanders aveva iniziato una campagna di «bassa stagione», cioè in un periodo elettoralmente calmo, tra le presidenziali e le elezioni di metà mandato. L’obiettivo, allora come oggi, è proprio il voto del prossimo anno, quando al Congresso, al Senato e in alcuni Stati si potrà fare la prima valutazione del secondo mandato presidenziale di Trump. Sanders ha scelto il tema che gli è più chiaro e in cui è più forte, che è la lotta alla diseguaglianza, la difesa del lavoratore americano – an-

che il senatore è protezionista – e oggi la lotta agli oligarchi che hanno preso il potere grazie a Trump. Sanders non ha bisogno di rievocare la retorica di «Occupy Wall Street» o le tende nei parchi contro l’accentramento della ricchezza nelle mani dell’1% della popolazione Usa. I milionari e i miliardari sono al Governo, con mansioni più o meno definite ma con un grande potere. C’è Elon Musk che sminuzza l’amministrazione pubblica a seconda delle sue priorità, ma anche il segretario al Commercio, Howard Lutnick, un grande appassionato di dazi come strumento di governo del mondo, è un ricco di Wall Street, come pure l’inviato speciale della pace nel mondo, Steve Witkoff, l’immobiliarista che interpreta alla perfezione l’approccio transazionale di Donald Trump. Sanders ha gioco facile contro questi oligarchi, riempie le piazze, ha rinsaldato il sodalizio politico con Alexan-

al doppio di quello del Pil di queste economie (10,3% contro 4,8%). Nel 2020 il valore di questo rapporto era ancora aumentato. In quell’anno (il primo anno dell’epidemia del Covid) il commercio internazionale crebbe, a livello mondiale in ragione del 19,1% mentre il Pil di queste economie aumentò solamente dell’8,2%. L’evoluzione del rapporto tra questi due tassi è uno degli argomenti più pesanti che vengono presentati dai critici della mondializzazione. L’espansione dei flussi commerciali internazionali, messa in moto dalla mondializzazione, non avrebbe, secondo loro, avuto il riscontro positivo che ci si attendeva sulla crescita delle economie del mondo. Anzi, siccome il valore del rapporto tra i tassi di crescita del commercio mondiale e quelli del Pil mondiale continua a crescere, bisogna addirittura concludere che le politiche che dovrebbero incremen-

tare il commercio internazionale per favorire la crescita si sono rivelate del tutto inefficaci. Si tratta di una conclusione che sta in piedi nella misura in cui le statistiche sulle quali si basa sono affidabili. Per l’economista tradizionale l’evoluzione del recente passato è però paradossale. Il tasso di crescita del Pil, in generale, dovrebbe essere maggiore di quello del commercio internazionale di un Paese come per esempio è stato il caso del Ticino nel corso degli ultimi 50 anni, con l’eccezione dell’ultimo lustro del passato secolo quando le esportazioni hanno trainato l’economia ticinese fuori dalla recessione. Evoluzione parallela non significa però che le due grandezze continuino a crescere. In termini di tassi di crescita del Pil e delle esportazioni ticinesi, per esempio, gli ultimi 40 anni hanno visto aumenti e diminuzioni alternarsi.

dria Ocasio-Cortez, la più popolare e riconoscibile delle deputate del Partito democratico. La prima vittoria di questo movimento dal basso è arrivata in Wisconsin, dove si votava per eleggere un giudice della Corte suprema dello Stato. Musk ha investito 25 milioni di dollari per il candidato conservatore, più di tutti i donatori che sostenevano il candidato progressista messi assieme (tra cui George Soros), in una contesa dispendiosa e infine amara per l’imprenditore. Sanders ha fatto tappa con il suo tour «Fight oligarchy» anche in Wisconsin, ha detto che ormai anche le elezioni sono in vendita, ha chiesto di mobilitarsi contro questo uso speculativo della politica a fini personali (la Corte suprema del Wisconsin deve decidere su Tesla, che chiede di togliere la legge che impone i concessionari per la vendita delle automobili, quindi impedisce la vendita diretta dei produttori ai consumatori). E alla fine,

anche se è difficile stabilire un rapporto causa-effetto diretto, Musk è stato sconfitto. Nelle ore in cui si votava in Wisconsin (e anche in Florida), il senatore democratico Cory Booker ha tenuto un discorso di 25 ore e 5 minuti nell’aula del Senato. In questa maratona ha parlato della crisi dell’America, ha fatto riferimenti a un passato bipartisan, in cui lo scontro tra destra e sinistra era forte ma civile, in cui si poteva contribuire insieme a costruire il futuro del Paese, in cui c’era una condivisione di fondo su quel che è giusto e su quel che è sbagliato. Oggi non c’è modo di confrontarsi, i toni sono alti, i modi sono rudi, la visione dell’America diverge sempre di più. È per questo che bisogna combattere, riaffermare la propria presenza, ha detto Booker, invitando il suo partito a mobilitarsi, a fare rumore, a non lasciare che il trumpismo scardini il meccanismo democratico americano.

Il roboante arrivo alla Casa Bianca di un presidente neopopulista sta allargando le crepe che rendono pericolanti le istituzioni dell’Unione europea, sempre più in difficoltà a contrastare in contemporanea sia l’aggressione in Ucraina di Putin, sia il disegno di un ordine mondiale che Trump vuole al posto dell’alleanza difensiva della Nato, vecchia di 80 anni. Temendo di impantanarmi troppo nella palude geopolitica, ne parlo facendo ricorso a un gioco di parole «costruito» sul termine Europa. Il primo è «Eu-rope». Lo ha inventato un vignettista per simboleggiare la condizione dell’Europa. Su un lato dell’immagine ha ritratto un gruppo di statisti, legati l’un l’altro con una «rope», cioè una corda, per scalare una montagna con bandiera blu-stellata sulla cima. Sull’altra metà si vedono invece Trump e Putin che, sornioni, offrono agli stessi statisti europei anche loro una «ro-

pe», però un po’ diversa: in inglese il termine significa anche cappio. Messaggio chiaro: da una parte l’Europa con l’obbligo di ricorrere a una cordata per avere sicurezze su comportamenti e scelte dei suoi stati membri; dall’altra l’Unione europea che subisce le tentazioni innestate da Trump sulla tragedia perpetrata da Putin contro l’Ucraina.

In risposta al sottosopra statunitense l’Ue sinora ha varato un «Libro bianco» che però non ha i crismi di una cordata: i Paesi dell’Unione non sembrano pronti a rispettare gli investimenti richiesti per un riarmo credibile, anche perché da decenni sono impegnati a ridurre le spese militari per coprire prodigalità e indebitamenti. Si scopre così che la stragrande maggioranza dei politici europei spera ancora di poter sopravvivere aggrappata a principi e metodi un tempo validi per un’associazione omoge-

nea fra Stati medi, ma vistosamente inadeguata per un’Europa con tante piccole Nazioni. La vignetta mi ha fatto tornare in mente un analogo gioco di parole coniato una ventina di anni fa come argomento di discussione per un «meeting» di matrice religiosa fra giovani di vari Paesi europei: si parlava di «Eur-hope», un’Europa della speranza, quindi non quella che emerge dalle sbiadite prese di posizione in risposta a Trump che, puntando all’autosufficienza autarchica statunitense, vuole causare un ridimensionamento economico dell’Unione europea. In fondo è una via già evocata, con toni più sereni, dal presidente Obama a Cardiff al vertice Nato del 2014 («Ogni Paese deve contribuire alla difesa dell’Occidente e entro il 2024 portare il proprio contributo alla Nato al 2%») e il giorno prima a Tallin («l’articolo 5 del Patto vale per tutti i

Paesi. Non ci sono membri nuovi o vecchi. E spero che tutti faranno la loro parte anche dal punto di vista finanziario»). Ora Trump e la sua compagnia di giro hanno solo appesantito richieste e minacce con un «gli Usa sono stanchi di pagare per tutti» e avvelenato il dialogo politico con uno sprezzante «quei parassiti europei». A scatenare queste violenze verbali contribuiscono non solo la grettezza dei neopopulisti approdati alla Casa Bianca, ma anche l’ignavia e l’indifferenza che decenni di politica guidata da interessi monetari ed economici hanno fatto crescere nei Paesi europei (e non solo negli stati dell’Ue), una zavorra che indebolisce praticamente ogni contromisura dell’Ue agli attacchi e alle provocazioni di Trump e di Putin, dettando occhi chiusi e silenzi anche sulle repressioni che Erdogan porta avanti in Turchia o sulle oceaniche manifestazioni contro go-

vernanti sovranisti in Stati che chiedono l’adesione. «Sembra che la difesa della democrazia non sia a carico di nessuno» diceva Ezio Mauro su «la Repubblica» prima di approdare a questo interrogativo: «Com’è possibile che l’insidia di questa sfida radicale non sia al primo posto sull’agenda delle cancellerie d’Occidente, non domini il dibattito politico, non renda i cittadini consapevoli del rischio di cambiare sistema, rinunciando a tutte le garanzie che la procedura liberal-democratica ha messo in campo negli anni?». L’interrogativo suona a conferma che l’unione dei 27 stati sta morendo ogni giorno un po’ di più, soffocata dall’invecchiamento della popolazione e dalla perdita di principi e valori un tempo considerati inviolabili. La prospettiva di un’Eur-hope esce dal raggio di azione dell’Unione europea e torna ad essere irraggiungibile.

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CULTURA

L’eredità irriverente dei Fratelli Marx

La genialità sovversiva di Groucho, Chico e Harpo riscrisse le regole della comicità, facendo del caos un trionfo

Pagina 19

Il ritorno di Echi di Storia

Nel corso della seconda edizione del Festival di storia, in scena dal 10 al 13 aprile a Lugano, ci si occuperà di sondare ciò che accade ai margini

Pagina 20-21

Quando il teatro diventa protesta Un’epica moderna contro la violenza di genere, rivelata nel confronto tra dodici donne nello spettacolo L’Empireo, al Lac a metà aprile

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Art Déco, un mondo intriso di bellezza

Mostre ◆ A Milano si celebra uno stile eclettico e variegato che mescola tradizione e modernità nel periodo tra le due guerre

«È la cosa peggiore a cui abbia mai assistito». Con queste parole, il 6 maggio del 1937 il giornalista Herbert Morrison concludeva la drammatica e concitata radiocronaca che era stato costretto a improvvisare quando, come tutto il pubblico accorso per assistere all’atterraggio del dirigibile tedesco Hindenburg, lo aveva visto improvvisamente prendere fuoco nel cielo sopra Lakehurst, nel New Jersey. La tragedia dello Zeppelin, le cui immagini nei giorni successivi furono trasmesse dai cinegiornali di tutto il mondo, decretò la fine dei viaggi commerciali di quelli che rimangono ancora oggi gli oggetti volanti più grandi mai costruiti dall’uomo, ma soprattutto sancì simbolicamente la fine di un’epoca. Già negli anni precedenti, del resto, l’euforia spensierata e disinibita dei «ruggenti» anni Venti aveva lasciato il campo al clima cupo prodotto dalla terribile crisi finanziaria del 1929 e dall’avvento al potere di Hitler, al punto che cominciava ormai a essere chiaro a tutti che una nuova guerra, dopo quella che aveva decimato una generazione di giovani maschi europei nei fossati delle trincee tra il 1914 e il 1918, era alle porte.

Lo storico filmato di quell’incidente che in pochissimi secondi distrusse l’enorme fusoliera argentea dello Zeppelin, a mio avviso sarebbe stato perfetto per chiudere la mostra dedicata all’Art Déco in corso a Palazzo Reale a Milano, perché avrebbe fatto da drammatico contrappunto all’atmosfera lussuosa, gaudente e sensuale che domina il resto del percorso espositivo, ricollegandosi al contempo al suo incipit, visto che nella prima sala gli spettatori sono accolti dalla ricostruzione in scala di un dirigibile sul quale sono proiettati frammenti di filmati dell’epoca che celebrano i fasti della vita moderna. Il finale per il quale ha optato il curatore Vittorio Terraroli mira invece a sottolineare la sopravvivenza dello stile Déco in America grazie alla mediazione hollywoodiana, mostrandoci le spettacolari coreografie acquatiche ideate da Busby Berkeley per il musical Footlight Parade del 1933, alle quali vengono affiancate le geometrie raffinate, essenziali e modernissime di una serie di oggetti di ceramica smaltati di rosso di Giò Ponti, Giovanni Gariboldi e Guido Andlovitz che segnano il passaggio allo stile Novecento.

In generale, tuttavia, prescindendo dalla scelta del finale, va detto che la decisione di includere nell’allestimento una serie filmati dell’epoca proiettandoli su scenografiche superfici sagomate secondo stilemi déco risulta essere particolarmente felice e riesce a dare conto efficacemente della vitalità di un’epoca e del-

lo spirito di un mondo, quella della borghesia ricca e disimpegnata degli anni Venti che dell’Art Déco è stata la principale fruitrice. Consacrato ufficialmente nel 1925 in occasione dell’Exposition internationale des arts décoratifs et industriels modernes, lo stile Déco si impone in Europa nel campo delle arti applicate tra la fine della Prima guerra mondiale e i primi anni Trenta, per poi migrare negli Stati Uniti dove continuerà ad aver larga diffusione fin quasi allo scoppio della Seconda guerra mondiale soprattutto in ambito architettonico e cinematografico. È, quello dell’Art Déco, uno stile eclettico e variegato, che mescola tradizione e modernità e il cui linguaggio si rifà alle geometrie lineari dello Jugendstil e dall’Art Nouveau, con particolare riferimento alle secessioni emerse a inizio secolo in ambito tedesco (Vienna, Monaco, Berlino), sulle quali si innestano elementi derivati da movimenti quali il Cubismo, il Futurismo e il Fauvismo. L’aspirazione alla modernità, però, nell’ambito dell’Art Déco non ha mai i tratti radicali e provocatori tipici delle avanguardie, ma è sempre mitigata dalla piacevolezza, dalla preziosità, dalla ricercatezza e da

un’eleganza spinta fino ai limiti dello snobismo.

Non si tratta di rompere con il passato, con la tradizione, ma semplicemente di rinnovarne le istanze adottando forme edulcorate e addomesticate di modernità. Non a caso, accanto all’esotismo, si assiste a un sincretistico recupero di elementi decorativi disparati che vanno dalle antichità assiro-babilonesi al Neoclassicismo, dal Manierismo al Rococò. In questo modo l’Art Déco finisce però per mancare completamente l’appuntamento con i nodi essenziali della modernità che in quello stesso giro d’anni vengono affrontati con ben altro rigore e spirito rivoluzionario nelle aule del Bauhaus a Weimar, dove l’estetica razionalista e il funzionalismo si uniscono alle istanze sociali nel tentativo di affrontare le grandi sfide poste dal design industriale. L’opposizione tra questi due modi di affrontare la modernità è perfettamente sintetizzata da Margherita Sarfatti, nel testo che introduce la partecipazione italiana all’esposizione parigina, in cui scrive: «Di fronte al razionalismo iconoclasta della giovane scuola, la quale ci condanna a vivere attorniati da inesorabi-

li espressioni di utilità senza alcuna fioritura ornativa, invochiamo il dono di un po’ di bellezza per addolcire, per arricchire, per nobilitare l’aspra vita quotidiana con il sorriso del divino, del solo indispensabile superfluo». L’ornamento, secondo la Sarfatti, non solo non è delitto, come aveva sostenuto Loos, ma andrebbe addirittura posto al centro di una vita che si voglia pienamente realizzata. Non è necessario sottolineare che questo programma aveva valore unicamente per i membri di quel ceto privilegiato che il superfluo poteva permetterselo e che dopo gli orrori della Prima guerra mondiale non aspirava ad altro che a godersi la vita, immergendosi in un mondo dorato, languido e sensuale e soprattutto privo di conflitti e di asperità. Un mondo intriso di bellezza e ricchezza che attraverso il cinema riuscì però a convogliare su di sé anche il desiderio e l’identificazione delle masse popolari. Avviluppati in questo mondo di sogno, molti finirono però per non sentire il fragore sempre più forte dei passi cadenzati che stavano spingendo l’Europa verso una catastrofe bellica che di lì a poco, come la fiammata improvvisa che aveva avvolto lo

Zeppelin, l’avrebbe travolta e ridotta in macerie.

Quella dell’Art Déco non è però solo la storia di un fenomeno del gusto che ha caratterizzato la società occidentale tra le due guerre, ma è anche la storia delle invenzioni, spesso mirabili, dei singoli autori e delle grandi qualità artigianali delle manifatture che hanno operato nel suo alveo. Da questo punto di vista la mostra documenta in maniera ampia soprattutto il contesto italiano, nel quale figurano, tra le altre, le opere di Vittorio Zecchin, Adolfo Wildt, Carlo Scarpa, Anselmo Bucci, Francesco Nonni e Galileo Chini, ma in cui a farla da padrone è ovviamente Giò Ponti con la straordinaria produzione di ceramiche per la Richard Ginori che caratterizza la prima fase della sua lunghissima e prolifica attività di designer.

Dove e quando Art Déco. Il trionfo della modernità, Milano, Palazzo Reale, fino al 29 giugno 2025. Orari: ma, me, ve, sa e do 10.00-19.30; gio 10.00-22.30; lunedì chiuso. Info: www.palazzorealemilano.it

Alberto Martini, Wally Toscanini, 1925; pastello su carta, 131x204 cm. (Collezione privata)
Elio Schenini

L’anarchia comica che fece saltare il banco

Vite da ridere (o quasi) ◆ I Fratelli Marx hanno fuso caos e genialità in un’arte che sfida ancora oggi ogni etichetta

I Fratelli Marx – Groucho, Chico, Harpo (e per un po’ anche Zeppo, con Gummo che lasciò quasi subito diventando l’agente di Groucho) – incarnano il lato più irriverente, assurdo e irresistibilmente caotico della comicità del Novecento.

Provenienti da una famiglia di migranti europei – Samuel detto «Frenchie», alsaziano, e Minnie Schönberg, di origini tedesche, che si stabilirono a New York nel 1880 –Leonard, Adolph, Julius, Milton ed Herbert rientrano tra quei tanti immigrati ebrei che tra fine Ottocento e inizio Novecento si distinsero nello spettacolo. Come molti colleghi, i Fratelli Marx condividevano tre elementi: un padre fallito nel Nuovo Mondo (Samuel era un sarto maldestro noto come Sam «malcucito»); un’educazione religiosa trascurata e rapporti complicati con lo studio; e, soprattutto, una madre forte, intelligente e determinata. Minnie, proveniente da una famiglia di artisti (il fratello era il comico Al Shean), volle per i suoi figli un futuro da performer. Fu così che ognuno dovette imparare a suonare uno strumento: fin da giovani si esibirono nel circuito del vaudeville come The Four Nightingales.

Ma servirono un mulo, una partita a poker e un temutissimo critico teatrale a determinare definitivamente la loro carriera: nel 1912, infatti, mentre intrattenevano il pubblico in un teatro in Texas, gli spettatori uscirono in massa per assistere allo spettacolo di un mulo in fuga per le strade. Al loro ritorno Groucho non si trattenne a improvvisare battute sarcastiche su di loro, sul paese e sul Texas. Anziché indispettire il loro pubblico, lo deliziò, e dal quel momento le loro esibizioni si orientarono maggiormente verso la comicità, riducendo drasticamente i numeri musicali. Tuttavia nel 1912 Groucho non era ancora… «Groucho». Lo divenne tre anni dopo durante una partita a poker.

Tra nonsense scatenato, rottura delle regole sceniche e personaggi iconici, i Fratelli Marx hanno riscritto le coordinate del comico

Fu il comico Art Fisher a battezzare i fratelli con i loro soprannomi con cui oggi li conosciamo: Groucho (da «grouchy », brontolone), Harpo (ottimo suonatore di arpa), Chico (uomo dalle mille passioni, dal gioco alle «chicks », appunto, le ragazze) e Gummo (probabilmente per le sue scarpe di gomma, «gumshoes »). Misteriose, invece, le origini del soprannome «Zeppo»… In ogni caso servì anche il contributo del caustico critico teatrale Alexander Woollcott per lanciare definitivamente in orbita il team comico.

Critico temutissimo, tanto che molti teatri non lo facevano neppure entrare a vedere gli spettacoli, nel 1924 Woollcott assistette con il suo proverbiale scetticismo alla prima di I’ll Say She Is, il debutto dei Marx Brothers a Broadway. Ne rimase folgorato (in particolare lo colpì la performance di Harpo – di cui poi divenne amico – al punto da intitolare la sua recensione sul «New York Sun» Harpo Marx and Some Brothers) e la sua recensione trasformò dalla sera alla mattina i fratelli in leggenda.

Con l’avvento del sonoro, i comici del vaudeville tornarono alla ribalta e la Paramount mise sotto contratto i Marx, che conquistarono il mondo con la loro comicità esplosiva. Al cinema, ogni fratello sviluppò uno stile personale: Groucho, maestro della battuta pungente; Chico, re dell’umorismo linguistico; Harpo, esperto in pantomima e gag visive. Nulla era sacro per loro: né la logica, né l’autorità, né il buon senso.

Dopo cinque film con la Paramount, nel 1934 la collaborazione si interruppe. La guerra lampo dei Fratelli Marx, oggi considerato un capolavoro, fu ritenuto un insuccesso commerciale. Zeppo lasciò il gruppo, frustrato dai ruoli secondari. Senza contratto e con un membro in meno, i Marx accettarono l’offerta della MGM e del suo giovane e geniale produttore Irving Thalberg. Thalberg voleva un film con meno risate ma una vera storia: «Metà risate, ma con una trama vera: incasserà il doppio», disse. Il suo obiettivo era unire il caos comico dei Marx a una struttura narrativa solida, con intrecci romantici e sceneggiature più curate. Per rassicurarli, spiegò di non voler cambiare il loro stile, ma il modo in cui presentarlo. Promise loro i migliori sceneggiatori e produzioni di alto livello. I Marx accettarono, convinti anche dalla reputazione e dal carisma del produttore.

Il risultato fu Una notte all’opera, unanimemente considerato il loro miglior film. Alla sceneggiatura contribuì anche il più grande battutista dell’epoca, Al Boasberg. Talmente rispettato da essere pagato anche solo per approvare copioni senza modificarli, Boasberg scrisse per tutti i grandi dell’epoca. Ma, come Thalberg, morì giovane. La magia tra la sua penna e il talento dei Marx non si sarebbe più ricreata.

Un giorno alle corse, l’ultima commedia a cui lavorò Boasberg, è anche l’ultimo grande film dei Fratelli Marx. Più avanti negli anni, senza la guida di Thalberg e il genio di Boasberg, i fratelli persero slancio. Girarono altri sette film, alcuni solo per aiutare Chico, spesso nei guai per le scommesse. Ma la loro grandezza

non fu mai dimenticata. Molti comici – da Woody Allen ai Monty Python, da Mel Brooks a Steve Martin – hanno riconosciuto nei Marx dei pionieri

assoluti: per il tempismo comico, l’uso audace del linguaggio, la capacità di sovvertire la logica narrativa. Ancora oggi, i loro sketch sorprendono,

fanno ridere e, forse, anche riflettere. Perché i Fratelli Marx non erano solo comici. Erano un’idea: un’esplosione di libertà sotto forma di battuta.

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Da sinistra: Harpo, Groucho e Chico Marx. (Illustrazione di Leonardo Rodriguez)
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Il mondo cambia: non ci sono più

Echi di storia – 1 ◆ A colloquio con Vinzia Fiorino, esperta di storia sociale e culturale della psichiatria e presto ospite del festival ticinese Echi

Riparte dal tema dei margini la seconda edizione di Echi di storia, il festival tutto ticinese che, attraverso ospiti importanti non solo svizzeri, intende coniugare i grandi temi della storiografia con la capacità di divulgazione. «I margini – spiegano gli organizzatori – sono spazi fisici, sociali e simbolici: terre di frontiera, culture minoritarie, idee rivoluzionarie e figure dimenticate. Sono il luogo dell’esclusione, ma anche della resistenza e della trasformazione». E chi è più ai margini dei folli? Delle persone che per lunghissimo tempo sono state segregate per i propri disturbi mentali? Lo abbiamo chiesto a una delle ospiti dell’evento, Vinzia Fiorino, che insegna Storia contemporanea e Studi intersezionali di genere all’Università di Pisa e si è occupata in modo particolare di storia sociale e culturale della psichiatria.

Vinzia Fiorino, partiamo dai manicomi: come sono nati?

I manicomi nascono all’indomani della Rivoluzione francese quando alcuni medici pensano di offrire una soluzione pratica: il ricovero in uno spazio ad hoc, il manicomio. Non si avevano idee molto precise sulle cause della malattia mentale, ma questa fu comunque concettualizzata e catalogata in schemi di classificazione che volevano essere rigidi. La risposta pratica è più interessante: segregare i malati.

L’internamento è stata la risposta terapeutica?

Esatto. È un punto cruciale che differenzia il manicomio dagli altri ospedali, dove si poteva andare per un periodo limitato. La risposta alla malattia mentale è l’internamento, la totale presa in carico da parte degli alienisti di un soggetto che, allontanato dal suo contesto di provenienza sociale e familiare, è totalmente gestito dal corpo medico per essere assoggettato a un nuovo ritmo di vita. Si pensava che questa riorganizzazione favorisse il ripristino delle categorie spazio-temporali smarrite in seguito alla malattia. Questo paradigma non darà i frutti sperati e sarà solo un modo per difendere la società dai matti. Basaglia, che sovvertirà questo schema, dirà infatti «la libertà è terapeutica», la risposta alla malattia non è più l’internamento ma la pratica della libertà.

Resiste ancora lo stereotipo romantico del folle che traspare, soprattutto, nei testi letterari?

Non tanto. Certo è sempre attivo un codice che fa dell’artista una figura del disordine, dell’originalità imprevedibile. Ma nelle forme artistiche contemporanee, che con molti limiti cerco di frequentare, non vedo più quest’attitudine. Credo sia venuta meno la figura dell’artista dandy, stravagante, che conduce una vita irregolare.

Anche il binomio genio-follia è in declino?

Secondo me sì. Forse assistiamo a una produzione artistica che non è più circondata da un’aura di genialità ma da una fattività, cioè da una ritualità più prevedibile. Non è un lavoro certamente burocratizzato, ma non ha più quella retorica della ge-

nialità che aveva connotato i decenni e i secoli precedenti.

Un altro binomio è quello follia-pericolosità. Quanto è fondato e quanto è diffuso?

Diffuso tantissimo, proprio perché la psichiatria ha storicamente messo insieme i due ambiti. Dal momento che si teorizza che il folle è un incapace di intendere e di volere, incapace di contenere le proprie pulsioni passionali, la pericolosità emerge come logica conseguenza. Questo connubio è stato disastroso. Io penso, viceversa, che moltissimi crimini siano da attribuire ad altre contraddizioni sociali, non a un problema di sofferenza psichica. Questo binomio, comunque, ha avuto una pervasività veramente importante e per certi versi è stata persino destabilizzante perché non ha fatto vedere molti problemi. Troppi crimini sono

stati derubricati come frutto di malattie mentali, senza approfondire le contraddizioni sociali che ne stavano all’origine. Penso, per esempio, a tutta la complessa problematica del femminicidio. Sentiamo parlare di raptus, di follia, ma i responsabili di questi crimini non sono affatto folli, ma esponenti di un mix tra antichi ordini culturali patriarcali e nuove contraddizioni sociali.

La follia è curabile?

Non sono una psichiatra, penso però che l’internamento manicomiale non curava, anzi, che i manicomi amplificassero la malattia perché erano istituzioni tese alla costruzione della lungodegenza. E alla definizione del soggetto folle. Erano macchine che finivano con l’irrobustire la sofferenza, la cronicizzavano. Viceversa, tutte le persone che si trovano in situazioni di disagio devono esse-

re aiutate, accompagnate dai servizi territoriali, spronate a vivere in contesti di socialità. Conosco molti esempi di persone con patologie gravi che sono riuscite a recuperare moltissimo e a condurre vite assolutamente soddisfacenti.

Cosa pensa dell’uso dei farmaci?

Non lo stigmatizzo, possono aiutare molto chi soffre. Il problema è l’abuso di questi farmaci e soprattutto l’idea che lo squilibrio, la sofferenza psichica, sia soltanto una questione chimica, ereditaria o genetica. Penso che sia sempre possibile ritrovare degli equilibri, anche precari, se si alimenta la voglia di vivere in relazione con gli altri. Il punto è la relazione con altri; oggi drammaticamente negata in molti casi di sofferenza giovanile.

E della contenzione fisica? Quella mai: slegalo; slegalo subito.

I matti di oggi sono uguali ai matti di ieri?

Oggi siamo dinanzi a una società che sta erigendo muri di intolleranza verso varie forme di diversità. Le malattie mentali hanno una loro storia profonda che ci rinvia a contraddizioni interne alle società. Non sono convinta che la malattia, il disagio, la sofferenza, che pure esistono, siano sempre state le stesse. E non credo neppure che si tratti solo di nominare la malattia con etichette nosografiche diverse. Penso che la società, ogni società, abbia le proprie forme di disagio mentale.

Come è cambiata la follia?

In La storia della follia Michel Foucault individua un passaggio culturale e storico fondamentale, da una fase in cui l’umanesimo aveva portato a una ricerca sull’umanità e quindi sulle sue alterazioni, sulle sue diverse

Telemaco Signorini, La sala delle agitate al San Bonifazio in Firenze, 1865, olio su tela, 66x59, Venezia, Galleria d’arte moderna di Ca’ Pesaro. (Didier Descouens)
Carlo Silini

i matti di una volta

Echi di storia che ci racconta in che modo la follia si è modificata nei secoli

epifanie, a un ordine che si impone – dopo il Seicento – incentrato su una maggiore razionalizzazione e un sistema economico differente, meno interessato e tollerante nei confronti della ricerca umanistica. L’uomo appare qui assoggettato a un lavoro razionale, a un ordine a cui persino la Chiesa si adegua cominciando a controllare il sentimento religioso, dicendo che non bisognava eccedere nelle preghiere e vivere sì il proprio sentimento religioso in modo misurato. I valori dominanti diventano la razionalità, la dedizione al lavoro, l’operosità. Se per un verso si irrigidiscono i sistemi normativi, per un altro si alzano i muri dell’esclusione. Chi, per motivi diversi, non riusciva a obbedire a questi nuovi imperativi restava ai margini, chiuso nel suo disagio. L’Ottocento, quando questi processi sono più compiuti, conosce nuove contraddizioni.

Quali?

Da una parte si vuole dare più spazio alle soggettività, emerge il soggetto moderno che vuole avere dei diritti politici e la sua porzione di sovranità. Dall’altra ci sono più po-

teri, alcuni tradizionali, altri rinnovati: la Chiesa cattolica attraverso anche le sue figure vicine al tessuto sociale, penso ai parroci, e il nuovo Stato che impone una polizia più strutturata e un ordine giudiziario che costituisce ancora un altro potere. Da una parte c’è l’idea dell’affermazione individuale – con le rivendicazioni dei diritti – dall’altra i poteri statuali che impongono nuove obbedienze. Le civili libertà della società ottocentesca mostrano subito i propri limiti e le proprie contraddizioni.

E oggi?

Oggi vediamo dilagare lo stigma, l’umiliazione, l’oltraggio. Quello cui stiamo assistendo in questi giorni è raccapricciante. Non si è mai visto tanto disprezzo verso le persone in sofferenza e verso i ceti più poveri. Le società occidentali stanno cambiando velocemente e conoscendo forme di cattiveria e di disumanizzazione inaudita.

A che cosa si riferisce?

Citerei, fra i tanti possibili esempi, il famoso video generato anche dall’in-

Programma della seconda edizione del Festival

telligenza artificiale che mostra Trump, Netanyahu e Musk in una Gaza simile a una riviera turistica. Come è stato possibile pensare una tale aberrazione?

Un delirio di onnipotenza?

Sì, ma non una forma di follia. Tutto questo ha una sua razionalità diversa da quella a cui eravamo abituati. Oggi c’è un nuovo ordine basato sul dominio di capi assoluti che si avvalgono di gruppi di potere economico altrettanto potenti e che si credono liberi di perseguire qualsiasi obiettivo. Tutto questo ci restituisce un diverso ordine internazionale, una trasformazione culturale ed economica profonda. Ma non è follia, è una diversa partitura fondata sull’arbitrio assoluto dei potenti.

Dove e quando Vinzia Fiorino, Matti ai margini e margini di follia venerdì 11 aprile 2025, ore 16.30-18.00; Asilo Ciani Lugano.

Poveri cristi

Echi di storia – 2 ◆ Il 10 aprile Tomaso Montanari incontrerà il suo pubblico

Leonardo Marchetti*

Sarà Tomaso Montanari, storico dell’arte e Rettore dell’Università per stranieri di Siena, ad aprire l’edizione 2025 del Festival Echi di Storia, dedicata quest’anno al tema Margini. La sua lectio, in programma giovedì 10 aprile alle 20.30 all’Asilo Ciani, porta un titolo che è già una presa di posizione: Poveri cristi. Riflessioni sull’iconografia della povertà nella storia dell’arte moderna. Non una semplice rassegna di immagini, ma un’indagine sul potere dello sguardo e sui suoi limiti.

Chi ha deciso come rappresentare la miseria? Chi ha avuto accesso alla scena della storia e chi ne è rimasto fuori campo? E dove vanno a finire i poveri una volta usciti dal quadro?

Montanari ci invita a interrogare il nostro sguardo. Perché l’arte non è mai innocente. Ogni immagine è una decisione: su chi può essere visto, su come deve apparire, su quale emozione deve suscitare. È il pittore – o chi lo paga – a fissare i confini del visibile: ciò che si mostra e ciò che si occulta, ciò che si eleva a oggetto di compassione e ciò che si degrada a decoro dell’ordine costituito.

In questo senso, la storia dell’arte è anche una genealogia del potere. Uno sguardo che domina, organizza, normalizza. E che, talvolta, lascia filtrare la verità.

Giovedì 10 aprile 2025

• 17.00-18.00 Apertura ufficiale Marina Carobbio Guscetti, Consigliera di Stato, direttrice DECS Roberto Badaracco, vicesindaco di Lugano (Asilo Ciani) Premiazione dei migliori Lavori di maturità in storia (2024 – 2025)

• 18.00-18.30 Aperitivo d’apertura

• 18.30-19.30 Storie ai margini. Perché dobbiamo umanizzare la storia. Carlo Greppi dialoga con Enrico Bianda (RSI) (Asilo Ciani)

• 20.30-22.00 Poveri cristi: riflessioni sull’iconografia della povertà nella storia dell’arte moderna, Tomaso Montanari. Introduzione e moderazione di Leonardo Marchetti (Asilo Ciani)

Venerdì 11 aprile 2025

• 11.00-11.40 Presentazione dei migliori lavori di maturità in storia premiati dalla giuria (Asilo Ciani)

• 14.30-16.00 Segnati a vita: misure coercitive a scopo assistenziale e collocamenti extrafamiliari in Svizzera. Vanessa Bignasca dialoga con Francesca Mariani Arcobello (Asilo Ciani)

• 16.30-18.00 Matti ai margini e margini di follia, Vinzia Fiorino dialoga con Carlo Silini (Asilo Ciani)

• 18.00-19.30 Recludere e includere? Dal manicomio cantonale all’organizzazione socio-psichiatrica di Mendrisio, Graziano Martignoni e

Marco Nardone dialogano con Rosario Talarico (Asilo Ciani)

• 20.30-22.00 Proiezione documentario Un mare di Porti Lontani. Omaggio di verità per chi tende le mani ai naufraghi del Mediterraneo. Il regista Marco Daffra dialoga con Saffia Shaukat (Asilo Ciani). Introduzione di Francesca Tognina Moretti

Sabato 12 aprile 2025

• 9.30-11.00 Meritevoli, laboriosi, vergognosi. Le mille sfaccettature della povertà in età moderna Marina Garbellotti e Roberto Leggero dialogano con Marco Ostoni (Asilo Ciani)

• 11.00-12.30 Il secolo della diseguaglianza: globalizzazione, finanza, migrazioni. Giovanni Gozzini e Jakob Tanner dialogano con Paolo Bernasconi (Asilo Ciani)

• 14.30-16.00 L’immaginario occidentale. Genesi dei mostri femminili tra Antichità ed Età moderna Angela Giallongo dialoga con Simona Sala (Asilo Ciani)

• 16.30-18.00 I «margini» della democrazia americana tra eredità storica e sfide del presente. Raffaella Baritono dialoga con Emiliano Bos (RSI) (Asilo Ciani)

• 18.00-19.30 L’Africa senza margini: un pellegrinaggio medievale François-Xavier Fauvelle dialoga con Marco Aime (Asilo Ciani)

• 20.30-22.00 Tra Africa ed Europa.

L’eredità della Storia nella storia di un uomo. Pap Khouma dialoga con Massimo Chiaruttini

Domenica 13 aprile 2025

• 9.30-11.30 Attività ludico-didattica per bambine e bambini a cura di Paola Reggiani (Asilo Ciani). Evento su iscrizione

• 9.30-11.00 Queer News: sessualità, comunicazione e linguaggio della diversità. Elena Pepponi e Sara Poma dialogano con Stefano Vassere (Biblioteca cantonale di Lugano-BCL)

• 11.00-12.30 Margini e nuove realtà territoriali. Monique Bosco von Allmen, Mosé Cometta e Nicola Navone dialogano con Raffaele Scolari (BCL)

• 14.30-16.00 La Svizzera tra costruzione e crisi del multilateralismo Quale margine di manovra per la neutralità elvetica? Sacha Zala e Maurizio Binaghi dialogano con Verio Pini (Asilo Ciani)

• 16.00-17.30 Casanova e gli avventurieri, vivere ai margini della società settecentesca , Alessandro Marzo Magno. Introduzione e moderazione di Tiziano Moretti (Asilo Ciani)

• 17.30-19.00 Margini in movimento: Oriente e Occidente tra costruzione e dissoluzione. Alessandro Vanoli dialoga con Daniele Bollini (Asilo Ciani)

• 19.00-20.00 Aperitivo di chiusura

stato tra i primi a rompere la catena che univa la funzione del quadro al suo valore estetico. La sua arte non serve nessuno e proprio per questo parla a tutti. La povertà, nella sua pittura, non è ornamento, ma detonatore di senso. È materia viva che interpella, che ferisce, che ci costringe a guardarci allo specchio.

E allora, cosa guardiamo davvero quando guardiamo un «povero cristo»? Vediamo la sofferenza o la bellezza? Vediamo un grido o una posa? Vediamo un’ingiustizia o un destino? Sono domande cruciali, soprattutto oggi, in un’epoca in cui la povertà torna a essere spettacolarizzata, esibita sui media, manipolata nel discorso politico. Montanari ci invita a tornare alle immagini per tornare a noi stessi: perché il modo in cui rappresentiamo la povertà dice molto del nostro rapporto con il potere, la giustizia, l’umano.

A guidarci in questo itinerario visivo è la figura del «povero cristo», non solo emblema cristiano ma anche incarnazione collettiva della miseria, della fragilità, della marginalità sociale. Dal Seicento in poi, l’arte si è confrontata con la povertà oscillando tra compassione e decoro, tra denuncia e retorica. Caravaggio, in questo, ha rappresentato uno spartiacque. Nato a Milano nel 1571, cresciuto artisticamente nell’ambiente lombardo influenzato dal naturalismo veneto e dalla pittura dei Paesi Bassi, Caravaggio ha radicalizzato la verità dell’immagine, dando corpo e dignità agli ultimi.

Nei suoi quadri, i poveri non sono solo soggetti, ma presenze reali. Sono mendicanti, pellegrini, prostitute, sono i garzoni del suo tempo. Sono persone vere, colte nella luce radente di un Dio che irrompe nella storia non per premiare i giusti, ma per illuminare gli umili. La Madonna dei Pellegrini (1604-1605), nella cappella Cavalletti a Roma, ne è esempio lampante: una prostituta in carne e ossa, Lena, ritratta come Vergine Maria, accoglie due fedeli logorati dalla strada. Scandalo e rivelazione insieme. Non c’è idealizzazione, non c’è gerarchia tra sacro e profano. C’è solo verità, nuda e scandalosa. Caravaggio, scrive Montanari, è

Guardare queste immagini, oggi, è un atto politico e morale. È chiedersi se l’arte abbia dato voce ai poveri o se li abbia traditi. Se abbia saputo mostrare il loro dolore o se lo abbia solo abbellito. È, infine, decidere se vogliamo continuare a usare la povertà come simbolo o se siamo pronti a riconoscerla come esperienza, come biografia, come verità. È in questa linea che si inserisce Gustave Courbet, pittore francese dell’Ottocento che, come Caravaggio, rifiutò la pittura di convenzione. Nel suo Funerale a Ornans, la morte di un uomo qualunque – un contadino – viene rappresentata con la monumentalità che un tempo spettava ai re. I suoi personaggi non sono idealizzati, non sono nemmeno belli: sono reali, opachi, duri. La povertà non è più decorazione, ma condizione condivisa, scandita dai corpi, dai gesti, dai silenzi. Courbet, come Caravaggio, non fa prediche. Non giudica. Mostra. Mostra ciò che non si vuole vedere. Mostra ciò che non sta bene nei salotti borghesi. La povertà, nel suo caso, non è più soggetto sacro ma soggetto politico. Non più l’eccezione commovente, ma la norma disturbante. Una pittura, quella caravaggesca – e in parte quella courbettiana – che non consola ma provoca. Che non illustra ma interroga. Che non salva, forse, ma risveglia perché, alla fine, il povero cristo siamo noi. (*coordinatore Echi di storia)

Dove e quando

Tomaso Montanari, Poveri cristi: riflessioni sull’iconografia della povertà nella storia dell’arte moderna, giovedì 10 aprile 2025, ore 20.30; Asilo Ciani Lugano.

Dorothea Lange, Migrant Mother, 1936. (Wikipedia)

Serrani

Serena

Dodici giurate per un destino

Teatro ◆ L’epica di un dramma settecentesco, riletto come atto di denuncia contro la violenza di genere

Elisabeth Sassi

È un omaggio al teatro di prosa nella sua accezione più alta e presto sarà messo in scena al Lac di Lugano (settimana prossima), e al Kursaal di Locarno, in autunno. Parliamo de L’Empireo, ovvero della versione italiana dell’opera The Welkin di Lucy Kirkwood, tradotta dalla dramaturg (consulente drammaturgica) Monica Capuani e portata in scena dalla regista Serena Sinigaglia, condirettrice artistica del Teatro Carcano di Milano, che ha sostenuto la produzione in collaborazione con il Teatro Nazionale di Genova, il Teatro Stabile di Bolzano, il LAC – Lugano Arte Cultura e il Teatro Bellini di Napoli. La regia di Serena Sinigaglia svela un’opera che parla di coraggio, violenza e solidarietà, in un’atmosfera solenne che evoca la tragedia greca

Presentato nel 2020 al National Theatre di Londra, l’allestimento originale, diretto da Sarah Benson, si distingueva per una scenografia visivamente ricca firmata da Bunny Christie. La regista italiana ha scelto invece un approccio opposto, proponendo una rilettura essenziale. Debuttato nel gennaio 2025 al Teatro Carcano, dopo un primo reading nel 2023, l’Empireo si caratterizza per un allestimento scarno: uno spazio in penombra, quattordici sedie, le attrici con i copioni in mano e le didascalie lette in scena. Un impianto

che richiama la solennità della tragedia greca, in linea con la poetica di Sinigaglia, la quale predilige un teatro capace di restituire valori universali richiamando il rito pubblico, proprio come quando il teatro classico veniva scritto per la polis.

L’opera, un dramma storico, si potrebbe leggere come una svolta femminista de La parola ai giurati (Twelve Angry Men) di Reginald Rose. Ambientata in un’Inghilterra marginale di un Settecento rurale, denuncia la violenza fondata sul genere perpetuata nella storia. Protagonista è Sally Poppy (Viola Marietti), condannata con il suo amante per un brutale infanticidio. Sally, per evitare l’impiccagione, sostiene di essere incinta. Il giudice convoca così una giuria di dodici donne per stabilire la veridicità della sua dichiarazione e decidere se commutare la pena in deportazione.

A guidare il confronto è Elizabeth (Arianna Scommegna), levatrice del villaggio, che richiama le giurate all’importanza di quel verdetto, capace di segnare un precedente per il futuro che le vede tutte in pericolo. Questo concetto dà avvio a un dibattito che diventa progressivamente più acceso: ciascuna donna racconta la propria esperienza, rivelando ferite, convinzioni, dissidi interiori. Tuttavia, l’unanimità necessaria tarda ad arrivare. Quando le grida del popolo si fanno sempre più insistenti all’esterno, reclamando la condanna, nella stanza avviene l’imprevedibile, che non riveleremo.

Un testo dal respiro quasi cinema-

20% di riduzione sull’intero assortimento* con il codice: 7896

tografico che richiederebbe una messa in scena realistica, spiega Sinigaglia. Ma la sua forza, aggiunge, «sta nei temi, nella recitazione, quindi nel corpo delle attrici, nel coro». Monica Capuani, grazie alla quale il testo di Kirkwood è arrivato in Italia, sottolinea che «nel teatro maschile il corpo è bandito, censurato, mentre le drammaturghe contemporanee lo mettono al centro. Le donne, con il corpo, hanno un rapporto diverso. Gli uomini nella cultura lo rimuovono, è tutta testa; le donne, invece, lo riportano dentro, soprattutto nel teatro, che è corpo». La messinscena diventa un’orazione civile, una commemorazione di tutte le vittime di violenza di genere. «Il teatro – afferma Sinigaglia –diventa una chiesa laica, e il copione in scena, un libro di preghiere».

La traduzione conserva la crudezza e la complessità del testo originale, mentre la regia ne valorizza l’impianto epico. Quella che potrebbe apparire come una scelta di eccessiva stilizzazione si rivela invece un modo per approfondire i temi dell’opera, evidenziandone la portata universale. Un’operazione che, pur rinunciando a un’immediatezza emotiva, amplifica il valore politico e simbolico di un testo tra i più incisivi del teatro contemporaneo.

Dove e quando

L’Empireo (The Welkin), nella traduzione di Monica Capuani per la regia di Serena Sinigaglia, Lac Lugano: 15-16 aprile 2025. www.luganolac.ch

Fortissime passioni

Editoria ◆ Una biografia in cinque tomi per Lorenzo Da Ponte a opera di Lorenzo Della Chà

Giovanni Gavazzeni

Chi nel 2010 aveva letto la splendida biografia di Lorenzo Della Chà, Lorenzo da Ponte – Una vita fra musica e letteratura 1749-1838, pubblicata presso Il Polifilo, pensava di aver trovato la narrazione definitiva sul maggior ingegno che la lingua italiana ha dato alla poesia per musica, e non sono pochi i poeti che si sono distinti nel melodramma, da Rinuccini a Metastasio, da Goldoni a Jacopo Ferretti, da Francesco Maria Piave ad Arrigo Boito. Ora lo stesso studioso ha varato presso le Edizioni di Storia e Letteratura i primi due volumi (La giovinezza 1749-1792 e Alla corte di Giuseppe II 1781-1792) di una progettata cinquina dedicata a «Lorenzo da Ponte e al suo tempo». Si tratta di un’estensione arricchita della monografia: ogni tappa biografica è preceduta, seguita e accompagnata da una formidabile messe di informazioni storico-letterarie, a partire dalla formazione del giovane letterato a Cèneda (oggi Vittorio Veneto), dove il futuro abate nacque nell’umile famiglia ebraica dei Conegliano con il nome di Emmanuel, mutato poi in Lorenzo Da Ponte in omaggio al vescovo protettore e patrocinatore della sua conversione al cattolicesimo. Informazioni che rivelano come una poesia d’occasione, un sonetto amatorio, un libello satirico, un libretto operistico, nascano in un reticolo storico vitalissimo e determinante, non solo nelle terre della Serenissima Repubblica, ma nelle corti di tutta Europa dove l’italiano è la lingua della poesia per musica.

Il destino altalenante di Da Ponte con le sue fortune e le sue cadute è legato alla sua professione di poeta al servizio dei protettori di turno. La parola gli garantisce lavoro o ne fomenta la disgrazia, comunque è sempre decisiva nel guadagnarsi il favore o il dispetto delle influenti famiglie venete di terraferma (Treviso e Gorizia) e di Venezia. Ancor di più quando il poeta diventa un ingranaggio nel gioco delle alleanze, della guerra e della pace, ordito dai monarchi cosiddetti illuminati, tutti colti e musicofili, Caterina di Russia, Federico il Grande e Giuseppe II. Anche l’autocrate riformatore si serve della forza delle parole di una lingua che suscita alterchi e tenzoni poetiche, encomi solenni e campagne diffamatorie, intersecando intrighi spionistici, pettegolezzi privati e pubbliche vendette. Lingua quasi sempre generatrice di odii implacabili che inseguono lo sventurato Da Ponte, il quale, abbandonato dalla protezione altolocata, deve fuggire, spesso a causa di intemperanze amatorie, come sempre tollerate nella classe dirigente, moralizzate per gli altri.

Così Lorenzo Da Ponte dovrà lasciare ben presto l’amatissima culla veneziana per cercar fortuna nella capitale imperial-regia, Vienna, la città dove è ancora Poeta Cesareo Metastasio e l’opera ha parlato l’italiano splendido della Riforma del Cavalier Gluck e di Ranieri de’ Calzabigi, e dove darà vita alla celebre Trilogia per il genio di Mozart, Le Nozze di Figaro, Don Giovanni e Così fan tutte Le parole di Della Chà non sono quelle di un erudito che squaderna sapere, ma quelle di un narratore che prende per mano il lettore e segue l’intelligenza incredibile di un grande uomo di lettere che incrocia i talenti e il genio del suo tempo: che fascino gli incroci con Casanova e con l’acido sparso dall’ingegno dell’abate Casti. Uno sceneggiatore con un po’ di estro ne potrebbe ricavare un’appassionante serie a puntate, dove l’incontro fra Da Ponte e Mozart non sarebbe casuale, un caso fortuito di nozze artistiche, ma uno degli innumerevoli frutti di un «tempo» di passioni fortissime in cui la politica protegge le arti che ne determinano immortali metafore teatrali e musicali.

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Lorenzo Da Ponte, incisione di Michele Pekenino (ca. 1820) da Nathaniel Rogers. (Wikimedia)

GUSTO

Deco Pasqua

Pasqua con stile

Pasqua è la prima grande festività dell’anno nel nostro calendario. Ora la primavera va servita anche in tavola, con le ricette giuste e decorazioni che inteneriscono. Ecco come fare.

1

Potpourri di candele

Mischia candele lunghe e sottili con candele spesse e corte. Puoi usare anche le candele di Natale già parzialmente bruciate o le candeline scaldavivande in graziosi vasetti di vetro. Così facendo avrai fiammelle di altezze diverse.

2 Verdure anziché fiori

Invece di tagliare le verdure a bastoncini per il dip, porta in tavola carote, piccoli cetrioli e gambi di sedano interi, ma non su un piatto da portata bensì in un vaso o in un bicchiere.

Candele cilindriche verdi o rosa, set da Fr. 5.95

Consiglio per decorare

Pane

tostato agli

asparagi con formaggio molle

Aperitivo, per circa 12 pezzi

300 g di asparagi verdi sottili

Sale Pepe dal macinino

180 g di pane Twister rustico cotto su pietra

4 cucchiai di pesto di pomodori 250 g di formaggio molle

1. Pelare il terzo inferiore degli asparagi e tagliare le estremità.

2. Cuocere gli asparagi in poca acqua salata per circa 4 minuti finché risultano appena morbidi. Passarli sotto l’acqua fredda e lasciarli scolare su della carta da cucina. Dimezzarli.

3. Preriscaldare il forno a 180 °C con calore superiore e inferiore. Tagliare il pane a fette spesse 1 cm. Spalmare del pesto sulle fette di pane. Accomodarle su una teglia foderata con carta da forno. Cuocerle per circa 3 minuti in forno.

4. Guarnire le fette di pane con gli asparagi. Affettare il formaggio e distribuirlo sul pane. Condire con il pepe.

5. Gratinare brevemente i crostini nel forno per 2-3 minuti finché il formaggio comincia a fondersi.

Insalata primaverile con crumble di formaggio

Guarnisci le foglie d’insalata con crumble di formaggio, semi di zucca e pane e impreziosiscile con ravanelli e rabarbaro. Un bell’antipasto di primavera.

Tovagliolo a fiocco

Piegare un tovagliolo quadrato formando una striscia larga circa 4-6 cm. Ripiegare in diagonale le estremità al centro. Legare il tovagliolo con un nastro, ad es. di raso.

Saint-Félicien Sélection Il Saint-Félicien è un formaggio francese cremoso a crosta fiorita. 180 g Fr. 5.92 invece di 7.40

Azione: 20% su tutto l’assortimento Sélection, fino al 14.04.2025 20%

Ricetta

Ravioli ai ravanelli

Piatto principale per 4 persone

2 mazzetti di ravanelli con delle belle foglie

250 g di formaggio fresco alle erbe

4 cucchiai di olio d’oliva

Sfoglia di pasta fresca

320 g di farina bianca

3 uova

1 cucchiaio di olio d’oliva

Sale

Nastro per pacchi regalo 6 m Fr. 3.95

Farina per spianare la pasta

1. Per la pasta, disporre la farina a fontana sul piano di lavoro. Aggiungere le uova, l’olio e un pizzico di sale. Impastare bene per circa 5 minuti finché si ottiene una pasta liscia ed elastica. Avvolgere la pasta nella pellicola trasparente e lasciarla riposare per circa 1 ora.

2. Staccare le foglie dai ravanelli e metterle da parte. Tagliare la metà dei ravanelli a dadini. Mischiarli con il formaggio fresco.

3. Stendere la pasta a uno spessore di circa 1 mm sul piano di lavoro infarinato. Tagliarla in rettangoli di circa 7 × 12 cm.

4. Mettere 1 cucchiaino di ripieno sulla metà inferiore di ogni rettangolo. Spennellare leggermente i bordi con dell’acqua. Ripiegare i rettangoli di pasta al centro, premendo bene i bordi. Adagiare i ravioli su un panno infarinato.

5. Poco prima di servire, lavare le foglie dei ravanelli e spezzettarle leggermente con le mani. Tagliare i ravanelli restanti a rondelle. Stufarli brevemente in una padella antiaderente ampia con dell’olio d’oliva. Togliere la padella dal fuoco.

6. Cuocere i ravioli pochi per volta in abbondante acqua salata per 3-4 minuti. Scolarli con una schiumarola. Aggiungerli ai ravanelli, rimestarli con cura e servirli con le foglie di ravanelli.

Ricetta
Consiglio per decorare

Lombatina di agnello Sélection

100 g Fr. 5.55 invece di 6.95

Azione: 20% su tutto l’assortimento Sélection, fino al 14.04.2025

GUSTO

e menta

Torta di carote al cioccolato

Questa torta classica viene cotta nel forno, poi spalmata di gelatina di ribes e ricoperta di cioccolato fuso. Gli ovetti servono a darle un simpatico tocco finale.

Lombatina d’agnello in crosta di pinoli
Piena ricchezza di gusto: succulenta lombatina di agnello al forno in crosta di pinoli e menta, servita con fondo saporito al pepe.
Tagliatelle Tradition Terrasuisse 500 g Fr. 4.55
Ovetti Frey Giandor al latte 480 g Fr. 9.95
Consiglio per decorare
Contorno ideale

TEMPO LIBERO

Voci, sguardi e profumi sulla Via dei Re

I profumi dell’oud, le antiche statuette di Ain Ghazal e le piste del Wadi Rum tra i ricordi di un viaggio dei sensi alla scoperta di una Giordania oltre i cliché turistici

Lavagnette pasquali in cartone e feltro

Un progetto creativo, facile e divertente, per realizzare con i bambini simpatiche tavole da disegno a forma di animali, perfette per i picnic primaverili

La Svizzera si apre alla boccia paralimpica

Altri campioni ◆ Lo specialista in sport adattato Damiano Zemp racconta l’avvio di un progetto sportivo su scala nazionale

Quando si parla di boccia, l’immaginario collettivo si riempie di ricordi di bocciodromi all’aperto, sfide accese tra amici e una tradizione radicata nella cultura ticinese. Ma oltre a questa versione classica e alla sua declinazione per atleti con disabilità intellettiva – già protagonista agli Special Olympics – esiste un’altra forma di boccia, ancora poco conosciuta in Svizzera: la boccia paralimpica.

A portare avanti la diffusione di questo sport nel nostro Paese è Damiano Zemp, PhD in Scienze Motorie e specialista in sport adattato. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare la sua esperienza e le prospettive di sviluppo di questa disciplina.

Sin dal primo incontro con la boccia paralimpica, Damiano Zemp ha trasformato la sua passione in impegno concreto

«Nel 2019 sono entrato nel comitato del Gruppo Paraplegici Ticino e ho anche iniziato a partecipare a eventi organizzati dall’Associazione svizzera dei paraplegici (Asp), ricoprendo diversi ruoli: da volontario ad autista, fino a monitore e formatore in occasione di eventi sportivi. Durante un campo organizzato al Centro Sportivo di Tenero (Move on) ho scoperto la boccia paralimpica e me ne sono subito appassionato», racconta Zemp. Da quel momento, il suo impegno non si è mai fermato. A fine 2024, l’Asp ha deciso di rilanciare alcuni sport, tra cui la boccia paralimpica, e ha affidato a Zemp il compito di coordinarne lo sviluppo su scala nazionale. Il progetto denominato «Rivitalizzazione Boccia paralimpica», patrocinato dall’Asp attraverso un fondo di Swiss Olympic, prevede cinque giornate di promozione in diverse località della Svizzera, tra cui anche a Chiasso, dove a fine primavera si terrà un evento dedicato.

Per garantire una crescita solida del movimento, Zemp ha stabilito un contatto con Maurizio Dalle Fratte, allenatore della Nazionale Svizzera femminile di bocce normodotati e membro del Comitato centrale della Federazione svizzera di bocce. Grazie a questo collegamento, ha avuto l’opportunità di formarsi come istruttore tecnico paralimpico presso la Federazione italiana bocce, che si è mostrata disponibile a supportare il progetto elvetico.

Un gioco per pochi, ma aperto a tutti

La boccia paralimpica ufficiale è riservata ad atleti con disabilità motorie severe che coinvolgono tutti e

quattro gli arti e il tronco, come tetraplegia, spasticità o amputazioni multiple. Gli atleti sono suddivisi in quattro categorie (BC1, BC2, BC3 e BC4), in base al livello di autonomia e alla necessità di assistenza. Tuttavia, a livello amatoriale, il gioco si apre a un pubblico più ampio, permettendo anche a persone senza disabilità di partecipare.

«Il nostro obiettivo è far crescere la boccia paralimpica in Svizzera, par-

tendo proprio dalla base, creando occasioni di gioco e allenamento accessibili a tutti», spiega Zemp.

A differenza della boccia tradizionale, che si gioca nei bocciodromi, la versione paralimpica si svolge in palestra su un campo di 12,5 x 6 metri. Ogni atleta ha un’area di lancio di 1 metro per 2,5 metri, e non può oltrepassare le linee con la carrozzina o la rampa. Le competizioni possono essere singole, a coppie o a squadre, con regole che garantiscono equilibrio fra i team.

Le bocce utilizzate sono più morbide rispetto a quelle tradizionali: rivestite in pelle e riempite con microsfere di plastica, sono progettate per adattarsi meglio alle esigenze degli atleti. L’obiettivo è semplice: posizionare il maggior numero di bocce vicino al jack, la boccia bianca che funge da punto di riferimento.

Un elemento distintivo della boccia paralimpica è la categoria BC3, in cui gli atleti utilizzano una rampa per il lancio, con l’aiuto di un assistente che, per regolamento, non può comunicare con il giocatore durante

la partita. L’assistente, su indicazioni dell’atleta, posiziona la boccia sulla rampa. Successivamente l’atleta lancia la boccia dandole l’impulso con una bacchetta, che può essere tenuta in mano, in bocca o sulla testa.

Il panorama internazionale

Nel mondo, la boccia paralimpica è dominata dai Paesi del Sud-Est asiatico come Hong Kong e Corea del Sud. In Asia, infatti, sono finite 22 delle 33 medaglie in palio alle Paralimpiadi di Parigi 2024. In Europa, il principale protagonista è il britannico David Smith, considerato una leggenda di questo sport, con un team di allenatori, terapisti e analisti che lo supportano in un programma di allenamento intensivo: cinque giorni a settimana, sei ore al giorno. La boccia paralimpica ha fatto il suo debutto ai Giochi di New York 1984, mentre in Italia è stata introdotta a livello regionale solo nel 1992, per poi essere riconosciuta ufficialmente dal Comitato italiano paralimpico nel

2012. La nazionale italiana ha partecipato al suo primo Mondiale nel 2018, ma non ha ancora conquistato una medaglia mondiale, né ottenuto la qualificazione paralimpica.

Tra gli obiettivi, si vuole sensibilizzare e coinvolgere il pubblico, creando occasioni di allenamento accessibili a tutti

E la Svizzera? Al momento, siamo ancora in fase di sviluppo, ma il lavoro di Zemp e del suo team potrebbe presto dare i suoi frutti. Il sogno? Vedere, tra pochi anni, atleti ticinesi pronti a gareggiare alle prossime Paralimpiadi.

La strada è lunga, ma il primo passo è stato fatto. Ora tocca agli appassionati e agli atleti cogliere questa opportunità e contribuire alla crescita della boccia paralimpica nel nostro Paese. Chissà, magari tra qualche anno potremo tifare per un campione svizzero sul palcoscenico internazionale.

Atlete e atleti paraplegici che giocano a bocce; sotto, Damiano Zemp, PhD in Scienze Motorie e specialista in sport adattato.
Davide Bogiani
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Le offerte top di primavera

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I profumi, i suoni e le ombre della Giordania

Reportage

Per il filosofo inglese John Locke l’esperienza è «il fondamento di tutte le nostre conoscenze». In altre parole, la nostra mente mette in relazione i dati sensibili, come ciò che vediamo o udiamo, i profumi e i sapori che sentiamo, il caldo e il freddo che proviamo, con gli oggetti che ci stanno intorno, diciamo con la realtà: in questo modo ci costruiamo idee del mondo. Insomma, ci interroghiamo continuamente, a partire dalle nostre percezioni e sensazioni e interpretiamo ciò che ci circonda, imparando cose nuove, accumulando conoscenze. È anche la bellezza del viaggio, poiché quando siamo lontani dalle nostre abitudini e dalle percezioni usuali, siamo più attenti, più accesi, ci facciamo domande, cerchiamo di interpretare, di comprendere, insomma scopriamo il mondo.

I viaggi attraverso i sensi portano lungo una mappa che non è data una volta per tutte, ma che si disegna e si riscrive continuamente

Proprio per questo motivo i cliché del linguaggio da promozione turistica spesso appaiono noiosi e sviliscono la vera esperienza di viaggio, perché inducono a pensare per schemi sempre uguali e, in fondo, zittiscono le nostre vere percezioni: pensiamo al Vicino Oriente, spesso raccontato per i profumi delle spezie, i colori dei tessuti, i sapori della cucina, i suoni e le danze tradizionali… sono tutte cose – anche se fossero vere – che ci suggeriscono cosa pensare, cosa sentire. Se invece proviamo a concentrarci su noi stessi, per esempio in un viaggio on the road in Giordania, magari i nostri cinque sensi ci portano altrove. E allora i profumi non sono solo quelli delle spezie o della menta nel tè onnipresente (una trattativa commerciale, sia per una compravendita di una casa, sia per una sciarpa, non si comincia senza un tè sul tavolo), ma sono quelli in vendita nelle profumerie: essenze mediorientali che da un mercato di nicchia sono oggi diventate fra le più richieste al mondo; vengono dall’Arabia Saudita, dallo Yemen, dall’Oman, dagli Emirati Arabi. Sen-

za arrivare alla celebre boccetta d’oro con diamanti e topazi da più di un milione di dollari (e in effetti non la si trova nel souk di Amman) basta dare un’occhiata al duty free dell’aeroporto (per quelli bastano poche centinaia di dollari), o alle profumerie della capitale (dove te la cavi con una decina di dinari, circa 12 franchi), per capire che questa è una nuova, grande moda globale, che i turisti non si fanno sfuggire: oud, musk, rosa, legno, zafferano, fragranze più intense e potenti rispetto a quelle occidentali, oleose e con meno alcol. Insomma si sentono, a ogni angolo di via, a ogni passaggio di persone. E se ne vedranno sempre di più anche sugli scaffali europei.

La vista poi, non è solo quella dei tramonti sul Mar Morto – che famiglie e gruppi di amici a bordo strada, con sedie, brandine e tavoli da pic-nic ammirano al venerdì, cucinando carne alla brace – la vista è anche quella

delle statuette neolitiche di Ain Ghazal, forse le più antiche rappresentazioni antropomorfe del pianeta, che con i loro occhi bianchi e neri ci fissano interrogative, da almeno ottomila anni. Occhi enormi, aperti, attenti, forse troppo poco ammirati, in quella teca old style del museo della Cittadella di Amman.

Intanto, leggermente fuori sincrono, partono tutti i muezzin della città con il richiamo alla preghiera, ma non è questo l’unico suono della Giordania: a un centinaio di chilometri a Est della capitale, sono gli F104 che decollano dalla base militare di Azraq a tuonare nei cieli, di certo non con il plauso di orici, struzzi e onagri che vivono nella riserva naturale vicina, sorta dove c’era la grande oasi alle porte del deserto. Da lì parte la strada dei castelli, oltre a quello di Azraq – teatro delle gesta di Lawrence d’Arabia, che appoggiò le rivolte contro gli Ottoma-

ni – c’è Amra, con i suoi affreschi osé, e l’imponente Qasr al-Kharana, fino a giungere alla città di Madaba, dove inizia la Via dei Re, che porta fino al sud del Paese.

Una strada spettacolare, che si solleva sui fianchi delle montagne, per poi precipitare a fondo valle, in un deserto alternato a rivoli e piccoli bacini, c’è una diga, un posto di polizia, qualche bar a strapiombo sull’infinito, fino a giungere al Wadi Rum, il deserto che ti sferza con il suo vento rosso come la sabbia, tra distese piatte, dune, rocce e arbusti rasoterra. Dire che sembra Marte è perfino banale, dopo che Ridley Scott ha raccontato di non aver fatto altro che un po’ di correzione verso il giallo alla pellicola, perché il resto era già tutto lì, un set perfetto per il suo The Martian Ma quelle rocce nascondono iscrizioni antiche, grotte, tende beduine e naturalmente piccoli negozi e cammelli

da trekking per i turisti, che qui si aggirano a bordo di 4x4 guidati da beduini adolescenti, padroni di queste piste fra le dune.

Quel vento, che ti tocca in continuazione, ha disegnato questo deserto e proseguirà la sua opera, sminuzzando ogni montagna e trasformandola in sabbia, lo stesso vento che ha levigato le stupefacenti facciate delle tombe di Petra, che spazza le spiagge del Mar Rosso, di fronte a Israele e all’Egitto, che spettina il pelo dei gatti giordani, compagni di viaggio costanti e sinuosi, fra le rovine dei siti archeologici, nei vicoli delle città, nei lounge degli alberghi più alla mano.

E infine i sapori, ma non quelli dello hummus o del moutabel, la salsa di melanzane leggermente affumicata, che pure non possono mai mancare sulle tavole dei ristoranti, ma il sapore della shisha, come viene chiamato il narghilè dai giordani: mela, fragola, limone e menta, Candy, praticamente come le caramelle dei bambini, ma immerse nel tabacco. Il fumo bianco e freddo che inonda dolciastro le verande dei locali, il rumore di bolle d’acqua a ogni tiro, donne e uomini che ridono, cantano, chiacchierano, i camerieri che periodicamente passano a ricaricare i carboni e a soffiare via dal filtro la cenere. Una danza di mani, occhi, volute di fumo, odori che si mescolano, in un rito collettivo che unisce una fetta di mondo, da qui fino all’India. Il viaggio è guardarsi attorno e fare nostro il mondo, semplicemente. Aveva ragione John Locke.

Informazioni

Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.

In senso orario: il deserto Wadi Rum; il Mar Morto; l’interno di una tenda beduina.

Animali pasquali e lavagne per piccoli artisti

Crea con noi ◆ Un progetto divertente per realizzare tavole da disegno ispirate ad agnelli, pulcini e conigli

Le vacanze pasquali sono un momento perfetto per dedicarsi a progetti creativi con i bambini, utilizzando materiali semplici e di recupero. In questo tutorial realizzeremo delle lavagnette per disegnare con i gessetti, ispirate agli animali della Pasqua: un agnello, un pulcino e un coniglio. La base sarà in cartone riciclato, con dettagli in feltro per renderle più simpatiche e colorate. Potrete realizzarle insieme ai bambini e saranno perfette anche da portare in trasferta, magari durante i primi picnic primaverili.

Procedimento per tutte e 3 le lavagne

Preparate la base

Dal cartone riciclato, ritagliate un rettangolo da 21x30 cm che sarà la base della lavagna.

Creare la testa dell’animale

Scegliete il modello dell’animale preferito (agnello, pulcino o coniglio) e ritagliate la sagoma della testa dal cartamodello. Riportate con una matita la sagoma sul cartone e ritagliatela con cura.

Con gli acquerelli, dipingete la testa per darle un tocco di colore. Lasciatela asciugare.

Giochi e passatempi

Cruciverba

Questa radice commestibile, ha proprietà antinfiammatorie, protegge il sistema immunitario, il fegato e il sistema nervoso. Per sapere come si chiama e di dove è originaria, risolvi il cruciverba e leggi le lettere evidenziate.

(Frase: 7 – 3, 3, 7)

ORIZZONTALI

1. Strumento a percussione

7. Le iniziali della conduttrice D’Amico

8. Un fiasco!

9. Si alterna al tic

11. Il nome della poetessa Negri

12. Rischio, azzardo

14. Trasformano i mesti in molesti

15. Si può «dire» senza aprir bocca

16. Le iniziali dell’attrice Sastri

18. Profugo

23. Può sposarla anche chi è già sposato

25. Spesso involucro del nucleo terrestre

26. Un milionesimo di tonnellata

28. Ordiva trame nell’Olimpo

29. Vanno in cerca di alibi

30. Era sacro agli egizi

32. Nel treno le divide il re

33. La più famosa è Bianca

34. La famosa Newton-John

VERTICALI

1. Un satellite di Saturno

2. Il beniamino della folla

3. Le iniziali dell’attore Favino

4. Non cambia letta al contrario

5. Lo si stringe tirando

6. Pietra ornamentale

10. Le separa la «d»

13. La conduttrice D’Eusanio

17. Li avvolge il pericarpo

19. Le iniziali dell’attore Orlando

20. Si «adopera»... in America

21. Appezzamenti di terreno

22. Nome femminile

23. Un fiore violetto

24. Si grida a tombola

26. Divinità greca della Terra

27. Lubrificante americano

29. Nel tronco e nella radice

Ritagliate dal cartone due strisce da 20x1 cm e due da 16x1 cm, che serviranno per la cornice della lavagna. Coloratele a piacere e lasciatele asciugare.

Creare la superficie scrivibile

Dall’adesivo lavagna ritagliate un rettangolo da 21x15 cm. Incollatelo sulla base di cartone posizionandolo a 3 cm dal fondo e centrato rispetto ai lati. Usate le strisce preparate in precedenza per creare una piccola cornice attorno alla lavagna fissandole con la colla a caldo. Se necessario rifinite le lunghezze. Incollate la testa dell’animale alla base, facendola sormontare di 3-4 cm. Dal cartamodello ritagliate i dettagli (interno orecchie, muso, becco,…) e riportateli sul feltro seguendo le indicazioni. Fissateli tutti con cura, aggiungete gli occhietti mobili per un effetto più simpatico e con un cordino nero, se state creando il coniglio, realizzate i baffi. Personalizzate a piacere.

Dettagli finali

Dai panni spugna multiuso, ritagliate dei rettangoli o sagome divertenti (come fiori o nuvolette).

Questi serviranno ai bambini per cancellare la lavagna. Potreste aggiungere al set un piccolo spruzzino per avere sempre dell’acqua a disposizione.

La lavagnetta è pronta! Ora non resta che consegnare i gessetti ai

Materiale

• Cartone riciclato (ritagli di scatole)

• L avagna adesiva 21x15cm

• Resti di feltro bianco, giallo, rosso, marrone, arancione, nero, rosa

• Occhietti mobili

• Colla a caldo o colla vinilica

• Forbici

• Matita

• Righello

• Gessetti colorati

• Panni spugna multiuso

(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

bambini e lasciarli esprimere la loro creatività.

Buon divertimento!

Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

31. Contrapposto al 15 orizzontale

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku cliccando sull’icona «Concorsi», homepage in alto a destra Partecipazione

cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P.

6901 Lugano . Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei

Viaggiatori d’Occidente

Le mancate promesse olimpioniche per il turismo

Parigi tira le somme dell’esperienza olimpica dello scorso anno e i bilanci sono francamente deludenti. Il balzo in avanti del turismo è rimasto un desiderio. Nel 2024 la capitale ha registrato «solo» 48,7 milioni di visitatori, e in particolare 7,1 milioni di soggiorni durante i giochi (dati di Choose Paris Region, l’agenzia di promozione internazionale), un aumento insignificante (+2%) rispetto all’anno precedente. Siamo comunque molto al di sotto di un anno senza eventi particolari come il 2023, quando la crescita segnò un robusto 8%; e anche con l’aiuto delle Olimpiadi, la città non ha comunque recuperato il livello del 2019, prima del Covid. Tra il pubblico delle gare, i turisti francesi hanno superato gli stranieri (soprattutto americani e britannici). Infine l’attrazione dei siti olimpici ha paradossalmente penalizzato le presenze in musei e monumenti (‒20%);

e i pernottamenti negli alberghi sono stati addirittura in calo rispetto all’anno prima, a favore di altre forme di ospitalità.

Ma allora i grandi eventi sportivi non servono più? Nel dopoguerra le Olimpiadi di Roma del 1960, le prime trasmesse in diretta televisiva, mostrarono al mondo un Paese moderno e creativo che si era lasciato alle spalle le rovine della guerra, tra boom economico, dolce vita e cinema d’autore. In tempi più vicini a noi, il modello di riferimento è stato a lungo Barcellona, una città industriale in declino prima dei giochi del 1992. Le Olimpiadi furono l’occasione per una rigenerazione urbana su vasta scala: un lungomare ripensato, nuove spiagge, trasporti più efficienti, infrastrutture moderne e il recupero di quartieri degradati. Eppure oggi la stessa Barcellona, soffocata dall’Overtourism e vittima del suo stesso successo, si

Cammino per Milano

Palazzo Fidia

Sconsolata, una bellissima e ombrosa Lucia Bosè con caschetto corvino e scialle cadente di volpe bianca nel buio della notte illuminata dai lampioni della città, si appoggia al portale in pietra del palazzo dove abita la protagonista da lei interpretata, Paola. È il finale di Cronaca di un amore (1950) di Antonioni dove il portone d’ingresso del capolavoro occulto dell’architetto outsider Aldo Andreani (1887-1971) diventa, in esterno notte in via Melegari, con dissonanze di sax in sottofondo e caratterizzato da una coppia di sfere bizzarre ai lati, luogo d’addio. A centotrentadue passi dall’orecchio-citofono di via Serbelloni, svoltando l’angolo in una via a gomito – Maffei per un breve tratto poi chiamata Melegari – ritrovo l’inquadratura cinematografica di Palazzo Fidia. Quando Paola Molon, moglie cinica e annoiata del ricco industriale Fontana, vede per l’ultima volta l’a-

mato Guido (Massimo Girotti) andar via in taxi.

Tutto di mattoni in cotto cupo, con tessiture varie, salendo con lo sguardo, inizia il delirio assoluto del palazzo di Andreani costruito tra il 1929-32: precoce come canto del cigno. «Il folle palazzo Fidia, ai piedi del quale si formavano capannelli di milanesi inorriditi» osserva Dino Buzzati sul «Corriere della Sera» il primo maggio 1977. Tra bovindi spericolati che agguanto con gli occhi colmo di gioia, sporgenze spregiudicate, svasature, rientranze da brivido, asimmetrie fabulose, ghiere qua e là, ondeggiamenti del cotto, balaustrine inutili o cos’altro ancora, è un’architettura al limite, fuori categoria, classificabile forse solo come fantastica, la cui componente orrorifica è chiara. Mica per niente Edoardo Persico, su un «Casabella» dell’epoca, lo considera «castello dell’Innominato da servire pel prossimo centenario

Sport in Azione

Non bastava essere i più forti nello sci alpino. E neppure ci si è accontentati del nostro dominio pluridecennale nella mountain bike. Anche nell’hockey su ghiaccio, abbiamo compiuto importanti passi avanti. Siamo regolarmente fra le otto grandi forze del pianeta. Con licenza di colpire anche più in alto, a caccia del tanto agognato titolo mondiale. Forse, la Champions League conquistata quest’anno dai Lions di Zurigo è un segno premonitore. In passato abbiamo persino tentato, con successo, un’incursione nella vela.

Insomma, lo sport svizzero cresce e si fa apprezzare. Ne avevamo accennato due settimane fa a proposito dello sci di fondo. Lo facciamo a viva voce oggi parlando di atletica leggera. «Tre indizi fanno una prova», così sosteneva Agatha Christie, la regina del romanzo poliziesco. I nostri atleti e le nostre atlete, questi indizi li hanno messi in bacheca. Agli Europei assoluti del 2024, a Roma, i nostri si sono ritrovati al 5° posto del medagliere con 9 riconoscimenti, 4 dei quali del metallo più prezioso. Poche settimane fa, agli Europei Indoor di Apeldoorn, in Olanda, sono saliti al 4° rango, davanti a colossi come Francia, Gran Bretagna, Spagna e Germania. Il terzo indizio giunge da molto lontano, dai Mondiali Indoor di Nanchino, in Cina, dove le atlete rossocrociate, questa volta solo loro, si sono messe al collo 4 medaglie. L’oro nei 60 piani con Mujinga Kambundji, l’argento nei 60 ostacoli con sua sorella Ditaji e con Annik Kaelin nel salto in lungo, infine il bronzo nell’asta con Angelica Moser. Come dire che siamo diventati una potenza mondiale. O, quanto meno, siamo vicinissimi alla «crème de la crème». Scarsi non lo eravamo mai stati. Eravamo anzi abituati a qualche sporadica soddisfazione, ma singola. Come

interroga su quel modello di sviluppo. Già al tempo di Londra 2012 molte illusioni erano svanite e si puntò soprattutto al recupero di alcune aree degradate, in particolare East London. Dodici anni dopo, la narrazione di questi grandi eventi è sempre più stanca, l’opinione pubblica sempre più scettica. I costi organizzativi sono regolarmente superiori alle previsioni; i benefici sono difficili da misurare con precisione; grandi opere e ristrutturazioni allontanano le fasce più deboli dai quartieri interessati; quando si spengono i riflettori, le infrastrutture restano spesso inutilizzate (anche per questo Parigi ha puntato su strutture temporanee e riutilizzabili). Naturalmente tutte le cifre possono essere discusse, interpretate, tirate da una parte o dall’altra; a volte sembra che non ci sia nulla di più incerto di un numero… Di certo i grandi eventi sembrano poco utili a città come Pa-

rigi, con un’immagine internazionale prestigiosa. Inoltre, proprio perché eccezionale, il turismo dei grandi eventi è un fattore di disordine, perché altera tutti i normali equilibri. Se molti residenti si godono lo spettacolo (prezzo dei biglietti permettendo), altri si allontanano, spaventati dal caos e dall’afflusso massiccio di turisti; è accaduto a Londra 2012, tanto che il Governo cercò di rimediare con messaggi pubblicitari mirati. Lo stesso vale per i visitatori: alcuni approfittano del grande evento, ma altri anticipano o rimandano la visita. Tutte le strutture sono in tensione, perché costrette a fornire servizi su larga scala per un tempo limitato. Insomma, il turismo dei grandi eventi è il contrario di quello raccomandato oggi dagli esperti; i destination manager insistono semmai sulla regolarità, la prevedibilità e la misura dei flussi turistici.

Le Olimpiadi invernali di Cortina 2026 forniranno conferme o smentite. Per il momento i limiti (ritardi, polemiche e costi in aumento) sembrano superiori ai benefici. Cortina, come Parigi, è già una destinazione turistica consolidata e non si vede quale potrebbe essere il ritorno d’immagine. Naturalmente ci sono anche indicatori di segno contrario, per esempio la pista di bob. Molti consideravano inutile la costruzione di una nuova pista, rimandando semmai a quelle dei Paesi vicini. Invece, dopo uno stallo prolungato, è stata completata a tempo di record, in soli tredici mesi. Certo, i costi, come sempre accade, sono saliti parecchio, da 82 a 118 milioni di euro; tuttavia, quantomeno dal punto di vista tecnico, il risultato sembra interessante. Ma è quello che serve davvero a un ambiente alpino stravolto dal cambiamento climatico?

manzoniano». E di colpo, nella luce temporalesca di questo pomeriggio di marzo, la sua sfumatura drammatica si acuisce, l’atmosfera di questo angolo nascostissimo di Milano, s’inglesizza in un attimo. Il colore del cotto s’incupisce ancora di più. Mi muovo seguendo con gli occhi, in un pianosequenza, mentre inizia a piovigginare, la sarabanda architettonica del palazzo il cui nome è acronimo dei cinque costituenti di una società anonima – tra i quali Andreani e l’ingegner Fadini – che combacia guardacaso con lo scultore-architetto ateniese. E saltando da archi a vanvera a timpani e pinnacoli, mi vengono in mente le prospettive decadentiste-vorticose di Piranesi. Palazzo d’angolo, da via Melegari (ambasciatore italiano a Berna dal 1867 alla morte, tra l’altro) svolto in via Mozart dove continua, meno sfrenato, il «sottaciuto erotismo» come scrive Mario

Lupano, co-autore di Aldo Andreani, visioni, costruzioni, immagini (2015). Anche se qui, lassù, catturo delle lievi sporgenze create con il cotto, cambi di direzione-increspature che già solo quelle varrebbero la pena. Il cotto di Andreani richiama, più che quello lieto delle chiesuole romanico-lombardo sparse nella città e dintorni, la trama laterizia della Scuola di Amsterdam. In certe rientranze curvilinee barocche, vedo limpida la connessione con i colpi di classe di Piet Kramer che contemplai tempo fa gironzolando lì. Qui ora piove sul serio, non smetto però di vagare con lo sguardo cercando i migliori scorci andreaniani che potrebbero essere anche letti come «frammenti piranesiani ricomposti» come ha scritto qualcuno che non mi ricordo più.

Dimenticato per anni, il palazzo protagonista degli ultimi fotogrammi del primo film di Antonioni, riappare,

nell’occhio fotografico di Ugo Mulas nel 1963 e poi ritorna come rinato e capito una buona volta, negli scatti anni ottanta di Gabriele Basilico. Ritorno in via Melegari dove si trova la parte più eccessiva dell’architetto marginale che ha abitato qui – casa-studio per progetti irrealizzati – come Paola Molon. Il cui punto d’appoggio, nel finale dell’elegante dramma torbido con venature noir, penso di aver identificato e lo accarezzo. Da vicino sembra granito rosa di Baveno levigato, ma non sono un petrografo e non ne ho trovato notizia da nessuna parte. So solo che l’appoggiarsi in vestito da sera della sfinita Lucia Bosè diciannovenne contro il portone d’ingresso di via Melegari due, con la coppia stramba di sfere ai lati e dentro una rientranza convessa particolare, contiene tutta la tragicità di ogni amore e del destino finito nell’ombra del fulgido Andreani.

dimenticare la plurispecialista Meta Antenen, il pesista Werner Günthör, l’ottocentista André Bucher o l’ostacolista Kariem Hussein? Oggi possiamo però parlare tranquillamente di movimento. Non nasce per caso, all’ombra di una foglia di cavolo. Dietro i trionfi, ci sono molteplici concause, come suggerisce Enrico Cariboni, opinionista per la RSI e Direttore sportivo del GAB Bellinzona. Il tutto è iniziato alcuni anni fa, quando World Athletics decise di assegnare a Zurigo l’organizzazione degli Europei del 2014. Da allora, è scattato un piano di ristrutturazione, sia nell’ambito della formazione, sia in quello degli impianti. Quest’ultimo, particolarmente curato a nord delle Alpi, passibile invece di indispensabili miglioramenti a sud del San Gottardo. La creazione del Kids Tour, una sorta di triathlon per bambini, comprendente il lancio della pallina, i 60 metri

e il salto in lungo, ha contribuito notevolmente all’allargamento del bacino d’utenza. In fondo, nulla di nuovo rispetto a quanto si faceva un tempo nell’ambito della vetusta Istruzione Preparatoria (IP) e della più moderna Gioventù e Sport (GS). Tuttavia, lo spirito di emulazione nei confronti di alcuni modelli virtuosi, come le sorelle Kambundji, Simon Ehammer, Ajla Del Ponte, eccetera, unitamente all’interattività del progetto, che consente ai bambini di verificare online classifiche e record, hanno fatto sì che l’atletica leggera sia diventata un fenomeno glamour Cariboni ci fa pure notare un altro aspetto sorprendente per i non addetti ai lavori. Tra i migliori «25 Meeting» al mondo, quattro si disputano in Svizzera: il Weltklasse di Zurigo, l’Athletissima di Losanna, il Galà dei Castelli di Bellinzona e lo Spitzenleichtathletik di Lucerna. A titolo di

paragone, Berlino, si trova alle spalle dei nostri appuntamenti. Vorrà pur dire qualcosa! Da ultimo, ma non certo per importanza, pensiamo a due ulteriori lati del poliedro che rendono attrattiva questa disciplina. Costa poco, e la possono praticare tutti. Anche chi è molto robusto e sovrappeso, può trovare gloria: per emergere nel getto del peso, nel lancio del disco, del martello e del giavellotto servono chili. Il momento felice dell’atletica leggera svizzera sembrerebbe destinato a perdurare. Swiss Athletics sta covando un’idea, un progetto. Quello di riportare gli Europei in casa, aggregandoli a quelli di numerose altre discipline come il nuoto, il ciclismo, la ginnastica, la scherma e altro ancora. Insomma, una sorta di Mini Olimpiade. Finanziariamente meno onerosa, ma tutto sommato molto ambita e motivante.

di Oliver Scharpf
di Giancarlo Dionisio

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Le vitamine hanno

l’oro in bocca

CONSIGLIO FRESCHEZZA

Un mango maturo si riconosce dal profumo intenso che emana e dalla buccia cedevole al tatto. Se conservato in frigo, questo frutto tropicale perde sapore. È pertanto consigliabile consumarlo subito. Per far maturare velocemente un mango acerbo, invece, basta avvolgerlo in carta di giornale e conservarlo a temperatura ambiente.

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Migros Ticino
Patatine novelle Egitto, 600 g, confezionate, (100 g = 0.33)
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Suggerimento: ottime per una zuppa di carote e zenzero

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Bocconcini e stuzzichini per squisiti menu

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La stagione delle grigliate è

DEGLI ESPERTI Per ottenere delle costine così tenere che si sciolgono in bocca fai preriscaldare il grill a gas a 170 °C, posiziona le costine sulla griglia e falle cuocere a fuoco indiretto per circa 60–70 minuti girandole di tanto in tanto.

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C’è già aria di vacanza

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11.50 Gamberetti Pelican, ASC prodotto surgelato, 400 g, (100 g = 2.88) 20x

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Orata reale M-Classic, ASC d'allevamento, Turchia, 2 pezzi, 720 g, in self-service, (100 g = 1.38)

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Formaggella Blenio «Ra Crénga dra Vâll da Brégn» per 100 g, prodotto confezionato 21%

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Tutti i tipi di crème fraîche (prodotti beleaf esclusi), per es. Valflora al naturale, 200 g, 2.28 invece di 2.85, (100 g = 1.14)

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Biberli d'Appenzello 6 x 75 g, (100 g = 1.54) conf. da 6 25%

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Spätzli al formaggio con cipolle arrostite e spinaci Daily da riscaldare oppure hot to go, 380 g, (100 g = 2.36)

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da

11.50 Tex Mex Bowl con pollo, fagioli e formaggio fresco Daily da riscaldare oppure hot to go, 350 g, (100 g = 3.29)

Fagottini di spelta alle pere Migros Bio, bastoncini alle nocciole o fagottini alle pere per es. fagottini di spelta alle pere Migros Bio, 3 pezzi, 225 g, 2.80 invece di 3.50, prodotto confezionato, (100 g = 1.24) 20%

le torte e i tortini di Pasqua, Petit Bonheur per es. tortine pasquali, 2 pezzi, 150 g, 2.32 invece di 2.90, prodotto confezionato, (100 g = 1.55)

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Cornetti al prosciutto Happy Hour M-Classic prodotto surgelato, in conf. speciale, 24 pezzi, 1008 g, (100 g = 0.87)

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Si sposano bene con le uova alla Benedict, gli asparagi o il

12.95 Tegamino a cuore Kitchen & Co. disponibile in blu, beige o rosa, il pezzo

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Salsa olandese Thomy

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4.95 Stampino per uova al tegamino Kitchen & Co. disponibile in diversi motivi, il pezzo

14.95 Composizione di tendenza per la Pasqua M-Classic il vaso

Diamo il via all’allegra stagione dei gelati!

6.95 Gelato Yogurette prodotto surgelato, 4 x 50 ml, (100 g = 3.48)

Ice Cream Strawberry Cheesecake Ben & Jerry's prodotto surgelato, 465 ml, (100 ml = 2.14)

Con pezzetti di biscotto Oreo

6.95 Kinder Chocolate Ice Cream prodotto surgelato, 4 x 55 ml, (100 ml = 3.16)

3.20 Ice Cream Sandwich Oreo prodotto surgelato, 110 ml, (100 ml = 2.91) 20x CUMULUS

Consiglio: toglilo dal congelatore 10 minuti prima di mangiarlo

Gelato alla Nutella prodotto surgelato, 470 ml, (100 ml = 1.60) 20x CUMULUS

3.70

Oreo Ice Cream Bites prodotto surgelato, 105 ml, (100 ml = 3.33) 20x CUMULUS

Disponibili con cioccolato al latte o fondente

conf. da 4 35%

7.65

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Petit Beurre M-Classic con cioccolato al latte o cioccolato fondente, 4 x 150 g, (100 g = 1.28)

Branches Frey

Milk o Dark, in conf. speciale, per es. Milk, 30 x 27 g, 9.90 invece di 15.30, (100 g = 1.22) 35%

–.60 di riduzione

Tutti i biscotti Tradition per es. Petit Gâteau al limone, 150 g, 3.80 invece di 4.40, (100 g = 2.53)

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Biscotti Lotus caramello, vaniglia o cioccolato, per es. caramello, 2 x 250 g, 4.70 invece di 5.90, (100 g = 0.94)

20%

11.80 invece di 14.75

Tavolette di cioccolato Lindt al latte finissimo o al latte con nocciole, 5 x 100 g, per es. al latte finissimo, (100 g = 2.36)

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Occasioni da gustare Scorta

Tutti i caffè istantanei (prodotti Nescafé e Starbucks esclusi), per es. Voncoré Cafino, 200 g, 6.16 invece di 7.70, (100 g = 3.08)

conf. da 6 40%

Schweppes

Bitter Lemon, Ginger Ale o Indian Tonic, 6 x 1 litro e 6 x 500 ml, per es. Bitter lemon, 6 x 500 ml, 7.14 invece di 11.90, (100 ml = 0.24)

a partire da 2 pezzi 20% San Pellegrino in confezioni multiple, per es. acqua minerale, 6 x 1,25 litri, 4.42 invece di 6.60, (100 ml = 0.06)

conf. da 6 33%

Sacchetto di snack e patatine Zweifel in conf. speciale, 330 g, (100 g = 2.15) 20%

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Tutto lo zucchero fino cristallizzato, 1 kg per es. Cristal M-Classic, IP-SUISSE, 1.26 invece di 1.80 30%

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Tutte le confetture Belle Journée Limited Edition, mango-rabarbaro o fragola-ribes-banana, 350 g, (100 g = 0.90)

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Noci e miscele di noci, Party in conf. speciale, per es. arachidi, 750 g, (100 g = 0.38) 20%

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Frutta a guscio to go Sun Queen anacardi tostati, anacardi salati o mix di noci tostate, 50 g, (100 g = 3.90)

Tutta la pasta Da Emilio per es. fregola sarda, 500 g, 3.16 invece di 3.95, (100 g = 0.63) 20%

Tutti i sughi per pasta Da Emilio per es. sugo alla napoletana, 290 g, 3.60 invece di 4.50, (100 g = 1.24) 20% 6.–invece di 7.50

Tutti i tipi di ketchup, maionese e salse BBQ, Heinz nonché le salse per grigliate Bull's Eye per es. Tomato Ketchup Heinz, 220 ml, 2.20 invece di 2.75, (100 ml = 1.00) 20%

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Chicchi di mais M-Classic 6 x 285 g, (100 g = 0.35)

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Pommes noisettes o crocchette di rösti, M-Classic prodotto surgelato, per es. pommes noisettes, 2 x 600 g, 6.60 invece di 9.90, (100 g = 0.55)

Soba Wok Style Nissin disponibile in diverse varietà e in confezioni multiple, per es. Classic, 3 x 109 g, 4.40 invece di 5.55, (100 g = 1.35) 20%

Oli d'oliva Don Pablo 1 litro o 500 ml, per es. 1 litro, 8.76 invece di 10.95 20%

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I prodotti Sun Look offrono la giusta protezione solare per ogni tipo di pelle. La linea protegge efficacemente dai raggi UVA e UVB, comprende prodotti speciali per le esigenze dei bambini e delle pelli sensibili e lenisce l'epidermide irritata dopo l'esposizione al sole.

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Tutto l'assortimento di biancheria intima da donna e da uomo, Sloggi per es. slip da donna Tai nero, il pezzo, 17.37 invece di 28.95

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Tutti i pannolini Rascal + Friends (confezioni multiple escluse), per es. Premium 2, 40 pezzi, 7.34 invece di 10.95, (1 pz. = 0.18)

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Per concludere in bellezza Fiori

Tutti i tulipani svizzeri disponibili in diversi colori, per es. M-Classic, 10 pezzi, il mazzo, 7.96 invece di 9.95 20%

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Rose Grande Fairtrade disponibili in diversi colori, mazzo da 10, lunghezza dello stelo 50 cm, il mazzo

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