Si tende ad avere figli sempre più tardi: una scelta con conseguenze biologiche ma anche vantaggi
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Gli effetti di Trump sull’Europa: dall’economia al settore della difesa, adesso è obbligata a svegliarsi
ATTUALITÀ Pagina 11
La magica luce del Nord
CULTURA Pagine 18-19
Un Ticino prolifico a livello editoriale, tra meraviglie locali e scoperte internazionali
Un viaggio in quel caleidoscopio che è Istanbul a caccia di una bella storia da raccontare
TEMPO LIBERO Pagine 26-27
La pace comincia dal vocabolario
Carlo Silini
«Se verrà la guerra, Marcondiro’ndero, se verrà la guerra, Marcondiro’ndà, sul mare e sulla terra, Marcondiro’ndera, sul mare e sulla terra chi ci salverà?». A sentirle oggi, le ballate pacifiste di Fabrizio De André suonano ancora più tragiche e vere. Sono canzoncine allucinate per bambini che crescono in un mondo tanto violento che è meglio cantarci sopra. La guerra è già scoppiata, Marcondiro’ndero, e adesso vai a capire chi ci aiuterà. È già scoppiata nei fronti noti e meno noti ed è esplosa dentro le radio, le tv e i giornali. Un giorno sono i raid americani nello Yemen a salutare il nostro risveglio. Il giorno successivo, puntuale come un raffreddore quando dimentichi il maglione, arriva la risposta dei ribelli Houti contro una portaerei statunitense. Nello stesso tempo i proiettili si incrociano lungo il confine tra la Siria e il Libano. In Siria, tra l’altro, i nuovi governanti massacrano con scrupolo purificatore i
seguaci di quelli vecchi. All’alba del giorno dopo viene violata la tregua a Gaza, con attacchi israeliani che provocano oltre 400 morti, come al solito senza distinzione di bersaglio fra terroristi e civili. E nel sud del Sudan un’incursione aerea lascia sul terreno «solo» sei cadaveri, tra loro quelli di due bambini. Proviamo a rilassarci quando ci dicono che, per gentile concessione, gli attacchi contro gli impianti energetici in Russia e Ucraina verranno sospesi per trenta giorni, poi salta fuori che si è smesso di colpire le centrali elettriche, ma si va avanti a bombardare gli uomini, che costano molto meno. Con la canzone di De André che gira in testa, cerchiamo nuove parole di pace perché quelle che sentiamo puntano, al massimo, alla tregua, che è come trattenere l’aria sott’acqua prima di riemergere tra bombe e raffiche di mitra. O mirano alla quantificazione del bottino per
chi si è portato più avanti sul campo di battaglia. Sarebbe bello strappare le armi a chi offende per consegnarle a chi si difende. Perché essere contro la guerra – l’Europa se n’è accorta con ottant’anni di ritardo (leggete Rampini a pag. 11) – non significa rinunciare a proteggersi. Nel frattempo, dovremmo disinnescare le trappole mentali che ci spingono verso nuovi bagni di sangue. Entriamo perciò in una stanza d’ospedale a Roma e ascoltiamo la voce di un vecchio malato che con i suoi pensieri interpella non solo i giornalisti, ma ognuno di noi: «Vorrei incoraggiare tutti coloro che dedicano lavoro e intelligenza a informare, attraverso strumenti di comunicazione che ormai uniscono il nostro mondo in tempo reale – ha detto nei giorni scorsi Papa Francesco – : sentite tutta l’importanza delle parole. Non sono mai soltanto parole: sono fatti che costruiscono gli ambienti umani. Possono collegare o divide-
re, servire la verità o servirsene. Dobbiamo disarmare le parole, per disarmare le menti e disarmare la Terra. C’è un grande bisogno di riflessione, di pacatezza, di senso della complessità». Difficile proporre una narrazione più controintuitiva e necessaria di quella di Jorge Mario Bergoglio. Il suo non è un discorso arcobaleno col simboletto della colomba. Non è uno slogan sessantottino. Se vogliamo disarmare gli aggressori non dobbiamo mettere fiori nei loro cannoni, ma prenderci cura delle nostre parole nei dibattiti pubblici, a casa o al bar, introdurre la merce rara dell’ascolto attivo prima di rispondere. Il senso della misura, la rinuncia al linguaggio aggressivo, la scelta di discorsi che costruiscono ponti piuttosto che muri. Non abbiamo il potere di disinnescare le testate nucleari e le mine, ma possiamo disarmare le nostre parole. La pace comincia dal vocabolario.
Festeggiamenti ◆ Per l’anniversario dei suoi 100 anni Migros fa gli auguri a tutte le centenarie e i centenari del Paese; Migros Ticino ha avuto l’opportunità e il privilegio di farli a Berty Büchi, cliente di Losone
Quest’anno non solo Migros compie 100 anni, ma anche qualcuno o qualcuna dei suoi affezionati clienti. È il caso di Berty Büchi, 100 anni il primo giorno di primavera, e una vita spaccata esattamente a metà: mezzo secolo trascorso nella Svizzera tedesca e l’altro mezzo secolo in Ticino. Berty Büchi, che ha dapprima abitato in Valle Maggia e oggi è in un piccolo appartamento a Losone, ha coltivato per mezza esistenza il sogno di vivere «al sud», in Ticino. Ha poi potuto approfittarne quando il marito (di alcuni anni più anziano di lei), ha proposto di lasciare San Gallo per trascorrere l’età del pensionamento nel Locarnese. La figlia Doris, in Ticino per la settimana di festeggiamenti della madre, racconta come per lei e i suoi fratelli – che non hanno mai valutato l’opzione del trasferimento a sud – non sia sempre stato facile avere i genitori di colpo relativamente lontani, in Valle Maggia. Oggi, però, la ex casa dei nonni fa la gioia dei numerosi nipoti che, non appena possono, trascorrono le vacanze nel nostro Cantone.
Berty, che all’epoca del pensionamento del marito aveva la metà degli anni che ha oggi, in Ticino non è arrivata impreparata, poiché prima di trasferirvisi definitivamente, decise di specializzarsi in alcuni aspetti della lavorazione della lana. Imparò così non solo a utilizzare l’arcolaio per filare, ma anche a cardare e, non da ultimo, a lavorare il feltro. Le sue competenze in questo campo sono con il tempo talmente cresciute da trasformarla in un punto di riferimento per chiunque volesse cimentarsi in questa attività, Berty dava infatti lezioni per imparare a lavorare la lana e ancora oggi realizza copricapo di feltro.
Berty Büchi, i suoi 100 anni non li dimostra: vive ancora in modo piuttosto autonomo, non ha problemi di udito, ama ridere, scherzare e chiacchierare; l’unico suo cruccio è dato dalla vista, peggiorata al punto da non permetterle più di distinguere i colo-
ri della lana. «Lavorare la lana non è un problema per me, ma quando devo scegliere i colori viene in mio supporto un’amica che me li descrive, aiutandomi a combinarli. Per me è importante potermi dedicare ancora a qualcosa: mi piace mantenermi in forma e restare attiva». Berty ha un deambulatore, infatti, ma questo non le impedisce di indugiare anche nell’attività fisica: «Ogni mattina prendo il deambulatore, che chiamo “la mia Mercedes”, e in ascensore scendo al piano terra. Da lì risalgo a piedi fino al terzo piano, un
gradino alla volta, dove riprendo l’ascensore e scendo nuovamente per recuperare il deambulatore. Infine, in ascensore, ritorno in camera».
La figlia Doris è scesa da Sargans per trascorrere i giorni di festa con la madre, sono poi arrivati anche i suoi due fratelli, i nipoti e numerosi amici. Tra le decine e decine di persone che hanno voluto festeggiare Berty per i suoi 100 anni (molti sono i parenti arrivati da Oltre Gottardo, ci confida Doris), c’è stato anche Marco Ruberto, gerente della filiale Migros di Lo-
sone, che ha sorpreso la sua affezionata cliente con una grande torta Foresta Nera e con un cestino di prelibatezze dei Nostrani del Ticino.
La visita personale del gerente di Migros Losone ha emozionato molto Berty, che con il pensiero è corsa al 1935, a quando aveva dieci anni e la madre la mandava incontro al camion Migros: «Lo ricordo come se fosse ieri, per prima cosa veniva sollevata un’anta laterale a mo’ di tettoia. Poi veniva estratto una specie di banco, dove si appoggiavano le sporte e la commessa
Luoghi in cui progettare, ma insieme
preparava i pacchetti. Ricordo i cassetti minuscoli che tanto mi affascinavano: erano pieni di cose da comperare, e io che ero una bambina non riuscivo a smettere di osservarli. Ho un forte legame con Migros, uno dei miei figli è stato per molti anni direttore del Golfpark Migros di Waldkirch». A Migros Ticino, dunque, ma non solo, non resta che rinnovare a Berty gli auguri più affettuosi per i suoi 100 anni, estendendoli a tutte e tutti coloro che quest’anno raggiungeranno il traguardo del primo secolo di vita.
Percento culturale ◆ Martedì 8 aprile appuntamento al Centro Calicantus con lo Spazio progetti, promosso dal Percento culturale Migros in collaborazione con Consultati e con il Comune di Chiasso
Lo Spazio progetti è l’occasione ideale per chi vorrebbe cambiare qualcosa nella propria città, nel proprio quartiere o nel proprio paese per migliorare la convivenza. Uno Spazio progetti è un workshop partecipativo che si svolge con un bacino di utenza locale e che permette di lavorare insieme ad altre persone su questioni inerenti ai progetti presentati.
A Chiasso un workshop gratuito guidato da un team di esperti si chinerà sulle cooperative abitative, sull’utilizzo degli spazi e su altri temi ritenuti urgenti
Dal punto di vista tematico lo Spazio progetti è aperto a qualsiasi progetto che promuova la convivenza. Un team di moderazione esperto crea un contesto adatto alla co-creazione, alla collaborazione e al networ-
«passo in avanti» di cui hanno bisogno. L’evento sarà una occasione di scambio e di messa in rete e offrirà la possibilità di instaurare nuove collaborazioni. Sono benvenute persone di tutte le età, con esperienze e prospettive diverse e con un’apertura verso altri punti di vista. Per motivi organizzativi, chiediamo gentilmente di annunciare la propria presenza completando il formulario di iscrizione al link https://engagement.migros.ch/it/spazio-progetti/spazio-progetti-chiasso/ registrazione
Dove e quando Martedì 8 aprile 2025, ore 18.00-21.30; Chiasso, Centro di socializzazione Calicantus (Via Soldini 14); Tel. 091 825 38 85 mail: eventi@consultati.ch
Berty con la torta per i 100 anni; a destra, in alto Berty con Marco Ruberto, gerente di Migros Losone, in basso, Berty mentre sfoglia un album dei ricordi. (Flavia Leuenberger)
king. In questo modo il Percento culturale Migros sostiene progetti locali che promuovono la coesione sociale.
Nell’ambito dell’evento di martedì 8 aprile verranno presentati diversi progetti sul tema delle cooperative di abitazione e dell’utilizzo degli spazi a
Chiasso e dintorni. Attraverso dei workshop partecipativi si faranno emergere i vari punti di vista e si cercherà di portare questi progetti a compiere il
Un momento dell’incontro di Spazio Progetto tenutosi a Kreuzlingen. (Tina Eberhard)
SOCIETÀ
Le comunità religiose
In Ticino sono 503 e sono state mappate con il progetto Re:Spiri, ce ne parla Tatiana Roveri
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Trent’anni di teatro
L’importante traguardo raggiunto dall’Associazione Scintille raccontato da Katya Troise
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Scuola e famiglia
La crescita armoniosa dei ragazzi si basa su un’alleanza educativa non sempre facile
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La genitorialità «posticipata»
Salute ◆ Ragioni, conseguenze biologiche e vantaggi della tendenza ad avere figli sempre più tardi
«Ci siamo incontrati tardi, il mio compagno ed io. Questo fa parte delle eventualità della vita. Oggi magari non ci si trova più così giovani come una volta: può capitare sempre più spesso che la vita ti porti prima altrove, ti faccia fare delle esperienze di studio o di lavoro, no? E magari incontri prima altre persone con cui la relazione, poi, non va a buon fine. Noi, pur essendoci trovati tardi, abbiamo subito desiderato un figlio. Era la prima volta che sentivo questo desiderio così pressante: avere un figlio con la persona che avevo accanto». Così inizia il racconto di Federica (nome noto alla redazione) che col marito, a quell’epoca, avevano entrambi «già» trentacinque anni: «Sono rimasta incinta, ma le gravidanze iniziavano senza evolvere. Ovviamente, ci siamo sottoposti ad esami genetici, test di laboratorio di ogni sorta, su di me, su di lui. Cose, insomma, che hanno tracciato un percorso psicologicamente complicato.
In Svizzera nel 2023 la percentuale dei nati da mamme sopra i 35 anni è arrivata al 36%, nel 1970 era dell’11.3%
E comunque, metti in discussione te stesso e il tuo corpo che vuole ma non riesce ad avere un figlio». Federica e il marito iniziano così «una serie di percorsi di fecondazione in vitro di varia natura, in vari Paesi»: «Anche lì, spesso con aborti. Quindi, negli anni non riuscivamo a portare avanti una gravidanza nonostante l’aiuto delle diverse tecniche, finché a un certo punto abbiamo iniziato a pensare a un’adozione». Ed è allora, quando avevano 43 anni, che è arrivata la gravidanza: «Un bambino, il nostro bambino che oggi ha tre anni».
Negli ultimi decenni sempre più persone tendono a diventare genitori a un’età più avanzata rispetto al passato. L’interpretazione delle statistiche (Kohler et al, 2002) converge nel «fenomeno sociale osservato a livello globale della postponement transition», come è denominata la genitorialità in età avanzata. La Svizzera non fa eccezione e l’Ufficio federale di statistica conferma il forte calo del numero delle giovani madri: «La ripartizione delle nascite viventi secondo l’età della madre ha subito notevoli modifiche nel corso degli ultimi tre decenni. La percentuale di madri tra 30 e 34 anni ha segnato un aumento costante dall’inizio degli anni 70 e continua a crescere il numero di madri di 35 anni e più». In cifre: «Nel 1970 i nati vivi secondo l’età delle donne sopra i 35 anni era dell’11.3%, mentre nel 2023 la percentuale è arrivata al 36%». Anche in Ticino si
Liutai senza maestria
La SEFRI ha aggiornato la lista delle professioni con la maestria, otto sono state abrogate
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partorisce in età sempre più avanzata e nel 2017 sono quattro le mamme che hanno segnato un record storico partorendo dopo i 50 anni. Una tendenza che non è iniziata ieri, confermano i dati Ustat, indicando che l’età media delle donne al primo parto in Ticino è aumentata ininterrottamente dal 1982, quando era ancora nella media nazionale di 26.7 anni: «Oggi, con una media di 31.7 anni, come Ginevra è la più alta in Svizzera». Infine, dal 2012 le madri over 50 in Ticino sono state 17, il triplo rispetto al trentennio precedente.
«Ciò può dipendere dal fatto che oggi le donne non si sentano più così condizionate come in passato da insegnamenti famigliari e socio-culturali che spingono a creare una famiglia e fare figli il prima possibile, preferendo rimandare questo momento a dopo la fine dei propri studi e della propria realizzazione professionale». Questa l’analisi delle possibili cause di una genitorialità sempre più posticipata, secondo la dottoressa Alessandra Ferrarini, specialista in pediatria e in genetica medica, che però rende attenti sui «naturali limiti biologici» con cui bisogna fare i conti: «L’età materna avanzata deve confrontarsi con l’invecchiamento degli ovociti
(tutti già presenti in numero definito dalla nascita). Un invecchiamento che può produrre alterazioni nel DNA che fa sì che i cromosomi presentino meccanismi di divisione un po’ alterati all’interno dell’ovulo». È dunque provata la relazione fra l’età della madre e la probabilità di un rischio maggiore di trovarsi dinanzi ad alcune patologie: «Anche se le anomalie cromosomiche si verificano nella prole di madri di ogni età, la frequenza di figli affetti da trisomia aumenta con l’età, e in maniera esponenziale dopo i 35 anni».
La specialista porta ad esempio la Trisomia 21 (Sindrome di Down) ma non solo: «Con l’aumentare dell’età materna, cresce in modo esponenziale pure il rischio di altre trisomie più gravi». Naturalmente, la diagnosi prenatale è lo strumento da prendere in considerazione (anche in alcune donne più giovani): «La tecnologia permette di identificare precocemente queste sindromi: oggi abbiamo a disposizione test non invasivi su sangue materno che permettono di individuare le probabilità che il bambino presenti o meno queste anomalie genetiche». Una riflessione è d’obbligo: «La genetica può aiutare a individuare questo tipo di problematiche, ma poi
starà ai genitori decidere come proseguire con un’eventuale gravidanza». Anche l’età del padre non è esente da rischi che vanno tenuti in considerazione: «È certo che la qualità decrescente dello sperma maschile giochi un ruolo decisivo e il rischio che si verifichino cambiamenti genetici avversi nello sperma è significativamente maggiore nei padri in età. Vi sono alcune patologie che possono avere a che fare con l’età paterna avanzata, come ad esempio l’acondroplasia, comunque più rara della Trisomia 21». Le gravidanze in cui la futura madre ha 35 anni o più sono considerate «ad alto rischio» in Germania, Austria e Svizzera. Sebbene oggi la scienza offra soluzioni che accompagnano la procreazione e la gravidanza «posticipata», sarebbe meglio procreare in un’età cosiddetta «biologica», ricorda Ferrarini citando comunque una buona pratica da considerare per tempo: «La tecnologia che avanza permette la crioconservazione degli ovociti a scopo precauzionale (chiamata social freezing): una pratica clinica che consente di preservare la fertilità in donne che devono o vogliono posticipare il desiderio di maternità». Al momento, spiega la specialista, numerosi studi scientifici hanno valutato migliaia
di casi accertandone l’assoluta sicurezza di procedura e dei risultati, anche a distanza di tempo: «Il congelamento dell’ovocita è un buon metodo di conservazione, non altera la struttura, anzi la preserva e permette di usare ovociti “giovani” anche in età più matura».
Malgrado tutto, il posticipo di un figlio ha comunque i propri lati positivi: «Oggi la donna ha un’energia che non aveva venti o cinquant’anni fa. Benessere, investimento sulla prevenzione, sulla salute e nella tecnologia favoriscono questo investimento anche nel futuro, e le donne sono più equipaggiate e consapevoli di un tempo, anche del loro corpo più morbido e accogliente». Qualsiasi sia la scelta di una gravidanza posticipata (obbligata o libera) va affrontata con ponderazione e non deve comportare giudizio: «Perché i bambini non sono robot, ma persone. Il desiderio di un figlio è un passo importante nella vita di molte coppie. La genetica può giocare un ruolo decisivo nella sua realizzazione, così come nel monitoraggio della gravidanza e nell’accoglienza del nascituro». Non resta che affrontare consapevolmente decisioni di un percorso di vita che può presentarsi anche in un’età più matura.
Anche in Ticino l’età media delle donne al primo parto è aumentata ininterrottamente dal 1982. (Freepik.com)
Maria Grazia Buletti
Giubileo di Migros Melano
Il destino incerto del Ciad tra mis
Attualità ◆ Il 26 marzo il punto vendita sottocenerino compie i primi 10 anni di esistenza. Per l’occasione sono previste diverse attività esclusive rivolte alla stimata clientela
Reportage ◆ La crisi sudanese scoppiata nel 2023 ha gettato un altro peso su una Nazione
Paola Nurnberg, testo e fotografie
Jasmina Banjac, gerente della filiale Migros di Melano
«Il cammello, quando viene ucciso, sembra una persona. Piange proprio come noi, con le lacrime», spiega Akouan, il responsabile locale dei progetti della Caritas che dipendono dal vicariato apostolico di Mongo, nell’est del Ciad. La loro carne – continua – è molto apprezzata, e da noi viene consumata regolarmente. Negli immensi paesaggi desertici che attraversiamo a bordo di un fuoristrada se ne vedono tantissimi, anche se in realtà sono dromedari ma qui, in francese, li chiamano così, cammelli. Stiamo andando a vedere lo stato di alcuni programmi avviati mesi fa che riguardano l’inserimento e l’accompagnamento delle donne ciadiane e delle rifugiate sudanesi nei lavori agricoli. Si tratta di uno dei tanti progetti attivati dalle organizzazio-
«Sono entrata alla Migros nel 2005 come operatrice di cassa e, dopo anni di crescita professionale, da questo mese di febbraio sono la gerente della filiale di Melano. Del mio lavoro mi piace il contatto con la clientela, avere una filiale sempre ben ordinata e accogliente e poter contare su collaboratori sorridenti, ben motivati e in grado
di offrire un servizio eccellente.
ni umanitarie che da anni si occupano di sostenere una delle Nazioni più povere al mondo, nonostante le sue ricchezze naturali come il petrolio. Ricchezze non ancora pienamente sfruttate e soprattutto non a vantaggio della popolazione, la metà della quale vive sotto o sulla soglia di povertà. Una situazione che rischia di aggravarsi dopo la decisione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump di mettere fine ai contributi di UsAid, l’Agenzia americana per lo sviluppo internazionale che destinava, tramite le attività delle tante Ong, diversi milioni di dollari per combattere la malnutrizione, gli estremismi violenti e le disparità. Un provvedimento al momento sospeso per decisione della Corte Suprema, ma che getta un’ombra di grande in-
La clientela che frequenta il nostro negozio proviene principalmente dalla regione, ma essendo sulla Cantonale e avendo un ampio parcheggio non mancano nemmeno clienti di passaggio e, soprattutto tra marzo e ottobre, molti turisti. Malgrado
La natura è servita
certezza sul lavoro umanitario proprio dove ce n’è più bisogno.
A questo proposito bisogna considerare che il Ciad, quinto Paese africano per estensione, nonostante le sue enormi difficoltà, è stato tra quelli che hanno accolto il maggior numero di rifugiati dal Sudan, arrivati a centinaia di migliaia nelle province vicine al confine.
È soprattutto nella regione orientale del Ouaddaï che oggi sono disseminati tanti campi profughi, specialmente nei pressi del villaggio di Metché, ma anche attorno ad Adré e Farchana, piccole località diventate avamposto delle agenzie delle Nazioni Unite che si occupano dei rifugiati. Dal Programma alimentare mondiale, all’Organizzazione internazionale per le migrazioni, hanno tutte un punto d’appoggio in questi luoghi remoti raggiungibili solo attraverso strade sterrate, con molte buche, che rendono ogni viaggio lungo e faticoso.
gonfiabile e zucchero filato offerto Dalle 15.00 alle 15.15 Saluto ufficiale del sindaco di Val Mara e del direttore di Migros Ticino
supermercato dispone di una scelta completa di generi alimentari e non food. La clientela apprezza anche il fatto che nello stesso stabile siano presenti sia la sede di Melano del Comune di Val Mara sia un ufficio postale. Tra i prodotti più venduti nel nostro negozio, posso citare le banane, le uova nostrane, gli zwieback e il burro».
Midi – in carica dal 2021 a seguito della morte violenta del padre Idriss Déby, che aveva guidato il Paese per 30 anni. A questo si aggiunga l’insicurezza interna per la presenza di gruppi ribelli, soprattutto nel nord,
(In caso di maltempo, l’evento è posticipato al 2 aprile. Per informazioni, chiamare il nr. 091 821 75 40)
vicino al confine con la Libia, e i jihadisti dell’Isis e di Boko Haram a ovest, attivi anche e soprattutto nei Paesi vicini, che costituiscono sempre una grossa minaccia. Nei mesi di ottobre e novembre 2024 l’esercito ha
Impossibile resistere ai profumi e ai sapori delle erbette aromatiche, che trasformano ogni pietanza in un’e sperienza culinaria unica grazie ai loro oli essenziali ed altre sostanze in grado di favorire il nostro benessere. Il miglior modo per beneficiare delle loro proprietà è quello di utilizzarle fresche. Migros attualmente propo ne diverse varietà di erbe aromatiche fresche certificate secondo gli stan dard bio, ossia coltivate in modo so stenibile senza l’impiego di sostanze chimico-sintetiche.
Alla fine di febbraio nel solo Ciad si contavano oltre 750 mila rifugiati sudanesi scappati dalla violenza delle ostilità scoppiate nel 2023
Scontri armati, uccisioni e violenze
Attualità Migros offre diverse erbe aromatiche fresche in grado di regalare quel tocco in più a tutti i nostri piatti
Approfittate questa settimana dell’offerta speciale sulle erbe di qualità biologica
Alla fine di febbraio nel solo Ciad si contavano oltre 750 mila rifugiati sudanesi scappati dalla violenza delle ostilità scoppiate nel 2023, che hanno creato una nuova grave emergenza umanitaria. Tutti accolti in un territorio, quello desertico del Sahel, caratterizzato dalla scarsità di risorse che devono essere oltretutto condivise con la popolazione locale. La crisi sudanese ha gettato quindi un altro peso su una Nazione in procinto di avviarsi verso lo sviluppo che prosegue con lentezza e fatica. Il tutto mentre il passaggio al potere civile dopo le elezioni legislative, regionali e locali che si sono svolte nei mesi scorsi dovrebbe portare la stabilità politica tanto auspicata ma che non si può ancora dire sia garantita dalla continuità del presidente Mahamat Idriss Déby Itno – chiamato anche
Il Dipartimento federale degli affari esteri (Dfae) della Confederazione sconsiglia i viaggi in Ciad, poiché «la situazione politica, economica e sociale è molto tesa. L'8 gennaio scorso 19 persone sono state uccise e altre sei ferite in un attacco al palazzo presidenziale. Violenze politiche, scontri armati e sparatorie si sono verificati anche nel febbraio 2024 e in occasione delle elezioni presidenziali del maggio 2024, causando diversi morti e feriti». Manifestazioni e scontri possono verificarsi in qualsiasi momento, soprattutto a N’Djamena. Sono possibili blocchi stradali e atti di vandalismo. Le forze di sicurezza hanno ripetutamente usato munizioni vere per disperdere le manifestazioni. Il Dfae sottolinea che anche l’accesso al Web non è sempre garantito. «In molte regioni del Sahara e del Sahel sono attive bande armate e gruppi terroristici che vivono di contrabbando e di sequestri. (…) Il rischio di at-
tentati e attacchi terroristici esiste in tutto il Paese; è più alto nella regione del lago Ciad».
I diritti delle donne
La gamma include per esempio le seguenti classiche erbe aromatiche, perfette per la cucina di tutti giorni:
indispensabile per la cucina mediterranea per quel tocco di freschezza caratteristico
la versatilità fatta pianta
profumi di Provenza assicurati
Per quello che riguarda i diritti delle donne, Amnesty International nel suo rapporto annuale sottolinea che «il 24,2% delle donne di età compresa tra i 20 ei 24 anni si è sposata prima dei 15 anni. La percentuale era del 25% nelle zone rurali e del 21% in quelle urbane». Anche la violenza di genere è molto diffusa: aggressioni fisiche, psicologiche e mancanza di opportunità (ad esempio, alle donne viene negata la quota di eredità o alle ragazze viene impedito di andare a scuola) sono all’ordine del giorno. AI osserva: «Le vittime di violenza di genere hanno continuato a vivere nel timore di denunciare le aggressioni, per ragioni sociali o per la mancanza di sostegno da parte delle forze dell’ordine o delle autorità tradizionali». / Red.
ideale per tisane e piatti dolci o salati
l’aroma intenso che non può mai mancare
la delicatezza in tutte le salse
un must per carni e verdure
Flavia
Leuenberger
Un microcosmo di credenze
Lo studio – 1 ◆ Ben 503 le comunità religiose nel cantone: una
Carlo Silini
In una terra tutto sommato geograficamente piccola come il Ticino si contano ben 503 diverse comunità religiose. Lo scopriamo osservando una mappa online del nostro cantone (https://geo-religions.ch/it/) punteggiata da mezzo migliaio di puntini interattivi. Clicchi sopra uno di loro ed ecco che esce una breve scheda sulla comunità in questione: il nome, mettiamo Associazione Thai Swiss buddhisti in Ticino (abbr. Wat Thai); la data di creazione: 2013; la tradizione di appartenenza: Buddismo; l’indirizzo e altri dati. Stiamo parlando del progetto di cartografia Re:Spiri, realizzato dal Centro intercantonale di informazione sulle credenze (CIC) e sostenuto – oltre che dal Percento culturale Migros – dal Servizio per l’integrazione degli stranieri (SIS), dal Dipartimento delle istituzioni (DI), dal Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport (DECS).
Attenzione, non significa che in Ticino ci siano cinquecento diverse religioni, ma – come spiegano gli autori di Re:Spiri – cinquecento «istituzioni sociali rappresentati da individui, specialisti religiosi e non, che si incontrano fisicamente in un luogo a intervalli regolari per attività ed eventi dal carattere esplicitamente religioso». Perciò, ad esempio, sono indicate tutte le parrocchie ticinesi e il cattolicesimo romano conta da solo 318 comunità su 503. Le tradizioni religiose di riferimento sono dieci: oltre al Cristianesimo, il Buddismo, l’Ebraismo; l’Esoterismo, la Fede baha’i, l’Induismo, l’Islam, i Nuovi movimenti religiosi, le Nuove spiritualità e lo Spiritismo/la Medianità. Abbiamo chiesto a Tatiana Roveri, che con Federica Moretti ha curato il progetto sotto la direzione di Manéli Farahmand e Mischa Piraud, di spiegarci come è nato e con quali scopi: «Questa ricerca si concentra sull’analisi spaziale della dimensione religiosa. Ha l’obiettivo di accrescere la comprensione del fenomeno religioso e anche del suo ancoraggio nello spazio, analizzando la dimensione collettiva delle comunità e i loro luoghi di culto. Mostrando l’importanza di conoscere cosa c’è sul territorio, mostra la diversità da un altro punto di vista e permette alle istituzioni un’adeguata comprensione per poi sviluppare delle politiche pubbliche».
Anni fa Michela Trisconi aveva scritto un Repertorio delle religioni nel Canton Ticino. Il vostro è uno sviluppo di quello studio? Dal punto di vista scientifico è un aggiornamento del Repertorio. Ma l’approccio è un po’ diverso. Nel primo caso c’erano schede approfondite sulle varie religioni, noi ci siamo concentrati sulle comunità e sui luoghi di culto. Le nostre definizioni si basano sulla comprensione sociologica delle
comunità in quanto gruppi di persone che a intervalli regolari si ritrovano in un luogo di culto fisico per motivi religiosi o spirituali.
Nel lavoro di Trisconi non c’erano le comunità cattoliche, tra l’altro. Esatto. Secondo le nostre definizioni ci sono 503 comunità religiose in Ticino nel 2024. Abbiamo ad esempio preso in considerazione tutte le parrocchie. Invece nel Repertorio del 2007 c’era una spiegazione generale sulla Chiesa cattolica romana.
Ci sono dieci tradizioni repertoriate, le grandi religioni e alcune galassie, come le nuove spiritualità e l’esoterismo. Cosa si può dire di queste realtà in Ticino oggi?
Abbiamo repertoriato una presenza importante, ci sono 17 comunità esoteriche, 15 nuovi movimenti religiosi e 14 nuove spiritualità. Questo mostra la trasformazione del paesaggio religioso ticinese, che, come in altri cantoni in Svizzera, va in questa direzione. In numerosi studi emerge infatti che le persone si sentono più spirituali che religiose o spirituali ma non religiose. Anche i numeri rilevati in Ticino lo dimostrano.
Poi c’è l’Islam di cui si è parlato molto dal 2001 in avanti anche come potenziale fonte di preoccupazioni. Fino a poco tempo fa si parlava di un 5% di musulmani in svizzera. Oggi la situazione com’è?
Secondo i dati dell’UST sulle appartenenze religiose individuali nel 2023, le persone musulmane nel nostro cantone rappresentano il 2,2% della popolazione. Noi abbiamo repertoriato nove comunità musulmane in Ticino. Il fatto che la percentuale sia più bassa forse dipende dal fatto che qui ci sono meno centri urbani. Abbiamo anche analizzato le attività socioculturali delle comunità e per quanto riguarda quelle musulmane si possono notare varie iniziative svolte verso la società. Questo apre un dato interessante per quanto riguarda la questione dell’integrazione e della coesione sociale. Un altro dato che abbiamo rilevato riguarda le lingue del culto.
E cosa emerge?
Emerge che nelle comunità religiose il culto viene svolto in 36 lingue diverse, ma l’italiano è presente in quasi tutte le comunità e nella totalità delle comunità musulmane.
È stato difficile ottenere i dati dalle comunità religiose?
Considerando l’ampiezza e la complessità del campo di analisi è stata una sfida, ma la partecipazione è stata rilevante e pari all’84% delle comunità repertoriate. Noi abbiamo approc-
cartografia
ciato le comunità, i loro responsabili attraverso un formulario che mirava a raccogliere dati fattuali sulle loro realtà e che poteva essere compilato in una quindicina di minuti. L’abbiamo fatto anche per telefono e tramite organizzazioni mantello, come la federazione delle chiese evangeliche in Ticino. È stato più complesso per quelle comunità che non sono così strutturate in un’organizzazione più ampia. Ma è stato piuttosto complesso anche con le parrocchie, forse per questioni di struttura. D’altra parte, spesso il ruolo di responsabili di comunità viene svolto in modo volontario o all’interno di gremi. Abbiamo avuto situazioni in cui erano in contatto personalmente con alcuni responsabili che promettevano di compilare il formulario ma poi non lo compilavano.
Come mai?
Come in qualsiasi ricerca può dipendere da vari fattori e situazioni, comprese questioni molto pratiche come una mancanza di tempo o una dimenticanza. Nel caso della nostro progetto, tuttavia, possono anche esserci ragioni più concettuali come il non sentirsi rappresentati dalle categorie utilizzate e in particolare il non riconoscersi nel concetto di «religione». E questo nonostante abbiamo deciso di utilizzare anche il termine «spiritualità».
Questo vuole anche dire che c’è un sommerso religioso che probabilmente non siete riusciti a repertoriare.
A dire il vero ritengo questa ricerca come un inizio, suscettibile di uno sviluppo futuro. Abbiamo una carta interattiva che può costantemente aggiornarsi. Anche altre comunità religiose che magari non abbiamo individuato potranno essere inserite. E allo stesso tempo si potranno registrare dei cambiamenti di indirizzo.
Ce ne sono?
Tre comunità da quando abbiamo terminato la ricerca a maggio 2024 si sono trasferite. Il fatto di avere una carta interattiva premette di tenere conto anche di questi aspetti e di comprendere come mai. Alcune l’hanno fatto per esempio per motivi di affitto, trasferendosi in un posto più piccolo che costava meno o più centrale.
Voi non utilizzate mai il termine «sette religiose», come mai? Perché vogliamo un’informazione neutra e scientifica. Usiamo invece ad esempio l’espressione «derive settarie» per spiegare che certi fenomeni negativi sono possibili anche all’interno di denominazioni religiose comuni.
Le appartenenze religiose individuali in costante mutamento
■ 56.4% Cattolica romana
■ 30.5% Senza appartenenzareligiosa
■ 5.6% Altre comunità cristiane
■ 3.2% Evangelica riformata (protestante)
■ 2.2% Comunità musulmane e islamiche
■ 1.1% Appartenenza religiosa sconosciuta
■ 0.8% Altre comunità religiose
■ 0.1% Comunità ebraiche
E la fede è online
Lo studio – 2 ◆ L’infosfera religiosa del Canton Ticino presenta una mappatura degli ambienti religiosi digitali
Barbara Manzoni
Può sembrare strano ma oggi anche l’esperienza religiosa, come ormai tutti gli aspetti della nostra vita, ha una dimensione digitale. E anche piuttosto attiva se guardiamo alle cifre che emergono dallo studio L’infosfera religiosa del Canton Ticino: una mappatura condotto dall’Istituto ReTe della Facoltà di Teologia di Lugano e cofinanziato dalla Rete integrata Svizzera per la sicurezza. La ricerca ha infatti identificato e catalogato 491 link: 348 appartenenti a pagine su piattaforme social come Facebook o Instagram e 143 appartenenti a siti web tradizionali. Questa mappatura dei luoghi religiosi digitali del Canton Ticino integra quella fisica prodotta dalla collaborazione tra il Servizio per l’integrazione degli stranieri del Canton Ticino (SIS) e il Centro intercantonale di informazione sulle credenze (CIC) di cui parliamo nell’articolo qui accanto.
Ma come si è svolta la ricerca e quali sono i contenuti analizzati? Lo abbiamo chiesto al professor Adriano Fabris dell’Istutito ReTe: «Abbiamo analizzato e censito i luoghi digitali attivi in Ticino legati sia alle religioni tradizionali sia alle religioni più nuove, le new religions. Poi li abbiamo monitorati per sei mesi, sono stati raccolti 5211 contenuti. Il materiale trovato è davvero tanto, non credevamo che l’esperienza religiosa nel nostro cantone fosse così presente online. L’analisi si è poi svolta sulla base di 17 parametri che ci hanno fornito le indicazioni delle modalità e della qualità dell’interattività. Abbiamo così potuto offrire non solo una presentazione di tipo quantitativo dei risultati ma abbiamo anche potuto fare una riflessione su quelle che sono le trasformazioni dell’esperienza religiosa». Il cofinanziamento da parte della Polizia federale, ci spiega il prof. Fabris, era finalizzato a un censimento dei siti religiosi digitali anche per capire se ci fossero dei segnali di radicalizzazione. A questo livello però i ricercatori non hanno rilevato nessun elemento riconducibile a estremismi, «anzi – puntualizza il prof. Fabris –quello che abbiamo visto in questo monitoraggio continuo di sei mesi è che la logica della polarizzazione tipica dei social non si è mai manifestata nella maniera in cui magari avviene su altri tipi di questioni di carattere culturale, sociale o politico». Ma cos’altro è emerso dal monitoraggio? «Innanzitutto – racconta il prof. Fabris – una gerarchia nella presenza online, che vede ovviamente la presenza massiccia della Chiesa cattolica e delle chiese protestanti e avventiste, seguono le comunità musulmane e le comunità ortodosse, poi
poche presenze di religioni orientali e una serie di realtà di new religions Colpisce il fatto che in Ticino l’ebraismo non sia presente online, pur essendoci a Lugano una lunga tradizione di presenza ebraica. Al di là dell’elencazione quello che ci sembra importante è che i numeri sono un segno della vivacità religiosa e dell’adattabilità delle religioni alle nuove tecnologie. Abbiamo inoltre rilevato che questi diversi ambienti digitali sono relativi ciascuno al proprio ambito religioso, riguardano internamente le comunità e non c’è una interazione interreligiosa. Sono poche e poco attive le piattaforme di dialogo interreligioso che a mio avviso potrebbero forse venir maggiormente implementate. Un altro elemento che abbiamo colto è che l’attenzione a eventi di attualità o a questioni controverse non è molto presente, e che, questo stupisce, la lingua utilizzata è essenzialmente l’italiano. Infine, un elemento interessante è il fatto che i social più presenti sono quelli che diremmo “dei boomers”, come Facebook. Questo rivela che le comunità religiose si sono stabilizzate attorno a una certa età dei partecipanti e che c’è un problema di trasmissione alle giovani generazioni. L’utilizzo di Facebook e di Instagram incide anche sulle modalità di comunicazione, comporta cioè un largo uso delle immagini e questo anche per le tradizioni religiose che normalmente hanno cautele in questo senso, penso all’islam e a certe tradizioni ortodosse. È la prova che le tecnologie non sono dunque neutrali, condizionano e indirizzano le nostre forme di comunicazione».
L’utilizzo dei social da parte delle diverse comunità religiose oltre ad essere un atteggiamento figlio dei nostri tempi ha risvolti particolarmente importanti: «Crea comunità – osserva il prof. Fabris – è un modo per rafforzare la coesione tra le persone che si sviluppa non più solo con la partecipazione fisica ad attività o a riti. È nata insomma l’idea di una comunità virtuale che accompagna la presenza del fedele al di là del suo essere in un luogo fisico. Quello a cui assistiamo nelle comunità virtuali è una tendenza alla sostituzione delle relazioni con le connessioni. Non sappiamo se questa sostituzione avrà delle conseguenze e quali saranno, ma è interessante osservarla. Trovarsi in ambienti in cui il corpo e la carne non giocano un ruolo fondamentale è una novità, se pensiamo soprattutto alle tre religioni monoteistiche principali in cui l’uso del corpo è fondamentale all’interno del culto. Il rischio è che vi sia una sostituzione della realtà con la rappresentazione della realtà».
Il profilo Facebook di una comunità buddista in Ticino.
Trent’anni di Scintille
Incontri ◆ La passione dell’attrice e regista Katya Troise che del teatro ha fatto una filosofia di vita
Giorgio Thoeni
Il periodo della pandemia ha impresso segni profondi nelle dinamiche del teatro indipendente ticinese. L’interruzione di molte attività, già precarie per loro natura, ha compromesso produzioni e progetti obbligando tutti a una sofferta apnea. Un capitolo buio, indubbiamente, in cui però c’è chi non ha mai smesso di sognare. Perché il teatro, professionale e amatoriale, è fatto di sogni, sacrifici e resistenza. Poi il tempo passa e dà ragione a chi ha tenacia e continua a nutrire la passione. Anche scrivendo continuando a pensare al teatro, come ha fatto l’attrice, regista e pedagoga Katya Troise con le sue Visioni da una nuvola zuccherata, una raccolta di pensieri poetici scaturiti da quel periodo di magra forzata poi pubblicati in un volumetto. Quando a Locarno nel 1995, con il primo corso per bambini, veniva fondata l’Associazione Scintille, teatro e spazio creativo, Katya aveva poco più di vent’anni ma aveva già ben in mente che cosa fare. Con il passare del tempo quell’attività si è consolidata inglobando un anno dopo anche il Piccolo Teatro di Locarno e diventando un punto di riferimento locale con i suoi corsi annuali e con decine di spettacoli per l’infanzia e l’adolescenza presentati in istituti scolastici, festival oltre a progetti di teatro-scuola. In coincidenza con il 30esimo dell’associazione è ancora Ka-
tya Troise, sostenuta dal suo comitato, a raccontare una storia legata al teatro, fra l’amatoriale e il professionale, un lungo percorso di formazione che si è trasformato in filosofia di vita. «Il teatro si è talmente mescolato al mio quotidiano – ci racconta – che è diventato un modo di vivere. A furia di stare in mezzo alle persone, lavorare con le loro emozioni è diventato anche un modo di vedere il mondo. Le emozioni non hanno età e il teatro permette di incontrare tutti, di annullare o far cadere le maschere. In questi trent’anni ho affinato la conduzione di un gruppo: un lavoro di grande responsabilità e faticoso perché si ha a che fare con delle persone, che siano adulti, bambini o ragazzi. Ma è un’attività che permette di incontrarsi e di allargare le vedute. Chi fa teatro o prova a farlo una volta poi non può più far finta di non sentire o di non vedere. Si acquisisce uno sguardo diverso, si apre una finestra sul mondo che non si chiuderà più». L’abbiamo incontrata in occasione della presentazione del programma che accompagna l’importante anniversario. Il suo entusiasmo è contagioso.
Katya, nella formazione dei bambini quanto conta l’aspetto inclusivo? Il tema è attorno a noi e ovunque. Con i bambini giochiamo al teatro, ci tengo sempre a sottolineare questo
Una fragranza piacevole
aspetto. È una disciplina con le sue regole ma nel gioco tutto è possibile e tutto è per finta. Quindi possiamo far finta di litigare, di usare le armi, tutte quelle cose che possono essere brutte o violente ma siamo in un laboratorio, in uno spazio protetto. Giocando si può far tutto, e questo, che sia consapevole o inconsapevole, è un modo per includere.
Quali attività formative di Scintille attirano di più?
Sono delle chiamate diverse. Quella rivolta ai bambini spesso è un’attività promossa dai genitori per occuparli in modo costruttivo. C’è anche quella legata alle caratterialità, come nel caso di soggetti particolarmente timidi dove spesso avvengono dei veri e propri miracoli. Nel caso dei ragazzi sono spesso, anche in questo caso, i genitori a spingerli. Per l’adolescente la voglia di partecipare dipende molto da chi c’è e da che cosa si fa. Il gruppo ha un ruolo determinante. C’è molta richiesta e molta necessità di avviare al teatro la fascia d’età delle scuole medie. Vent’anni fa era tutto diverso e il programma che proponevo era differente. Oggi lnternet porta a un modo di pensare veloce per cui il corso deve essere accattivante. I ritmi lenti e i momenti di silenzio sono difficili da digerire per cui dapprima
bisogna conquistare la fiducia. Solo allora si possono affrontare livelli d’esperienza differenti.
Qual è il suo sguardo sul resto del territorio?
Sono in contatto e conosco la realtà di altri professionisti come me e siamo un po’ tutti sulla stessa barca: tutti vorremmo più mezzi. Ho però notato che certe mancanze invece di unirci ci separano, rimaniamo tutti nel nostro guscio. E anche se collaboriamo siamo sempre un po’ schivi. Non avverto la volontà di unirsi. Io sono invece convinta che si potrebbero fare molte cose mettendosi insieme. In modo un po’ ingenuo ho sempre lottato affinché Scintille restasse piccola. Non perché siamo in pochi ma perché è molto importante curare le cose piccole, poi crescono da sole…
Torniamo alla formazione: va verso il teatro amatoriale o quello professionale?
Fra i ragazzi delle medie e del liceo
che hanno seguito i miei corsi, per più di tre anni, diversi hanno partecipato a provini. Qualcuno c’è riuscito in Francia, in Italia, in Danimarca, altri hanno continuato la formazione e sono diventati dei professionisti. Per i bambini invece non mi pongo questa prospettiva. Faccio soprattutto in modo che possano condividere il lavoro di gruppo, giocare, aprirsi. Ricordo con piacere Claudia Lombardi che ha partecipato al gruppo adulti e che oggi, a distanza di anni, con il centro della sua Fondazione rappresenta una realtà e un’opportunità importante per i giovani.
Che cosa manca a Scintille?
Lo spazio fisico, una sede. Per il resto, ho scelto un lavoro che mi rende felice. Non ne farei un altro, mi lascia libera. Lo dico sempre ai miei allievi: fate qualcosa che vi renda felici. E se sei felice sei libero.
Informazioni www.scintille.ch I
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Scuola e famiglia, un’alleanza educativa
Formazione ◆ La famiglia è una componente della scuola, ma la relazione fra queste due istituzioni non è sempre facile all’interno di un tessuto sociale che è profondamente mutato
Fabio Dozio
«Nel contesto del Ticino, come in molte altre regioni, la questione dei genitori invadenti a scuola riguarda il comportamento di genitori che si intromettono in modo eccessivo o inappropriato nelle decisioni scolastiche, nel percorso educativo dei propri figli o nelle dinamiche interne degli istituti scolastici. Questo fenomeno può generare conflitti tra scuola, docenti e famiglie, complicando il rapporto educativo e la gestione della comunità scolastica». Lo dice l’intelligenza artificiale, in questo caso ChatGPT. Sarà vero? Senza dubbio. È un tema che la saggezza popolare ha, da anni, sintetizzato con un aneddoto: una volta, se un allievo veniva redarguito a scuola, quando raccontava l’accaduto veniva rimproverato anche a casa. Ora non più, la famiglia difende il figlio a prescindere.
«D’istinto il genitore difende il proprio figlio. Chi non darebbe la vita per il proprio figlio? – è quanto ci dice Enrico Santinelli della Conferenza Cantonale dei Genitori (CCG) – Lo fanno tutti, c’è poco da fare. Per la buona educazione del figlio sarebbe giusto valutare, discutere e, se necessario, redarguire il proprio figlio se ha fatto qualcosa di male. Ma è vero che non sempre riusciamo ad essere razionali. Forse questo è anche il risultato della nostra società, che richiede sempre più impegno a livello professionale e quindi c’è meno tempo a casa per essere più razionali».
Claudio Della Santa, del Dipartimento Formazione e Apprendimento della SUPSI, inquadra il tema: «Probabilmente i cambiamenti non sono da ascrivere alla sola relazione tra genitori e scuola, ma al modo in cui si configura la società stessa al giorno d’oggi: la qualità e la coesione del tessuto sociale, la partecipazione alle attività collettive, la fiducia nelle istituzioni e il modo di rapportarsi con esse sono tutti aspetti che sono stati messi in discussione e sono mutati in questi decenni, generando incertezza e diffidenza nei confronti dell’altro. Questo si rispecchia anche nel rapporto tra i genitori e i docenti, provocando a volte situazioni di delega di responsabilità, di accuse reciproche e, in ultima analisi, di deresponsabilizzazione dell’allievo, che percepisce nella fragile alleanza educativa una mancanza di sostegno nei suoi confronti. La collaborazione scuola famiglia al giorno d’oggi è dunque una dinamica che va ricercata da entrambe le parti ed instaurata progressivamente attraverso una comunicazione trasparente e regolare. Quando avviene, i vantaggi sono indubbi: per esempio si genera una migliore riuscita educativa e dunque maggiori probabilità di successo scolastico e si identificano soluzioni più durature ed efficaci alle problematiche».
Un rapporto che si basa sulla fiducia
Il fenomeno va quindi contestualizzato nelle mutazioni del tessuto sociale. L’alleanza educativa, che Della Santa definisce fragile, sembra essere un punto centrale.
«Secondo me la fiducia nella scuola da parte delle famiglie c’è. – sostiene Santinelli – Ci sono però dei genitori, a mio parere pochi, che fanno notizia, che denunciano le mancanze che ci sono nella scuola. E le mancanze ci sono. Anche 50 anni fa c’era
il docente bravo e quello meno bravo. Questo vale per tutti gli ambiti lavorativi: 80% normali, 10% eccellenti e 10% inconcludenti. Quindi anche fra i docenti abbiamo questo aspetto.
Penso sia giusto far notare chi nella scuola non è adatto o non è al posto giusto e che influenza negativamente i ragazzi che gli sono affidati. Una volta forse i genitori non reagivano di fronte a situazioni anomale, non direi per rispetto delle istituzioni, ma perché non avevano la volontà o la capacità di farlo. Oggi c’è chi reagisce di fronte a situazioni scorrette».
Diamo la parola anche a una docente, molto attenta e lucida nel descrivere il suo ruolo: «Il mio intento non è di fare di tutta l’erba un fascio, – scrive Giorgia Imperiali sulla rivista Verifiche – dicendo che tutte le famiglie sono ingestibili. Spezzo quindi una lancia a favore di tutti quei genitori che si dimostrano comprensivi e che hanno compreso che tutti quanti noi vogliamo solo il bene dei bambini. Che si fidano di noi docenti e della scuola. Perché è proprio qui che sta il nodo cruciale. La fiducia. La fiducia in un docente che ogni giorno usa ogni grammo del suo essere per rendere l’apprendimento un’esperienza entusiasmante e formativa».
Dal genitore iperprotettivo al genitore assente
Il grado scolastico più delicato è la scuola media. Perché i giovani attraversano un momento cruciale del loro sviluppo e perché, tendenzialmente, sono chiamati a scegliere prospettive formative o professionali che varranno per il resto della vita. In questa fase il ruolo della famiglia è molto importante e si declina in modi diversi: o troppo invadente e iperprotettiva o, perfino, assente. Un operatore sociale che è anche genitore, Stefano Bernaschina, ha uno sguardo che definisce
«drammatico» della famiglia di oggi. Sostiene infatti che «la genitorialità di oggi è molto assente e la definirei “famiglia dell’abbandono”. Vedo grandi parcheggi dove stazionano bambini, da preasili zeppi da mattino a sera, da servizi prescolastici e post-scolastici, da nonni impiegati come genitori in affitto non retribuiti. Qualche mese fa ho partecipato a un convegno organizzato dall’Assicurazione invalidità. Un relatore identificava come sintomo del disagio giovanile di pochi anni fa la trasgressione, che portava all’uso di sostanze, al bullismo e al vandalismo. Oggi sembra sia la “mancanza di senso” a farla da padrone, che porta alla resa, all’abbandonarsi in sé stessi, al “chi se ne frega”. È importante avere docenti che non chiudano la porta a genitori che desiderano partecipare alla crescita del proprio figlio. Per questo, occorre avere docenti in chiaro e sicuri di ciò che stanno facendo».
Un’altra docente, Giulia Tavarini, annota su Verifiche: «Abbiamo a che fare con famiglie iperprotettive e preoccupate del profitto scolastico dei ragazzi, che si sentono sotto pressione perché non vogliono deludere le aspettative dei loro genitori. Questo controllo può essere a volte asfissiante e provocare delle ansie. Iperproteggere i bambini non li aiuta a trovare le proprie strategie per far fronte alle frustrazioni della vita».
Altro aspetto che può ripercuotersi sulla scuola sono le attività post scolastiche che impegnano bambini e ragazzi. Sport, ginnastica, corsi di musica, cori, balli e balletti, attività varie. L’agenda settimanale di tanti allievi è impressionante. «Si cerca di far fare ai ragazzi molto di più. Un po’ perché ne abbiamo la possibilità, un po’ perché pensiamo sia utile e interessante per loro e un po’ per lavarci la coscienza perché siamo meno presenti come genitori. – afferma Santinelli – È un dato di fatto. C’è sempre meno tempo per stare con se stessi».
L’importanza della comunicazione
I docenti e le direzioni sono pronti a gestire il rapporto con i genitori? «Personalmente – precisa Claudio Della Santa – ritengo che direzioni e docenti sono consapevoli dell’importanza di una relazione positiva e aperta con i genitori e dunque tentano di curare al meglio questa dimensione, anche sostenendo e accogliendo genitori in difficoltà. È importante ricordarsi che dal punto di vista comunicativo ogni conflitto nasconde un bisogno che va riconosciuto, espresso e considerato, proprio per ritrovare un dialogo e un’alleanza educativa a favore della crescita del bambino».
La CCG cosa chiede alla scuola? «Chiediamo di ascoltare i genitori e di dialogare nel rispetto reciproco. –sottolinea Enrico Santinelli – Attualmente stiamo cercando di favorire il dialogo fra le direzioni e le assemblee dei genitori. Dobbiamo poter comunicare direttamente con le famiglie, grazie alla posta elettronica. Una volta era la direzione della sede scolastica che contattava i genitori tramite i ragazzi. Naturalmente la comunicazione non funzionava perché, molto spesso, i ragazzi dimenticavano di consegnare alla famiglia le comunicazioni. Ora c’è un progetto concreto con il CERDD (Centro di risorse didattiche e digitali), così le assemblee potranno a breve comunicare direttamente con i genitori. Il nostro scopo è promuovere il coinvolgimento dei genitori nella formazione dei giovani e vegliare sul buon funzionamento della scuola. Attualmente notiamo una pericolosa tendenza a ridurre le risorse della scuola, come si è visto recentemente sulla questione dei tagli al personale scolastico e sociosanitario, e lì ci siamo attivati. Cerchiamo di fare pressione, anche a livello politico, su questi temi. Abbiamo avuto recente-
mente un paio di incontri con Marina Carobbio, direttrice del DECS. Partecipiamo ai lavori delle commissioni che riguardano la scuola e la formazione professionale. Poi lavoriamo con le assemblee dei genitori delle sedi scolastiche per cercare di farle funzionare nel modo migliore».
Anche nella legge
La legge sulla scuola del 1990 stabilisce che «le componenti della scuola sono i docenti e gli operatori scolastici specializzati, gli allievi e i genitori e, nelle scuole professionali, i formatori». Inoltre, che «la scuola promuove, in collaborazione con la famiglia e con le altre istituzioni educative, lo sviluppo armonico di persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà»
La collaborazione fra scuola e famiglia è quindi un caposaldo assoluto, come sostiene Claudio Della Santa: «Un noto proverbio africano afferma “per educare un bambino ci vuole un intero villaggio”. Ciò permette di illustrare in una frase la necessità di creare una buona sinergia tra una molteplicità di istanze educative. Attraverso questa legge si esprime chiaramente che la scuola e i suoi attori non possono svolgere efficacemente la loro azione educativa senza la collaborazione e la partecipazione dei genitori. Nel concreto, si traduce sul piano istituzionale nell’esistenza dell’assemblea e del comitato genitori, due istanze con le quali la direzione e i docenti possono dialogare per migliorare l’efficacia educativa, e sul piano dei singoli individui nell’importanza di un contatto regolare, di un’informazione e coordinamento reciproco a vantaggio dell’allievo e del suo percorso di apprendimento e di sviluppo».
Dialogo, collaborazione e fiducia tra genitori e scuola sono le premesse per favorire la crescita dei bambini. (Freepik.com)
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I maestri liutai guardano al futuro
Professioni ◆ La Segreteria di Stato per la formazione, la ricerca e l’innovazione (SEFRI) ha aggiornato l’elenco delle professioni per le quali è prevista la maestria: otto sono state abrogate, tra queste il maestro liutaio e il maestro scultore su pietra
Carla Colmegna
Addio maestro liutaio e addio maestro scultore su pietra: nel 2025 il progresso li mette fuori rosa; ciò non vuol dire che queste professioni scompariranno, ma il loro cammino cambierà strada. Con questi due mestieri, altri sei sono stati infatti privati del diploma superiore federale, quello più alto. La Segreteria di Stato per la formazione, la ricerca e l’innovazione (SEFRI) in Svizzera ha aggiornato l’elenco delle professioni per le quali è prevista la Meisterprüfung.
Questo significa che, dallo scorso gennaio, la preparazione per le professioni escluse non è più ritenuta al passo con i tempi, ma deve essere modernizzata, anche se riguarda attività che fanno pensare a un romantico passato. Chi oggi vuole essere maestro liutaio, maestro scultore su pietra, maestro di lavorazione della pietra, maestro di lavorazione del legno, di lavorazione dei metalli, della ceramica, del vetro e del cuoio potrà svolgere ancora quel lavoro, ma senza poter contare sul titolo di «maestro» ottenuto con il diploma superiore federale.
Questo perché le offerte della formazione professionale vengono riesaminate regolarmente e, quando se ne riscontra la necessità, vengono modificate. Chi quest’anno volesse intraprendere un’alta formazione professionale dovrà dunque ricordarsi che la SEFRI ha emanato e approvato complessivamente 33 professioni tra nuove e rivedute: 13 nella formazione professionale di base e 20 nella formazione professionale superiore e che 8 professioni della formazione professionale superiore sono state abrogate.
Da gennaio scorso, quindi, la SEFRI ricorda che si potrà scegliere, ad esempio, di diventare addetto di gastronomia standardizzata CFP o specialista in ortopedia tecnica calzaturiera con attestato professionale federale, ma anche che non verranno più formati i maestri liutai e i maestri scultori su pietra.
Le formazioni e i titoli della formazione professionale superiore vengono infatti regolarmente rivisti e adattati ai nuovi scenari socio-economici e se le competenze di una data professione non sono più adeguate ai tempi, oppure non sono più ritenu-
te necessarie al mercato del lavoro, la professione stessa viene abrogata.
I programmi della formazione professionale devono logicamente seguire i cambiamenti sociali e tecnologici e vengono strutturati dalle organizzazioni del mondo del lavoro, responsabili delle singole professioni, che sanno esattamente cosa il mercato richiede. Cancellare alcune professioni e, invece, crearne di nuove ha proprio il senso di andare incontro alle rinnovate esigenze economiche, tecnologiche, ma anche ecologiche o didattiche offrendo personale formato in modo adeguato. Una decisione che la SEFRI ha preso di concerto con i rappresentanti delle categorie dei lavori interessati alle abrogazioni.
A questo punto viene da domandarsi: ma le professioni abrogate, dal 2025 non esistono più? Si perderanno le abilità artigianali di chi lavora il legno per farne strumenti musicali, la pietra, il vetro, i metalli, il legno, il cuoio o la ceramica? La risposta fortunatamente è: no. Questi lavori, che richiedono un’abilità speciale e sono ancora molto richiesti, continueranno ad essere imparati, insegnati e svolti, ma bisogna, e lo si sta facendo, modi-
ficare l’iter di formazione per renderne la preparazione sempre più moderna ed efficiente.
Christian Guidetti, presidente dell’associazione liutai svizzeri, ha fatto della sua passione una professione speciale alla quale non rinuncerebbe e, proprio per questo, ritiene importante rendere anche il suo mestiere, come quello delle altre sette professioni abrogate, il più possibile adeguato al momento.
A questo scopo, da quando la SEFRI ha aggiornato le professioni, Guidetti sta lavorando per modernizzare la formazione dei maestri liutai, dopo che la sua associazione, su sollecitazione della SEFRI, ha accolto la decisione di cancellare, per il momento, la Meisterprüfung in liuteria, cioè l’esame da maestro nel settore artigianale che permette al candidato di ottenere il titolo di Meister (maestro) ed essere autorizzato anche a formare gli apprendisti.
«Al momento si sta lavorando. Si sono creati gruppi di lavoro per cominciare a stendere il programma di diploma che sostituirà la Meisterprüfung e che dovrà passare al vaglio della SEFRI – spiega Guidetti – Il
diploma federale, l’esame superiore come era fatto prima, è stato cancellato perché non rispondeva più ai canoni odierni. Il lavoro che stiamo svolgendo ora riguarda la stesura delle prove pratiche e teoriche fino ad arrivare poi all’esame federale. La Meisterprüfung tornerà ad esserci, sarà al passo con i tempi, ma deciderà la SEFRI. Non ci sono scadenze, anche se prevediamo di cominciare a vagliare le procedure dell’esame entro l’anno prossimo».
Dall’attività in corso nascerà un nuovo maestro liutaio ed è interessante capire in cosa sarà diverso dal «vecchio». «Anche il lavoro del liutaio cambia ed evolve – precisa Guidetti – oggi ci sono tecniche di restauro, ispezioni, analisi non invasive che prima non si facevano. Verrà inoltre inserita la pratica del restauro che oggi è gran parte del nostro lavoro, ma si cercherà anche di verificare che il candidato abbia seguito determinati corsi e condotto un certo iter di apprendimento durante gli anni per accedere all’esame federale».
Oggi Guidetti ospita aspiranti maestri liutai nella sua bottega di Locarno, Il Violoncello, situato in Via Val-
le Maggia: «Oggi chi vuole iniziare questa professione frequenta la scuola, ad esempio quella di Cremona o in Svizzera a Brienz, e poi va a bottega – prosegue il liutaio – sono invece pochissimi coloro che fanno solo l’apprendistato, perché c’è ancora il mito del diploma ed è anche giusto che ci sia. Io ho frequentato la scuola di Cremona e il vivere la città di Cremona ti fa respirare la liuteria a 360 gradi. L’apprendistato in Svizzera dura 5 o 6 anni poi, volendo, uno può aprirsi una sua bottega, anche se non è facile gestirla perché gli aspetti da curare sono tanti. La mia apprendista qui in bottega ha fatto tutto, dalla costruzione alla preparazione degli strumenti per il noleggio, alla messa a punto dello strumento e poi ha superato brillantemente gli esami della scuola di Brienz; ora sta decidendo il suo futuro. Il diploma è importante, anche se a me, in 30 anni di lavoro, nessuno l’ha mai chiesto». Gli apprendisti sono «affascinati dal poter creare qualcosa dal niente, da un albero preso in foresta, portato qui, stagionato e lavorato; vedono nascere uno strumento che poi suona nei grandi teatri e nelle grandi sale da concerto del mondo - precisa il liutaio -. La nostra è una professione dove si recupera una dimensione umana e naturale che ormai non c’è più e questo affascina tutti, ma soprattutto i giovani che hanno ancora l’elasticità mentale per pensare di fare di questa passione il lavoro della vita. Tuttavia, la maggior parte di chi si avvicina al lavoro in bottega poi non lo prosegue, ma lo tiene come bagaglio personale, come esperienza che resta. Su venti che provano uno va avanti, la percentuale è bassa, anche se qualcuno, pur non facendo il liutaio, magari resta nel mondo della musica. Per fare un esempio, una persona che conosco è diventata tecnico del suono». Guidetti la sua professione l’ha scelta proprio per il fascino a cui accennava sopra: «Ho sempre suonato, sax e chitarra – conclude – e a spingermi verso questo lavoro è stata la passione per la musica, ma anche per il lavoro manuale con il legno». Creare è la parola d’ordine per tante professioni che mantengono un fascino indiscusso e trovano in quel verbo la propria ragione d’essere.
Il Monte San Salvatore festeggia i suoi 135
tradizione
Era il 26 marzo 1890 quando alla presenza di un’ottantina di invitati si svolse l’inaugurazione della funicolare del San Salvatore, dal giorno successivo ebbe inizio il servizio regolare per il pubblico.
Un pranzo d’epoca e una foto ricordo col mitico Bafalòn per festeggiare i 135 anni della storica funicolare luganese
Sono trascorsi 135 anni e la vetta mantiene intatto il suo fascino e la sua bellezza. Nel frattempo molti capitoli si sono scritti nella storia del Monte San Salvatore, dal centro di studi sui fulmini al Museo, dal percorso naturali-
stico alle leggende del Bafalòn. Tutti da scoprire o da riscoprire sabato 29 marzo 2025 in occasione della festa per celebrare il 135° anniversario. Una giornata che gli organizzatori promettono all’insegna del divertimento e della tradizione. Dalla risalita panoramica con la funicolare fino all’intrattenimento musicale in vetta, è così che il Monte San Salvatore si veste a festa e propone un evento imperdibile per grandi e piccini, immerso nella magia di una delle vette più suggestive e fotografate del Ticino. In occasione del 135° anniversario, la Monte San Salvatore SA vuole offrire un’opportunità speciale per tutti i visitatori, per questo motivo, per celebrare questo importante traguardo, il prezzo della risalita e del pran-
ni potranno accedere gratuitamente. Durante la giornata, i visitatori saranno accompagnati da un’animazione musicale in vetta e potranno godere del panorama visto che, assicurano scherzosamente gli organizzatori, «per l’occasione è stato riservato il sole» e se cadrà anche qualche goccia di pioggia, la festa avrà luogo in ogni caso. Ci sarà anche il mitico Bafalòn che per l’occasione lascerà la sua misteriosa grotta e si farà scattare una fotografia insieme ai bambini che hanno imparato a conoscerlo attraverso le avventure di Dafne e Timo.
Christian Guidetti, presidente dell’associazione liutai svizzeri, nella sua bottega a Locarno.
zo d’epoca sarà di 42 franchi. Chi invece desidera acquistare solo la risalita potrà approfittare di una tariffa
speciale: 13.50 franchi per gli adulti e 9 franchi per i ragazzi dai 6 ai 16 anni, mentre i bambini fino ai 6 an-
ATTUALITÀ
Il destino incerto del Ciad
Reportage da un Paese provato dalla miseria, dagli estremisti, dalle sfide ambientali. E ora ci si mette anche Trump, con la sua volontà di mettere fine agli aiuti Usa
Focus sulla Serbia, dove lo scontro continua
Rimpasto di Governo o nuove elezioni non calmeranno gli animi dei manifestanti che chiedono giustizia e il ripristino dello stato di diritto. Lo dice Massimo Moratti
Gli effetti di Trump sull’Europa
L’analisi ◆ Dall’economia al riarmo, passando per la guerra in Ucraina: ora il Vecchio Continente è obbligato a svegliarsi
Sull’Ucraina il suo esordio come mediatore di una tregua è stato deludente, ma almeno Donald Trump aiuta l’Europa a diventare adulta? Ancora stentiamo a prendere le misure della rivoluzione copernicana in atto in Germania. L’abbandono dell’avarizia nella spesa pubblica è la risposta più positiva e benefica alla sfida di Trump. Il neo-cancelliere Friedrich Merz prende atto implicitamente che Trump ha ragione a denunciare i macro-squilibri del commercio internazionale. Al di là delle antiche storture create dai protezionismi (quello cinese e quello europeo precedono di molto quello americano), c’è un elemento strutturale ben più importante dei dazi: Paesi come Cina, Germania, Giappone e Italia hanno voluto costruirsi molti decenni fa un modello di sviluppo trainato dalle esportazioni, che dava per scontato l’accesso a un mercato americano apertissimo e vorace; quei modelli trainati dall’export presuppongono una compressione della domanda interna (bassi salari e bassi consumi; alti risparmi; dove «bassi» e «alti» va inteso soprattutto relativamente al modello Usa che ha le paghe operaie più alte del mondo e i consumi più elevati).
Un modo serio e positivo per venire incontro alla sfida di Trump è alzare la domanda interna in quei Paesi. Lo strumento più veloce per arrivarci è attraverso gli investimenti pubblici. È quel che sta pianificando Merz. Se si realizza, l’intera Europa ne trarrà vantaggio, perché finalmente avrà la sua locomotiva interna anziché dipendere da quella americana. Trump «salva l’Europa da se stessa». Sul tema del riarmo Trump forse finirà per avere un effetto miracoloso: sveglierà la «Bella addormentata nel bosco europea» dal suo letargo geopolitico, dalla sua illusione di essere la prima superpotenza erbivora della storia umana. La lunga ibernazione delle coscienze europee ha fatto ignorare gli imperialismi carnivori i cui appetiti crescevano da molti anni (Russia, Cina, Iran, Turchia). Ora qualcosa si è mosso, grazie ai modi brutali con cui The Donald pone certe questioni all’attenzione di tutti. Resta l’Ucraina. Finora, vista la pessima partenza – la mini-tregua offerta da Putin è deludente, le sue richieste rimangono pericolose e inaccettabili – l’unico risultato concreto della mediazione americana è di avere messo in difficoltà gli alleati europei. Una buona notizia è che almeno per adesso Trump non ha mollato, la fretta di ottenere qualcosa non lo ha indotto a concessioni precipitose e sconsiderate (per esempio la fine degli aiuti militari a Kiev). La pessima partenza del dialogo tra America e Russia suggerisce di prestare attenzione a un’ipotesi: che Putin non sia affat-
to interessato a cessare questa guerra. Forse Putin si è affezionato alla sua «economia di guerra», ne ha bisogno per preservare e consolidare il suo potere, mentre teme che una pace gli farebbe esplodere una serie di problemi interni.
Nell’ipotesi che Putin si sia affezionato alla guerra, non ha fretta di venire incontro a Trump. A meno che sia Trump a concedergli tutto
Un’avvertenza è necessaria. La nostra capacità di decifrare Putin è difettosa. Questo è normale quando si ha a che fare con un regime autoritario, che pratica la censura e non esita a uccidere i dissidenti. Ci mancano delle «voci dall’interno» autorevoli e credibili. Abbiamo un’idea vaga e forse sbagliata sullo stato dell’opinione pubblica in Russia. Di conseguenza, troppo spesso abbiamo inseguito piste improbabili, magari scambiando i nostri desideri per realtà. Con qualche imbarazzo, dovremmo ricor-
dare quante volte i media occidentali diedero Putin per malato terminale, moribondo. Oppure con quanta fretta venne decretato il successo della Divisione Wagner nella sua breve rivolta e «marcia su Mosca» (presto abortita). Su un altro fronte, in Occidente si è spesso sopravvalutata l’efficacia delle sanzioni, sono circolate analisi rassicuranti (per noi) su un’economia russa allo stremo, su un Putin con l’acqua alla gola, bisognoso di far cessare le sanzioni. O su improbabili mediazioni cinesi che lo avrebbero indotto alla ragione. L’elenco degli errori occidentali è sterminato e dovrebbe consigliarci umiltà.
In una analisi che appare sul «New York Times», il giornalista russo (in esilio) Mikhail Zygar spiega perché Putin non vuole una vera tregua, tanto meno una pace durevole. Secondo lui l’economia di guerra, cioè la riorganizzazione delle attività produttive e del mondo del lavoro, per convogliare risorse ed energie verso il settore bellico, sta generando dei benefici. Equivale a una politica keynesiana di «spesa pubblica in deficit» che sostiene la
crescita della Nazione. Diffonde ricchezza in alcune regioni che erano rimaste sottosviluppate. Infine consente a Putin un ulteriore rafforzamento del suo controllo sui centri del potere economico e sulla società civile. Anche le correnti di dissenso interne, le fazioni rivali nel suo regime, sono silenziate e costrette alla disciplina patriottica finché la guerra dura. Una economia di guerra ha molti difetti, la sua crescita può essere «drogata» e squilibrata, ma di sicuro lo Stato ne viene esaltato per la sua centralità. Zygar aggiunge i pericoli dello scenario opposto. Una tregua durevole, o addirittura una pace, farebbe tornare dal fronte una massa sterminata di riservisti (circa un milione), con il loro potenziale destabilizzante: non è detto che Putin sia capace di dargli lavoro subito, e chi ha combattuto al fronte in un contesto di pesanti perdite umane può essere portatore di un risentimento feroce. Insomma, secondo l’autore «Putin ha finito per amare questa guerra, non può più farne a meno».
Se questa tesi si rivelasse fondata, le delusioni per Trump sarebbe-
ro appena iniziate. Putin prolungherà il negoziato all’infinito, insistendo su richieste massimaliste. Disarmo e neutralità dell’Ucraina. Rifiuto di qualsiasi forza militare straniera d’interposizione o peace-keeping. Concessioni territoriali «definitive», riconosciute dalla comunità internazionale, e forse anche al di là dei territori già occupati dall’esercito russo con la sua aggressione criminale. In questo gioco al rialzo Putin potrebbe rilanciare anche un tema che iniziò ad agitare dal 2007: un pieno recupero della sfera d’influenza di Mosca nell’Europa centro-orientale, con il ritiro dei soldati statunitensi entro i vecchi confini della Nato pre-1990. Questo significherebbe sguarnire Polonia e Paesi Baltici, fra l’altro. Se alcune di queste richieste risulteranno inaccettabili perfino per Trump, amen. Nell’ipotesi che Putin si sia affezionato alla guerra, non ha fretta di venire incontro a Trump. A meno che sia Trump a concedergli tutto: una vittoria così completa da farlo passare alla storia come il restauratore di un impero.
Putin e Trump in un incontro nel 2017. Finora la mediazione americana tra Mosca e Kiev non ha sortito grandi risultati. (Keystone)
Federico Rampini
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Il destino incerto del Ciad tra miseria,
Reportage ◆ La crisi sudanese scoppiata nel 2023 ha gettato un altro peso su una Nazione che tentava di avviarsi verso
Paola Nurnberg, testo e fotografie
«Il cammello, quando viene ucciso, sembra una persona. Piange proprio come noi, con le lacrime», spiega Akouan, il responsabile locale dei progetti della Caritas che dipendono dal vicariato apostolico di Mongo, nell’est del Ciad. La loro carne – continua – è molto apprezzata, e da noi viene consumata regolarmente. Negli immensi paesaggi desertici che attraversiamo a bordo di un fuoristrada se ne vedono tantissimi, anche se in realtà sono dromedari ma qui, in francese, li chiamano così, cammelli. Stiamo andando a vedere lo stato di alcuni programmi avviati mesi fa che riguardano l’inserimento e l’accompagnamento delle donne ciadiane e delle rifugiate sudanesi nei lavori agricoli. Si tratta di uno dei tanti progetti attivati dalle organizzazio-
ni umanitarie che da anni si occupano di sostenere una delle Nazioni più povere al mondo, nonostante le sue ricchezze naturali come il petrolio. Ricchezze non ancora pienamente sfruttate e soprattutto non a vantaggio della popolazione, la metà della quale vive sotto o sulla soglia di povertà. Una situazione che rischia di aggravarsi dopo la decisione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump di mettere fine ai contributi di UsAid, l’Agenzia americana per lo sviluppo internazionale che destinava, tramite le attività delle tante Ong, diversi milioni di dollari per combattere la malnutrizione, gli estremismi violenti e le disparità. Un provvedimento al momento sospeso per decisione della Corte Suprema, ma che getta un’ombra di grande in-
certezza sul lavoro umanitario proprio dove ce n’è più bisogno.
A questo proposito bisogna considerare che il Ciad, quinto Paese africano per estensione, nonostante le sue enormi difficoltà, è stato tra quelli che hanno accolto il maggior numero di rifugiati dal Sudan, arrivati a centinaia di migliaia nelle province vicine al confine.
È soprattutto nella regione orientale del Ouaddaï che oggi sono disseminati tanti campi profughi, specialmente nei pressi del villaggio di Metché, ma anche attorno ad Adré e Farchana, piccole località diventate avamposto delle agenzie delle Nazioni Unite che si occupano dei rifugiati. Dal Programma alimentare mondiale, all’Organizzazione internazionale per le migrazioni, hanno tutte un punto d’appoggio in questi luoghi remoti raggiungibili solo attraverso strade sterrate, con molte buche, che rendono ogni viaggio lungo e faticoso.
Alla fine di febbraio nel solo Ciad si contavano oltre 750 mila rifugiati sudanesi scappati dalla violenza delle ostilità scoppiate nel 2023
Alla fine di febbraio nel solo Ciad si contavano oltre 750 mila rifugiati sudanesi scappati dalla violenza delle ostilità scoppiate nel 2023, che hanno creato una nuova grave emergenza umanitaria. Tutti accolti in un territorio, quello desertico del Sahel, caratterizzato dalla scarsità di risorse che devono essere oltretutto condivise con la popolazione locale. La crisi sudanese ha gettato quindi un altro peso su una Nazione in procinto di avviarsi verso lo sviluppo che prosegue con lentezza e fatica. Il tutto mentre il passaggio al potere civile dopo le elezioni legislative, regionali e locali che si sono svolte nei mesi scorsi dovrebbe portare la stabilità politica tanto auspicata ma che non si può ancora dire sia garantita dalla continuità del presidente Mahamat Idriss Déby Itno – chiamato anche
Midi – in carica dal 2021 a seguito della morte violenta del padre Idriss Déby, che aveva guidato il Paese per 30 anni. A questo si aggiunga l’insicurezza interna per la presenza di gruppi ribelli, soprattutto nel nord,
vicino al confine con la Libia, e i jihadisti dell’Isis e di Boko Haram a ovest, attivi anche e soprattutto nei Paesi vicini, che costituiscono sempre una grossa minaccia. Nei mesi di ottobre e novembre 2024 l’esercito ha
Scontri armati, uccisioni e violenze
Il Dipartimento federale degli affari esteri (Dfae) della Confederazione sconsiglia i viaggi in Ciad, poiché «la situazione politica, economica e sociale è molto tesa. L'8 gennaio scorso 19 persone sono state uccise e altre sei ferite in un attacco al palazzo presidenziale. Violenze politiche, scontri armati e sparatorie si sono verificati anche nel febbraio 2024 e in occasione delle elezioni presidenziali del maggio 2024, causando diversi morti e feriti». Manifestazioni e scontri possono verificarsi in qualsiasi momento, soprattutto a N’Djamena. Sono possibili blocchi stradali e atti di vandalismo. Le forze di sicurezza hanno ripetutamente usato munizioni vere per disperdere le manifestazioni. Il Dfae sottolinea che anche l’accesso al Web non è sempre garantito. «In molte regioni del Sahara e del Sahel sono attive bande armate e gruppi terroristici che vivono di contrabbando e di sequestri. (…) Il rischio di at-
tentati e attacchi terroristici esiste in tutto il Paese; è più alto nella regione del lago Ciad».
I diritti delle donne
Per quello che riguarda i diritti delle donne, Amnesty International nel suo rapporto annuale sottolinea che «il 24,2% delle donne di età compresa tra i 20 ei 24 anni si è sposata prima dei 15 anni. La percentuale era del 25% nelle zone rurali e del 21% in quelle urbane». Anche la violenza di genere è molto diffusa: aggressioni fisiche, psicologiche e mancanza di opportunità (ad esempio, alle donne viene negata la quota di eredità o alle ragazze viene impedito di andare a scuola) sono all’ordine del giorno. AI osserva: «Le vittime di violenza di genere hanno continuato a vivere nel timore di denunciare le aggressioni, per ragioni sociali o per la mancanza di sostegno da parte delle forze dell’ordine o delle autorità tradizionali». / Red.
miseria, estremisti e sfide ambientali
infatti subito pesanti attacchi contro i suoi soldati nella regione intorno al lago Ciad. Permangono inoltre rischi legati alla presenza di bande armate nelle province più remote, dove manca la copertura di rete e a volte non è sufficiente la scorta armata, mentre non sono mancati sequestri anche a danno di personale straniero delle organizzazioni umanitarie.
In un contesto già complicato, il Ciad è inoltre sottoposto a continue sfide ambientali al momento incontrollabili, come ad esempio le alluvioni che si verificano puntuali durante il periodo delle piogge. Lo scorso autunno eventi atmosferici eccezionali avevano causato la morte di centinaia di persone e gravissimi danni, soprattutto se si tiene conto che nei villaggi le case hanno pareti di fango e tetti di paglia. Ma per
molti è diventata la normalità restare isolati anche per tre mesi di fila durante la stagione umida. Come succede ad Am Timan, un importante centro del sudest, non lontano dalla Repubblica centrafricana, in cui operano diverse organizzazioni umanitarie. Organizzazioni che a seguito dei tagli americani oggi temono un aumento delle domande di aiuto a fronte però di minori mezzi per intervenire. Le Ong più grandi infatti tenderanno a ridurre il personale e la loro sfera di azione o la durata dei progetti, mentre le più piccole, che vivono del sostegno di donatori fissi, potrebbero essere sollecitate maggiormente senza poter accogliere le nuove richieste.
Lo scorso autunno eventi atmosferici eccezionali avevano causato la morte di centinaia di persone e gravi danni ai villaggi con case fatte di fango e paglia
Col rischio che si crei una società ancora più ingiusta in un Paese dove la scuola è un privilegio a cui molti accedono grazie a programmi umanitari. Ma chi vive in villaggi sperduti, senza trasporti pubblici, non può frequentarla. Una società in cui i pastori accompagnano gli animali al pascolo armati di lance e armi da fuoco le dispute tra di loro, anche per questioni da poco, possono sfociare in attacchi violenti e sparatorie. E dove le ragazze sono ancora soggette a matrimoni in giovanissima età, spinte dagli stessi genitori a lasciare la scuola per sposarsi. In questo contesto il futuro sembra ancora molto incerto.
Poi c’è anche l’altro Ciad, ancora più invisibile, ed è quello dei turisti che vanno a fare i safari nel Parco nazionale di Zakouma o che si avventurano con la scorta armata nelle zone desertiche a nord della capitale N’Djamena. Per questo, se le Ong terminassero o riducessero il loro la-
voro, si sfalderebbe tutto quello che è stato fatto finora. Chi lavora qui da tempo si stupisce nel vedermi sorpresa, quando mi spiega che solo dieci anni fa lo sviluppo in alcune zone era inesistente, e che da allora molto è stato fatto, ma tanto resta ancora da fare.
Largo a russi, cinesi e arabi Il Forum internazionale delle infrastrutture che si è tenuto dal 18 al 20 febbraio a N’Djamena ha gettato le basi per richiamare in Ciad investimenti e opportunità di sviluppo in un Paese grande due volte la Francia ma con poche strade asfaltate e mezzi di trasporto insufficienti. Un Paese che anche per queste difficoltà di spostamento è rimasto ancorato alle tradizioni e ha mantenuto la sua caratteristica di mosaico formato da un patrimonio culturale di decine di etnie e dialetti.
Nonostante questo, il suo sguardo verso un futuro autonomo, almeno dall’Occidente, è stato sancito dalla fine del lungo accordo di difesa con la Francia, che a fine gennaio ha completato il ritiro dei suoi contingenti restituendo l’ultima base che ancora occupava. La sfera di influenza occidentale sembra così destinata a svanire, soppiantata da una più consolidata presenza russa, oltre che cinese e araba. A lungo considerato nel Sahel uno dei principali alleati dei Paesi europei nel contrasto al terrorismo, il Ciad dovrà ora dimostrare di saper gestire gli equilibri interni ed esterni. Ma la sua presenza nella cosiddetta «Coup Belt», la cintura dei golpe, che sta ad indicare quegli Stati africani confinanti tra di loro che in questi ultimi anni hanno vissuto dei colpi di Stato militari molto ravvicinati nel tempo e con modalità e motivazioni simili (come Mali, Niger e Burkina Faso), allunga dense ombre sulla futura stabilità del i questo Stato africano.
«In Serbia lo scontro continuerà ad oltranza»
L’intervista ◆ Rimpasto di Governo o nuove elezioni non calmeranno gli animi dei manifestanti che chiedono giustizia e il ripristino dello stato di diritto. Lo afferma l’esperto Massimo Moratti di stanza a Belgrado
Romina Borla
Che aria si respira in Serbia, dove continuano le proteste contro la corruzione, la poca trasparenza e l’autoritarismo del Governo Vučić? «La frustrazione e la rabbia dei manifestanti continua a crescere, mentre le autorità non sembrano voler modificare la rotta intrapresa», afferma Massimo Moratti, corrispondente da Belgrado dell’Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa (www.balcanicaucaso.org).
Dopo l’imponente manifestazione del 15 marzo nella capitale, il Parlamento serbo ha confermato le dimissioni che il primo ministro Miloš Vučević aveva presentato il 28 gennaio, in seguito a gravi incidenti avvenuti a Novi Sad, a margine delle proteste degli studenti (leggi box in basso). Il presidente Aleksandar Vučić ha dichiarato che, se non si troverà un accordo per formare un nuovo Governo entro trenta giorni, indirà elezioni anticipate. Sarebbero le seconde elezioni parlamentari in Serbia nel giro di un anno e mezzo, dopo quelle del dicembre del 2023 vinte dal Partito progressista serbo, il partito conservatore e nazionalista di Vučić e Vučević.
Nuove elezioni? Non ci sono i presupposti affinché avvengano nel rispetto dello stato di diritto: l’opposizione le boicotterà
«Nessuna di queste soluzioni risolverà la crisi purtroppo», osserva Moratti. «Sono anni che la Serbia scivola verso un regime autoritario e populista, sul modello del sistema ungherese. Un rimpasto di Governo non normalizzerà questa situazione anomala». In caso di nuove elezioni? «Non ci sono i presupposti affinché queste avvengano nel rispetto dello stato di diritto». Già il voto del 2023 era stato contestato ed erano emerse accuse di brogli. Dal canto suo, l'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Ocse) aveva evidenziato «vantaggi sistemici del partito al potere», «parzialità dei media» e «pressioni sui dipendenti pubblici». «Addirittura si racconta di liste elettorali non aggiornate, dove figurano cittadini ormai deceduti», aggiunge Moratti. «Si rende dunque necessario un cambiamento sistemico se si vuole scongiurare il rischio di manipolazioni e risultati falsati», un cambiamento che richiede intenzione, sforzi e molto tempo.
In caso di elezioni parlamentari nei prossimi mesi, dunque, è molto probabile che l’opposizione – un insieme di persone variegato e piuttosto disorganizzato – le boicotti, osserva l’intervistato. Intanto i giovani continuano a chiedere il ripristino dello stato di diritto, della democrazia e delle libertà fondamentali. «Richieste molto semplici ma altrettanto complesse in una realtà come la Serbia: uno “Stato prigioniero” (captured State) in cui il partito di Vučić condiziona ogni ambito di vita. Il partito si è infatti infiltrato in tutte le istituzioni, le categorie professionali, i media ecc. ed è a questo che la gente si sta ribellando».
Va notato però che l’adesione alle proteste, seppur massiccia, spesso divide le varie organizzazioni, osserva Moratti. Per esempio, solo una parte dei sindacati sostiene i manifestanti e solo una minoranza dei giudici. «Questo indica l’esistenza di una spaccatura verticale nella società serba. Nonostan-
te il dissenso si stia espandendo, molti settori della società esitano a schierarsi apertamente contro il Partito progressista serbo. La situazione si spiega considerando la diffusione capillare del sistema di favoritismi e scambi instaurato dal potere allo scopo di ottenere principalmente sostegno elettorale. Se non appoggi il partito di Vučić, insomma, puoi perdere lavoro e privilegi. Molti hanno ancora paura, ma le cose stanno cambiando…». Tante persone alzano la testa. Vie d’uscita? Per il nostro interlocutore non ce ne sono molte. «L’opposizione ha proposto la costituzione di
un Governo di transizione composto da esperti, con la partecipazione degli studenti, che ponga le basi per elezioni libere. Più controlli sulla legalità, liberalizzazione dei media ecc. Ma il presidente Vučić ha risposto: “neanche morto”. La situazione rimane quindi bloccata. Lo scontro continuerà anche perché, il possibile uso del cannone sonico durante la manifestazione del 15 marzo, dà una spinta ulteriore nella direzione della perdita di fiducia nel potere e nelle forze dell’ordine e aumenta la rabbia, la frustrazione dei cittadini e delle cittadine». Il cannone sonico, per chi non lo sapesse, è un dispositivo che emette onde sonore ad alta frequenza: può essere usato per disperdere le folle causando effetti nefasti quali dolore, nausea e disorientamento nelle persone.
L’Europa intanto rimane in posizione defilata. Ha chiesto di avviare un’indagine indipendente sul possibile uso del cannone sonico da parte delle autorità serbe. E si limita a punteggiare alcuni aspetti importanti: il rispetto dei diritti umani, la libertà dei media
Intanto picchiatori e criminali si mescolano agli studenti, veri e finti
Le proteste in Serbia sono iniziate dopo il crollo della tettoia della stazione di Novi Sad, una città nel nord del Paese, che ha causato la morte di 15 persone. Era il 1° novembre 2024 e la struttura era appena stata ricostruita grazie ai fondi ottenuti dalla Cina nell’ambito della Belt and road initiative, ovvero la Nuova via della seta. «All’inizio erano gli studenti a manifestare contro la corruzione che ha causato quel disastro e contro il Governo che cercava di insabbiare le indagini», ricorda Massimo Moratti. Tra gli slogan appunto: «La corruzione uccide». Il malcontento è dilagato di mese in
mese, coinvolgendo larghi strati della società. «Ad essere messo in dubbio ora è tutto il sistema al potere in Serbia, impregnato di clientelismo e malaffare. Si chiede il rispetto della Costituzione e il ripristino dello stato di diritto, delle regole democratiche». Intanto le manifestazioni diventano sempre più imponenti, si è visto il 15 marzo con quella, oceanica, che si è svolta a Belgrado. «Evento peraltro a più riprese ostacolato, con autobus soppressi e treni cancellati», fa notare Moratti. «Ma non solo: l’aspetto più preoccupante dei giorni precedenti è stata la creazione di una tendopoli improvvisata nel Pionirski
e di protestare ecc. Non ha preso una posizione politica in merito alla situazione nel Paese. «Forse questo è anche un bene», dice Moratti. «L’appoggio dell’Europa rischiava di spaccare il movimento. Dopo 20 anni dall’avvio del processo di adesione all’Unione europea, in Serbia si verifica infatti un calo costante di chi è favorevole allo stesso. L’Europa è vista sempre più come una meta irraggiungibile, nonché un’entità che continua a “fare affari” con Vučić», vedi ad esempio la firma di un memorandum per un partenariato strategico sulle materie prime, soprattutto litio, nel luglio 2024. Da notare che Vučić gode del sostegno di Vladimir Putin. Stando al servizio stampa del Cremlino, infatti, il leader russo gli ha di recente telefonato sottolineato «l'inammissibilità di interferenze esterne nella situazione politica interna della Serbia» e «ha espresso sostegno alle azioni delle autorità elette legalmente».
L’Europa rimane in posizione defilata, e forse è un bene. Una sua presa di posizione politica potrebbe spaccare il movimento
Restando con gli occhi puntati ad est si vede come i problemi della Serbia –corruzione, malaffare – siano diffusi e creino malcontento nella popolazione. Pensiamo solo alla Macedonia del nord: di recente sono morte una sessantina di persone e 150 sono rimaste ferite a causa di un rogo divampato in una discoteca di Kocani, cittadina a un centinaio di chilometri a est della capitale Skopje. Locale che registrerebbe numerose irregolarità e sarebbe stato sprovvisto delle più elementari misure di sicurezza. Senza contare la falsa autorizzazione ad operare rilasciata alla società responsabile… Un caso che incendia un’opinione pubblica che è già scesa in piazza per una ragazza investita sulle strisce pedonali da un giovane ubriaco, con precedenti, che se l’è sempre cavata con poco. Le rivendicazioni si sono poi allargate all’intero sistema giudiziario che, secondo chi protesta, regala l’impunità ai colpevoli. Come in Serbia, la corruzione uccide. «Bisogna vedere come risponderanno gli organi di giustizia in Macedonia», commenta Moratti. «Se le indagini sul rogo in discoteca non verranno ostacolate, come nel caso di Novi Sad, la crisi potrebbe essere contenuta». Altrimenti anche qui il malcontento potrebbe divampare.
Park di fronte alla Presidenza, a poche decine di passi dal Parlamento, il luogo designato per la protesta del 15 marzo. Le persone accampate erano, secondo le informazioni ufficiali, gli “studenti che vogliono imparare”, conosciuti anche come “studenti 2.0” e che, in contrasto al movimento delle piazze, hanno come unica richiesta quella di tornare nelle aule. La loro presenza è stata subito notata e sono stati ricevuti dal presidente Vucˇic e – a partire da domenica 9 marzo – tali gruppi hanno cominciato ad ingrossarsi. Più gente arrivava e più era chiaro però che non si trattava di studenti ma “comparse”
pagate per far numero e presidiare lo spazio. La situazione è divenuta ancora più inquietante quando nel parco sono comparsi giovani nerboruti ultras e i berretti rossi”, i veterani della JSO, la famigerata unità per le operazioni speciali che dopo aver operato in Croazia e Bosnia Erzegovina, ai comandi dei criminali di guerra Stanišic e Simatovic, si è resa responsabile del tentato colpo di stato in Serbia nel 2001 e dell’omicidio del primo ministro Đind¯ic nel 2003». Anche picchiatori e criminali, insomma, schierati dalla parte del presidente alla luce di un sistema basato sul clientelismo e sulla corruzione.
La marea umana davanti al Parlamento di Belgrado il 15 marzo scorso e, sotto, il presidente serbo Aleksandar Vucic. (Keystone)
Il Mercato e la Piazza
Quando tira aria di guerra
Une mese fa circa l’Ufficio federale per l’approvvigionamento del Paese ha pubblicato un nuovo opuscolo per raccomandare alla popolazione di rinnovare le scorte di prima necessità. Perché, come si poteva apprendere dall’introduzione al documento, «una crisi inattesa può manifestarsi in qualunque momento». Non credo che questo appello abbia avuto un effetto diretto. Ma ho potuto costatare i cambiamenti nel comportamento dei clienti, miei vicini, nelle code davanti alle casse della Migros. Da qualche settimana ho notato due cose: in primo luogo che il montante medio della spesa, effettuata da ciascuno di essi, è più che raddoppiato. Poi che la composizione dei prodotti nel carrello della spesa è mutata. Ora si compra il necessario. Sacchetti di riso e di farina, pacchi di pasta di tutte le forme e qualità, acqua minerale e succhi, burro, margarina, legumi in sca-
In&Outlet
Francesco
tola e congelati, olio, zucchero, sale e, soprattutto, caffè, anch’esso in tutte le forme e le qualità. Il mio intuito di economista mi suggerisce – naturalmente posso anche sbagliarmi – che nelle nostre famiglie si stanno ricostituendo le scorte. Le scorte di beni di prima necessità? Ecco un termine che, da decenni, era scomparso dal nostro vocabolario. I cambiamenti che ho osservato e osservo nel mio supermercato cominciano ad essere confermati dalle statistiche sui consumi.
Da qualche mese il fatturato del commercio al dettaglio continua a crescere rispetto ai dati dello scorso anno. Contemporaneamente i prezzi di una serie di prodotti continuano ad aumentare, non da ultimo perché questi beni sono più richiesti. Come ho già ricordato, non penso che l’aumento dei consumi di questi ultimi mesi sia arrivato per effetto de-
gli appelli delle autorità responsabili dell’approvvigionamento del Paese. E non è che nei nostri supermercati si incontrino scaffali vuoti. Insomma, finora non credo si siano manifestate difficoltà nell’approvvigionamento. Ma, da quando si è insediata l’amministrazione Trump, le aspettative economiche non sono buone. Le previsioni di crescita per il 2025 vengono riviste verso il basso in Europa, come da noi. Inoltre l’evoluzione delle forniture e dei prezzi di una larga serie di beni alimentari potrebbero essere minacciate, nel prossimo futuro, in Europa, da un lato dalla guerra in Ucraina e dall’altro dalla guerra commerciale avviata dall’amministrazione Trump. La guerra in Ucraina sta forse per arrivare, per una combinazione di circostanze, al suo momento risolutivo. Ma è possibile che il cessate il fuoco, che potrebbe essere negoziato da Trump, non porti alla pa-
ha rivoluzionato lo stile del Papato
Fino a quando Francesco potrà fare il Papa? Il mondo ha tremato per lui. La crisi sembra superata. Ma ora si apre una serie di incognite, che già fa riflettere sulla sua eredità, sul suo lascito, sul futuro della cristianità cattolica.
La Chiesa ha una storia millenaria, che accelerò vorticosamente in cinque minuti: quelli tra le 20 e 22 e le 20 e 27 del 13 marzo 2013. Cinque minuti che, se non sconvolsero il mondo, certo lo avvertirono che stava accadendo qualcosa di nuovo. E non soltanto perché era appena stato eletto il primo Papa sudamericano, il primo Papa gesuita, il primo Papa a chiamarsi Francesco («Jorge Bergoglio es Francisco» titolò «El Clarin», il più importante quotidiano argentino). Immediato il riferimento a San Francesco, simbolo di povertà e sobrietà. Francesco si affacciò alla loggia di San Pietro senza stola e mozzetta rossa (la mantelli-
na corta), simbolo del potere dei predecessori. Con una croce semplice (di legno) anziché preziosa (d’oro) come usavano i pontefici. Non si definì Papa ma vescovo di Roma. Dopo aver esordito con un semplice «buonasera», si inchinò davanti ai fedeli riuniti in piazza San Pietro, chiedendo una preghiera per il suo operato. Non era mai accaduto. Recitò delle preghiere semplici, come il Padre nostro e l’Ave Maria.
La folla lo guardava, e ne fu commossa. Ma avrebbe dovuto guardare anche i cerimonieri, e se ne sarebbe inquietata. Perché fin dai primi passi Francesco ha provocato commozione e insieme sconcerto. Adesione e rigetto. Amore e ostilità, arrivato talora a degenerare nell’odio. Un sentimento mai sentito, visto, toccato in Vaticano nei confronti del Papa, come al tempo di Papa Francesco. Perché i progressisti forse non hanno amato
Il presente come storia
La notizia che l’Ucraina stia impiegando nelle sue operazioni belliche velivoli del tipo Mirage ha ridestato antichi fantasmi. Il lettore non più giovane ricorderà che questo aereo fu all’origine, nella prima metà degli anni Sessanta, di un «affare» che si trasformò presto in scandalo. Era accaduto che la Confederazione – con in prima fila il Dipartimento militare – aveva deliberato l’acquisto di un centinaio di Mirages III S, accompagnando l’ordinazione al costruttore francese Dassault con richieste specifiche che avevano gonfiato enormemente il preventivo di spesa. Tutto questo all’insaputa del Parlamento, che per fare chiarezza istituì per la prima volta nella sua storia una Commissione d’inchiesta. La faccenda investì i vertici dell’esercito, che si dimisero, e anche il titolare del Dipartimento della difesa, Paul Chaudet, che rimase al suo posto ma poi preferì non ripresen-
tarsi alla rielezione. Fatto sta che il numero dei Mirages dai cento previsti scese a 57 e poi ancora a 36, tra cui alcuni destinati solo all’addestramento. Un disastro.
Correva l’anno 1964, si era in piena Guerra fredda e la paura di una catastrofe nucleare legata alla crisi di Cuba era ancora vivissima nella memoria del Paese. L’esercito, in quella fase, poteva contare su una larga fiducia, fondata sul racconto esperienziale della «generazione del servizio attivo». All’esposizione nazionale di Losanna il padiglione delle forze armate rispecchiava nella sua architettura aculeata l’indefettibile volontà di difesa del popolo svizzero. D’altronde tutti i giovani erano obbligati a prestare servizio, e chi obiettava finiva in prigione. L’obiezione di coscienza non era riconosciuta dai tribunali militari. In questo clima, ancora dominato dall’insicurezza, gli alti ufficiali si credevano on-
di Angelo Rossi
ce definitiva. Non si può nemmeno escludere che un alleggerimento degli impegni bellici in Ucraina suggerisca a Putin di avviare altrove analoghe «operazioni speciali», in particolare nei Paesi baltici. Per i Paesi europei la guerra in Ucraina è un’ipoteca che, sin dall’inizio, ha pesato negativamente sulle opportunità di crescita delle loro economie. Ma ancora più negativamente rischiano di pesare su queste opportunità le decisioni prese nelle ultime settimane dall’amministrazione Trump. Abbandonati ormai da quello che era il loro maggior alleato e protettore, i Paesi europei stanno cercando di correre ai ripari aumentando le loro spese militari. Ma il forte aumento dei budget militari non farà che incrementare i loro debiti pubblici che, in certi casi, già sono saliti alle stelle. Ancora più preoccupante è però la possibile guerra commerciale che
l’amministrazione Trump sta lanciando con l’imposizione di dazi sproporzionati anche sulle importazioni da alcuni Paesi europei (Svizzera non esclusa). Gli Stati Uniti sono il maggior mercato per le nostre aziende esportatrici. L’imposizione di dazi sulle merci esportate dalla Svizzera verso gli Usa potrebbe quindi avere ripercussioni negative importanti sia sulla crescita che sul rincaro. E questo anche se, come si può pensare, i nuovi dazi non saranno applicati all’insieme dei prodotti di esportazione. Tira insomma aria di guerra, sebbene per il momento potrebbe essere solo una guerra commerciale. Prima ancora della borsa, che comincia a rivedere i valori dei titoli verso il basso, sono i consumatori che corrono ai ripari e ricostituiscono le scorte di prima necessità. Per evitare che cosa? In primis l’aumento dei prezzi e poi di restare senza prodotti.
Wojtyla; ma certo molti conservatori hanno odiato Bergoglio. Tra l’altro, tra poco cade il ventesimo anniversario della scomparsa di Giovanni Paolo II: un’altra opportunità di riflessione per il mondo cattolico. Bergoglio non ha innovato la dottrina ma ha rivoluzionato il linguaggio, gli argomenti, lo stile del Papato. Eppure, le stesse cose che piacevano al popolo infastidivano la Curia. Le vecchie scarpe ortopediche al posto di quelle rosse. La borsa portata da sé. L’utilitaria anziché la Papamobile o la Mercedes nera con cui il suo predecessore era arrivato alle Giornate della Gioventù di Colonia. Se Bergoglio andava a pagare il conto della stanza affittata a Roma, o a ritirare di persona gli occhiali da vista, le persone comuni se ne compiacevano, come a dire o a illudersi: è uno di noi. Ma per gli uomini di Curia era un’inaccettabile deminutio del ruolo del pontefi-
ce, quindi del loro. La scelta che parve insostenibile fu quella di non vivere nell’Appartamento, come viene chiamata la residenza all’ultimo piano delle logge di Raffaello, bensì a Santa Marta, cioè in un residence. Questo non solamente faceva sembrare obsoleti e fuori luogo gli agi curiali – a cominciare dal leggendario attico del cardinale Bertone, ancora segretario di Stato – ma faceva sentire un intero mondo inadeguato, se non umiliato. E questo non riguardava solo monsignori, ma funzionari, aristocratici neri, banchieri dell’Istituto per le opere di religione (Ior), giornalisti, gruppi di pressione, con terminali lontani dall’Italia, sino agli Stati Uniti. E se i cardinali nordamericani erano stati tra i grandi elettori di Bergoglio, fin dall’inizio molti se ne sentirono traditi. Perché Bergoglio era dentro lo spirito del tempo: la rivolta contro l’establishment, le élites, il sistema. Una
rivolta che porta con sé il rischio del populismo. Perché la stessa rivolta ha prodotto anche Trump, che rappresenta tutto quello che Bergoglio detestava: l’arroganza del potere e della ricchezza, la violenza del linguaggio, la mentalità neo-imperialista. Le riforme, quelle no, non le ha fatte. Aveva pensato, se non di consentire ai preti di sposarsi, di consentire agli sposati di fare i preti; ma si fermò, quando si rese conto che qualunque direzione avesse imboccato avrebbe rischiato, se non uno scisma, una grave spaccatura, anzi due: quella dei conservatori o quella dei progressisti, in particolare i cardinali tedeschi. Eppure fin da quando, la sera del 13 marzo di 12 anni fa, si era affacciato alla loggia di San Pietro, Francesco era apparso un Papa straordinario. Ora possiamo concludere che, comunque finisca la sua missione, lo è stato davvero.
nipotenti, svincolati da ogni rendicontazione nei confronti del Parlamento e dell’opinione pubblica. D’altra parte molti deputati erano anche ufficiali, il che generava delle collusioni tra potere politico e militare. Procacciarsi apparecchi e sistemi d’arma che non fossero ferrivecchi dismessi dalle potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale ha sempre generato grattacapi e malcontento. Non potendo contare su un’industria bellica tecnologicamente all’avanguardia, la Svizzera ha sempre dovuto far capo a produttori esteri. Negli anni Cinquanta il principale fornitore fu il Regno Unito, con gli aerei Venom e Hunter, e con i carri armati Centurion. Fu poi il turno della Francia con i Mirages e da ultimo degli Stati Uniti con i Tigers (pattuglia acrobatica), gli F/A-18 della McDonnell Douglas e da ultimo con gli F-35 della Lockheed. Per i carri ci si rivolse invece alla germanica KraussMaf-
fei, produttrice dei Leopard I e II. In nessuna occasione andò tutto liscio. Ogni volta l’iter fu lungo e tormentato, e alla fine arrivava spesso il voto popolare. In una fase delicata giunse alle urne persino un’iniziativa che chiedeva l’abolizione dell’esercito (poi respinta, ma che accolse un buon 30% dei votanti). Non andò meglio con la sorveglianza dello spazio aereo e il sistema antiaereo «Florida» ubicato a Dübendorf, ritenuto poco efficace. Le recenti dimissioni a catena (del capo dell’esercito e del responsabile del servizio informazioni) hanno fatto emergere insufficienze e manovre poco trasparenti nel campo delle commesse. Questo Paese, un tempo armatissimo e fiero dei suoi figli in grigioverde, si è ritrovato d’un colpo decapitato e pieno di dubbi sulle sue reali capacità di difesa. Ora più voci reclamano una reazione vigorosa e un chiaro piano strategico, di cui dovrà farsi guida e
portavoce il nuovo titolare del Dipartimento Martin Pfister. Ma anche qui non c’è unanimità di vedute. C’è chi, specie a sinistra, teme un’impennata della spesa a scapito della socialità e chi, specie a destra, perora un riarmo autoctono in solitaria, senza curarsi di quanto sta succedendo nell’Unione europea e nella Nato. Certo è che la discussione non potrà non tener conto delle nuove posizioni assunte dagli Usa (finora beneficiarie di ordinazioni miliardarie, anche dalla Svizzera) e del riassetto geopolitico in atto un po’ ovunque. Bisognerà stabilire se vale la pena ricalcare i vecchi schemi nazionali, o se cercare una collaborazione più stretta con gli alleati occidentali. La prima via rischia di incrementare gli sprechi in una cornice di illusoria autarchia difensiva; la seconda potrebbe invece generare persino risparmi dentro un contesto di razionalizzazione della spesa.
di Aldo Cazzullo
di Orazio Martinetti
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CULTURA
Un tuffo nell’editoria ticinese
Da Gisler con Dello zio ai curiosi Ingrombranti di Genetelli, passando per romanzi e altri racconti
Pagine 18-19
Irresistibile Martin Parr
Il dissacrante, ironico e luminoso fotografo inglese è ora protagonista di un documentario
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Le segrete perle dell’Iran
Due film sull’Iran per raccontare un Paese dove ancora si cerca di fare resistenza nelle piccole cose
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Come approcciare una sfida Mostre, eventi, conferenze e arte: il tema ambientale affrontato partendo da approcci diversi
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Foresta boreale, un’attrazione magnetica
Mostre ◆ La Fondation Beyeler di Basilea dedica un’importante e variegata collettiva ad artiste e artisti scandinavi e canadesi della modernità
Già alla prima sala si ha l’impressione di essere trasportati in un mondo altro, fatto di paesaggi sconfinati, dove domina la natura nordica, maestosa con le sue foreste di conifere, sorprendente per le striature di luce che si riflettono sui laghi ghiacciati, sovrastata dalle aurore boreali. Ed è questo lo scenario naturale che hanno in comune i 74 dipinti di artiste e artisti riuniti per la prima in una mostra collettiva in Europa e attivi nella Scandinavia e in Canada tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Se nel frattempo alcuni di loro, come Edvard Munch e più di recente Hilma af Klint (la pioniera dell’astrattismo qui presente con i suoi paesaggi luminosi e smaterializzati) si sono affermati a livello internazionale, molti altri invece, pur essendo celebrati in patria, restano ancora quasi sconosciuti al di fuori dei loro Paesi.
Le/gli artisti si trovarono confrontati con condizioni di lavoro estreme, ma freddo e ghiaccio non li scoraggiarono
La foresta boreale è il filo conduttore dell’esposizione che si apre con un’opera dell’artista russo Ivan Chichkine, soprannominato lo «zar della foresta», che aveva fortemente influenzato la pittura di paesaggio nordica. Alberi divelti dal vento è un grande disegno a matita, forse incompiuto, ma raffigura con precisione e dovizia di dettagli che cosa resta della taiga dopo il passaggio devastante di una tempesta; non soltanto tronchi spezzati, ma spazio libero per la crescita di altri giovani alberi. Una distruzione rigenerante, insomma, come quella a cui sembra alludere anche una grande tela di Munch in cui la foresta non è soltanto paesaggio, ma anche risorsa economica, perché fonte di legname. In questo caso il grande pittore norvegese punta sui contrasti cromatici con il viola della corteccia dei tronchi verticali opposto e complementare al giallo squillante dell’albero abbattuto, disposto secondo una prospettiva che accentua la profondità della foresta, in una scena che potrebbe rappresentare la sintesi perfetta del ciclo di vita e morte.
La regione boreale era un ambiente naturale dove dipingere en plein air poteva rivelarsi una vera e propria impresa: freddo e ghiaccio non hanno scoraggiato né la finlandese Helmi Biese né la svedese Anna Boberg. La prima, diventata insegnante d’arte a Helsinki, a fine Ottocento aveva già conquistato la critica con i suoi grandi paesaggi dell’arcipelago finlandese; era attratta dai contrasti climatici, dal
vento che scuote i rami delle conifere, dalle trame di luce che si formano sulla superficie del ghiaccio. Biese ne ricava dipinti panoramici, scegliendo prospettive dall’alto, come se avesse sorvolato foreste e laghi. Boberg invece dopo lunghi viaggi per il mondo, scoprì nel 1901 le isole Lofoten, che diventeranno il suo soggetto prediletto. Dipingendo nel gelo polare, con una tuta di pelliccia e il cavalletto stretto alla vita, a volte da una barca, Anna Boberg realizzava dei paesaggi che le valsero una fama internazionale, tanto da essere l’unica pittrice ammessa alla mostra itinerante negli
Stati Uniti dedicata ai maggiori pittori scandinavi del tempo nel 1913, una mostra decisiva per il loro riconoscimento ma anche per l’impulso fondamentale che ha dato alla fondazione del «Group of Seven», aprendo così la strada alla modernità nella pittura canadese.
Se il tema di fondo è unico (la foresta boreale e i suoi elementi), le scelte tecnico-espressive sono molteplici e restituiscono una costellazione eterogenea di personalità artistiche, caratterizzate ognuna da uno stile proprio, che ha importato le novità portate dalle avanguardie e delle correnti pit-
toriche dell’Europa continentale, dai Fauves al Simbolismo, dall’Impressionismo al Cubismo, e che in alcuni casi risente anche delle principali correnti filosofico-esoteriche dell’epoca, quali la teosofia e l’antroposofia. L’esito è in tutti i casi una pittura vibrante, potente, intensa; con uno stile fotografico, quasi pointilliste, dipinge lo svedese Gustaf Fjaestad, famoso anche per i suoi exploit agonistici nel pattinaggio e nel ciclismo; in Neve appena caduta sembra quasi di poter percepire la leggerezza della neve fresca in uno scorcio di foresta, dove si distingue in primo piano una
fila di impronte, una rara traccia della presenza umana che in questi paesaggi resta secondaria. Qui i dipinti non sono più immagini della natura, ma natura essi stessi, o meglio, forza vitale che si fa pittura.
Vibrano di atmosfere simboliste gli scorci di foresta e i paesaggi montani del norvegese Harald Sohlberg, come in Casa sulla costa che ritrae una capanna di pescatori bianca dietro una cortina di alberi blu, quasi cesellati nell’oscurità, opera esposta alla mostra del 1913. Stili diversi, ma scelte compositive e prospettive di grande modernità, che derivano dal medium fotografico, come nel caso di Gallen-Kallela, artista con una carriera internazionale, membro di alcune importanti Secessioni, progettista della propria casa-atelier immersa nella natura finlandese; in mostra scopriamo tra le altre cose una sua monumentale Cascata attraversata da cinque sottili linee dorate, come le corde di uno strumento musicale, che attestano l’amicizia che lo legava al compositore Jan Sibelius, con il quale condivideva anche l’impegno politico per la causa dell’indipendenza finlandese.
Nella pittura canadese di quegli anni emerge il mito della vita «into the wild», a contatto con la natura selvaggia, che in alcuni casi si traduce in un vero e proprio attivismo ecologico per combattere la minaccia della deforestazione che già all’epoca intaccava le foreste di conifere del Pacifico; ed è questo il tema dominante nella pittura di Emily Carr, militante della prima ora, che nelle sue opere più tarde dipinge composizioni dalla pennellata uniforme che sfiorano l’astrazione, con le fronde degli alberi che sembrano fondersi insieme e si agitano scosse da un vento impetuoso. Viaggio visivo ed esperienza emotiva, la mostra si conclude con una sala che ricorda nel suo allestimento dello spazio una foresta invernale, con colonne bianche al centro, in cui sono state incastonate le «monumentali» miniature di Tom Thomson attorniate alle pareti da grandi dipinti di Harris e McDonald, in cui gli orizzonti di cielo e neve si confondono. A fare da contrappunto a questi ottanta paesaggi, un’opera contemporanea in realtà aumentata dal titolo Boreal Dreams, commissionata all’artista danese Kudst Steensen che ha immaginato gli effetti climatici futuri sull’ecosistema della zona boreale.
Dove e quando Nordlichter, Riehen (BL), Fondation Beyeler, fino al 25 maggio 2025. Orari: tutti i giorni 10.00-18.00; me 10.00-20.00. Info: fondationbeyeler.ch
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Harald Sohlberg, Ein Haus an der Küste (Fischerhütte), 1906, olio su parete, 109 x 94 cm. (The Art Institute of Chicago, Schenkung Edward Byron Smith; Foto: bpk/The Art Institute of Chicago/Art Resource, NY)
Emanuela Burgazzoli
Cronaca di una convivenza stravagante
Letteratura
Roberto Falconi
◆ La tensione tra normalità e devianza in un paesino bretone attraverso lo sguardo di
Si dice spesso, e con molte ragioni, che la miglior letteratura sia quella che prende atto dell’opacità del mondo e della difficoltà di accedervi pienamente, facendo di questo scacco conoscitivo l’oggetto stesso della propria trattazione. Nel suo romanzo d’esordio – uscito nel 2021 presso Verdier, e ora disponibile anche nella traduzione italiana approntata da Luigi Colombo – Rebecca Gisler indaga il rapporto tra normalità e devianza e, in conclusione, il velleitarismo di ogni tentativo di omologare la marginalità.
Il libro si fa anzitutto campo di tensione tra uno zio disadattato e la nipote (e narratrice), che per motivi mai del tutto chiariti si ritrovano a condividere la casa di lui in Bretagna, in un paesino affacciato sulla baia e sulla fine del mondo. Ora, già la scelta della figura dello zio, letterariamente minoritaria, permette uno sguardo obliquo e problematico sulle cose; salvo che questa lateralità si fa ossessiva centralità: l’edizione originale presenta in un centinaio di pagine 484 occorrenze della parola oncle, tutte conservate nella traduzione. Uno zio cinquantenne mai davvero uscito dall’infanzia, verduraio presso l’abbazia dopo esserne stato giardiniere paesaggista, che divide il proprio tempo libero tra la caccia alle talpe in giardino e il tiro con l’arco («ci chiede di portarlo al negozio di sport, dove si compra delle medaglie che non manca di attribuirsi solennemente al termine di una seduta di tiro particolarmente riuscita»). Per il resto, lo zio guarda spesso la televisione (anche quando non funziona più: lo sguardo resta fisso sul rettangolo nero macchiato dalle sue impronte digitali), cura – diciamo così – la propria alimentazione («che è composta in gran parte da sandwich con l’an-
douille inghiottiti nel segreto della sua camera») e la propria igiene («quando lavorava, lo zio si lavava una volta alla settimana, e al minimo cambiamento di programma, in vacanza per esempio, lo zio non si lavava più del tutto»).
Lo spazio del libro è interamente occupato dall’osservazione, da parte della nipote, del fenomeno-zio: nessuna riflessione psicologica, nessun giudizio morale; solo uno sguardo vigile, a tratti ironico, a tratti preoccupato, sempre empatico. Ne esce un re-
Salotti e narrazioni
soconto che si muove tra iperrealismo (le condizioni in cui lo zio lascia il cesso) e toni onirici (la galleria di animali esotici che escono dall’ospedale in cui viene ricoverato a seguito di anni di vita sregolata), a volte tra loro indistinguibili, come «la linea dell’orizzonte si confonde con la linea del mare e forma un’unica parete grigia». Proprio la natura risulta respingente, incisa dalle tensioni che animano il romanzo: l’edera che soffoca la casa dello zio; il mare che quando si ritira
Premio svizzero 2025 ◆ Tra i vincitori, Fabio Andina con Sedici mesi e il progetto Sofalesungen, che riporta la letteratura a una dimensione più intima
La Svizzera, con le sue anime linguistiche e culturali, ha dimostrato di saper custodire il passato letterario senza dimenticare la spinta verso il futuro. In un contesto letterario in continua evoluzione, il Premio Svizzero di Letteratura 2025 ha infatti saputo cogliere l’essenza di un dialogo continuo tra tradizione e innovazione, dando spazio non solo all’arte della scrittura, ma anche a nuove modalità di incontro culturale.
Sette i componenti della rosa di autori profilatisi per la varietà delle loro opere e regioni linguistiche, autori le cui opere riflettono la complessità culturale e geografica del Paese, arricchendo il panorama letterario con stili individuali e voci distinte. Tra questi, la quota ticinese è andata a Fabio Andina, che si è distinto con Sedici mesi, un romanzo capace di catturare i silenzi e la natura della Svizzera italiana, traducendo in parole un paesaggio interiore ricco di suggestioni. Una narrazione sospesa, fatta di gesti quotidiani e paesaggi che respirano la stessa solitudine di chi li vive. Con una prosa sobria e meditativa, Sedici
mesi si inserisce con naturalezza nel solco della letteratura di montagna, ma con una sensibilità nuova, capace di illuminare le sfumature più delicate del vivere umano.
Uno dei riconoscimenti più interessanti di quest’anno è stato il Premio speciale di mediazione, che ha visto vincitore il progetto Sofalesungen, per aver portato la letteratura direttamente nei salotti, trasformandoli in microcosmi di condivisione, piccoli cenacoli letterari. Sofalesungen, che letteralmente significa «letture
da sofà», è molto più di un semplice esperimento di vicinanza. In un’epoca di incontri virtuali, questo progetto riconsegna il piacere di una letteratura vissuta in presenza, in luoghi che di solito non accolgono libri, ma conversazioni intime. I salotti, che in Ticino si declinano anche in spazi museali e altri luoghi, non necessariamente privati, diventano occasione di riflessione e scambio, dove autori e lettori si confrontano in maniera informale, rompendo le barriere dell’istituzionalità. Una formula che ripristina il senso del contatto umano intorno alla parola scritta, in un contesto di intimità e condivisione, che sembra spostare l’asse della divulgazione letteraria verso nuovi modelli di fruizione.
A vincere invece il Gran Premio svizzero è Fleur Jaeggy, della quale avremo modo di parlarne nei prossimi numeri.
In un anno in cui la cultura si è vista spesso costretta a reinventarsi, questi premi rappresentano la perfetta sintesi tra il valore intrinseco della letteratura e la necessità di sperimentare nuove strade per diffonderla.
lascia dietro di sé una baia inaccessibile, putrescente, tutta spigoli («due o tre piccoli scogli, alghe verdi che sanno di zolfo, e dei carapaci di granchio o delle conchiglie di cozza»). Nessun idillio nemmeno a primavera, quando lo zio, senza neppure lasciare il letto, «sfodera la sua racchetta elettrificata per massacrare le mosche, che si nutrono del sangue dei mammiferi che parassitano». Anche il giardino della casa si fa allora spazio antiedenico, superficie che riflette il conflitto
Y. Bernasconi & A. Fazioli
Non importa dove Gabriele Capelli Editore
«Dalla Cina al Canton Ticino, passando per Venezia, New Delhi o il ventre di un grosso pesce». Inizia così il testo della quarta di copertina dell’ultima opera del duo di scrittori più noto del Ticino. Yari Bernasconi e Andrea Fazioli tornano infatti in libreria con un nuovo progetto letterario a quattro mani: Non importa dove, edito da Gabriele Capelli. Il libro è un viaggio che attraversa luoghi reali e immaginari, dall’angolo di una piazza a un parco, passando per un’isola dell’Oceano Atlantico, nel vuoto di una casa in ristrutturazione, dallo zoo di Zurigo, d’al di là di uno specchio, «Sai che questo terreno (che attraversi col treno) vale mille sterline per un pollice fine?». Con cinquantotto cartoline illustrate dagli stessi autori e altrettanti testi brevi, ogni pagina si apre a uno scenario diverso, offrendo una narrazione veloce e iconica, che mescola filosofia e racconto. Le esperienze artistiche individuali dei due autori – Bernasconi come poeta e Fazioli come autore di noir – si intrecciano qui in un’opera che invita il lettore a lasciarsi sorprendere anche nella calma: «Ai giardinetti (di Massagno, ndr.) è quasi sera. Il sole sembra stanco e lontano. [...] Le altalene sono nuove».
tra devianza e normalizzazione, con il fratello della narratrice (che per un periodo condivide con lei il soggiorno bretone) che sfascia il frutteto a cui si è premurosamente dedicato nell’indifferenza dello zio, del tutto insensibile alla bellezza e interessato solo all’azione: «un duello di gabbiani o un transito di ricci».
L’opacità delle cose investe anche il piano della Storia. Alla precisione calendariale (lo zio lascia con i genitori la banlieue parigina «nel luglio mille-
Manuela Bonfanti
Autoritratti di signora Salvioni Edizioni
Ogni donna porta con sé una storia, ma non tutte hanno avuto la possibilità di vederla raccontata. Autoritratto di Signora – Percorsi al femminile dalla Svizzera italiana raccoglie diciotto testimonianze di donne della Svizzera italiana (Salvioni Edizioni); uscito ufficialmente non a caso l’8 marzo di quest’anno, unisce voci diverse che svelano sfaccettature inedite della condizione femminile grazie alla testimonianza di diciotto donne. Attraverso un’intima esplorazione di esperienze quotidiane, Manuela Bonfanti – dopo aver raccolto molte ore di interviste – ha creato un’opera che intreccia biografie individuali con riflessioni collettive sul cambiamento dei ruoli e dei modelli sociali. Un viaggio attraverso generazioni e geografie che restituisce dignità a chi, troppo spesso, è rimasta nell’ombra.
Immagine della copertina dell’edizione italiana del libro di Rebecca Gisler, edito da Dadò.
stravagante
dello zio: tradotto in italiano il libro di Gisler
novecento novantadue», all’età di venticinque anni; nel corso del romanzo ne compie cinquantatré) si oppone la parziale reticenza nell’indicare esplicitamente i motivi – peraltro chiarissimi – di una convivenza forzata («diceva che il virus si propagava tramite le punture di mosche», «alla televisione avevano detto che le frontiere degli stati stavano per chiudere»). E alla devianza della Francia, centrifuga e periferica, fatta di bettole e personaggi marginali, si oppone l’immagine velleitariamente patinata della Svizzera (dove la narratrice vive con la madre), in cui le vacche sorridenti mostrate nei documentari si scontrano con una realtà fatta di conigli morti e di gatti malati alla tiroide.
Salute e patologia si confondono in un cortocircuito per cui i personaggi che circondano uno zio zoppo e obeso (ma sereno: «tutto, a suo modo di vedere, è questione di abitudine») – pretendendo magari di occuparsene – sono in realtà più malati di lui: i suoi nipoti, che si scuoiano a furia di grattarsi per un disturbo psicosomatico; sua sorella, divorata dalle paranoie; i vicini di casa, ormai sprofondati nel delirio.
Il romanzo – a tratti letterariamente mediato (i riferimenti espliciti a Franz Kafka e a Emmanuel Bove) – si interroga quindi sulla propria difficoltà di accedere alla complessità del mondo, come emblematicamente mostrano la triplice occorrenza (sempre parte di una similitudine) del «menhir nella nebbia» e i tre colleghi di lavoro dello zio, tutti di nome Erwan e quindi indistinguibili l’uno dall’altro. E come peraltro già annuncia l’esergo di Eugène Savitzkaya: «Sono una corteccia piena di carne ineffabile o una carne ineffabile avvolta nella corteccia?».
Credo che possa essere letta in
Marco Bazzi Il sorvegliante dei colori del lago Fontana edizioni
Su un’isola lacustre, che potrebbe essere l’Isola principale di Brissago, Eliseo Moretti vive recluso in un istituto di rieducazione psichiatrica che somiglia più a un penitenziario. Ogni giorno il protagonista osserva i colori del lago e redige rapporti sulle loro variazioni, uno strano incarico affidatogli dalla Direzione per contribuire alle previsioni meteorologiche. Intorno a lui, un rigido regolamento governa la vita degli ospiti, ognuno afflitto da una malattia mentale che non viene mai dichiarata. Chiunque tenti di evadere dalle regole subisce punizioni severe, orchestrate dalla crudele Doris Bechtold. In questo ambiente sospeso tra la realtà e l’immaginario, si sviluppa un viaggio nei temi della follia, del sogno, e del confine incerto tra verità e illusione.
Attraverso il suo protagonista, Il sorvegliante dei colori del lago di Marco Bazzi scava nelle profondità della solitudine, del dolore e della malattia mentale. La vicenda, narrata in prima persona, è un racconto intimo e inquietante di un uomo che, in un mondo fatto di rigide regole e silenzi, cerca di dare senso al labile confine tra ciò che è reale e ciò che è immaginario, esplorando l’oscurità del mal di vivere.
questa prospettiva anche la tensione che si instaura tra la sintassi magmatica e ossessivamente ripetitiva di cui sono costituiti i lunghissimi paragrafi e la sostanziale esilità dei legami tra i vari blocchi testuali. E sarebbe allora necessario – restringendo al testo in italiano – un supplemento di indagine sull’uso del congiuntivo, che mi pare uno degli aspetti più problematici della traduzione di Luigi Colombo. A costituire l’impianto metanarrativo del romanzo concorrono elementi che emergono in modo più o meno patente sulla tavola testuale: il fratello della narratrice che non crede si possa scrivere un romanzo su «uno zio che neanche è morto»; i due nipoti che condividono – oltre a una lingua segreta invidiata dalla madre – la medesima professione di traduttori di istruzioni di alimenti per animali. Indicatori di una preoccupazione espressiva che coinvolge la stessa Rebecca Gisler, di lingua madre francese ma che sinora ha sempre scritto solo in tedesco, tanto che il romanzo (linguisticamente trasgressivo e sperimentale sin dal titolo: D’oncle) potrebbe essere letto come una sorta di apprendistato dell’autrice nel trovare le parole che meglio aderiscono alle cose.
L’unica pacificazione possibile per le tensioni che attraversano il testo sembra essere l’accettazione delle spinte centrifughe, come nell’ultima pagina mostra la nipote accovacciandosi accanto allo zio per strisciare insieme a lui sotto la siepe alla ricerca di uova di fagiano. Assecondare la devianza può forse aprire a quel sorriso – pur se sghembo e sgraziato – sul quale il libro si chiude.
Bibliografia
Rebecca Gisler, Dello zio, Dadò Editore, 2024.
Roberto Genazzini
Quella che mi è piaciuta di più Tipografia helvetica
Nel novembre del 1943 Lili, una ragazza ebrea, e la sua famiglia trovano le porte della Svizzera chiuse. Meo, un soldato di frontiera, assiste impotente all’ingiustizia che segnerà per sempre il suo destino. In un Ticino sconvolto dal conflitto che avanza, si consuma una vicenda che attraversa i confini, geografici e morali, della guerra. Il romanzo trae ispirazione da un evento realmente accaduto, ma nelle mani di Genazzini assume una potenza narrativa che va oltre la semplice testimonianza, trasformandosi in una riflessione sull’umana resistenza alla disperazione: «Secondo tentativo d’entrata in Svizzera, arresto, incarcerazione, deportazione…». Le parole che restano scolpite nel registro di controllo dei fuggiaschi diventano, in queste pagine, il cuore pulsante di una memoria che non smette di interrogare.
Tra Preonzo e McCarthy
Racconti ◆ Nella nuova raccolta di Genetelli si ricompone un mosaico narrativo di rifiuti e affetti, oggetti perduti ed emozioni ritrovate
Stefano Vassere
La parola ingombrante è, linguisticamente, un risparmio: deprivata com’è del sostantivo rifiuto, finisce per organizzarsi in proprio, assumendo una formula virtuosamente sospesa di connotazioni di efficienza, che è tipica per esempio di certa parsimonia elvetica: ritiro ingombranti, ingombranti non riciclabili, regolamento ingombranti. Di più, liberato della qualifica di rifiuto, l’ingombrante è passione relativa: sono mobiletti, divani, materassi, gabinetti, ma anche vecchi PC, televisori, giochi elettronici e altri scarti, che venuti a noia per taluni finiscono per fare la gioia di altri. Le memorabili notti del loro ritiro a domicilio si popolavano in passato di efficienti camioncini che caricavano di tutto in giro per le città e gli attuali centri di raccolta riservano angoli di libero servizio, perché non si sa mai che questo o quell’utensile, quel tappeto, i libri rimasti dell’ultimo trasloco, possano trovare, bontà loro, una nuova casa.
Ingombranti (Minceto GE, Temposospeso, 2025) è il titolo dell’ultima produzione dello scrittore e giornalista Giorgio Genetelli, che porta, perfezionando la metafora, Una raccolta come sottotitolo. Diremo subito e per toglierci il pensiero che questo libro è opera ottima, anche nel tenere insieme nella stessa casa registri e contenuti molto variabili. Si è spesso disattenti all’architettura interna delle raccolte di prose, ma si badi qui per esempio a questa specie di cornice biblica: nel primo racconto a parlare è un nascituro che ha il papà che lavora in Samaria e una mamma che è incinta non conoscendo il sesso, che prevede che «tre tizi» verranno con regali beneauguranti eccetera; nel penultimo ritroviamo due malandrini (due ladroni) che si chiamano Tito e Dimaco e che attendono di essere giustiziati, con un terzo che assiste e che dice cose a proposito di una certa Maddalena, sua amata. In mezzo, come detto, gli stili e le vicende si differenziano: insieme a un universo genericamente locale, c’è qualche d’après da autori famosi, esempi di prosa calcisti-
ca paesana, narrazioni di struggenti episodi-memorabilia
Nell’ordine, tra le cronache del mondo più prossimo brillano le vicende scolastiche del paese, con i compagni dai nomi italiani esotici che entrano nella comunità o ne escono; il culto della pagina dei morti nei quotidiani (forse ultimo ma irriducibile baluardo in tempi di crisi dei cartacei); aneddotiche riguardanti le tragiche e reiette figure marginali del villaggio; i costumi posticci scavallati ormai nella modernità, che si sostanziano nei vani tentativi di produrre una birra casalinga. Tra gli omaggi, uno è esplicito: leggendo le prime righe di Questo vento e al cospetto di due anime disperate, padre e figlio, che vagano sole per un grigio inferno post apocalittico, non bisognerà arrivare fino in fondo per scoprire un ciao a La Strada di Cormac McCarthy; e tutt’al più si apprezzerà la piccola frizione dovuta alla libertà di far parlare il padre in italiano e il figlio in dialetto della Riviera. Ma è già allineato con il genere il testo precedente, Vago per la città, di ambientazione tra Truman Show e Squid Game, che prelude all’emigrazione catastrofale dei due, tra supermercati cadenti e cupe scarpinate di notte.
Giorgio Genetelli esplora l’universo del quotidiano e del marginale con stili e temi che vanno dal lirismo al grottesco rinnovando la tradizione narrativa locale con ironia e varietà
Hanno il sentore fibroso di quella lingua cormachiana anche altri passi isolati; sentite questa: «il fumo di mille sigarette, incatramato dai decenni, balza fuori, mi travolge facendomi cadere e fugge via nella notte, inseguito dall’afrore di vino e sudore e da uno sciame di bestemmie incolte». Non è finita, con gli omaggi e i modelli: non avrebbe stonato nota omologa a quella della Strada per l’allineamento in stile Edgar Allan Poe del racconto Quella notte di dicembre, il cui
finale, dopo passi concitati nell’oscurità dei vicoli, incontri con gatti, ombre che si ricompongono, suona così: «con orrore guardai il lungo coltello scarlatto. Quando alzai gli occhi vidi l’esile figura uscire dalla sala e sparire per le scale. Il vento aveva ripreso il suo sibilo gelato».
La varietà – già e già detto – è uno dei valori di questa raccolta; in rassegna impressionistica meritano menzione anche il viaggio in Italia con furgone VW tipo figli dei fiori e amica con nastro tra i capelli, le cronache di disperati e polverosi derby calcistici Preonzo contro Gnosca, qualche struggente omaggio ai genitori, il racconto di canone «libro nel libro» che si intitola Alle tre del pomeriggio Gli stili, allineati con questa varietà, sono l’altro grande pregio di un libro che non si ha tema di mettere tra i migliori che la narrativa locale abbia prodotto negli ultimi anni e che porta peraltro un bel vestito editoriale e dichiarazioni di responsabilità degli editori. Endlich, non è un caso che la nuova raccolta di Giorgio Genetelli si intitoli proprio come si intitola. Uno stile improntato a quell’economia circolare del rifiuto, che ha dalle nostre parti vari imprinting, uno dei quali è autenticamente contadino, milieu che occupa le parti più qualificanti di questo libro. Il codice di quei tempi andati è stato un timbro culturale storicamente limitato nell’espressione di affetti e sentimenti, per i quali nemmeno aveva un proprio lessico, ma poi ha avuto indiscussa abilità nel maneggiare allusioni, occhiolini, sottintesi. Rispetto ad alcuni cantori di quella civiltà, i testi locali di questo libro hanno però un pregio nuovo: quello di rinunciare a un diffuso tono dolente e lamentoso, incline a sottolineare sciagure e destini ingrati, e di scegliere la pratica di quel po’ di gaie facezie che pure devono avere abitato quel mondo di antiche contrade.
Bibliografia
Giorgio Genetelli, Ingombranti. Una raccolta, Minceto GE, Temposospeso, 2025, 210 pp
Giorgio
Genetelli
L’eccentrica normalità di Martin Parr
Fotografia ◆ Da diversi decenni il fotoreporter racconta con i suoi scatti, tra gravità e umorismo, la nostra società dei consumi
Sebastiano Caroni
Un uomo anziano cammina su una strada, muovendosi lentamente, con un girello, al collo una macchina fotografica. Non c’è molta gente attorno a lui, in generale l’uomo con il girello passa inosservato, e se la gente lo incrocia, non dà cenno di notarlo. Ogni tanto però quell’uomo si ferma, le sue mani abbandonano il girello e con gesto fluido, spontaneo, calcolato, afferra la macchina fotografica, se la porta agli occhi, e scatta: una, due, tre foto, a seconda del momento, dell’occasione. E poi rimette le mani sul girello, nello stesso modo fluido, quasi flemmatico, con cui le aveva staccate qualche secondo prima. E riprende a camminare: aggirandosi, inosservato, tra i passanti.
L’uomo che cammina è il fotoreporter Martin Parr in una delle scene iniziali di I am Martin Parr, il recente documentario diretto da Lee Shulman che ripercorre la pluridecennale carriera del fotografo inglese. Anche se ormai passa i settanta, in realtà Parr non ha bisogno del girello per spostarsi, ma lo usa per non dare nell’occhio. Per osservare in tutta tranquillità e, quando lo ritiene opportuno, scattare una foto. La sua discrezione, la sua capacità di confondersi fra la gente, gli permettono di essere un testimone privilegiato della quotidianità. A volte, però, quando incontra un soggetto che lo incuriosisce, non si limita a restare nell’om-
bra: si avvicina, improvvisa qualche battuta, apparentemente casuale, che disarma le difese personali e mette a proprio agio. Come quando incontra una signora e si complimenta per i suoi orecchini. La signora ringrazia, è lusingata, si rilassa. E Parr, a questo punto, indisturbato immortala proprio quegli orecchini.
Pur essendo molto dirette, frutto del momento, istantanee della quotidianità, le fotografie di Parr nascono pur sempre da una consapevolezza e da una sensibilità fuori dal comune. In un’epoca in cui lo scatto fotografico è diventato un’ossessione globale, gli stratagemmi un po’ sornioni messi in atto da Parr ci ricordano che, per
essere un bravo fotografo, non basta avere un apparecchio, magari anche all’avanguardia. Ci vuole mestiere perché la fotografia, a volte, te la devi costruire. Il documentario su Martin Parr, uscito nelle sale cinematografiche italiane alla fine di febbraio, corona una carriera che da più di trent’anni vede Parr fra gli assoluti protagonisti della fotografia contemporanea. La data più significativa, in questo senso, è quella del 1994, momento in cui il fotografo entra a far parte dell’esclusivo mondo dell’agenzia fotografica Magnum, che riunisce sessanta tra i migliori fotografi al mondo, garantendone la diffusione delle opere e la tutela dei diritti di autore.
so di consacrazione di un artista non ha mai fine.
Tra i record più invidiabili di Martin Parr: nel 2000, la serie di fotografie Common Sense viene esposta contemporaneamente in quaranta sedi museali e in dieci Paesi diversi
Con una carriera così lunga alle spalle, e uno stile sempre in evoluzione, Martin Parr è riuscito, in qualche modo, a rimanere sempre fedele a sé stesso, e le sue fotografie nel tempo mantengono una loro cifra riconoscibile. Come afferma in maniera sintetica e precisa Roberta Valtorta nell’introduzione all’intervista a Parr inclusa nel catalogo della mostra Short and Sweet : «Da quasi cinquant’anni Parr indaga fin dentro le sue minime pieghe la civiltà contemporanea prigioniera dei consumi, dello spreco, dell’abbondanza di cibi, abiti, oggetti, del cattivo gusto, degli schemi del tempo libero massificato». A precisare il concetto ci pensa lo stesso Parr nell’intervista, quando dice: «Credo che il soggetto principale di tutto il mio lavoro sia il tempo libero e il modo in cui lo si impiega: hai l’opportunità di decidere cosa fare e come, e il fatto che le persone abbiano questa grande possibilità di scelta mi ha fatto pensare che sarebbe stato importante occuparmene».
Se la consacrazione di Parr coincide, in parte, con quella data, d’altra parte essa non si esaurisce in quel momento, ma diventa un processo che si diluisce, un rituale che si rinnova nel tempo grazie soprattutto a nuove e molteplici occasioni per celebrare il valore e l’attualità dell’artista. Parr, per dire, stabilisce un record invidiabile quando, nel 2000, la serie di fotografie Common Sense viene esposta contemporaneamente in quaranta sedi museali e in dieci Paesi diversi. Nel 2003, un’importante mostra alla Tate Modern di Londra dall’accattivante titolo Cruel and Tender racconta, attraverso gli scatti di Martin Parr e di altri illustri fotografi, l’importanza della fotografia documentaristica nell’ampio e intricato contesto dell’arte del Novecento. Ricordiamo, poi, la recente Short and Sweet, prima a Milano e poi a Bologna, senza dimenticare la mostra intitolata Chromoterapia. La fotografia che rende felici – che è ancora possibile visitare, fino al 9 giugno – allestita negli spazi di Villa Medici a Roma; una collettiva curata da Maurizio Cattelan e Sam Stourdzé che ripercorre la storia della fotografia a colori attraverso lo sguardo acuto di Martin Parr e di altri diciotto artisti. Come dimostrano questi esempi, il proces-
Con grande eleganza e lucidità, quasi in perenne equilibrio fra la critica sociale e l’umorismo, ma pur sempre mantenendo un grande rispetto nei confronti dei soggetti che fotografa, Parr riesce a cogliere quelle situazioni e quegli attimi di grazia in cui la società ci mostra i suoi eccessi, le sue derive, il suo lato grottesco – o, come dice bene Valtorta, «carnevalesco» –, le sue contraddizioni, incongruenze e dissonanze. A rendere ancora più potenti certe sue immagini, poi, è il fatto che i soggetti che fotografa, che siano bagnanti in spiaggia o turisti asiatici in vacanza, sembrano del tutto ignari che i loro volti, le loro pose, i gesti, i vestiti, gli oggetti che portano addosso, e le situazioni in cui si ritrovano, si configurano, per l’osservatore, come tante sorprendenti epifanie della contemporaneità.
Se è vero che, come dicono linguisti e semiologi, in qualsiasi situazione sociale non possiamo esimerci dal comunicare con la voce e con il corpo, altra è la questione del significato, e della pregnanza, di ciò che comunichiamo. La grandezza di Parr, in questo senso, è di far emergere lo straordinario dall’ordinario, e di fissare in un’immagine l’eccentrica normalità del mondo di oggi.
Immagine usata per la locandina del documentario
I Am Martin Parr.
La lotta silenziosa delle donne iraniane
Cinema – 1 ◆ Dall’aula universitaria ai seminari segreti, il viaggio di Azar Nafisi tra letteratura e repressione nel film Leggere Lolita a Teheran di Eran Riklis
Nicola Falcinella
Le illusioni della rivoluzione che aveva fatto cadere lo Scià di Persia e la delusione crescente per l’instaurarsi della Repubblica islamica. Sono gli ingredienti del romanzo autobiografico di Azar Nafisi Leggere Lolita a Teheran pubblicato nel 2003, diventato un film diretto da Eran Riklis, ora nelle sale ticinesi dopo essere stato presentato in concorso alla 19esima Festa del cinema di Roma, dove ha ricevuto il premio del pubblico e il premio speciale della giuria per il suo cast femminile. Nel 1979, sulle ali dell’entusiasmo per la libertà del suo Paese, la giovane Azar, docente di letteratura, lasciò gli Stati Uniti, dove si era laureata e viveva, per tornare in Iran con il marito ingegnere Bijan. Presto prevalsero però gli islamisti guidati dall’ayatollah Khomeini imponendo un regime rigido e soffocante che dura tutt’ora. Oltre alla caduta rapida delle illusioni di libertà, per la donna, che aveva iniziato a insegnare letteratura angloamericana all’università di Teheran, la nuova situazione politica comportò limitazioni pratiche, dal dover indossare l’ hijab alla censura sui libri stranieri che utilizzava in aula. Figlia di un ex sindaco della capitale e cresciuta a contatto con la cultura occidentale, Nafisi dapprima rifiutò di adeguarsi alle regole, per poi soccombervi: la sua reazione fu di abbandonare temporaneamente la docenza per dedicarsi a seminari privati con le sette allieve migliori e più interessate. Alla fine decise di tornare negli Stati Uniti e prendere la cittadinanza americana, dando alle stampe la propria vicenda. Il romanzo è insieme un racconto della società iraniana lungo due decenni cruciali, tra la fine degli anni Settan-
Per ovvi motivi di permessi, Leggere Lolita a Teheran è stato girato in Italia, in gran parte a Roma nel quartiere dell’Eur, e purtroppo il contesto artefatto si percepisce. Era già successo per Holy Spider di Ali Abbasi (peraltro più coeso e incisivo) che l’Iran fosse ricostruito altrove, in quel caso in Giordania, per evitare scontri con il regime. L’attrice Zar Amir Ebrahimi, premiata a Cannes nel 2022 per il film di Abbasi, interpreta qui Sanaz, la studentessa che subisce violenze e punizioni corporali e osserva che «Siamo noi Lolita».
Identità e memoria
Eventi ◆ Torna OtherMovie Lugano Film Festival, dal 28 marzo al 5 aprile
ta e i Novanta, e una critica a uno Stato basato sulla legge coranica utilizzando testi fondamentali della letteratura anglofona. Il testo di partenza è proprio Lolita dello scrittore d’origine russa Vladimir Nabokov, diventato una celebre pellicola di Stanley Kubrick. «Vediamo se leggere Lolita può trasformare la cupa realtà di questa rivoluzione e ci aiuterà a combatterla» dice Nafisi, interpretata nel film da Golshifteh Farahani, rivolgendosi alle studentesse. Il libro di Nafisi è bello e profondo quanto poco cinematografico e poco agito: qui si trova una difficoltà dell’adattamento, trasporre in immagini quanto era sulla pagina. Riklis, regista esperto conosciuto soprattutto per La sposa siriana (2004) e Il giardino di limoni (2008), resta fedele alla pagina e divide i fatti in quattro capitoli ispirati alle seguenti opere letterarie molto note: Il grande Gatsby nel 1980, Lolita nel 1995, Daisy Miller nel
1988 e Orgoglio e pregiudizio nel 1996. Li precede però il prologo del rientro nel 1979, quando all’aeroporto vengono vagliati i libri presenti nella valigia di Nafisi, la quale dovrà presentarsi come docente per poterli conservare. Tra i volumi c’è il romanzo di Francis Scott Fitzgerald del 1925, che Nafisi userà nelle prime lezioni in aula, subito contestate dagli studenti fondamentalisti. Il dibattito tra la professoressa e i contestatori, che si limitano a una lettura letterale e moralista, si traduce in un processo a Gatsby, con l’insegnante nei panni dell’avvocato difensore. L’obbligo del velo spegnerà anche questi residui di confronto e costringerà Nafisi a ritirarsi nel privato: come si è visto in tanti film iraniani di questi decenni, il chiuso delle case e delle auto, gli spazi isolati delle aree rurali, (ndr. o il giardino del film qui recensito dal collega Nicola Mazzi; vedi sotto), sono gli unici dove ci si possa esprimere.
È significativo che l’interprete compaia come protagonista nell’australiano Shayda di Noora Niasari (visto in Piazza Grande a Locarno nel 2023) e nel thriller sportivo Tatami di cui è pure coregista con Guy Nattiv, come se Amir Ebrahimi si mettesse a capo di un’opposizione cinematografica al Governo di Teheran. Con lei si distingue per l’impegno politico pure Farahani, ormai naturalizzata francese e vista in film hollywoodiani come Exodus – Dei e re
Come evidenziato dalla giuria della Festa di Roma, uno dei pregi del lungometraggio sta proprio nell’interpretazione delle protagoniste, molto intense e partecipi nel dare volto e voce ai dolori e alla delusione dei loro personaggi. Riklis sembra però più concentrato sulla denuncia delle condizioni delle donne iraniane che sulla scioltezza della narrazione, e si scontra con la difficoltà della trasposizione del romanzo. Da osservare che, dopo il citato Tatami, è la seconda produzione israeliana in poco tempo che tratta di Iran, quasi la battaglia si giocasse sul terreno cinematografico.
U n giro di danza nel giardino del coraggio
Cinema – 2 ◆ In un angolo nascosto di Teheran, due solitudini si incontrano per riscoprire l’amore e la libertà, sfidando il tempo e le leggi della società iraniana
Nicola Mazzi
Non è un semplice festival, quello che andrà in scena a Lugano tra il 28 marzo e il 5 aprile 2025: è una porta spalancata sul tempo, una fessura da cui scorgere il passato e il futuro mentre si intrecciano nelle narrazioni cinematografiche, nelle arti visive, nelle parole e nei suoni. La quattordicesima edizione di OtherMovie Lugano Film Festival ha per tema: «Identità: la memoria che nutre il futuro», e di fatto propone un mosaico di memorie collettive e individuali, un viaggio che sfida il pubblico a interrogarsi su ciò che siamo e su come la memoria plasmi per l’appunto la nostra identità, tra frammenti dimenticati e ricordi da custodire.
È una storia semplice, eppure molto potente. Presentato alla Berlinale dello scorso anno, vincitore del Premio della Giuria e fra qualche giorno nelle nostre sale, Il mio giardino persiano (My Favourite Cake) dei registi iraniani Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha racconta con dolcezza e delicatezza l’incontro tra due anziani che riscoprono l’amore. Mahin, settantenne vedova da trent’anni, ha sempre rifiutato di risposarsi. Da quando sua figlia si è trasferita all’estero, vive sola nella sua grande casa con giardino a Teheran. Stanca della solitudine, decide di avvicinare Faramarz, un anziano tassista ed ex soldato, anch’egli destinato a una vecchiaia in solitudine. Lo invita a casa sua per trascorrere una serata insieme, ignara che quell’incontro cambierà per sempre le loro vite. Lui ha servito il Paese durante la rivoluzione del 1979. Lei ricorda con nostalgia i giorni dello Scià, quando frequentava hotel di lusso, indossava tacchi alti e cantava le canzoni di Al Bano e Romina. Due mondi distanti, eppure destinati a intrecciarsi in un piccolo angolo di libertà, al riparo dai muri del giardino di Mahin. Fuori da quel rifugio segreto, la società iraniana impone rigide restrizioni alle donne: la polizia morale vigila affinché l’abbigliamento sia conforme alle norme religiose e la libertà di movimento è limitata. Dentro il giardino, invece, esiste un’altra realtà: si beve vino proibito, si balla senza paura e si assapora una sontuosa torta alla crema, simbolo di una libertà tanto semplice quanto rivoluzionaria (da cui il titolo originale).
Un’immagine tratta dal film
Il mio giardino persiano (Caractères Productions)
Anche dal punto di vista formale, il film si distingue per la sua essenzialità. È infatti costruito su gesti minimi, sguardi teneri e battute leggere e ironiche. La macchina da
presa è discreta, quasi invisibile, con inquadrature per lo più fisse e movimenti misurati che seguono i protagonisti senza inutili virtuosismi. La luce naturale del giorno, che illumina le scene esterne, si contrappone a quella più intima e calda degli interni, accentuando il contrasto tra il mondo fuori e quello dentro il giardino, non solo visivamente, ma anche ideologicamente. I dialoghi non sono mai banali, ma traspirano verità e passato, esperienze vissute e un presente complicato. E tutti sono pacati, senza eccessi né drammatizzazioni. Il riferimento alla difficile condi-
zione delle donne in Iran è chiaro, ma mai didascalico. Il film è stato girato in un momento drammatico, proprio durante l’uccisione di Mahsa Amini, vittima della legge sull’obbligo del velo. «Le riprese – hanno raccontato i registi – dovevano restare il più possibile segrete. Non potevamo ignorare ciò che stava accadendo nelle strade. Con il nostro cinema cerchiamo di rappresentare la realtà della società iraniana, spesso sepolta sotto strati di censura. Abbiamo scelto di infrangere alcune restrizioni, consapevoli delle conseguenze».
E le conseguenze non hanno tardato ad arrivare: quando il film è stato selezionato per la Berlinale, ai registi sono stati ritirati i passaporti, impedendo loro di presentarlo. Il governo iraniano ha etichettato l’opera come «propaganda contro il regime e minaccia alla sicurezza nazionale».
Il mio giardino persiano è un film commovente, poetico e diretto come uno schiaffo che non fa male sulla pelle, ma nel cuore. Parla d’amore e di libertà, di quotidianità e di storia, con un finale sorprendente che, ovviamente, non sveleremo. Un invito sincero a non perderlo: nelle nostre sale sarà visibile a partire dal 27 marzo.
Lungo sedici giorni, sessanta film e oltre trentacinque eventi tra workshop e incontri con esperti, il festival non si limita a proiettare opere internazionali, ma diventa un punto di convergenza tra storie che hanno il sapore dell’antico e lo sguardo proteso al domani. È qui che si celebrano non solo la cultura, ma la dignità del diverso, il valore dell’incontro e del dialogo. Gli ospiti invitati non racconteranno solo il loro tempo: scaveranno nei solchi della memoria, riportando alla luce storie perdute, vicende dimenticate che, con delicatezza e rigore, torneranno a vivere sotto le luci della sala. Non mancheranno le riflessioni più contemporanee, come quelle sull’intelligenza artificiale, che al pari dell’essere umano dipende dalla memoria per esistere. Ma quali conseguenze può avere l’evoluzione delle IA? Mentre il cinema fa il suo lavoro di riflessione e denuncia, il festival aprirà il dibattito sulle questioni etiche legate alla memoria digitale: dalla privacy alla manipolazione, passando per il futuro dei dati che accumuliamo, tutto sarà messo in discussione.
Al di là delle luci e degli schermi, in questa rassegna conta il dialogo che può scaturire da ogni proiezione, ogni dibattito, ogni incontro. Il programma di quest’anno conferma l’OtherMovie Lugano Film Festival quale manifestazione tra le più poliedriche della scena culturale locale, che saprà restituire al pubblico una consapevolezza nuova sul concetto di «identità, la memoria che nutre il futuro», ovvero che la memoria non è solo un bagaglio di ricordi, ma bensì è un atto creativo, una risorsa per inventare il domani. / Red.
Le donne di Leggere Lolita a Theran, nell’immagine della locandina del film.
(Minerva Pictures)
Faccende domestiche 1
Errore 1: non cambiare il filtro dell’aspirapolvere
Polvere, briciole e sporco possono essere aspirati in modo affidabile solo da un aspirapolvere in buono stato. È quindi importante sostituire regolarmente il sacchetto e il filtro, idealmente almeno ogni due mesi, se si passa frequentemente l’aspirapolvere. Inoltre, non bisogna aspirare rifiuti umidi o maleodoranti, come resti di cibo caduti sul pavimento, terra o fondi di caffè, altrimenti l’aspirapolvere puzzerà di muffa e diffonderà un odore sgradevole in tutta la casa mentre lo si usa.
2Errore 2: lavastoviglie e lavatrice inefficienti
Perché le lavastoviglie e le lavatrici possano pulire devono essere pulite a loro volta. Nella lavastoviglie è necessario pulire regolarmente le guarnizioni dello sportello con un detergente all’aceto diluito nonché rimuovere il filtro e risciacquarlo con acqua passandovi una spazzola. Nella lavatrice, il cassetto del detersivo e il soffietto di gomma vicino allo sportello devono essere puliti di tanto in tanto con un po’ di detersivo, acqua e un panno in microfibra.
I 5 più comuni errori di pulizia
Ordine inverso, prodotti di pulizia sbagliati: questi errori rendono le cose sporche anziché pulite
Testo: Barbara Scherer
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Errore 3: strumenti sbagliati
Per le superfici delicate come il marmo o il legno è necessario utilizzare panni in microfibra per evitare graffi. Inoltre, se si vuole che sia davvero tutto pulito, per spolverare non si deve usare un piumino perché non fa altro che spargere la polvere. È meglio utilizzare un panno in microfibra umido. Se c’è molta polvere si possono formare delle strisce di polvere che possono essere rimosse con un panno asciutto.
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Errore 4: strofinacci non igienici
In realtà è logico: non si dovrebbero fare le pulizie con strofinacci sporchi e spugne maleodoranti. Quindi lava tutto in lavatrice dopo ogni utilizzo ad almeno 60 gradi, comprese le spugne. Inoltre, per motivi di igiene non si dovrebbe mai usare la stessa spugna o lo stesso panno per più stanze, altrimenti si diffondono germi e batteri.
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Errore 5: detergente sbagliato
Per evitare di danneggiare il marmo della cucina o il parquet del soggiorno, è necessario leggere sempre le aree d’impiego dei prodotti per la pulizia prima dell’uso. Non tutti i prodotti sono adatti a tutte le superfici. Per evitare eventuali danni bisogna rispettare anche il dosaggio. Il detergente all’aceto, ad esempio, deve essere usato solo in forma diluita, altrimenti può lasciare segni di corrosione sulla gomma o sul marmo. Inoltre, di solito non sono necessari detergenti aggressivi per pulire la casa ogni settimana: per molte cose si può usare un detergente ecologico a base di aceto.
Pratici aiuti per la pulizia
Mocio di ricambio in microfibra
Percorsi visivi e riflessioni sull’impatto umano
Eventi ◆ Mostre, incontri e opere d’arte raccontano la sfida del riscaldamento globale al festival diffuso L’Uomo e il clima Giovanni Medolago
È in pieno svolgimento la kermesse
L’Uomo e il clima, un festival diffuso (soprattutto nel Luganese) che ha offerto – e continua a offrire – incontri con personalità particolarmente sensibili sul problema dei cambiamenti climatici (Luca Mercalli), mostre come Lost Ice, che presenta oltre sessanta photobooks (Artphilein Library a Paradiso), o La mano del Clima e la mano dell’Uomo, al Museo Cantonale di Storia Naturale, dove si spiega come in Ticino e nel Settentrione dell’Italia si sia passati da una fauna tipica dei climi temperati – con leoni, ippopotami, rinoceronti e iene – e da una fauna glaciale con tanto di mammut, a quella che conosciamo noi oggi. Le opere esposte aspirano a richiamare tanto la fragilità ambientale quanto la possibilità di una nuova armonia con la natura
Con buona pace dei negazionisti, ecco poi l’expo al Musec di Riva Caccia L’Uomo e il Clima che dà il titolo all’intera rassegna e si sofferma sia sulle grandi oscillazioni climatiche vissute dall’Umanità nel suo passato remoto, sia sulle possibili conseguenze del (sur)riscaldamento che le molteplici attività dell’Uomo stanno generando a livello globale. Risponde, per così dire, la Biblioteca cantonale
di Lugano con La scoperta dei cambiamenti climatici nelle opere dei pionieri della scienza con una selezione di pubblicazioni originali dal XVII secolo ai giorni nostri. Una kermesse composita, dunque, fortemente voluta da Gianluca Bonetti (fotografo e consigliere d’amministrazione della Fondazione Corriere del Ticino); il quale spiega che «ci stiamo muovendo nella giusta direzione, però lo facciamo troppo lentamente: le tensioni geopolitiche e la corsa all’egemonia economica stanno ponendo in secondo piano la crisi climatica». In effetti, l’onda verde che ha portato il partito ecologista a risultati insperati in qualche recente tornata elettorale è presto rientrata, e oggi ci si preoccupa più dei venti di guerra che minacciosamente spirano qua e là sul pianeta Terra che dell’aumento delle temperature e/o della minaccia dell’esondazione degli oceani, prevista ahinoi per i prossimi decenni. Tra la cornucopia di proposte offerte dal festival diffuso, abbiamo puntato la nostra particolare attenzione a Il canto della Terra, l’expo in corso alla Galleria Repetto di Lugano-Loreto. Una mostra, spiega con toni poetici Paolo Repetto, che «esplora l’intimo e complesso rapporto tra l’essere umano e il mondo naturale. Un percorso visivo che celebra l’eterna danza del fremito dell’acqua e del respiro della Terra. La Natura intesa come
un’immensa superficie, un ammasso di creta con e sul quale lavorare. L’opera d’arte? – continua Repetto citando il gallerista tedesco Gerry Schum – Non si tratta più della rappresentazione del paesaggio: l’opera diventa il paesaggio stesso». Nel composito universo culturale, forse sono stati per primi gli artisti (fotografi, pittori, scultori, incisori e via elencando) a lanciare grida d’allarme riguardo ai cambiamenti climatici, a invitarci sin dagli Anni Sessanta a riflettere su quanto stava accadendo sotto i nostri occhi piuttosto distratti, a riconoscere il potere antropologico dell’arte. Ricordiamo Joseph
Beuys (1921-1986), capace di una performance dove mise a radice ben settemila querce (7mila!), naturalmente non presenti chez Repetto. C’è però Christo, l’altrettanto folle performer bulgaro voglioso d’impacchettare tutto quanto gli suscitasse un minimo d’appetito, in questo caso una Coast non identificabile. Si situa invece precisamente a Gibellina Cretto bianco – lavoro definito d’Arte ambientale – di Alberto Burri, riverbero della testimonianza/omaggio di quel «Grande Cretto» poi sistemato dall’artista proprio dove sorgeva la città, completamente distrutta dal terremoto del Belice nel 1968.
Siamo davanti alla «Formula della Creazione», concreta variante del simbolo matematico dell’Infinito al quale Michelangelo Pistoletto inframmezza un terzo cerchio. Chiarisce lo stesso Pistoletto: «Il simbolo del Terzo Paradiso, riconfigurazione del segno matematico dell’infinito, è composto da tre cerchi consecutivi. I due cerchi esterni rappresentano tutte le diversità e le antinomie, tra cui natura e artificio. Quello centrale è la compenetrazione fra i cerchi opposti e rappresenta il grembo generativo della nuova umanità». Nei suoi tre cerchi, Pistoletto ha poi inserito le parole io e tu alle estremità, unendole infine nel cerchio più grande con la scritta Noi. Il 92enne artista piemontese è oggi ufficialmente candidato al Premio Nobel per la Pace, sostenuto dalla Fondazione Gorbachev.
Dove e quando
Sono diversi gli incontri e gli eventi in calendario fino a maggio. Per saperne di più si può consultare il sito: https://uomoeclima.org
Mentre la mostra La mano del Clima e la mano dell’Uomo, presso il Museo cantonale di storia naturale, in via Carlo Cattaneo 4 a Lugano, resterà aperta fino al 21 febbraio 2026.
Orari di apertura: ma-sa 9.00-12.00 / 14.00-17.00.
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Michelangelo Pistoletto, Terzo Paradiso – Il nutrimento, 2003-2025, legno, terriccio, semi. (Courtesy Cittadellarte – Fondazione Pistoletto)
GUSTO
Pasqua
Coniglietti in cucina
Da noi, i dolci coniglietti non si limitano a saltellare nel giardino, ma si intrufolano anche in cucina: queste delizie a forma di coniglio sono irresistibili per grandi e piccoli golosi
Coniglietti di pasta sfoglia al cioccolato
Per ca. 10 pezzi
1 pasta sfoglia rettangolare già spianata di 320 g
50 g di crema di nocciole, ad es. Nocciolata
1 cucchiaio di zucchero
1 dl di panna
50 g di cioccolato al latte o cioccolato con 55% di cacao fleur de sel
1. Scalda il forno ventilato a 200 °C. Srotola la pasta sfoglia e dividila a metà per il lungo. Spalma la crema di nocciole su una metà della pasta. Accomoda l’altra metà sulla crema e premi un po’.
2. Con una rotella tagliapizza ritaglia delle strisce di ca. 2 cm di larghezza. Piega le strisce di pasta a U e intreccia 2 volte le braccia delle U, le estremità formeranno le orecchie.
3. Accomoda i coniglietti su una teglia foderata con carta da forno, poi allunga le orecchie tirandole un po’. Cospargi i coniglietti di zucchero e cuocili al centro del forno per ca. 10 minuti. Sforna e lascia raffreddare.
4. Scalda la panna. Trita grossolanamente il cioccolato e mettilo in una scodella. Aggiungi la panna calda e mescola finché il cioccolato si è sciolto. Metti la panna al cioccolato in frigo.
5. Poco prima di servire, monta la panna al cioccolato ben ferma. Trasferiscila in una tasca da pasticciere con beccuccio a stella e spruzza delle rosette di panna sui coniglietti a mo’ di coda. Cospargi con un pizzico di fleur de sel e servi subito.
Consiglio utile
Se la pasta per modellare i coniglietti si è ammorbidita troppo, rimettila in frigo per 20-30 minuti.
Ricetta
Cake con coniglio
Dolce pasquale con effetto sorpresa: nascosti nel cake al limone spuntano questi coniglietti di cake al cioccolato che sgranocchiano carote di marzapane.
Alla ricetta
Cupcake coniglietti alle fragole
Le orecchie e il muso di questi coniglietti realizzati con frosting alle fragole e cupcake, danno vita a dolcetti pasquali, squisiti anche senza decorazione.
Alla ricetta
Moretti coniglietti
Con la copertura fondente di vari colori si possono trasformare alcuni moretti di cioccolato bianco in coniglietti pasquali molto golosi.
Alla ricetta
Coniglietti di treccia
Seguendo questa ricetta, è facile realizzare una pasta lievitata liscia e morbida e creare coniglietti di treccia. Un paio di uvette e il gioco è fatto.
Alla ricetta
Coniglietti pasquali
Per 8 pezzi
120 g di margarina
80 g di zucchero
1 bustina di zucchero vanigliato 1 tuorlo
180 g di farina
1 punta di coltello di lievito in polvere
1 albume fresco
200 g di zucchero a velo qualche goccia di colorante alimentare
1. Lavorate a spuma la margarina ed entrambi gli zuccheri, con uno sbattitore elettrico. Unite il tuorlo. Incorporate la farina e il lievito setacciandoli. Impastate velocemente e mettete la massa in frigo per almeno 30 minuti.
2. Spianate l’impasto tra due fogli di carta da forno a uno spessore di circa 8 mm. Ritagliate i biscotti a piacere e adagiateli sulla carta da forno, lasciando un po’ di spazio tra i biscotti. Mettete i biscotti in frigo per 15 minuti.
3. Scaldate il forno statico a 190 °C (calore superiore e inferiore). Cuocete i biscotti al centro del forno per circa 12 minuti. Fateli raffreddare sulla teglia.
4. Montate l’albume a neve. Incorporate lo zucchero a velo poco alla volta, finché ottenete una massa densa.
5. Dividetela ad esempio in 3 porzioni. Colorate 2 porzioni con il colorante alimentare. Se occorre, diluite con alcune gocce d’acqua per permettere l’applicazione della glassa con il pennello. Versate la glassa di colore bianco in una piccola tasca da pasticciere (vedi suggerimento). Applicate sui biscotti con un pennello le glasse colorate. Lasciate asciugare un poco la glassa, poi decorate con la glassa bianca. Lasciate asciugare i biscotti.
Ricetta
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L’orecchio del portinaio di Milano
La capitale meneghina, si sa, è piena di sorprese: in Via Serbelloni un orecchio gigante sempre pronto all’ascolto invita i passanti a confidare i propri segreti
A Istanbul tra le storie non dette
Reportage ◆ Cronache da una città che non è solo a cavallo di due continenti, ma anche di infiniti, caleidoscopici mondi
Clara Valenzani, testo e foto
Sono arrivata a Istanbul con l’intento di trovare una storia. Una di quelle curiose, che faccia esclamare al lettore «Ma va, davvero? Questa mi è nuova». E le storie buone si scovano osservando, parlando, vagando.
L’ho cercata ancora prima di atterrare, osservando dal finestrino il Mar di Marmara increspato come carta velina e solcato da decine di navi, battelli, portacontainer, sostituti dei galeoni genovesi e veneziani che un tempo affollavano lo Stretto del Bosforo.
L’ho cercata nel tragitto congestionato dall’aeroporto al centro, scrutando da un finestrino che restituiva una visuale appannata in cui si mescolavano cieli lattiginosi e negozi di baklava, basse nuvole grigie e pilastri di un ponte, striature di pioggia sul vetro e marciapiedi bagnati affollati da
scarpe eleganti, vecchie, col tacco, da ginnastica.
L’ho cercata muovendomi tra la folla, camminando sui binari del tram insieme ai turisti e ai 15 milioni di abitanti, pigiata e stupita dalla quantità di gente che una stretta via può contenere e attenta a captare il fischio del treno in arrivo.
L’ho cercata in una Santa Sofia quasi deserta, in coda alla biglietteria così presto che dallo sportello mi hanno offerto un caffè, annacquato simbolo della proverbiale (e veritiera) ospitalità dei turchi. Mentre percorrevo le gallerie di mattoni per entrare nell’edificio che ha ospitato quasi 1500 anni di storia, i miei passi rimbombavano nei corridoi e una sciarpa verde mi copriva i capelli alla maniera islamica. Ho osservato la cupola dorata da 30 metri di diametro: da 56 di
racchiude e abbraccia l’opera di
Enormi medaglioni parlavano di Allah e Maometto, l’oro dei mosaici baluginava, i grandi lampadari dalle luci a forma di foglia illuminavano
strani angeli serafini. Sotto un raggio di luce, nella navata destra, un gatto striato di grigio socchiudeva gli occhi raccogliendo la devozione dei visitatori, proiettando la sua ombra sul pavimento di marmo calpestato da vichinghi e crociati, come un dio egizio. L’ho cercata camminando tra le 336 colonne della Cisterna Basilica, una foresta sotterranea e umida, il pavimento che un tempo poteva ricevere 100 mila tonnellate di acqua da 20 km di acquedotti per rifornire il palazzo e gli edifici adiacenti. «Le acque verdastre si perdono sotto le volte nere, rischiarate qua e là da un barlume di luce vivida che accresce l’orrore delle tenebre», scriveva Edmondo de Amicis. Ora ne rimane solo un basso strato stagnante, ricopre le piastrelle antiche ed è così immobile che sembra vetro; i pesci sono sostituiti dalle
Gabbiani sorvolano Santa Sofia nel classico scenario da cartolina turca.
altezza
Giustiniano nata come chiesa, divenuta moschea, poi museo, e infine nuovamente luogo di culto musulma-
no.
Un tramonto polveroso su Istanbul, fotografato dalla riva asiatica poco prima di prendere il traghetto.
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monetine lanciate dai turisti in questa Fontana di Trevi orientale. Tra i soffitti gocciolanti e le luci soffuse arancioni e verdi ho scorto una testa di Medusa scolpita nella pietra, riversa, come se lo sguardo riflesso nell’acqua fosse tornato al mittente.
L’ho cercata attraversando il ponte di Galata, che neanche di notte riesce a riposare in silenzio. Sotto una luna a falce, la Yeni Camii e la Süleymaniye Camii, la Moschea Nuova a sinistra e quella di Solimano sul colle a destra, brillavano come l’immaginario palazzo di Agrabah, i minareti stagliati contro le nubi dai contorni sfilacciati che portano pioggia e non vogliono andarsene, resistenti quanto l’odore di acciughe e caldarroste.
A Istanbul non si può essere avventurieri, ma tutti diventano narratori, osservatori e cantastorie
Le bandiere sventolavano, i battelli dormivano e i pescatori tentavano ostinatamente di tirare su un pesce dal canale inquinato, incitati dai gabbiani. Eccone uno che si dibatte, il ragazzo lo getta nel secchio e conta il bottino. Seduta su un minuscolo sgabello sorseggio l’ennesimo cay comprato dal furgoncino del tè, il bicchierino a pera scotta i polpastrelli mentre ripeto con lui: ventisette pesci. La coppia anziana più in là invece è ancora in attesa, lei aspetta paziente che abbocchi qualcosa sotto l’ hijab a fantasia scura.
L’ho cercata, la mia storia, anche passandoci sotto a quel ponte, su un traghetto che fa la spola tra due mondi, andando dall’Europa all’Asia, tra l’imbarco di Eminönü e quello di Kadıköy. Qui c’è un’altra Istanbul fatta di negozi che vendono vestiti in pelle, tatuatori, graffiti, bar alternativi che si mescolano ai banchi del mercato su cui gli anziani annaffiano le verdure esposte e invitano a comprare le oltre 20 qualità di olive. La sera si torna nella prima Istanbul, sotto un tramonto incerto che non ha ancora deciso se essere rosso o rosa.
L’ho cercata esplorando la zona del Corno d’Oro, a ovest, passando lungo le strade del quartiere di Fatih, fendendo l’odore di sapone che usciva da un bagno turco rimesso a nuovo e quello del kebab. Lungo la trafficata arteria percorsa da bus gialli sorgono
Medusa proietta la sua ombra su una nicchia all’estremità della Basilica Cisterna.
negozi di abiti da cerimonia poco sobri, ma prendendo una via laterale in salita ecco un panettiere che inforna con la pala, mamme coi bimbi al parco giochi di fronte alla moschea, un sussurro da dietro le tendine al piano terra per chiamare un gatto arancio in fuga, e bandierine turche appese dietro i vetri, a indicare che il nazionalismo di Atatürk persiste. Mentre si sale e si scende lungo strade che ricordano Sarajevo si vedono melograni rossi selvatici nascosti tra le fronde, vicino a una chiesa rosa cipria: ma non si può entrare, è l’ora della preghiera.
Non importa, sto ancora cercando la mia storia. Forse potrebbe raccontarmene una interessante quella donna pensante su un terrazzo, il mento appoggiato sulla mano e un foulard
Distretto di Kadıköy, sponda asiatica: un venditore al mercato rinfresca le verdure sul banco.
in testa. Oppure quella con un sorriso sdentato e un enorme mazzo di fiori bianchi, che mi saluta accogliente mentre mangio un lahmacun, la pizza ripiegata e condita con carne macinata all’inizio di Fener, il distretto ebraico. Ma non ho modo di parlare con loro e devo continuare a inseguirla, a stanarla, quella storia ancora in fuga.
Procedo, i percorsi si ricongiungono come un anello che si chiude casualmente e mi ritrovo nell’area dei bazaar, di nuovo in centro. L’ho cercata anche lì. Mi sono aggirata tra i soffitti a volta decorati di blu e rosso, tra cuscini cuciti in serie e ori di dubbia autenticità. Tappeti di poliestere, lampade, profumi, ceramiche, gioielli, tutto simile. Nel traffico del mercato, appoggiato a una colonna e
Le colonne all’interno della Basilica Cisterna sono illuminate da fari colorati e installazioni artistiche: tra ombre e gocciolii, la visita diventa un’esperienza sensoriale.
Un raro scatto senza turisti nel quartiere ebraico di Balat, famoso per le case colorate arroccate ai lati delle vie ripide.
seduto su una delle immancabili, piccole sedie, un venditore attendeva i clienti leggendo un libro. Ancora niente.
L’ho cercata aggirandomi nel quartiere dei calzolai, tra le tipiche case ottomane con i balconi aggettanti, i tralci di vite che pendevano intrecciati ai fili elettrici, gli hammam riconoscibili dalle cupole. Forse la mia storia si nascondeva lì, tra il fumo e il vapore di un bagno turco defilato? Sono entrata. La massaggiatrice non parlava una parola di inglese, era massiccia, con il seno grande e pesante. A gesti mi ha indicato cosa fare, e si è richiusa la porta antica di legno scuro alle spalle. Sola nelle vecchie sale ho ascoltato il rumore di un rubinetto che perdeva, ho scrutato le venature scure del marmo
Tessuti, souvenir e corridoi labirintici:
non ammorbidito dagli anni; acqua, sudore e aria si mescolavano sotto i vetri colorati del soffitto. Mi sono rivestita e sono uscita in silenzio, lei era appisolata sul divano, una ciocca di capelli rossi tinta malamente sfuggiva dalla bandana, la tv trasmetteva un vecchio film. Salite le scale in punta di piedi mi sono lasciata alle spalle quella bolla ovattata e atemporale fatta di acqua, calore e asciugamani di cotone a quadri.
Dall’alto del quartiere ho guardato il mare brillare più giù, in fondo, e ho pensato alla mia storia.
L’ho cercata, e alla fine non l’ho trovata. Perché Istanbul è così affollata, chiacchierata, conosciuta, che chissà quante storie sono già state scoperte. Quella manciata di giorni non basta di certo. Una metropoli talmente viva e brulicante che non è possibile immaginare di esserne suoi romantici esploratori.
A Istanbul non siete avventurieri. Siete osservatori, narratori, cantastorie che si sono immersi nei colori delle case del quartiere greco di Balat, hanno annusato il profumo del caffè che sobbolle sui tizzoni ustionanti, hanno osservato i cieli sgombri quando il grigio lascia finalmente il posto all’azzurro e sono infine tornati sul ponte di Galata, domandandosi se ci sarà ancora quel furgoncino da cui comprare il tè che scotta i polpastrelli.
Informazioni
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Fioriscono narcisi
Crea con
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◆ Realizzare delle decorazioni stagionali favorisce l’attenzione dei più piccoli verso la natura
Giovanna Grimaldi Leoni
Con l’arrivo della primavera, cresce il desiderio di rinnovare gli spazi con decorazioni fresche e colorate. In questo tutorial, vi mostriamo come trasformare i cartoni delle uova in una ghirlanda di narcisi primaverile. Un progetto facile e divertente, ideale anche per coinvolgere i bambini e insegnare loro il valore del riciclo creativo. Questa attività può anche diventare un’occasione per realizzare un angolo delle stagioni, aiutandoli a osservare e vivere il cambiamento della natura attraverso il gioco e la manualità.
Procedimento per creare i narcisi Tagliate i cartoni delle uova per ottenere le varie parti necessarie. La co-
rolla si realizza ritagliando cinque petali dal cartone, mentre per il centro del fiore si utilizza la punta del cono, tagliandone circa 1,5 cm. Una volta ottenuti i pezzi, dipingete i petali e il centro con tempera o acrilico giallo e lasciateli asciugare completamente. Quando il colore sarà asciutto, incollate i petali a raggiera su un piccolo tondo di cartone, utilizzando la colla a caldo per fissarli saldamente. Infine, posizionate al centro il cilindro precedentemente dipinto per completare il fiore. Per ottenere una forma più arrotondata e naturale, riporre i narcisi all’interno di una scatola delle uova per una notte, in modo che acquistino la curvatura desiderata. Completate il fiore inserendo nel
Giochi e passatempi
Cruciverba
Le donne vennero ammesse, per la prima volta, alle olimpiadi del 1900. Dove si tennero e in quali discipline poterono gareggiare? Trova le risposte leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere evidenziate. (Frase: 6 – 6, 1, 4)
ORIZZONTALI
1. L e iniziali di Bonolis
3. Concordia
6. Una consonante
8. Prefisso che vuol dire su per gli inglesi
9. Esprime concessione
10. Dà punti e punture
11. Il bis di Totò
12. Regola il traffico a Parigi
13. È sempre in partenza
17. Cantilena noiosa
18. Grosse ghiandole
19. Le casseforti dell’arte
20. Congiunzione inglese
centro una piccola pallina creata con la carta da cucina che dipingerete di giallo.
Realizzare la ghirlanda primaverile Con gli acquarelli blu e verdi, dipingete le pagine di un vecchio libro utilizzando un pennello piatto e sten-
21. Ministro del sultano
23. Stato dell’Asia
24. La banca vaticana
26. Un Maurice musicista
27. Lavora preziosi
VERTICALI
1. Salsa genovese
2. Gaiezza, verve
3. Ripetute in una spezia
4. Parenti
5. Periodo storico
7. Le iniziali del noto Arbore
10. Stato dell’Africa del nord
12. Parti di un processo
13. Vale in mezzo
14. Un cantante di nome
Francesco
15. Fine per gli inglesi
16. Tredicesima lettera dell’alfabeto greco
17. C’è chi ci naviga dentro
19. Primo elemento di parole composte che vuol dire muscolo
21. Di Non nel Trentino
22. Luccica e letto al contrario non cambia
dendo il colore ben diluito, in modo da ottenere un effetto velato e leggero. Mentre le pagine asciugano, ritagliare dal cartone ondulato dei quadrati di circa 8 cm di lato. Una volta che la pittura sarà completamente asciutta, ricavare dalle pagine colorate dei quadrati più piccoli, di circa 7 cm, e fissarli al centro di quelli ondulati per creare una base decorativa. Al centro di ogni quadrato così preparato, incollare un fiore di narciso. Con i resti delle pagine dipinte di verde, ritagliare delle foglie da utilizzare come dettagli decorativi per arricchire la composizione. Fissate il tutto su di uno spago con piccole mollette di legno, alternando fiori e foglie.
Creare i portatovaglioli
Per realizzare i portatovaglioli, tagliate un tubo vuoto di carta igienica in anelli di circa 4 cm di altezza. Rivestiteli con una striscia di pagina di libro dipinta di verde, fissandola con la colla. Fissate un narciso sulla parte superiore dell’anello. Questi portatovaglioli, semplici ma eleganti, aggiungeranno un tocco primaverile alla tavola di Pasqua.
Realizzare i biglietti regalo
Per i biglietti regalo, utilizzare i quadrati preparati per la ghirlanda. Basterà incollarli su un cartoncino kraft, trasformandoli in originali cartoncini decorativi. Preparatene diversi da
Materiale
• Cartoni delle uova
• Forbici
• Colla a caldo
• Piccole mollette di legno
• Filo (spago o cordoncino)
• Acquarelli
• Tempera o acrilico giallo, pennello piatto
• Cartone ondulato
• Pagine di un libro vecchio o pagine di giornale (I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)
avere pronti per ogni occasione. Oltre a essere utilizzati come biglietti regalo, possono diventare segnaposto personalizzati o servire per scrivere il menù pasquale, aggiungendo un tocco creativo alla tavola. Buon divertimento!
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del
cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano . Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie
Cronaca di una convivenza strava
Letteratura
Roberto Falconi
Si dice spesso, e con molte ragioni, che la miglior letteratura sia quella che prende atto dell’opacità del mondo e della difficoltà di accedervi pienamente, facendo di questo scacco conoscitivo l’oggetto stesso della propria trattazione. Nel suo romanzo d’esordio – uscito nel 2021 presso Verdier, e ora disponibile anche nella traduzione italiana approntata da Luigi Colombo – Rebecca Gisler indaga il rapporto tra normalità e devianza e, in conclusione, il velleitarismo di ogni tentativo di omologare la marginalità.
Il libro si fa anzitutto campo di tensione tra uno zio disadattato e la nipote (e narratrice), che per motivi mai del tutto chiariti si ritrovano a condividere la casa di lui in Bretagna, in un paesino affacciato sulla baia e sulla fine del mondo. Ora, già la scelta della figura dello zio, letterariamente minoritaria, permette uno sguardo obliquo e problematico sulle cose; salvo che questa lateralità si fa ossessiva centralità: l’edizione originale presenta in un centinaio di pagine 484 occorrenze della parola oncle, tutte conservate nella traduzione. Uno zio cinquantenne mai davvero uscito dall’infanzia, verduraio presso l’abbazia dopo esserne stato giardiniere paesaggista, che divide il proprio tempo libero tra la caccia alle talpe in giardino e il tiro con l’arco («ci chiede di portarlo al negozio di sport, dove si compra delle medaglie che non manca di attribuirsi solennemente al termine di una seduta di tiro particolarmente riuscita»). Per il resto, lo zio guarda spesso la televisione (anche quando non funziona più: lo sguardo resta fisso sul rettangolo nero macchiato dalle sue impronte digitali), cura – diciamo così – la propria alimentazione («che è composta in gran parte da sandwich con l’an-
douille inghiottiti nel segreto della sua camera») e la propria igiene («quando lavorava, lo zio si lavava una volta alla settimana, e al minimo cambiamento di programma, in vacanza per esempio, lo zio non si lavava più del tutto»).
Lo spazio del libro è interamente occupato dall’osservazione, da parte della nipote, del fenomeno-zio: nessuna riflessione psicologica, nessun giudizio morale; solo uno sguardo vigile, a tratti ironico, a tratti preoccupato, sempre empatico. Ne esce un re-
Salotti e narrazioni
soconto che si muove tra iperrealismo (le condizioni in cui lo zio lascia il cesso) e toni onirici (la galleria di animali esotici che escono dall’ospedale in cui viene ricoverato a seguito di anni di vita sregolata), a volte tra loro indistinguibili, come «la linea dell’orizzonte si confonde con la linea del mare e forma un’unica parete grigia». Proprio la natura risulta respingente, incisa dalle tensioni che animano il romanzo: l’edera che soffoca la casa dello zio; il mare che quando si ritira
Premio svizzero 2025 ◆ Tra i vincitori, Fabio Andina con Sedici mesi e il progetto Sofalesungen, che riporta la letteratura a una dimensione più intima
La Svizzera, con le sue anime linguistiche e culturali, ha dimostrato di saper custodire il passato letterario senza dimenticare la spinta verso il futuro. In un contesto letterario in continua evoluzione, il Premio Svizzero di Letteratura 2025 ha infatti saputo cogliere l’essenza di un dialogo continuo tra tradizione e innovazione, dando spazio non solo all’arte della scrittura, ma anche a nuove modalità di incontro culturale.
Sette i componenti della rosa di autori profilatisi per la varietà delle loro opere e regioni linguistiche, autori le cui opere riflettono la complessità culturale e geografica del Paese, arricchendo il panorama letterario con stili individuali e voci distinte. Tra questi, la quota ticinese è andata a Fabio Andina, che si è distinto con Sedici mesi, un romanzo capace di catturare i silenzi e la natura della Svizzera italiana, traducendo in parole un paesaggio interiore ricco di suggestioni. Una narrazione sospesa, fatta di gesti quotidiani e paesaggi che respirano la stessa solitudine di chi li vive. Con una prosa sobria e meditativa, Sedici
mesi si inserisce con naturalezza nel solco della letteratura di montagna, ma con una sensibilità nuova, capace di illuminare le sfumature più delicate del vivere umano.
Uno dei riconoscimenti più interessanti di quest’anno è stato il Premio speciale di mediazione, che ha visto vincitore il progetto Sofalesungen, per aver portato la letteratura direttamente nei salotti, trasformandoli in microcosmi di condivisione, piccoli cenacoli letterari. Sofalesungen, che letteralmente significa «letture
da sofà», è molto più di un semplice esperimento di vicinanza. In un’epoca di incontri virtuali, questo progetto riconsegna il piacere di una letteratura vissuta in presenza, in luoghi che di solito non accolgono libri, ma conversazioni intime. I salotti, che in Ticino si declinano anche in spazi museali e altri luoghi, non necessariamente privati, diventano occasione di riflessione e scambio, dove autori e lettori si confrontano in maniera informale, rompendo le barriere dell’istituzionalità. Una formula che ripristina il senso del contatto umano intorno alla parola scritta, in un contesto di intimità e condivisione, che sembra spostare l’asse della divulgazione letteraria verso nuovi modelli di fruizione.
A vincere invece il Gran Premio svizzero è Fleur Jaeggy, della quale avremo modo di parlarne nei prossimi numeri.
In un anno in cui la cultura si è vista spesso costretta a reinventarsi, questi premi rappresentano la perfetta sintesi tra il valore intrinseco della letteratura e la necessità di sperimentare nuove strade per diffonderla.
lascia dietro di sé una baia inaccessibile, putrescente, tutta spigoli («due o tre piccoli scogli, alghe verdi che sanno di zolfo, e dei carapaci di granchio o delle conchiglie di cozza»). Nessun idillio nemmeno a primavera, quando lo zio, senza neppure lasciare il letto, «sfodera la sua racchetta elettrificata per massacrare le mosche, che si nutrono del sangue dei mammiferi che parassitano». Anche il giardino della casa si fa allora spazio antiedenico, superficie che riflette il conflitto
Y. Bernasconi & A. Fazioli Non importa dove Gabriele Capelli Editore
«Dalla Cina al Canton Ticino, passando per Venezia, New Delhi o il ventre di un grosso pesce». Inizia così il testo della quarta di copertina dell’ultima opera del duo di scrittori più noto del Ticino. Yari Bernasconi e Andrea Fazioli tornano infatti in libreria con un nuovo progetto letterario a quattro mani: Non importa dove, edito da Gabriele Capelli. Il libro è un viaggio che attraversa luoghi reali e immaginari, dall’angolo di una piazza a un parco, passando per un’isola dell’Oceano Atlantico, nel vuoto di una casa in ristrutturazione, dallo zoo di Zurigo, d’al di là di uno specchio, «Sai che questo terreno (che attraversi col treno) vale mille sterline per un pollice fine?». Con cinquantotto cartoline illustrate dagli stessi autori e altrettanti testi brevi, ogni pagina si apre a uno scenario diverso, offrendo una narrazione veloce e iconica, che mescola filosofia e racconto. Le esperienze artistiche individuali dei due autori – Bernasconi come poeta e Fazioli come autore di noir – si intrecciano qui in un’opera che invita il lettore a lasciarsi sorprendere anche nella calma: «Ai giardinetti (di Massagno, ndr.) è quasi sera. Il sole sembra stanco e lontano. [...] Le altalene sono nuove».
tra devianza e normalizzazione, con il fratello della narratrice (che per un periodo condivide con lei il soggiorno bretone) che sfascia il frutteto a cui si è premurosamente dedicato nell’indifferenza dello zio, del tutto insensibile alla bellezza e interessato solo all’azione: «un duello di gabbiani o un transito di ricci».
L’opacità delle cose investe anche il piano della Storia. Alla precisione calendariale (lo zio lascia con i genitori la banlieue parigina «nel luglio mille-
Manuela Bonfanti Autoritratti di signora Salvioni Edizioni
Ogni donna porta con sé una storia, ma non tutte hanno avuto la possibilità di vederla raccontata. Autoritratto di Signora – Percorsi al femminile dalla Svizzera italiana raccoglie diciotto testimonianze di donne della Svizzera italiana (Salvioni Edizioni); uscito ufficialmente non a caso l’8 marzo di quest’anno, unisce voci diverse che svelano sfaccettature inedite della condizione femminile grazie alla testimonianza di diciotto donne. Attraverso un’intima esplorazione di esperienze quotidiane, Manuela Bonfanti – dopo aver raccolto molte ore di interviste – ha creato un’opera che intreccia biografie individuali con riflessioni collettive sul cambiamento dei ruoli e dei modelli sociali. Un viaggio attraverso generazioni e geografie che restituisce dignità a chi, troppo spesso, è rimasta nell’ombra.
Immagine della copertina dell’edizione italiana del libro di Rebecca Gisler, edito da Dadò.
di Claudio Visentin
Il sogno di una casa a un euro
Una delle regole del buon giornalismo è seguire una vicenda sino alla sua conclusione. Per esempio se qualcuno viene accusato di un crimine, bisognerebbe raccontare le indagini, il processo e il verdetto finale con lo stesso spazio e la stessa evidenza delle prime accuse. Certo è difficile mettere in pratica questo principio quando le notizie si accavallano con un ritmo sempre più veloce, ma non è proprio questo che distingue il giornalismo superficiale da quello di qualità?
Mi sono chiesto se lo stesso principio potrebbe applicarsi anche al giornalismo turistico. Per esempio una decina d’anni fa destò un enorme interesse la proposta di case in vendita in Sicilia a un euro. Casualmente ero a Salemi nel 2008 quando il sindaco Vittorio Sgarbi lanciò per la prima volta l’idea: sorprendente, quasi provocatoria ma indiscutibilmente ge-
niale. Nel centro storico di Salemi vi erano molte case di famiglia abbandonate e in cattive condizioni dopo il terremoto del Belice del 1968; altre appartenevano a emigranti che avevano lasciato il paese per sempre. Ricordo che i primi acquirenti e gli agenti immobiliari, soprattutto inglesi, arrivarono subito numerosi. La curiosità era tangibile. La BBC acquistò due appartamenti e raccontò la ristrutturazione in una popolare serie TV: Amanda & Alan’s Italian Job. L’entusiasmo non svanì neppure quando emerse che le case a un euro erano solo quelle pericolanti. Per quelle in condizioni ragionevoli serviva più denaro e l’euro in questione era più che altro una base d’asta. Ma soprattutto gli acquirenti avrebbero dovuto impegnarsi a ristrutturare gli edifici a loro spese ed entro un tempo stabilito, con un esborso notevole. Pur con questi limiti, l’idea
Cammino per Milano
ha avuto notevole fortuna ed è stata subito imitata da altri comuni siciliani: Gangi (2014), Sambuca (2019), Mussomeli (2020). Poi si è diffusa in Toscana, Sardegna e Calabria; infine è stata adottata anche all’estero, in Spagna, Francia e Portogallo. Ma torniamo alla domanda iniziale: quasi vent’anni dopo, a che punto siamo? La proposta ha dato i risultati sperati? La risposta è incerta. Per cominciare, prima ancora di recuperare il patrimonio immobiliare, si cerca di rivitalizzare la comunità locale, dissanguata dall’emigrazione, quella storica dell’ultimo secolo e quella contemporanea dei giovani. In molti piccoli paesi i pochi cittadini rimasti non bastano più per mantenere un medico locale o un supermercato; la scuola chiude o viene accorpata per mancanza di scolari. Anche dove il paese è più grande e ha conservato una certa vitalità, gli abitanti hanno
preferito trasferirsi in nuove case di periferia e il centro storico è comunque in abbandono. Per questo diverse amministrazioni hanno pensato di invitare gli stranieri. Dopo tutto la Sicilia è sempre stata una terra di passaggio di popoli diversi e l’identità dell’isola, dalla lingua alla cucina, dall’arte alla musica, è il risultato di questa straordinaria mescolanza. E tuttavia molti dei nuovi venuti, incluse parecchie celebrità, come l’attrice Lorraine Bracco (The Sopranos), cercavano soprattutto una casa di vacanza e pochi si sono trasferiti davvero in Sicilia per la maggior parte dell’anno. Un flusso esiguo ma promettente di nomadi digitali, ovvero di lavoratori da remoto, si è interrotto a causa del Covid e solo ora è in lenta ripresa; e non è facile comunque lavorare da un’isola. Anche i meglio intenzionati poi si scontrano con trattative intermina-
bili, lentezze burocratiche, imprese edili poco efficienti e inclini a fermarsi quando il nuovo proprietario si allontana. Per questo, dopo oltre un decennio da quegli inizi pieni di entusiasmo, un certo scetticismo sembra diffondersi, soprattutto per quanto riguarda i tempi dei lavori. Alcuni cominciano a pensare che gli stranieri non siano la soluzione, che si dovrebbe puntare piuttosto sul «turismo delle radici» (un nuovo termine di moda) per invogliare al ritorno gli eredi degli emigranti di un tempo, che oltretutto spesso sono già padroni di qualche porzione di casa a seguito di divisioni ereditarie. Qualcun altro ricorda, non senza ragioni, che la Sicilia non è l’America e che una certa rilassata lentezza del vivere è parte del suo carattere e del suo fascino. In Sicilia tutto avviene con gradualità, tra soste e ripartenze: case a un euro comprese.
Un pomeriggio di marzo, dopo la pioggia e l’avanzare a grandi falcate tra traffico e folla con squarci insperati di azzurro e luce tiepolesca a illuminare i cumulonembi, imbocco via Serbelloni. Via Serbelloni, traversa di Corso Venezia che potrebbe far ritornare in mente la contessa Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare di fantozziana memoria, è dedicata in realtà a un condottiero. Gabrio Serbelloni (1508-1580), nato e morto a Milano, partecipa all’assedio di Perpignano, alla battaglia di Lepanto, alla conquista di Tunisi. Fuggito da teatro con un’attrice, scoprendo, per strada, di notte, molti anni fa, la scultura di un orecchio gigante per citofono al dieci di Via Serbelloni, rimasi di sasso. Incastonato in una cornice di granito di Montorfano, biancastro con punteggiatura nera stile gelato alla stracciatella, eccolo sempre lì a stupire i passanti senza fretta
né volto specchiato nel natel, l’orecchio-citofono in bronzo patinato di verderame.
Opera del 1926 di Aldo Andreani (1887-1971), architetto-scultore autore anche di tutto questo eclettico palazzo conosciuto come Casa Sola-Busca o Ca’ de l’Oregia, a lungo è stata attribuita erroneamente al più noto scultore Adolfo Wildt. A trarre in inganno anche un critico scafato come Gillo Dorfles che attribuiva l’orecchio a Wildt sulle pagine del «Corriere della Sera» del ventidue gennaio 1993, di certo è l’orecchio di Wildt in marmo, esposto nel 1919 alla Galleria Pesaro qui a Milano e un po’ simile a questo. Inoltre, la presenza di due sculture di Wildt nelle vicinanze potrebbe aver completato l’opera di confusione. Eppure, già smentito allora dalla figlia di Andreani sempre sulle stesse pagine di giornale, la conferma che chiude
Sport in Azione
la querelle attributiva arriva nel 2015. Grazie al professor Roberto Dulio, co-autore di una monografia su questo anomalo architetto mantovano misconosciuto caduto nell’oblìo per decenni, riuscendo a fotografare –incuneando l’obiettivo non so come, sul retro – la firma incisa sul bronzo. La verità, toccando ora con indice e medio la superficie bronzea della linea scultorea dell’antelice che seguo sempre con le dita percorrendola piano, è che si tratti di un omaggio a Wildt visto che Andreani era suo allievo all’Accademia di Brera. Il mistero rimane se funzioni sul serio come citofono. Alcuni sostengono sia il primo citofono di Milano: attraverso un condotto uditivo si comunica con il portiere. Altre fonti riportano sia in disuso, altre ancora sia solo simbolico e nessuno, attraverso l’Orecchio del portiere (1926), così s’intitola questa straordinaria e giocosa opera fuo-
Sta riemergendo una Svizzera sommersa
Potrei stupirvi con degli effetti speciali, e parlarvi del più grande fondista della storia, Johannes Høsflot Klæbo. Ai recenti Mondiali di Trondheim, ha conquistato l’oro in tutte le sei gare in programma, portando il suo bottino a quota 15 titoli, che si aggiungono ai 5 ori olimpici. Nessuno meglio di lui. Neppure il fenomenale Bjorn Dæhlie. E pensare che ha solo 29 anni, e ancora tanta strada davanti. Tuttavia, del fenomeno norvegese si sono giustamente occupati tutti i media. Non avrei nulla da aggiungere, se non l’ennesimo inchino. Vorrei per contro soffermarmi sulla prestazione dei fondisti elvetici, che sono rientrati a casa con tre medaglie al collo. Non era mai capitato, neppure durante l’era di Dario Cologna. L’argento di Nadine Fähndrich nello sprint non stupisce. Tutto sommato non mi meraviglio neppure per il bronzo nel Team Sprint, in cui la stessa Fähnd-
rich ha fornito un contributo determinante alla compagna Anja Weber. Ma quanto ha combinato la staffetta maschile 4 x 7,5 km, ha del miracoloso. Alle spalle di una Norvegia in gita di piacere, il quartetto rossocrociato, composto da Cyril Fähndrich (il fratellino), Jonas Baumann, Jason Ruesch e Valerio Grond si è reso protagonista di una prova perfetta. I primi tre frazionisti hanno tratteggiato un capolavoro tattico. Dal canto suo, Grond, 24enne sprinter grigionese, sul rettilineo conclusivo ha disegnato una volata alla Klæbo. Irresistibile. Ha addomesticato la concorrenza con un’autorevolezza e una potenza insospettabili. Poca roba, obietterà qualcuno. Certo! Se paragonata al bottino dei norvegesi, come dargli torto. Tuttavia, per lo sci di fondo svizzero si tratta di un risultato storico. L’ultima nostra presenza sul podio di una staffetta, risale all’edizione di Sap-
poro nel 1972, quando Alfred Kälin, Albert Giger, Alois Kälin ed Eduard Hauser conquistarono il bronzo alle spalle di Unione Sovietica e Norvegia. L’argento del quartetto svizzero a Trondheim mi ha entusiasmato poiché era totalmente inatteso. Eravamo in crisi. L’effetto Cologna non c’è stato. I suoi epigoni sembravano arrancare, e sprofondare spesso nell’anonimato di metà classifica. Il fondo svizzero era stato inghiottito in un vortice pericoloso. Nessun risultato, significa meno finanziamenti, e meno copertura mediatica, soprattutto televisiva. Solo sei anni fa, a Seefeld, in Austria, con ancora Dario Cologna nella selezione, i mondiali di sci nordico erano considerati dalla SRG-SSR come una «Grosse Operation», al pari dei mondiali di sci alpino e di altre manifestazioni sportive di grande richiamo. Ciò significava dedicarvi un’abbondante copertura, con l’im-
ri scala dove sono scolpite pure delle ciocche di capelli, ha mai detto niente a nessuno. Il portiere non c’è, indago invano dicendo qualcosa all’orecchio naturalistico di Andreani. Si racconta anche che se si sussurra un desiderio dentro il padiglione auricolare di questo protocitofono, si avveri. Una signora con paltò ciclamino e labrador cioccolato di nome Olly mi dice: «Si possono anche sussurrare paure, confessioni, segreti». Di colpo mi viene in mente il finale di In the Mood for Love (2000) con il tipo che bisbiglia nell’orifizio di un tempio in rovina. Arretro un po’, senza farmi investire, per perlustrare con gli occhi il bugnato rustico al pianterreno; sopra si catturano sporgenze insensate ma per me significative. Mentre a un certo punto l’edificio di sette piani rientra dal suo involucro irregolare come se fosse un palazzo preesistente intonacato di rosa o
tutto il resto una nuova rovina: Andreani precursore assoluto del postmodernismo. L’apice però è all’angolo, dove si capisce che il palazzo ha pianta a falena e le sporgenze di roccia chiara frantumata, richiamano il non-finito michelangiolesco. Nel mio sguardo, la roccia sbozzata, si accorda ora al cumulonembo in lontananza. Nonostante non venga citato in Ascolto il tuo cuore, città (1944) di Savinio, ormai il mio angelo custode a spasso con me, impossibile sia sfuggito al suo occhio instancabile in giro per Milano. Perciò credo che questa stramberia architettonica, come un’assonanza segreta o corrispondenza perfetta sottaciuta, sia nascosta proprio nel titolo stesso. Di sicuro ascolta il cuore della città dove proprio qui dietro l’angolo, c’è il capolavoro occulto di Andreani che vi racconterò, se Dio vuole, nella prossima puntata.
piego di mezzi e risorse. In pochi anni le corde del borsellino si sono ristrette, soprattutto per la nostra piccola RSI. Spariti gli studi e le postazioni per analisi e interviste. Uscito di scena il commentatore tecnico. E, dulcis in fundo, il cronista, ha narrato le gesta della staffetta elvetica da una cabina di Comano, cercando di trasmetterci gioia ed entusiasmo. Con me, c’è riuscito, ma l’impresa era facile. Per catturare il grande pubblico, serve invece continuità, ed è ciò che mi sento di augurare a tutto il movimento, che ultimamente sta ricominciando a far sentire la propria voce. Il successo di una disciplina sportiva passa attraverso vari canali. Per evitare che entrino in un circolo vizioso servono buoni tecnici, ottimi materiali e un bacino allargato dal quale attingere per forgiare i campioni di domani. Perbacco, non è obbligatorio disporre di atleti di livello mondiale. Tuttavia, se ci sono,
vincono. Se vincono, Swiss Olympic finanzia maggiormente la federazione in questione. I media trasmettono, approfondiscono, ricamano. E incassano maggiori introiti pubblicitari. Con le medaglie aumenta lo «share», la voglia e la motivazione per rimanere davanti allo schermo. Insomma, è un sistema che si autoalimenta. A condizione che sia ben oliato e che tutti gli ingranaggi funzionino alla perfezione. Come dicevo, non è assolutamente indispensabile che ciò accada. Ma se in virtù dello spirito di emulazione, molti più giovani si avvicinano a una disciplina sana come lo sci di fondo (o ad altre), e se, oltre alla visione delle gare, ciò aiuta la popolazione a staccarsi dagli schermi e dalla realtà virtuale, per tuffarsi in quella reale di un bosco o di un pendio, mi sentirei di dire: missione compiuta. Lo sport non sarebbe solo l’oppio dei popoli.
di Giancarlo Dionisio
di Oliver Scharpf
Settimana Migros
– 31. 3. 2025
3.50 invece di 5.90
Entrecôte di manzo Black Angus M-Classic Uruguay, 2 pezzi, per 100 g, in self-service
Carote Svizzera, sacchetto da 1 kg 1.–
invece di 15.–
Arance bionde Spagna, rete da 1 kg 1.–13.25 invece di 18.95 Miscela pasquale Frey assortita, 1 kg
Filetti di salmone con pelle M-Classic, ASC d'allevamento, Norvegia, 4 pezzi, 500 g, in self-service, (100 g = 1.99)
1.–
Frutta e verdura
La primavera ci mette lo zampino
11.95
4.95
invece di 6.30
Uova da allevamento al suolo d'importazione in conf. speciale, 18 x 53 g+ 21%
Asparagi verdi Spagna/Italia, mazzo da 1 kg
IDEALE CON
6.95
invece di 8.80
Prosciutto crudo dei Grigioni Spécialité Suisse, IP-SUISSE affettato finemente, 160 g, in self-service, (100 g = 4.34) 21%
Batavia Ticino, al pezzo 23%
1.50
invece di 1.95
Lattuga cappuccio, spinaci, rucola e foglie di barbabietola
Hit
3.95
Insalata di primavera Migros Bio 200 g, (100 g = 1.98)
Migros Ticino
2.60
invece di 3.35
Spagna/Italia, vaschetta da 500 g, (100 g = 0.52) 22%
Pomodori datterini Migros Bio
3.95
Erbe aromatiche Migros Bio Ø 13 cm, il vaso 20%
invece di 4.95
a partire da 2 pezzi
20%
Tutto l'assortimento di spinaci, surgelati (articoli Alnatura esclusi), per es. spinaci alla panna Farmer's Best, IP-SUISSE, 800 g, 3.04 invece di 3.80, (100 g = 0.38)
Lo sapevi? Le fragole sono originarie del Sudamerica
21%
3.60
invece di 4.60
Fragole Migros Bio
Spagna/Italia, vaschetta da 400 g, (100 g = 0.90)
2.30
Extra mango
Perù/Brasile, al pezzo 22%
invece di 2.95
27%
3.60
invece di 4.95
Finocchio Migros Bio Italia, al kg, (100 g = 0.36)
Migros Ticino
Affumicato, fresco o surgelato?
Di solito leggermente più grasso del salmone selvatico
9.95
Salmone affumicato Migros Bio d'allevamento, Norvegia, 180 g, in self-service, (100 g = 5.53) 30%
invece di 14.30
3.30 invece di 4.42
Gamberi crudi e sgusciati M-Classic, ASC d'allevamento, Vietnam, per 100 g, in self-service 25%
9.95
Orata reale M-Classic, ASC d'allevamento, Turchia, 2 pezzi, 720 g, in self-service, (100 g = 1.38) 32%
invece di 14.75
PREZZO BASSO
2.95
18.95
Filetti di trota affumicati M-Classic, ASC d'allevamento, Danimarca, 125 g, in self-service, (100 g = 2.36)
Biscotti prussiani M-Classic in conf. speciale, 516 g, (100 g = 0.79) 20%
Cornetti al burro precotti M-Classic, IP-SUISSE 5 pezzi, 200 g, (100 g = 1.28) 13% 5.40
3.55
Pane pita IP-SUISSE
400 g, prodotto confezionato, (100 g = 0.89)
5.–
Tranci al limone 5 pezzi, 250 g, prodotto confezionato, (100 g = 2.00)
Tutte le torte non refrigerate per es. torta di Linz Petit Bonheur, 400 g, 3.04 invece di 3.80, prodotto confezionato, (100 g = 0.76) 20%
Formaggio a pasta dura M-Classic dolce e piccante, per es. piccante, per 100 g, 1.11 invece di 1.85, prodotto confezionato 40%
LO SAPEVI?
La Burrella piace per la consistenza e il cuore tenero e cremoso, ed è tutta a base vegetale. Questa prelibatezza va servita fredda, proprio come la burrata, e può essere aggiunta a un'insalata oppure gustata con erbe aromatiche e spezie.
Stagionato 12 mesi 6.50
Formaggio Cave d'Or
Le Gruyère AOP e Emmentaler, per es. Le Gruyère AOP, per 100 g, 2.44 invece di 3.05, prodotto confezionato 20%
Prodotti freschi e pronti
Falafel o Vegetable Triangle, V-Love per es. Falafel, 2 x 180 g, 7.80 invece di 9.80, (100 g = 2.17)
da 4 30% 16.80 invece di 19.80
1.–invece di 1.10 Tutti gli iogurt Nostrani –.10 di riduzione
3.40 invece di 3.90 Flan M-Classic vaniglia, caramello o cioccolato, 6 x 125 g, (100 g = 0.45)
Pizze Anna's Best, refrigerate Prosciutto o Margherita, per es. Prosciutto, 4 x 400 g, 14.95 invece di 21.60, (100 g = 0.93)
Una confezione basta per una famiglia di 4 persone
6.95
Mezzelune Anna's Best ricotta e spinaci o alla carne di manzo, in conf. speciale, 800 g, (100 g = 0.87)
Migros Ticino
Squisitezze da tutto il mondo per la dispensa
9.95
Ora anche con pezzi di fragola liofilizzata
20x
Novità
1.85
A base di riso integrale, mais, miglio e saracenograno
1.20
3.40
i
5.90 invece di 8.85
Pasta direttamente dall'Italia
Tutto l'assortimento di sottaceti e di antipasti, Condy per es. cetrioli, 290 g, 1.95 invece di 2.60, (100 g = 0.67)
di pomodoro Agnesi al basilico o alla napoletana, 3 x 400 g, (100 g = 0.49)
3.90 invece di 5.60
Garofalo
Pasqua in vista
Coniglietto Fannie
Frizzanti, fruttate o
Prodotti di bellezza per tutte le età
Prodotti per la doccia Nivea o Nivea Men per es. Creme Soft, 3 x 250 ml, 7.– invece di 10.50, (100 ml = 0.93) conf. da 3 33%
Deodoranti Nivea e Nivea Men per es. Fresh Pure Spray, 6.30 invece di 8.40, (100 ml = 2.10) conf. da 2 25%
Non brucia negli occhi
Tutto l'assortimento Good Mood (confezioni multiple e da viaggio escluse), per
4.70 invece di 7.10
Fazzoletti Classic Linsoft, FSC® 56 x 10 pezzi 33%
Salviettine cosmetiche Linsoft, FSC® 4 x 150 pezzi conf. da 4 Hit
Tutto l'assortimento per la cura del bebè Johnson's per es. shampoo per bebè, 300 ml, 2.45 invece di 3.50, (100 ml = 0.82)
Salviettine cosmetiche e fazzoletti, Kleenex, FSC® in confezioni multiple o speciali, per es. balsam, 48 x 9 pezzi, 8.25 invece di 12.40 33%
Tempo, FSC®
Tutto l'assortimento Tena (confezioni multiple escluse), per es. Discreet Ultra Mini, 20 pezzi, 4.64 invece di 5.80
Lame di ricambio Gillette in confezioni speciali, per es. Fusion 5, 14 pezzi, 41.90 invece di 52.41, (1 pz. = 2.99) 20%
Rasoi usa e getta Gilette
20x CUMULUS
Novità
Prodotti per il viso e prodotti per la barba, Lavera Men Sensitiv crema idratante, balsamo dopobarba e schiuma da barba, per es. crema idratante, 50 ml, 10.95, (100 ml = 21.90)
Gel o schiuma da barba, Gillette per es. gel, 2 x 200 ml, 5.95 invece di 7.50, (100 ml = 1.49) conf. da 2 20%
20x CUMULUS
Novità
Shampoo o balsamo, Kérastase Specifique Divalent, Resistance Extentioniste o Curl Manifesto, per es. shampoo Specifique Divalent, 250 ml, 28.95, (100 ml = 11.58)
Deodorante roll-on e gel doccia 3 in 1, Lavera Men Sensitive per es. deodorante roll-on, 50 ml, 7.95, (10 ml = 1.59) 20x
Pulizia, freschezza e praticità
Tutti i detersivi Total (confezioni multiple e speciali escluse), per es. 1 for all in conf. di ricarica, 2 litri, 7.98 invece di 15.95, (1 l = 3.99)
Tutto l'assortimento Lenor per es. ammorbidente freschezza d'aprile, 2 x 1,7 litri, 4.88 invece di 7.50, (1 l = 4.59)
Manella pompelmo ed eucalipto 500 ml, (100 ml = 0.64)
Calgon in confezioni multiple o speciali, per es. Power Gel, 2 x 750 ml, 15.90 invece di 19.90, (100 ml = 1.06)
a partire da 2 pezzi
conf. da 2
Prezzi imbattibili del weekend
Prezzi imbattibili del weekend
40%
Tutto l'assortimento di abbigliamento per adulti incl. biancheria, calzetteria, scarpe, borse, accessori e cinture (articoli da viaggio e prodotti hit esclusi), offerta valida dal 27.3 al 30.3.2025
conf. da 3
32%
7.95
invece di 11.85
Bratwurst dell'Olma di San Gallo IGP
Svizzera, 3 x 2 pezzi, 3 x 320 g, (100 g = 0.83), offerta valida dal 27.3 al 30.3.2025
50%
9.70
invece di 19.40
Chicken Crispy Don Pollo prodotto surgelato, in conf. speciale, 1,4 kg, (100 g = 0.69), offerta valida dal 27.3 al 30.3.2025