Azione 11 del 11 marzo 2024

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SOCIETÀ

La proteina p140Cap, di recente scoperta, potrebbe portare a nuove terapie contro il cancro al seno

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TEMPO LIBERO

Fotografia: Adriano Heitmann e la scelta prima di tutto della dimensione comunicativa

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ATTUALITÀ

Non solo Yulia Navalnaya

All’ascolto delle voci russe contro il regime di Vladimir Putin

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L’anomalo duello Trump vs Biden

edizione

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MONDO MIGROS

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CULTURA

Stefan Zweifel, direttore artistico degli Eventi letterari, racconta la nuova edizione al via il 21 marzo

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Federico Rampini

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Come frenare i politici maneggioni

Impunità è una parola dal suono pulito. La pronunci («im-pu-ni-tà») e scorre via veloce. Sarà per questo che finiamo con l’accettarla come una realtà naturale e automatica, un dato di fatto che c’è e basta, come l’aria un po’ tossica che respiriamo rassegnati, convinti di non poter far nulla per evitarla. Sbagliato.

Non mi riferisco agli impuniti delle Repubbliche delle banane e dei pregiudicati al potere, come in Pakistan (ne parlava Francesca Marino in un articolo apparso su «Azione» la settimana scorsa), o in Somalia, in Venezuela e in Siria, i tre Paesi in fondo alla classifica degli Stati meno corrotti del mondo di Transparency International 2023 (il più virtuoso è la Danimarca; la Svizzera si piazza sesta). Né penso alle dittature come la Russia di Putin, la Corea del Nord di Kim Jong-Il o ai regimi opachi come l’Arabia Saudita di Mohammad bin Salman. Da sempre l’«uomo forte al potere» è un impunito per definizione e

chi gli rinfaccia le sue colpe fa la fine di Navalny (vedi l’articolo di Barbara Gallino a pag. 23). Con questi, eroismo a parte, c’è poco da fare. Parlo di impunità nei Paesi democratici dove tra i tanti scandali tematizzati nel dibattito pubblico, coi politici a indice perennemente teso contro il nemico esterno di turno (l’immigrato o il fascista, le imprese o lo Stato, gli anarchici o la polizia…), pochissimi si occupano del potere corrotto che preserva sé stesso invece di farsi da parte.

Già mi irritano, nel privato, i capitani d’industria che prima fanno affondare le proprie aziende e poi, dopo aver mandato sul lastrico moltitudini di poveracci, se ne vanno nella bambagia dei bonus a molti zeri, licenziati sì, ma a peso d’oro, a siderale distanza dal mondo reale di chi paga pegno per ogni minimo sgarro. Ma più ancora mi indignano i politici che quando sbagliano, invece di togliere il disturbo e sparire,

s’atteggiano a vittime della propaganda e trasformano magicamente il proprio torto in strapotenza elettorale. Più processi gli fanno, più consensi raccolgono. Prendiamo Donald Trump. Secondo la Corte suprema Usa quest’uomo resta eleggibile (e quindi può puntare alla Casa Bianca, vedi l’articolo di Federico Rampini a pag. 25) malgrado l’appoggio ai forsennati che hanno assediato Capitol Hill il 6 gennaio 2021, una delle pagine più desolanti della storia della democrazia. Intendiamoci, le sentenze vanno rispettate anche quando c’è il fondato sospetto che l’accusato se la cavi perché – a differenza della stragrande maggioranza degli altri umani – può pagare i legali più cinici e capaci d’America o può contare su una Corte suprema amica. E uscire immacolato dalle accuse di frode, golpe elettorale, molestie sessuali e sottrazione di documenti top secret. Bello che in uno stato di diritto valga la

presunzione di innocenza. Magnifico che le leggi siano garantiste e non forcaiole, evita tragici errori giudiziari. Ma la politica, nel senso alto di governo della collettività (la Polis greca) e di ricerca appassionata del bene comune, dovrebbe possedere anche gli anticorpi della decenza e della dignità. Non pretendiamo competizioni elettorali tra anime immacolate, ma che siano quanto meno inaccessibili agli squali e agli spregiudicati. Non so voi, ma io un politico sotto procedimento penale, rappresentasse anche la quintessenza del mio pensiero, non lo voterei per principio.

Se non interviene l’autocoscienza a frenare i politici maneggioni, deve farlo il cittadino col potere del proprio voto alle urne. Come elettori, qui come in America, non dobbiamo limitarci a votare per chi rappresenta meglio i nostri interessi, ma per chi lo fa al di sopra di ogni ragionevole sospetto.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 11 marzo 2024 Cooperativa Migros Ticino
◆ ● G.A.A. 6592 San t’Antonino
Keystone
Carlo Silini

Si torna a correre in Valle di Blenio

Appuntamenti sportivi ◆ Si rinnova anche quest’anno l’amato evento podistico del Giro Media Blenio

Lunedì 1° aprile 2024 Dongio accoglierà nuovamente il Giro Media Blenio, un evento pasquale imperdibile per gli appassionati di podismo. Media Blenio, oltre a essere un evento sportivo, è anche un’opportunità per ammirare le imperdibili bellezze della valle

Quella alle porte sarà la 40esima edizione del Giro e il Comitato organizzatore e i volontari sono pronti a rendere l’evento indimenticabile sia per i partecipanti alle competizioni sia per il pubblico presente a Dongio. L’anno scorso, dopo una pausa forzata dovuta

Concorso

Azione» mette in palio 5 iscrizioni gratuite (5 o 10 km a scelta) per la 40esima edizione del Giro Media Blenio (1. aprile 2024). Per partecipare al concorso inviare una mail a giochi@azione.ch (oggetto: «Media Blenio») indicando i vostri dati (nome, cognome, data di nascita, e-mail, cellulare, gara scelta, indiriz-

alla pandemia, è stata una festa veder ripartire questa manifestazione.

Quest’anno il Comitato organizzatore reintroduce il Walking, ampliando così le opportunità di partecipazione in particolare per le famiglie e la competizione del Grand Prix, per i professionisti.

Il cuore dell’evento rimane sempre il Giro, con la sua distanza classica da 10 km, alla quale da alcuni anni si è aggiunta la gara da 5 km. Un appuntamento, quello della 10 km, che si sviluppa nella splendida cornice della Media Valle di Blenio, tra i paesi di Dongio, Acquarossa, Ludiano e Motto. Un percorso che rappresenta un buon indicatore della propria condizione all’inizio della bella stagione.

Nell’arco di questi quarant’anni la corsa ha saputo coinvolgere diverse generazioni, diventando un vero e proprio rito familiare, con genitori e figli che corrono insieme, condividendo passione e divertimento lungo il percorso.

In occasione della 40esima edizione del Giro, il Comitato organizzatore ha deciso di offrire ai partecipanti quale «Premio ricordo» un capiente zaino per il tempo libero.

Il pomeriggio sarà un’occasione per le famiglie di divertirsi insieme con le consuete batterie di corsa del Mini Giro. La scorsa edizione è stato bello rivedere la strada del Passo del Lucomagno percorsa da tanti piccoli

e giovani atleti, accompagnati dal tifo di genitori, nonni e amici.

Inoltre, il Comitato ha deciso di riproporre il Grand Prix, la gara professionistica che conclude la giornata dedicata al Giro con prestazioni sempre importanti e spettacolari e che in passato ha visto grandi protagonisti dell’atletica internazionale come Paul Tergat, Haile Gebrselassie e Muktar Edris.

Ma il Giro Media Blenio non è solo una corsa: è un’opportunità unica per

immergersi nella bellezza della Valle di Blenio, con i suoi panorami e la sua atmosfera. Indipendentemente dall’età o dalla condizione fisica, c’è qualcosa per tutti: dalle sfide più impegnative per gli atleti più esperti, ai percorsi più accessibili per chi vuole semplicemente godersi una passeggiata nella natura.

Informazioni e iscrizioni www.mediablenio.com

Affari sociali estende il raggio d’azione

Info Migros ◆ Il Percento culturale Migros amplia la promozione Affari sociali a livello locale, strutturale e tematico

La Direzione Società e cultura della Federazione delle cooperative Migros (FCM) ha deciso di ampliare la promozione Affari sociali a partire dal 1° marzo 2024. Le tre novità sono:

1. Promozione locale

L’impegno sociale opera spesso a livello locale. Le persone si attivano dove vivono e lavorano. Per questo ora i contributi di sostegno nel settore Affari sociali promuovono anche progetti di coesione sociale sul territorio. Si tratta di una logica integrazione della promozione regionale delle dieci cooperative Migros. I contributi di sostegno possono essere richiesti in qualsiasi momento dell’anno e la loro entità varia da 2’000 a 10’000 franchi.

2. Ulteriore sviluppo di organizzazioni di pubblica utilità

L’esperienza ha dimostrato che le organizzazioni di pubblica utilità spesso non dispongono delle risorse finanziarie necessarie al loro sviluppo strategico, poiché utilizzano tali risorse principalmente per la gestione e lo sviluppo delle offerte. Pertanto, nell’am-

bito della promozione finanziaria Affari sociali ci dedichiamo a istituzioni di pubblica utilità già affermate, sostenendole nel loro sviluppo organizzativo. L’entità dei contributi varia dai 5’000 ai 30’000 franchi.

3. Bandi di partecipazione

Nell’ambito della promozione Affari sociali pubblicheremo regolarmente bandi di partecipazione su temi sociali attuali. Il primo bando sul tema «Diversità culturale» si svolgerà da aprile a dicembre 2024 nell’ambito

di «ici. insieme qui.». Attraverso una serie di «mini-sovvenzioni», dai 500 a un max di 2’500 franchi, verranno promossi progetti locali che riuniscono persone con background culturali diversi. A fine marzo seguiranno informazioni più dettagliate.

Ne abbiamo parlato con Jessica Schnelle (46), responsabile della Socialità nella Direzione Società e Cultura della Federazione delle cooperative Migros. Insieme al suo team la psicologa motivazionale si impegna nelle attività di sostegno messe in campo per la coesione sociale.

Perché si è deciso di estendere la promozione in ambito sociale?

Attraverso la nostra offerta di sostegno vogliamo rafforzare la coesione sociale in Svizzera, per questo analizziamo la nostra strategia a intervalli regolari, cercando di individuare i bisogni della società e di chi si mette a disposizione.

Desiderate così raggiungere un pubblico più vasto?

Siamo chiamati tutti a rispondere alle grandi sfide della società, come ad esempio l’immigrazione o la solitudine. L’impegno sociale è dunque importante tanto quanto la possibilità di confrontarsi con altre persone. Vogliamo rafforzare l’impegno e le possibili-

Fondue chinoise al Bellavista

Concorso ◆ Vincete i due ticket in omaggio per la serata del 23 marzo 2024, protagonista sarà la chinoise

Nel corso di tutto l’inverno il Buffet Bellavista, situato a 1200 metri lungo la linea che porta in vetta al Monte Generoso, offrirà una serie di serate all’insegna della buona cucina regionale.

Il ristorante, da poco ristrutturato, grazie a un’atmosfera intima e curata, incanterà gli ospiti. «Azione» estrarrà a sorte settimanalmente due ticket per scoprire la bellezza del Monte Generoso.

Il prossimo 23 marzo ritorna l’apprezzato appuntamento con la chinoise. Il menù comprende insalata mista, fondue chinoise, salse e contorni, sorbetto al limone.

tà di scambio, convinti di potere raggiungere un pubblico ancora più vasto. Come stanno le nostre associazioni?

La disponibilità a partecipare alle associazioni in modo vincolante è in calo, come dimostrato dallo studio Un nuovo tipo di volontariato del GDI (2018) su mandato del Percento culturale Migros. La gente preferisce offrire il proprio contributo a breve termine e senza vincoli.

A suo avviso quali sono i motivi per un rapporto meno vincolante nell’impegno pubblico?

L’individualismo ha portato a un accresciuto desiderio di autodeterminazione. Vogliamo essere noi a decidere quando, come e per cosa investire il nostro tempo e chi si impegna lo fa con convinzione. Esempi interessanti dalla Svizzera italiana in cui l’individualismo si intreccia con la comunità sono le associazioni AvaEva, Rete caffè narrativi o Rete Caring Communities, dove le persone si impegnano per incentivare scambio e dialogo che, come sappiamo, rafforzano il senso di partecipazione.

Informazioni engagement.migros.ch/it/ sostegno/progetti-sociali

Dove e quando

Serata chinoise sabato 23 marzo 2024, Buffet Bellavista.

Orari:

partenza da Capolago ore 19.00, discesa da Bellavista ore 21.30.

Prezzi:

Trenino e menù a 3 portate, bevande escluse: adulti CHF 60.–; ragazzi 6-15 anni CHF 40.–; bambini 0-5 anni treno gratuito. Info e prenotazioni www.montegeneroso.ch

Concorso

«Azione» mette in palio due ticket per il 23 marzo 2024 che includono ciascuno un biglietto andata e ritorno a bordo del trenino a cremagliera e la cena di tre portate. Per partecipare al concorso mandare una e-mail a giochi@azione.ch (oggetto «chinoise»), indicando i propri dati, entro domenica sera 17 marzo 2024 (estrazione 18 marzo). Buona fortuna!

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 11 marzo 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 2 azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31 lu–ve 9.00 –11.00 / 14.00 –16.00 registro.soci@migrosticino.ch Redazione Carlo Silini (redattore responsabile) Simona Sala Barbara Manzoni Manuela Mazzi Romina Borla Natascha Fioretti Ivan Leoni Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Telefono tel + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89 Indirizzo postale Redazione Azione CP 1055 CH-6901 Lugano Posta elettronica info@azione.ch societa@azione.ch tempolibero@azione.ch attualita@azione.ch cultura@azione.ch Pubblicità Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino tel +41 91 850 82 91 fax +41 91 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino tel +41 91 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria – 6933 Muzzano Tiratura 97’925 copie ●
Una gara che attira sempre molti appassionati di podismo. Jessica Schnelle, responsabile della Socialità nella Direzione Società e Cultura della FCM. zo postale) entro domenica 17 marzo 2024. Buona fortuna!

Fai la ninna, fai la nanna

Il sonno è fondamentale per i bambini, un nuovo manuale viene in aiuto di chi fatica a dormire

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Anziani, nuovo centro diurno Lo spazio di Pro Senectute Ticino e Moesano accoglie persone affette da degrado cognitivo

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Un simposio sulla longevità

Il 25 marzo a Lugano si riflette sul tema dell’invecchiamento con ospiti internazionali

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Tumore al seno: passi avanti

Per rimettersi in forma In fitoterapia, tra erbe e fiori ricostituenti ed energizzanti si trovano Karkadé e Mate

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Medicina ◆ La ricerca ha la chiave per accedere a nuove cure e persino per elaborare terapie preventive

È stata individuata la chiave che potrebbe aprirci a nuove prospettive di cura per il tumore al seno e addirittura prevenirlo. Recentemente pubblicato sulla rivista «Nature», lo studio è frutto di ricerche condotte e coordinate dall’Università americana del North Carolina a Chapel Hill, e mette in evidenza la scoperta di una proteina che provoca la morte delle cellule malate ancor prima che queste completino il processo di trasformazione in cellule tumorali.

La proteina p140Cap agirebbe attraverso un processo infiammatorio atto a mobilitare in massa anche le difese immunitarie

Si tratta della scoperta di una proteina chiamata p140Cap che, secondo gli scienziati, «agisce attraverso un processo infiammatorio che mobilita in massa anche le difese immunitarie, rendendole più facilmente in grado di riconoscere, prima, e poi eliminare le cellule danneggiate». Tale scoperta potrebbe portare allo sviluppo di un’ulteriore fase della ricerca che dovrebbe generare trattamenti il cui obiettivo sarebbe proprio la proteina p140Cap, non sempre presente: «Se questa proteina interagisce con un “sensore” del DNA (chiamato cGAS), allora sarà in grado di eliminare le cellule danneggiate».

Per dovere di cronaca, e a suffragio dell’importanza di tale scoperta, bisogna evidenziare che, parimenti alla pubblicazione su «Nature» da parte degli scienziati americani, allo stesso risultato sono giunti gli scienziati del Laboratorio di ricerca «Piattaforma di segnalazione nei tumori» del Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute dell’Università di Torino, insieme al professor Salvatore Pece, ordinario di Patologia generale all’Università Statale di Milano. Quest’altro studio ha visto la luce sulla rivista «Nature Communication».

Sono due notizie molto importanti che ci permettono di addentrarci in un ambito, quello della ricerca, tanto affascinante quanto di difficile interpretazione. Un campo ostico, ma non impossibile da comprendere, ragione per la quale ci siamo affidati al consulente scientifico dottor Francesco Meani, senologo alla Clinica Luganese di Moncucco, per farci accompagnare attraverso i meandri della scienza che evolve sempre più verso la conoscenza di strumenti di lotta ai tumori e verso una sempre migliore individualizzazione e presa a carico di queste patologie. «Lo studio, ci spiega, evidenzia che all’origine dell’intero processo c’è ve-

rosimilmente p140Cap, una proteina in grado di inibire la crescita tumorale, orchestrando un’efficiente risposta antitumorale nell’omonimo micro ambiente (TME) dei tumori al seno».

I dati indicano che la sua assenza caratterizza almeno il 40-50% di tutti i casi di tumori mammari umani, determinando una cascata di eventi che portano all’attivazione incontrollata del gene responsabile della sintesi di una potente proteina (beta-Catenina) coinvolta nella crescita tumorale. Il dottor Meani così sintetizza il meccanismo: «La funzione di soppressore tumorale della proteina p140Cap è stata storicamente attribuita alla sua capacità unica di comportarsi come una “proteina adattatrice” che interferisce con l’attività di diversi circuiti oncogenici, tra cui le vie delle tirosi-chinasi recettoriali e non recettoriali, riducendo così la modulazione della risposta antitumorale».

Ciò significa che p140Cap si comporta come una sorta di «interruttore» molecolare che esercita una duplice funzione antitumorale tramite l’inibizione della beta-Catenina (ricordiamo: coinvolta nella crescita tu-

morale) e la conseguente riduzione delle cellule staminali tumorali: «Inibisce l’espansione della massa tumorale e sostiene un’efficiente risposta immunitaria anti-tumorale nel microambiente circostante».

Secondo il nostro interlocutore e consulente scientifico, non sorprende «che una bassa presenza di p140Cap predica una prognosi più grave». Ed è confermato dagli studi del professor Salvatore Pece e della sua équipe: «Abbiamo dimostrato una chiara correlazione tra bassi livelli di proteina p140Cap nei tumori mammari più aggressivi e la ridotta presenza di cellule del sistema immunitario, in particolare linfociti, nelle aree circostanti il tumore».

Pece sostiene che questi dati suggeriscono quindi come p140Cap potrebbe essere usata come biomarcatore nella pratica clinica, in quanto «sarebbe in grado di identificare i tumori mammari con alterazioni della risposta immunitaria antitumorale». Mentre il dottor Meani aggiunge: «Oltre alla sua capacità cellulare autonoma di modulare negativamente le vie di segnalazione oncogenetiche, la proteina p140Cap influenza

anche gli eventi esterni alla cellula, sopprimendo una risposta immunitaria permissiva al tumore, a favore di un’efficiente risposta antitumorale nel microambiente del tumore primario».

In futuro le pazienti potrebbero beneficiare di nuove terapie contro le cellule staminali tumorali e ripristinare una efficiente risposta immunitaria

Meani sottolinea altresì l’estrema rilevanza di questi risultati: «Essi portano a una più approfondita comprensione della funzione di p140Cap come soppressore tumorale, considerando l’emergente legame tra la risposta immunitaria antitumorale del microambiente tumorale e il controllo negativo della progressione tumorale e delle metastasi». Al netto della scoperta, il dottor Pece conclude: «Oggi si sa che i tumori più aggressivi e con decorso clinico più sfavorevole sono quelli arricchiti in cellule staminali tumorali, oppure quelli in grado di sfuggire

alla risposta immunitaria naturale, rendendo inefficienti i meccanismi di barriera antitumorale esercitati dalle cellule del sistema immunitario. La scoperta dell’esistenza di un nuovo circuito molecolare “p140Cap / beta-Catenina” apre quindi una prospettiva concreta per la presa a carico terapeutica delle pazienti con tumore al seno che hanno perduto p140Cap: una perdita che sta alla base dell’aggressività della biologia dei tumori mammari».

In sintesi, riassume il dottor Meani: «L’insieme dei risultati preclinici e clinici amplia l’attuale comprensione della funzione di p140Cap e fornisce una dimostrazione formale del suo ruolo nell’inibire la beta-Catenina, sfruttando questa funzione per la regolazione antitumorale della risposta immunitaria del TME. Grazie a questi risultati, in futuro le pazienti potrebbero beneficiare di nuove terapie per colpire le cellule staminali tumorali e ripristinare una efficiente risposta immunitaria contro il cancro». Terapie di questo tipo oggi rappresentano l’obiettivo delle principali linee di ricerca per lo sviluppo di nuovi farmaci in oncologia.

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 marzo 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 3
SOCIETÀ
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Dolci tentazioni dalla nostra regione

Novità ◆ Migros Ticino introduce la colomba artigianale al cioccolato e quella senza lattosio della nota pasticceria Buletti di Airolo Vanno ad aggiungersi alla già apprezzata colomba classica, presente da diversi anni nell’assortimento

«Tutti i nostri prodotti sono realizzati con ingredienti genuini, al 100 % naturali e senza l’utilizzo di conservanti o emulsionanti», ci spiega Bruno Buletti, titolare dell’omonima pasticceria, che abbiamo interpellato tra un’infornata e l’altra durante questo periodo prepasquale particolarmente intenso dal punto di vista lavorativo per il suo laboratorio di pasticceria artigianale.

L’esperto pasticciere della Leventina da ormai diversi anni, durante le due festività più importanti dell’anno, fornisce a Migros Ticino alcune delle sue specialità prodotte con lievito madre fatto in casa e burro di montagna della regione del San Gottardo. E a Pasqua non possono di certo mancare le colombe artigianali.

«Per Migros – spiega Buletti – da ormai più di dieci anni produciamo la colomba classica, nei formati da 500 g e 1 kg. Si caratterizza per l’impasto particolarmente ricco di burro, uova e frutta candita, nella fattispecie di arance tarocco siciliane e cedro calabrese, che rendono il prodotto molto

profumato e aromatico. Oltre a questo, contiene anche vaniglia del Madagascar, mentre la glassa di mandorle e nocciole è a base di frutta secca italiana». In aggiunta alla colomba tradizionale, quest’anno Buletti fornisce a Migros anche due nuovi prodotti: la colomba al cioccolato e la variante senza lattosio. «La prima sarà sicuramente apprezzata dagli amanti del cioccolato. È arricchita esclusivamente con cioccolato di nostra produzione, prodotto a partire da fave di cacao bio provenienti dai migliori Paesi produttori mondiali. Rispetto alla classica colomba, anche la pasta contiene cioccolato puro, delle qualità al latte e fondente. Per renderla ancor più invitante, abbiamo ricoperto anche la superficie con una golosa massa di cioccolato».

Infine, alle persone più sensibili alle intolleranze, Buletti consiglia invece di gustare la sua colomba artigianale priva di lattosio: «A parte l’utilizzo di burro senza lattosio e burro chiarificato di montagna, la lavorazione è identica agli altri prodotti».

Bontà e originalità

Novità

Colomba artigianale al cioccolato

Buletti

500 g Fr. 22.–

La Pasta Venere Riso Scotti conquista gli occhi e il palato degli amanti della pasta e del riso

Alla Migros è arrivata un’assoluta novità firmata Riso Scotti, la Pasta Venere, una vera delizia mai vista prima che ti farà vivere tutta la bontà e l’originalità della perfetta unione tra l’amato riso nero italiano da filiera certificata e il grano esclusivamente italiano.

Oltre al suo gusto unico, Pasta Venere ti regala anche tanto benessere, grazie al suo contenuto di preziose fibre, fosforo e proteine. Venere è il primo riso nero aromatico italiano. Creato nel 1997, rappresenta un incrocio tra una varietà di riso nero asiatico e una varietà italiana della valle del Po. Oggi Venere è coltivato solamente in Piemonte e Sardegna ed è certificato lungo tutta la filiera.

Quello che rende speciale Pasta Venere sono la sua consistenza e il suo aroma unico. Ruvida e porosa, si sposa a meraviglia con qualsiasi condimento della grande tradizione italiana, dai sughi più corposi e saporiti a quelli più leggeri e delicati.

Penne

400 g Fr. 2.60

Spaghetti Pasta

400 g Fr. 2.60

In

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 11 marzo 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 4
Colomba artigianale senza lattosio 500 g Fr. 22.– In vendita nelle maggiori filiali Migros Pasta Venere Riso Scotti Venere
Riso Scotti
vendita nelle maggiori filiali Migros
Flavia Leuenberger

Apertura straordinaria per il compleanno di OBI

Attualità ◆ 25esimo anniversario di OBI Svizzera: sabato 16 e domenica 17 marzo al Centro OBI S.Antonino ti aspettano sorprese e attività speciali per grandi e piccini… e le offerte iniziano già a partire da oggi!

Un sorso di casa tua

Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando, il 17 marzo 1999, venne inaugurato il primo centro OBI della Svizzera, nel quartiere Dreispitz di Basilea, con la Migros come partner in franchising. Con una superficie di ca. 8000 metri quadri, all’epoca questo punto vendita poteva vantarsi di essere il più grande mercato del fai da te della Svizzera, grazie a un assortimento di oltre 65’000 articoli nei settori più svariati, dalle piante e dai fiori agli accessori per il giardinaggio, dall’edilizia agli utensili per il bricolage, dalle decorazioni per gli ambienti interni fino ai sanitari e all’impiantistica elettrica. Negli anni successivi OBI, tra il 2001 e il 2018, si espande ulteriormente in tutta la Svizzera e oggi può contare su dieci punti vendita, oltre al tuttora attivo mercato di Dreispitz, anche a Sciaffusa (dove è presente anche la sede centrale), San Gallo, Oftringen, Winterthur, Volketswil, Schönbühl, Thun, Renens e S. Antonino. In Ticino, OBI inaugura in pompa magna quello che era il centro bricolage e

giardinaggio più grande del Cantone il 27 aprile del 2005, a fianco del sedime che ospita il Centro S. Antonino. Nel 2021, sul sito del negozio online obi.ch, si possono ordinare oltre 60’000 articoli.

Grande festa tra offerte e attività per la clientela

Per sottolineare degnamente il quarto di secolo di OBI Svizzera, sono previste diverse attività rivolte alla clientela già a partire da sabato 16 marzo, per culminare con l’apertura straordinaria del negozio domenica 17 marzo, dalle ore 10 alle 18. Molte offerte iniziano già da oggi. Tra le iniziative previste per l’anniversario, potrai per esempio riscuotere un buono da Fr. 25.– a partire da un acquisto di Fr. 150.–. Solo la domenica, è invece prevista una divertentissima asta, grazie alla quale potresti portarti a casa bici elettriche, grill e altri articoli a prezzi stracciati. Passa a trovarci!

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I bambini e la nanna, un aiuto per chi fatica

Famiglia ◆ Il sonno è fondamentale per i più piccoli, favorisce la crescita e la serenità, come spiegano le psicologhe Giordana Ercolani e Lorenza Isola in un nuovo manuale

Stefania Prandi

Cercando sui motori di ricerca online si trovano diversi aforismi sul sonno dei bambini. Alcuni sono estrapolati dai classici della letteratura, altri arrivano dritti dai social network. Il mio preferito è questo: «Un bimbo che dorme è una poesia senza parole». Non è possibile risalire all’autrice (o all’autore) di questa massima che sicuramente risuona nei cuori e nelle menti di tutti i genitori. Un bambino addormentato, infatti, rappresenta la grande tregua, alla fine di una giornata (iniziata probabilmente troppo presto), lo spartiacque tra il caos e la quiete.

Nel mondo industrializzato il 25 per cento dei bambini sotto i cinque anni soffre di disturbi del sonno

Non sempre, però, il sonno arriva. Ci sono bimbi che cercano di restare svegli il più possibile o che si ridestano all’improvviso e con regolarità, trascinando madri e padri in uno stato di prostrazione e occhiaie perenni.

Sono numerosi i manuali pubblicati nel corso degli anni che hanno promesso miracoli o semplicemente espresso solidarietà a chi è costretto alle notti in bianco. Il più divertente è stato senza dubbio il libro della buonanotte per adulti con i versi di Adam Mansbach e le illustrazioni di Ricar-

do Cortés dal titolo irripetibile (Go the F**k to Sleep). Diventato un caso nel mondo anglosassone una decina di anni fa – definito dal «New York Times» «una bibbia per genitori stanchi» e dal «Washington Post» «Uno zeitgeist genitoriale» – catturava perfettamente i patimenti, con una buona dose di ironia e cinismo, nel cercare di mettere a dormire il proprio «angioletto» insonne.

Nelle ultime settimane è stato dato alle stampe un piccolo manuale curato dalle psicologhe Giordana Ercolani e Lorenza Isola. Pubblicato da FrancoAngeli, si intitola Fai la ninna, fai la nanna. Esercizi per aiutare bambini e genitori a dormire bene e crescere in armonia. Il testo ci ricorda che nel mondo industrializzato il 25 per cento dei bambini sotto i cinque anni soffre di disturbi del sonno, mentre dopo i sei anni e fino all’adolescenza la percentuale si aggira intorno al 10-12 per cento. Come spiega Lorenza Isola ad «Azione», la letteratura scientifica ha delineato con precisione le caratteristiche principali di questi disturbi. «Tra i più comuni, in età evolutiva, ci sono l’insonnia di cui sembra soffrire il 20-30 per cento dei minori, seguita dalle parasonnie per il 25 per cento». In quest’ultima definizione rientrano diverse situazioni: il pavor nocturnus – il risveglio dal sonno profondo, in

preda a uno stato di agitazione intensa; il sonnambulismo; l’enuresi notturna, cioè fare la pipì nel letto. La buona notizia, comunque, ci dicono le psicologhe, è che si può imparare a dormire. Giordana Ercolani spiega: «Anche se il sonno è un processo così naturale ed essenziale per il benessere degli esseri umani, non è scontato che venga automatico. Per questo il ruolo dei genitori o di chi si prende cura del bambino è estremamente importante». È utile, perciò, informarsi e impostare delle corrette abitudini. Ad esempio, occorre fa-

re attenzione al livello di stanchezza del bambino, mantenere delle routine prevedibili e coerenti, prepararsi alla nanna fin da svegli facendo attenzione a cosa si mangia e si beve. «A ciò si uniscono anche delle attenzioni di tipo emotivo – aggiunge Ercolani – come mostrarsi accoglienti ed empatici, ma anche fermi sulle regole stabilite per il riposo. Così il bambino impara a gestire la frustrazione e a regolare le emozioni, soprattutto paura, ansia, rabbia e tristezza». Il sonno è un elemento centrale nella costruzione e nel mantenimento

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di una buona qualità della vita. Racconta Lorenza Isola: «Nel corso della crescita di un bambino si osserva che durante il sonno hanno luogo processi fondamentali e necessari. Avviene, ad esempio, il consolidamento della memoria, la rielaborazione di quanto vissuto da svegli, la secrezione di ormoni che favoriscono la crescita, il rafforzamento dei sistemi di apprendimento così come delle competenze di risolvere problemi e molto altro. La ricerca ci informa anche che una quantità di sonno insufficiente aumenta, oltre ovviamente i livelli di stanchezza, anche il rischio di incidenti, infortuni, ipertensione, obesità, diabete e depressione e negli adolescenti è associato anche ad un aumentato pericolo di autolesionismo e a situazioni più gravi».

Secondo le psicologhe, quindi, pur considerando che ogni caso è a sé e che nelle fasi di crescita le situazioni cambiano, se ci si trova di fronte a un bambino che fatica spesso ad addormentarsi oppure a mantenere il sonno (e questa situazione interferisce con la serenità del piccolo), è utile chiedere aiuto al proprio pediatra e ad altri professionisti come il neuropsichiatra infantile e lo psicologo-psicoterapeuta. Ci sono diversi tipi di interventi possibili, per raggiungere tutti quanti serate e nottate di pace e serenità.

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Un ambiente che stimola l’autonomia

Anziani ◆ È stato da poco inaugurato il nuovo centro diurno terapeutico di Pro Senectute Ticino e Moesano che accoglie giornalmente 18 persone affette da degrado cognitivo

Un ambiente familiare, facilmente riconoscibile, sicuro. Sono i principi che definiscono l’ambiente protesico, sul quale si basa l’accoglienza nelle strutture riservate alle persone con un degrado cognitivo. Ne è un esempio all’avanguardia il nuovo centro diurno terapeutico luganese di Pro Senectute Ticino e Moesano. Da un paio di mesi utenti e operatori – così come la direzione dell’organizzazione – si sono infatti trasferiti dalla sede di via Vanoni in via Chiosso 17 in zona Resega (Comune di Porza). Il centro diurno terapeutico dispone ora di spazi più ampi, concepiti per far fronte alle problematiche delle persone che lo frequentano e dove possono essere sviluppate attività di stimolazione cognitiva consolidate, affiancate da proposte innovative, per le quali la struttura luganese fungerà da precursore per gli altri quattro centri diurni terapeutici Pro Senectute presenti in Ticino. Arriviamo al centro di via Chiosso di primo mattino, proprio quando stanno sopraggiungendo gli ospiti della giornata. Accompagnati dai familiari o dal servizio di trasporto dell’ente, entrano con spirito allegro, dimostrando di sentirsi subito a proprio agio. Il centro è diretto da Luca Borgonovo con la supervisione di Marinella Ortelli, direttrice sanitaria. Sono loro a mostrarci le caratteristiche della nuova sede, che beneficia di una superficie interna di 550 metri quadrati ai quali si aggiunge il giardino Alzheimer, dal nome della patologia più conosciuta nell’ambito del degrado cognitivo.

Con il cambiamento di sede entrambi hanno constatato come l’ambiente protesico abbia determinato un miglioramento del comportamento di numerosi utenti. «Grazie alla mirata suddivisone degli spazi, alle aperture interne che favoriscono maggiore visibilità e al percorso suggerito attraverso queste scelte, le persone godono di maggiore autonomia», spiegano i due rappresentanti di Pro Senectute, aggiungendo che «l’autodeterminazione è proprio uno degli obiettivi della presa a carico giornaliera». Così un signore appena arrivato afferma di voler andare a prendere il giornale, mentre una signora si avvia verso la cucina terapeutica per riporre alcune tazze.

Ogni giorno 18 persone trascorrono insieme la giornata, accompagnate da nove operatori e da alcuni volontari. Considerando le rotazioni, il centro accoglie sull’arco della settimana 37 persone, mentre a livello cantonale si contano 65 posti giornalieri e circa 150 iscritti. Per quanto concerne l’équipe, la direttrice sanitaria precisa: «In quattro dei cinque centri è presente anche un apprendista; inoltre a Lugano è stata inserita una persona seguita dal Settore lavoro sociale comunitario. Collaboriamo quindi con gli altri servizi di Pro Senectute, in particolare con le assistenti sociali per quanto riguarda la valutazione dei futuri utenti del centro diurno terapeutico per il quale esiste una lista d’attesa».

Come una grande casa familiare

Un centro che appare ed è vissuto quotidianamente come una grande casa familiare. La cucina terapeutica permette di preparare semplici spuntini

da destra. (Pro Senectute)

con gli utenti, mentre il pasto principale è assicurato dalla cucina professionale. Sono inoltre stati ricavati una lavanderia terapeutica, un angolo con strumenti musicali e un’altra postazione per il cucito. Soggiorno, sala relax e una camera con due letti (per chi necessita un riposo più profondo dopo il pranzo) sono il fulcro della parte legata al vivere quotidiano. L’infermeria con vista aperta sugli spazi comuni, così come l’ufficio e le sale dedicate alle attività riflettono le esigenze della struttura in quanto tale. Struttura che è stata concepita coinvolgendo l’intero team professionale e persino gli utenti. Questi ultimi sono stati interpellati sulla finitura della cucina per la quale ha prevalso l’effetto legno. Un materiale che in generale corrisponde agli arredi del domicilio delle generazioni più avanzate come è il caso di quelle che frequentano attualmente il centro. Nei vari locali sono pertanto stati inseriti anche alcuni mobili in stile rétro. Richiami al passato mirati, ad esempio attraverso le fotografie, sono sfruttati anche quali momenti di distrazione a volte necessari per permettere ai malati di superare stati di ansia o agitazione.

Le attività proposte, oltre al benessere degli utenti, sono volte a stimolare le loro risorse residue per rallentare la perdita delle capacità fisiche e mentali. «Non è vero che queste persone non possono più apprendere», spiegano al riguardo Marinella Ortelli e Luca Borgonovo citando «un progetto pilota transfrontaliero legato all’impiego di un tavolo multimediale. Utilizzarlo regolarmente per più giorni ha permesso ai partecipanti di acquisire la capacità di usufruirne anche in modo autonomo. Questo esempio è particolarmente significativo, perché chiama in causa la tecnologia, ambito con il quale queste generazioni hanno in genere poca dimestichezza». Tre sono gli spazi appositamente destinati alle attività: la palestra, riconoscibile dall’esterno grazie alla cyclette situata vicino alla porta, una sala per attività manuali con il materiale pure facilmente percepibile e una sala multisensoriale (in fase di allestimento) per l’applicazione del metodo Snoezelen. Un’operatrice appositamen-

te formata sfrutterà fasce luminose e supporti di diversa consistenza per stimolare i cinque sensi. Spiegano i nostri interlocutori: «Questo metodo agisce a livello preventivo, suscitando emozioni positive e un conseguente senso di benessere. Uno stato che permane anche se l’individuo non si ricorda quale azione l’abbia generato».

Un progetto pilota di stimolazione cognitiva

Nella programmazione delle attività sarà inoltre inserita, quale progetto pilota, la CST (Cognitive Stimulation Therapy), ossia la terapia di stimolazione cognitiva, metodo riconosciuto a livello internazionale nell’ambito del trattamento delle malattie di questo tipo. «Si tratta di una terapia che coinvolge un piccolo gruppo di persone con abilità cognitive simili», spiega Luca Borgonovo. «Attraverso stimolazioni strutturate, legate alle attività della vita quotidiana e in sintonia con il vissuto del singolo partecipante, si possono ottenere risultati positivi concernenti il rallentamento della malattia. L’iniziativa è il frutto di un progetto di specializzazione di una nostra collaboratrice». Dopo la sperimentazione nel centro luganese, la terapia potrà essere introdotta, formando in modo adeguato il personale, anche negli altri centri diurni terapeutici di Pro Senecute con sede a Balerna, Bellinzona, Biasca e Muralto. Marinella Ortelli e Luca Borgonovo spiegano come la stimolazione sia in realtà un fattore determinante per molte azioni sull’arco dell’intera giornata. Di fronte all’invito, la prima risposta è quasi sempre negativa, ma poi per emulazione molti gesti ritrovano la naturalezza di un tempo.

Con l’arrivo della primavera sarà inoltre possibile sfruttare a questo scopo pure il giardino, concepito sulla base dei medesimi principi di accessibilità, visibilità e sicurezza. Un pergolato, un percorso con corrimano, panche per la sosta, aiuole con fiori, erbe aromatiche e ortaggi formeranno un contesto dedicato allo svago dove esercitare nel contempo la deambulazione e la manualità.

Notizie in breve

Premio ARGE ALP dedicato all’acqua

Quest’anno la presidenza della Comunità di lavoro delle Regioni alpine ARGE ALP è affidata al Canton Ticino, che ha scelto le sfide connesse alla gestione delle risorse idriche come tema portante del suo anno presidenziale. Per sottolineare l’occasione e contribuire ad accrescere la consapevolezza della popolazione, il Consiglio di Stato ticinese ha deciso di dedicare l’edizione 2024 del Premio ARGE ALP all’acqua, assegnando un riconoscimento alle attività di sensibilizzazione che invitano all’uso sostenibile e responsabile di questa risorsa essenziale.

La collaborazione con i familiari

Un elemento essenziale per permettere agli utenti di continuare a vivere sereni la loro quotidianità è la stretta collaborazione fra professionisti e familiari curanti. Il centro diurno terapeutico da un lato sgrava i secondi dalla fatica e dall’altro trasmette loro nuove competenze legate all’assistenza. Per i responsabili di queste strutture i familiari sono a loro volta una risorsa preziosa, poiché una buona intesa permette di proseguire al domicilio l’attitudine più proficua per tutti. Ad esempio sostituirsi alla persona malata per velocizzare alcune azioni è un comportamento controproducente che crea inquietudine e accelera la perdita della capacità di compiere questa azione. Il centro presta grande attenzione ai bisogni specifici dei familiari, in particolare quello di essere ascoltati. Un progetto è stato avviato, sempre nell’ambito di una formazione avanzata di un’operatrice, per accompagnarli sulla base di una relazione di fiducia che vede professionisti e familiari tendere al medesimo obiettivo: il benessere della persona malata.

Come dimostra il nuovo centro diurno terapeutico di Pro Senectute Ticino e Moesano, la presa a carico delle persone affette da un degrado cognitivo beneficia di continui progressi nelle conoscenze del funzionamento della memoria e di conseguenza nelle sperimentazioni di forme di stimolazione. Questi sviluppi si traducono nell’ambiente di accoglienza dei malati e pure nella vita a casa loro tramite la stretta collaborazione con i familiari curanti, colonna portante della loro permanenza al domicilio. In evidenza, per assicurare questo ambiente sereno dove si continua a valorizzare il vissuto e le capacità del singolo, anche il ruolo delle formazioni specializzate per operatori e operatrici grazie alle quali si possono avviare progetti pilota diversificati.

Informazioni: www.prosenectute.org

L’obiettivo è di mettere in risalto progetti particolarmente promettenti e virtuosi negli ambiti della sensibilizzazione all’uso oculato delle risorse idriche nelle regioni montane. Le proposte che saranno prese in considerazione per l’assegnazione del premio possono consistere in attività didattiche sviluppate dalla società civile (scuole, associazioni, privati, ecc.) ma anche in progetti concreti avviati dal mondo economico (aziende o «start up») e istituzionale (Comuni, Città, Consorzi o Patriziati). Fra i progetti che saranno candidati, i finalisti delle selezioni regionali saranno sottoposti a una giuria internazionale, che sceglierà i migliori tre progetti e li premierà il 25 ottobre 2024, in occasione della Conferenza dei Capi di Governo ARGE ALP che si svolgerà in Ticino. Per informazioni sul bando di concorso e il modulo di partecipazione si può consultare il sito www.argealp.org o www.ti.ch/argealp

Per i figli di genitori con dipendenze

In Svizzera, circa 100’000 bambini vivono con un genitore che ha problemi con l’alcol o con un’altra sostanza che crea dipendenza. Per questo motivo dal 2019, la fondazione Dipendenze Svizzera organizza una settimana d’azione e sensibilizzazione attorno al tema delle figlie e dei figli di genitori con dipendenze. Quest’anno l’azione si svolge da oggi, lunedì 11 marzo, al 17 marzo. In 14 cantoni si terranno più di 30 eventi organizzati da istituzioni locali, tra questi molte sono proposte culturali, dato che mettono in luce come siano in aumento le produzioni – film, spettacoli teatrali, danza, podcast e musica – che affrontano il tema.

Secondo gli organizzatori queste offerte culturali contribuiscono a incoraggiare il pubblico a tenere gli occhi aperti, affinché i bambini coinvolti possano ricevere il sostegno e l’aiuto di cui hanno bisogno. Con lo stesso scopo la fondazione ha pubblicato l’opuscolo Cosa possono fare i familiari e gli amici?, nel quale si spiega il modo migliore per cercare il dialogo con i genitori e i bambini colpiti dal problema e come essere presenti per loro in modo efficace. Inoltre, elenca le autorità da contattare in caso di emergenza.

L’opuscolo, ulteriori informazioni sull’argomento, così come testimonianze dirette di persone che hanno vissuto il problema e il programma completo degli appuntamenti sono disponibili sul sito web della Settimana d’azione www.figli-genitori-con-dipendenze.ch, oppure sul sito www.dipendenzesvizzera.ch

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 11 marzo 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 7 SOCIETÀ
Il team che anima il nuovo centro diurno terapeutico di Lugano con Luca Borgonovo e Marinella Ortelli, secondo e terza
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Contrordine, è un paese per vecchi

Simposio ◆ Il 25 marzo si svolgerà all’USI il Lugano Longevity Summit per riflettere sul tema dell’invecchiamento La città sul Ceresio sarà la prima svizzera a entrare nella piattaforma internazionale City of Longevity

L’eterna giovinezza da sempre affascina l’uomo. Fin dai miti greci, passando da Dorian Gray per arrivare al cinema odierno il sogno, o meglio, l’aspirazione di intervenire sul fluire del tempo e sulla decadenza del corpo stuzzica la nostra mente influenzata oggi da un allungamento dell’aspettativa di vita mai conosciuto in precedenza. Ma la vecchiaia è una malattia? Si può prevenire e curare? È possibile ed etico impegnarsi nella ricerca dell’eterna giovinezza e nell’allungamento dell’aspettativa di vita? Il tema è di grande attualità anche per le sue ricadute economiche, etiche, socio-assistenziali e culturali. Si tratta di una vera e propria rivoluzione nel modo in cui ci avviciniamo all’invecchiamento che merita una riflessione a tutto tondo.

Per questi motivi, l’associazione BrainCircle Lugano, con il patrocinio della Città di Lugano, in collaborazione con le principali Istituzioni scientifiche della Svizzera italiana, l’USI con la Facoltà di biomedicina e la SUPSI con il Centro competenza anziani del DEASS (Dipartimento economia aziendale, sanità e sociale), entrambi partner scientifici dell’evento, ha deciso di organizzare per il 25 marzo 2024 il Lugano Longevity Summit, un evento aperto al grande pubblico, sostenuto da Percento culturale Migros Ticino, rivolto anche a studiosi, amministratori, medici e operatori sanitari.

Il Canton Ticino con una vita media di 85,7 anni è la regione più longeva d’Europa

Affermati ricercatori e ospiti di livello internazionale affronteranno il tema della longevity e dell’ healthy aging, fra questi ci saranno vere e proprie star come David Sinclair, professore di genetica alla Harvard Medical School e co-direttore del Paul F. Glenn Center for Biology of Aging Research, e Nir Barzilai, professore di medicina e genetica, direttore dell’Institute for Aging research del Nathan Shock Center of Excellence in the Basic Biology of Ageing e del Paul F. Glenn Center for the Biology of Human Ageing Research presso l’Albert Einstein College of Medicine. E poi Nic Palmarini, direttore del National Innovation Center for Ageing (NICA) e ideatore del network City of Longevity, piattaforma che favorisce lo scambio tra città di idee e policies sulla longevity, affronterà il tema di come le città possano essere portatrici di benessere e soluzioni innovative per una delle grandi sfide del futuro, l’invecchiamento della popolazione.

Oggi, il tema dell’invecchiamento e della cure anti-aging è molto discusso, anche in modo controverso. C’è chi, come il «guru» delle ricerche anti-aging David Sinclair, autore di bestsellers e nominato dalla rivista «Time» una delle 50 persone più autorevoli nel campo dell’assistenza sanitaria, parla della vecchiaia come di una malattia, suggerendo nuovi paradigmi che dovrebbero portarci a vivere bene e più a lungo. Perché il punto è proprio questo: come possiamo prolungare la sopravvivenza sana, la cosiddetta «healthy lifespan», che dovrebbe essere un dovere per qualsiasi società moderna e responsabile? Man mano che invecchiamo, cresce la nostra fragilità, ed

è sufficiente un banale trauma o una malattia per condurci alla morte. Il cambiamento di prospettiva suggerito da scienziati come Sinclair è quello di vedere l’invecchiamento come una malattia e come tale curabile, fino a rendere possibile il sogno di rallentare il processo di invecchiamento e magari… di non invecchiare.

Un primato europeo

Il Canton Ticino, con una vita media di 85,7 anni, è la regione più longeva d’Europa (dati aggiornati in aprile 2023 prendono in considerazione il 2021 – Ufficio europeo di statistica Eurostat) e la Svizzera italiana con le sue istituzioni scientifiche sta diventando un polo di riflessione e ricerca intorno al tema della longevity e dell’aging, temi complessi, spesso affrontati con pregiudizio e poca conoscenza. Lugano, in particolare, è una delle città europee con la popolazione più anziana, merito sicuramente della qualità del suo ambiente e dei suoi servizi, ma questo dato impone anche una riflessione profonda su vari aspetti. Negli anni, Lugano è diventata un riferimento non solo regionale e cantonale per la cosiddetta silver economy, il settore delle attività economiche operanti nella cura degli anziani, con progetti e attività mirati proprio all’inclusione e all’interscambio fra i residenti di tutte le età. Tutto ciò, insieme al consolidamento internazionale delle sue università, agli investimenti per i nuovi campus, alla nascita di una Facoltà di biomedicina, alla crescita dei suoi Istituti di ricerca biomedica, fa di Lugano la candidata ideale per diventare città della longevità e per una riflessione intorno al tema della Longevity. A questo proposito, in occasione del Summit del 25 marzo, sarà annunciata, con la consegna simbolica di un attestato, l’adesione della Città di Lugano, prima città in Svizzera, alla piattaforma internazionale City of longevity (https://cityoflongevity. uknica.co.uk/). La procedura è sta-

Programma

L’evento si svolgerà nella giornata del 25 marzo 2024 (dalle 14.00 alle 19.30) presso l’Aula Magna dell’Università della Svizzera italiana. L’ingresso è libero, ma si consiglia l’iscrizione al sito w ww.braincirclelugano.ch. Il Summit è in italiano e per gli interventi in inglese sarà offerto un servizio di traduzione simultanea.

SALUTI ISTITUZIONALI E INTRODUZIONE AL SIMPOSIO

14.00-14.30

• V iviana Kasam (Presidente BrainCircle Lugano),

• Giovanni Pedrazzini (Decano della Facoltà di scienze biomediche, USI),

• Michele Foletti (sindaco della Città di Lugano).

Ospite particolare: Sami Sagol (Fondatore Sagol Neuroscience e Longevity Network) – «Eternamente giovani».

A nnuncio dell’adesione di Lugano alla piattaforma City of Longevity, consegna attestato da parte del direttore di City of longevity, Nic Palmarini, al rappresentante della Città.

ta portata avanti dalla Divisione Socialità della Città di Lugano, che fin da subito ha sostenuto e creduto in questa iniziativa; così, da oggi Lugano sarà al fianco di città come Londra, Lisbona, Tel Aviv, per vivere da protagonista una delle sfide più importanti del prossimo futuro. Essere Città della longevità richiede cambiamenti sostanziali nei comportamenti dei suoi cittadini e nelle norme sociali, lungo tutto l’arco della vita, a partire dalla giovinezza – qui sta il segreto – per ritardare gli effetti negativi dell’invecchiamento. Le politiche in-

PRIMA PARTE: IL MITO DELL’ETERNA GIOVINEZZA

14.30-15.15

Lectio Magistralis del Prof. Nir Barzilai (Direttore dell’Institute for Aging Research, Albert Einstein College of Medicine, New York): «Aging later: is there a hope?» (ENG). In dialogo con la Prof.ssa Laurie Corna (Centro competenze anziani, SUPSI, Manno)

SECONDA PARTE: VIVERE SANO

PER VIVERE A LUNGO

15.15-16.45

LE SFIDE INDIVIDUALI

Moderatrice: Laura Pozzi, giornalista RSI

• Prof. Shai Efrati (Università di Tel Aviv) «Rejuvenating with oxygen?» (ENG)

• Prof. Stefano Cavalli (SUPSI, Manno) «Sentirsi vecchi a 100 anni?»

• Dott.ssa Maria Giulia Bacalini (IRCCS Istituto delle Scienze Neurologiche di Bologna) «Inflammaging e invecchiamento»

• Prof. ssa Francesca Rigotti (USI, Lugano) «La vecchiaia non è una malattia»

della popolazione che già oggi esercita il potere economico maggiore, che ha accesso a capacità tecnologiche più avanzate che mai. Ma, allo stesso tempo, le città stanno affrontando grandi sfide, nei sistemi di governance, a livello di trasporti, di risorse energetiche e comunicazioni, di servizi sociali e assistenza sanitaria, in uno scenario economico e ambientale incerto. Le città sono i luoghi che possono progettare il futuro, e non rispondere solo all’emergenza, diventando promotori di benessere e salute. Tutto questo lo si può fare sfruttando la quantità enorme di dati che generiamo con i nostri dispositivi digitali, trasformando i dati in conoscenza, sviluppando politiche strutturate e strategie di prevenzione misurabili, attraverso sistemi interconnessi e intelligenti.

Dopo tre anni di incubazione presso il National Innovation Centre for Ageing (NICA) del Regno Unito, il progetto City of longevity è stato lanciato ufficialmente il 6 luglio 2023 alla presenza delle delegazioni delle città di Buenos Aires, Lisbona, Tel Aviv, Barcellona, Coimbra, Bergamo, Madeira, Cremona, Sunderland, Belfast, Newcastle e Charlton. Oggi Lugano entra a far parte di questo gruppo di città: condividerà problemi, soluzioni e strumenti per diventare una città capace di stimolare e offrire comportamenti più sani a residenti, visitatori e turisti.

tergenerazionali sono uno dei cardini del progetto City of longevity, così come la riduzione delle disuguaglianze sanitarie e una politica coordinata fra i vari dipartimenti della Città. Come si legge nella presentazione del progetto, «una società della longevità rappresenta una nuova fase per noi esseri umani e richiede la messa in discussione di nozioni radicate sull’età e sull’invecchiamento».

Entro il 2050, le città ospiteranno più di due terzi della popolazione mondiale e oltre due miliardi di persone avranno più di 60 anni. È una fetta

16.45-18.30

LE SFIDE ISTITUZIONALI

Moderatrice: Laura Pozzi, giornalista RSI

• D r. Nic Palmarini (National Innovation Center Ageing, Londra) «Il progetto Cities of longevity»

• P rof. Giovanni Pedrazzini (USI, Lugano) «Dalla formazione alle cura»

• P rof. Fabrizio Mazzonna (USI, Lugano) «Le sfide della Silver economy»

• Prof. Emiliano Albanese (USI, Lugano) «Il piano svizzero per la salute cerebrale»

• (ENG) Dr. Tzipi Strauss (Sheba Medical Center, Tel Aviv) «Longevity for all»

TERZA PARTE: THE AGING

REVOLUTION: OLTRE L’ETÀ

18.30-19.30

Lectio Magistralis del Prof. David Sinclair (Harvard Medical School, Boston): «Is aging truly reversible?» (ENG)

In dialogo con la prof.ssa Arianna Baggiolini (Institute of Oncology Research USI, Bellinzona)

Rafforzare la ricerca

L’adesione di Lugano al progetto s’inserisce in un quadro più ampio che vede il Canton Ticino luogo ideale non solo per vivere bene e a lungo, ma anche per fare ricerca intorno al tema della Longevity e dell’invecchiamento. Come dichiara il prof. Andrea Alimonti, direttore dell’Institute of Oncology Research (IOR) di Bellinzona: «Una delle aree strategiche dello IOR, condivisa anche con BIOS (Bellinzona Institutes of Science), l’associazione mantello di cui fa parte anche l’IRB (Istituto di ricerca in biomedicina), è quella di rafforzare la ricerca nel settore dell’aging in modo da comprendere, nel nostro caso, come e perché la maggior parte dei tumori si verifica in età avanzata». A tale riguardo lo IOR insieme ad altri Istituti di ricerca del Cantone ha intrapreso una serie di iniziative per ricevere il riconoscimento come Centro Nazionale di Competenza per la Ricerca (NCCR) sulla Longevity, ma il cammino è ancora lungo. Oggi in Ticino si fa ricerca biomedica e oncologica di alto livello e l’intera regione con la sua popolazione ha caratteristiche tali che la rendono un luogo ottimale per studiare i processi di invecchiamento. «Ci saranno altre iniziative – continua Alimonti – nel 2025, per esempio, organizzeremo un’importante conferenza con l’European Association for Cancer Research (EACR) proprio su cancro e invecchiamento. Per noi la ricerca sull’invecchiamento è e sarà prioritaria. Sono due i fattori che rendono strategico questo asse di ricerca: da una parte gli abitanti del Canton Ticino sono fra i più longevi d’Europa e dall’altra la ricerca biomedica nel nostro Cantone che, in diversi ambiti, è sempre più all’avanguardia». / Red.

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In forma con Karkadè e Mate

Fitoterapia ◆ Dal continente africano al Sudamerica giungono a noi erbe e fiori con importanti qualità ricostituenti ed energizzanti

Chi ha visitato l’Argentina, o il Cile, o l’Egitto e il Sudamerica in generale ha sicuramente constatato la diffusione di queste due magiche erbe, che ti rimettono in forma come niente: il Karkadè e il Mate.

Il rimedio di Karkadè, o Fiore dell’Ibisco, si ottiene essiccando i suoi petali. Essi hanno un meraviglioso rosso rubino intenso. Questo fiore appartiene alla famiglia delle Malvacee, che comprende altre ben note e comuni piante ornamentali di bellissimo aspetto non troppo diverse da questo fiore. Il suo nome scientifico è Hibiscus Sabdariffa ed è la specie più antica della famiglia. Si presenta come un arbusto perenne che cresce nei climi caldi delle regioni tropicali di Africa, Caraibi, Ceylon e India. Si dice che chi attraversa il deserto lo mastichi per sopportare il sole. Con il nome, Karkadè è arrivato in Italia nel periodo fascista, importato dalla colonia italiana dell’Eritrea, dove è appunto chiamato in questo modo, quale variante di «karkadeb», parola appartenente a un dialetto dell’Etiopia. Per aiutarvi a visualizzarlo, è il fiore rosso che le donne hawaiane si mettono fra i capelli.

L’infuso di questo fiore offre una bevanda molto diffusa soprattutto nei Paesi caldi, perché è rinfrescante e dissetante sia calda sia fredda; questa bevanda si prepara mettendo un cuc-

chiaio raso di fiori nell’acqua bollente per 10 minuti (sono consigliate tre tazze al giorno per almeno un mese). Il suo tipico aroma acidulo e un poco aspro è dovuto all’acido citrico e tartarico di cui è ricco.

Come detto, i suoi notevoli principi attivi sono tutti raccolti nei petali, che contengono flavonoidi (i quali proteggono i vegetali dai raggi ultravioletti e contrastano i processi degenerativi e infiammatori). Le proprietà dell’infuso di Ibisco, detto Karkadè, sono importanti per il sistema cardiocircolatorio. Più precisamente, la bevanda è molto indicata per chi soffre di ipertensione e vuole prevenirla; per chi desidera tenere a debita distanza il rischio di ictus; per chi vive nel grande caldo e ha bisogno di sostenere cuore e vasi sanguigni; ma non solo: queste sue proprietà hanno effetti benefici anche come disinfiammanti delle vie urinarie, e sono un valido aiuto per combattere la cellulite. Infine, si assume pure contro mal di gola, tosse e raffreddore.

Chiariamo come ogni volta che qui forniamo solo notizie generali informative da verificare, e che non si vuole certo dare alcun consiglio; come sempre, raccomandiamo caldamente di non improvvisarvi esperti di erbe: mai, senza consigliarvi prima con il vostro medico.

Secondo uno studio cinese, l’estrat-

to di Ibisco migliorerebbe il contenuto di collagene cutaneo e ne stimolerebbe la produzione, cosa che dopo i cinquant’anni favorisce la tonicità della pelle e l’assenza di rughe, riducendo la sintesi di melanina e la formazione di macchie; se è contenuto nelle creme questo fiore astringente contrasta i danni dei radicali liberi a livello epidermico e giova alla pelle impura. Il Karkadè è del tutto privo di caffeina ma preso di sera potrebbe essere leggermente eccitante.

Al contrario, l’erba eccitante per eccellenza – che proviene dal Sud America dove ha origine, ed è nota in tutto il mondo – è certamente Ilex Paraguariensis. Da questa erba si ricava la bevanda più nota in Argentina, ovvero il Mate. Sono almeno altri 15 i nomi con i quali viene chiamata questa erba: come Yerba Mate, Paraguan-Tea, Tè dei Gesuiti, Caà Gua Zù eccetera.

È una specie sempreverde, appartenente alla famiglia delle Agrifoliacee, che comprende piante delle aree molto calde, (anche se fra loro si trova l’invernale e natalizio Agrifoglio dalle tanto care bacche rosse). Questa erba cresce spontanea solo nel Nord Argentina, a Sud del Brasile, in Paraguay e Uruguay.

Il rimedio erboristico millenario ottenuto da quest’erba è oggetto di leggende. Non è sempre e solo sem-

plice bevanda, infatti: a volte può diventare elemento principale di un rituale sacro, qualcosa che può creare condivisione e amicizia.

L’abitudine di bere del Mate più volte al giorno, in Argentina, è diffusa in tutte le classi sociali, quasi un rito quotidiano. La sua preparazione richiede un preciso procedimento. Per preservare la qualità del prodotto, il colore e il caratteristico sapore, le verdi foglie della pianta devono essere essiccate al calore del sole non oltre 24 ore dopo la loro raccolta. Il tutto viene poi triturato e per nove mesi dovrà essere immagazzinato prima di essere consumato.

Il Mate fu portato in Occidente dai colonizzatori spagnoli del Continente sudamericano. Gli indios guarana della foresta lo consumavano da millenni. Pare che i gesuiti che accompagnavano i colonizzatori lo ritenessero agli inizi «la bibita del Demonio», tanto che nel 1610, stando almeno a quanto troviamo in rete (e quindi non si sa fino a che punto verificabile), presentarono il caso al

Un anziano beve il Mate da una tazza tradizionale, a La Teja, quartiere di Montevideo, Uruguay.

Tribunale della Santa Inquisizione.

Non vi sono state sino a ora approfondite dimostrazioni scientifiche, ma il Mate stimola sicuramente il sistema nervoso centrale e il metabolismo perché contiene sostanze eccitanti come la caffeina; per cui è considerato utile per aumentare la concentrazione mentale, la forza e la resistenza fisica; avrebbe anche potere dimagrante quale conseguenza di un ridotto senso della fame (facilitando la sazietà aiuta a evitare la ritenzione idrica). Studi americani avrebbero dimostrato la potenzialità di questa pianta sotto questo aspetto.

Il Mate contiene 24 vitamine, i maggiori minerali, dal calcio al rame, 15 aminoacidi e molti composti antiossidanti. Come il Karkadè contiene anche flavonoidi antiossidanti e composti polifenolici, e avrebbe quindi un grande valore nutrizionale. A causa delle sue qualità eccitanti si consiglia grande prudenza e il parere del proprio medico: l’abuso potrebbe produrre effetti collaterali come nervosismo e insonnia, come sempre si mette in guardia dal «Fai da te».

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Iona, l’isola di un santo sopra le righe

La piccola isola delle Ebridi, già rifugio di San Columba, ospita ancora un’abbazia e un cimitero storico, sepoltura di re importanti; poco più in là, le colonne di Staffa

Pagine 16-17

Crea con noi

Per la festa del papà vi proponiamo di realizzare una «lente magica» che vi aiuterà a scegliere diversi passatempi per trascorrere piacevoli momenti in famiglia

Pagina 19

Adriano Heitmann, art director

e fotografo

Primi piani ◆ Ha lavorato per diverse testate giornalistiche e ancora oggi si concentra sulla valorizzazione dell’immagine e delle storie che hanno da raccontare i reporter

Stefano Spinelli

Possiamo situare nell’arte del costruire racconti con le immagini, del saperle porre in sequenze che riescano a conferire loro ulteriore senso, una delle chiavi d’accesso al mondo fotografico di Adriano Heitmann, che ci accoglie nel luminoso soggiorno della sua casa in collina. Seduti a un ampio tavolo sul quale poggiano diverse pubblicazioni e un buon caffè, cominciamo a esplorare la pluridecennale produzione del fotografo ed editore, discutendo di immagini e di libri fotografici, ma anche del mondo della comunicazione e della capacità intrinseca alla fotografia di farci viaggiare nei suoi mille concreti e metaforici mondi.

Ed è proprio dalle immagini di viaggio e dai viaggi stessi che prende spunto la nostra conversazione. Spunto non tanto volto all’approfondimento del lavoro in qualità di fotografo, ma per capire le ragioni che lo hanno presto condotto verso l’editoria. Ad Heitmann, della fotografia, ha sempre importato prima di tutto la dimensione comunicativa. «Fondamentalmente, nello spirito sono un fotoreporter, poi giornalista perché mi piace raccontare le storie, storie brevi. Una cosa che ho capito subito, è che per me lo stadio finale della fotografia è dato dal raccontare una storia in forma di libro. Per me il libro è sacro». Per questo motivo non gli è mai veramente interessato esporre i suoi lavori, e neppure venderli, ma piuttosto pubblicarli. Prima sui giornali, e poi attraverso libri, ritenendo questi media più consoni al suo sentire, alle ragioni del suo fotografare.

«Una cosa che ho capito subito, è che per me lo stadio finale della fotografia è dato dal raccontare una storia in forma di libro»

Fin dagli anni Settanta collabora con varie riviste, tra queste anche le più diffuse (come Geo, ZeitMagazin, Schweizer Illustrierte, L’Illustré, NZZ, ecc.). Erano anni in cui sui media veniva dato ancora ampio spazio alla fotografia – compresa quella a colori, prediletta dal nostro interlocutore. Presto, Heitmann si rende però conto di uno scollamento tra il mondo delle redazioni e degli art director, spesso autoreferenziale, e quello complesso dei fotografi, che sul terreno si confrontano con mutevoli e molte volte irriducibili problemi concreti, oltre alle talvolta impossibili richieste di chi, seduto a una scrivania, sta magari a migliaia di chilometri di

distanza dal proprio inviato: «Sono mondi a parte: gli art director stanno in una redazione, mentre il reporter nel raccontare una storia è molto preciso. Quindi, il lavoro del grafico e dell’art director di una rivista è nei migliori dei casi una questione estetica. Però per raccontare la storia la devi aver vissuta tu».

E dunque la fotografia è narrazione – di un evento, di un tempo, di un mondo. Di una storia che, aderente o meno alla stretta realtà, solo il fotografo – reporter, fotogiornalista – può raccontarci con la forza di chi la sta vivendo in prima persona. Narrando, col suo fotografare, un racconto che solo in rarissimi casi è stato riassunto in modo magistrale con un’unica iconica immagine. Quale può essere, per dare un esempio, quella della bambina vietnamita che, nuda, in più parti del corpo ustionata e in preda al terrore,

con le braccia alzate al cielo, insieme ad altri bimbi fugge da un bombardamento americano al napalm (Nick Ut, 1972). Queste, iconiche, rare, e per certi versi universali fotografie possono anche cambiare il corso della storia. Per il resto, con le immagini che – della stessa serie – non rientrano in quella categoria, la miglior cosa da fare è di riuscire a metterle tra loro in sequenza creando sapienti rimandi e accostamenti. In funzione, appunto, della storia che portano con sé: «Per cui è fondamentale la selezione, e dopo, la sequenza, che è estremamente importante. Lì ritengo di essere un esperto. Il grande pericolo della fotografia – succede quasi sempre – è che la pubblicazione, la mostra, diventi un catalogo, non un libro. Ho sempre cercato di evitare di fare cataloghi delle dieci migliori foto».

Per quanto lo riguarda, ha privi-

legiato le storie brevi, realizzate con un numero contenuto d’immagini, portando nel contempo uno sguardo attento alla composizione grafica, al ritmo dettato dai vari formati delle immagini, al dialogo tra testo e fotografie. Questa attenzione gliela riconosciamo fin dalla prima sostanziosa pubblicazione, dedicata a una serie di sue immagini realizzate in Messico nei primi anni Ottanta –edita col tautologico titolo/non titolo Messico oggi. Per la storia, l’oggi del titolo è stato imposto dall’editore contro il volere dell’autore che lo considerava, oltre che superfluo, sbagliato in quanto in breve tempo sarebbe divenuto anacronistico. Tanto per evidenziare le irritanti incomprensioni non di rado presenti nel rapporto tra autori e responsabili di pubblicazioni. Tra le diverse pubblicazioni, ricordiamo l’edizione di otto piccole monografie dedicate alla fotografia

ticinese, ma anche Testimoni del tempo, il libro col quale ha rivelato al vasto pubblico la potenza magica dello sguardo di Flor Garduño, la fulgida fotografa messicana con cui ha condiviso viaggi nel continente americano e parte della sua vita affettiva. E di cui curerà nel tempo svariate esposizioni, presentate in molte città del mondo, così come diverse pubblicazioni.

Heitmann ha privilegiato le storie brevi, realizzate con un numero contenuto d’immagini, portando nel contempo uno sguardo alla composizione grafica L’abilità di Heitmann nell’infondere equilibrio e senso lavorando di editing, lo porterà nel 2007 ad accettare l’incarico per il restyling della veste grafica del settimanale «Ticino7». Un lavoro sulla forma non può fare astrazione dai contenuti. Nel costruire la rivista, Heitmann capovolgerà le abituali logiche editoriali. Sarà la presentazione visiva della comunicazione pubblicitaria a rimandare ai contenuti editoriali, e non il contrario, tenendo comunque vivo un fecondo dialogo tra i due ambiti, a vantaggio di entrambi: «Con “Ticino7”, che era un po’ datato dal punto di vista dei concetti, ho voluto creare unità. Quello che spesso le riviste non hanno: lì, le pagine pubblicitarie vengono messe addirittura prima dei contenuti giornalistici, e sono quelle che hanno i posti più pregiati della rivista. Il redazionale diventa un po’ un ornamento della pubblicità. In Ticino7 ho invertito questa cosa. Andavo in redazione e vedevo che pubblicità arrivava, dove andava messa e a partire da questo fatto, che io non potevo influenzare, sceglievo i reportage, il linguaggio dello stesso e quello delle pagine». Nei tanti numeri prodotti sotto la sua direzione artistica, durata un anno esatto, largo spazio occuperanno la fotografia, l’illustrazione, l’editing tipografico, progettati e creati ad hoc grazie anche al talento dei suoi collaboratori per dar forma a quel percorso a sé che caratterizzerà ogni uscita.

Heitmann, infine, ci spiega a grandi linee un suo prossimo progetto editoriale col quale, rivolgendosi ai giovani, vorrebbe suggerire loro quanto la fotografia dia modo di viaggiare alla scoperta del mondo, delle sue molteplici dimensioni. E di come questo viaggiare, ribaltandone la consueta ottica, possa portare a un approfondimento della conoscenza di sé.

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 marzo 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 15
Adriano Heitmann

Laddove cielo, mare e vento hanno

Reportage ◆ Dalla celtica e cristiana Iona, sacra già dall’Età del Ferro e culla di San Columba, alla deserta e inospitale Staffa, cattedrale naturale

Enrico Martino, testo e foto

L’ora delle ombre. Arriva anche per i guerrieri di pietra nascosti dietro la porta cigolante di un piccolo museo dove il buio della sera confonde volti, spade, armature e drakkar, le sottili navi vichinghe scolpite su bassorilievi mangiati da secoli di venti e tempeste. Di molti di loro, il nome forse lo sa solo il vento che sibila fuori mentre nuvole basse cariche di pioggia scivolano veloci sul mare impregnando di umidità le lapidi di pietra scura del Reilig Odhráin, il cimitero di Oran, in un buio da confine del mondo popolato di fantasmi da saga gaelica.

Uno scenario «maledetto», perfetto per le romantiche anime di viaggiatori vittoriani, gli irriducibili influencer di oggi

Qualche piccola spiaggia bianca, un paio di barche di pescatori ancorate al largo, la lunga fila di cottage di Baile Mór – unico microscopico centro abitato – allineati lungo la strada che finisce nel molo dove il solo colpo di vita è l’arrivo di un piccolo ferry poco più grande di un bus dove tutti si conoscono e guardano straniti chi non è di queste parti.

Iona può sembrare una delle innumerevoli isolette sparpagliate al largo della costa occidentale scozzese, ma questo particolare luogo non è da sottovalutarsi poiché è stato testimone di una storia che ha segnato in modo indelebile non solo la Scozia ma gran parte dell’Europa settentrionale. Chaluim Cille, l’«isola di Columba» in gaelico, è la chiave d’accesso a un passato da tragedia shakespeariana,

Ebridi, isola di Iona. Cimitero di St Oran. La leggenda narra che qui siano sepolti antichi re scozzesi, irlandesi e norvegesi. Sotto, Staffa, la piccola isola delle Ebridi Interne scozzesi famosa per le magnifiche formazioni di roccia vulcanica. Di fianco, in senso orario: il villaggio di Iona; l’Abbazia di Iona, con in primo piano la Croce alta di San Giovanni; rovine dell’antica Abbazia di Iona; Martirs Bay (Iona), dove i Vichinghi massacrarono 68 monaci.

in senso letterale perché qui sarebbero sepolti anche il vecchio re Duncan e il suo assassino Macbeth, almeno secondo la tradizione, perché tracce certe non ne sono mai state trovate.

In compenso, secondo un documento del 1549, le pietre di basalto che lastricano l’antica Strada dei Morti avrebbero visto passare i cortei funebri di sessanta sovrani, per la precisione quarantotto scozzesi, otto norvegesi e quattro irlandesi. Tutti sepolti su questo grumo di rocce lungo meno di sei chilometri e largo meno di due piantato oltre il Sound of Iona che separa Iona da Fionhport all’estremo occidente dei morbidi paesaggi della vicina isola di Mull, uno stretto braccio di mare di un blu quasi nero capace di trasformarsi in una brutta bestia quando il vento gonfia onde che hanno preso la rincorsa da Terranova.

Tutto iniziò su una piccola spiaggia vicina alla microscopica Càrn Cùl ri Éirinn, la «Collina che volta le spalle all’Irlanda» da cui provenivano tredici monaci che in un imprecisato giorno dell’anno di grazia 563 sbarcarono da un curragh, uno di quei precari battelli di legno e pelli di vacca con cui per secoli gli irlandesi scorrazzarono sulle onde dell’Atlantico. Alla loro testa c’era uno dei più famosi monaci del suo tempo, Colm Cille più conosciuto come San Columba di Iona, costretto all’esilio da una torbida e sanguinosa vicenda che probabilmente poteva capitare solo in Irlanda. Nata nel modo più improbabile, ovvero con un plagio letterario, vide Columba trascinato in giudizio dal collerico e altrettanto famoso San Finnian con l’accusa di avergli copiato di na-

scosto un libro di salmi e preghiere. Cosa sia successo dopo è avvolto dalle nebbie di una storia remota in cui le uniche certezze sono la salomonica sentenza del saggio Alto Re d’Irlanda dell’epoca Diarmuid: «A ogni mucca il suo vitello, a ogni libro la sua copia», e la cosiddetta «Battaglia del Libro» a Cul Dreimhne in Donegal, considerata la prima guerra per il diritto d’autore, vinta da Columba con una strage di oltre tremila fedeli di San Finnian o, secondo un’altra versione, di re Diarmud. Un po’ troppi anche per i bellicosi standard del cristianesimo irlande-

se dell’epoca, soprattutto perché non si trattava di pagani, e Columba decise di cambiare aria, ufficialmente per penitenza o più probabilmente per sfuggire a una scomunica e a inevitabili vendette. Così partì con un gruppetto di seguaci in cerca di un luogo «da cui non si potesse vedere l’Irlanda» per convertire un numero di pagani equivalente ai morti che aveva provocato.

Sbarcarono a Iona, probabilmente un’isola sacra già dall’Età del Ferro, e sentirono l’impellente bisogno di santificare la nuova patria con il sacrificio di Oran, il più anziano di loro,

un imbarazzante episodio probabilmente legato ad antichi rituali celtici che la tradizione cristiana ha pietosamente trasformato in sacrificio volontario. Con un finale, imprevisto, il miracoloso ritrovamento qualche giorno dopo dell’anziano monaco ancora in vita, prontamente risolto con la sepoltura stavolta definitiva del redivivo, accusato di avere detto a chi lo aveva disseppellito che l’Inferno «non era poi così brutto».

Come seconda mossa i monaci confinarono donne e mucche su un’altra isola perché «dove c’è una mucca c’è una donna, e dove c’è una don-

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 marzo 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 16

hanno plasmato isole leggendarie

naturale resa tale dai suoi pilastri in basalto nero, quintessenza della Scozia

na c’è discordia». Dopo questo inizio decisamente sopra le righe, Columba trasformò Iona in un importante centro di cultura religiosa da cui partì con i suoi monaci per evangelizzare Scozia e Inghilterra, una sorta di Montecassino del Nord dove centinaia di grandi croci celtiche punteggiavano il percorso di folle di pellegrini arrivati da tutta l’Europa settentrionale.

Nel frattempo, il monastero si ingrandì e produsse raffinate opere d’arte tra cui le miniature dello splendido codice medioevale conosciuto come Book of Kells conservato al Trinity College di Dublino, almeno in parte realizzato quasi certamente a Iona alla fine dell’ottavo secolo. Ultimo lampo di splendore di un monachesimo spazzato via dalle continue incursioni vichinghe che dal 794 devastarono l’isola costringendo i monaci a traslocare persino le reliquie di San Columba, equamente divise fra Scozia e Irlanda.

Dopo il massacro di sessantotto monaci nell’803, il monastero venne definitivamente abbandonato dall’849 al tredicesimo secolo, quando un convento di monache agostiniane riportò una presenza religiosa sull’isola. Per poco, perché la Riforma protestante spazzò via tutto in senso letterale, abbattendo 357 delle 360 croci celtiche che costituivano l’orgoglio di Iona. «L’isola, un tempo metropoli del sapere e della pietà, ora non ha una scuola per l’istruzione, né un tempio per il culto» scrisse dopo averla visitata nel 1773 una celebrità dell’epoca, lo scrittore inglese Samuel Johnson.

Sulle rovine, trasformate in una romantica scenografia teatrale, l’erba della brughiera crebbe fino all’epoca vittoriana, quando Iona ritrovò la sua storia come centro religioso della Chiesa di Scozia, e dopo la fondazione nel 1938 della Iona Community che ebbe un ruolo influente nella rinascita di un cristianesimo che non rinnega le sue radici celtiche, sopravvissute sulle sculture di aggrovigliate spirali della St Martin’s Cross, l’ultima grande croce originale ancora piantata nello stesso luogo da oltre un millennio.

Quasi come un simbolico contrappunto geografico alla bassa skyline di Iona, impregnata di misticismo e resa famosa dalla storia degli uomini, un’isola cattedrale creata dalle tempeste galleggia lontano sull’orizzonte puntando verso il cielo migliaia di colonne di basalto nero. È Staffa che rievoca irresistibilmente le ambigue suggestioni esoteriche de L’Isola dei morti del pittore svizzero Arnold Böcklin. Un quadro inquietante, sospeso tra sogno e realtà sul bordo di un mondo ignoto, una potente metafora di inaccessibilità perfetta anche per la Stafa dei vichinghi, «l’isola pilastro» che rievocava le loro case di tronchi e che, ancora oggi, si lascia raggiungere solo quando cielo e mare concedono una tregua.

Riuscire a mettere piede a terra non è scontato perché spesso i battelli non riescono neanche ad avvicinarsi per la forza del mare, ma, quando le onde si prendono un attimo di calma, piccoli battelli come lo Iolaire sanno come scivolare tra correnti e lame di basalto per attraccare a quello che solo un inveterato ottimista potrebbe definire un piccolo molo e sbarcare una varia umanità capeggiata da anziane signore che saltano di roccia in roccia in cerca di puffin (uccello noto come «pulcinella di mare»), impacchettate

in impermeabili a prova di tempesta lunghi fino a terra.

Più poeticamente, per i celti Staffa rievocava il mito di una strada costruita da Finn Mc Cool, un gigante che viveva nel nord dell’Irlanda, per varcare il mare e regolare i conti con il rivale scozzese Benandonner. Un nastro di basalto sprofondato nel mare, creato in realtà da un flusso di lava solidificato sessanta milioni di anni or sono di cui sarebbero sopravvissute le due estremità emerse, la Giant’s Causeway in Irlanda e Staffa, ultima testimonianza di un’isola più grande, con la sua straordinaria texture verti-

cale di colonne prismatiche di basalto esagonali create dal raffreddamento della lava.

Un teatrale scenario fantasy dove milioni di anni di tempeste hanno scavato la Fingal’s Cave, un antro irreale alto venti metri che svanisce in un buio azzurrino ritmato giorno e notte dalle onde che si infrangono contro la roccia e dallo stridio degli uccelli marini che volteggiano alti nel cielo sopra l’ingresso. Il nome glielo ha dato il naturalista inglese Sir Joseph Banks alla fine del diciottesimo secolo, ispirandosi proprio alla leggenda di Finn e affascinato da un’architettura

naturale che riteneva più straordinaria del Louvre, di San Pietro, Palmira e Paestum.

Dopo di lui, immancabile, era arrivato Samuel Johnson ed entrambi hanno scritto parole di fuoco sull’insensibilità dei pescatori locali che nella loro pragmatica visione del mondo consideravano Staffa solo un pessimo attracco. Un posto dove nessuno voleva vivere, e l’unica famiglia che ci aveva provato l’aveva definitivamente abbandonata alla fine del diciottesimo secolo, atterrita da spaventose tempeste invernali e da un suolo dove non si riusciva quasi a coltivare un campo o allevare qualche animale. Uno scenario «maledetto», perfetto per le romantiche anime di orde di viaggiatori vittoriani, compresi quelli che oggi probabilmente sarebbero considerati irresistibili influencer, Walter Scott, Jules Verne, Robert Louis Stevenson, l’esploratore David Livingstone e Alice Liddell, ispiratrice di Alice nel paese delle meraviglie Nel 1847 persino la regina Vittoria e il principe Alberto avevano dato il beneplacito definitivo alla fama di Staffa spingendosi all’interno della caverna a bordo di una lancia, mentre il pittore William Turner l’aveva immortalata in uno dei suoi paesaggi tempestosi e il compositore Felix Mendelssohn aveva ricreato

nell’ouverture Hebrides, conosciuta anche come Fingal’s Cave, le magie sonore create dal mare nell’oscurità della grotta.

Tutti stregati da questa quintessenza della Scozia più estrema dove cielo, mare e vento hanno costruito una perfetta e deserta isola inospitale e irresistibilmente fascinosa a loro immagine e somiglianza. Come la dirimpettaia Iona, popolata dai fantasmi di uno sfuggente universo perduto di monaci-guerrieri e sovrani di regni spesso sopravvissuti solo nelle leggende in cui non mancherebbe neanche Re Artù. «Non era gallese, peggio che mai inglese, era scozzese. Un absolute nonsense e un furto di identità perché l’unica certezza è la sua connessione con l’ultima Età del Bronzo, non con gli estenuati cavalieri dei pittori preraffaeliti» tuonano molti storyteller con kilt d’ordinanza e voce cavernosa disseminati in ogni angolo turistico della Scozia. «Iona è la vera Avalon, l’isola del Mare Occidentale dove venne sepolto Arthur, figlio di re Aidan battezzato proprio da Columba». Saranno anche solo leggende, ma tutto è possibile tra queste indefinibili brume.

Informazioni

Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.

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Crea con noi ◆ Per festeggiare il 19 marzo realizzate una lente magica che suggerisce divertenti passatempi

Giovanna Grimaldi Leoni

Ma come trascorrerlo? Un giro in bicicletta o forse una partita a pallone? Facendo un disegno o gustando un gelato? Se le idee scarseggiano, ecco una lente magica che svelerà tante diverse attività genitore/bambino da cui prendere spunto. Un divertente gioco di scoperta, pensato per i più piccoli che ameranno svelare i disegni con il papà e scegliere il modo preferito per passare il tempo insieme.

Procedimento

alla finestra, ricalcate su di un foglio bianco i disegni con un pennarello celeste chiaro. Aggiungete al disegno tanti piccoli cuori. Naturalmente, potete anche disegnare liberamente altre immagini. Successivamente, con il pennarello rosso e quello fucsia, ricoprite tutto con scarabocchi irregolari, così da rendere le immagini disegnate in precedenza irriconoscibili. Stampate il cartamodello della lente, ritagliatelo e riportatelo su cartone due volte, così da ottenere due sagome identiche. Dipingete con la pittura acrilica la cornice e le due lenti che pitturerete da ambedue i lati. Lasciate asciugare e ripetete l’operazione affinché il colore sia uniforme. Applicate alla lente la mappetta in

Giochi e passatempi

Cruciverba

Qual è la bevanda più consumata in Marocco?

le lettere nelle caselle evidenziate.

Frase: 2, 2, 4, 5 – 8, 1, 10)

ORIZZONTALI

1. Piccola rana verde

4. Pallida rosa

7. Nome femminile

9. Le iniziali della conduttrice Leofreddi

10. Congiunzione francese

11. Non è reato ammazzarla

13. Hanno parapetti merlati

14. È fatto come una volta...

17. Il John di Sylvester Stallone

18. Dieci inglesi...

19. Penisola dell’Egitto nord-orientale

21. Bocca in latino

22. Stato asiatico

23. Andar col vate... in giro

24. Stato dell’Africa Occidentale

25. Elevato

plastica colorata utilizzando la colla o il biadesivo. Quindi, incollate sul retro la seconda lente in modo che sia ben rifinita da ambedue i lati. Decorate a piacere la cornice ad esempio incollandovi striscioline di carta degli stessi colori utilizzati per gli scarabocchi. Aggiungete una frase d’augurio sulla cornice. Il consiglio è di scriverla su un foglio di carta a parte in modo da potervi correggere in caso di errori o sbavature. La vostra lavagna magica delle attività da fare insieme è pronta.

Idea in più: Incorporate un messaggio segreto nel mezzo dei disegni. Sparpagliate le lettere della parola segreta o le parole della frase tra le immagini. Con la lente, bisognerà prima trovarle tutte e poi ricostruire la parola o la frase.

Buon divertimento e auguri a tutti i papà!

Materiale

• Fogli bianchi A4

• Pennarelli: celeste, rosso, arancio, fucsia

• Mappette trasparenti colorate rosa o rossa

• Un pezzo di cartone di recupero 15x20cm

• Acrilico celeste e pennello piatto

• Cornice in cartone

• Cartoncini colorati (per la cornice)

• Bastoncino di colla o biadesivo trasparente

• Stampante per il cartamodello

(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku

Sudoku 1 23 4 5 6 7 8 9 10 1112 13 1415 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28

27. Atomi con lo stesso numero di neutroni

28. Tutt’altro che mesti

VERTICALI

1. Parte dell’intestino tenue

2. Nipote di Abramo

3. Le iniziali del regista Lattuada

5. Nobile musulmano

6. Vasto altopiano dell’Asia

8. Situazione non conforme alla norma

12. Privi della vista

13. Lago etiopico

14. Corpuscoli di materia

15. Cosa in latino

16. Le iniziali dell’attore Norris

17. Cittadina dell’Inghilterra nello Yorkshire e ... anagramma di proni

19. Un grasso animale

20. Nella mitologia erano dei semidei

22. Negazione inglese

23. Andata alla latina

24. Nelle torte e nel timballo

26. Le iniziali della giornalista Gruber

numeri ` ` U NITO M O STO V AS I ME C O B AMO G IGA ZO ELVIR A NEL T A ITA TO N O A R G A V S E NI ME STELLA N OE ELI A

Soluzione della settimana precedente CONOSCERE L’ARTE – Pare che la primissima rappresentazione dell’Ultima Cena sia … Resto della frase: … UN MOSAICO BIZANTINO e si trovi … A RAVENNA

da 45 3 6 23 8 9 9 2 6 1 16 74 6 1 7 48 7 62 72 5297 368 41 1872 456 39 3469 182 75 2 1 5 6 7 3 4 9 8 9645 823 17 7381 945 26 6 9 2 4 5 7 1 8 3 4738 619 52 8513 297 64

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Scoprite i 3
corretti
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera. inserire nelle caselle colorate.
Cosa simboleggia?
Lo scoprirai a cruciverba ultimato leggendo
E oggi che cosa facciamo papà?
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Viaggiatori d’Occidente

I felici impiegati nel turismo

Chiedimi se sono felice. Tra i lavori più strani in circolazione, c’è chi si occupa di rilevare la soddisfazione dei dipendenti. Per esempio EngageRocket è una piattaforma digitale che elabora ricerche sulla felicità degli impiegati (Employee Happiness Index Survey). Tra le variabili considerate troviamo naturalmente il salario e i benefit, ma anche le condizioni di lavoro, la sicurezza del futuro, le opportunità di crescita professionale e le relazioni coi colleghi. Non sono dettagli: per il 43% degli intervistati il lavoro è la principale fonte di gratificazione nella vita. E naturalmente le aziende con dipendenti soddisfatti hanno un migliore livello di produttività, un minore turnover e soprattutto utili decisamente più elevati delle altre (+147%).

Un’altra società, BambooHR, ha considerato invece le diverse attività

settore per settore. Nell’insieme ha rilevato un generale e sempre più rapido calo di soddisfazione negli ultimi quattro anni (‒10% dal 2020). In questo caso si fa riferimento al mercato americano, ma molte conclusioni hanno un valore più ampio. I dipendenti più scontenti sarebbero nella tecnologia e nel no profit, i più appagati in edilizia, viaggi e istruzione. Il turismo in particolare ha registrato l’incremento maggiore, passando dal quinto al secondo posto. Va detto che la situazione poteva solo migliorare. Negli scorsi anni i dipendenti dell’industria turistica hanno dovuto sobbarcarsi quasi solo compiti ingrati: gestire clienti pieni di dubbi e paure, cancellare o posticipare viaggi, disporre rimborsi. E anche quando si è ricominciato timidamente a viaggiare, hanno dovuto controllare il rispetto di impopolari protocolli

Passeggiate svizzere

La Bodega española di Zurigo

Camminando ai primi di marzo lungo la Münstergasse, all’incrocio con la Schoffelgasse, incontro come ho già incontrato chissà quante volte senza però studiarla con la dovuta cura, l’insegna-scudo della Bodega española di Zurigo (417 m). Su campo rosso granato come certi rioja crianza, si leggono le quattordici lettere giallo oro – più la tilde – che compongono il nome di questo luogo nato nel 1874. Senza tirare in ballo più di tanto il richiamo ovvio alla bandiera spagnola, salgo con gli occhi in cima, tra i tralci di vite in ferro battuto. Lì, guardando con attenzione estrema, troneggia, incorniciato da un sipario, il monastero benedettino miniaturizzato di Sant Pere de Rodes. In Catalogna, nella comarca di Alt Empordà, sulle prime pendici brulle dei Pirenei, questo austero monastero preromanico in pietra si erge turrito guardando il Mediterraneo.

Ai suoi piedi, a circa due chilometri, si trova l’unico villaggio isolato della zona, La Vall de Santa Creu: da dove è partito Pedro Gorgot (18451933). Il fondatore della Bodega zurighese dove adesso un vecchietto in trench blu è seduto fuori perché non vuole rinunciare alla combinazione bianchino-brissago.

Con il movimento del cavallo negli scacchi, entro nella prima sala della Bodega Gorgot come era anche nota ad alcuni e così appare, presto, tra le pagine del Tagebuch 1966-1971 (1972) di Max Frisch. Ritorna poi una quindicina di volte chiamata solo «bodega» e sempre in compagnia di un orafo tribolato che beve troppo clarete. C’ero stato solo una volta, secoli fa, un pomeriggio alla deriva. Seduto a uno dei cinque tavoloni in legno chiaro liscio e lucido come uno specchio, subito mi rendo conto che l’atmosfera e l’ambiente sono preservati.

Sport in Azione

Evitiamo

sanitari. Anche così la maggior parte ha preferito restare al proprio posto, finché è stato possibile; ci sono stati più licenziamenti che dimissioni in vista di un nuovo lavoro. Adesso però soffia un vento nuovo. La fine delle restrizioni legate alla pandemia e la vigorosa ripresa dei viaggi (Revenge Tourism) hanno generato un crescente ottimismo. Dopo tutto, al di là delle contingenze, lavorare nel turismo piace. Probabilmente aiuta anche un’immagine sociale positiva. Tutti hanno qualcosa da chiedere a un agente di viaggio quando lo incontrano, per esempio a una festa. E ognuno è felice di dare consigli, attingendo alle proprie esperienze in giro per il mondo. Nonostante queste buone premesse, il futuro è incerto. La ripartenza a razzo del settore richiederebbe il ritorno dei vecchi impiegati e nuove assunzioni su ampia scala. In Italia,

per esempio, il turismo è al secondo posto tra i settori più attivi nella ricerca di personale, secondo la FIPE (Federazione italiana Pubblici Esercizi). Del resto prima della pandemia il turismo assicurava un posto di lavoro su dieci nel mondo: 320 milioni di occupati, con una notevole percentuale di donne e giovani. Ora potrebbero essere anche di più, ma la pandemia è stata una tempesta perfetta.

In tempi normali il turismo è elastico, resiliente. Se un Paese attraversa un momento difficile, un altro prende il suo posto e sempre nuove destinazioni si affacciano sul mercato. Solo una crisi sanitaria globale ha potuto arrestarlo completamente. Adesso però chi, nonostante la buona volontà, ha dovuto cercare impiego altrove non è detto che torni. Inoltre gli stipendi nel turismo sono comunque bassi, molti impieghi

Temevo, visto che quest’estate c’è stato un cambio di proprietà e a snaturare oggi è un attimo, invece le sedie Thonet tipo bistrò in faggio curvato-laccato e paglia di Vienna intrecciata, sono ancora lì al loro posto. A un lato dei tavoli, per sedersi, ci sono anche delle nicchie-divanetti in pelle vissuta color vinaccia. In tinta un po’ con la boiserie spennellata di una tonalità bruna-bordò. Ma è il pavimento che dimostra come un restauro può essere sul serio conservativo senza perdere centocinquant’anni di storia intrisa di drammi, gioie, paure, liberazioni, risate, riti, uscite rapide di scena o andirivieni estenuanti: rimane ben visibile il solco circolare tra le sedie attorno allo stammtisch qui accanto, per esempio. Attorno al quale siedono, da ore credo, tre con le facce da architetti. Osservando ancora per terra, si nota il tragitto-solco del viavai ultrasecolare dei camerieri,

il travaso dallo stadio al divano

«Quelli che quando perde l’Inter o il Milan dicono che in fondo è una partita di calcio, e poi vanno a casa e picchiano i figli, oh yeah». È uno dei laconici versi del celeberrimo brano Quelli che partorito dalla geniale mente di Beppe Viola e magistralmente, ma anche tragicamente, portato in scena da Enzo Jannacci. Prendo lo spunto da un recente volantino distribuito alla Gottardo Arena dalla Gioventù Biancoblù, la corposa frangia calda dei tifosi dell’Ambrì Piotta. A scanso di equivoci e di anatemi, dico che ciò di cui scrivo riguarda tutte le tifoserie, tant’è vero che è in atto una collaborazione fra le varie curve, nel tentativo di risolvere alcune derive da loro considerate pericolose. Il dito accusatore è puntato su una serie di «pensate» che, a detta loro, rischiano di creare disaffezione. Pensiamo al calendario, che propo-

ne turni suddivisi su 3 o 4 serate, con classifiche che fino all’ultimo non vedono mai le squadre con lo stesso numero di partite giocate. Un non addetto ai lavori potrebbe pensare, dove sta il problema? Sta nella regolarità sportiva dei vari tornei. Il sistema invita alle speculazioni. Amplifica il margine di discrezionalità di una singola squadra che si ritrova a poter decidere se perdere o vincere, a dipendenza della sua volontà di manipolare la classifica. Per sfavorire una determinata rivale ritenuta pericolosa. Per evitare di incrociare nella fase successiva avversari considerati più ostici di altri.

In fondo basterebbe che i dirigenti rinsavissero e tornassero al buon vecchio schema: si gioca tutti, martedì e sabato. Ma non è possibile inserire la retromarcia. Il pallino è ormai nelle mani delle TV a pagamento. Sono proprio loro, uno dei bersagli delle

tifoserie organizzate. Le piattaforme televisive gonfiano il palinsesto. Propongono partite quasi ogni sera. Allargano il bacino d’utenza. Anche le società sportive ne traggono beneficio, quindi ne sono, almeno in parte, complici. È un meccanismo che, a lungo andare, potrebbe trasferire sempre più spettatori dallo stadio al divano. In quest’ottica si aggiungono le altre rimostranze del tifo organizzato, a suo dire sempre più martoriato dalla mannaia della Lega Hockey. Quest’ultima da un lato ha inasprito i controlli d’identità, le diffide e le punizioni collettive, dall’altro ha ridotto la capienza del settore ospiti. Mi sorge spontanea l’idea che possa trattarsi di una strategia per contenere il tifo violento. Se così fosse non sarebbe meglio lavorare maggiormente sulla promozione dello sport e sull’educazione a un tifo sano? Lo so che

sono precari o stagionali e formare nuove figure non è facile né rapido. Anche i lavoratori sono cambiati in questi anni. Se in passato chiedevano soprattutto la possibilità di mettersi in gioco per fare carriera e guadagnare, dando in cambio una disponibilità quasi illimitata, ora sono più attenti alla qualità della vita, alla flessibilità degli orari, al tempo libero. Le difficoltà di reclutamento sono maggiori soprattutto nel settore dell’ospitalità, dove oltretutto manca la motivazione legata alla possibilità di viaggiare. Oggi molti dipendenti del settore alberghiero si dividono tra due impieghi e due stagioni: per esempio estate al mare e inverno in montagna. Ma gli incastri sono incerti e faticosi. La creazione di impieghi stabili, su base annuale e con stipendi migliori, resta la vera sfida da cogliere: per avere dipendenti soddisfatti.

oggi in camicia bianca e gilet nero. Il monastero mediterraneo risalente al 945 ritorna, al pianterreno di questa casa del 1524 verso le tre, sul menu, come logo. Al mio tavolo uno della mia età circa affoga le sue preoccupazioni in bicchieri di vino rosso cupo. Un signore entra in scena salutando come Churchill, prende il giornale e si siede a un tavolo che a pelle sento che sarà, ogni giorno, sempre quello. È il tavolo di Lenin che nel 1916 abita per un anno qui dietro l’angolo, al quattordici della Spiegelgasse dove al contempo, per cinque mesi, nella stessa strada al numero uno, in una sala sotto di una taverna olandese, c’era il Cabaret Voltaire. Qui sopra, dal 1894, c’è la sala morisca, più ristorante e meno conviviale. Di casa, dicono, c’è l’ex batterista dei Sauterelles. Degne di nota, le finestre acidate con ricami come tendine di pizzo che contribuiscono

all’atemporalità, mentre i portamantelli d’ottone portano in altre epoche. Al di là del mobilio oppiaceo, l’atmosfera è genuina, spigliata, come solo dove ne hanno viste di tutti i colori. Vado a vedere le tapas – introdotte nell’era della famiglia Winistörfer durata settantuno anni senza cambiare una virgola dal periodo Gorgot II e anzi, inspagnolendo di più la bodega – come calamari, alici, eccetera, in bellavista dietro una bacheca. Alla fine però, la cosa migliore, per me, è il flan. Una flânerie di precisione, addirittura, potrebbe magari riportarmi qui per questa ragione. Ma già l’ hola che sostuisce il grüezi e il continuo parlare spagnolo dei camerieri spagnoli che contagia un po’ tutti come una recita dove proviamo tutti a parlare pure, bene o male, in spagnolo, varrebbe la pena come meta di una passeggiata psicogeografica turicense seria.

si tratta di un ossimoro, ma ci siamo capiti, spero. Torno alla premiata ditta Jannacci-Viola. Stiamo parlando di una partita di hockey, di calcio o di qualsiasi altro sport di squadra che implica amore per dei colori, per una bandiera, una maglia. Non stiamo discutendo della terza guerra mondiale, dei bombardamenti su Lugansk o delle incursioni nella Striscia di Gaza. Eppure ci si azzuffa, ci si azzanna, a volte ci si uccide. Per una maglia. Per un colore! Basta che il blu diventi nero ed ecco che un essere umano da amico si trasforma in nemico. Per restare nella metafora cromatica, la vedo grigia. Se si vuole dare una chance di continuità all’appassionante relazione tra evento sportivo e pubblico, credo che tutti gli attori coinvolti debbano compiere sforzi e sacrifici. Anzitutto i tifosi si ricordino che la vittoria

della squadra del cuore non regala loro un aumento di salario, un posto di lavoro, una casa, o altri benefici tangibili. Si limitassero ai geniali sfottò, mettendo al bando la violenza. Lega e Società sportive si rendano però conto che senza il tifo, quello organizzato e quello spontaneo, un evento sportivo perde gran parte del suo fascino. I protagonisti giocano in campo, in pista, ma anche sulle tribune e in curva. Le sfide a porte chiuse durante il lockdown non ci hanno insegnato nulla? Le piattaforme televisive sono invece artefici, e al tempo stesso in balia, del loro destino. Il giorno in cui non ci sarà più latte da mungere, si ritroveranno a piangere su quello versato. La speranza è che quel giorno il meraviglioso giocattolo sia ancora funzionante e in perfetto stato. Non ne sono convinto, ma è doveroso sperare con ottimismo.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 11 marzo 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 21 TEMPO LIBERO / RUBRICHE ◆ ●
di Giancarlo Dionisio
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di Claudio Visentin

ATTUALITÀ

Biden contro Trump

Anziani e impopolari. Tra i due principali candidati alla Casa Bianca chi ha più chances di spuntarla? Il punto dopo il Supermartedì

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Storie di coresistenza

In Cisgiordania attivisti palestinesi ed ebrei israeliani lottano insieme contro le pratiche di apartheid e le ingiustizie dell’occupazione

Pagina 27

«L’Occidente non riconosca Putin»

Dubbi sulla tassazione individuale Il messaggio del Consiglio federale e le questioni che restano da risolvere, come le minori entrate per i Cantoni

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Russia ◆ Esponenti dell’opposizione al Cremlino riuniti a Londra esprimono la loro rabbia dopo la morte di Aleksej Navalny e le loro speranze in vista delle Presidenziali del 15-17 marzo. «Yulia Navalnaya è il tipo di leader di cui il mondo ha bisogno»

«Se mi uccidono vuol dire che siamo incredibilmente forti. Non arrendetevi», aveva profeticamente dichiarato in uno dei suoi discorsi più celebri, Aleksej Navalny. E come del resto è apparso chiaro al suo commovente funerale a Mosca – dove decine migliaia di suoi compatrioti si sono messi diligentemente in coda per rendere un tributo floreale al feretro dell’attivista, sfidando il rischio di essere schedati o arrestati dalle forze dell’ordine – l’opposizione contro il regime di Vladimir Putin non è morta con il dissidente russo. Anzi. Il leader del Cremlino potrebbe avere fatto male i suoi conti. «Ha commesso un enorme errore strategico che non penso comprenda», ha dichiarato Ksenia Maximova, ex top model russa e fondatrice di Russian Democratic Society, associazione che da Londra aiuta gli oppositori di Putin a scappare da Mosca. «È molto importante tenere alta l’attenzione e non occuparsi di quanto è successo a Navalny solo per 3 o 4 giorni», ha aggiunto Marina Litvinenko, vedova dell’ex agente dei servizi segreti russi e critico del regime, Aleksandr Litvinenko, morto nella capitale britannica nel 2006 per avvelenamento causato da radiazioni da polonio.

«La moglie Yulia Navalnaya è stata la roccia sulla quale Navalny ha poggiato durante tutta la sua vita politica, anche se quando era vivo tentava di proteggerla dalle pressioni della vita pubblica», ha raccontato Vladimir Ashurkov, direttore esecutivo della Fondazione anti-corruzione creata dallo stesso Navalny. «Dopo la morte di Aleksej Yulia ha fatto un discorso con il quale ha preso l’impegno di continuare la battaglia del marito», ha aggiunto, preannunciando non la fine dell’opposizione russa, ma piuttosto un nuovo capitolo. «Penso che lei sia il tipo di leader di cui il mondo di oggi ha bisogno».

Rabbia, determinazione e speranza. Sono i sentimenti emersi nel corso di una tavola rotonda sul futuro dell’opposizione russa organizzata a Londra dalla Foreign Press Association sulla scia della scomparsa del celebre dissidente russo. Maximova, Litvinenko e Ashurkov hanno raccontato non solo la loro esperienza di dissidenti russi all’estero, ma espresso soprattutto la loro irremovibile posizione innanzi all’ennesimo omicidio politico putiniano e l’auspicio che la perdita di Navalny unisca le opposizioni e le aiuti a fare fronte comune contro il tiranno del Cremlino.

«Non bastano le sanzioni. Ci vuole volontà politica». È quanto affermato da Tom Keatinge, fondatore e direttore del Centro sui Crimini Finanziari e Studi sulla Sicurezza

del Royal United Services Institute, think tank leader nel Regno Unito in materia di difesa e sicurezza. Secondo l’esperto, anch’egli presente al dibattito, la via per colpire il regime moscovita passa per il sostegno a Kiev. «Ci sono circa 300 miliardi di euro di fondi russi fermi in Europa. Perché non li utilizziamo? Perché ci preoccupiamo tanto del rispetto della legge quando il nostro avversario non se ne cura affatto, uccide e avvelena individui nei nostri Paesi oltre che in Russia?», ha chiesto, sottolineando il bisogno di aiutare l’Ucraina a vincere e non solo a sopravvivere com’è stato fatto finora.

L’esperto di sicurezza Tom Keatinge: «Ci sono circa 300 miliardi di euro di fondi russi fermi in Europa. Perché non li utilizziamo?»

Gli ostacoli relativi all’uso dei fondi russi detenuti da Euroclear in Belgio, e presso le altre banche centrali europee, non sarebbero tanto di natura legale, in quanto rimovibili. Semmai di natura politica. Il timore è che possa essere messa in discussione la fiducia nella Ue. Tuttavia, una siffatta iniziativa creerebbe un preceden-

te dall’immensa efficacia deterrente. «Se Putin avesse saputo che l’invasione dell’Ucraina nel febbraio 2022 gli sarebbe costata 300 miliardi di euro, magari avrebbe agito diversamente», ha ipotizzato Keatinge, minimizzando il rischio di volatilità dei mercati che un’iniziativa del genere comporterebbe se solo il settore finanziario e bancario dichiarasse di sostenere i mercati con i propri bilanci in caso di tale evenienza, esattamente come avvenuto in occasione della crisi finanziaria del 2008.

Anche per Marina Litvinenko la vittoria dell’opposizione russa in Russia passa dalla sconfitta di Mosca in Ucraina. Ma non basta. Le democrazie occidentali devono inviare un segnale forte a Putin in vista delle elezioni presidenziali il 15-17 marzo prossimi, il cui esito è già del tutto scontato. «Putin non può essere riconosciuto come presidente legittimamente eletto. Anche Lukashenko non è stato riconosciuto per gli stessi motivi come presidente della Bielorussia. Pertanto perché non fare lo stesso con Putin?».

Maximova è concorde: «Ci sono molti russi all’estero contrari alla guerra e tanti gruppi dissidenti sono sorti dopo che Navalny era stato avvelenato la prima volta e poi incarce-

rato. Abbiamo davvero bisogno di un processo democratico e il primo passo in questa direzione consiste nel constatare che le imminenti elezioni non saranno reali o giuste e dunque Putin non può essere riconosciuto come legittimo capo dello Stato», ha ribadito, puntualizzando come senza questa premessa l’avvio di un processo democratico sia impossibile e il popolo russo, in Russia e all’estero, non possa essere riconosciuto come oppresso qual è. Navalny ha sacrificato con la vita la sua battaglia per la democrazia in Russia. Autore di indagini da milioni di visualizzazioni sulla corruzione del regime moscovita; oppositore più temuto da Vladimir Putin, tanto da non essere mai menzionato per nome da quest’ultimo; protagonista dell’eponimo documentario Navalny, vincitore di un premio Oscar. Scampato a un tentato omicidio per avvelenamento con l’agente nervino Novichok e infine imprigionato in un carcere di massima sicurezza oltre il circolo polare artico e morto in circostanze sospette all’età di 47 anni. «Siamo sicuri che la sua morte non sia stata naturale in base a varie prove», ha commentato Ashukov, rifugiato politico dal 2014 nel Regno Unito, da cui opera coordinando gli attivisti della Fondazione

(Keystone)

anti-corruzione a Vilnius in Lituania, dove dal 2021 l’organizzazione ha sede dopo essere stata messa all’indice dal Cremlino come estremista. «Le autorità russe hanno giocato in modo vergognoso con il corpo di Navalny, consegnandolo alla madre più di una settimana dopo il decesso», ha proseguito il collaboratore e amico del dissidente. «Sospettiamo che sia stato avvelenato e volessero assicurarsi che non vi fosse più alcuna traccia di veleno sulle sue spoglie», ha aggiunto, ricordando le difficoltà incontrate nella ricerca di un luogo per la celebrazione delle esequie, ostacolata dal rifiuto di molte chiese e strutture funebri.

«Il regime di Putin può apparire stabile ma in realtà sta diventando sempre più fragile e il nostro ruolo come organizzazione politica è quello di essere la forza più preparata a subentrare quando le cose in Russia cominceranno a cambiare», ha concluso il direttore della Fondazione anti-corruzione. Che ha lanciato un monito: l’Occidente sta sottovalutando Putin. Non è solo un pericolo per l’Ucraina, vittima di una brutale aggressione cominciata due anni fa. Non è solo un pericolo per la stabilità dell’est Europa. «È un pericolo globale che mina l’ordine internazionale e mette a repentaglio l’umanità intera».

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 11 marzo 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 23
Persone in fila per il funerale di Navalny a Mosca, il 1. marzo scorso.
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Biden vs Trump: un’elezione senza precedenti

Stati Uniti ◆ I due principali candidati sono i più anziani nella storia del Paese, due ex-presidenti ai vertici dell’impopolarità Il Supermartedì ha reso ancora più evidenti i rischi di emorragie di voti sia da una parte sia

dall’altra

Federico Rampini

La corsa alla Casa Bianca diventa una «gara a non perdere». Il verdetto del Supermartedì (o Super Tuesday) non è interessante per la conferma di un dato deprimente ma scontato: che i due candidati il 5 novembre saranno, salvo colpi di scena, proprio Joe Biden e Donald Trump. Quello lo sapevamo già, visto che Trump da tempo godeva di un vantaggio enorme in campo repubblicano, mentre il fronte democratico non ha osato sfidare la tradizione che prevede un appoggio pressoché automatico e incondizionato del suo partito al presidente che vuole ricandidarsi. Il Supermartedì è interessante per un’altra ragione: ha reso ancora più evidenti i rischi di emorragie di voti sia da una parte che dall’altra.

Nikki Haley è stata una delusione per tutti coloro che l’avevano appoggiata come ultimo baluardo per tornare a un partito repubblicano «normale»

Nikki Haley è stata una delusione per tutti coloro che l’avevano appoggiata come ultimo baluardo della restaurazione, cioè per tornare a un partito repubblicano «normale», nell’alveo della tradizione di Ronald Reagan e dei Bush padre e figlio. Non è riuscita nella sua missione proprio perché aveva dietro di sé un bel pezzo di establishment conservatore. La nuova base repubblicana odia l’establishment, dal quale si sente disprezzata. Il nucleo duro del trumpismo è fatto di non laureati (il 60% della popolazione americana) che si sentono i nuovi paria, trattati come una razza inferiore proprio da quelle élite progressiste che si proclamano anti-razziste. La classe operaia americana vecchia e nuova – dai metalmeccanici dell’automobile alle badanti, dai fattorini delle consegne ai magazzinieri di Amazon, dai camionisti ai poliziotti e guardie giurate – si fida di Donald Trump per due ragioni. La prima è che lo ha visto all’opera e pensa che mantiene le promesse (dazi contro la Cina, Muro alla frontiera messicana). La seconda è che solo un duro come lui, insolente e aggressivo, può tener testa all’arroganza delle élite che trattano gli operai come dei deplorevoli bifolchi.

Nikki Haley non ha mai parlato a questa base operaia ma si è comunque conquistata una minoranza di elettori alle primarie del Grand Old Party, che a seconda degli Stati si situa tra il 10% e il 20% (più qualche isolata vittoria, in Stati con pochissimi delegati). Ora che lei si è ritirata, quanti dei suoi sostenitori decideranno di starsene a casa il 5 novembre, o addirittura di votare per Biden, o per un candidato indipendente? Nell’ipotesi estrema, che tutti i sostenitori di Nikki Haley appartengano alla categoria dei «never Trump», le chance di quest’ultimo di tornare alla Casa Bianca precipiterebbero. Ricordo che le ultime elezioni americane si sono sempre giocate sul filo del rasoio, bastano spostamenti minuscoli di elettori, soprattutto negli Stati in bilico, per decidere le sorti della sfida in un senso o nell’altro. Gli insulti a Nikki Haley («cervello di gallina») da parte di Trump non sono una partenza incoraggiante per recuperare i suoi elettori tra otto mesi. In passato l’eletto-

rato repubblicano fu spesso descritto come più disciplinato di quello democratico, cioè capace di dimenticare le risse interne e ricompattarsi per il voto finale. È una delle ragioni per cui la destra, pur essendo minoranza in numeri assoluti, è spesso riuscita ad essere sovrarappresentata. Vedremo se il fenomeno Trump ha distrutto anche questa antica caratteristica del Grand Old Party.

Dichiararsi «uncommitted» vuol dire esplicitare il rifiuto del candidato ufficiale, ovvero Joe Biden, e la disponibilità a votare per altri

C’è un’altra categoria di elettori che può impedire un Trump 2. Sono gli indipendenti centristi, spesso indecisi fino all’ultimo: su costoro può avere qualche impatto l’accumulo di problemi giudiziari. Sono cittadini moderati, pragmatici, probabilmente insoddisfatti dell’azione di gover-

no di Biden; però spaventati all’idea di mandare alla Casa Bianca qualcuno che passerà i prossimi quattro anni a litigare con i tribunali. Il «centro mobile» dell’elettorato, quello che non ha una fede politica precisa e può spostarsi di volta in volta, è diventato sempre più piccolo in una geografia polarizzata, ma può ancora fungere da ago della bilancia.

Biden ha lo stesso problema: per fare il pieno di voti deve anzitutto evitare un fuggi fuggi. Un segnale d’allarme è venuto dal fenomeno degli «uncommitted» durante le primarie: elettori democratici che, non potendo designare un candidato diverso da Biden per mancanza di alternative, si sono comunque presentati ai seggi elettorali, e lì hanno messo nell’urna una scheda che è qualcosa di più di un’astensione. Dichiararsi «uncommitted» vuol dire esplicitare il rifiuto del candidato ufficiale, Biden, e la disponibilità a votare per altri. È una manifestazione molto forte di dissenso. Molti degli «uncommitted» appartengono a quelle constituency del-

la sinistra che contestano Biden per il suo sostegno a Israele nell’offensiva su Gaza. Si tratta di tre categorie a rischio, elettori democratici sì, ma all’opposizione sulla politica estera della Casa Bianca. In genere appartengono a uno di questi tre gruppi: la sinistra giovanile molto forte nei campus universitari; le frange radicali della comunità Black; gli immigrati arabi. È una coalizione che può costare cara a Biden. Tanto più che il 5 novembre queste tre categorie di elettori hanno un’alternativa, anzi almeno due. Tra i candidati indipendenti figura Robert Kenedy Jr., transfuga del Partito democratico che appartiene alla più blasonata dinastia della sinistra americana. Kennedy ha un cognome che gli dà enorme visibilità a priori; ha un passato di paladino dell’ambientalismo radicale fino a diventare un anti-vax; contesta Biden su quasi tutto attaccandolo da sinistra su temi domestici ma è vicino alle posizioni filo-putiniane di Trump sull’Ucraina. Cornell West, anche lui candidato indipendente, è un afroamericano di estrema sinistra con un seguito negli ambienti universitari e nelle frange radicali dell’anti-razzismo Black. Sia Kennedy sia West possono catturare voti giovanili ed etnici, danneggiando più Biden che Trump.

Questa elezione viene definita «senza precedenti» per molte ragioni. I due principali candidati sono i più anziani nella storia degli Stati Uniti. E non si era mai verificato in tempi moderni uno scontro tra due ex-presidenti, ambedue ai vertici dell’impopolarità nel Paese. Né si ricorda una elezione così inquinata da vicende giudiziarie, in parte legate a un evento anch’esso anomalo come l’assalto al Campidoglio del 6 genna-

io 2021. Un’altra peculiarità è il ritorno di importanza della politica estera. Di quest’ultimo non si può dire che sia senza precedenti. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, durante il conflitto del Vietnam e il secondo intervento militare in Iraq, i temi internazionali ebbero un peso. In generale però vale l’opposto, nelle presidenziali americane la politica estera viene relegata sullo sfondo mentre risultano decisivi i temi domestici. Stavolta abbiamo due effetti da tenere in considerazione. A destra, coloro che nella prima fase delle primarie hanno votato per Nikki Haley appartengono a una tradizione repubblicana che non può certo dirsi russofila. Per loro tutto ciò che Trump va dicendo su Putin e sull’Ucraina è inaccettabile. Una ragion di più perché Trump possa subire un astensionismo da destra in quella componente «classica» del Grand Old Party.

Non si ricorda una elezione così inquinata da vicende giudiziarie, in parte legate a un evento anomalo come l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021

A sinistra il fossato si allarga sempre di più tra una componente filo-israeliana, e in particolare la comunità dei Jewish-American progressisti; e dall’altra parte tutta la constituency filo-palestinese che ha allargato molto le sue dimensioni. Anche questa è una novità. Non solo il fatto che la politica estera divide l’elettorato (potenziale) di Biden; ma che questa divisione arriva a mettere in discussione un allineamento Usa-Israele che era sopravvissuto a molte crisi bilaterali dalla Guerra dei Sei Giorni (1967) a oggi.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 11 marzo 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 25
Da sinistra molti contestano Joe Biden per il suo sostegno a Israele nell’offensiva su Gaza. (Keystone) La classe operaia americana vecchia e nuova si fida di Donald Trump. (Keystone)

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Storie di violenza e coresistenza

Cisgiordania ◆ Attivisti palestinesi ed ebrei israeliani uniti nella lotta alle pratiche di apartheid e alle ingiustizie dell’occupazione

Secondo le stime, il 2023 è stato in assoluto l’anno più drammatico sul fronte delle violenze a carico dei palestinesi residenti in Cisgiordania. In base a quanto riporta l’organizzazione israeliana Yesh Din, che dal 2005 si occupa di tutelare i diritti umani dei palestinesi che risiedono in Cisgiordania, si parla di 1200 attacchi, 242 dei quali avvenuti dopo il 7 ottobre. I dati pubblicati dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari sono preoccupanti: dall’inizio della guerra il numero delle vittime palestinesi sarebbe aumentato del 50% rispetto ai mesi precedenti, con 299 morti solo tra ottobre e dicembre.

In Cisgiordania i civili palestinesi sono preda di violenti attacchi inferti dai coloni ebrei degli insediamenti circostanti

Infatti, mentre le forze dell’ordine sono impegnate a nord e al sud di Israele, in Cisgiordania i civili palestinesi sono preda di violenti attacchi inferti su base quotidiana dai coloni ebrei degli insediamenti circostanti. Tali reati, ulteriormente legittimati dalla salita al potere dell’ultimo Governo Netanyahu nel 2023, restano per la maggior parte impuniti finendo implicitamente per diventare parte integrante delle pratiche illegali che la complessa macchina dell’occupazione israeliana mette in atto nei territori. Una delle aree maggiormente tormentate è quella di Masafer Yatta, agglomerato rurale situato a sud di Hebron, che comprende una ventina di villaggi. In particolare dopo che, nel 2022, la Corte suprema israeliana ha approvato la demolizione dell’area a scopi militari, la vita dei circa 3000 abitanti della zona è scandita dal rumore delle ruspe che interrompono la quiete del paesaggio rurale per distruggere le loro modeste abitazioni, obbligandoli a continui trasferimenti forzati.

Ma Masafer Yatta è anche un punto nevralgico della commovente coresistenza che vede protagonisti attivisti palestinesi ed ebrei israeliani. Questi ultimi, diversi per età, background ed estrazione sociale, vi giungono da tutto Israele in segno di dissenso rispetto alle politiche del loro Governo e per rimediare, per quanto in loro potere, alle ingiustizie da esso perpetrate. Di giorno scortano i pastori e gli agricoltori locali nelle loro attività quotidiane, mentre la notte, quando avvengono le irruzioni più angoscianti, dormono a turno nelle loro case. La presenza degli attivisti ebrei funge da scudo e spesso riesce ad agire come

deterrente mitigando la violenza dei coloni. Ma non sempre è così, come nel caso di Neta Ben-Porat, un’israeliana di 46 anni, dirigente high-tech e madre di tre figli, la quale, in un’intervista rilasciata lo scorso gennaio al quotidiano «Haaretz», ha raccontato di essere stata assalita da coloni che picchiavano e lanciavano pietre nel novembre 2021, riportando una ferita profonda alla testa.

Sulle stesse tormentate colline è nato anche il profondo rapporto di amicizia che lega l’avvocato e giornalista palestinese Basel Adra, originario di Masafer Yatta, al giornalista ebreo israeliano Yuval Abraham. Al fine di restituire visibilità alla realtà dell’occupazione e denunciare le violazioni dei diritti umani operate dall’esercito e dai coloni israeliani, insieme a Rachel Szor e Hamdan Ballal i due hanno codiretto No other land, da poco premiato come migliore documentario alla settantaquattresima edizione del Festival internazionale del cinema di Berlino. Fin qui sembrerebbe una storia a lieto fine, se non fosse che, nel discorso di premiazione improvvisato, Abraham, euforico per la vittoria inaspettata, ha ribadito la denuncia delle pratiche di apartheid e menzionato le disuguaglianze tra israeliani e palestinesi in termini di libertà di movimento e diritti politici, omettendo per altro di fare riferimento ai massacri del 7 ottobre ad opera di Hamas.

Zelanti come sempre, le autorità tedesche non hanno gradito le critiche mosse a Israele, al quale, come si è affrettato a precisare in un twitt il sindaco di Berlino Kai Wegner, la Germania garantisce appoggio incondizionato. Divenuto virale in Rete, il discorso è stato subito ripreso anche dal canale israeliano 11 che ha accusato Abraham di antisemitismo mettendo in pericolo la sua famiglia, evacuata successivamente nel corso della notte per sfuggire all’assedio della destra ebraica integralista. Abraham, che a sua volta ha fatto sosta in Grecia a causa delle numerose minacce ricevute, ha commentato infatti nel modo seguente: «Poiché mia nonna è nata in un campo di concentramento in Libia e la maggior parte della famiglia di mio nonno è stata uccisa dai tedeschi durante l’Olocausto, trovo particolarmente scandaloso che i politici tedeschi nel 2024 abbiano l’audacia di usare il termine “antisemita” contro di me in un modo che mette in pericolo la mia famiglia».

Questa vicenda è l’ennesima allarmante conferma di scenari che negli ultimi mesi non fanno che riprodursi. Da un lato, dal 7 ottobre in Israele si respira aria di regime e anche gli oppositori ebrei vengono perse-

Avanti con le politiche di distruzione

Incuranti delle foto dei bambini denutriti di Gaza che fanno il giro del mondo, così come degli avvertimenti degli Stati Uniti al limite della pazienza, Netanyahu e il suo Governo persistono nell’implementare le loro politiche di distruzione. All’aumento esponenziale degli attentati in Cisgiordania, nelle scorse settimane il Governo ha risposto approvando la costruzione di ulteriori 3’476 unità abitative negli insediamenti, che dagli Accordi di Oslo non hanno mai conosciuto un’attività edilizia così intensa. Nel frattem -

po, Netanyahu ha rigettato anche la responsabilità attribuitagli dalla commissione di inchiesta istituita per far luce sulla tragedia avvenuta a Meron nell’aprile 2021 che aveva causato la morte di 45 persone. Una catastrofe che poteva essere evitata, come quella degli incendi sul Carmelo nel 2010 e quella del 7 ottobre, se non fosse per la negligenza di un Governo irresponsabile che si fonda sulle menzogne privilegiando le continue richieste politiche dei partiti ultraortodossi a scapito della sicurezza dei cittadini.

Bambini palestinesi aiutano a scavare una grotta a Masafer

Yatta. Nel 2022

Tel Aviv ha approvato la demolizione dell’area a scopi militari.

(Keystone)

guitati e arrestati con estrema facilità. Dall’altro, come si era commentato lo scorso gennaio in riferimento al caso di Masha Gessen, la Germania non solo arma Israele tecnicamente, ma persiste nel collaborare perseguitando con tenacia chiunque ne criti-

chi le politiche, detenendo il record di arresti e licenziamenti. È davvero desolante constatare una volta di più come le istituzioni occidentali strumentalizzino la Shoah e l’antisemitismo per prendere di mira proprio gli oppositori di Netanyahu che tentano

disperatamente di salvare il Paese, e l’ebraismo in generale, dal baratro del fondamentalismo, mentre lui e il suo Governo traggono chiaro vantaggio dall’isolamento degli israeliani ormai tristemente accusati di genocidio, apartheid e pulizia etnica.

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Dubbi sulla tassazione individuale

Svizzera ◆ Il messaggio del Consiglio federale e le questioni che restano da risolvere, come le minori entrate per i Cantoni

Dopo aver posto in consultazione i parametri sui quali vorrebbe basare la futura tassazione individuale, al posto di quella delle coppie, il Consiglio federale ha presentato un messaggio nel quale precisa il modo di procedere. In primo luogo chiede al Parlamento, e poi al Popolo e ai Cantoni, di respingere l’iniziativa popolare «Per un’imposizione individuale a prescindere dallo stato civile».

In verità i cittadini erano già stati chiamati a pronunciarsi, nel 2016, su un’iniziativa dell’allora PPD (ora il Centro) che poi era stata respinta con una maggioranza del 50,8%. L’iniziativa chiedeva apertamente di abolire gli svantaggi fiscali per le coppie sposate. Ma, per la prima volta dalla nascita dello Stato federale nel 1848, il Tribunale federale aveva annullato la votazione. Motivo dell’annullamento era stata un’informazione errata, fornita dal Governo, concernente il numero di coppie interessate al tema. La votazione dovrebbe quindi essere ripetuta, ma il Centro ha deciso di ritirare l’iniziativa per precisare meglio la definizione di coppie. A quelle sposate si aggiungono infatti quelle unite da altre forme di convivenza, proprio per ovviare al motivo per cui il Consiglio federale chiede ora di respingere l’iniziativa per un’imposizione individuale. Essa non fornisce infatti indicazioni sul modo di procedere.

Il messaggio appare però come un

controprogetto all’iniziativa, ma già nella procedura di consultazione si sono potute vedere molte divergenze, a dimostrazione del fatto che su questo tema è sempre difficile ottenere il consenso di una larga maggioranza. Il Consiglio federale si mantiene comunque fedele alla linea scelta con i «parametri» proposti in fase di consultazione, per cui le divergenze citate torneranno a manifestarsi, anche se, di principio, una maggioranza è d’accordo di sopprimere gli svantaggi delle coppie rispetto alle persone sole.

Il messaggio propone comunque di accettare il principio della tassazione individuale, invece di quella delle coppie. Ma subito dopo nascono motivi di attrito, per esempio quando chiede di applicare il concetto a tutti i livelli statali, cioè federale, cantonale e comunale. Inoltre chiede una modifica della tariffa per quanto concerne l’imposta federale diretta, accompagnata da una deduzione per figli che dovrebbe passare dagli attuali 6700 franchi per figlio a 12’000 franchi, ripartiti in parti uguali tra i genitori.

Già qui nasce un primo inghippo. In realtà la deduzione diminuisce, soprattutto per i genitori con reddito imponibile uguale o quasi, poiché sommata scenderebbe di 1400 franchi. Ma questo è solo uno degli svantaggi della tassazione individuale e concerne solo la Confederazione. Nei Cantoni, infatti, le misure fiscali di tipo

Attualmente

sociale sono molto diversificate. Vi è comunque il pericolo che il nuovo metodo possa spingere uno dei coniugi (in generale la moglie) a rinunciare a un’attività lavorativa e questo proprio in un momento in cui si ha bisogno di occupati indigeni e si vuole promuovere il lavoro delle donne. Non solo, ma il nuovo sistema favorirebbe invece le coppie con alti redditi, poiché per entrambi i coniugi la progressione dell’imposta ricomincia da zero. Per ovviare all’inconveniente il Consiglio federale propone un inasprimento delle aliquote: l’aliquota massima rimane dell’11,5% per persone sole (il concetto di coppia scompa-

re), ma la progressione viene accentuata. Comincia più tardi, ma le aliquote maggiori si applicano prima. L’inizio della tassazione passa da 18’300 franchi a 20’000 franchi, mentre si raggiungerebbe l’aliquota massima a un reddito di 751’100 franchi, invece degli attuali 783’300. In ogni caso le tariffe sono calcolate in modo da provocare una diminuzione dell’imposta federale. Questo provocherebbe minori entrate di circa il 7%, pari a un miliardo di franchi, di cui 800 milioni a carico della Confederazione e 200 milioni a carico dei Cantoni. Come ogni riforma, anche questa provoca beneficiari e perdenti. Il messaggio valuta che i

beneficiari possano essere del 53% del totale, mentre l’11% pagherà più imposte. Il maggior risparmio è a vantaggio delle classi di reddito più alte. Quelle, cioè, con un reddito imponibile di oltre 98’000 franchi vedrebbero diminuire l’imposta, in media di circa 400 franchi. La metà delle classi di reddito più alto pagherebbe però di più. Tra i maggiori beneficiari, rispetto al sistema attuale, vi sarebbero anche le coppie con una separazione dei redditi in misura uguale, tra cui parecchi pensionati. Anche tra le persone sole vi sarebbero più beneficiari che perdenti. Tra questi ultimi vi sono soprattutto le coppie con figli e con un solo reddito, poiché non ci sarà più la riduzione per le coppie.

Anche i Cantoni dovranno usare lo stesso sistema, il che ha già provocato parecchie opposizioni. Vi sarà inoltre un aumento delle spese amministrative. Entreranno infatti 1,7 milioni di dichiarazioni fiscali in più (85’000 nel Ticino). Sarà pure necessario dividere gli importi della sostanza fra le coppie. Per questo i Cantoni, che eseguono già le tassazioni anche per l’imposta federale diretta, chiedono almeno una decina d’anni per adeguarsi. Ma già il dibattito parlamentare non sarà breve, per cui si può dire che la riforma non sarà per domani. Nel frattempo anche il Centro rilancerà la sua iniziativa riveduta, corretta e le discussioni ripartiranno...

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Il Mercato e la Piazza

Swisscom e Vodafone: dal locale al globale

L’intenzione di Swisscom SA di acquistare la Vodafone italiana ha suscitato vivaci commenti nei media svizzeri nel corso delle ultime settimane. In generale il loro tono è prudente, anzi scettico, se non addirittura negativo. Si ricorda la lista dei progetti all’estero di Swisscom che non hanno avuto esito positivo per concludere che, anche questa volta, il rischio dell’operazione potrebbe essere elevato. Ora, se il progetto fosse stato portato avanti da una qualunque azienda privata, nessuno avrebbe avuto qualcosa da ridire. Partecipazioni di aziende della telecomunicazione ad aziende che operano nello stesso campo in altre Nazioni non sono certamente una novità. Ma Swisscom SA non è un’azienda privata qualunque. Anzi, fino all’altro ieri era un’azienda statale, una regia del Governo federale. Faceva parte di quel gruppo di aziende come le FFS che, per essere di fatto

Affari Esteri

monopoli naturali, erano state statalizzate in Svizzera (in tanti altri Paesi europei succedeva lo stesso) nella seconda metà del XIX secolo o all’inizio del XX. Osserviamo che la statalizzazione era giustificata anche dal fatto che, nel campo delle infrastrutture per la comunicazione, queste aziende avevano e hanno a livello nazionale, un’importanza strategica sostanziale in quanto assicurano il cosiddetto fabbisogno di base.

Il mercato della posta e delle telecomunicazioni è stato liberalizzato in Svizzera nel 1997. Prima di allora queste attività, come pure i movimenti in denaro dei conti chèques, erano gestiti dalle PTT, per l’appunto un’azienda dello Stato. Delle tre attività di questa azienda l’unica che realizzava profitti era la telefonia anche in forza di tariffe molto elevate. Con la liberalizzazione le PTT vennero suddivise in due società: Swisscom SA che si occupa, in

primis, della telefonia e la Posta che esplica le operazioni logistiche e gestisce le attività finanziarie di Postfinance. Fino a oggi la Confederazione ha continuato a detenere la maggioranza delle azioni di queste aziende. Nel caso di Swisscom SA si tratta del 51% e rotti del capitale azionario. Siccome Swisscom SA continua a produrre profitti interessanti, anno sì, anno no, la Confederazione, come maggiore azionista, incassa circa mezzo miliardo di franchi di dividendi. Sin dal momento della creazione di queste nuove aziende con statuto privato la questione della proprietà pubblica ha diviso in due il mondo politico elvetico. Ci sono politici che sostengono che, data l’importanza strategica di queste società nel campo delle infrastrutture per la comunicazione e per gli scambi, la quota della Confederazione nel capitale delle stesse non dovrà mai essere inferiore al 50%. Altri

politici invece insistono perché le nuove società diventino a tutti gli effetti aziende private, senza partecipazioni al capitale da parte della Confederazione, o con una partecipazione minima che non consenta alla stessa di creare inciampi al loro sviluppo. Non sorprende quindi che, nello scambio di opinioni attorno all’intenzione di acquistare la Vodafone italiana, oltre ai rischi dell’operazione si discuta in particolare la questione della portata della partecipazione statale al capitale di Swisscom AG. Sì, perché l’espansione all’estero di questa azienda ha nettamente modificato la natura di questo dibattito. Tenendo conto di questa nuova situazione, i sostenitori della sua privatizzazione completa avanzano ora due tipi di argomento. Da un lato sostengono che la partecipazione della Confederazione al capitale non è più sostenibile perché oggi Swisscom SA è un’azienda diversifica-

La Svezia nella Nato e il futuro dell’Alleanza

Dopo quasi due anni dalla prima richiesta di adesione alla Nato, dall’11 marzo 2024 la bandiera della Svezia sarà issata davanti al quartier generale dell’Alleanza atlantica a Bruxelles, la trentaduesima bandiera. Ci è voluto più tempo che per la Finlandia, che aveva iniziato il percorso assieme alla sua vicina, perché la Svezia ha incontrato l’opposizione di Turchia e Ungheria. È stato il Parlamento ungherese alla fine più ostico, per ragioni che hanno a che fare con l’ostilità perenne del premier Viktor Orban rispetto alla Nato e all’Ue, facendo un gran favore a Vladimir Putin. Ma infine l’allargamento c’è stato, ed è una delle vittorie più importanti dell’Occidente. Ancora oggi, a due anni dall’aggressione russa all’Ucraina, persiste tra i putinisti (e i pacifisti) l’idea che la Russia reagisca a una «provocazione» della Nato. Il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, ha

spiegato con un video perché non c’è stata alcuna provocazione. È partito dal 2014, quando si è verificata la prima invasione russa e l’Ucraina era ancora un Paese neutrale (come neutrale erano la Svezia e la Finlandia fino al 2022). Allora lo spazio della neutralità era ampio, ma poi arrivarono nel Donbass e in Crimea gli «omini verdi», ovvero i soldati russi, e l’Ucraina non riuscì più a pensarsi neutrale: doveva difendersi. Ma c’era la «promessa» che fu fatta a Gorbaciov – e che lui stesso ha poi smentito – nel 1990 durante i negoziati sulla riunificazione della Germania: la Nato non si sarebbe mai allargata a est. Era estate, esisteva il Patto di Varsavia e nessuno immaginava che potesse dissolversi, e quindi nessuno si immaginava neppure che potesse esserci un allargamento della Nato a est, dove appunto c’era l’altra alleanza, quella del Patto. In più il funzionamento della Nato è

Il presente come storia

C’è una riflessione di Gramsci che gli storici delle idee ma soprattutto i sociolinguisti amano particolarmente. Questa: «Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di problemi». Considerazione che Rosita Fibbi, Marco Marcacci e Nelly Valsangiacomo hanno messo in esergo al volume da loro curato, Italianità plurale edito da Dadò nella collana «Le sfide della Svizzera». Ma quali sono questi problemi? Precisa Gramsci: «La formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale». La lingua dunque come riflesso di un vasto e articolato movimento sottostante, che dopo aver colonizzato il territorio economico e politico sale ai piani alti, investendo la sfera scolastica, la pro-

duzione culturale, il linguaggio colloquiale. Naturalmente i rapporti erano da intendersi non in senso meccanico ma dialettico, come intreccio di relazioni tra il basso e l’alto e viceversa. Ma che una relazione tra i due piani esistesse era evidente.

Recentemente è tornato sulla «quistione» Christophe Büchi sulle pagine della «NZZ» (14 febbraio 2024), con un articolo dal titolo allarmante: «La Svizzera plurilingue cade a pezzi». L’autore non è un neofita, conosce bene gli inceppamenti degli ingranaggi linguistici, avendo lavorato come corrispondente del giornale sia a Zurigo sia a Losanna. Ha pure avuto occasione di pubblicare un documentato saggio sulle fatiche del coabitare elvetico, uscito prima in tedesco (2000) e poi tradotto in francese, con aggiornamenti, quindici anni dopo (Röstigraben. Das Verhältnis zwischen deutscher und französischer Schweiz;

chiaro: sono i Paesi che chiedono l’ingresso nell’Alleanza, fanno riforme e adattano i loro sistemi militari per soddisfarne i criteri, non c’è mai stata alcuna imposizione da parte dell’Alleanza. Putin sa benissimo sia questo sia che la promessa non c’è mai stata, ma sa anche – dice Kuleba – che ci sono moltissime persone che ci credono e, finché queste esistono, il presidente russo potrà fare la vittima dell’aggressione, ribaltando per l’ennesima volta la verità storica.

La propaganda russa si consolida così, con il revisionismo storico e gli attacchi per destabilizzare la politica e le opinioni pubbliche occidentali. È appena successo con il clamoroso video di quasi 40 minuti dei funzionari militari tedeschi fatto trapelare dall’organo di propaganda più esplicito della Russia, Rt. Il messaggio del Cremlino era duplice: una prova di forza – possiamo ascoltarvi quando vogliamo – e

la dimostrazione della disunità europea, perché nel filmato si discute della riluttanza del cancelliere tedesco Olaf Scholz a inviare il sistema missilistico Taurus in Ucraina. E si può dire che in qualche modo abbia funzionato, perché da allora non facciamo che discutere del ritorno delle spie russe in Europa e degli scambi irosi tra Berlino e Parigi sulla determinazione ad aiutare Kiev, tra fatti e parole. L’allargamento della Nato è una delle rare buone notizie che permettono di contrastare questo senso di forza che la Russia vuole proiettare sull’Occidente, sapendo che molti sono in ascolto. Incombe il possibile ritorno di Donald Trump alla guida dell’America, con i suoi collaboratori – come Steve Bannon, che ora costruisce la seconda stagione del trumpismo dalla sua trasmissione «War Room» – ancora più perentori di lui nel chiedere agli alleati di contribuire alla Nato o di aspettarsi

di

Orazio

ta, con un’offerta di prodotti nel digitale che va ben al di là delle esigenze dell’approvvigionamento di base della Svizzera. Dall’altro osservano che la società è, di fatto, diventata una multinazionale. Essa è infatti presente già oggi sul mercato italiano delle telecomunicazioni con Fastweb. Su questo mercato Swisscom SA ha realizzato, lo scorso anno, un fatturato di 2,6 miliardi di franchi, il che rappresenta quasi un quarto del fatturato della società. Con l’integrazione di Vodafone la quota del mercato italiano nel fatturato complessivo di Swisscom SA dovrebbe salire al 40%. Seguendo quindi l’argomentazione di coloro che vogliono privatizzare completamente Swisscom SA, maggiore è la quota estera del fatturato, sempre meno giustificabile sarebbe la partecipazione della Confederazione al capitale. Attendiamo con interesse ulteriori sviluppi di questo dibattito.

un ritiro americano dall’Alleanza. Ma i partner europei si sono già dati una mossa: per la prima volta nella storia, raggiungeranno il contributo del 2%; dal 2022 c’è stato un aumento annuale pari a 10 miliardi di dollari, e per quest’anno il contributo europeo sarà di 380 miliardi di dollari. Senza l’America il potenziale della Nato è debilitato, ma l’Europa ha già iniziato a fare la sua parte. Poi, certo, le divisioni restano. Le vediamo per la nomina del prossimo segretario generale: c’è un generale consenso attorno al nome di Mark Rutte, attuale primo ministro olandese. Orban però, lo stesso che ha tenuto in sospeso l’ingresso della Svezia, si oppone a Rutte e non lo sosterrà. Per il momento non ha fatto nomi alternativi, ma che il premier ungherese sia l’europeo più amato da Putin e al contempo da Trump, rende questa sua ostilità al rafforzamento e all’unità della Nato esplicita e inquietante.

Mariage de raison. Romands et Alémaniques). Ora è tornato ad occuparsene perché l’apparente quiete linguistica intervenuta negli ultimi anni cela una tendenza che egli giudica insidiosa: la progressiva espulsione – principalmente dalle aule scolastiche ma anche dall’amministrazione pubblica e dall’esercito – di una delle lingue nazionali a beneficio dell’inglese. Pericolo non nuovo, aggiunge, ma che ora viene accolto come una fatalità sia dai romandi che dagli svizzeri-tedeschi. In ambiti sempre più numerosi l’inglese funge ormai da seconda lingua nazionale, sostituendo il francese (nella Svizzera tedesca) e il tedesco (nella Svizzera francese). In pratica si va verso un bilinguismo «lingua locale-inglese», utile nello scambio comunicativo quotidiano, ma dannoso per la formazione delle giovani generazioni (impoverimento linguistico). La «Svizzera bilingue» è già una re-

dialettali locali, impresa che tradisce l’appartenenza a una minoranza interna, spesso poco considerata, oppure discriminata come quella rappresentata dagli immigrati; a loro volta i giovani svizzeri-tedeschi non dovranno più combattere con le trappole dell’ortografia francese… Meno macchinosi risulterebbero anche i lavori parlamentari nella Bundesbern… Ma poi che fine farebbe la Svizzera quadrilingue in questa resa incondizionata all’anglomania? Büchi mette in guardia: un’eventuale corsa verso l’omologazione incrementerebbe l’indifferenza reciproca e alla fine liquiderebbe come zavorra il patrimonio immateriale del Paese, le sue particolarità, le sue tradizioni, le sue ricchezze. Nota finale: per gli svizzeri-italiani e per i romanci la via è tracciata ed è quella di sempre, ovvero imparare le lingue degli altri. È destino, una questione di sopravvivenza. Martinetti

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 11 marzo 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 31 ATTUALITÀ / RUBRICHE ◆ ●
di Paola Peduzzi
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di Angelo Rossi
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altà negli agglomerati urbani, nel settore bancario-finanziario, negli uffici delle multinazionali, nelle università e nei due politecnici federali. I centri di ricerca comunicano e redigono i loro rapporti in inglese. In questo Gramsci, nei suoi Quaderni del carcere, aveva visto giusto: la fortuna/sfortuna di una lingua è largamente frutto di rapporti di forza, economici e politici. Il processo di globalizzazione ha mosso i suoi passi in contesti anglofoni, così come la parallela marcia trionfale della rivoluzione digitale. Sempre più famiglie sono dell’opinione che nell’iter formativo non sia utile e vantaggioso, come si è sempre fatto finora, anteporre all’inglese lo studio di una seconda lingua nazionale. Certamente promuovere l’inglese a koiné nazionale ha i suoi vantaggi. A Zurigo, Berna o Basilea romandi e ticinesi non dovranno più misurarsi, sudando e penando, con le varianti
Verso una Svizzera bilingue?

PIACERE MIELE

Il miele, un miracolo della natura

A volte è chiaro, a volte scuro, a volte solido, a volte liquido e si può conservare praticamente per un tempo illimitato

Testo: Claudia Schmidt

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 11 marzo 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 32

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Da dove viene il nome?

La parola miele deriva dal latino mel che a sua volta ha origine dalla radice «mal-» che significava essere molle, morbido, piacevole.

Come viene prodotto?

Il miele è composto dal nettare dei fiori e da enzimi aggiunti dalle api. Nell’alveare le api succhiano ripetutamente il nettare portato a casa dalle altre api e poi lo «sputano» di nuovo finché non raggiunge la giusta consistenza. Il miele viene poi conservato nei favi e sigillato con uno strato di cera. Serve come cibo per le api durante la stagione fredda.

Il favo, un miracolo spaziale

Il favo ha una forma ottimale per offrire il contenitore più grande possibile per il miele con il minor materiale possibile. Un favo con una superficie di 10 cm 2 pesa solo 12 grammi circa, ma offre spazio per 350 grammi di miele.

Per quanto si conserva?

In condizioni perfette, il miele non è praticamente deperibile. Gli archeologi ne hanno le prove. Hanno trovato un miele che aveva circa 3000 anni ed era ancora buono. Il miele deve la sua conservabilità quasi illimitata al suo basso contenuto di acqua combinato con un’alta concentrazione di zuccheri e speciali enzimi prodotti dalle api. Questo impedisce a batteri e funghi di proliferare. Si deve fare attenzione a conservare il miele in un luogo fresco, asciutto e buio.

Cosa contiene il miele?

Il miele è l’unico alimento che contiene tutte le sostanze importanti di cui le api hanno bisogno per sopravvivere durante l’inverno: proteine, carboidrati, vitamine, sali minerali e acqua.

Da dove vengono i colori?

Al momento della centrifugazione il miele è liquido. In seguito inizia a formare dei cristalli. La cristallizzazione può essere contrastata mescolando il miele per affinare i cristalli. In questo modo si ottiene una consistenza cremosa. Inoltre, poiché i cristalli fini riflettono meglio la luce, il miele cremoso ha un colore più chiaro.

Come liquefare il miele cristallizzato

Il miele cristallizzato può tornare nuovamente liquido. Basta mettere il vasetto di miele a bagno in acqua calda. A seconda del grado di cristallizzazione del miele, potrebbe essere necessario ripetere il processo più volte.

Le varietà di miele

Se le api trovano il nettare di un fiore in un luogo, vi rimangono finché c’è nettare. Se le arnie sono collocate vicino a campi di lavanda, ad esempio, le api raccolgono il nettare dai fiori blu-viola. Il miele di un’unica varietà, nel nostro esempio il miele di lavanda, si ha quando almeno il 60% del miele proviene da una determinata pianta. Questo può essere verificato analizzando al microscopio i tipi di polline presenti nel miele.

Un mezzo di pagamento

Il miele è stato trovato in molte camere funerarie dell’Antico Egitto. Era un cibo degli dei, ma aveva anche un significato speciale nella vita quotidiana: si dice che il miele fosse anche un mezzo di pagamento. Ci sono indicazioni che alcuni funzionari dello stato venissero pagati con il miele.

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CULTURA

Dare la vita

Colorato nella grafica e nella sostanza, il libro postumo di Michela Murgia è coraggioso

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Con il jazz verso lo spazio Intervista al chitarrista Christian Zatta alla guida di un progetto affascinante con i NOVA

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La guerra che non finisce Ypres, città martire della Prima guerra mondiale, e Remarque sono al centro del film di Victor Tognola

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Early Birds

Il thriller di Michael Steiner è il primo lungometraggio svizzero che vede la coproduzione di Netflix

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Il surrealismo al Monte Verità tra funghi e poesia

Interviste ◆ Con il direttore artistico Stefan Zweifel ci tuffiamo nei mondi surreali di questa edizione degli Eventi letterari

Natascha Fioretti

«Michael Lentz che ha appena scritto un libro di poesie dalle liriche complesse e anagrammatiche, in parte caratterizzate da una grande potenza ottica, è uno dei maggiori specialisti della poesia fonetica in pieno stile surrealista e dadaista». Artista della parola e del suono, sassofonista originario di Düren, un paesino del Nordreno-Vestfalia, Michael Lentz – cosi ci dice Stefan Zweifel, direttore artistico degli Eventi Letterari (nella foto sotto) – sarà tra gli ospiti della prossima edizione in programma dal 21 al 24 marzo 2024 al Monte Verità. Un’edizione che ha una chiara impronta surrealista e che promette – basta dare uno sguardo al cartellone – di non essere come le altre o meglio, come dice Zweifel, «di non seguire la classica impronta del festival letterario che ci ha abituati ad ospitare solo quegli autori che hanno delle novità editoriali da presentare. Mondi Surreali – Campi magnetici, questo il titolo che abbiamo scelto per quest’anno, sarà invece l’occasione per riunire tanti autori che non hanno necessariamente nuove uscite da promuovere e vederli discutere attorno a questioni legate all’attualità culturale, sociale e politica». Tutto questo lasciandosi ispirare dalle atmosfere irrazionali e oniriche di quel movimento artistico e letterario d’avanguardia nato a Parigi negli anni Venti per il quale l’arte deve suscitare emozioni ma deve anche influenzare e modificare la realtà politica. L’arte nella sua manifestazione più alta modifica la consapevolezza, lo sguardo dello spettatore e anche la coscienza della società.

Se di primo acchito la scelta del tema e lo sguardo rivolto al passato –come a dire che oggi non abbiamo lo stesso grado di sostanza, spirito, vivacità e intraprendenza culturale – possono suscitare qualche perplessità, è vero anche che tanti sono i parallelismi e di riflesso gli spunti di riflessione che possono nascere dall’incontro di due epoche diverse. «Quando nell’autunno del 1924 uscì il manifesto surrealista scritto da André Breton, il mondo aveva già conosciuto la Prima guerra mondiale e altri conflitti erano in corso. L’arte come deve rispondere alla guerra? Si chiedevano i surrealisti. Per gli esponenti del dadaismo zurighese la risposta era chiara: bisognava distanziarsi da quella cultura che non aveva saputo evitare la guerra – la cultura di Goethe e di Voltaire per intenderci – che aveva sulla coscienza tutti quei soldati morti sul campo».

Un primo importante elemento di rottura con il passato per accogliere il nuovo mondo che i surrealisti volevano plasmare e abitare è rappresentato dalla lingua. «I surrealisti ritenevano la parola e la lingua corresponsabili di quel mondo che ragionava secon-

do criteri razionalistici, economici e bellicosi. Bisognava dunque scardinare, rompere con la lingua del passato e trovare parole nuove, nuove forme di espressione nella poesia fonetica». Ecco allora che nel solco del gioco lessicale e onomatopeico accostato alla forza del’immagine e del visivo, nel confluire di generi e nell’erosione di barriere, in un programma che guarda più a nord che a sud, in questa edizione c’è molto spazio per la poesia. A partire dall’austriaco Raoul Schrott, classe 1964, scrittore e poeta che ha la particolarità di essere stato il segretario di Philippe Soupault, ultimo surrealista vivente e autore del testo di riferimento sul dadaismo, fino ad Ann Cotten, classe 1982, nata in Iowa, oggi in movimento tra Vienna e Berlino, conosciuta per la sua lirica speri-

mentale che confluisce nella prosa – e viceversa – che sabato 23 marzo alle ore 18:30 sarà ospite dell’incontro S-Confinata! E poi, ancora, parteciperà alla tavola rotonda di domenica 24 marzo alle ore 15:00 dal titolo Il no radicale. Un incontro che vedrà protagonisti anche Tom McCarthy, nato a Londra, di casa a Berlino, considerato uno scrittore post-postmodernista, membro di un collettivo di avanguardie artistiche; Yvan Sagnet – attivista e scrittore camerunense – e Milo Rau – drammaturgo, autore e regista cinematografico – autore del film Il nuovo Vangelo che sarà proiettato il 13 marzo alle 20:30 al Cinema Otello negli appuntamenti del pre-festival. Cimentandosi in generi diversi – McCarthy nella narrativa, Rau nel teatro – entrambi utilizzano la tecnica del reenactment ossia della riproduzione di fatti storici con attori non professionisti che recitano nei luoghi storici dell’accaduto. «Ci sono fatti, accadimenti del passato – dice Stefan Zweifel – che riteniamo importanti e per questo vogliamo riportare in vita, ri-raccontare, rimettere in scena. Non si tratta però di una semplice replica ma di una presa di posizione nei confronti di eventi o catastrofi politiche resa possibile dal linguaggio e dalle tecniche del teatro con l’intento di riportare un fatto particolare all’attenzione del pubblico». McCarthy in Déjà-vu. Il romanzo dei ricordi perduti ( I Libri di Isbn/Guidemoizzi, 2008) racconta di un uomo senza nome che

perde la memoria e non se ne cura finché non vive un intenso Déjà-vu. Da lì in poi – per riuscire a ricordarsi –come in un grande teatro dell’assurdo – inizia a mettere in scena le sue visioni ricostruendo vie, case e impiegando diversi attori.

Classe 1967, zurighese, traduttore e critico letterario, curatore di mostre sul dadaismo e sul surrealismo, con il tema scelto quest’anno si può dire che Stefan Zweifel giochi in casa. La sua direzione artistica appare chiara anche per l’attenzione ai mondi germanofoni e francofoni in particolare ma anche anglofoni. Ad iniziare da Merlin Sheldrake che aprirà le danze giovedì 21 marzo alle 19:00 al Palacinema di Locarno. Biologo, studioso delle reti fungine sotterranee nelle

Con «Azione» agli Eventi

«Azione» mette in palio alcuni biglietti per l’incontro con la scrittrice italiana Claudia Durastanti dal titolo «La forza ammaliante del futuro» in programma venerdì 22 marzo alle 19.00 al Monte Verità. Modera

Sandra Sain.

Per partecipare al concorso inviate una mail a giochi@azione.ch, oggetto «Surrealismo» con i vostri dati (nome, cognome, indirizzo, no. di telefono) entro domenica 17 marzo alle 24.00).

foreste panamensi per lo Smithsonian Tropical Research Institute, ha scritto L’ordine nascosto. La vita segreta dei funghi (Marsilio, 2020) da cui citiamo questo breve passaggio: «I funghi sono ovunque, ma è facile non notarli. Sono dentro e fuori di noi. Anche mentre leggete questo libro, stanno modificando il flusso della vita, come fanno da milioni di anni».

Se la difficoltà dei festival letterari è quella di avere una propria coerenza tra titolo, appuntamenti e ospiti, nel caso dei funghi di Merlin Sheldrake l’associazione e il gioco di rimandi alla dimensione onirica e folle dei surrealisti conquistata con le droghe pare esplicita. E Zweifel cita Arthur Rimbaud: «Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente attraverso una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi».

Abbiamo presentato solo alcune delle voci che saranno protagoniste al Monte Verità, non mancheranno anche gli autori e le autrici di lingua italiana come Claudia Durastanti che venerdi 22 marzo parlerà de La forza ammaliante del futuro riflettendo sul nostro tempo a partire dal suo recente lavoro Missitalia (La Nave di Teseo, 2024), un’opera di fantasia in cui le donne sono protagoniste.

Dove e quando

Eventi letterari Monte Verità, dal 21 al 24 marzo 2024.

www.eventiletterari.swiss/it

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Indomabile Irmgard Keun

Pubblicazioni – 1 ◆ Una serie di vivaci interviste racconta la scrittrice tedesca

Luigi Forte

Fu un successo inaspettato e travolgente. Il romanzo di Irmgard Keun, Gilgi, una di noi del 1931 diede fama e notorietà a una giovane borghese nata a Berlino nel 1905, poi cresciuta a Colonia, che aveva fatto i suoi primi passi in teatro e sognava grandi ruoli. L’anno dopo usciva La ragazza di seta artificiale, che pubblico e critica accolsero con altrettanto favore, la cui protagonista, Doris, appena giunta nella capitale, è affascinata dallo sfavillio del Westen, dove incontra uomini chic e signore eleganti a passeggio sul Ku’damm (il viale di Berlino Kurfürstendamm). La sua ingenuità fa tutt’uno con l’entusiasmo per l’illusoria kermesse di quella metropoli indifferente al destino dei suoi abitanti.

La Keun, quasi cercasse risposte alla propria esistenza, evoca giovani donne alla ricerca di un futuro e di un’identità e si afferma come sensibile interprete di crisi esistenziali. Quei personaggi infatti sono la rappresentazione di un disincanto epocale che caratterizza lo squilibrio di un intero Paese. Ma al tempo stesso danno voce e slancio all’emancipazione femminile attraverso nuove figure professionali, sveglie e ambiziose, alla ricerca di un’identità sociale. Una prospettiva perseguita con determinazione fino alla fine, fra entusiasmi e profonde crisi, successi e sconfitte, come ha raccontato lei stessa, a partire dal 1977 quando fu riscoperta dopo un lungo silenzio, in una serie di interviste per lo più radiofoniche che L’orma editore propone, tradotte da Eleonora Tommasini, nel volume Non sono mai stata il mio tipo a cura di Heinrich Detering e Beate Kennedy. Tra l’altro la casa editrice indipendente romana che pubblica anche il Gran premio svizzero di letteratura Frédéric Pajak riceverà il Premio Enrico Filippini agli Eventi Letterari Monte Verità il 23 marzo alle ore 10.30.

Le parole di Irmgard Keun ci proiettano nella favolosa e spesso drammatica atmosfera degli anni weimariani, quando furoreggiava come scrittrice satirico-umoristica accanto a nomi come Kästner e Tucholsky, incoraggiata a scrivere da Alfred

Döblin e più tardi affascinata da Joseph Roth con cui visse un paio di anni in giro per l’Europa per poi rifugiarsi a Parigi, dove lo scrittore morì nel 1939. Ma l’esilio tra Bruxelles, Ostenda e Amsterdam, fu dapprima per lei meraviglioso, circondata, com’era, da splendidi colleghi come Kisch e la moglie Gisela, Arthur Koestler, Stefan Zweig e lo stesso Roth, di cui fa un intenso ritratto, anche se non esita a lasciarlo «con un profondo sospiro di sollievo» per un ufficiale della marina francese con cui va a Nizza. Ma poi, alla notizia della sua morte, gli scrive una poesia in cui riecheggiano ancora i sentimenti di un tempo: «Il dolore, amico mio – vi si legge – rende ogni suono vano, / dove sei, amico mio, voglio ritrovarti com’eri».

L’auticre sembra trasformarsi a tratti, sullo sfondo di terribili eventi storici, in una di quelle sue lontane e indomabili ragazze che osservavano la vita con lo stupore e la curiosità della giovinezza

Imprevedibile e inafferrabile, Irmgard Keun attraversa il Novecento tra entusiasmi e depressioni, conosce la fama e l’oblio totale, viene interrogata dalla Gestapo e fugge in esilio, torna con documenti falsi in Germania, aiutata anche dai suoi, durante la guerra negli anni 1940-45, e vive in clandestinità tra la Renania e la Baviera. Per fortuna sulla stampa internazionale uscì la notizia che si era tolta la vita in Francia con lo scrittore Hasenclever e, a questo punto, i nazisti la depennarono ritenendola morta.

Poi, nel dopoguerra, vittima dell’alcolismo, viene internata per lunghi anni nel padiglione psichiatrico dell’ospedale statale di Bonn. Ma intanto sì lascia alle spalle alcuni romanzi, fra cui Dopo mezzanotte, inquietante rappresentazione della vita e dei bisogni della gente comune durante il nazismo, e l’ultimo, Ferdinand, l’uomo dal cuore gentile, un personaggio incapace di venire a patti con

Scrivere veloce, senza respiro

Pubblicazioni – 2

Il libro postumo della Murgia colpisce per il coraggio dell’autrice

«Desidererei scrivere ora, qui, pagine e pagine, ricordare tutto, dedicare un libro intero e più lungo di quello che state leggendo a un racconto così importante. Mi mancano però le risorse, il tempo soprattutto. Cambierò passo, andrò più veloce proprio dove dovrei soffermarmi. Gli abissi e i bagliori che agiteranno i prossimi paragrafi sono però solo increspature sulla superficie di un corpo d’acqua che nel mio cuore, prima che nel mio cervello, è sempre stato cristallino». Il libro postumo di Michela Murgia è colorato (come il dettaglio di copertina nella foto), nella grafica e nella sostanza; ma è soprattutto un libro che colpisce per un particolare coraggio della sua autrice: quello di scrivere con fretta a proposito di temi che di fretta non potrebbero averne. Ed è quindi anche un ambizioso esercizio compositivo dedicato all’impegno e alle sue forme pubbliche, prodotto nei periodi di mancanza di fiato di cui sappiamo.

la realtà. Un po’ come lei stessa che in queste interviste veleggia libera attraverso gli anni e si sottrae a qualsiasi definizione. Come ricorda Heinrich Detering nella postfazione, le conversazioni tendono a trasformarsi in letteratura e la scrittrice sembra giocare con il proprio personaggio, con un tocco talvolta di esilarante civetteria. Non si sopporta, è pigra e incoerente, fifona e senza prontezza di spirito, ma sensibile ai complimenti. C’è materia per costruire un’originale figura aliena a ogni forma di condizionamento e pronta a dichiarare di essere sempre stata emancipata e libera. Al punto da non accettare la definizione di femminista: rifugge infatti da qualsiasi categorizzazione così come vede la propria patria ovunque e in nessun luogo. Non è solo fuggita da se stessa, come qui casualmente ammette, ma spesso anche da rapporti sanzionati e definiti. Come quando lasciò, andando a Ostenda, il marito Johannes Tralow, scrittore e regista teatrale, che simpatizzava per i nazisti. Ma poi come sciogliere il matrimonio? Fu Roth, il nuovo compagno, a consigliarla, mandagli un telegramma: «Vado a letto con negri ed ebrei», e vedrai come si decide a divorziare! Proprio da queste vivaci interviste nasce un abbozzo di quella biografia che Irmgard Keun non riuscì mai a scrivere, ma che qui diventa una sorta di messinscena, un itinerario quasi picaresco fra storie rocambolesche e strabilianti. E la scrittrice sembra trasformarsi a tratti, sullo sfondo di terribili eventi storici, in una di quelle sue lontane e indomabili ragazze che osservavano la vita con lo stupore e la curiosità della giovinezza. E forse non è un caso che, anche stavolta, non voglia essere individuata, perché, come ha deciso: «Non sono mai stata il mio tipo».

Bibliografia

Irmgard Keun, Non sono mai stata il mio tipo. Dialoghi al posto di un’autobiografia, a c. di Heinrich Detering e Beate Kennedy, traduzione di Eleonora Tomassini, Roma, L’orma editore, 2024.

Quest’opera è un notevole lavoro, o lavorio, sulle parole, sul loro uso e sulla loro importanza dall’espressione stato interessante a queer

Nei contenuti, questo Dare la vita è un ragionamento, qua e là anche piuttosto assertivo, dedicato alle forme della filiazione, a quali valenze il verbo avere possa assumere nel sintagma avere figli. E anche alla considerazione della questione se il legame di sangue sia davvero imprescindibile nel definire un vincolo famigliare; se cioè un figlio per dirsi figlio o una figlia per chiamarsi tale debbano o meno essere stati o state generate per le vie naturali da una famiglia dotata del corredo «papà uomo, mamma donna» (insomma, è chiaro).

Certo il dibattito è infinito e non lo risolve un volume ottimo ma breve; nella discussione le posizioni opposte sono rispettabili ma sono anche cocciute e non di rado reciprocamente sorde. E c’è poi un altro aspetto cui volgere lo sguardo, più di fondo: spetta agli scrittori prospettare il bene della società e porre rimedio al male del mondo, qualsiasi esso sia e sempre ammesso che esso lo sia? (La risposta

è tra parentesi: forse no; ma, sappiamo, il problema è affrontato da Walter Siti nel suo meraviglioso – spesso gli scritti di Walter Siti sono pieni di grazia e meraviglia – Contro l’impegno, Milano, Rizzoli, 2021). Questo libro è infine un notevole lavoro, o lavorio, sulle parole, sul loro uso e sulla loro importanza: dall’espressione stato interessante a queer, ma anche a famiglia, a madre, a padre. Non si sbaglierà dicendo che l’attenzione costrittiva e poco tollerante alle parole e al loro uso adeguato è una premura che riguarda questa nostra modernità e in particolare quando a parlare siano le avanguardie della cura per un vivere armonico nei generi, del rispetto di forme affettive e sessuali alternative e dell’invito a stare lontano da razzismi e atteggiamenti socialmente inammissibili. Potrà sembrare strano che il lessico delle nuove libertà sia così chiuso entro significati letterali e usi raccomandati, per non dire dell’attenzione così fiscale e sanzionatoria nei confronti della grammatica rispettosa; del genere, dell’origine delle persone, delle comunità del disagio sociale e fisico che sia. Il trasferimento dei valori sulla lingua è un altro dei segni di questi tempi: il linguaggio pare essere diventato un utensile investito di responsabilità che vanno ben al di là delle intenzioni dei parlanti: posso fare del male anche se non lo so, usando male le parole della mia lingua.

I ragionamenti dell’autrice hanno infine il tono perentorio, fermo e definitivo del testamento. Ingrata forma, per temi che avrebbero meritato la sua riconosciuta sollecitudine e che assumono qui purtroppo la forma limitante dell’apprensione e dell’asserzione sommaria. Le voci in campo, come detto, spesso non si ascoltano le une con le altre, ma una parte è indubbiamente più flebile, perché non certificata da tradizioni religiose e dogmatismi politici, perché non sostenuta dall’abitudine dei costumi e da ultimo perché pregna di una sostanza nuova e per molti ancora misteriosa, talmente sconosciuta da generare quasi naturalmente il sentimento della paura. Dunque, leggiamo questo libro.

Bibliografia

Michela Murgia, Dare la vita, Milano, Rizzoli, 2024.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 11 marzo 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 37
Keystone

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Il jazz che guarda verso lo spazio

Intervista ◆ Christian Zatta, che sarà in concerto a Lucerna il 22 e il 23 marzo, ci racconta della sua musica e dei suoi progetti

Alessandro Zanoli

Giovane chitarrista ticinese che vive a Zurigo, Christian Zatta fa parte della nutrita schiera di nostri musicisti che hanno trovato oltralpe spazio e orecchie per la propria attività concertistica. Nel suo caso, dopo la frequentazione della Facoltà di jazz all’Hochschule di Lucerna, Zatta ha scelto una dimensione espressiva non solo jazzistica. Il suo stile è molto originale e dà forma a un linguaggio articolato, con brani dall’architettura complessa, a cavallo tra rock, jazz e musica sinfonica. Ne abbiamo parlato con lui.

I tuoi brani sembrano piccoli movimenti di una suite…

Nel trio io sono il compositore, però la versione finale dei brani è comunque un lavoro di gruppo in cui ognuno ha molta libertà, le idee e le proposte di tutti sono sempre benvenute. Più si ha libertà e apertura mentale, più il lavoro finale è migliore.

Da qualche tempo suonate con filmati proiettati alle vostre spalle, addirittura all’interno di planetari…

I NOVA (nell’immagine mentre si esibiscono sul palco) sono nati con l’intenzione di proporre sempre spettacoli audiovisivi. La componente visiva è dunque stata fondamentale sin dall’inizio. Il fatto che poi si sia concretizzato con proiezioni all’interno di planetari astronomici è un complemento arrivato dopo due anni di attività e molte riflessioni. All’inizio pensavamo solo a concerti con proiezioni video tradizionali: i materiali originari erano tratti da documentari e cartoni animati storici open-source trovati sul web. Il primo disco dei NOVA era un concept album , in cui i pezzi e i filmati narravano un’unica storia dall’inizio alla fine. In seguito, quando abbiamo iniziato a suonare

nei planetari, abbiamo cominciato a usare video originali creati apposta per ogni singolo brano, collaborando con alcuni visual artist di Zurigo e Berna. Inoltre abbiamo anche la fortuna di poter utilizzare alcuni filmati originali a 360° della NASA.

Di cosa parla The persistence of mistery, il vostro ultimo disco? Il tema principale dell’album, come dice il titolo, è “la persistenza del mistero”. Questa volta i brani sono ispirati principalmente da fenomeni astronomici che non capiamo completamente o che sono un paradosso. Questi fenomeni per me rappresentano le continue sorprese che la vita ci riserva. Le aspettative vengono molto spesso sostituite dalla realtà e quando ciò accade, bisogna rivedere le proprie convinzioni e trovare nuove soluzioni. L’idea di tradurre in musica riflessioni attorno a fenomeni astronomici o scientifici che sfuggono alla nostra comprensione mi affascina molto. Mi piace lavorare ai limiti delle nostre conoscenze intellettuali e musicali. D’altro canto sono da sempre anche un appassionato di fantascienza. Grazie a mio padre sono cresciuto guardando le puntate di Star Trek. Credo che l’interesse per l’astronomia sia iniziato proprio per questa ragione.

Un modo fantascientifico di concepire la tua musica, quindi?

Attualmente la mia ispirazione musicale viene principalmente dalla musica classica. Con il passare degli anni è diventata un’influenza sempre più importante. Per quanto riguarda i compositori non classici, mi piace molto il pianista Tigran Hamasyan, un musicista che unisce metal e jazz alla musica tradizionale armena. Mi piace stimolare l’immaginazione e accompagnare chi ascolta in un viaggio musicale vero e proprio. Sono convinto che quando

un brano ha una sua «personalità» sa catturare l’attenzione senza difficoltà. Se non ci riesce, c’è da rifare qualcosa.

Ma il tuo mondo musicale di riferimento è più jazzistico o classico?

Da ragazzo ascoltavo e suonavo principalmente rock classico e progressive rock. Quello del rock insomma è un vocabolario che conosco: da bambino ero innamorato dei Metallica e da teenager un grandissimo fan dei Dream Theater. La chitarra che ho suonato come strumento principale per diversi anni è un modello John Petrucci, il loro chitarrista. Poi più tardi la mia formazione musicale jazz, a Lucerna e a New York, mi ha fatto ampliare molto il vocabolario musicale e la visione artistica. L’attitudine fondamentale dei NOVA è jazzistica al 100 per cento.

Come ci si differenzia sul mercato, un mercato in cui si muovono molti altri giovani musicisti?

Con questa scelta di esibirci in luoghi diversi e di illustrare la nostra

NOVA

musica con visuals cerchiamo proprio di differenziare la nostra proposta artistica. Il compito di ogni musicista alla fine (viste anche le difficoltà per emergere) è dire qualcosa di proprio, qualcosa che ti contraddistingua, ma che sia sincero. Penso alla storia del jazz: chi è emerso ha saputo uscire con qualcosa di proprio, personale, magari non di nuovo, ma qualcosa che rispecchiava la sua personalità. All’inizio della carriera non è però una cosa facile. C’è una specie di conflitto tra la necessità di imparare le tecniche della tradizione, ma allo stesso tempo cercare di allontanarsene. L’ideale sarebbe di riuscire a fare entrambe le cose, specializzandosi sempre di più con il passare del tempo.

Un trio è una piccola formazione che ha vantaggi e svantaggi… Ho avuto per tanto tempo il desiderio di suonare in trio, ma dovevo prendermi la responsabilità di fare questo passo, perché suonare in trio è probabilmente la seconda cosa più difficile da fare come chitarrista (do-

po la performance completamente da solista). Questo tipo di format mi piaceva perché aiuta molto a essere creativi: bisogna capire come fare per avere un suono pieno, ma contemporaneamente si può essere anche minimalisti. Mi piaceva il fatto di avere questa apertura e di dover trovare soluzioni creative per gli arrangiamenti. In un trio ognuno ha una parte fondamentale e tutti lavorano al limite delle possibilità. In questo contesto ognuno ha molta libertà, ma anche molta responsabilità.

Progetti futuri?

Abbiamo iniziato una collaborazione con un’orchestra di musica da camera, la Sinfonietta di Lucerna. Suonare e arrangiare le mie composizioni con un’orchestra è un mio sogno da sempre. Suoneremo nella sala multimediale «Moderne» a Lucerna. Lì i visuals verranno proiettati su tutte le superfici mentre noi ci esibiremo dal vivo. Ci saranno due serate, venerdí 22 e sabato 23 marzo. Per la seconda data organizzeremo un bus che sabato nel tardo pomeriggio partirà dal Ticino e che riporterà tutti a casa direttamente dopo il concerto. Saranno due serate indimenticabili. Suoneremo sia pezzi nuovi che brani dei dischi precedenti.

Il tutto riarrangiato per band e 15 musicisti classici.

Quando ti vedremo in Ticino?

Per una data con questo progetto in Ticino non posso ancora rivelare nulla, ma siamo in trattativa e spero di poter annunciare qualcosa al più presto. Posso anticipare che a maggio saremo di in tour e martedì 7 maggio suoneremo in diretta radio e streaming agli studi radiofonici di Besso, per la trasmissione Musica viva di Rete Due. Non ci sarà pubblico in sala ma si potrà ascoltare o guardare in diretta la performance dal vivo.

Una narrazione difficile e quasi dimenticata

Documentari ◆ Olmo Cerri ripercorre i passaggi essenziali della storia di Bruno Breguet che negli anni 70 scelse la lotta armata

Giorgio Thoeni

La generazione che ha vissuto più intensamente le stagioni del confronto ideologico ricorderà la spinta emotiva generata dalle idee rivoluzionarie che hanno accompagnato la fine degli gli anni 60 e buona parte dei 70 nell'utopica speranza di un mondo migliore. L'atmosfera politica che regnava in Europa era infatti piena di fermenti e dibattiti: dal movimento studentesco alla lotta di classe, la guerra del Vietnam, i focolai di guerriglia in America Latina, il pacifismo, l'antimperialismo, il terzomondismo, l'internazionalismo, le lotte di liberazione, l'operaismo, l'avvento del femminismo.

Tantissimi giovani si inserirono in un acceso confronto e in un coinvolgimento diretto dove i confini tra gli ideali di uguaglianza, di libertà e l'estremismo erano sottili, tortuosi e fragili, fra contestazione e integralismo intellettuale si creavano spesso situazioni spinte all'esasperazione.

Uno scenario che la Storia ha conosciuto fino a pochi decenni fa e che purtroppo ha aperto le porte alla strategia della tensione, allo stragismo,

agli anni di piombo. Un periodo che per molti, troppi aspetti, si è infarcito di episodi tristemente famosi, che hanno causato molte vittime e episodi violenti ancora oggi sotto la lente dell'analisi politica, sociologica e culturale. Che hanno coinvolto anche la realtà e la sensibilità dei giovani di casa nostra.

È con la ristampa del libro La scuola dell'odio. Sette anni nelle prigioni israeliane (Redstar Press, 2015) che l'interesse del regista e documentarista Olmo Cerri viene attratto dalla figura di Bruno Breguet (nella foto), liceale locarnese, appena ventenne e protagonista di una storia che sembrava essere finita nell'oblio sebbene in un certo senso è emblematica di una generazione. Per ricostruirla inizia così una lunga e non semplice ricerca su una vicenda per molti aspetti ancora avvolta dal mistero e destinata ad essere dimenticata o rimossa ma che Cerri decide di ripercorrere con La scomparsa di Bruno Breguet, un documentario che è stato presentato alle recenti Giornate del Cine-

ma di Soletta nella sezione Visioni. La voce narrante del regista luganese accompagna immagini, filmati e documenti d'archivio, interviste alle persone che gli sono state più vicine fra amici, compagni di lotta e esperti, con la rivisitazione di luoghi a lui legati e diverse sequenze girate in Super8 che aggiungono al racconto il fascino di immagini sgranate, che ormai appartengono al passato.

Breguet, giovane militante, agli inizi degli anni 70 finisce sotto i riflettori dei media per essere stato incarcerato in Israele dopo essere stato fermato nel porto di Haifa con addosso una cintura d’esplosivo destinato a un attentato dimostrativo in favore della causa palestinese.

Ma come c'è arrivato e perché? Sono domande a cui Cerri cerca di dare risposte accanto alle fondamentali ragioni strettamente legate a un personaggio scomodo, alimentato da quell'urgenza di voler cambiare il mondo, una fame di rivoluzione molto presente nel mondo giovanile di quegli anni e per certi versi un sogno ancora attuale ma certamente

distante da quelle forme di ribellione estreme e, talvolta individuali, difficilmente condivisibili.

È un tema profondo e esistenziale quello con cui il regista si confronta e riflette mentre scorre una narrazione che ricostruisce i passaggi essenziali della storia di Bruno Breguet che negli anni 70 sceglie di convogliare i suoi ideali di giustizia sociale e il suo impegno politico verso la lotta armata. Un obiettivo che sottolinea d'al-

tronde anche nelle prime pagine del suo diario dal carcere: la tematica della fame fu l'elemento concreto che provocò la mia sensibilizzazione politica e che mi fece considerare l'inevitabilità di una lotta armata per la realizzazione del socialismo Al centro della mobilitazione di Breguet c'è quella fame e quell'ingiustizia che colpisce gran parte del popolo palestinese, la lotta contro il sionismo con il fronte di liberazione. Un percorso insidioso che lo conduce presto in carcere, poi lo porterà ad avere contatti molto stretti con il terrorismo internazionale (in particolare con il famigerato Carlos), con i servizi segreti, con la CIA.

Un percorso segnato da alterne vicende fino al 1995, anno della sua scomparsa, avvenuta misteriosamente.

Una storia di memoria, complessa e difficile da raccontare ma realizzata con perizia e onestà intellettuale, un film dal passo avvincente scritto partendo dal punto di vista di un realizzatore che ha una visione del mondo, dalle parole di Olmo Cerri, non così diversa dalle persone che ho intervistato. Con le dovute proporzioni, naturalmente

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Victor Tognola e la guerra che non finisce mai

Cinema ◆ A Ypres, città martire della Prima guerra mondiale, e a Remarque è dedicato il documentario in anteprima al CineStar

Ci sono guerre che non finiscono mai. Passano gli anni e i decenni, passa addirittura più di un secolo e hanno ancora in serbo sorprese letali per i discendenti di chi combatteva al fronte quattro generazioni fa. È il caso delle cinque battaglie di Ypres, in Belgio, avvenute tra il 1914 e il 1918, lungo tutta la durata della Prima guerra mondiale. La cittadina, che venne ridotta in calcinacci e cenere, fu di fatto il centro nevralgico dell’orrore quasi metafisico di quel primo conflitto planetario, fissato nella memoria collettiva dal romanzo Niente di nuovo sul fronte occidentale dello scrittore e sopravvissuto di guerra Erich Maria Remarque, baciato dal successo ma irreversibilmente marchiato dal trauma di quell’esperienza. E chi non lo sarebbe stato, al posto suo? «Vediamo vivere uomini a cui manca il cranio», scrive nel suo capolavoro, «vediamo correre soldati a cui un colpo ha falciato via entrambi i piedi e che incespicano, sui moncherini feriti, fino alla buca più vicina; un caporale percorre due chilometri sulle mani, trascinandosi dietro le ginocchia fracassate; un altro va al posto di medicazione premendo le mani contro gli intestini che traboccano; vediamo uomini senza bocca, senza mandibola, senza volto; troviamo uno che da due ore tiene stretta con i denti l’arteria del braccio per non dissanguarsi; il sole si leva, viene la notte, fischiano le granate, la vita giunge al termine».

Nel gioco di rinvii fra le citazioni di Remarque e le immagini originali in bianco e nero, sembra di essere ancora lì, nelle trincee fangose dove tedeschi e alleati si scannavano senza complimenti

Passano cent’anni e le sorprese che continuano a uccidere dalle parti di Ypres sono gli obici che ogni tanto spuntano dai campi ed esplodono addosso a chi li urta, com’è successo ai due operai saltati in aria qualche anno fa nel cantiere di ristrutturazione di alcuni canali nella zona industriale. E infatti, ancora oggi, esiste un gruppo di sminatori esperti che cerca di bonificare il terreno. Impresa ardua se non impossibile.

Lo scopriamo grazie all’ultimo documentario del regista biaschese Victor Tognola, Niente di nuovo sul fronte occidentale (una coproduzione Frama Films International e RSI) che ha intervistato alcuni membri di questo gruppo. E che a Remarque, cittadino onorario di Ronco ed Ascona, dopo che le sue opere vennero messe al bando dal regime nazista (morì a Locarno nel 1970), aveva dedicato un precedente documentario nel 2011. Ora, con questa nuova fatica che verrà presentata in anteprima il 21 marzo alle 20:00 al Cinestar di Lugano, gli rende un ulteriore omaggio, assemblando una quantità impressionante di documenti visivi, fotografie e filmati d’epoca, raccolti tra il museo In Flanders Fields di Ypres e gli archivi americani che conservano chilometri di pellicole girate dai soldati statunitensi inviati al fronte. La visione del documentario sarà preceduta da una breve introduzione a cui parteciperanno Victor Tognola stesso, Alessandro Marcionni, capo documentari e fiction RSI e Drago Steva-

novic, fondatore e direttore artistico di OtherMovie. Il documentario verrà infatti poi trasmesso dalla RSI ed è pensato come anticipazione della rassegna cinematografica. Ma torniamo ai contenuti.

Nel gioco di rinvii fra le citazioni di Remarque e le immagini originali in bianco e nero, sembra di essere ancora lì, nelle trincee fangose dove tedeschi e alleati si scannavano senza complimenti, disumanizzandosi di giorno in giorno e di battaglia in battaglia. È anche inevitabilmente un viaggio tra passato e presente, quello girato e sceneggiato da Tognola, a un certo punto anch’esso inquadrato di spalle, pellegrino della memoria, mentre cammina tra le vie del centro totalmente ricostruito e scrutato a volo d’uccello da un drone che tutto vede dall’alto dei cieli e del tempo che passa ma non passa mai.

«Se ho pensato alle guerre in corso mentre giravo il documentario? In realtà» – risponde Tognola – «l’ho iniziato prima della guerra di Gaza, ma certe scene, come l’esodo dei civili da Ypres, non possono non farti pensare alle code dei poveracci che vediamo nei tg di oggi. Per me Ypres e in generale la Prima guerra mondiale sono l’emblema di tutte le guerre del passato e del presente».

Non ha torto, Tognola. Nel «solo» saliente di Ypres si è visto il peggio dell’umanità in battaglia. Qui venne usato per la prima volta il cloro, causando in dieci minuti la morte per asfissia di tremila soldati francesi. Poi venne testato il fosgene, un gas capace di uccidere diverse ore dopo essere stato inalato. Nel 1917 arrivò l’iprite, noto come «gas mostarda» per il caratteristico odore. «Quei primi momenti con la maschera calata decidono della vita e della morte», scrive Remarque, «sarà impenetrabile? Ho presenti le orribili immagini dell’ospedale: i soldati asfissiati che, soffocando giorno per giorno, vomitano pezzo per pezzo i polmoni bruciati». Qui un giovane soldato tedesco venne ferito al fronte ed ebbe un’avventura fugace con una ragazza del posto da cui ebbe un figlio mai riconosciuto. Il soldato si chiamava Adolf Hitler, e purtroppo per noi, a differenza di altri 500mila militi che da queste parti persero la vita, uscì vivo e incattivito dal pantano di Ypres. «Mi ha colpito e nel documentario ho voluto raccon-

tare anche la storia di Fritz Haber, il chimico e Premio Nobel tedesco (di famiglia ebrea!) che preparò l’attacco chimico ad Ypres – osserva Tognola –e durante la Seconda guerra mondiale mise a punto il Zyklon B, ovvero il gas che venne usato per sterminare i prigionieri nei lager nazisti».

Nel documentario Tognola ci mostra i cimiteri di guerra, i bar tristi della Ypres di oggi, i laghetti ricavati dai crateri scavati dalle maggiori deflagrazioni di oltre un secolo fa, «con risultati paragonabili a Hiroshima, ma qui non si usava la bomba atomica», il serpentone delle trincee

«che erano piazzate a cinquanta metri l’una dall’altra, una follia». Fa parlare storici ed esperti, ma offre anche una chiave di lettura diversa che ha a che fare col senso, o il non senso, della guerra, dando voce allo psicoterapeuta ticinese junghiano Daniele Rivola. «Rivola mi ha anche raccontato – osserva – che quando chiesero a Jung se secondo lui ci sarebbe stata un’altra guerra mondiale, lui rispose: Dipende dal numero di individui che si sono messi in accordo con la propria ombra, perché il male dentro di noi c’è. E ce l’ha messo Dio, per farci capire che tocca a noi scegliere tra bene e male. Oggi mi guardo in giro e penso che forse siamo alla fine della razza umana. Anch’io come Jung credo che il futuro dell’umanità dipenda dal numero di persone che riusciranno a rappacificarsi con la propria ombra. Perché l’ombra non puoi toglierla, se no impazzisci, ma puoi venirne a una. Quando ci saranno abbastanza persone rappacificate con se stesse ci sarà un salto quantico verso il bene».

Dove e quando

CineStar Lugano il 21 marzo 2024.

Ore 20.00 presentazione nel foyer; 20.30 anteprima nella sala 6. Ingresso libero.

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Carlo Silini Un’immagine di Ypres rasa al suolo ai tempi della Prima guerra mondiale. Per il suo documentario Tognola ha attinto al fondo di circa 20 mila foto d’epoca del Museo In Flanders Fields e ai filmati autentici della guerra, senza restauri, rinvenuti in vari archivi internazionali. (Museo In Flanders Fields) PER OGNI ZONA DEL CORPO IL PRODOTTO IDEALE 25 % a partire da 2 pezzi Assortimento totale Veet ad esempio Veet crema corpo & gambe, 180ml, 7.45 invece di 9.95 Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli già ridotti. Offerte valide solo dal 12.3. al 25.3.2024, fino a esaurimento dello stock. Annuncio pubblicitario
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Film ◆ Per la prima volta Netflix coproduce un lungometraggio svizzero: il thriller Early Birds di Michael Steiner è ora in streaming

Quanto Michael Steiner ami il suo lavoro appare chiaro sin dalle prime scene del suo nuovo film, Early Birds, ma anche retrospettivamente, guardando alla sua opera che, spaziando tra alti e bassi, lo vede inoltrarsi senza tregua in argomenti nuovi. Lo sfondo però, quella scenografia su cui si muovono i personaggi più diversi, pur cambiando di film in film, rimane lo stesso, essendo di fatto un leitmotiv che, discreto ma saldamente presente, accompagna il regista in ogni sua idea. Stiamo parlando della Svizzera. La continua ricerca di Steiner di rappresentare il Paese al di là dei suoi cliché (che da noi abbondano, a partire dal paesaggio bucolico che fa impazzire i turisti fino al mito ormai traballante dei soldi), lo ha portato fra le altre cose a narrare la vicenda della fine della compagnia aerea nazionale Swissair (Grounding, 2006), una scabrosa leggenda alpina in cui una bambola-fantoccio realizzata da alcuni contadini per contrastare la solitudine si trasforma in una creatura demoniaca (Sennentunschi, 2010), le peripezie amorose tragicomiche del giovane ebreo ortodosso zurighese Wolkenbruch da un romanzo di Thomas Meyer (Non tutte le sciagure vengono dal cielo, 2018) o le avventure di Eugen e dei suoi giovani amici, dal romanzo del 1955 di Klaus Hägelin (Il mio nome è Eugen, 2005).

Nella carriera del regista di Rap-

perswil, personaggio a tratti sfuggente ma con delle intuizioni e un fiuto interessanti, non vi sono comunque stati solo successi e un percorso in discesa: a momenti di gloria cinematografica, come la doppia apertura dello Zurich Film Festival, o le quattro pellicole dirette da lui fra i film più visti di sempre nel nostro Paese, se ne sono alternati altri di incertezza, come quando durante la realizzazione di Sennentunschi la sua casa di produzione fallì o quando la critica fece a pezzi l’horror Il massacro delle Miss (2012).

Ora però sembra essere tornato il momento di Steiner: dopo l’ammissione nel 2019 sulla piattaforma Netflix di Non tutte le sciagure vengono dal cielo, con l’apertura di fatto del film a un pubblico internazionale, la stessa piattaforma di streaming ha deciso di co-produrre (ed è la prima volta che accade per un film elvetico) il thriller Early Birds, presentato allo ZFF lo scorso autunno e dalla settimana scorsa disponibile online.

Anche in Early Birds siamo in Svizzera – come poteva essere altrimenti – e ce lo dicono la Langstrasse e il Prime Tower ripresi a volo d’uccello (fanno miracoli, al cinema, i droni, restituendoci nuove skyline abissali) così come le montagne scarsamente spruzzate di neve, ma lo capiamo anche dalla fermata gialla dell’autopostale e dalle divise della polizia di Zurigo. Il sole non splende mai, quando

non è buio le luci sono rarefatte. Si crea così una serie di atmosfere, fatte di interni cupi e vagamente ostili, nel segno del più totale anonimato sociale, che sembrano proiettare la storia in una sorta di no man’s land, dove protagoniste di una vicenda al cardiopalma sono Annika e Caro, due giovani donne dal passato non proprio limpido (la tedesca Nilam Farooq e la basilese Silvana Synovia, entrambe notevoli) che si ritrovano all’improvviso nel mezzo di una brutta storia di droga e omicidio.

Set della strage iniziale che dà il la alla vicenda è un appartamento della Langstrasse, un tempo capitale indiscussa della movida d’Oltre Gottardo e oggi in crisi, che qui però, grazie a Steiner assume un’impalpabile vivacità nuova. Le due donne sono inseguite, perché hanno con sé il malloppo rimasto per terra dopo la strage di cui sopra, e se da una parte a cercarle vi sono due poliziotti – un Anatole Taubman, Elvis di Quantum of Solace, forse un po’ troppo sopra le righe e un Dimitri Stapfer sottotono – dall’altra vi è una gang fin troppo strutturata a mo’ di stereotipo.

Convince per contro la fuga delle due donne, Thelma e Louise in chiave minore, che non disdegnano salti da balconi e finestre, corse lungo tetti che ricordano Parigi, e stordimenti continui per dimenticare una vita che è sempre stata un fardello insopporta-

bile, nel segno di una «sorellanza» che sembrava tanto improbabile all’inizio quanto appare autentica e necessaria alla fine del film.

Il ritmo è serrato e i colpi di scena spesso non sono scontati, con qua e là qualche concessione a una composizione dell’immagine che da lontano sembra fare il verso a Tarantino. Ma in fondo non è grave, perché con l’ironia necessaria (che qui non manca) anche «fare il verso» può trasformarsi in un modus operandi, in una citazione che è anche un omaggio, come ha dimostrato in questi tempi il caso della serie TV Tschugger. La fortunata idea della serie di David Constantin e Mats Frey giunta alla terza stagio-

ne (si trova in parte su Play Suisse) si muove anch’essa in un paesaggio straniante simile a quello ricreato da Michael Steiner, anche se in questo caso siamo in Vallese, per raccontare una storia surreale che a più riprese sfora nell’assurdo, in tutto questo facendo il verso, negli abiti, nei dialoghi, all’ironia di Wes Anderson o allo stile dei fratelli Cohen. Un esordio non indimenticabile ma dignitoso, quello del cinema svizzero come partner di Netflix, ma dalla valenza imponderabile, se è vero che non esista vetrina migliore e immediata di quella che porta film e Paesi all’interno delle case della gente, ovunque e in ogni momento.

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