8
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 marzo 2014 • N. 12
Società e Territorio
«Tra me e l’eroina, mia madre ha scelto l’eroina» Intervista Michelle Halbheer, cresciuta negli anni Novanta a Zurigo, ai tempi del Platzspitz e del Letten,
racconta in un libro cosa ha significato crescere con una madre eroinomane Luca Beti Incontriamo Michelle Halbheer alla Limmatplatz, a un tiro di schioppo dal Letten, da quel brandello di terra sul quale all’inizio degli anni Novanta si consumarono migliaia di drammi umani. Anche quello di sua madre. Dandoci appuntamento lì, pare abbia voluto riconciliarsi con un luogo che le ricorda l’orrore osservato in compagnia di suo padre quasi venti anni prima. «Una sera, mio papà mi portò con sé in una delle sue innumerevoli ricerche di mia madre. Sospesa quasi nel vuoto sopra il Letten, vidi scene che mi sconvolsero profondamente: figure cenciose si conficcavano aghi nelle braccia, altre osservavano inebetite il fuoco, due corpi inermi, uno di uomo l’altro di donna, accartocciati nella sporcizia, erano percorsi da due ratti. Quando alzai lo sguardo su mio padre, il suo viso era solcato dalle lacrime. Con la voce soffocata dalla tristezza, mi fece promettere che mi sarei sempre confidata con lui semmai la tentazione di provare avesse avuto il sopravvento. Glielo promisi. Avevo nove anni. Quella fu certamente una discutibile strategia educativa che forse però mi ha salvato la vita», ricorda la giovane donna. Oggi di fronte a noi c’è una giovane donna di 28 anni, intelligente, saggia, delicata e dalla volontà di ferro. Michelle Halbheer – in collaborazione con la giornalista Franziska K. Müller – ha deciso di pubblicare la sua storia. Platzspitzbaby è la biografia di una bambina cresciuta con una madre eroinomane. Il libro ripercorre l’infanzia e l’adolescenza di una figlia della scena aperta della droga a Zurigo. È un racconto straziante, ma anche una denuncia, un j’accuse nei confronti di un sistema assistenziale che sacrificò una bambina indifesa nel tentativo di strappare la madre all’eroina. Le ultime frasi del libro sono dedicate a sua madre. Descrive il piccolo appartamento in cui vive ora, la foto di voi due abbracciate e sorridenti. Non c’è traccia di rancore. Eppure avrebbe mille ragioni per odiare sua madre.
Nel corso degli anni ho imparato che l’odio mi lascia senza energia, mi svuota completamente. Se provo rabbia, tento di proiettare questo sentimento sulla droga e non sulla persona. L’intenso dolore che ho provato a tredici anni quando mia madre è quasi morta dopo essere finita sotto un treno mi ha fatto capire che per lei provo un forte attaccamento, un amore incondizionato nonostante la sua dipendenza dall’eroina. Ho capito che non era lei che odiavo, ma la droga. Senza l’eroina, lei sarebbe una persona stupenda, una mamma amorevole. Sua madre, però, tra l’amore per lei e quello per la droga, ha sempre scelto la droga.
Sì, è vero. Mia madre ha sempre preferito l’eroina a me. L’amore artificiale che si regalava bucandosi non le costava fatica. Quando stava male, quando si trovava a terra, mia madre era vuota dentro, le mancava l’energia necessaria per donare amore ai suoi cari. Lei preferiva comprarsi l’amore della droga. Non so, e probabilmente non lo saprò mai, se non ha voluto o era semplicemente incapace di offrire amore agli altri. Nei primi anni di vita, lei ha conosciuto una madre amorevole, una donna splendida che viveva per la sua famiglia.
Quando sono venuta al mondo, mia madre era pulita. Non si bucava più. Mio padre pensava fosse felice della vita che stava conducendo e sperava di aver vinto definitivamente la sua battaglia contro la droga. Ma poi, dopo tre o quattro anni, mia mamma ha iniziato a essere infelice perché la vita da casalinga le era venuta a noia: voleva assolutamente lavorare. In quel momento ci siamo accorti che stava cambiando. Ancora oggi ci chiediamo quale episodio abbia sconvolto la sua vita e l’abbia fatta cadere nuovamente nell’abisso della droga. Forse non voleva essere la madre che bada agli altri, ma rimanere la bambina che tutti vezzeggiano e coprono di coccole. Fino a quel momento, la vostra famiglia aveva condotto una vita normale. Le foto nel suo album di fotografie lo ricordano. Poi, la situazione è precipitata a causa di una serie di eventi tragici: la diagnosi positiva all’AIDS, l’aborto. Tra i cinque e i sette anni, sua madre è cambiata completamente.
Sì, quando avevo sette anni poco o nulla ricordava ancora la madre affettuosa e premurosa di prima. Era di nuovo finita nelle grinfie dell’eroina. Un episodio, in particolare, ha dato la spallata decisiva alla nostra vita, facendola ruzzolare verso il baratro. Un giorno ho trovato giocando il coperchio dell’ago di una siringa. È stato un ritrovamento gravido di conseguenze. Dopo essere stata scoperta, mia madre invece di giustificarsi, di chiedere aiuto, ha iniziato a uscire di giorno per andare a farsi la sua dose a Zurigo, sapendo che di notte mio padre sarebbe andato a riprenderla. Lei parla di un episodio gravido di conseguenze per lei. Quali?
Ho iniziato a chiudermi in me stessa. Vedendo mia madre in difficoltà, non le volevo creare altri problemi. Poi, ho iniziato a staccarmi fisicamente da lei. Non volevo più abbracciarla perché il suo profumo era stato sostituito da uno strano odore, quello dell’eroina. La evi-
L’autrice del libro: «Ho capito che non odiavo mia madre, ma la droga; senza, lei sarebbe stupenda». (Gianni Pisano)
tavo perché avevo paura delle sue percosse che mi infliggeva con sempre maggiore frequenza. Anche il rapporto con mio padre è cambiato. A lui non potevo confidare nulla, né delle botte che ricevevo né delle cose che osservavo durante la sua assenza. «Guai a te se racconti qualcosa al papà», mi ammoniva mia madre. All’età di sette anni, rimanevo per ore davanti alla finestra a riflettere sulla vita per capire ciò che stava avvenendo attorno a me. Cercavo le risposte ai mutevoli stati d’umore di mia madre, ai suoi comportamenti collerici e irrazionali. Quando sua madre chiede la separazione e ottiene l’affidamento – una decisione oggi incomprensibile – per lei inizia il martirio, durato circa
Il j’accuse di Michelle Halbheer «Una domenica torno a casa. Nell’appartamento c’è sporcizia e disordine ovunque. Su un tavolo ci sono lettere d’addio per me e per Andreas. Le pareti sono schizzate di sangue», racconta Michelle Halbheer nella sua biografia. «Vorrei fuggire, ma poi trovo mia madre priva di sensi, con l’ago della siringa ancora infilato nel braccio e le punta delle dita e le labbra violacee. È lì davanti a me come una bambola rotta, gli occhi rovesciati all’indietro e semiaperti. Pochi istanti dopo arrivano il personale sanitario, il medico e la polizia. Dopo un’iniezione di adrenalina, mia madre si risveglia e si trasforma in una furia. Bestemmia contro chi le ha salvato la vita, lancia contro di loro tutto ciò che trova, mi prende con forza per un braccio e mi trascina in bagno, dove chiude la porta dietro di sé. Di fronte a tale rabbia, polizia, medico e sanitari se ne vanno senza proferire parola. Mia madre mi riempie di botte. Dai 10 ai 13 anni di età vivo in questo inferno, senza che qualcuno passi a vedere come sto, nessuno viene a salvarmi». Stando alle statistiche del personale che lavora nell’ambito della cura e dell’assistenza delle persone dipendenti dalle droghe, in Svizzera vivono
attualmente più di 4000 bambini in famiglie in cui almeno uno dei genitori consuma sostanze stupefacenti pesanti. Si tratta di una stima approssimativa poiché non ci sono dati ufficiali e questa cifra è probabilmente solo la punta dell’iceberg dei casi reali. «I figli della droga» sono abbandonati a loro stessi perché considerati il migliore strumento terapeutico per strappare le madri o i padri dalle grinfie della droga. Per Michelle Halbheer questa terapia è durata tre anni. È stato un martirio che le è costato innumerevoli ematomi causati dalle botte, inflittele dalla madre, un grave sottopeso, un vissuto terribile e impossibile da dimenticare. Ora, a 28 anni, ha deciso di rendere pubblica la sua storia per evitare che altri bambini debbano vivere il suo stesso terribile destino. «Il mio sogno è di lavorare a tempo parziale in una struttura protetta per i genitori tossicodipendenti e i loro figli. Io vorrei assistere questi bambini. Credo che per loro sarebbe molto importante poter contare sull’aiuto di una persona che intuisce immediatamente ciò che provano, qual è il loro stato d’animo e che sa che cosa fare per aiutarli. Un tempo, io ero una di loro».
tre anni. Così, all’età di 9 anni e mezzo è abbandonata a se stessa. Nessuno la protegge dagli attacchi d’ira di sua madre, le prepara da mangiare, le regala un po’ di calore umano.
Ricordo come se fosse ieri il giorno in cui mio padre, dopo avermi fatto ciao con la mano, ha chiuso la porta di casa. Io sono rimasta per strada con mia madre e in quel momento ho capito che nulla sarebbe stato più come prima. In quel momento ho patito il peggiore mal d’amore della mia vita. Tre giorni dopo ho provato per la prima volta che cosa significasse avere fame. Nel nuovo appartamento non c’era mai nulla da mangiare. Per fortuna, una vicina di casa israeliana mi invitava a sedere alla sua tavola. E poi le botte, inattese e improvvise di mia madre. Da una parte lei mi diceva che mi voleva bene, dall’altra mi picchiava continuamente. Finché aveva soldi a sufficienza per procurarsi le sue dosi, tutto andava abbastanza bene, ma appena il denaro finiva, per me cominciava l’orrore. Vedendo mia madre soffrire, avrei voluto aiutarla, starle vicino. Invece, lei mi rifiutava, non mi voleva, soprattutto quando stava male. Questa dicotomia di sentimenti prorompeva in litigi violenti. A undici anni ho iniziato a uscire di casa per trascorrere le serate con amici molto più vecchi di me. Nel gruppo cercavo quel calore umano che mia madre non sapeva darmi. Ho avuto il mio primo moroso, fumavo e spinellavo. Ho iniziato a rubare per conquistarmi l’amore della mia mamma. Nonostante tutto non è andata a fondo. È riuscita a salvarsi. Sembra quasi un miracolo viste le condizioni in cui è cresciuta. Come ha fatto?
A salvarmi è stata la fortuna e la mia grande forza di volontà. È stata la fortuna a salvarmi da un’intossicazione alimentare. Se il ricovero in ospedale fosse avvenuto alcune ore dopo, sarei sicuramente morta per disidratazione. È stata la fortuna a evitare che le botte di mia madre non mi provocassero danni irreparabili. Inoltre, mio padre mi ha insegnato che dovevo lottare per ottenere ciò che volevo, che potevo piangere dopo essere
finita a terra, ma che dovevo rialzarmi e continuare a combattere. Non so spiegare questa mia resilienza, questa mia capacità di affrontare le avversità della vita, uscendone addirittura più forte di prima. Poi ci sono state alcune persone che mi hanno sostenuto, come il venditore alla pompa di benzina da cui andavo a prendere da mangiare, lasciando che fosse mio padre a saldare il conto alla fine del mese. Oppure l’insegnante che ha chiuso un occhio di fronte ai compiti non fatti, dopo avermi scoperto con la sigaretta in bocca sul piazzale scolastico. A salvarmi è stato anche l’amore che provo per me stessa, per la mia persona. Io mi voglio troppo bene per finire male, per fare la fine di mia madre. E proprio i suoi occhi, iniettati di astio, li ho visti una notte riflessi nello specchio. Dopo essermi ubriacata per addormentarmi, ho rivisto mia madre in me e mi sono subito detta che non l’alcol poteva risolvere i miei problemi, ma che dovevo prendere io in mano le redini della mia vita. Nella sua biografia Platzspitzbaby ripercorre la sua infanzia e adolescenza. Ora di fronte a me c’è una donna matura, con un’esperienza di vita che l’ha fatta crescere troppo in fretta. Che n’è stato di quella bambina?
Proprio oggi, in treno, ho ripensato a quella bambina del libro. Mi sono resa conto che quella ragazzina vive ancora in me, soprattutto i fine di settimana, quando cammino o corro spensierata nel bosco, quando sono piena di meraviglia allo zoo oppure quando mi diverto con gli amici. Per me è importante vivere ancora attimi d’infanzia per recuperare parte del tempo perduto. Tuttavia, lascio emergere la Michelle di dieci anni solo in particolari momenti, quando quella ragazzina non può essere ferita. La «Platzspitzbaby» c’è ancora ed io mi prendo molto cura di lei. Bibliografia
Michelle Halbheer: Platzspitzbaby – Meine Mutter, ihre Drogen und ich, scritto da Franziska K. Müller, edito da Wörterseh Gockhausen 2013, 224 pagine, ISBN: 978-3-03763-035-8