Joe Weston nel suo libro Gentilezza impetuosa ci parla dell’importanza di senso civico e pensiero critico
Christiane Brunner, ricordo di una figura politica che non smise mai di lottare per l’eguaglianza
ATTUALITÀ Pagina 17
Letterati che si trasformano in critici d’arte: a Mendrisio una mostra sonda un felice connubio
CULTURA Pagina 19
Il papa che provò a insegnare la pace
Noam Yaron ha attraversato la Svizzera a nuoto per svegliare le coscienze ecologiche
TEMPO LIBERO Pagina 31
Il pontefice con l’Amazzonia nel sangue
Ora che il mondo ha pianto molte lacrime per la scomparsa di Jorge Mario Bergoglio, usciamo per un attimo dal flusso delle emozioni e proviamo a capire perché papa Francesco è stato diverso da chi l’ha preceduto. Anzitutto era un uomo del Sud, voce di tutti i Sud che osservano senza potere contrattuale i molti Nord, che siano l’America per i messicani o l’Europa per gli eritrei. «Voi capite poco del mondo – aveva spiegato a un gruppetto di giornalisti italiani all’inizio del pontificato –perché lo guardate dal centro. Per capirlo davvero bisogna osservarlo dalla periferia». Il suo osservatorio era tra la gente che arranca nei Paesi poveri, non tra i vincenti dei locali chic delle nazioni ricche.
Papa Wojtyla portava nel DNA il senso di accerchiamento del mondo cattolico da parte del Comunismo e Papa Ratzinger battagliava contro il relativismo che erodeva piano piano le
fondamenta cristiane dell’Europa. I loro pontificati si sono perciò concentrati sulla lotta per la verità cattolica e contro l’errore dottrinale dentro e fuori dalla Chiesa. In modo diverso due Papi-filosofi preoccupati soprattutto dalle sfide culturali dell’Occidente secolarizzato. Se però vieni dai Paesi in via di sviluppo le priorità cambiano. La filosofia va bene negli atenei, non nelle baraccopoli. Non riempi la pancia di chi ha fame col catechismo. Se la Chiesa vuole essere credibile, ci ha detto per dodici anni Francesco, non può occuparsi delle anime delle persone senza prendersi cura anzitutto dei loro corpi. La Chiesa bergogliana non è una «società dei perfetti» che espelle chi non si adegua alle sue direttive, ma un «ospedale da campo» che accoglie chiunque abbia bisogno senza pregiudizi etici o religiosi. «Se una persona è gay, cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicare?», disse Francesco in
volo sopra Rio de Janeiro nel 2013, aggiungendo: «Il Catechismo della Chiesa Cattolica parla di queste persone dicendo che non devono essere emarginate». Bergoglio, poi, aveva l’Amazzonia nel sangue. Percepiva la foresta pluviale come quintessenza problematica della «Casa Comune» di tutti gli esseri viventi, Eden naturale minacciato dallo sfruttamento e abitato da popolazioni indigene a rischio d’estinzione. Viene da lì la sua battaglia ecologica (primo Papa a dedicare un’enciclica alla difesa dell’ambiente), inscindibile da quella per gli esseri umani «d’intralcio» e perciò espulsi dal sistema produttivo globalizzato. La sua è un’Ecologia umanistica in cui la prima specie da proteggere, tra farfalle, rettili e balene, è quella dei «sapiens» trascurati (o triturati) dalla macchina del profitto: vecchi, migranti, malati e civili di tutte le guerre. Bergoglio denunciava la cultura «dello scarto» contro cui ci
si dovrebbe battere non perché si è cattolici, ma perché si è esseri umani che tutelano il cosmo e quindi il futuro stesso della propria specie. Nella stessa logica – evangelica – è sempre stato dalla parte dei perdenti e non dei vincitori, delle vittime e mai degli aggressori: l’ultimo leader pacifista che si possa accostare senza imbarazzi a Martin Luther King o a Gandhi. Se ne va come era arrivato, mettendosi un po’ di lato, lontano – per quanto è concesso a un Papa – dai centri del potere. Ha vissuto nel residence di Casa Santa Marta e non negli scintillanti appartamenti papali vaticani. E si è fatto seppellire non nella Basilica di San Pietro, apoteosi barocca del cattolicesimo, ma in quella di Santa Maria Maggiore sotto gli occhi di un’icona bizantina della Madonna a ridosso della stazione Termini, chiassoso crocevia di popolo: pendolari, studenti, turisti, famiglie e barboni. La gente che amava.
Giorgio Bernardelli e Lucio Caracciolo Pagine 13-14
Carlo Silini
Un nuovo centro OBI per il Sottoceneri
Info Migros ◆ OBI raddoppia, e dopo Sant’Antonino apre ad Agno: Migros Ticino avrà così un partner importante con un’offerta variegata. La clientela è invitata all’inaugurazione di venerdì 2 e sabato 3 maggio 2025
La compravendita a livello nazionale del formato Do it + Garden Migros è ancora in corso, ma Migros Ticino ha lavorato d’anticipo in autonomia. Ha così trovato una soluzione per colmare un futuro vuoto nella propria offerta di fai da te, grazie alla quale la regione può ora contare sulla presenza di un formato OBI ancor più capillare e un assortimento completo anche nel Sottoceneri; tutto ciò, si sa, in un settore apprezzato e conteso in Ticino. La Cooperativa ha ceduto nelle scorse settimane la propria filiale di S. Antonino al Gruppo OBI, garantendo la piena ripresa dell’attività dal 1° aprile 2025 e un posto di lavoro a tutti i 45 dipendenti. L’apprezzato OBI di S. Antonino è dunque passato di mano, pur restando all’interno degli spazi del Centro commerciale Migros. Questa fruttuosa collaborazione con un partner importante e di respiro internazionale ha portato a una seconda novità di rilievo molto positiva per il Cantone: il 2 maggio 2025 aprirà presso il Centro Migros di Agno un secondo punto vendita OBI in Ticino. Il nuovo centro avrà 4000 metri quadrati di superficie, e affiancherà la filiale de La Posta. Si colmerà così un vuoto nell’offerta del fai da te sottocenerino e si creeranno 27 nuovi posti di lavoro, con un nuovo indotto per l’economia interna.
Si avvicina la bella stagione, e con essa il fai da te all’aperto: qualcuno opta per ristrutturare o rinnovare la propria casa, altri invece si dedicano al giardino. Quale miglior partner, dunque, di un centro OBI facilmente raggiungibile e che offre un’ampia gamma di prodotti, utensili, materiali da costruzione e accessori per la casa di prima qualità, a prezzi in offerta sempre convenienti?
Nel nuovo centro OBI di Agno la clientela potrà scegliere tra un’ampia gamma di materiali da costruzione di alta qualità come isolanti, pietre e materiali sfusi di prim’ordine. Troverà, inoltre, tutto il necessario per un giardino a regola d’arte, rivestimenti per pavimenti, materiali per l’edilizia e molto altro ancora. Sarà possibile anche acquistare utensili manuali ed elettrici o apparecchi di grandi e piccole dimensioni per qualsiasi utilizzo in casa, in giardino e per il fai da te. Chiaramente sempre con offerte vantaggiose! Chi è ancora alla ricerca della tonalità giusta di colore per un certo ambiente della casa potrà rivolgersi al Servizio di miscelatura colori, o scoprire l’ampia gamma di colori, vernici e velature. Sarà possibile ricevere assistenza anche per la ristrutturazione di cucine e bagni e, grazie al Servizio di taglio, sarà possibile farsi aiuta-
re tagliando ad esempio su misura il piano di lavoro della propria cucina. Per gli acquisti grandi o voluminosi, il centro OBI di Agno offrirà anche una pratica consegna a domicilio.
Christoph Löhrer, per molti anni gerente di OBI a Sant’Antonino, e ora referente di OBI, ci ha raccontato come si è giunti all’apertura di un secondo Centro nel nostro cantone.
Christoph Löhrer, lei è il referente di OBI ed è responsabile del rad-
doppio della presenza della catena in Ticino. Cosa può raccontarci di questo processo? Quali sono gli aspetti di cui ha dovuto occuparsi? E quali sono i suoi compiti principali? In qualità di store manager della regione, per me è un piacere potere accompagnare l’espansione dei negozi OBI in Ticino. Tenendo conto dei recenti sviluppi e in considerazione della strategia futura di OBI in tutta la Svizzera, abbiamo l’opportunità di aggiungere un nuovo e interessante formato di negozio a gestione diretta. Avevamo da tempo l’idea di trova-
Il 2 e 3 maggio non perdetevi l’inaugurazione
• Specialità regionali allo stand gastronomico – fatte sul momento e dai sapori autentici e genuini!
• Popcorn gratis per i più piccoli
• Musica coinvolgente per creare la giusta atmosfera
• Ruota della fortuna con premi immediati
(redattore responsabile)
• Sfida dell’artigiano – dai prova delle tue abilità nel fai da te
• Truccabimbi per i nostri piccoli ospiti
• Porta a casa una foto con il Castoro OBI
• In regalo un simpatico annaffiatoio OBI con una spesa di almeno 30 CHF
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re una seconda sede strategicamente adeguata per i nostri clienti in Ticino, ma l’opportunità di un trasferimento nell’edificio «Agno 2», precedentemente utilizzato da Do it + Garden e dall’assortimento non food di Migros, si è presentata solo alla fine del 2024. A quel punto sono iniziati un dialogo e analisi approfondite tra OBI e Migros. Il progetto di espansione è seguito da manager di entrambe le aziende. Fra i miei compiti vi è quello di coordinare le varie aree coinvolte per garantire una transizione fluida tra le due aziende e un avvio di successo ad Agno.
Cosa può anticiparci del nuovo format di OBI, più moderno e con una superficie di 4000 metri quadrati?
La superficie di vendita di circa 4000 m² del nuovo negozio OBI di Agno sarà leggermente inferiore a quella degli altri negozi OBI svizzeri, ma potrebbe diventare punto di riferimento per sedi di dimensioni simili in futuro. Inoltre, il nuovo negozio di Agno sarà il primo negozio OBI in Svizzera a implementare il formato «MachBar», già introdotto con successo in Germania e Austria. Si tratta di un’area di contatto in posizione centrale all’ingresso del negozio che offre ai clienti l’opportunità di trovare velocemente un interlocutore competente per domande sulla gamma di prodotti e servizi. Inoltre, il formato MachBar collega l’universo digitale OBI all’area stazionaria e ai nostri esperti locali.
Come sarà l’assortimento nel nuovo OBI, e il Centro sarà si-
tuato in una zona strategicamente favorevole?
Ogni negozio OBI offre ai suoi clienti un assortimento completo, sensibilmente curato e attraente che copre tutti i settori del bricolage, integrato da tutti i prodotti e servizi che offriamo online su obi.ch. L’assortimento di Agno è stato creato su misura per le esigenze dei nostri clienti del Sottoceneri, con particolare attenzione al bricolage e alla creatività, e completa l’assortimento del negozio di S. Antonino, pur senza entrare in concorrenza. La prossimità alla filiale Migros crea inoltre una sinergia naturale e vantaggiosa per entrambi i negozi, valorizzando ulteriormente la posizione molto frequentata di Agno.
Può dirci qualcosa anche sulla creazione e sul mantenimento dei posti di lavoro?
Per quanto riguarda il personale, OBI Agno offre ai dipendenti Migros già presenti nell’edificio prospettive di carriera. Tutti hanno seguito un programma di formazione, accompagnato dal team di S. Antonino e supportato dalla OBI Academy interna. In tutto saranno creati 27 nuovi posti di lavoro. La seconda sede ha portato con sé anche opportunità di sviluppo interno: ad esempio, Luca Dellapiazza e Giovanni Mazzotta assumeranno il ruolo di store manager e vice store manager di OBI Agno a partire dal 1° maggio 2025.
Informazioni Il nuovo centro OBI si trova ad Agno in Via Lugano 21. Troverete una grande disponibilità di comodi parcheggi! azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato
Indirizzo postale Redazione Azione CP 1055 CH-6901 Lugano
Posta elettronica info@azione.ch
Pubblicità Migros Ticino Reparto pubblicità
CH-6592 S. Antonino tel +41 91 850 82 91 fax +41 91 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
Editore e amministrazione
Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino tel +41 91 850 81 11
Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria – 6933 Muzzano
Lettori 124’000
Tiratura 88’000 copie
Il nuovo OBI di Agno avrà una superficie di 4’000 metri quadrati e si affiancherà alla filiale de La Posta. L’apertura del centro fai da te il prossimo 2 maggio prevede la creazione di 27 nuovi posti di lavoro.
SOCIETÀ
Motori: novità tedesche a Shanghai Al salone dell’automobile cinese le case automobilistiche tedesche presentano nuovi veicoli elettrici e concept car e annunciano alleanze con partner locali
«Il gusto di donare un buono pasto» È il motto del «Pasto sospeso», un progetto di solidarietà attivo anche in Ticino dallo scorso febbraio che offre un aiuto concreto a chi è in difficoltà
Cambiare il mondo con la gentilezza
Intervista ◆ Joe Weston, autore e coach, ci parla dell’importanza del senso civico e del pensiero critico
Joe Weston è capace di trasmettere speranza anche nel difficile momento in cui ci troviamo, tra guerre, piani di riarmo, democrazie impazzite ed epidemie. Durante la nostra conversazione online mi ha spiegato, con un sorriso rassicurante e contagioso, come coltivare la gentilezza per migliorare noi stessi e il nostro rapporto con gli altri e col mondo. Il suo tono pacato e le parole puntuali e fiduciose sono coerenti con il contenuto del suo ultimo libro, tradotto in italiano col titolo Gentilezza Impetuosa: dal conflitto al confronto (FrancoAngeli). Joe Weston è autore, speaker, consulente e coach. Ha una carriera trentennale nella prevenzione dei conflitti, nella leadership, nella gestione dello stress e nella comunicazione.
«Il sistema mondiale attuale ci sta portando a fare scelte basate su una cultura iper alimentata tecnologicamente e denutrita spiritualmente»
Joe Weston, in che modo la gentilezza può migliorare le nostre vite?
Credo sia interessante notare che lei, come altri che mi hanno intervistato, mi stia chiedendo che utilità possa avere la gentilezza. Il fatto che ce lo domandiamo è emblematico: dovrebbe essere scontato essere gentili e invece di questi tempi non lo è. Nel mio libro uso la parola inglese «civility» che ha un’accezione leggermente diversa da «kindness». Per me gentilezza significa trattare le persone con dignità e rispetto e avere senso civico. Il sistema mondiale attuale ci sta portando a fare scelte basate su una cultura iper alimentata tecnologicamente e denutrita spiritualmente. Se osserviamo il corso della storia vediamo che c’è stato un buon equilibrio tra progressi nella tecnologia, nell’arte e nel miglioramento delle nostre vite. Adesso il sistema è cambiato. Dobbiamo recuperare l’idea di una società sana, perché altrimenti non siamo in grado di collaborare come specie umana. Per me è importante sottolineare che gentilezza non vuol dire debolezza, né rendere contenti gli altri, ma esercitare il potere trasformativo del cuore. È la capacità di andare oltre il sistema dicotomico nel quale esistono solo buoni e cattivi, chi ha torto e chi ha ragione, senza vie di mezzo. La gentilezza richiede una calma interiore.
Nel suo libro elenca le pratiche per raggiungere la calma interiore. Come possiamo diventare più sereni? Tra le diverse pratiche, ci sono anche gli esercizi di respirazione che uso
nei miei seminari e nei training. Per me è importante andare al di là della speculazione intellettuale e fornire strategie in modo che le persone possano padroneggiare certe tecniche. Quando siamo stressati e ansiosi il nostro sistema nervoso entra nella modalità fight-or-flight, combatti o fuggi. Come ci spiegano le neuroscienze, quando siamo in questo stato abbiamo reazioni primordiali, ci sentiamo in pericolo anche se magari la situazione che abbiamo di fronte è soltanto spiacevole. Non distinguia-
mo il disagio dalla minaccia. Se ci calmiamo acquisiamo lucidità. L’adrenalina e altri ormoni si attivano, ma possiamo restare connessi e concentrati, senza perdere il controllo. Invece, col sistema nervoso sregolato, non siamo nel pieno delle nostre potenzialità.
Lei osserva che la capacità critica degli esseri umani si sta deteriorando. Come possiamo correre ai ripari? Il livello di istruzione nella parte
dell’occidente che conosco, cioè gli Stati Uniti e i Paesi del Nord Europa, è calato in modo preoccupante rispetto a qualche decennio fa. E senza un certo livello di istruzione non è possibile coltivare il pensiero critico. Inoltre la velocità di Internet e dei social media fa sì che molte persone non si prendano il tempo per concentrarsi. La velocità annienta il pensiero critico, perché per capire è necessario studiare e contemplare. A volte servono giorni, mesi o anni per comprendere
davvero qualcosa. Questa accelerazione crea uno stato costante di «disregolazione», cioè un’incapacità di controllare e gestire le nostre risposte emotive. Il cervello ha tre parti, il cervello rettiliano, il cervello dei mammiferi e la corteccia prefrontale. È nella corteccia prefrontale che formiamo il pensiero critico. Ma quando siamo in uno stato di «disregolazione» azioniamo la parte inferiore del cervello, fondamentale per la nostra sopravvivenza agli arbori dell’umanità, quando ci faceva scappare immediatamente se vedevamo una tigre affamata, senza restare seduti a riflettere, domandandoci quali sarebbero state le conseguenze se ci avesse aggrediti. Nel momento in cui questa parte del nostro cervello è in funzione non possiamo nemmeno accedere al pensiero critico. Il sistema mondiale, i governi e le aziende, stanno traendo profitto dal fatto che siamo «disregolati». Per parlare e affrontare questa situazione, ogni mese, conduco un incontro online aperto a chiunque voglia partecipare, chiamato Global Heart Gathering. Le informazioni si trovano sul mio sito joeweston.com. Non abbiamo il potere di contrastare le tecnologie perché non siamo miliardari, ma possiamo controllare il modo in cui rispondiamo a ciò che vediamo, esercitando il pensiero critico.
Il suo libro racchiude messaggi inaspettati di speranza. Nelle ultime settimane, in particolare, gli scenari mondiali sembrano catastrofici. Secondo lei come possiamo disinnescare l’aggressività che ci circonda?
Penso che sia un periodo duro, ma ho speranza nello spirito umano. Credo che la situazione migliorerà perché l’abbiamo visto dai corsi e ricorsi storici. Ci sono stati imperi che sono diventati enormi senza riuscire a sostenere una crescita incontrollata. E c’è un nuovo movimento che sta emergendo, nel quale sono coinvolte molte comunità e individui, impegnati per l’unità globale, la pace globale e il ripristino delle risorse del pianeta. È un movimento basato sull’equità e la pace per tutte le persone. Non ne sentiamo parlare dai media, ma io lo osservo con la mia fondazione Fierce Civility Project. Sono convinto che le nuove generazioni non tollereranno a lungo di essere comandate da disperati disposti a distruggere tutto ciò che li circonda. I «potenti» oggi sono disconnessi dai loro cuori, dalla loro umanità, sovralimentati tecnologicamente e spiritualmente denutriti. Comandano manipolando le menti delle persone; il loro è un consenso distorto e non potrà durare a lungo.
Stefania Prandi
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Premiazione concorso Migros Serfontana
Attualità ◆ Negli scorsi giorni sono stati premiati i vincitori del concorso organizzato in occasione della riapertura del Supermercato e Take Away
Inaugurati lo scorso 20 marzo dopo oltre un anno di lavori di rinnovo, il Supermercato e Take Away Migros di Serfontana si presentano ora alla clientela totalmente ammodernati e all’avanguardia, in linea con i più alti standard di costruzione e sostenibilità a livello ambientale. Il Supermercato, grazie a suoi 2000 metri quadrati di superficie, offre una vasta scelta ben calibrata di alimentari e non alimentari, in grado di soddisfare sia i bisogni quotidiani sia gli acquisti più consistenti, senza dimenticare la presenza dei banchi carne e pesce, l’angolo formaggi e pane fresco, come pure un ricco angolo beauty. Il Take Away di nuova concezione, dal canto suo, è in grado di accontentare tutti i buongustai grazie alla sua sfiziosa proposta di caffè, briocheria, pasticceria, angolo gelato, sushi, buffet pasta, piatti caldi e freddi, panini e insalate, con la possibilità di consumo sul posto o di asporto.
In occasione della riapertura, sono state organizzate per quattro settimane diverse iniziative e attività rivolte alla gentile clientela, come sconti speciali, omaggi e animazioni per i più piccoli, tra cui un grande concorso che metteva in palio tre carte regalo Migros del valore, rispettivamente, di CHF 1000.–, CHF 500.– e CHF 100.–.
A estrazione avvenuta, sono stati estratti i seguenti vincitori, a cui esprimiamo le nostre congratulazioni: Giorgio Caccialanza
Carta regalo Migros da CHF 1000.–Anna Vanini
Carta regalo Migros da CHF 500.–Lorenza Bagutti
Carta regalo Migros da CHF 100.–
Gnocchi di patate Di Lella
Attualità ◆ Un prodotto locale che conquista i palati grazie alla genuinità degli ingredienti e al sapore unico
Specialità prodotta artigianalmente dal pastificio Di Lella di Sementina – azienda a conduzione familiare attiva dal 1968 – gli gnocchi freschi non mancano mai sulla tavola dei ticinesi. Vegani, leggeri e gustosamente autentici, vengono preparati «a caldo» – metodo che consiste nel riscaldare gli ingredienti prima della lavorazione – e si caratterizzano per la loro consistenza ideale che si mantiene bene in cottura. Si prestano anche al congelamento, senza che la qualità ne risenta. In questo caso è bene cuocerli direttamente da congelati, per mantenerne la struttura.
Incredibilmente versatili, si sposano a meraviglia con i condimenti più golosi e disparati, dal ragù al sugo di pomodoro, dal gorgonzola al burro e salvia, oppure con altri abbinamenti più fantasiosi e stagionali come una mousse di parmigiano e punte d’asparagi o un rinfrescante pesto di rucola. Buon appetito!
Firmacopie con lo scrittore
Attualità ◆ Il giovane autore Leo Silva Brites presenterà il suo nuovo libro presso il reparto libri di Migros S. Antonino, sabato 3 maggio 2025
Questo sabato (dalle ore 9.00-12.00 e 14.00-16.30), il reparto libri di Migros S. Antonino ospiterà un firmacopie con il giovane scrittore ticinese Leo Silva Brites, il quale presenterà la sua nuova coinvolgente opera Pianista della mente, un libro che affronta il delicato tema della depressione. Questo romanzo immerge il lettore in un viaggio affascinante e sconvolgente nell’intimo della psiche umana. Intenso e poetico, sfida le con-
venzioni sulla malattia mentale e offre una profonda riflessione sulla resilienza dell’animo umano. Di origini portoghesi, nato e cresciuto in Ticino, Leo Silva Brites fin da bambino sviluppa il bisogno di scrivere per esternare le proprie emozioni. Il libro Pianista della mente è la sua quinta opera. Per saperne di più leosilvabrites.ch
Il vincitore del primo premio (carta regalo Migros da CHF 1000.–), Giorgio Caccialanza (a sinistra), è stato premiato dal gerente di Migros Serfontana, Marvin Aldi. (Flavia Leuenberger)
I tedeschi si presentano a Shanghai
Motori ◆ In Cina Audi, BMW e Mercedes svelano nuovi veicoli elettrici e annunciano alleanze con partner locali
Mario Alberto Cucchi
La primavera dell’auto 2025 è a Shanghai, dove dal 25 aprile al 2 maggio apre le porte il «Salone dell’Auto» cinese che è stato scelto dai Costruttori europei come campo di gioco per svelare i piani di un’importante offensiva di prodotto. Eh già, questa è la globalizzazione. Se in Europa proliferano nuovi marchi cinesi a ritmo serrato, noi europei andiamo in Cina a «vendere» i nostri Premium brand. Le tre principali aziende automobilistiche tedesche svelano a Shanghai nuovi veicoli elettrici e concept car per cercare di riconquistare rilevanza sul mercato automobilistico più grande e volatile del mondo. E se nel 1997 a Pechino giravano quasi ancora tutti in bicicletta, nel 2007 a Shanghai manager tedeschi facevano provare a entusiasti uomini di stato cinesi le loro Audi. L’innovazione poi ha premuto il pedale del gas, e a distanza di meno di vent’anni gli stessi manager si trovano a cercare di recuperare un ritardo tecnologico nel quale player locali come BYD, Nio e Li Auto hanno rimodellato le aspettative dei consumatori cinesi con un’integrazione tecnologica agile e prezzi competitivi. Precisione ingegneristica germanica, che era una volta patrimonio dei marchi, e prestigio globale non garantiscono i successi di un tempo.
Oggi, per tenere il passo le tre case tedesche, Audi BMW e Mercedes, hanno accelerato gli investimenti
scommettendo su una nuova ondata di modelli elettrici e tecnologici su misura per i consumatori locali. Ed ecco allora che le tre joint venture cinesi di Volkswagen hanno presentato tre concept car elettriche. Un modello elettrico notchback di FAW-Volkswagen, un D-SUV elettrico con autonomia estesa grazie al tecnologia range-extender (EREV) di Saic Volkswagen e un e-SUV di Volkswagen Anhui. Tutte e tre le concept incarnano il nuovo DNA cinese della casa tedesca, sia in termini di tecnologie e design sia in relazione ai tempi di sviluppo, che sono stati ridotti di oltre il 30%. Risultati tangibili di una nuova strategia di prodotto guidata da partnership locali e sviluppo accelerato, la cui produzione in serie inizierà nel 2026.
Bmw svela Vision driving Experience, che serve come «impianto di prova su ruote per la tecnologia di gestione delle dinamiche di trasmissione di guida» che verrà utilizzata nelle future auto della «Neue Klasse». Bmw sta raddoppiando la produzione locale e l’integrazione della catena di approvvigionamento. «Produciamo quasi tanti veicoli in Cina quanti ne vendiamo. La nostra impronta produttiva flessibile è un importante vantaggio strategico» ha detto il ceo Oliver Zipse. La chiave della strategia cinese a lungo termine è il lancio della piattaforma Neue Klasse, suite di innovazioni nella tecnologia della bat-
teria, nell’architettura software e nel design dei veicoli che sosterrà tutte le future Bmw, indipendentemente dal propulsore. Infine per Mercedes elettrificazione e design sono gli elementi di differenziazione. Se per anni la casa della Stella ha guidato il segmento del lusso in Cina, ora sta preparando un’offensiva incentrata sul design e sulla tecnologia. Ecco allora la nuova berlina elettrica compatta CLA su misura per i gusti cinesi, la EQS rinnovata e la classe G elettrica. Lo scorso settembre Mercedes ha annunciato un investimento di 2 miliardi di dollari in Cina come parte della sua collaborazione con Baic per espandere la produzione locale.
Insomma, le auto europee destinate alla Cina sempre più vengono prodotte da costruttori europei con partner locali direttamente in Cina. E questa sembra anche la soluzione che si potrebbe prefigurare per gli Stati Uniti d’America. Vero è che veicoli come la BMW X5 e la BMW Z4 vengono prodotti negli Stati Uniti sin dal loro debutto, e da lì eventualmente importati in Europa. Ma stiamo intuendo che le dinamiche commerciali potrebbero cambiare a causa dei dazi.
Il fondatore di Amazon, Jeff Bezos, sarebbe tra i principali sostenitori finanziari di Slate Auto, start-up di veicoli elettrici con base nel Michigan che mira a rendere l’auto a emis-
sioni zero veramente accessibile a tutti, abbattendo i costi di produzione e i listini. Secondo quanto riportato da «Tech Crunch», il progetto di punta della società sarebbe un pick-up elettrico compatto due posti con un prezzo di lancio fissato a «soli» 25.000 dollari, ispirato a icone dell’automobilismo come Ford Model T e Volkswagen Maggiolino. La start-up, operativa dal 2022, prende forma all’interno dell’ecosistema di Re:Build Manufacturing, un’altra società collegata al fondatore di Amazon. Slate Auto avrebbe già reclutato un team formato da professionisti provenienti da aziende come Ford, General Motors, Stellantis e Harley Davidson. Secondo la documentazione ottenuta dalla Division of Corporations del Delaware, la nuova impresa ha già raccolto oltre 111 milioni di investimenti nel 2023. Fra i finanziatori, oltre a Bezos, figurano Marck Walter, Proprietario dei Los Angeles Dodgers e CEO di Guggenheim Partners e il miliardario Thomas Tull, uno dei principali investitori di Re:Build. Slate ha sede in Michigan, costruisce veicoli nei pressi di Indianapolis, nello stato dell’Indiana e ha uno studio design in California. Al momento il sito dell’azienda non svela nulla, ma consente unicamente di iscriversi alla newsletter per rimanere aggiornati. E allora come diceva il fondatore di Apple, Steve Jobs, stay tuned !
Solidarietà ◆ Il progetto «Pasto sospeso» nato a Monza su iniziativa del Rotary Club locale è ora attivo anche in Ticino
Alessandra Ostini Sutto
Prende ispirazione dalla più nota tradizione del «caffè sospeso» di origine napoletana – secondo la quale bevi un espresso e ne paghi due, regalando il secondo a un avventore che successivamente si presenterà al bancone – la recente iniziativa di solidarietà nata dalla collaborazione tra la Fondazione Francesco e il Rotary Club Lugano-Lago, con il patrocinio della Città di Lugano e Gastroticino. Il progetto prende appunto il nome di «Pasto sospeso» e mira a produrre un aiuto concreto offrendo un pasto a una persona che si trova in uno stato di necessità, attraverso una piccola donazione da effettuare nei ristoranti che aderiscono all’iniziativa.
Al progetto hanno già aderito 15 esercizi pubblici, oltre alla Locanda della Masseria, e i pasti donati sono quasi 1500
Lo scopo è così quello di sostenere le strutture che già operano sul territorio servendo pasti a chi ne ha bisogno, in modo che possano affrontare l’attuale e forse anche futuro incremento di situazioni di indigenza. Strutture che, di fatto, attestano un graduale aumento delle richieste di aiuto. «In particolare si rivolgono a noi da un lato persone non residenti, provenienti soprattutto dalla fascia di confine, che sono alla ricerca di una sistemazione sia abitativa sia lavorativa in Ticino, ma, purtroppo per loro, con poche possibilità; dall’altro, accogliamo anche persone residenti, a beneficio di aiuti pubblici oppure attive professionalmente che faticano però a far quadrare i conti, a causa di un reddito insufficiente», afferma fra Martino Dotta, direttore della Fondazione Francesco per l’aiuto sociale, che gestisce il Centro Bethlehem a Cornaredo e Casa Martini a Locarno, riguardo alle quali aggiunge: «il fatto di poter disporre di contributi finanziari, tramite per esempio il “Pasto sospeso”, permette di garantire a chiunque un’adeguata accoglienza». Lo scorso anno sono stati oltre
Viale dei ciliegi
Przemek Wechterowicz –
Emilia Dziubak
Cosa è successo, Piccolo Robot? Sinnos (Da 4 anni)
La casa editrice Sinnos si distingue per la sua capacità di trovare talenti stranieri da proporre in traduzione italiana, come è il caso di questa coppia di autori polacchi che già si sono fatti apprezzare per precedenti albi illustrati (Per sempre amici, Chi vuole un abbraccio? e Amore di mamma). Altrettanto, se non ancor più, riuscito, è questo nuovo albo, con protagonista un tenero robottino sconsolato perché ha perso una vite. Vari animali provano ad aiutarlo a cercarla, ma senza successo, la vite non si trova. Gli animali sono certamente gentili, ma il punto è che si limitano a tentare di «risolvere il problema», senza arrischiarsi ad andare più in là, a mettere in gioco il loro cuore un po’ di più. In buona fede, beninteso, solo per paura di non essere apprezzati: ognuno di loro vorrebbe alleviare la tristezza di robottino, ma non ci prova neanche, perché, si sa, robot-
20mila i pasti serviti al Centro Bethlehem. Trasferitosi nel 2023 nella Masseria della Solidarietà di Cornaredo (realizzata dalla Fondazione Francesco e dal Rotary Club Lugano-Lago in collaborazione con la Città), il Centro sociale Bethlehem vuole essere un luogo di incontro e condivisione, dove, con un approccio informale e al tempo stesso professionale, si propone di rispondere a forme diverse di prima necessità, per mezzo della possibilità di consumare un pasto, fare la doccia e il bucato, accedere a internet, come pure usufruire di ascolto ed aiuto. «Ai pasti serviti presso la Masseria di Cornaredo, vanno aggiunti gli oltre 17mila – fra colazioni, pranzi e cene – portati in tavola a Casa Martini, che è l’altra struttura di prima accoglienza di cui ci occupiamo, presso la quale offriamo pure la possibilità di un pernottamento di emergenza – continua il frate cappuccino – tornando ai pasti, va precisato che non vengono serviti a titolo gratuito. Ai nostri ospiti chiediamo infatti un contributo simbolico di 5 franchi, che corrisponde appunto alla donazione del “Pasto sospeso”, e questo per dare valore sia al cibo – che è di recupero, quindi frutto di offerte –sia, soprattutto, alle persone che si rivolgono a noi, le quali vivono, come detto, situazioni di difficoltà, connesse spesso a sentimenti di vergogna». Ma come funziona concretamente questo bel progetto? È molto semplice. Innanzitutto bisogna scegliere di pranzare o cenare presso un esercizio pubblico che aderisca all’iniziativa. Locale che si trova facilmente consultando la sezione «ristoranti» del relativo sito oppure si identifica perché espone il simbolo del progetto al suo esterno. Presso il ristorante che si sarà scelto, si troverà poi una locandina o un dépliant con un QR code, che basterà inquadrare per effettuare la propria donazione di uno o più pasti del valore di 5 franchi ciascuno. A questo punto, la donazione verrà trasferita dal Rotary Club Lugano-Lago alla Fondazione Francesco, che gestisce – come detto – il Centro Bethlehem alla Masseria di Cornaredo, il quale
si occuperà a sua volta di convertire quanto ricevuto in uno o più pasti effettivi che saranno serviti nella propria struttura. Se qualcuno lo preferisce, può anche donare un pasto sospeso direttamente dal sito internet (www.pastosospeso.ch), senza passare da un locale pubblico. Sul sito inoltre è possibile verificare il numero di donazioni complessive, che viene periodicamente aggiornato. «La semplicità dell’iniziativa e la trasparente gestione delle donazioni che fluiscono direttamente al Centro Bethlehem rendono estremamente efficace l’apprezzato gesto di sostegno del singolo», commenta fra Martino Dotta.
Il progetto del «Pasto sospeso» non nasce però a Lugano, bensì a Monza, alla fine del 2016, su iniziativa del Rotary Club Monza Villa Reale e con il coinvolgimento di tantissime istituzioni che hanno reso da subito l’iniziativa estremamente credibile. Nel solo primo anno, vi aderiscono più di 30 ristoranti e si raccolgono oltre 3’500 pasti sospesi. Visto tale riscontro, altri Club Rotary partono con dei progetti nelle loro città, e cioè Cantù, Erba e poi Cremona, Trieste, Nardò, fino ad arrivare ai più recenti Lodi e – il primo al di fuori dei confini italiani – Lugano. Nei suoi primi otto anni di esistenza, l’iniziativa ha nel suo insieme raccolto più di 40mila pasti sospesi.
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tino non gradirebbe, lui è un robot, è troppo diverso da ognuno di loro. Orso, per esempio, potrebbe proporgli una bella corsa sulla sua groppa ma «a un robot, di sicuro non piacerebbe…», Lepre è brava a far ridere, ma pensa «non conosco nessuna storia da robot per farlo ridere», Coccodrillo pensa di non poter dare «a un robot un bell’abbraccio di consolazione», mentre Gufo presume «che i robot non ascoltino dolci ninne nanne», e così via, finché arriva Castoro, che aiuta davvero il Piccolo Robot, e non solo perché gli costruisce una vite, ma perché, oltre a quello, offre un
plus, gratuito, di amore, senza fermarsi sulla soglia della presunta diversità del robottino, così alieno da tutti loro. E gli chiede (proprio come il nonno di Heidi, la prima volta che vede la nipotina, aliena anche lei per lui, vecchio dell’Alpe, nel suo essere così piccola, così bambina): «c’è qualcos’altro che posso fare per te?» . Castoro, dunque, si mette in gioco, e ciò permetterà a Piccolo Robot di farlo a sua volta: «mi faresti fare un giro sulle tue spalle? Ti andrebbe di raccontarmi una storiella divertente?», e si scoprirà che il robottino apprezza eccome queste cose, e pure gli abbracci, e le ninne nanne…
Una storia dolce e profonda, che tocca anche gli adulti (quante volte ciò di cui abbiamo bisogno non è un problem solving ma solo un po’ di empatia, di ascolto, di tempo).
Raffinata la scelta dell’illustratrice nel differenziare lo stile delle immagini a seconda che esse si riferiscano a una vicenda della storia oppure a un pensiero dei personaggi. Inoltre, le sue immagini calde sono capaci di illuminare allo stesso modo i paesaggi
È quindi al Rotary Club Lugano-Lago che si deve la presenza di questa iniziativa solidale sul territorio cantonale: «Il Club ci sostiene come Centro Bethlehem ormai dal 2013; ci ha affiancato in tutta l’operazione di ristrutturazione della Masseria e ha deciso poi di continuare ad accompagnarci e sostenerci, anche se in genere i Rotary Club tendono piuttosto a promuovere dei progetti puntuali – racconta fra Martino Dotta – nel caso specifico del progetto del Pasto sospeso, il Club fornisce pure un sostegno molto concreto di base, per esempio essendosi occupato dell’allestimento del sito web, di cui cura ora la gestione». Come del suo predecessore – il «caffè sospeso» napoletano – del progetto «Pasto sospeso» piacciono soprattutto l’immediatezza e la semplicità, che lo distinguono da altri modi per aiutare chi ha bisogno. «Il Pasto sospeso è un modo per dare l’opportunità a chi lo desidera di far emergere il proprio lato di condivisione e di attenzione per gli altri, in maniera molto semplice – spiega il direttore della Fondazione Francesco – di questa iniziativa ci è piaciuto anche il fatto di poterla condividere a tutto campo tramite i locali pubblici che vi aderiscono, coinvolgendo la di loro clientela e potenzialmente chiunque abbia la disponibilità di garantirci un sostegno
Il «Pasto sospeso» è un aiuto concreto attraverso una piccola donazione da effettuare nei ristoranti che aderiscono all’iniziativa. (Freepik.com)
finanziario, grande o piccolo che sia». Esercizi pubblici che hanno accolto con generosità questa possibilità di aiuto: «Il progetto è stato presentato alla fine di febbraio e al momento sono già 15 i locali che hanno aderito, oltre alla Locanda della Masseria, e quasi 1’500 i pasti donati – continua – il nostro obiettivo è ora di estendere gradatamente il progetto ad altri esercizi interessati ad aderirvi, non solo del Luganese ma di tutto il Cantone, dal momento che non vi è alcuna esclusività legata alla regione o al nostro Centro».
Dall’accoglienza riservata a questa recente iniziativa, da parte sia dei locali sia dei clienti, emerge una certa sensibilità presente nostra realtà riguardo alle tematiche relative alle difficoltà di tipo economico, come pure la concreta la volontà a dare il proprio contributo. «Come mi piace sempre sottolineare, la popolazione ticinese, seppur spesso un po’ brontolona, si rivela poi molto generosa quando si tratta di contribuire ad iniziative di vario genere, sia a livello economico che mettendo a disposizione il proprio tempo – conclude fra Martino Dotta – al Centro Bethlehem, per esempio, possiamo contare su una trentina di volontari, mentre sono sempre numerose le persone che prendono parte a quanto di volta in volta proponiamo».
naturali e lo sguardo di un’adorabile intelligenza «artificiale».
Marco Magnone – Lorenzo Sangiò Leggi ancora Nanà Mondadori (Da 6 anni)
Marco Magnone è uno scrittore abituato a rivolgersi ai ragazzi, ma è la prima volta che si rivolge ai bambini, e lo fa con efficacia rendendo loro accessibile questa storia su un tema non facile. Lo aiutano le belle immagini di Lorenzo Sangiò, e l’idea di trasformare in animali antropomorfi i personaggi, che peraltro sono tratti da una storia vera (di umani), ossia la cosiddetta Guerra del Chaco (1932-1935) combattuta tra Bolivia e Paraguay. Alcuni tratti geografici e culturali vengono sapientemente mantenuti nel libro di Magnone e Sangiò, come l’ambientazione in un villaggio isolato tra le montagne, o la scelta degli animali tipici di quei luoghi, o il poncho indossato dal condor Coco, che ogni giorno legge agli altri abitanti del villaggio le notizie dal giornale arrivato dalla pianura. E già questo è un tema della storia: il valore della lettura ad alta voce, della condivisione e del senso di comunità che essa comporta. Coco è l’unico a saper leggere, ma ha bisogno di un erede, così insegna alla piccola Nanà, che inizierà a scoprire la magia della lettura ad alta voce, fino al giorno in cui le toccherà di leggere la notizia che mai avrebbe voluto: è scoppiata la guerra. Coco, e molti altri, partono per unirsi ai ribelli, e sarà quindi Nanà a sostenere chi è rimasto, con la forza e la «cura» della lettura ad alta voce e della fantasia. Perché, Nanà ce lo conferma, le storie sono salvifiche: alimentano la speranza e tengono in vita.
Eccomi nel bosco per una prima passeggiata primaverile. Un rituale consueto, accompagnato da emozioni, pensieri, risonanze e oggi anche da presenze immaginarie.
Accanto a me Francis Hallé, il biologo innamorato della foresta e profondo conoscitore dei suoi segreti, a ricordarmi che gli alberi si nutrono di sole, di acqua e di luce. A differenza degli altri viventi, le piante non devono uccidere per vivere e sopravvivere. Il mio compagno di viaggio immaginario mi aiuta così a percepire fin da subito questa loro preziosa espressione della vita e ad accogliere e a ospitare la presenza del bosco dentro uno sguardo complice in cui si annulla quella distanza con cui ci siamo chiamati fuori dalla natura. È uno sguardo profondamente diverso da quello con cui quasi sempre osserviamo la vita che ci circonda e la imprigioniamo nella sua alterità, nella sua differenza rispetto alle nostre forme di esistenza. Facciamo fatica a percepire
Terre Rare
i segni di una comune appartenenza alla vita, ma siamo bravi invece a creare gerarchie. È così che il mondo vegetale viene a volte pensato e rappresentato come un «di meno della vita», come una mancanza, finanche una perdita che viene purtroppo ad abitarci, ad esempio, quando la malattia ci avvicina alla morte.
A dispetto di queste rappresentazioni riduttive, il mio compagno di viaggio immaginario mi ricorda invece la straordinaria potenza vitale di un’intelligenza diffusa: negli alberi ogni cellula contiene tutto ciò che serve alla vita. Le piante sono esseri viventi intelligenti che sanno risolvere i problemi di sopravvivenza per il loro benessere e imparano a farne memoria. Mentre cammino, Francis mi racconta di tante capacità straordinarie, come quella di controllare le piogge emettendo dalle foglie elementi volatili come fossero germi per l’umidità, capaci di generare gocce d’acqua, o della sorprendente intel-
Gente quasi come noi
È bello scoprire che, a questo mondo, mentre la tecnologia sembra volerci mantenere in uno stato d’animo di costante e anche angosciosa agitazione, c’è qualcosa che rimane sempre uguale. Qualcosa che veramente non muta mai, facendoci provare almeno per un momento un sentimento di solida sicurezza: la malavita. Questa continua, infatti, a costruire le proprie fortune attraverso le stesse antiche malversazioni di sempre; truffe, traffico di droga, gioco d’azzardo, riciclaggio, estorsione, corruzione. In questo mondo in frenetica evoluzione, in cui l’uomo comune perde ogni giorno di più la nozione del tempo e i valori del vivere sociale, diventando vittima di una digitalizzazione forzata, ecco che esiste almeno un settore della società che sembra mantenere la propria solida tradizione.
Unboxing
Con l’unboxing di giocattoli su YouTube Ryan Kaji, nato in Texas il 6 ottobre 2011, a soli 6 anni ha guadagnato 10 milioni di dollari, diventando dal 2018 al 2020 per tre volte consecutive lo youtuber più pagato al mondo. Oggi, a 13 anni, guadagna 35 milioni di dollari all’anno (fonte: Forbes). Il suo canale, Ryan’s World, gestito insieme con mamma Loann e papà Shion e alle sorelline gemelle Emma e Kate, conta oltre 39 milioni di iscritti, con una base di pubblico che include principalmente bambini tra i 2 e i 6 anni. Il suo talento principale? Fare unboxing, ovvero aprire scatole/pacchi sui social e mostrarne il contenuto, che in questo caso sono soprattutto giocattoli. Quindi, se i bambini della Generazione Alpha (nati dal 2012) ne Le parole dei figli non parlano di unboxing, sappiate comunque che è uno dei contenuti più seguiti su YouTube,
ligenza «predittiva» dei pioppi, della loro strategia in grado di combattere il fuoco e di non bruciare. Mi offre poi una preziosa verità: tutto ciò che accade nel bosco è una bella lezione per il nostro individualismo, perché gli alberi non possono vivere soli. È davvero rara la solitudine degli alberi, in alcuni casi riescono perfino a comunicare tra loro grazie ai funghi del suolo.
Accompagnata da questi pensieri, riesco infine a vedere quella bellezza che sempre chiama a riconoscere la verità. Nella mia esplorazione provo un sentimento di gratitudine per essere riuscita a entrare in contatto con questa bellezza che spesso non riusciamo a vedere. Non riusciamo a vederla la bellezza silenziosa di un cosmo che ci chiama a un’intimità più profonda con la vita.
Nella natura, nelle sue espressioni più belle, spesso vediamo una bellezza da ammirare proprio perché è altra da noi. Una bellezza distante, estranea,
da trattenere nello sguardo e forse nel cuore, o anche solo una bella immagine da condividere con gli amici nei social.
Senza rinunciare alla gratitudine per l’armonia che il bosco mi sta regalando, sento che la passeggiata mi sta portando da un’altra parte rispetto a simili percezioni autoreferenziali. È a questo punto che un altro compagno immaginario viene a prendermi per mano per portare ancora oltre il mio desiderio di intimità con il bosco. Lui si chiama Eduardo Kohn e ha scritto un libro straordinario su come pensano le piante. Sì, anche le piante pensano, perché il pensiero non è necessariamente legato solo al linguaggio umano. È perché pensano che i viventi sono vivi, mi ricorda. Vita e pensiero sono la stessa cosa, la vita pensa e i pensieri sono vivi. Come ha scritto Emanuele Coccia nella prefazione al suo affascinante libro, grazie alla sua capacità di pensare, di comunicare, di emettere e di in-
terpretare segni, ogni essere vivente è un sé: «gli animali, le piante, i funghi sono soggetti, presenze, forme alternative dell’io».
Percepisco così ancor più la presenza di una comune radice della vita da cui è emerso anche il pensiero umano: ora i miei passi riescono ad affondare dentro un continuum che lega ogni forma di esistenza.
Sto per rientrare, ed ecco che in uno di quegli spazi di luce che sorprendono le ombre del bosco mi sta aspettando, assorto nei suoi pensieri, Jean Jacques Rousseau. Se ne sta trasognato, dentro le sue Fantasticherie del passeggiatore solitario, in dialogo con il proprio mondo interiore, nella dolcezza di conversare con l’anima. Termina così, con questa preziosa presenza che viene da lontano, la mia passeggiata primaverile nel bosco: abbracciata alla fisicità possente degli alberi ho vissuto un’esperienza più profonda e più autentica della nostra umanità.
Abbiamo bisogno di certezze e, pur nella sua volontà di mostrarci come le cose stiano cambiando e si stiano tecnologizzando in modo forse imprevisto anche sul «lato oscuro della Forza», il lucido, documentatissimo libro-inchiesta Mafia digitale.ch, di Francesco Lepori (Dadò Edizioni, 2025) riesce in qualche modo a chiarire i nostri dubbi. La delinquenza, infatti, sembra proprio rimasta quella di sempre. Anche se ha scoperto la comodità delle nuove tecnologie, le usa essenzialmente per portare a termine i soliti vecchi affari. Sarebbe stato del resto spiazzante scoprire che la camorra stesse investendo la propria smisurata ricchezza per creare un nuovo farmaco contro i tumori, oppure che la ’ndrangheta stesse mettendo in piedi un sistema di monitoraggio del CO2 in grado di diminuire il rischio del riscaldamento ter-
restre. Niente di tutto questo. Mafia digitale.ch, con una interessante e documentatissima carrellata di episodi scaturiti dalle inchieste e dai processi celebrati negli ultimi anni in Ticino e in Italia, ci mostra come il mondo della delinquenza si sia sì adeguato agli strumenti di comunicazione della nuova era digitale, arrivando a livelli di sofisticatezza impressionanti, ma tutto questo per perseguire i soliti vecchi disegni malavitosi. La cosa è un po’ sorprendente, ma tant’è. Il libro di Lepori (giornalista esperto di cronache giudiziarie e attivo in particolare nell’Osservatorio ticinese sulla criminalità organizzata dell’USI) scatta una fotografia aggiornatissima e come detto molto ben documentata, prendendo spunto da indagini svolte negli ultimi anni e che hanno portato a fissare in modo inequivocabile il profilo di alcu-
ne figure criminali legate al mondo della malavita organizzata. Un lavoro di particolare interesse, come vuole suggerire il titolo stesso con la sua estensione «.ch», perché mostra gli effetti di questo fenomeno non in Calabria, in Sicilia, in Campania, là dove noi pensiamo che queste forme delinquenziali siano attive, ma qui da noi, in Ticino e in Svizzera, cioè fuori dalla nostra porta di casa. Il libro ci spiega che il mondo del crimine oggi è sostanzialmente noioso. Boss e picciotti usano i social esattamente come tutti noi, per mettere in mostra in modo narcisistico le proprie qualità e ricchezze (magari con qualche Ferrari o Lamborghini in più, d’accordo); postano foto di gattini e di bei fiori su Facebook e Instagram, insieme a messaggi edificanti dal contenuto etico, morale e persino religioso; usano il tele-
fono cellulare (questa volta però di forma e funzionalità un po’ speciale) per tenere traccia dei propri affari. Gli operatori in attività sul lato oscuro dell’economia, insomma, non si distinguono molto dalle persone che incontriamo nella nostra routine quotidiana. Leggendo il libro di Lepori sorge infatti questo semplice dubbio: quelli strani siamo noi, i cosiddetti onesti. Sono i cosiddetti onesti i più a rischio, quando, a volte, perdono la bussola etica, trasformandosi in fiancheggiatori, in facilitatori, in partner d’affari, amnesici o distratti, dei mafiosi. E permettendo a quel sistema malato di portare avanti i propri antichi, consolidati disegni. Nel mondo del crimine tecnologico, insomma, non si può dare la colpa alla sola tecnologia. Come sempre, sono gli uomini, a usarla. Male, a volte.
il social più utilizzato da questa fascia di età. Per esempio, il video intitolato «Huge Eggs Surprise Toys Challenge with Inflatable Water Slide », ossia «Sfida delle enormi uova sorpresa con scivolo gonfiabile», dove Ryan cerca e apre uova sorpresa contenenti macchinine e pupazzetti di Paw Patrol, ha superato i 2 miliardi di visualizzazioni. È quindi importante essere consapevoli che, sotto forma di video divertenti e animati, i più piccoli sono spesso immersi in pubblicità subliminali. Una spinta al consumismo all’ennesima potenza! Ma sui social anche un semplice video unboxing di un nuovo gadget può diventare virale, influenzando in modo significativo le abitudini di acquisto, soprattutto tra i Gen Z. Per questo, ne Le parole dei figli, vorrei proporre uno scambio: molti genitori non sanno cos’è l’unboxing, ma ora hanno l’opportunità di comprenderlo
meglio. Allo stesso tempo, molti giovani non sono consapevoli di cosa ci sia dietro agli ordini online che vedono scartare o scartano loro stessi davanti a una telecamera. Gli acquisti su piattaforme come Amazon, Temu e Shein non vanno demonizzati, ma è importante che i nostri figli sappiano cosa comportano: quali dati vengono raccolti quando fanno un ordine su Amazon, a chi vanno i soldi quando acquistano su Temu e quali rischi corrono sulla qualità dei prodotti, e lo stesso vale per Shein. Insomma: noi comprendiamo cos’è l’unboxing e, con questa consapevolezza, possiamo condividere con i nostri figli riflessioni su cosa si nasconda dietro i siti da cui spesso acquistano. È un argomento di cui ci occupiamo spesso con la squadra di colleghi che lavorano con me al «Corriere della Sera» per la rubrica Data-
room. Il principale sito di e-commerce al mondo, Amazon, arriva a ottenere due tipi di informazioni sul nostro conto: 1) le informazioni certe come nome, età, indirizzi di casa e lavoro, numeri di cellulare, la nostra posizione geolocalizzata, e informazioni su amici e parenti (è sufficiente quella volta che abbiamo fatto recapitare loro un regalo perché i server della società conservino i loro riferimenti, anche se non sono mai stati clienti); 2) le informazioni presunte, che ottiene elaborando i dati anche con l’impiego dell’intelligenza artificiale per sapere interessi, passioni e stili di vita. Questi dati vengono poi usati per proporre prodotti mirati e condizionare per l’ennesima volta gli acquisti. Temu, i cui prodotti compaiono in continuazione nello scrollo su TikTok, è famoso per vendere a prezzi stracciati un po’ di tutto. Dietro ci sono fornitori
per lo più cinesi, i maggiori azionisti sono cinesi ma i guadagni finiscono alle Isole Vergini Britanniche e il gruppo ha la sua casa madre a Cayman in una palazzina a due piani circondata da palme, a pochi metri dalla spettacolare spiaggia di Seven Mile Beach, dove è domiciliato anche TikTok. Guarda caso! Oggi Temu è sotto indagine Ue per presunta violazione delle norme a tutela dei consumatori, tra cui la possibile vendita di prodotti non conformi agli standard europei, e le caratteristiche del servizio, che potrebbero creare dipendenza. Shein è invece una delle piattaforme (sempre cinesi) predilette dai Gen Z per la fast fashion che sta per «moda rapida e a basso costo». Le inchieste giornalistiche condotte mostrano come dietro a una t-shirt a pochi franchi ci possano essere lavoratori schiavi e tessuti tossici.
Oggi la Chiesa universale è somma algebrica di chiese particolari: riuscirà il successore del papa a sciogliere questo nodo di Gordio?
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Tagli accademici
Il congelamento di Trump dei fondi destinati al mondo accademico può potenzialmente riverberarsi anche in Svizzera
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Bergoglio, un papa a ruota libera
La tenacia di Christiane Brunner
Christiane Brunner, scomparsa recentemente, è stata una protagonista indiscussa della storia politica svizzera
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In memoriam ◆ Il ricordo di un pontefice che ha saputo umanizzare la figura del successore di Pietro
«Preferisco una Chiesa incidentata a una Chiesa malata». Lo disse fin dalla sua prima intervista, quando ancora quelle sue espressioni così dirette sembravano qualcosa di inimmaginabile sulla bocca di un papa. Lo ha ripetuto col suo stesso corpo la mattina della Pasqua 2025, in quel suo ultimo giro tra la folla di piazza San Pietro, poche ore prima di morire. Parole e immagini in cui, in fondo, c’è tutta la cifra del pontificato di Francesco, il pontefice pescato «dalla fine del mondo», come lui stesso si era definito apparendo il 13 marzo 2013 da quella stessa loggia delle Benedizioni che è stato anche il luogo del suo commiato. È stato il papa a ruota libera, senza bisogno mediazioni, Jorge Mario Bergoglio divenuto Francesco. Proprio il rapporto diretto con la gente, con quel suo stile plasmato tra i vicoli e le contraddizioni delle Villas Miserias di Buenos Aires, è stata la sua forza in questi dodici anni di carismatica ma anche molto scomoda guida della Chiesa cattolica. E non è solo una questione di suggestione mediatica se proprio tutti in queste ore hanno il loro papa da raccontare.
Lo stile di Jorge Mario Bergoglio si è plasmato tra i vicoli e le contraddizioni delle periferie di Buenos Aires
Francesco è stato il pontefice che più di ogni altro ha «umanizzato» la figura del successore di Pietro, con gesti rispetto ai quali ora sarà difficile per chiunque tornare indietro. Fin dalla scelta – solo apparentemente minore – di non abitare più nelle stanze appartate del Palazzo Apostolico, preferendogli in Vaticano la ben più affollata Casa Santa Marta. Ma anche, ad esempio, l’idea di un papa che prende direttamente in mano il telefono per chiamare qualcuno a cui esprimere la propria vicinanza.
Francesco ha fatto scendere fisicamente il papa dal piedistallo. Ma –ancora di più – ci ha abituato a un capo della Chiesa cattolica che non è più l’oracolo che centellina le parole, ma un uomo che parla a braccio rispondendo senza rete alle domande. Pronto a esporsi anche al rischio di sbagliare e poi chiedere scusa.
Chi cercava un papa sistematico, capace di confermare le proprie sicurezze, con lui è rimasto del tutto spiazzato. «Chi sono io per giudicare?» è una delle sue frasi che rimarranno nella memoria. Eppure anche chi si aspettava «aperture e rivoluzioni» dal papa argentino alla fine è rimasto deluso. Perché era una persona molto più incline ad «innescare processi» che a tirare conclusioni; umanissimo anche in questo, in fondo.
«Misericordia» è stata la parola chiave del suo pontificato. Non come uno slogan, ma come modo di porsi di fronte alla realtà. È stato il papa dei poveri, dei migranti, degli emarginati; la speranza degli ultimi che oggi forse con più sincerità di tanti altri lo piangono. Ha parlato di terra, casa, lavoro con i movimenti popolari. Ha insegnato che «il mondo si vede più chiaramente dalle sue periferie». Ma sbaglia chi ha visto in lui solo attivismo sociale. In Bergoglio tutto cominciava dallo sguardo alla singola persona: fosse un grande della Terra o l’ultimo dei senza fissa dimora che dormono sotto il colonnato del Bernini.
«Quando vado in visita in carcere mi chiedo sempre: perché loro e non io?». Con un filo di voce, tre giorni prima di morire, lo ha ripetuto ancora uscendo dal carcere di Regina Coeli nell’ultimo Giovedì Santo vissuto da sacerdote accanto ai detenuti. Non era retorica, ma la convinzione di un uomo che non si sentiva affatto perfetto, eppure aveva la serenità di riconoscersi amato e perdonato dal Dio in cui profondamente credeva. Chi lo ha rimproverato di parlare troppo poco
di Gesù Cristo, molto semplicemente non lo ha ascoltato: la misericordia che predicava in ogni discorso era quella delle parabole del Vangelo.
«Misericordia» è stata la parola chiave di questo pontificato: non come slogan, ma come modo di porsi di fronte alla realtà
È stato un papa più missionario di quanto si pensi; e questo nonostante la sua allergia a ogni forma di «proselitismo». A un cattolicesimo rintanato nella sindrome dell’assedio, ha parlato di una «Chiesa in uscita», che non sta in sacrestia ad aspettare che il mondo intero si penta, ma va incontro a ciascuno là dove si trova per parlare del suo Dio. Senza aver paura di «contaminarsi» nell’incontro con gli altri. Per questo lui per primo non si vergognava di andare nei salotti tv o a casa di Emma Bonino. Un altro degli snodi cruciali del suo pontificato è stata la Dichiarazione sulla fratellanza umana firmata nel 2019 ad Abu Dhabi con l’imam al Tayyeb di al Azhar, l’università egi-
ziana che è il cuore del pensiero islamico sunnita. «Fratelli tutti» sarebbe diventato poi il titolo dell’enciclica da lui pubblicata dopo l’esperienza della pandemia, la malattia globale da cui saremmo dovuti uscire più uniti e che invece ci ha solamente reso tutti più soli e rancorosi verso gli altri. Del resto proprio lui, papa Francesco, era stato il primo a cominciare a parlare di quella «guerra mondiale a pezzi» che oggi tutti riconosciamo come esperienza quotidiana. Andava «a briglia sciolta» anche nella sua visione geopolitica: come forse non sarebbe stato poi così difficile da prevedere in una Chiesa che vede il suo baricentro spostarsi verso il Global South, con l’argentino Bergoglio è finita l’idea del papa come «cappellano dell’Occidente». Nei suoi stessi viaggi e nelle nomine dei cardinali ha snobbato Paesi di antica tradizione cattolica per privilegiare frontiere missionarie dove i cristiani sono una manciata o sperdute isole dell’Oceania. Ha invocato incessantemente pace per l’Ucraina e Gaza, anche a costo di esporsi alla critica di non distinguere tra loro aggredito e aggressore. Ha chiesto personalmente più coraggio nelle scelte, per affrontare
davvero il problema del cambiamento climatico. Tutte battaglie che ha perso, rimanendo alla fine drammaticamente inascoltato. Persino nel dialogo con Pechino, nonostante lo storico Accordo da lui voluto sulla nomina dei vescovi, i risultati sono stati molto inferiori alle attese (come si è visto dal profilo comunque basso tenuto dalla Repubblica popolare cinese in occasione della sua morte). «Meglio una Chiesa incidentata che malata». Anche nelle questioni geopolitiche. È morto nel mezzo di un Giubileo che ha voluto intitolare alla virtù della speranza. Ed è su questo che gli storici probabilmente si interrogheranno tra cent’anni guardando alla sua figura: l’invito alla misericordia ha lasciato davvero un’impronta duratura nel cuore di 1,4 miliardi di cattolici nel mondo? La sua «terapia d’urto» ha scosso la Chiesa cattolica dal piano inclinato che la stava conducendo verso l’irrilevanza? Papa Francesco è uscito di scena nel momento in cui tutto sembrerebbe andare nella direzione opposta al messaggio che ha portato. Ma proprio il Vangelo che tanto ha amato parla di un seme che muore per poi portare frutto.
Papa Francesco si presta a un bagno di folla in occasione della Domenica delle Palme del 2023. (Keystone)
Giorgio Bernardelli
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Nuovaricetta
Chiesa,
Cattolicesimo ◆ Il nuovo papa sarà chiamato a ridefinire il profilo funzionale della Chiesa
Lucio Caracciolo
Chiunque egli sia, il nuovo papa dovrà affrontare come priorità il governo della Chiesa. Esercizio abbastanza trascurato dai suoi predecessori. Forse l’ultimo pontefice che abbia provato a tenere in mano il timone della sua istituzione è stato Paolo VI, senz’altro il papa più politico della storia moderna. Dopo di lui, il lungo, grandioso pontificato polacco, con Karol Wojtyla impegnato a rovesciare la carta geopolitica d’Europa e del mondo, a portare sé stesso, icona vivente, in ogni angolo del pianeta; poi Albino Luciani, che non ebbe nemmeno il tempo di abbozzare un progetto di papato e che, secondo alcuni, pagò con la vita l’idea di pensarne uno troppo ardito; quindi Joseph Ratzinger, grande teologo caratterialmente inadatto a sporcarsi le mani con la gestione di una comunità così vasta e litigiosa; infine Jorge Mario Bergoglio, programmaticamente anticlericale, quindi avverso a riformare le sclerotiche strutture di Santa Romana Chiesa perché impegnato ad abbatterle in nome di una rivoluzione del popolo cristiano che non è mai scoppiata. Di qui il suo procedere per tentativi, in vista di riforme mai compiute. Lui stesso si professava amante del pensiero incompiuto. Risultato: all’alba del terzo millennio la Chiesa cattolica universale è un arcipelago di cattolicesimi particolari. Contraddizione in termini. Eppure realtà: ciò che divide, in linea di massima, un cattolico americano da uno italiano, un congolese da un cinese, un indiano da un brasiliano pare più di quanto li unisce. Diversità culturali forse inevitabili. Ma che potrebbero/dovrebbero essere mediate e orientate da un forte centro. Da Roma. Forse non è un caso che l’ultimo pontefice «governatore» della Chiesa fu un italiano, Giovanni Battista Montini. A sua volta ispiratore e riferimento del massimo partito politico della Prima Repubblica italiana, la Democrazia Cristiana. Sopravvissuto infatti pochi mesi all’assassinio di Aldo Moro, suo amico e capo della Dc. Trattandosi di un universo di oltre 1 miliardo e 400 milioni di anime – almeno stando ai battesimi, che gonfiano di molto il numero dei credenti, tacciamo dei praticanti – la carenza di una guida riconosciuta e rispettata rischia di produrre un insieme tendenzialmente scismatico. Anche se finora non si è determinato alcun vero, importante scisma di diritto, molti ne sono maturati di fatto. A cominciare da quello fra papa e curia. Scisma dentro Roma. Evidente sotto Francesco, accentratore per vocazione gesuitica (ordine di tono militare retto da un generale, culturalmente indisciplinato) e per carattere. La sua «Chiesa in uscita» sembra finita in coda di pesce. Deficit di spirito missionario, reso anche dal tracollo numerico dei missionari. Fra i suoi meriti, Bergoglio ha infatti quello paradossale di aver ricordato alla sua vasta famiglia che per uscire devi prima esistere come soggetto riconoscibile e riconosciuto. Definire la Chiesa cattolica oggi è impresa davvero ardua, stante le diversità fra le culture – tacciamo delle teologie o presunte tali – che vi convivono in spesso fittizia coralità liturgica e pastorale. Tendente alla distonia.
Il nuovo papa sarà chiamato a ri-
definire il profilo funzionale della Chiesa. In quanto umana collezione di anime diversamente centrate sul Cristo, impresa quasi impossibile. Ma da perseguire per necessità, pena l’autodissoluzione della stessa istituzione petrina. Il clima dell’oggi è particolarmente avverso all’impresa. Non ci riferiamo solo alle molte anime interne alla Chiesa. Il problema è soprattutto la crisi della socialità e la pulsione al solipsismo stimolata dagli stili di comunicazione social, profondamente asociali. Narcisistici. Crisi talmente profonda e diffusa da poter stimolare, sperano alcuni, anticorpi disposti a riscoprire le virtù della societas. Senza le quali niente ecclesia.
O forse è già troppo tardi? L’unità della Chiesa cattolica, per quanto imperfetta, è utopia? Addirittura distopia? E che ruolo può avere la Santa Sede nel ricentrare la Chiesa? Sempre che questa urgenza sia intesa nel senso bergogliano del Mistero della Luna, suo famoso apologo pronunciato davanti alla congregazione dei cardinali alla vigilia del voto che lo eleggerà papa. Ovvero dell’idea che Dio è il Sole che con la sua Luce illumina la Chiesa. Contro l’idea che la Chiesa possa/debba brillare di luce propria. La differenza fra una Chiesa del popolo di Dio e una Chiesa del clero.
Se mappassimo oggi il profilo del cattolicesimo su scala planetaria scopriremmo che per definirlo occorre considerare il ruolo fondamentale delle singole Conferenze episcopali. La Chiesa universale è somma algebrica di Chiese particolari. Particolaristiche, talvolta. Gelose della propria specifica cultura e del relativo potere. Più di prima, la voce di Roma è la voce del papa, quasi senza mediazioni curiali o comunque di istituzioni ombrello, capaci di orientare l’insieme dei cattolicesimi. Per paradosso, il papa che si è voluto distinguere quale vescovo di Roma è stato assai poco romano. Sia nel senso della passione per una città che non ha mai specialmente amato, sia più profondamente nel senso di vedere nell’Urbe più un vincolo che una risorsa. Quasi l’orbe prescindesse dall’urbe. Aveva ragione? Non sappiamo. Sappiamo però che questo è il nodo di Gordio che il suo successore dovrà sciogliere o tagliare: è possibile una Chiesa cattolica apostolica romana, essenzialmente petrina, senza di che non può esservi missione (paolina), oppure il suo futuro è uscire da sé stessa?
Trump e gli accademici in fuga
Stati Uniti ◆ La Casa Bianca sta mettendo sotto
Roberto Porta
Gli Stati Uniti, un Paese da cui fuggire, anche soltanto a causa delle proprie idee o per il fatto di insegnare in un’università? Uno scenario strampalato e senza senso, perlomeno fino ad un paio di mesi fa. Eppure è proprio quello che sta capitando in queste ultime settimane. L’idea di lasciare la terra su cui domina Donald Trump sta diventando una realtà concreta con cui fare i conti, in modo particolare per chi studia e lavora nelle università americane. La causa di tutto questo sta nel pugno di ferro con il quale l’inquilino della Casa Bianca sta mettendo sotto pressione diverse accademie del suo Paese, accusate di antisemitismo e di promuovere nei propri piani di studio politiche ambientaliste, inclusive e troppo inclini alla diversità, razziale e di genere.
Il caso più clamoroso riguarda Harvard, istituto fondato nel 1636, che ha visto il congelamento di oltre due miliardi di dollari
Trump è intervenuto d’imperio, tagliando una parte dei fondi pubblici annualmente versati a una quindicina di queste università, pubbliche e private. E minacciando di farlo anche contro altre accademie. Il caso più clamoroso è quello che riguarda Harvard, nei pressi di Boston, l’istituto superiore più antico del Paese, fondato nel 1636, ancora prima della nascita degli stessi Stati Uniti. Il presidente americano ha deciso di ridurre il supporto federale a questa università. Oltre due miliardi di dollari sono così stati congelati perché i vertici di questa accademia si rifiutano di piegarsi ai diktat di Trump. Malgrado una libertà accademica finora considerata sacrosanta, la scure presidenziale si fa sentire anche direttamente su alcuni professori, ricercatori e studenti. In queste settimane negli Stati Uniti ci sono persino stati degli arresti tra il personale accademico, in particolare tra chi aveva manifesta-
diverse accademie del suo Paese
to il proprio supporto alla causa palestinese. Senza contare che l’amministrazione Trump usa pure l’arma dei visti, tagliandoli, per impedire a studenti considerati «scomodi» di rimanere negli Stati Uniti.
Uno scenario non proprio in sintonia con i valori democratici e che al momento preoccupa e spaventa chi opera nelle università a stelle e strisce. Per questo motivo tra i professori e i ricercatori attivi negli USA, e tra loro ci sono anche numerosi cittadini elvetici, c’è chi sta pensando di lasciare gli Stati Uniti e di trasferirsi in Paese in cui la libertà accademica è ancora garantita. E la Svizzera da questo punto di vista è di certo una meta ricercata visto che alcune delle nostre università sono tra le più quotate al mondo.
In queste ultime settimane è emerso un diffuso interesse di questo tipo, senza che da parte dei vertici accademici svizzeri ci sia stata una
particolare promozione della nostra piazza scientifica, contrariamente a ciò che sta capitando in altri Paesi europei e anche in Cina. Intervistata da diversi quotidiani d’Oltralpe, la direttrice del Politecnico di Losanna, Anna Fontcuberta i Morral, ritiene che il nostro Paese non si debba muovere con una campagna di promozione specifica.
Anche la Svizzera ha annunciato la volontà di operare tagli al settore universitario per quasi mezzo miliardo di franchi
A suo dire bastano la qualità degli studi e le possibilità di carriera offerte dalle nostre accademie, due carte di sicuro valore già ben conosciute anche oltre oceano. Sta di fatto che per la rivista «Nature» ben il 75% dei ricercatori che oggi lavorano negli Sta-
Harvard in un’immagine del 1740 di William Burgis. (Wikipedia)
ti Uniti è pronto a trasferire armi e bagagli in un altro Paese occidentale. Per la Svizzera si apre dunque una finestra di opportunità, in un momento in cui da questo settore giungono però segnali contrastanti. Da una parte il Consiglio federale ha annunciato di voler tagliare di poco meno di mezzo miliardo all’anno i fondi destinati al settore universitario, un fatto che rischia di scoraggiare chi è alla ricerca di mete scientifiche sicure. Dall’altra parte la Svizzera è stata riammessa nei programmi di ricerca europei, e questo con effetto retroattivo al primo gennaio di quest’anno. Il nostro Paese era stato escluso da questi programmi scientifici a causa della bocciatura da parte del Consiglio federale del cosiddetto «accordo quadro», sostituito ora da una serie di nuove intese bilaterali su cui presto il Parlamento, e in seguito anche il popolo, saranno chiamati a pronunciarsi. Un’apertura che accresce di certo
le opportunità e l’attrattiva del mondo accademico elvetico.
Sempre in questo contesto, ma in ambito privato, va sottolineato che proprio la settimana scorsa il gruppo farmaceutico Roche ha annunciato un piano di investimenti pari a 50 miliardi di dollari e questo proprio negli Stati Uniti. Un’operazione cha va ad aggiungersi a quanto già previsto dalla rivale Novartis, pronta a investire negli USA altri 23 miliardi. Un piano d’azione che può di certo interessare anche il mondo accademico americano, in fuga dalla scure di Trump.
Tutto questo proprio in un momento in cui a livello politico il Consiglio federale sta concretizzando la sua strategia per contrastare la cascata di dazi commerciali che il presidente americano era pronto a far ricadere sul mondo intero, Svizzera compresa. Previsto da tempo, il viaggio a Washington, alla fine della settimana scorsa, della presidente della Confederazione Karin Keller Sutter e del ministro dell’economia Guy Parmelin aveva proprio l’obiettivo di presentare, se non direttamente a Trump, perlomeno a un paio di ministri del suo governo, la visione svizzera dei rapporti economici bilaterali.
Negli Stati Uniti il nostro Paese, con le sue aziende, ha creato finora quasi mezzo milione di posti di lavoro ed è tra i maggiori investitori, in particolare per quanto riguarda proprio il settore della ricerca e dello sviluppo tecnologico. Carte importanti da giocare sulle scrivanie dell’amministrazione USA e per cercare di ridurre, se non azzerare, le tariffe doganali minacciate da Trump. Stiamo dunque assistendo a una partita su più fronti che, a vario modo, coinvolge università, economia privata e mondo politico. Con Karin Keller Sutter pronta a dialogare di nuovo direttamente con Trump. Ma con un punto non irrilevante a suo sfavore perché, come lei stessa ha affermato, «Lui ha il mio numero di telefono, ma io non ho il suo».
Confederazione ◆ Il 18 aprile è mancata Christiane Brunner, figura anticonformista e carismatica (e forse soprattutto scomoda) che per una vita ha lottato per l’uguaglianza in Svizzera
Luca Beti
«Mentre altri discutevano ancora sull’uguaglianza di genere, Christiane Brunner portava mezzo milione di donne in piazza. E lo faceva da bionda, elegante, con una vivacità e una gioia contagiose. Non c’è quindi da stupirsi se in molti non la vollero in Consiglio federale». Così la filosofa politica e autrice di libri di successo Regula Stämpfli ricorda Christiane Brunner, figura carismatica con cui ha condiviso parte del percorso politico e della lotta per l’uguaglianza in Svizzera. «Negli anni Novanta ero una giovane studentessa e nutrivo una grande ammirazione per questa donna che, come me, veniva dalla classe operaia».
Le due si incontrano per la prima volta nel 1990 in occasione di una conferenza delle donne socialiste. Regula Stämpfli tiene un intervento sullo sciopero femminile del 1975 in Islanda, dopo aver partecipato a un simposio dell’UNESCO a Oslo dedicato al ruolo delle donne in politica. Tra Brunner e Stämpfli nasce un’amicizia sincera. «Era una donna travolgente, arguta e divertente». Ma all’epoca non tutti la pensano così. Christiane Brunner metteva in discussione valori consolidati e ruoli tradizionali. «Era una donna che aveva avuto diversi compagni, viveva in una famiglia patchwork, con un figlio proprio, uno adottivo e tre figli affidatari», ricorda Stämpfli. «Negli anni Novanta, in una Svizzera palesemente maschilista, era troppo per gli uomini».
Christiane Brunner, oltre a lottare per la parità tra i generi, è stata soprattutto una grande sindacalista
Nel 1993, Christiane Brunner, giurista, già co-presidente dell’Unione sindacale svizzera e consigliera nazionale ginevrina, era l’unica candidata ufficiale del Partito socialista. Doveva succedere al neocastellano René Felber in Consiglio federale. Dopo settimane di campagna mediatica denigratoria, sessista e misogina, condotta in particolare dal tabloid zurighese, il quotidiano più diffuso in Svizzera, il 3 marzo l’Assemblea federale, a maggioranza borghese, le preferisce Francis Matthey. È la seconda volta, a dieci anni dalla mancata elezione di Lilian Uchtenhagen, che il Parlamento nega l’accesso al Governo a una donna socialista. «La sua forte identità femminista e il suo modo di porsi erano visti come una minaccia dagli uomini», sottolinea Stämpfli, che dedicherà una puntata del suo podcast settima-
nale Die Podcastin all’eredità politica di Brunner. «Fu una sconfitta enorme, non solo per Christiane, ma per tutte le donne. Ma lei reagì da figlia della classe operaria: incassò il colpo, tornò al lavoro e continuò la lotta politica a favore delle donne».
Già nella sala del Consiglio nazionale, Christiane Brunner sente la solidarietà delle compagne di partito e delle persone presenti sulle tribune. Ma è soprattutto la piazza a manifestarle la propria vicinanza. Dopo una settimana di proteste in diverse città svizzere, il 10 marzo oltre 10’000 persone si radunano sulla Piazza federale: è un concerto di fischietti e di cori che scandiscono il suo nome. Sotto la Cupola di Palazzo, le due Camere federali riunite devono scegliere tra il ticket Christiane Brunner-Ruth Dreifuss. Messo sotto pressione dal partito e per evitare una crisi interna al PS, Francis Mattey aveva infatti rinunciato, suo malgrado, al seggio in Governo. Alla fine, Dreifuss viene eletta al terzo turno, diventando la seconda consigliera federale dopo la liberale radicale Elisabeth Kopp. Per la maggioranza borghese rappresentava il male minore rispetto a Christiane Brunner, considerata troppo di sinistra e troppo anticonformista. Subito dopo il giuramento davanti all’Assemblea federale, le due donne
(Schweizerisches Sozialarchiv)
considerate gemelle politiche escono insieme per accogliere l’abbraccio della piazza. «Ho dovuto salire sul palco per consolare le donne deluse. Ma non è stato facile parlare alla folla», ricorderà in seguito Brunner. «Le circostanze di quella elezione hanno avuto diverse conseguenze destinate a segnare a lungo la politica svizzera», si legge nel Lessico del Consiglio federale curato da Urs Altermatt. «Il cosiddetto “effetto Brunner” ha portato a un netto aumento della presenza femminile negli esecutivi, nei partiti e nelle associazioni. Un’altra conseguenza di quel voto turbolento è che, da allora, i gruppi parlamentari dell’Assemblea federale presentano quasi sempre due candidati per ridurre il rischio di candidature selvagge». Ma chi era questa donna che seppe scuotere il patriarcato svizzero?
Nata il 23 marzo 1947, Christiane Brunner cresce in condizioni economiche precarie nel quartiere popolare di Eaux-Vives, a Ginevra. Il padre muore giovane, la madre mantiene la famiglia lavorando come sarta e sogna per la figlia un futuro da cassiera alla Migros. Non la pensa così una sua insegnante che intuisce che è destinata ad altro. La iscrive a un concorso per una borsa di studio. Brunner frequenta il liceo e poi studia diritto. Nel 1969 partecipa alla fondazione del Movimento di liberazione della donna in Svizzera. Si iscrive al Partito Socialista nel 1976, dando inizio a una carriera politica che la porterà nel Gran Consiglio ginevrino, quindi nel Consiglio nazionale e infine nel Consiglio degli Stati. Tra il 2000 e il 2004 guiderà anche il Partito Socialista svizzero, in un momento in cui il PS si trovava in una crisi profonda. Ma Christiane Brunner è stata anche e soprattutto una sindacalista. Ha presieduto il Sindacato del personale dei servizi pubblici, la Federazione svizzera dei lavoratori della metallurgia e dell’orologeria e, infine, è stata copresidente dell’Unione sindacale svizzera insieme a Vasco Pedrina. Il suo più grande successo popolare resta lo sciopero femminile del 14 giugno 1991. «È stata una sua
iniziativa», ha ricordato Ruth Dreifuss in una recente intervista alla RSI. «Sapeva come trascinare la folla. Il simbolo del sole e del colore viola sono merito suo».
A oltre trent’anni dalla sua non elezione in Consiglio federale, chiediamo a Regula Stämpfli se oggi Christiane Brunner verrebbe scelta dall’attuale Assemblea federale. La politologa non ha dubbi: «No. E probabilmente non per colpa della destra, ma del gruppo parlamentare socialista che ancora oggi non le perdonerebbe il suo fare sbarazzino, la sua personalità forte e il suo pragmatismo politico».
Una retrospettiva a Monte Carasso racconta la potenza visiva del fotoreporter che attraversò guerre, incontrò divi e documentò rivoluzioni
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Il dilemma dei figli, un documentario Nel suo nuovo lavoro lo svizzero Simon Baumann si dedica ai propri genitori chinandosi su questioni famigliari e politiche
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L’arte di scrivere sull’arte
Mostre ◆ A Mendrisio un’esposizione celebra il felice connubio tra parola e immagine
Alessia Brughera
Se una mostra d’arte solitamente pone al centro dell’attenzione la figura dell’artista, non così accade in questi giorni negli spazi del Museo di Mendrisio, dove una rassegna ribalta questa prospettiva omaggiando coloro che di arte hanno scritto. Alla base c’è una profonda riflessione sulla capacità del buon critico di comprendere, interpretare e raccontare l’espressione artistica riconsegnandola nel suo pieno significato e collocandola nel giusto contesto storico.
Il progetto curato da Simone Soldini, intitolato Una storia di arte e di poesia, dà vita a un dialogo serrato tra il gesto artistico e il testo scritto, legando dipinti e sculture ai brani di otto autori con l’intento di far emergere come la parola non solo possa descrivere e spiegare un’immagine, ma riesca anche ad amplificarne la potenza visiva.
I nomi degli scrittori coinvolti nell’esposizione sono quelli dei più importanti letterati italiani della seconda metà del Novecento, che con l’altissima qualità del loro stile hanno saputo dare una lettura inedita dell’artista indagato, penetrandone a fondo il lavoro proprio grazie alla ricerca di una feconda corrispondenza tra poesia e pittura.
I nomi degli scrittori italiani coinvolti nella mostra sono fra i più importanti della seconda metà del Novecento
Alcuni di loro sono critici d’arte «puri» che si dedicano quasi esclusivamente a questa attività, è il caso di Francesco Arcangeli, Roberto Tassi e Dante Isella. Gli altri sono conoscitori d’arte «prestati» a questo ambito rimasti però fedeli al proprio terreno letterario, come Attilio Bertolucci, Francesco Biamonti, Giovanni Testori, Vittorio Sereni, e anche il nostro Giorgio Orelli. Il sottile filo rosso che attraversa le esperienze di tutti loro, stringendole in un saldo intreccio, è la conoscenza dello storico dell’arte Roberto Longhi, tra i più importanti studiosi del XX secolo, la cui straordinaria eredità culturale è stata raccolta da intere generazioni di critici e di artisti. Intellettuale dal grande carisma, Longhi è stato una figura fondamentale per gli otto autori in mostra, che si sono rifatti alla sua lezione riconoscendone l’enorme portata di pensiero. Proprio Longhi è stato il primo a porre le basi di un processo che dal visivo sfocia nel verbale, reinventando con la parola l’immagine pittorica o plastica: con grande acume egli ha sottolineato l’esigenza di «riconsegnare la critica, e perciò la storia dell’arte, nel cuore di un’attività letteraria».
Il lavoro e la fatica secondo McCarthy Scritta nel 1991 e mai rappresentata, l’unica pièce dell’autore americano viene ora pubblicata da Einaudi con il titolo Il tagliapietre
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Dall’accostamento di testi e dipinti affiora con piacevole naturalezza il fervido clima culturale dell’epoca, in cui fondamentali sono i rapporti di amicizia che uniscono tra loro gli otto scrittori e che li legano agli artisti prediletti. Si coglie infatti un’evidente affinità tra questi intellettuali, una condivisione di principi teorici e di inclinazioni artistiche che li porta a frequentarsi con assiduità (come documentano le molte fotografie e lettere presenti a Mendrisio) e a incontrarsi con gli amici pittori, non a caso gli stessi per la maggior parte di loro.
L’esposizione fornisce così lo spaccato di un momento storico che va dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta del Novecento e che attraversa la grande stagione dell’arte italiana ed europea dall’Informale alla Nuova Figurazione, periodo in cui le sfere delle lettere e delle arti si sentivano contigue l’una all’altra.
Gli otto letterati, quasi tutti appartenenti alla medesima area geografica lombardo-emiliana, dedicano i loro testi ad artisti che si esprimono con le tecniche tradizionali della pittura e della scultura e che sono attivi nella regione padana. Non mancano però le incursioni in ambiti stilistici, territoriali e temporali differenti, che
li portano a occuparsi di figure quali Alberto Burri, Leoncillo e Piero Guccione e di grandi maestri internazionali quali Francis Bacon, Graham Sutherland e Zoran Mušič. Ecco allora che con il suo linguaggio carico ed energico (e con la consapevolezza di quanto l’arte antica e quella moderna siano indissolubilmente legate tra loro), il critico d’arte bolognese Francesco Arcangeli scrive così a proposito dei celebri Sacchi di Burri, uno dei quali esposto in mostra: «riaffiora con violenza un volto anticamente, quasi ciecamente, italiano. Ancora sembra tornar viva l’Umbria remota delle stimmate e dei sudari, delle veroniche e dei ruvidi e raffinati paliotti popolari».
Grande amico di Arcangeli è Attilio Bertolucci, poeta dallo stile arioso, misurato ed elegante: «O raro Afro, cui non è possibile sbagliare. Come s’accorda tanta maturità di mestiere, e prima di intelletto, con l’ansia della ricerca, dove non solo è lecito ma doveroso errare?», sono i versi da lui composti per l’artista Afro Basaldella che accompagnano un’opera degli anni Cinquanta del pittore di origini friulane.
Di una prosa pacata che spesso ama richiamare concetti legati alla
musicalità sono i testi del critico d’arte Roberto Tassi. Significativo esempio, in rassegna, è il brano accostato alla scultura L’uscita delle Valchirie di Fausto Melotti: «È come se dal blu e dal nero della volta notturna uscisse il canto filiforme e dorato di una musica; come se la sfera del gelo invernale venisse a frantumarsi nei lacerti candidi della stoffa-neve vibranti ad ogni ventata».
L’universo artistico nella parola può trovare un valido strumento per essere compreso nella sua pienezza
Più schivo e di una generazione successiva rispetto agli altri è il ligure Francesco Biamonti, che mai ha fatto segreto di quanto la pittura fosse stata fondamentale per la nascita della sua scrittura. Accanto alla tela dal titolo Giardino realizzata da Alfredo Chighine nel 1970, le parole dell’intellettuale di San Biagio della Cima interpretano mirabilmente il lavoro dell’artista milanese scoprendovi «una continua genesi del mondo». Sempre alla ricerca di ciò che accomuna colui che compone versi e co-
lui che crea immagini è Vittorio Sereni. Affinità e attinenze che, come testimoniato in mostra, il poeta luinese trova tra la sua lirica e la pittura di Ruggero Savinio: è a questo artista che Sereni chiede di illustrare la sua raccolta poetica Stella variabile proprio per la loro condivisione di un medesimo «sguardo sulle cose». Di Dante Isella, capace di animare i suoi scritti con una vivace espressività verbale che bene traduce le immagini dei suoi pittori preferiti, quelli dell’espressionismo lombardo, ci piace citare la splendida poesia composta nel 1975 per il dipinto Girasoli di Ennio Morlotti, esposta in rassegna: «Hai fatto mazzi di girasoli/in cui ancora indugia/una tardiva luce e li componi/secchi trofei di Lombardia/ sul focolare della tua pietà».
La capacità di arrivare all’essenza di un’opera d’arte cogliendone le qualità fondamentali appartiene anche a Giorgio Orelli, grande estimatore della pittura di Morandi e di Cézanne. Vergato con la finezza stilistica che contraddistingue lo scrittore ticinese è il testo che accompagna la tela Crisantemo, di Massimo Cavalli: «colpisce quel passare discreto dal plurale al singolare, che mi riporta alla mente una delle più belle poesie del Pascoli, dove, a sommo d’un mirabile polisindeto, è detto: “e i crisantemi, il fiore della morte”». Impetuosi e viscerali, i brani di Giovanni Testori testimoniano la partecipazione totale del critico all’opera d’arte di cui parla. La figura umana è il soggetto che più lo affascina e lo scombussola. Per questo ama profondamente Giacometti, Varlin e Bacon. Su quest’ultimo, in mostra con uno Studio per ritratto del 1955, così si esprime: «questo svergognato, supremo abitatore, rimestatore e cantore dell’umano disastro, è entrato nel regno muto delle ombre; le ombre, intendo, che si muovono all’interno e che, insieme, avvolgono la nostra carne offesa, umiliata e demente; quelle ombre che egli aveva adescato e amato per decenni e decenni; quelle ombre che aveva sconfitto perché si era fatto da loro, e sempre, sconfiggere». Il suo modo di scrivere, così come quello dei suoi amici e colleghi, ha impreziosito un universo artistico che nella parola ha trovato un valido strumento per essere compreso nella sua pienezza.
Dove e quando Una storia di arte e di poesia. Arcangeli, Bertolucci, Biamonti, Isella, Orelli, Sereni, Tassi, Testori e i loro pittori. Museo d’Arte Mendrisio. Fino al 6 luglio 2025. Orari: da ma a ve 10-12 / 14-17; sa, do e festivi 10-18. Informazioni: museo.mendrisio.ch
L’italiano pazzo e gli scatti in maniche di camicia
Fotografia ◆ La retrospettiva di Monte Carasso dedicata a Mario De Biasi rivela quanto una donna in abito bianco e un uomo armato possano appartenere allo stesso sguardo
Manuela Mazzi
È ancora oggi considerata una delle immagini iconiche dell’Italia degli anni Cinquanta: una donna sinuosa, vestita di bianco, cammina verso un gregge di uomini incantati dalla sua bellezza. Uno spettacolo. Ma se Gli italiani si voltano (questo il titolo dello scatto) perché rapiti dalla donna, noi siamo rimasti invece stregati dalla serie a cui appartiene lo scatto, che può essere ammirata nel suo insieme lungo le pareti dello Spazio Reale di Monte Carasso, che ha avviato la nuova stagione con le opere del bellunese Mario De Biasi (1923-2013), fotoreporter tra i più apprezzati dell’Italia del dopoguerra. Intitolata L’intrepido cacciatore di immagini, la mostra resterà aperta fino al 18 maggio.
Dieci sono gli scatti della serie dedicata a «Moira», qui esposti. È il 1954 quando Mario De Biasi realizza lo scatto che, quarant’anni più tardi, il critico d’arte Germano Celant sceglierà per rappresentare la mostra Italian Metamorphosis, 1943–1968 al Guggenheim di New York: riconoscendone il valore universale e senza tempo, lo trasformerà nel manifesto dell’evento.
Un’esistenza intera in agguato dietro l’obiettivo: la mostra di Monte Carasso celebra l’audacia, la grazia e l’occhio instancabile di Mario De Biasi
Al centro dell’immagine, Moira Orfei, all’epoca un’emergente trapezista circense ancora sconosciuta; indossa un abito bianco, scelto dallo stesso De Biasi per farne il cuore pulsante della composizione. La scena, che ha luogo nelle prime ore del mattino, nasce dalla collaborazione tra riviste appartenenti alla famiglia Mondadori: il direttore di Bolero Film, in crisi di vendite, ha chiesto al collega di «Epoca» di «prestargli il De Biasi», per rinnovare il settimanale con immagini di grande impatto.
La fotografia viene concepita seguendo i principi del neorealismo, quelli teorizzati da Cesare Zavattini, che invitano a raccontare la realtà con autenticità, spingendo i fotografi a osservare senza interagire con i soggetti. De Biasi abbraccia questa filosofia e trasforma le strade di Milano da semplice sfondo a set spontaneo, vivo e autentico (tutto il contrario di un’istantanea costruita in studio). Lui, in un pedinatore «occasionale». E Moira Orfei, in una donna dei desideri: in queste strade lei ha solo il compito di passeggiare e ancheggiare con disinvoltura, attirando lo sguardo incuriosito dei passanti, tra questi un uomo con le mani in tasca, un altro in sella a una Lambretta, e sullo sfondo, l’insegna della Barbaro Zucca. Quella femminilità travolgente e sicura di sé, unita alla genuinità degli sguardi rivolti alla Orfei, renderà lo scatto un manifesto sociale e culturale, ma immortalerà anche una miriade di frammenti della storia italiana, frammenti che si riflettono nei volti della gente catturata negli altri scatti: le donne per la via erano certamente poche rispetto agli uomini (dei quali si possono ammirare i diversi indumenti a seconda dello statuto sociale), ma alcune ci sono e tra queste, ad esempio, si fa notare una signora di età avanzata, non molto alta, tarchiata e in grembiule, a far da contraltare alla dea ancheggiante. Una
vita e una leggerezza che si ritrovano pure negli scatti che seguono, siamo ancora nel dopoguerra, quando l’Italia, a sorsi di Coca-Cola, iniziò a riprendersi poco a poco.
Ma non è l’unica fotografia che continua a essere celebrata per il suo straordinario realismo. Splendidi sono anche gli scatti di molti personaggi politici e della cultura pop, che il bellunese cercava sempre di fotografare in modo diverso (e diremmo leggero, divertito) da come avrebbe fatto un fotografo di cronaca, tanto che soleva dire di voler immortalare i suoi soggetti «in maniche di camicia»: Nasser fu ripreso nella sua casa alla periferia del Cairo (1954) con i bambini in borghese, non in uniforme, due giorni prima del colpo di Stato; l’ex Presidente dell’Argentina, Perón, fu pregato di salire e posare sul ramo di un albero di Caracas; Onassis stava invece al telefono mentre spiegava come spostare delle navi, a New York; a Sophia Loren, durante la Mostra di Venezia,
chiese di uscire dal bagno per scattarle la foto; mentre Toscanini fu ripreso in pigiama, all’interno di casa sua: «Fu la mia prima copertina di “Epoca”» (ndr. in tutta la sua carriera, De Biasi ne firmò ben 132, di copertine di «Epoca») racconta il fotografo in un bel documentario installato all’interno dello Spazio Reale di Monte Carasso. «Il segreto è conoscere il personaggio prima di andare a fotografarlo, devi sapere i suoi hobby se ama l’Inter o il Milan, se ama la pesca o la box, e così, chiacchierando, il personaggio si scioglie e diventa più spontaneo». Scatti incredibili che non hanno tuttavia l’impatto storico di quelli che il fotografo fece un decennio prima e un paio di anni dopo la sua assunzione a «Epoca», per soddisfare la quale si mise spesso in pericolo, tanto da farsi attribuire a livello mondiale l’appellativo di «Italiano pazzo».
Quando le truppe tedesche iniziarono a prelevare con la forza molti giovani italiani per impiegarli nelle fab-
briche o nei lavori pesanti all’interno del territorio del Reich, De Biasi venne catturato e deportato a Norimberga. Questa fase drammatica della sua giovinezza influenzò inevitabilmente il suo sguardo sul mondo, portandolo in seguito a sviluppare una capacità unica di cogliere l’essenza dell’essere umano, nel quotidiano come nello straordinario: «A Norimberga, in una sola notte son morte 27mila persone. È lì che ho iniziato; era il 1944 e la mia prima foto fu un autoscatto che mi feci – con una macchina fotografica presa in cambio di alcuni bollini per il cibo – nel giardino della casa in cui abitavo. Erano da poco suonate le sirene, ma io non andavo mai nei rifugi. Scattai mentre leggevo una rivista di fotografia trovata tra le macerie. Ancora la conservo, con la scheggia del bombardamento che la colpì mentre la tenevo in mano; e io invece sono ancora qui». Lontano dall’eroismo e dalle retoriche belliche, il suo vissuto si riflette nelle immagini che avrebbe realizzato
anni dopo: fotografie perlopiù in bianco e nero (ma non solo) dove, verrebbe da dire, l’osservazione si fa portavoce di chi ha conosciuto il lato più duro della storia, senza rimanerci sotto. Rientrato in Italia, era il 1953, iniziò subito a lavorare per «Epoca» con un contratto da impiegato di seconda categoria. Qui rimase per 30 anni: «Nel 1960 diventai capo dei servizi fotografici e nel ’83 ho compiuto 60 anni e sono andato in pensione: è stata un’esperienza straordinaria anche perché ho potuto girare il mondo da una parte all’altra dei cinque continenti e ho fatto le cose più disparate». Tra queste va di certo ricordato uno dei suoi reportage più importanti, quello in Ungheria, nel 1956, durante i momenti drammatici della rivoluzione, che gli valse per l’appunto il soprannome di «italiano pazzo»: «Arrivati a Budapest – racconta – in ogni momento ci fermavano per la presenza di guerriglieri con bombe a mano, mitra, eccetera, tanto che a un certo punto l’autista dice “io non me la sento è troppo pericoloso”. Non avevo ancora la patente, però ero in grado di guidare». De Biasi prende l’auto e si avvia, venendo di nuovo fermato da uno che – dopo le sue insistenze – lo accompagnerà fino nella piazza dove si trova la caserma della polizia segreta. Quegli scatti –che furono poi pubblicati su 30 pagine della rivista e che in parte oggi si possono ammirare nell’esposizione, sebbene noi abbiamo dovuto distogliere lo sguardo da tanta cruda violenza, pur riconoscendone il valore storico –girarono il mondo intero facendo conoscere anche all’estero la bravura e il coraggio dell’italiano… pazzo. Sfida dopo sfida, Mario De Biasi trasformò il fotogiornalismo, attraversando epoche, importanti eventi storici, e luoghi lontani ancora fotograficamente poco noti in Europa, portando i lettori della rivista in mondi lontani ed esotici, quando ancora i viaggi erano un lusso per molti italiani. Fu tra, i primi a documentare conflitti come la guerra del Libano nel 1958 e la guerra del Kippur del 1973, raccontando la complessità umana anche nei contesti più difficili, come quando immortalò un soldato in una scuola siriana, intento a scrivere una lettera di addio. Guerre a parte, tra le sue esperienze più memorabili, De Biasi considera la missione dell’Apollo 11 come la più straordinaria: quarantacinque giorni negli Stati Uniti, cinque speciali dedicati su «Epoca», incontri con gli astronauti Armstrong e Aldrin, e una fotografia iconica scattata durante il rientro a New York degli astronauti, realizzata in circostanze quasi impossibili.
Non si è però limitato a raccontare il mondo, Mario De Biasi. Lo ha attraversato, lo ha abitato, lo ha pure sfidato. E con ogni scatto – che sia di una diva che esce dal bagno o una rivoluzione che esplode in una piazza –ha restituito una realtà storica che non ha bisogno di didascalie.
Dove e quando Mario De Biasi, L’intrepido cacciatore di immagini, a cura di Enrica Viganò di ADMIRA Milano, e promossa in collaborazione con l’Archivio Mario De Biasi, Monte Carasso, Spazio Reale. Orari: ve 15-19; sa-do e festivi: 10-19. Apertura speciale dal 22 al 24.04; 15-19. Fino al 18 maggio. Sito: www.spazioreale.ch
Cinema ◆ Nelle sale del cantone il documentario di Simon Baumann Wir erben solleva numerose domande
Nicola Falcinella
Un documentario personale e familiare che porta alla ribalta una vicenda singolare adatta a riflessioni e discussioni che riguardano tutti. Il punto di partenza è una fotografia che ritrae il regista bambino nel 1980, immortalato accanto alla macchina da presa in legno costruita dal padre. I genitori, Stephanie e Ruedi, possedevano una fattoria in Svizzera interna e furono tra i primi ecologisti, realizzando da soli gran parte dell’attrezzatura necessaria e limitando gli elettrodomestici. Per esempio, l’apparecchio televisivo era arrivato in casa solo il giorno precedente quello scatto, sebbene la coppia fosse a proprio agio dentro il piccolo schermo, partecipando a dibattiti in numerose trasmissioni. Così, il piccolo Simon, con il fratello Kilian che ha seguito in politica le orme dei genitori, li guardava parlare in pubblico con un misto di «vergogna» e «ammirazione». Ancora oggi, mentre come narratore ripercorre quegli anni, evidenzia la voce decisa della madre e l’indice alzato del padre, entrambi deputati dei verdi. La politica aveva pervaso la vita dei due genitori già prima, quando, giovani alternativi, erano partiti per un viaggio in Nord Africa in autostop, e avevano partecipato alle grandi manifestazioni delle contestazioni giovanili, sposandosi di nascosto, come rifiuto alle convenzioni borghesi. Con la nascita dei figli, arrivano la scelta
di stabilirsi in campagna, lo sviluppo della sensibilità ecologica e l’inizio della politica attiva. Un percorso quasi lineare fino alla frattura avvenuta nel 2001, quando il voto contrario all’iniziativa popolare «Sì all’Europa!» fermò l’ipotesi di adesione elvetica alla Ue. Stephanie e Ruedi Baumann reagirono con fermezza: «se la Svizzera non entra in Europa, ci entriamo noi». Così, dopo aver lasciato
la fattoria al figlio maggiore, ne comprarono una in Gascogna, stabilendosi in Francia. Degli ultimi anni è la questione che è anche il punto di partenza del documentario: la coppia vuole ritirarsi dal lavoro e lasciare la tenuta e convoca i figli per decidere sul da farsi: vendere oppure ereditare la terra. Un dilemma sempre attuale, che si è presentato e si presenta in molte famiglie
I coniugi Stephanie e Ruedi Baumann, protagonisti del documentario del figlio Simon. (Filmcoopi)
e comporta implicazioni che superano le scelte dei singoli. Parlando tra loro, i fratelli concordano sul fatto che i genitori appartengano alla generazione che ha «costruito» mentre loro sono quelli che «ereditano», cercando di contenere i danni causati al pianeta. Uno dei pregi maggiori del lavoro di Baumann, oltre all’ottima fattura, è il riunire diversi punti di vista e proporli agli spettatori, andando ol-
tre quello personale che pur lo anima. Il regista sente la responsabilità e il peso dell’ereditare (già era entrato in possesso di un’altra casa di famiglia), è turbato da problemi di coscienza e sente la differenza e il privilegio rispetto a chi non ha ereditato nulla: «il mondo è di chi eredita» è una delle sue considerazioni.
I fratelli si sentono animati da sentimenti di giustizia sociale, dagli ideali con cui sono cresciuti, ma vivono le difficoltà della messa in pratica dei principi. È una storia sulle scelte della vita, sui rapporti familiari, l’influenza e il lascito (anche morale e ideale) dei genitori alla prole. Si tratta di cercare il proprio posto nel mondo, ma a volte occorre soprattutto riconoscerlo e accettarlo. In questo si esamina e si scava anche nel passato, affrontando le differenze di approccio e mentalità tra la famiglia paterna, composta da contadini e piccoli proprietari terrieri, e quella materna, lavoratori agricoli senza proprietà.
Questo è anche un film sul sentimento europeo al giorno d’oggi, visto dalla prospettiva svizzera: il padre non ha cambiato idea rispetto al voto del 2001 e desidera sentirsi europeo a tutti gli effetti e non un «approfittatore», come definisce gli svizzeri. Un documentario importante e da non perdere, che conferma la vista lunga dei selezionatori della Semaine de la critique del Festival di Locarno.
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Le parole scolpite di Cormac McCarthy
Letteratura ◆ Pubblicato da Einaudi Il Tagliapietre, l’unico libro
Pietro Montorfani
«Il gesto di mettere una pietra sull’altra è la professione più vecchia che ci sia. Nemmeno la prostituzione può aspirare a rubargli il primato. È la cosa più antica del mondo, persino della scoperta del fuoco. E negli ultimi cinquant’anni, a causa del cemento idraulico, sta praticamente scomparendo. Mi sembra un fatto piuttosto interessante». Così lo scrittore americano Cormac McCarthy rispondeva a Richard B. Woodward il 19 aprile del 1992 sulle colonne del «New York Times Magazine», in una delle rarissime interviste concesse in vita, a proposito della pièce The Stonemason (che da oggi possiamo cominciare a chiamare Il tagliapietre grazie alla traduzione italiana della ticinese Maurizia Balmelli).
Già noto per i suoi racconti crudi ed essenziali giocati tra violenza estrema e profondo senso del destino, ambientati per lo più nel sud degli Stati Uniti (Figlio di Dio, 1973; Suttree, 1979; Meridiano di sangue, 1985), nel 1991 McCarthy aveva ricevuto una borsa letteraria del John Fitzgerald Kennedy Center Fund for American Plays con il compito di stendere un testo teatrale per la stagione successiva. Qualcosa di simile, pur senza lasciare traccia scritta, aveva fatto alla fine degli anni Settanta con The Gardener’s Son, diretto da Richard Pearce per la PBS. Le premesse sembravano più che buone – eppure, alla fine, non se ne fece nulla: tolta una messa in scena parziale in forma di laboratorio, infatti, la sceneggiatura restò inutilizzata per decenni, segnando in qualche misura anche la sua scarsa fortuna editoriale. Nessuna sorpresa quindi se, nel mondo italofono, si sia arrivati soltanto ora a ripescare quel vecchio testo, ultimo tassello di un’opera che si delinea sempre più tra le creazioni letterarie più originali della nostra epoca.
Il senso del lavoro, il peso delle eredità e l’illusione del progresso approfonditi con la lingua ruvida di chi non fa sconti a nessuno
Il tagliapietre narra le vicende di una famiglia di lavoratori del Kentucky sull’arco di quattro generazioni: non però nella diacronia, come avrebbe forse fatto uno scrittore europeo ossessionato dall’evoluzione storica, bensì nella compresenza. Nel senso che anche l’anziano Papaw, nel momento puntiforme del tempo in cui si immagina ambientata la storia (febbraio 1971), continua a lavorare tanto quanto i figli e i nipoti, nonostante i 101 anni suonati che si ritrova sulle spalle. «Era già vecchio prima che io nascessi» ammette il nipote Ben, il vero protagonista della pièce, «e gli ho voluto bene tutta la vita e gliene voglio ancora».
La questione del lavoro, il suo stare al centro della vita come metafora morale, è il tema cardine del libro ed è costantemente sulla bocca di tutti. Ne parla Ben quando si ispira alla figura del nonno, tagliapietre alla vecchia maniera, i cui gesti assumono il sapore di una sacralità antica. Ne parla il rappresentante della generazione intermedia, Big Ben, nel rivendicare la via più facile dell’imprenditore edile che abbraccia le nuove tecnologie pensando più al guadagno che al senso della fatica (salvo poi sfiorare il tracollo finanziario). E non ne parla, sintomaticamente, il giovanissi-
mo Soldier, il cui dramma fatto di dipendenze da alcol e droghe attraversa tutta la storia fino all’ovvia catastrofe finale, che ha il merito di rimettere in dubbio tutto il portato di saggezza di cui la famiglia si è fatta portavoce senza riuscire, di fatto, a scalfire la libertà dei singoli.
Nel leggere questo «nuovo» McCarthy, maestro nella gestione dei dialoghi e nell’affrontare di petto i grandi temi della vita e della morte, non si può fare a meno di chiedersi ancora una volta quali siano i suoi riferimenti culturali, e se questi, con il variare del tempo, si siano modificati o meno. Da che parte sarebbe stato il misterioso autore di Santa Fe, scomparso nel giugno del 2023, nell’America di Donald Trump e J.D. Vance?
Da nessuna parte, forse, o meglio soltanto dalla sua, quella di un uomo che viveva di assoluti, dentro un confronto continuo con i limiti della letteratura e della lingua.
La stessa dinamica, tesa alla verticalità del pensiero, si incontra anche nel Tagliapietre, che interseca tangenzialmente i principali sistemi culturali che hanno eletto il lavoro a immagine esclusiva della vita degli esseri umani – quella marxista e quella massonica, dimenticando forse soltanto l’«ora et labora» dei benedettini –senza però adagiarsi in essi, tenendoli semmai come semplici filigrane polemiche sullo sfondo. «Perché di operai saggi non ce n’è di più?» chiede a un certo punto la moglie Maven, e Ben le risponde: «Immagino per lo stesso motivo per cui non ci sono più professori universitari saggi. Pensare è cosa rara in tutti gli strati sociali. Ma un manovale che pensa, be’, sembra più verosimile che il suo pensiero sia temperato dall’umanità. È più propenso alla tolleranza. Sa che nella vita quello che importa è la vita. Maven: E il professore? Ben: Credo sia più incline a essere pericoloso e basta. Marx non ha mai lavorato un solo giorno in vita sua».
E la medesima severità, più o meno ironica o giustificata, i personaggi di McCarthy mostrano nei confronti di una delle tradizioni fondanti dell’epopea nazionale statunitense: «Stando alle vecchie cariche dell’Ordine massonico i figli di Israele sono
diventati liberi muratori in Egitto. […] Il lavoro è tutto, e tutto quel che s’impara lo si impara facendo. Avevano ragione i massoni di sospettare che nei misteri del taglio della pietra fos-
sero contenuti altri misteri. Speculativi, li chiamavano. Aristocratici che venivano fatti liberi muratori onorari.
E se è vero che posare pietre può insegnarti il timore di Dio e la tolleranza
verso il prossimo e l’amore per la tua famiglia è anche vero che questo sapere è instillato in te attraverso il lavoro e non attraverso una qualsivoglia contemplazione del lavoro». Riletto con ancora nelle orecchie i ritmi larghi di Suttree (1979, ma in Italia da Einaudi soltanto nel 2009, sempre grazie a Maurizia Balmelli), così come i dialoghi scolpiti di Sunset Limited (2006) e di Stella Maris (2023), Il tagliapietre si mostra come un McCarthy d’annata, davvero un distillato del suo pensiero e della sua visione del mondo, aperta se non spalancata sulle questioni cruciali della fede e del perdono. Una sua messa in scena, ora che disponiamo di un’ottima traduzione italiana, sarebbe auspicabile e, credo, fattibile con poco sforzo: magari sorvolando su qualche didascalia di troppo (McCarthy rimane un narratore puro e qui e là abbonda nelle annotazioni registiche), sullo slang di Papaw e sul fatto che, copione alla mano, tutti i protagonisti dovrebbero essere di colore, una sfida per l’attuale panorama del teatro italofono. E perché non al LAC, per essere poi esportato nei migliori teatri d’oltreconfine? Dal Ticino all’Italia, sulle orme della sua stessa traduttrice.
Bibliografia
Cormac McCarthy, Il tagliapietre, Traduzione di Maurizia Balmelli, Einaudi, Torino, 2025.
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Immagine usata per la copertina de Il tagliapietre. (Einaudi)
Battibecchi
Se lei scrive, io non ceno con mia madre
Suona il telefono. Rispondo. «Buongiorno, parlo con lo scrittore Mozzi?», dice una voce maschile un po’ afona.
«Sono Giulio Mozzi, e sono uno scrittore», dico. «Ma non sono l’unico Mozzi che scrive libri».
«Ci sono altri Mozzi scrittori?», dice la voce maschile un po’ afona.
«Ce n’è uno che scrive libri di diete», dico. «Un altro che si occupa di fitoterapia. E un altro ancora che ha scritto un manuale per prepararsi all’esame per la patente. Poi, per dire, anche mio padre ha scritto un libro: sull’allevamento delle anguille».
«Lei mi confonde», dice la voce maschile un po’ afona. «Io cercavo lo scrittore di racconti Mozzi».
«Allora cercava me», dico. «Io scrivo racconti».
«E non poteva dirlo subito?», dice la voce maschile un po’ afona.
«Ma ormai ci siamo capiti», dico. «E: con chi ho il piacere di parlare?».
Quando l’arte
si
Parecchi anni fa, chi scrive ebbe la fortuna di diplomarsi presso un istituto professionale noto a livello internazionale come una delle prime scuole di fumetto europee – in altre parole, un luogo in cui i cartoonist del futuro ricevevano un’istruzione in tutti gli ambiti del disegno. E quando ripenso al mio primo mestiere come «fumettara», i miei ricordi più vividi potrebbero essere definiti come quantomeno proustiani: l’odore della carta, la sensazione della gomma pane tra le mani, e quella dell’inchiostro di china che immancabilmente macchiava le dita nel punto in cui si impugnava il pennello.
Forse proprio a causa della natura delle mie reminiscenze, ammetto di aver ricevuto un discreto shock quando, alcuni anni fa, tornai nella mia vecchia scuola a ricercare un po’ di quella nostalgica magia che aveva con-
Xenia
«Io sono un lettore», dice la voce maschile un po’ afona.
«E non ha nome e cognome?», dico. «Non ha importanza», dice il lettore. «Io sono un lettore come tanti, un puntino nella massa».
«Va bene. E, mi dica», dico, «in che cosa posso esserle utile?».
«Devo dirle una cosa», dice il lettore.
«Dunque me la dica», dico.
«Ci sono troppi libri», dice il lettore. «E qual è il problema?», dico. «Non riesco a leggerli tutti», dice il lettore.
«Be’», dico, «lei pensa di dover leggere tutti i libri?».
«Scrittore Mozzi, non faccia l’ingenuo», dice il lettore. «Se non fossero da leggere, perché mai li stamperebbero?».
«Ma forse non sono tutti per lei», dico. «A lei interessa qualunque libro?».
«Io sono il lettore», dice il lettore. «Io sono quello che vi mantiene tutti».
«Tutti chi?», dico.
«Tutti voi scrittori», dice il lettore.
«Guardi», dico, «la dispenso ufficialmente dall’onere di mantenere me».
«Troppo tardi», dice il lettore. «I suoi libri li ho letti tutti».
«Mi dispiace», dico.
«Anche a me», dice il lettore. «Non mi sono piaciuti per niente».
«Eh, non si può piacere a tutti», dico. «Perché», dice il lettore, «a qualcuno sono piaciuti?».
«A qualcuno sì», dico. «Non a tanti. Io sono uno scrittore che vende poco». «Poco», dice il lettore.
«Sì», dico, «poco».
«Cioè quanto?», dice il lettore.
«Tre, quattromila copie a libro», dico. «Ah», dice il lettore.
«Eh», dico.
«E come fa a campare?», dice il lettore. «Lavoro», dico.
«Lavora?», dice il lettore.
«Sì», dico. «Per me scrivere libri è un hobby».
«Un hobby?», dice il lettore.
«Un passatempo», dico. «Una cosa
fa asettica, il disegno su tablet
traddistinto la mia giovinezza – per trovare i tavoli stranamente sgombri, a parte un solo, anacronistico oggetto a occupare le postazioni di lavoro: un costosissimo tablet professionale, di cui ogni classe vantava un esemplare per studente. Quella fu la prima volta in cui scoprii come oggi la maggior parte dei disegnatori professionisti abbia ormai abbandonato la modalità di lavoro tradizionale a base di matite, fogli di carta e inchiostro per passare a progetti del tutto digitali, realizzati direttamente sul tablet con l’ausilio della penna grafica e consegnati al committente sotto forma di file multimediali. Così, nonostante vi siano autori che effettuano ancora le fasi iniziali del lavoro a mano libera, la maggioranza dei giovani fumettisti svolge ogni passaggio del processo creativo tramite il touchscreen, senza più alcun reale contatto con
la materia. In effetti, il fenomeno dei webtoon (fumetti pubblicati esclusivamente online) ha molto a che vedere con la diffusione di programmi informatici e app che permettono il cosiddetto «disegno facilitato», fornendo all’aspirante artista vari template già pronti e predisposti per la personalizzazione, in una sorta di catena di montaggio creativa. Forse anche per questo, la maggior parte dei millennials identifica il fumetto digitale come l’unico con cui abbia reale familiarità – senza, tuttavia, rendersi conto delle conseguenze che un simile approccio ha sull’atto creativo. Come, ad esempio, il fatto che molti dei giovani fumettisti cresciuti a pane e tablet fatichino visibilmente a eseguire un disegno a matita: l’esitazione che fa tremare la loro mano, non usa a oggetti «reali», è evidente agli occhi di chiunque venga da
La russa ribelle, la sorella, l’uomo magro
Nel luglio del 1924, un uomo magro, occhialuto, dai capelli ricci, si presenta alla clinica Bastianelli di Roma, struttura del Policlinico per la cura dei malati non gravi. Cerca una donna russa, Tatiana Schucht. Gli hanno detto che è ricoverata lì. I dottori non intendono immischiarsi negli affari della straniera. Che comunque è stata dimessa, e ora si trova ai bagni di mare. In Toscana o a Pescara. Non sanno dirgli di più. Qualcuno la informa. L’uomo è deputato al Parlamento, e suo cognato. Si chiama Antonio Gramsci. Tatiana non gradisce l’intrusione. Non si mette in contatto con lui che, dopo l’estate, su richiesta della moglie Giulia, riprende le ricerche. Anzi, lei si sottrae. Non sappiamo perché. È una biologa, crede nella scienza. Ma è possibile che presagisca l’enormità della sciagura che si abbatterà su di lei se incontrerà quell’uomo. E così resta invisibile – riservata e misteriosa.
Trentasei anni, Tatiana – ma per tutti Tania – è a Roma da quindici. E, da nove, completamente sola, lontana dalla sua impegnata, e impegnativa, famiglia. È nata a Samara, nel Medio Volga, dove il padre, Apollon Aleksandrovič, populista, era stato confinato dallo zar. Ha tre sorelle: Nadine, Anna ed Eugenia. Tania ha lasciato la Russia nel 1893, ad appena sei anni. Gli Schucht, colti e benestanti, sono stati esuli volontari in Svizzera (a Ginevra sono nati Giulia e Viktor) e poi in Francia, ma alla fine del 1908 sono approdati in Italia. Le ragazze hanno studiato a Roma: arte all’Accademia, Genia; scienze e medicina all’università, Tania; musica e violino al Conservatorio, Giulia. Se ne sono andati nel 1915, durante la Prima guerra mondiale. Tania è rimasta – per completare gli studi e trovarsi un buon lavoro. Ma anche perché è sempre stata una «ribelle», e in condizioni di rivol-
che mi va di fare. Ma non è di questo che campo».
«E di cosa vive?», dice il lettore. «Questi sono fatti miei», dico.
«Tratta degli schiavi?», dice il lettore. «No, quello era Rimbaud», dico. «Spaccia stupefacenti?», dice il lettore. «No, quello è… Non mi faccia parlare», dico.
«Quindi lei vive nella miseria», dice il lettore.
«Ma no, ma no», dico. «Campo dignitosamente».
«Campa dignitosamente», dice il lettore con uno strano tono, quasi sovrappensiero. «E per lei scrivere libri è un hobby».
«Così è», dico.
«Scrittore Mozzi», dice il lettore. «Avrei una richiesta».
«Mi dica», dico.
«Lei sta scrivendo un altro libro?», dice il lettore.
«Ne sto scrivendo due», dico. «Uno di racconti e uno di critica letteraria».
«La smetta!», dice il lettore, con una vo-
ce che improvvisamente non è più afona. «E perché dovrei smettere?», dico. «Due libri in meno da leggere, capisce?», dice il lettore. «Ma lei non è mica obbligato a leggerli», dico. «Col risparmio di due libri», dice il lettore, «mi faccio una pizza con la mamma!».
«E allora ignori i miei libri», dico, «e vada con sua mamma in pizzeria». «Non è possibile, scrittore Mozzi», dice il lettore. «Io sono il lettore. Io sono tutti i lettori. Se lei pubblica altri due libri, mi tocca leggerli». «Senta», dico, «forse ho la soluzione». «Mi dica», dice il lettore. «Glieli regalo», dico. «Me li regala?», dice il lettore. «Certo», dico. «Lei mi lascia l’indirizzo, e quando escono glieli mando». «E se poi non mi piacciono neanche questi?», dice il lettore.
«Se li rivende», dico. «Così, dopo la pizza le viene anche il dolce».
una precedente generazione e differenti parametri. Il che finisce per riportare alla mente i numerosi studi scientifici secondo i quali lo sviluppo della manualità è direttamente collegato a quello cognitivo: in sostanza, da quando il nostro mondo quotidiano è mediato da uno schermo e dal solo contatto delle dita con superfici asettiche quali tastiere e touchscreen, la conseguente perdita di destrezza manuale (evidente soprattutto nelle generazioni cresciute con lo smartphone in mano) sembra aver avuto ripercussioni anche sulla capacità dialettica e di assimilazione delle informazioni; infatti, qualora venga a mancare l’uso regolare e costante della coordinazione applicata alle cosiddette «capacità motorie fini», risulta apparentemente più difficile immagazzinare e codificare nuove conoscenze. Naturalmente, la colpa non è dei gio-
vani: dopotutto, la nostra è un’epoca contraddistinta dall’obbligo della velocità a tutti i costi, in cui anche le discipline artistiche si sono fatte «istantanee», un po’ come il caffè solubile – ragion per cui la qualità di un qualsiasi prodotto è ormai subordinata alla sua rapidità di commercializzazione. Eppure, forse ciò di cui questo momento storico più avrebbe bisogno è proprio un ritorno ai ritmi di un tempo, e a una visione della produzione artistica simile a quella dell’antico artigianato di alto livello: un processo attento e meditato, lontano dal semplice consumo «usa e getta» – qualcosa di personale e inestimabile, di cui fare tesoro. Perché tornare ad apprezzare davvero il gesto artistico significa, in fondo, imparare ad amare anche il dono offerto dall’artista stesso – e la fatica e abnegazione dalle quali esso nasce.
ta. È sfuggita al controllo della famiglia, e Roma è la sua casa. I contatti sono saltuari. Loro sanno che percepisce uno stipendio modesto, vive a pigione alimentandosi di latte e minestre di cereali e patate (ma non che alloggia presso un socialrivoluzionario russo), e temono sia diventata antibolscevica. Lei sa che nel 1922, in un sanatorio alle porte di Mosca, le sorelle Genia e Giulia hanno conosciuto il comunista sardo, col quale nel 1923 Giulia si è unita e l’ha resa zia di Delio, ma nel frattempo Antonio si è trasferito a Vienna e non poteva rientrare in Italia, perché nel mirino dei fascisti. Tuttavia cerca di aiutarli in ogni modo ed è leale alla famiglia, e all’origine. Quando lo Stato italiano riconosce la Repubblica dei Soviet, i russi all’estero devono scegliere: andare all’ambasciata, e registrarsi, come cittadini dell’Unione sovietica. Oppure no. E diventare apolidi. Tatiana si registra.
Alla fine la tenacia di Gramsci vince. Scopre che lei insegna al Croydon, un istituto privato di via Savoia, e poi anche l’indirizzo. Abitano ad appena duecento metri l’uno dall’altra. La incontra un pomeriggio di fine gennaio. Restano insieme dalle quattro a mezzanotte. «Abbiamo parlato di tante cose, di politica, della sua vita qui a Roma, delle sue possibilità di lavoro», scrive Antonio a Giulia. «Già siamo diventati molto amici. Mi ha promesso di raccontarmi tutte le sue peripezie». Nel novembre 1926 Gramsci viene arrestato: Tania è l’unica degli Schucht (dopo un breve passaggio in Italia, Giulia è tornata in Russia) a potersi prendere cura di lui. In quanto cognata, ha il diritto di scrivergli (la prima lettera al confino, a Ustica, le altre nelle carceri). Gli scriverà più di seicento fra lettere e cartoline, per otto anni, con una dedizione assoluta e gratuita.
Per amicizia, e un affetto puro e disinteressato. Diventa la sostituta di Giulia (le somiglia tremendamente), la buona sorella di entrambi e poi la loro messaggera – per lunghi periodi non riescono o non possono scriversi (per ragioni personali, ma anche politiche: le lettere sono sottoposte alla censura fascista in Italia e comunista a Mosca, e lui è sospettato di filotrotzkismo, accusa gravissima da quando Trotzskij è il nemico principale di Stalin e dei comunisti mondiali). Ma, dalla fine del 1928, Tania diventa anche il tramite fra il Partito Comunista e Gramsci che, in dissenso con la linea politica, non si considera più membro del partito: Togliatti, segretario generale del Partito, le mette alle costole Piero Sraffa, affinché le dia, più o meno esplicitamente, istruzioni e direttive. Lei accetta con apparente docilità l’uno e l’altro ruolo. Ma talvolta disobbedisce, e fa di testa sua. […continua]
di Giulio Mozzi
di Benedicta Froelich
di Melania Mazzucco
Burro bio: «più burro c’è, meglio è»
Non conosci il trendy hashtag #thebutterthebetter?
Il burro è la star dei ristoranti su Instagram, dove viene celebrato come mai prima d’ora con il motto «più burro c’è, meglio è».
Questo trend va di pari passo con il ritorno alle tecniche artigianali e all’uso di ingredienti di qualità, possibilmente biologici.
È bello notare che nei buoni ristoranti il pane a lievitazione naturale fatto in casa viene celebrato come una portata a sé stante. Spesso viene servito con burro biologico artigianale di alta qualità montato fino a diventare morbido come una nuvola. A volte al naturale, a volte aromatizzato in modo creativo con yogurt, miso o agrumi e cosparso di fiocchi di sale. Il classico è il soffice burro nocciola, dal francese «beurre noisette»; praticamente oro liquido. Nobilita quasi tutti i piatti delle migliori cucine: dagli asparagi alle uova, dal pesce alla carne.
Ti sveliamo la ricetta per preparare il burro nocciola in casa e montarlo fino a renderlo cremoso. Questo burro bio straordinariamente saporito sarà la star del tuo brunch!
Bio è meglio
Tanto tempo all’aperto
Negli allevamenti con la gemma, le mucche trascorrono la maggior parte dell’anno al pascolo. Durante la stagione del pascolo, dalla primavera all’autunno, stanno all’aperto almeno 26 giorni al mese e in inverno almeno 13 giorni.
Benessere degli animali
Solo mucche felici producono un buon latte bio per il miglior burro bio. La gemma garantisce un allevamento adeguato alla specie. Le linee guida rigorose rispettano le esigenze naturali e il comportamento alimentare degli animali.
L’erba e il fieno migliori
Le mucche bio mangiano molto fieno, insilati ed erba. Ricevono poco foraggio concentrato. Ciò garantisce il benessere e la salute degli animali. Solo così possono produrre il gustoso latte con la gemma per un burro squisito.
Concorso
Hai letto tutto con attenzione?
Allora metti subito alla prova le tue conoscenze nel nostro concorso sul latte. Rispondi a tre domande: potresti vincere un weekend al Culinarium Alpinum di Stans. Scansiona e vinci
Ricetta per un burro nocciola soffice come una nuvola
Ingredienti per 4 persone
250 g di burro bio
50 ml di latticello bio (in alternativa latte intero bio) Fleur de sel
Preparazione
1 Prepara una ciotola di acqua ghiacciata e una ciotola più piccola che vi entri appena.
2 In un pentolino fai sciogliere il burro a fuoco medio fino a farlo schiumare. Dopo qualche minuto, le proteine del latte si separano, affondano sul fondo e iniziano a caramellare.
3 Attenzione a non rosolare il burro troppo a lungo: se si brucia, avrà un sapore amaro!
4 Versa il burro caldo nella ciotola più piccola e mescolalo con una frusta per 1-2 minuti, finché non diventa di nuovo bianco e cremoso.
5 Metti il burro nocciola fresco in un frullatore e sbattilo per 10 minuti fino a renderlo spumoso.
Aggiungi il latticello e continua a frullare per altri 5 minuti fino a ottenere una consistenza simile alla panna montata. Il burro montato è ora pronto per essere servito.
6 Disponi il burro in porzioni su appositi piattini e cospargilo di fleur de sel.
Gli avanzi possono essere conservati in frigo e, se necessario, sbattuti di nuovo brevemente.
Consiglio
Insaporisci il burro a piacere. Ad esempio, con la buccia grattugiata di un mandarino, un limone o uno yuzu biologici. Oppure con erbe tritate come l’aglio orsino o il dragoncello. Questo burro non è adatto solo come deliziosa crema da spalmare. Puoi anche usarlo come burro alle erbe sul pesce o sulla carne o per affinare le tue salse!
Burro bio 200 g Fr. 4.60
GUSTO
Asparagi
Gustose ricette con gli asparagi
Gli asparagi si possono cucinare in tanti modi diversi Ecco alcune ispirazioni con cui non ci si annoierà di certo
Asparagi su ricotta al rafano
Antipasto per 4 persone
250 g di ricotta
15 g di crema di rafano sale pepe
1 limone
1 mazzetto di ravanelli
4 cucchiai d’olio d’oliva
500 g di asparagi verdi fini 15 g di crescione
1. Mescola la ricotta con il rafano e condisci con sale e pepe.
2. Grattugia finemente la scorza del limone, poi spremi il succo. Mescola la ricotta con la scorza del limone.
3. Taglia i ravanelli a fette sottili. Marinale con la metà dell’olio e un po’ di succo di limone. Condisci con sale e pepe.
4. Riscalda l’olio rimasto e rosola gli asparagi per ca. 4 minuti.
5. Disponi gli asparagi e i ravanelli sulla ricotta. Cospargi con crescione.
Asparagi verdi mazzo da 1 kg, Fr. 7.50 invece di 10.95
Azione: 31% dal 29.4 al 5.5.2025 31%
Ricetta
Insalata di quinoa con asparagi e avocado
I semi della pianta di quinoa sono una vera prelibatezza da gustare in un’insalata arricchita di avocado, asparagi verdi e bianchi ed erbe fresche.
Asparagi ai
frutti della passione
Antipasto per 4 persone
500 g di asparagi bianchi
4 frutti della passione
4 cucchiai d’olio d’oliva
1 cucchiaino di miele
sale pepe rosa
125 g di spinaci per insalata
60 g di pistacchi tritati
1. Pela gli asparagi, spunta le estremità legnose e tagliali a fettine molto sottili.
2. Dividi a metà i frutti della passione, estrai la polpa con un cucchiaio e mescolala con l’olio d’oliva e il miele. Condisci con sale e pepe.
3. Accomoda gli asparagi e gli spinaci nei piatti, irrora con il dressing ai frutti della passione e guarnisci con i pistacchi.
Asparagi in manto di sfoglia
Una ricetta facile per gli asparagi in sfoglia: il formaggio fresco, il parmigiano e il prosciutto rendono più aromatici gli asparagi.
Alla ricetta
Rösti con striscioline di asparagi
La versione primaverile del classico svizzero: striscioline di asparagi verdi e bianchi, patate, burro, sale, pepe, olio e il manicaretto è bell’e pronto!
Alla ricetta
Ricetta Insalata di asparagi con fragole
Antipasto per 4 persone
Insalata
600 g d’asparagi verdi
2 cucchiai d’olio d’oliva
½ cucchiaino di sale
30 g di mandorle a bastoncino
250 g di fragole
½ cipolla rossa
45 g di parmigiano o sbrinz
Vinaigrette
6 cucchiai d’olio d’oliva
4 cucchiai d’aceto balsamico
2 cucchiaini di miele liquido o sciroppo d’agave sale pepe
1. Se occorre pela il 1/3 inferiore del gambo degli asparagi, poi spunta le estremità. Dimezza per il lungo i gambi grossi. Taglia gli asparagi a pezzetti di ca. 6 cm.
2. Rosola gli asparagi nell’olio in una padella per ca. 10 minuti a fuoco medio, finché si ammorbidiscono ma sono ancora al dente. Condisci con il sale e lascia raffreddare leggermente.
3. Nel frattempo, tosta le mandorle a bastoncino in padella senza grassi a fuoco medio, finché si dorano leggermente.
4. Taglia in quattro le fragole. Taglia la cipolla a fettine sottili. Taglia il formaggio a fettine sottili con un coltello o con l’affettaverdure.
5. Per la vinaigrette, mescola l’olio con il balsamico e il miele. Condisci con sale e pepe.
6. Mescola gli asparagi con le fragole, le mandorle a bastoncino, la cipolla e le scaglie di parmigiano. Irrora con la vinaigrette.
Il burro è la star dei ristoranti su Instagram, dove viene celebrato come mai prima d’ora con il motto «più burro c’è, meglio è». Questo trend va di pari passo con il ritorno alle tecniche artigianali e all’uso di ingredienti di qualità, possibilmente biologici.
Le polpette di macinata di pollo, se impanate, infornate e decorate con qualche punta d’asparago verde, sono ottime da servire con purè di patate
Il brivido dell’avventura a tavolino
Outgunned reinventa l’epica narrativa dei giochi di ruolo ispirandosi a Indiana Jones, fumetti e cinema, facendoci tornare ai ricordi infantili di letture vietate sotto le coperte
Il nuotatore che attraversò la Svizzera a bracciate
Adrenalina ◆ Dall’impresa sul Lago di Lugano al triathlon alpino: il vodese Noam Yaron mette il corpo al servizio dell’ambiente
Lago di Lugano, Lago di Zurigo, Lago di Costanza, Lago dei Quattro Cantoni e Lago di Neuchâtel. Cinque laghi, sparsi un po’ qua e un po’ là sul territorio della Svizzera, ma legati assieme da un fil rouge. Un denominatore comune che ha un nome e un cognome. Noam Yaron, 28enne vodese (di Morges) che ha completato questo singolare tour de Suisse lacustre attraversandoli tutti a nuoto, nella loro lunghezza. Un tour de force, ribattezzato l’Odissea dei laghi (e comprendente gli specchi d’acqua con la maggior superficie in territorio svizzero), exploit che rimane negli annali, dato che nessuno – per quanto se ne sappia – ha mai ritentato l’impresa completata da Noam Yaron in una decina di giorni (dal 21 al 31 agosto del 2022), e cominciata proprio dal Ticino.
A quasi tre anni di distanza da quell’impresa, Noam Yaron conserva ancora un vivido ricordo della tappa ticinese. «Per pura coincidenza, quel giorno, una domenica, era stata pure programmata la classica Traversata del lago popolare (da Caprino al Lido di Lugano, ndr), così, per motivi di sicurezza, prima di lanciarmi in questa sfida, ho dovuto pazientare una buona mezz’oretta ammollo nell’acqua. E benché le temperature esterne e dell’acqua fossero estive, questo mi è ovviamente costato qualche energia», ricorda il romando.
Un lago dopo l’altro, la sfida sportiva del 28enne vodese si è trasformata sempre più in una sensibilizzazione ecologica
L’intoppo non gli ha comunque impedito di portare a termine la traversata, ma nel suo caso, appunto, nel senso della lunghezza del Ceresio (ossia 35 km), completata nel tempo di 11 ore, 18 minuti e 22 secondi. Non è però stata una passeggiata. Anzi, già alle prime bracciate l’intero progetto ha rischiato di naufragare, quando Noam ha accusato una piccola crisi: «Non ho mai sofferto così tanto, fisicamente e mentalmente. Avrei potuto gettare la spugna un centinaio di volte, poi ho cercato di distogliere l’attenzione dal dolore, ripetendomi che era qualcosa di effimero se rapportato al dispiacere che mi sarei portato appresso per tutta la vita qualora avessi alzato bandiera bianca, e così sono andato avanti, bracciata dopo bracciata». Fino a toccare terra ferma, ad Agno, diventando, per quanto è dato a sapere, il primo nuotatore a riuscire nell’impresa di attraversare il lago di Lugano nella sua lunghezza. Un’impresa che a molti potrebbe sembrare folle, ma che per Noam Yaron fa parte di un quadro ben preciso: «Lo sport, con tutta la sua visibilità
mondiale, è uno dei migliori vettori attraverso i quali portare avanti una campagna di sensibilizzazione duratura circa la conservazione delle acque e della biodiversità. Ho dunque cercato di unire le mie due passioni, quella per il nuoto e quella per la comunicazione (con una rete di contatti sui vari canali social che supera abbondantemente il mezzo milione di utenti) per metterle al servizio della Natura, quella con la “N” maiuscola». Riassumendo, Noam Yaron si sente un po’ sportivo, un po’ ecologista e un po’ ambientalista… «Sicuramente più sportivo. Anzi, a dirla tutta, non amo molto quelle etichette tipo ecologista o altro, che fa molto (troppo) attivista. Io voglio solo sensibilizzare le persone, ma attraverso lo sport, niente di “estremo” inteso come qualcosa che va sopra le righe».
1997, Noam Yaron non nasce però, sportivamente parlando,… in acqua. Premesso che una base di nuoto ce l’aveva già (non a caso è anche stato campione svizzero a livello
giovanile sulla distanza di 3 km in acque libere), da piccolo ha praticato lo judo. Poi, nel 2017, ha partecipato alla maratona di New York. Prima di lanciarsi nell’Odissea dei laghi, ha fatto
il… rodaggio attraversando il Lago di Ginevra: 80 km a nuoto completati in meno di 20 ore!
Una prima impresa incredibile che ha di certo scatenato molte sensazioni: «Soprattutto molto stress, ma anche un po’ di paura. C’è però pure molta adrenalina, che ti spinge ad andare avanti, una bracciata alla volta, e l’eccitazione di avere l’opportunità di portare a termine delle sfide che potenzialmente nessun altro prima di te ha realizzato».
Ma come ci si prepara per una sfida come quella della traversata di un lago? «La mia settimana tipo di allenamento comprende quattro sedute di allenamento in piscina, nuotando dai 6 ai 10 km, due sedute di fitness finalizzate in particolare al potenziamento della resistenza muscolare, e una di preparazione mentale (ipnosi, visualizzazione,…)».
Per la cronaca, completata la traversata del Lago di Lugano (in 37’979 bracciate), l’Odissea dei laghi di Noam Yaron due giorni più tardi è proseguita nelle acque del Lago di Zurigo (40 km nuotati in 13 ore, 19 minuti e 15 secondi e 45’959 bracciate), in quelle del Lago di Costanza (25 agosto, 39 km 13 ore, 43 minuti e 31 secondi e 44’469 bracciate), del Lago dei Quattro Cantoni (29 agosto, 35 km in 11 ore, 14 minuti e 46 secondi e 37’786 bracciate) e del Lago di Neuchâtel (31 agosto, 38 km in 11 ore, 5 minuti e 1 secondo e 36’308 bracciate). Tutte le volte stabilendo un tempo record. «Il più impegnativo è stato indubbiamente il Lago di Zurigo, vuoi per la sua lunghezza, vuoi per le condizioni in cui mi sono trovato: considerata la sua forma stretta, c’erano molte correnti, e a fine giornata avevo vento sostenuto contrario. Non da ultimo, quel giorno in acqua c’era parecchio “traffico”».
Finita lì? Macché. Nel 2023 Noam, sempre animato dalla “causa” naturalistica, ha ideato il suo triathlon personale attraversando la Svizzera da est a ovest, 750 km di percorso, comprendenti diversi laghi alpini («non in Ticino, ma non è detto che se dovessi fare il bis, una capatina a sud delle Alpi ci possa stare la prossima volta»), con un dislivello positivo di 13’000 m. «In quel caso l’obiettivo era di mettere il focus sui laghi di montagna, e in particolare di quelli oltre i 1000 m di quota, sensibilizzando l’opinione pubblica sull’importanza della salvaguardia della biodiversità in quota. Abbiamo un patrimonio per le mani, e danneggiandolo, danneggiamo noi stessi». Unendo l’utile al dilettevole: «Nel Lago di St. Moritz, grazie alla mia impresa, per la prima volta sono state individuate delle meduse: un’importante scoperta dal profilo scientifico».
Classe
Moreno Invernizzi
Pagina 35
Pagina 33
Ricetta della settimana - Polpette di pollo agli asparagi
Ingredienti
Antipasto
Ingredienti per 4 persone
500 g d’asparagi verdi sottili
1 cipolla
1 peperoncino
600 g di carne macinata di pollo
3 c di pangrattato
1 c di curry dolce
1 uovo sale pepe
3 c d’olio d’oliva
Preparazione
1. Pelate il terzo inferiore dei gambi degli asparagi. Spuntate le estremità. Tagliate circa 5 cm di punte d’asparago e mettetele da parte.
2. Tagliate i gambi a fettine di 5 mm. Tritate la cipolla. Dimezzate il peperoncino per il lungo, privatelo dei semi e tagliatelo a striscioline. Scaldate il forno statico a 200 °C.
3. In una scodella mescolate la carne con il pangrattato, il curry e l’uovo. Condite con sale e pepe.
4. Rosolate nella metà dell’olio i gambi degli asparagi a fettine con il peperoncino e la cipolla per circa 5 minuti.
5. Incorporate tutto alla carne e mescolate bene. Con le mani inumidite sotto l’acqua fredda, formate delle polpette e appiattitele leggermente. Su ogni polpetta accomodate 2-3 punte d’asparago messe da parte e premetele leggermente sulla carne. Trasferite le polpette in una teglia foderata con carta da forno.
6. Irroratele con l’olio rimasto e cuocetele al centro del forno per 15-20 minuti. Gustatele con un purè di patate o un’insalata.
Preparazione: circa 30 minuti; cottura in forno: circa 20 minuti
Per porzione: circa 37 g di proteine, 15 g di grassi, 9 g di carboidrati, 320 kcal
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Il sogno dell’avventura in un lancio di dadi
Colpo critico ◆ Da un deragliamento nella giungla al tesoro di paperi antropomorfi
Andrea Fazioli
L’avventura guarda sempre avanti. Non conta il viaggio reale, quanto la capacità di raccontarlo. L’autore francese Olivier Weber parla di «una possibilità d’infinito nella finitudine» e di «uno slancio per ritrovare il mondo» (Dictionnaire amoureux de l’aventure, Plon, 2024). Anche quando diventa sedentario, l’essere umano mantiene uno spirito nomade, teso verso l’ignoto.
Un altro autore, lo spagnolo Fernando Savater, definisce le storie di avventura «un salto verso la pienezza» (Luoghi lontani e mondi immaginari, Passigli, 2008). In effetti i ricordi dei pomeriggi passati a leggere Jules Verne o Emilio Salgari suscitano in me un senso di «pienezza». Una sera, avevo dieci anni, ero a letto con un romanzo di Salgari. Leggevo di nascosto alla luce di una torcia, sotto le coperte.
Come nel miglior cinema d’intrattenimento, lo stile visivo – illustrato da Giubellini – accompagna la regia collettiva del gioco
Un treno era deragliato ai bordi della giungla, i passeggeri erano rimasti intrappolati fra le lamiere e alcune tigri fameliche avevano cominciato a rovistare fra le carrozze quando, all’improvviso, venni scoperto dai miei ge-
Cruciverba
Un signore va da una sensitiva e chiede: «Può togliermi un maleficio che un anziano sacerdote mi ha lanciato alcuni anni fa?». «Certo! Purché mi dica le esatte parole che ha pronunciato». Cosa le risponde il cliente? Troverai la risposta a cruciverba risolto leggendo le lettere evidenziate.
(Frase: 2, 8, 6, 1, 6)
ORIZZONTALI
1. Ci sono anche quelli temperati
5. Un numero
10. Propaggini vegetali
12. Piccola insenatura marina
13. Le iniziali dell’attrice canadese Hope
15. Si racconta nelle memorie
17. Preposizione
19. Le fiutano i segugi
21. Si cura con scerbature
23. Le iniziali di Mazzini
24. È d’ornamento nelle piazze
26. Le iniziali della cantante Oxa
27. Desinenza verbale
28. È suo in Inghilterra
29. Vai! A Chicago
31. Stato asiatico
33. Fanno rima con ma…
34. Proteggono i porti
36. Escursioni, passeggiate
37. Le iniziali dell’attore Arena
38. Fa respirare a fatica
nitori. Il libro mi venne confiscato fino al giorno dopo. È curioso come oggi io ricordi questa scena in maniera vivida, pur avendo dimenticato ogni altra cosa del romanzo, compreso il titolo.
A restare nella mente è il momento del rischio. Lo sanno bene Riccardo Sirignano e Simone Formicola, i creatori del gioco di ruolo Outgunned (Two Little Mice, 2024). Il manuale propone di entrare in un film d’azione, con un regista che coordina la storia e gli altri giocatori che si mettono nei panni degli eroi. Il sistema è veloce ed efficace nel creare una tensione sempre rinnovata, in un susseguirsi di scene al cardiopalma. Il gioco ha riscosso un notevole successo di pubblico e di critica, vincendo alcuni premi. Gli autori hanno creato alcune espansioni, di cui una mi ha particolarmente affascinato: Outgunned Adventure (Two Little Mice, 2025; vedi immagine) sfrutta il sistema del gioco base ma è indipendente e offre un’atmosfera diversa, che richiama il mondo dell’avventura senza tempo. Per intenderci, i riferimenti diretti sono la serie di Indiana Jones, inventata nel 1981 da George Lucas con la regia di Steven Spielberg, o il film di Stephen Sommers La Mummia (1981). Dietro però affiorano altri classici. La serie di Indiana Jones, per esempio, è a sua volta basata sui film d’avventura degli anni 1930-40, ma anche sui fumetti
40. Le ultime gocce di Pinot
41. Ha un carattere esplosivo
43. Nome femminile
45. Lamento canino
46. Un predatore della giungla
VERTICALI
1. Famoso scrittore e filosofo francese
2. Le iniziali del Renis cantante
3. Un Maurice musicista
4. Tutt’altro che sommi
6. Le iniziali della Canalis
7. Impiegato in molti giochi
8. Piccola rana verde
9. Fanno le arcate… con arte
11. Andato… per Cicerone
14. Isola delle Grandi Antille
di Tintin o su figure reali come l’archeologo britannico Percy Fawcett, scomparso in Amazzonia nel 1925. Outgunned offre un’edizione raffinata, anche grazie alle illustrazioni di Daniela Giubellini. Fra l’altro la casa editrice Two Little Mice ha una storia interessante. I due fondatori, Simone Formicola e Riccardo Sirignano, si sono conosciuti partecipando a un gioco di ruolo a Lugano, dove Sirignano studiava al Cisa. Hanno collaborato dapprima per una serie web e poi nell’ambito ludico. Anche questa è un’avventura: due amici hanno
Little Mice
un’idea, creano una casa editrice e in poco tempo si affermano sul mercato internazionale. Qual è la forza di Outgunned ? In primo luogo la sua duttilità. A partire dal sistema originale, gli autori hanno creato una serie di mini-espansioni o «setting cinematografici» che consentono di trasporre il meccanismo in un western, in un film di fantascienza o di zombie, perfino in un cartone animato in cui dei paperi antropomorfi partono alla ricerca di un tesoro. L’altra idea vincente è la semplicità delle regole, una sorta di modulo base
che i giocatori possono personalizzare. I punti critici vengono risolti con un lancio di dadi mediante un sistema essenziale: non si somma il punteggio ma si guarda il numero di facce uguali per determinare il successo di un’azione. Non c’è la possibilità di un fallimento, poiché la storia avanza qualunque cosa accada, imboccando sempre vie inaspettate. Come si legge nel regolamento, «l’unica sconfitta è fermare il gioco».
«Outgunned è un gioco di azione cinematica che declina un macro-genere in varie categorie – spiega Simone Formicola – e può essere apprezzato anche da chi non è un esperto». Ma il regista, il giocatore che deve guidare l’avventura, non avrà un ruolo faticoso? «Basta abbandonarsi al flusso narrativo. La regola è: agire adesso, pensare dopo. Un altro consiglio: chiedete ai giocatori-avventurieri, fateli partecipare, create insieme la storia».
Un gioco appartiene sempre a chi lo scopre, qui e ora. È valida per l’ambito ludico la regola che l’autore nigeriano Ben Okri applica alla letteratura: «È il lettore che scrive il libro, perché la vera destinazione dei libri è la vita, e i viventi» (La tigre nella bocca del diamante, Minimum Fax, 2000). Anzi, nel gioco è ancora più vero, perché nessuna partita, nessuna sessione di gioco di ruolo assomiglia a un’altra. Gli eroi, dopotutto, siamo noi.
Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
16. Misura agraria di superficie
18. Frittatina farcita
20. Noi in latino
22. Unità di misura inglese
23. Non dimentica il favore
25. Ha la testa forata
27. Il cacchione è la loro larva
30. Una festosa… oscillazione
32. L’arcipelago di Favignana
34. Si lavano a vicenda
35. Isabella per gli amici
37. Nome femminile
39. Con, per i tedeschi
41. Le iniziali del pittore francese Utrillo
42. Atto dimezzato
44. Le iniziali dell’attore Garcia
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
Soluzione della settimana precedente
I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku cliccando sull’icona «Concorsi», homepage in alto a destra Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano . Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
Sudoku
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
Two
Hitdella settimana
Philadelphia (confezionimultipleescl.) disponibileindiversevarietà,peres.alnaturale, 200g, 1.93 invecedi2.75,(100g=0.97)
Prezzi Validigio.–dom.
imbattibili weekend del
Settimana Migros Approfittane e gusta
2.10
1.–
Gold Extra
Kiwi
Nuova Zelanda, il pezzo
Frutta e verdura
Cose buone dalla terra
3.50 Rucola Migros Bio 150 g, (100 g = 2.33) Hit
5.95 invece di 7.44
Prosciutto affumicato di campagna Migros Bio Svizzera, per 100 g, in self-service 20%
Tutti i formaggi per insalata e i tipi di feta per es. formaggio per insalata M-Classic, 250 g, 1.76 invece di 2.20, (100 g = 0.70) a partire da 2 pezzi 20%
28%
2.50
invece di 3.50
Fragole Italia, 500 g, confezionate, (100 g = 0.50)
Mirtilli Spagna/Marocco/Portogallo, vaschetta da 500 g, (100 g = 0.88) 20%
4.–
invece di 5.–
3.40
Melone retato Italia, al pezzo 20%
invece di 4.30
3.95
invece di 4.95
Pomodori carnosi Ticino, al kg, (100 g = 0.40) 20% A dell'asparagodifferenzabianco, cresce in superficie
2.75
invece di 3.50
Pomodori datterini Migros Bio Spagna/Italia, vaschetta da 500 g, (100 g = 0.55) 21%
Lattuga cappuccio verde Svizzera, il pezzo 20%
1.35
invece di 1.70
7.50
invece di 10.95
Asparagi verdi Spagna/Italia/Ungheria, mazzo da 1 kg 31%
Migros Ticino
Pane e prodotti da forno
Un
boccone di felicità
Il nostro pane della settimana: oltre al frumento, la farina di segale, i semi di lino e di girasole conferiscono a questa corona biologica il suo sapore inconfondibile
3.65
20%
2.72
invece di 3.40
Toast American Favorites XL IP-SUISSE
730 g, (100 g = 0.37)
ridurreSuggerimento: in purea con schiuma di rafano e servire come mousse
20%
Tutti i prodotti di salmone affumicato M-Classic per es. salmone affumicato dell'Atlantico, ASC, d'allevamento, Norvegia, 100 g, 3.60 invece di 4.50, in self-service
Millefoglie in conf. speciale, 6 pezzi, 471 g, (100 g = 1.17) 29%
5.50 invece di 7.80
4.10
Biscotti prussiani M-Classic in conf. speciale, 516 g, (100 g = 0.79) 20%
invece di 5.16
6.–
Cookies 4 pezzi, 304 g, prodotto confezionato, (100 g = 1.97)
conf. da 2 41%
6.95
invece di 11.90
Filetti Bordelaise Pelican, MSC prodotto surgelato, 2 x 400 g, (100 g = 0.87)
Migros Ticino
Tutto ben oliato!
2, 1 –a tavola!
Pasta refrigerata Migros Bio Fiori limone e timo o Girasoli verdure grigliate, in confezioni multiple, per es. Fiori, 3 x 250 g, 13.90 invece di 17.40, (100 g = 1.85) conf. da 3 20%
Focaccia alsaziana originale
2 x 350 g o 2 x 240 g, per es. 2 x 350 g, 5.75 invece di 6.80, (100 g = 0.82)
Tutti i tortelloni Anna's Best, refrigerati per es. ricotta e spinaci, 500 g, 4.64 invece di 5.80, (100 g = 0.93) 20%
7.90
invece di 9.90
Cornatur
scaloppine al pepe e al limone o cordon vert, per es. scaloppine, 2 x 220 g, (100 g = 1.80)
5.40 Calzone al prosciutto Da Emilio, prodotto refrigerato 2 pezzi, 2 x 120 g, (100 g = 2.25)
Latticini e bontà affini
2.10
Stagionatura in salamoia
Tutti i formaggi per insalata e i tipi di feta per es. formaggio per insalata M-Classic, 250 g, 1.76 invece di 2.20, (100 g = 0.70)
Migros Ticino
5.95 invece di 7.–Panna intera UHT Valflora, IP-SUISSE 2 x 500 ml, (100 ml = 0.60)
Sostengono il sistema immunitario
Yogurt da bere Aktifit Emmi fragola, pesca e frutta esotica, 6 x 65 ml, 3.80 invece di 4.75, (100 ml = 0.97) a partire da 2 pezzi 20%
3.35
Twix mix o M&M's 3 x 120 g, (100 g = 0.93)
Migros Ticino
pezzi
Rifornisci la scorta
Tutto l'assortimento
Saitaku e Kikkoman per es. salsa di soia Kikkoman, 500 ml, 4.64 invece di 5.80, (100 ml = 0.93) 20%
conf. da 2 34%
Pizze Buitoni
surgelate, Caprese, Prosciutto e funghi o Diavola, 2 x 350 g, per es. Caprese, 7.25 invece di 11.–, (100 g = 1.04)
In Giappone si prima«tadakimasu»dice di iniziare a mangiare
Tutto l'assortimento di olio d'oliva Monini per es. Classico, 1 litro, 13.56 invece di 16.95 20%
conf. da 2 30%
3.90
invece di 5.60
Rigatoni o spaghetti, Garofalo 2 x 500 g, (100 g = 0.39)
conf. da 3 33%
5.–
invece di 7.50
conf. da 6 20%
Rösti Original M-Classic 3 x 500 g, (100 g = 0.33)
7.20
invece di 9.–
Pomodori pelati triturati Longobardi 6 x 400 g, (100 g = 0.30)
4.20
a partire da 2 pezzi –.50 di riduzione
3.05
invece di 3.55
5.25
di 6.60
Tutte le noci e la frutta secca, Migros Bio (prodotti Alnatura e Demeter esclusi), per es. noci di anacardi, Fairtrade, 150 g, (100 g = 2.13)
Classic Paprika, Original, Sour Cream o Spicy, 2 x 185 g, (100 g = 1.42)
Tutte le capsule Nescafé Dolce Gusto, 30 pezzi 8.33 invece di 11.90, (100 g = 4.96)
a partire da 2 pezzi 20%
Tutti i tipi di caffè istantaneo Nescafé Gold in busta 180 g, per es. Finesse, 8.10 invece di 13.50, (100 g = 4.50) a partire da 2 pezzi 40%
a partire da 2 pezzi
di riduzione Tutto l'assortimento Kellogg's per es. Tresor Choco Nut, 620 g, 5.56 invece di 6.95, (100 g = 0.90)
Tutto l'assortimento di barrette ai cereali e snack, Farmer (barrette singole escluse), per es. barrette ai cereali Soft Choc alla mela, 288 g, 3.60 invece di 4.60, (100 g = 1.25)
Novità imperdibili
Infuso di tè bianco, mentuccia e foglie di stevia Bevanda rinfrescante al gusto di arancia rossa e birra analcolica
1.30
20x CUMULUS Novità
20x CUMULUS
Novità
Calanda Radler Mango Spritz 0,0% analcolica, Limited Edition, 330 ml e 6 x 330 ml, per es. 330 ml, 1.50, in vendita nelle maggiori filiali, (100 ml = 0.45)
Birra Moretti Zero analcolica, 500 ml o 6 x 500 ml, per es. 500 ml, 2.25, in vendita nelle maggiori filiali, (100 ml = 0.45)
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Novità
Corona Cero 0,0% senz'alcol, 330 ml e 4 x 330 ml, per es. 330 ml, 1.75, in vendita nelle maggiori filiali, (100 ml = 0.53)
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Novità
Heineken Edizione Europei di calcio 0,0% analcolica, 330 ml e 6 x 330 ml, per es. 330 ml, 1.60, (100 ml = 0.48), in vendita nelle maggiori filiali
20x CUMULUS
Novità
Non Elderflower senz'alcol, 330 ml e 6 x 330 ml, per es. 330 ml, 1.50, (100 ml = 0.45)
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Lowlander Wit 0,0% analcolica, 330 ml, in vendita nelle maggiori filiali, (100 ml = 0.85) 20x CUMULUS Novità
Mamma mia, la Festa della mamma si avvicina!
Bastoncini al Kirsch Lindt
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Mini cioccolatini con vari ripieni cremosi
Tutto l'assortimento di cioccolato Frey (prodotti Sélection e confezioni multiple esclusi), per es. al latte finissimo, 100 g, 1.96 invece di 2.45, (100 g = 1.96)
Tutti i Toffifee per es. Toffifee, 125 g, 1.60 invece di 2.–, (100 g = 1.28) a partire da 2
a partire da 2 pezzi 20% Mini Pralinés Lindt
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Disponibile solo per poco tempo
Belli dentro e fuori
l'assortimento Nivea Sun e Hawaiian Tropic (confezioni multiple escluse), per es. Protect & Moisture IP 50+ Nivea Sun, 200 ml, 10.88 invece di 14.50, (100 ml = 5.44)
Addio sporco, benvenuta freschezza
Tutti i detersivi Elan (confezioni multiple e speciali escluse), per es. Spring Time, in conf. di ricarica, 2 litri, 6.48 invece di 12.95, (1 l = 3.24)
Ammorbidente Lenor per es. freschezza d'aprile, 2 x 1,7 litri, 9.75 invece di 15.–, (1 l = 3.93)
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Scopino e portascopino per WC Home disponibili in bianco, il pezzo
Tutto l'assortimento Handymatic Supreme (sale rigeneratore escluso), per es. All in 1 in polvere, 800 g, 4.98 invece di 9.95, (100 g = 0.62) a partire da 2 pezzi 50%
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Tutte le bustine morbide bio Holle per es. Banana Lama Demeter, 100 g, 1.56 invece di 1.95, (10 g = 0.16)
Tutti i caricabatterie M-Power ed Energizer e le batterie Energizer per es. batterie Extreme AA 2300 mAh NiMH, 2 pezzi, 14.36 invece di 17.95 20%
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