Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXIX 18 luglio 2016
Azione 29
Società e Territorio Vacanze e tempo libero dei giovani: le proposte di Compagno di viaggio
Ambiente e Benessere Le ricerche del neuroscienziato Nicholas Humphrey si concentrano sull’evoluzione della coscienza
Politica e Economia A Dallas si riaccende la questione razziale
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Cultura e Spettacoli A Zurigo l’artista Francis Picabia non lascia indifferente il pubblico
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Foto Geosfera
Dove le Alpi narrano la loro storia
di Elena Robert pagina 6
Banche, tallone d’Achille europeo di Peter Schiesser Si profila un prossimo terremoto finanziario in Europa, questa volta con epicentro non più in Grecia bensì in Italia? L’allarme lo lanciano «The Economist» e «Financial times». Tuttavia, i governanti italiani gettano acqua sul fuoco e persino a Bruxelles e a Berlino, che potremmo oggi definire la capitale tecnocratica e la capitale politica dell’Unione europea, si afferma che la crisi bancaria italiana non è acuta. Resta difficile prevedere i terremoti, in natura come in economia, ma sostenere che la crisi bancaria italiana non sia acuta pare un azzardo, se consideriamo che solo dall’inizio dell’anno l’indice delle quotazioni delle banche italiane (che hanno 360 miliardi di euro di crediti a rischio, di cui 200 irrecuperabili, per tre quarti da aziende private) ha perso oltre il 55 per cento, quello delle banche europee il 35 per cento, mentre lo Stoxx Europe 600 solo un po’ più del 10 per cento. Simili dichiarazioni vanno forse intese come un invito ai mercati a mantenere la calma, in aggiunta ai positivi segnali di un prossimo accordo fra Roma e Bruxelles-Berlino sul risanamento
delle banche con aiuti statali italiani, in deroga alle nuove norme Ue sul salvataggio delle banche che impongono invece, con il termine «bail in», sacrifici ad azionisti e clienti degli istituti di credito prima di ottenere aiuti europei. Evidentemente, in questo frangente a Bruxelles-Berlino pesa di più il timore di un’effettiva crisi finanziaria continentale che un’obbedienza cieca ad una rigida norma europea. Si concede quindi a Matteo Renzi, almeno così sembra, una scappatoia per evitare di far pagare a milioni di piccoli investitori e clienti il salvataggio delle pericolanti banche italiane. In particolare, permettendo aiuti al Monte dei Paschi di Siena, la più antica banca al mondo, prima della presentazione, il 29 luglio, dei risultati dello stress test cui l’Ue ha sottoposto 51 grandi banche europee, si punta ad evitare scosse ai mercati. D’altronde, in seguito alla crisi finanziaria del 2008, Germania, Gran Bretagna, Francia, Spagna, Belgio, Olanda, Irlanda avevano messo a disposizione centinaia di miliardi di euro «statali» per salvare dal tracollo le loro banche (soltanto la Germania 250-280 miliardi), mentre l’Italia si era illusa di poter risolvere i problemi facendo ripartire l’economia nazionale (che ancora oggi resta al palo). Proprio per evitare che anche in futuro le
banche dovessero essere salvate a spese dei contribuenti, l’Ue aveva introdotto il meccanismo del «bail in», ed ora l’Italia, un po’ ingiustamente, avrebbe dovuto essere il primo Stato membro a subirlo. Se tutto va bene, la crisi non esploderà a breve, ma sarebbe un grave errore credere che basti un bizantino accordo a Bruxelles per tenere in equilibrio il sistema bancario europeo e in ultima istanza anche l’euro (una serie di fallimenti di banche in Italia indebolirebbe Renzi a vantaggio del Movimento 5 Stelle, favorevole ad un’uscita dalla moneta unica europea). L’ex presidente di direzione della Banca nazionale Svizzera, oggi vice presidente del gigante di intermediazione finanziaria Blackrock, Philipp Hildebrand, afferma in un’intervista al «Tages Anzeiger» che l’esito dello stress test previsto a fine mese deve indurre l’Europa a risanare finalmente l’intero sistema bancario. In caso contrario, ogni crisi locale potrebbe avere ripercussioni globali. Così la pensa anche l’FMI. In Italia si è consapevoli da oltre un anno che il numero di banche e sportelli è eccessivo, ma poco o nulla è accaduto sin qui. Certo, non sarà un risanamento indolore per gli Stati e per i risparmiatori, ma l’alternativa è un ulteriore sbriciolamento dell’Unione europea e la morte sicura dell’Euro.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 18 luglio 2016 ¶ N. 29
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Attualità Migros
M La consulenza dell’agente di viaggio è ancora preziosa
Migros vince il «Good Chicken Award»
Vacanze Kurt Eberhard, CEO di Hotelplan Suisse, ci parla delle nuove tendenze di viaggio
Riconoscimenti
e delle destinazioni emergenti di questi ultimi anni
settimane anche la sterlina, a causa della Brexit, ha perso valore rispetto al franco svizzero e noi abbiamo subito ridotto i nostri prezzi per viaggi e vacanze in Gran Bretagna, a vantaggio dei clienti.
Alexandre Willemin* Nonostante l’irrompere della realtà online, che sembra ormai farsi strada in qualunque ambito della vita quotidiana, la consulenza dell’agenzia di viaggi rimane ancora uno strumento estremamente utile per l’organizzazione delle vacanze. La situazione precaria e instabile degli ultimi anni dovuta alla sconcertante serie di attentati terroristici ha però stravolto le carte in tavola; i viaggiatori oggigiorno hanno più che mai bisogno di sicurezza e di nuove certezze. Quali sono quindi le destinazioni di viaggio più sicure e vantaggiose? Ne abbiamo parlato con Kurt Eberhard, CEO di Hotelplan Suisse.
Il numero dei viaggiatori aumenta di anno in anno, in tutto il mondo. Dove potremo ancora viaggiare in futuro, se vogliamo fuggire dal turismo di massa?
Notiamo già un aumento di richieste per l’Africa. Penso in modo particolare al Sudafrica, East Africa, Namibia e Botswana, Paesi dove esistono ancora ampi spazi e dove la natura è sovrana. Anche il Nord Europa esercita un notevole fascino; la Scandinavia, ad esempio, è una destinazione di tendenza in questo momento. Ma ci sono anche altre mete, meno turistiche ma ricche di fascino, come l’Iran, che valgono sicuramente un viaggio. Ovviamente dipende sempre dal budget del cliente.
Il numero delle prenotazioni di Hotelplan Suisse per le vacanze estive è leggermente inferiore rispetto allo scorso anno. Come lo spiega?
L’instabilità geopolitica causata dalla serie di attentati ha modificato le abitudini dei clienti, rileviamo infatti un’accresciuta tendenza a prenotare sottodata. Se penso poi alle famiglie, loro sono spesso alla ricerca di alternative valide alle vantaggiose proposte per Turchia, Tunisia e Mar Rosso, destinazioni tuttora presenti nei nostri cataloghi. Quali sono i Paesi che lei raccomanda a quei clienti che hanno timore per la loro sicurezza?
Il mio consiglio è semplice: non fate come tutti gli altri! Raccomando quindi vacanze al mare a Cipro, Rodi e Kos, dove i prezzi sono particolarmente convenienti, ma nonostante questo ci saranno meno turisti, e quindi il servizio sarà decisamente migliore. In alternativa, e pensando a mete a poche ore di volo, ci sono ancora posti disponibili per la Spagna o per il Portogallo. Purtroppo, a causa del recente attentato a Istanbul, non penso che i nostri clienti sceglieranno la Turchia per le loro vacanze estive. Informare i clienti sui rischi delle destinazioni è un valore aggiunto per le agenzie di viaggio? Può fare
A breve, l’online di Vacances Migros sarà ottimizzato anche per cellulare. Pensa che in futuro la maggior parte dei clienti utilizzerà il proprio smartphone per prenotare le vacanze?
«Oggigiorno i clienti vogliono essere rassicurati sulla scelta della destinazione e sul viaggio che intraprendono». la differenza con le offerte online di viaggi e vacanze?
quisto potrà spingere gli svizzeri a viaggiare di più?
Oggigiorno i clienti vogliono essere rassicurati sulla scelta della destinazione e sul viaggio che vogliono intraprendere. Le informazioni presenti online, che sovente si differenziano tra di loro, non potranno mai sostituire il parere di consulenti di viaggio professionali ed esperti. La nostra rete di agenzie di viaggio e le agenzie indipendenti, presenti in modo capillare sul territorio, possono fare la differenza per Hotelplan Suisse.
Sicuramente. Per i clienti svizzeri, da circa un anno, i prezzi di vendita per viaggi nella maggior parte dei Paesi europei sono scesi, e i viaggiatori, grazie alla valuta vantaggiosa, ne hanno approfittato prenotando viaggi leggermente più cari. Di conseguenza, anche se il numero dei passeggeri complessivo è diminuito, il prezzo medio per persona è aumentato. Questo anche perché il numero dei clienti per destinazioni come la Turchia – che pagano un costo per persona nettamente più basso – è calato notevolmente. Nelle ultime
Il franco svizzero è attualmente una moneta forte. Questo potere d’ac-
La ricerca di informazioni da cellulare aumenta di anno in anno, anche se i clienti continuano a prenotare principalmente dal proprio laptop. È possibile che questo sia causato dal fatto che le funzioni sullo smartphone non sono ancora abbastanza efficaci, ma la tecnologia si evolve molto velocemente. Chissà, può darsi che un giorno metteremo a disposizione un sistema di prenotazione controllato vocalmente. Un’ultima domanda, questa volta più personale: lei dove andrà in vacanza quest’estate?
Lo scorso aprile sono stato in Vietnam. Il mio prossimo viaggio mi porterà a Firenze nel mese di settembre. Ho già previsto di noleggiare un’auto e di visitare la Toscana. Amo molto cambiare sempre destinazione. * Redattore di Migros Magazin
L’impresa si impegna da tempo a favore di allevamenti rispettosi degli animali
Ogni anno l’organizzazione per la protezione degli animali «Compassion in World Farming» assegna un premio alle industrie che hanno dedicato particolare attenzione all’allevamento riguardoso degli animali. Migros, dopo aver vinto nel 2015 il «Good Egg Award» per il suo impegno a favore di una produzione responsabile di uova, conferma anche quest’anno la sua dedizione per una produzione consapevole. Sulla base di criteri quali la salute degli animali, il foraggiamento, il trasporto e la macellazione, è spettato infatti a lei il «Good Chicken Award», in quanto la sua carne di pollo fresca proviene esclusivamente da fornitori che rispettano le severe regole per l’allevamento e il trattamento rispettoso degli animali. Dato che quasi il 20 per cento dei prodotti Migros proviene dall’estero, anche i commercianti esteri devono attenersi agli standard della legge svizzera sulla protezione degli animali. In Germania, Francia e Ungheria per esempio, i fornitori di Migros e i loro produttori hanno modificato oltre 100 stalle, ingrandendo del 40 per cento in più rispetto a quanto previsto dalle norme UE lo spazio a disposizione dei polli da ingrasso, dotando le stanze di finestre che permettono un’illuminazione naturale e infine mostrando particolare premura per la lettiera, così da evitare lesioni e malattie delle zampe dei volatili. Nell’ambito del programma di sostenibilità Generazione M la Migros si impegna ad adeguare l’intero assortimento di prodotti animali provenienti dall’estero alle direttive dell’Ordinanza svizzera sulla protezione degli animali entro il 2020.
Un brunch in fattoria per il 1° agosto Festività Per celebrare la Festa nazionale i contadini di tutta la Svizzera, sostenuti da Migros, invitano
la popolazione a gustare durante un’intera mattinata uno speciale momento in loro compagnia Per la 24a volta in occasione del 1° agosto le famiglie contadine svizzere invitano i cittadini a raggiungere le loro fattorie ripartite tra i 26 cantoni della Svizzera per gustare un brunch a base di prodotti tipici locali, emblema della produzione agricola a km zero. In questa occasione i visitatori potranno non solo godere di un buffet ricco di buon cibo prodotto e trasformato secondo le regole responsabili e consapevoli dell’agricoltura, ma anche approfittare del contesto in cui si trovano per scoprire qualcosa di più in merito alla «panoramica della produzione agricola svizzera», spiega Markus Ritter, presidente dell’Unione Svizzera dei Contadini, promotore del progetto, che
con i suoi molteplici programmi e servizi si impegna a instaurare un dialogo tra la popolazione e gli esponenti della realtà agricola. Un’idea originale che permette ai cittadini rossocrociati di riunirsi in occasione della festa nazionale in un’atmosfera suggestiva e assaggiare in presenza di alcuni esperti del settore diversi tipi di prodotti regionali quali carne, pane, frutta, latticini e molto altro. Ai partecipanti sarà inoltre concessa l’opportunità di informarsi e constatare direttamente da sé la provenienza e la qualità dei prodotti offerti. Vista la forte affluenza all’evento proposto è richiesta l’iscrizione dei partecipanti direttamente presso la famiglia scelta. Le numerose fattorie – più
Azione
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
di 350 distribuite in tutta la nazione di cui ben 45 in Ticino – che attenderanno gli ospiti il primo agosto dalle 9.00 alle 13.00 sono elencate per cantone sul sito www.brunch.ch sotto la voce «Ricerca Fattoria». Il prezzo del brunch per persona può variare dai 25.– ai 40.–. Ulteriori informazioni sono disponibili telefonando allo 056 462 52 03 dalle ore 8.00 alle 12.00 e dalle ore 14.00 alle 17.00 o mandando una email all’indirizzo info@ brunch.ch.
Brunch in fattoria, 1° agosto 2016, varie fattorie del cantone Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
Tiratura 101’035 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
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Società e Territorio La triste storia del pozzo Polenta A otto anni di distanza dall’inquinamento di idrocarburi dell’acqua potabile di Morbio Inferiore e dopo il decreto di abbandono del Ministero pubblico, il Dipartimento del territorio commissiona una nuova perizia
Leggere le pietre Dal 1° luglio anche le Alpi ticinesi sono integrate negli itinerari svizzeri della via GeoAlpina: ce ne parla la geologa Alessia Vandelli pagina 6
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In vacanza con un compagno di viaggio Giovani Tra le pubblicazioni utili
di Infogiovani c’è anche l’opuscolo dedicato al tempo libero e alle vacanze: un successo da 16 anni di cui ci parla Marco Baudino
Guido Grilli Mai nome fu più appropriato. Si chiama Compagno di viaggio – proposte over 15 under 30 e si prefigge un obiettivo ambizioso e avvincente: «fornire ai giovani la possibilità di autodeterminarsi e di diventare protagonisti nella scelta della propria vacanza e nell’impiego del proprio tempo libero». Si tratta di uno degli opuscoli di Infogiovani, uno, non il solo, strumento utile dal quale non ci si dovrebbe separare facilmente, con un ventaglio ampissimo di informazioni e siti Internet con tanti suggerimenti su come occupare parte di questa stagione così preziosa, l’età tra l’adolescenza e la maturità. Artefice dello stampato distribuito in 5mila copie è Marco Baudino, esperto di politica giovanile, referente per il Dss per la legge giovani e a Infogiovani da vent’anni tondi, dal 1996, anno in cui in Ticino è stata introdotta la legge giovani. Dire Marco Baudino è dire giovani. Parlare con lui significa entrare in questo universo, talora imperscrutabile. «Compagno di viaggio, alla sua 16esima edizione, va sempre esaurito. È interessante perché offre la possibilità ai ragazzi di ampliare il loro spettro d’azione durante il tempo libero. Da chi vuole fare volontariato, chi l’aiuto monitore, chi lavorare in fattoria, chi esperienze nel campo archeologico. Oppure chi decide di viaggiare: l’opuscolo offre un’ampia serie d’informazioni: come ricevere gli sconti, dove ottenere tessere di agevolazioni degli ostelli della gioventù, come viaggiare a basso costo, come imparare a confrontare i prezzi. Per chi invece vuole cimentarsi in viaggi più importanti trova qui indicazioni su come trovare informazioni sulle vaccinazioni, sulle precauzioni che occorre tenere presenti in certi paesi». Il target è molto ampio: giovani dai 15 ai 30 anni. «A 15 – evidenzia Baudino – inizia una certa mobilità: si inizia a fare gli aiuto monitori, volontariato, ad assumersi delle responsabilità, esperienze lavorative, come ad esempio la ragaz-
za alla pari, il servizio agricolo volontario. E fino ai 30 anni perché oltre questo termine per la legge non si è più giovani». Ma come riuscite a raggiungere i giovani sempre più incollati al loro smartphone? «Abbiamo anche noi un sito Internet (www.ti.ch/infogiovani), dove possono facilmente consultare l’opuscolo. Alle nostre proposte vi giungono in due modi: o tramite i genitori che li invogliano a scoprire cose diverse; oppure lo stesso opuscolo si mostra un veicolo interessante, perché magari capita loro fra le mani per un soggiorno linguistico e poi invece scoprono altre attività interessanti. Compagno di viaggio circola in tutte le scuole comunali e cantonali, all’università, alla Supsi, poi arrivano le richieste». Una grande risorsa sono le colonie: «Certo. Se in Ticino le colonie sono una realtà è perché ci sono circa 1200 ragazzi dai 15 ai 26 anni che si mettono a disposizione come aiuto o come monitori». Oltre a questo opuscolo, Infogiovani propone fra le sue pubblicazioni utili, Infopulmini – una piattaforma in cui è possibile assicurarsi un mezzo di trasporto a prezzi vantaggiosi per chi intenda proporre attività per i giovani. Di cosa si tratta? «Abbiamo scoperto che in Ticino c’è una miriade di pulmini fermi o poco utilizzati in seno ad associazioni e istituzioni che possono essere dunque messi a disposizione. Se qualcuno intende promuovere un’attività giovanile senza scopo di lucro – condurre ad esempio un gruppo di giovani in gita o a un’attività sportiva – noi siamo in grado di indicare dove trovare i veicoli, a quale costo, se sia possibile o meno utilizzarlo anche all’estero, se sia attrezzato per il trasporto di portatori di handicap. Un altro nostro opuscolo, Responsabilità giuridica, si rivolge proprio agli accompagnatori – educatori, capigruppo o genitori – e informa sulle diverse norme da osservare, sui doveri di responsabilità di carattere giuridico e legale nel caso in cui a bordo vi siano minorenni». Diventare grandi significa anche
Nella pubblicazione di Infogiovani non solo consigli per viaggiare ma anche tante proposte di volontariato. (Keystone )
saper cucinare. A tal proposito, Marco Baudino fa sapere: «Abbiamo realizzato Bella di padella sui consigli di cucina ai giovani. Siamo alla quarta edizione e abbiamo raggiunto i 10mila opuscoli distribuiti. Una pubblicazione utilizzata persino dagli insegnanti ai corsi di alimentazione». Gli opuscoli sono tutti disponibili su internet. E i social network? «Lo Stato non permette ancora l’interazione attraverso i nuovi mezzi di comunicazione. Non abbiamo un profilo Facebook, che tuttavia sarebbe auspicabile in futuro: se si vuole dialogare con i giovani si dovrebbe compiere questo passo». Ma oggi si assiste a una maggiore o minore autonomia dei giovani? «In vent’anni ne ho visti passare di ragazzi. Questa di oggi io la chiamo la “generazione dei bravi ragazzi”, che non è per forza un complimento: sono molto
rispettosi delle regole, molto concentrati sui loro progetti. Non sono più trasgressivi, rivendicativi, non sono più tanto propositivi. Sono molto concentrati sulla scuola, sul loro percorso professionale. Tante sono le domande per richiedere di realizzare i loro progetti musicali, culturali, questi sì. È diminuito tuttavia l’aspetto di rivendicazione. È per esempio più difficile trovare oggi un giovane che voglia realizzare un giornalino studentesco, più facile è invece che chiedano come pubblicare un cd o scrivere un libro. I progetti collettivi sono più rari». Osserva ancora Baudino: «Oltre ad un fenomeno generazionale, sono cambiati i modi di relazionarsi. I bisogni dei giovani rimangono gli stessi da sempre, sono immutati – come il bisogno di spazi – ma per soddisfarli oggi utilizzano sistemi diversi e molte volte
penalizzanti, individualisti. Sono convinti di relazionarsi con il mondo intero, attraverso i loro smartphone, ma in realtà non si implicano con nessuno. Possiedono la capacità di comunicare con un “amico” di Sydney ma non con chi è seduto di fianco a loro sul treno. Si incontrano e si lasciano. Scoppiano amori con un sms. Un tempo la ragazza la dovevi invitare al cinema, dovevi attuare tutto un percorso in cui ti mettevi in gioco in prima persona. Non è che questo sia scomparso, ma adesso il telefonino, i siti Internet, Facebook fanno sì che la relazione venga mediata da uno strumento, che non sei più tu, le tue emozioni, l’impaccio, le figure, ti salva l’aspetto tecnologico. Certo, sanno distinguere un’amicizia su Facebook da un’amicizia vera, ma la tendenza è sicuramente quella di un maggiore individualismo rispetto a prima».
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Società e Territorio
Chi ha ucciso il pozzo Polenta Ticino A otto anni dall’inquinamento di idrocarburi dell’acqua potabile di Morbio Inferiore il Dipartimento
del territorio commissiona una perizia per capire a chi addebitare la responsabilità del disastro ambientale
Fabio Dozio Morto ammazzato. Per avvelenamento. Da idrocarburi o carburanti non identificati: benzina con piombo, senza piombo, gasolio? Sarà un’indagine predisposta dal Dipartimento del territorio a chiarire qual è l’agente inquinante e quindi a risalire, si spera, al responsabile dell’inquinamento. La vittima è il pozzo Polenta, una fonte di acqua potabile che permetteva di dissetare la popolazione di Morbio Inferiore. È una brutta storia, perché inquinare e far morire un pozzo di acqua potabile, il bene comune per eccellenza, è un delitto grave. Salvo che il Ministero pubblico del Canton Ticino non è riuscito a individuare i colpevoli e dopo sette anni di inchieste ha chiuso il caso con un decreto di abbandono. Il Dipartimento del territorio non ci sta e fra qualche settimana partirà un’indagine, affidata a un’azienda con cinquant’anni di consolidata esperienza in materia di inchieste sui siti inquinati, la Geotest AG di Zollikofen. L’obiettivo principale della ricerca è stabilire l’entità e l’ampiezza dell’inquinamento per poi possibilmente risanare la falda. Se l’indagine chiarirà le responsabilità, il Municipio di Morbio Inferiore chiederà un risarcimento per il danno, stimato sui 2,5 milioni di franchi. Il pozzo Polenta, due piccoli edifici bassi a tetto piano, si trova su un’isola di verde accerchiato da cemento e asfalto, al confine tra Morbio Inferiore e Balerna, nella zona che in un raggio di un centinaio di metri contempla: uno svincolo autostradale, due grandi cen-
tri commerciali, un grande magazzino, edifici a uso abitativo, industriale e commerciale. A pochi metri di distanza dal pozzo, accanto al fiume Breggia, che scorre su un letto artificiale, c’è l’imputato del delitto: una stazione di benzina, pompe prese d’assalto, soprattutto anni fa, dai frontalieri che risparmiavano sul pieno. E proprio lì inizia il «Percorso del cemento»: si tratta del sentiero che accompagna il visitatore nelle gole della Breggia, dove in passato veniva estratto e lavorato il cemento. Davanti al pozzo, a sud, rimane un grande prato dove, tanti anni fa, si coltivava il granoturco, particolare che spiega l’origine del nome. Ricostruiamo la brutta storia cominciata nel 2008. Il 7 luglio un abitante di Morbio Inferiore si accorge che l’acqua che sgorga dal suo rubinetto sa di benzina. Denuncia la cosa al Municipio, ma passano giorni prima che l’autorità comunale reagisca commissionando le analisi che rivelano l’inquinamento e interrompendo la distribuzione di acqua potabile. In un primo momento a Morbio l’acqua si distribuisce nei sacchetti di plastica, come avviene nei casi di terremoto e di catastrofi naturali. Poi si spurga il pozzo e nella rete del Comune comincia a scorrere l’acqua proveniente da Chiasso. Ancora oggi funziona così: il pozzo Polenta è una stazione di pompaggio e distribuzione dell’acqua potabile che proviene dalla cittadina vicina. Il 20 agosto 2008 il Comune di Morbio Inferiore si costituisce parte civile e sporge una denuncia contro ignoti. Nel marzo 2009 una prima perizia stabilisce che i litri di benzina finiti nel
20 giugno 2015, i cittadini di Morbio inscenano il funerale del pozzo Polenta. (CdT - Gonnella)
sottosuolo sono da 3 a 7 mila. A questo punto il Municipio, «vista la gravità dell’inquinamento sollecita il Consiglio di Stato a valutare se le conclusioni di tale perizia non impongano l’immediata chiusura della stazione di servizio». La richiesta rimane lettera morta. Passano gli anni e in Procura il dossier resta nei cassetti o passa da un Procuratore all’altro. Nel novembre 2012 la procuratrice Manuela Minotti Perucchi apre un’istruzione nei confronti dei titolari della Centonze, ditta che gestisce la stazione di rifornimento del Centro Breggia di Balerna. Le accuse ipotizzate sono di inquinamento delle acque potabili e infrazione alla Legge
L’indagine e il futuro del pozzo Dopo il decreto di abbandono del Ministero pubblico le speranze di far luce sulle responsabilità dell’inquinamento del pozzo Polenta sono nelle mani del Dipartimento del territorio che ha promosso l’indagine che inizierà fra breve. Abbiamo rivolto via posta elettronica due domande al capo della Sezione protezione dell’aria, dell’acqua e del suolo Giovanni Bernasconi. Il Dipartimento del territorio ha imposto l’indagine per cercare di capire chi è responsabile dell’inquinamento. Poi cosa farà il DT?
Il DT ha ordinato di eseguire l’indagine innanzitutto per determinare l’entità e l’estensione dell’inquinamento e definire i provvedimenti necessari per ripristinare la situazione. L’obiettivo principale è quello di risanare la falda. Se si potrà determinare con certezza il responsabile dell’inquinamento sarà una conseguenza indiretta e positiva dell’indagine. Ad ogni modo sino ad oggi tutti i costi
relativi a misure di contenimento dell’inquinamento e di indagine sono stati assunti dal proprietario dell’impianto. Infatti di regola spetta a quest’ultimo l’esecuzione dei provvedimenti di indagine, di sorveglianza e di risanamento. In un primo tempo egli deve altresì finanziare tali provvedimenti e, se non è l’autore dell’inquinamento, egli ha la possibilità di chiedere all’autorità competente – nel caso concreto il Dipartimento del territorio – di emanare una decisione sulla ripartizione dei costi. Solo nel caso i responsabili dell’inquinamento non possano essere individuati o risultino insolventi, Il Cantone subentrerebbe nell’assunzione di parte dei costi di risanamento altrimenti non imputabili. L’eventualità che il Cantone debba assumersi dei costi è comunque abbastanza remota. Lei crede che abbia senso risanare e ripristinare il pozzo?
Oggettivamente ripristinare l’uso potabile del pozzo non avrebbe gran
senso, considerate le pressioni date dalle attività esistenti nella zona e gli sforzi tecnici e finanziari necessari per garantire la sicurezza dell’approvvigionamento. In ogni caso il Municipio di Morbio Inferiore ha già espresso l’intenzione di voler rinunciare all’uso potabile del Pozzo Polenta. Sino alla loro revoca, le esistenti zone di protezione rimarranno comunque in vigore esplicando i vincoli previsti. Nel giugno 2015 il Municipio Morbio Inferiore, unitamente al Municipio di Balerna, ha inoltrato al DT per esame preliminare una variante di Piano regolatore concernente il comprensorio di Serfontana-Bisio, nel quale è pure ubicato il Pozzo Polenta. Nella variante sono state stralciate le zone di protezione e si è mutata la destinazione d’uso di parte delle aree in esse situate. Si ricorda che il PCAI del Mendrisiotto, adottato nel 2014, non prevede l’utilizzo del Pozzo Polenta in quanto appunto considerato fonte non affidabile.
federale sulla protezione delle acque. La procuratrice è determinata e convinta di essere sulla strada giusta accusando i gestori dell’area di servizio. Purtroppo la magistrata non riesce a concludere il suo lavoro, perché nel gennaio 2013 perde la vita dopo una grave malattia. L’inchiesta passa quindi nelle mani della procuratrice Francesca Lanz. Morbio rilancia la richiesta di risarcimento. «Attualmente – scrive il Municipio nell’ottobre del 2013 – il procedimento penale registra agli atti una perizia giudiziaria con relativo complemento che determina quale causa principale dell’inquinamento verificatosi nel luglio del 2008 una perdita di vecchie condotte di alimentazione dei distributori di carburante dell’area di servizio del Centro Breggia nel periodo aprile 2001-marzo 2004. Le conclusioni del perito giudiziario sono contestate dagli imputati. Il procedimento penale seguirà il suo corso ed il Municipio continuerà ad attivarsi affinché il medesimo si concluda in tempi ragionevoli». Troppo ottimistica la previsione del Comune. Infatti Francesca Lanz, nell’estate dello scorso anno, emette un decreto d’abbandono. L’inchiesta cade in prescrizione e dal profilo penale non ci sono colpevoli. Così la brutta storia assume i contorni di uno scandalo. I partiti reagiscono con sdegno alla decisione di abbandono. Il PPD invita il Ministero ad aprire «un’inchiesta interna volta ad accertare le responsabilità individuali e organizzative». I liberali esprimono indignazione, ma sottolineano che è importante rispettare la divisione dei poteri e l’indipendenza della magistratura. I Verdi del Mendrisiotto notano che «chi inquina, chi deturpa la natura, chi uccide un pozzo, l’acqua e la vita non viene chiamato a pagare per le proprie colpe». Abbiamo chiesto al Ministero pubblico di spiegare cosa sia capitato, ma sia Fran-
cesca Lanz sia il Procuratore generale esprimono un secco «no comment». Lo scorso settembre il Consiglio di Stato risponde a un’interrogazione del deputato socialista Ivo Durisch, facendo il punto alla situazione. In sostanza, si afferma che: «le indagini effettuate hanno permesso di appurare che l’inquinamento proviene dalla vicina stazione di servizio situata in territorio di Balerna. Allo stesso tempo le indagini svolte fino ad oggi non hanno invece ancora permesso di stabilire formalmente l’esatta causa dell’inquinamento». Secondo il Governo, la falda può essere risanata, ma è poco probabile che il Polenta possa ritornare a fornire acqua potabile. Una recente interrogazione al Municipio di Balerna (Unità socialista e Morbio Verde) rilancia la richiesta di salvare il pozzo e pone l’interrogativo di fondo: «Per quale motivo si è ammesso e si continua ad ammettere la presenza della stazione di benzina in una zona di protezione?». Il Municipio di Morbio Inferiore ha però già deciso di rinunciare all’acqua potabile del pozzo. Si guarda avanti, si fa per dire, pensando a una nuova pianificazione della zona Serfontana-Bisio, che prevede l’aumento delle superfici verdi attorno ai centri commerciali, l’interramento di parte dei posteggi, ma anche l’aumento della superficie commerciale del Centro Breggia e la creazione di una zona verde lungo il fiume. Il Comune pensa che nella zona Serfontana ci sia «un potenziale di sviluppo» che poco si accorda con il vecchio pozzo di acqua potabile. I cittadini di Morbio avevano inscenato un funerale simbolico del pozzo Polenta il 20 giugno 2015: 150 persone hanno dato l’addio al pozzo con un corteo. La resurrezione è poco probabile, il pozzo è morto, ma come in tutte le brutte storie in cui c’è un morto ammazzato, si spera di scoprire il colpevole. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 18 luglio 2016 ¶ N. 29
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Società e Territorio
Tre tappe attraverso le Alpi ticinesi Via GeoAlpina Il progetto sostenuto da swisstopo e dall’Accademia svizzera delle Scienze naturali
svela il patrimonio geologico delle nostre montagne. A colloquio con Alessia Vandelli, capoprogetto per il Ticino
Elena Robert La geologia esercita un indubbio fascino anche perché riesce abilmente a mantenere non pochi suoi segreti. Nonostante l’uomo nel tempo si sia dato molto da fare per leggere e interpretarne la complessità, con ricerche, strumenti e teorie, è ancora lontano dal riuscire a spiegarne molti fenomeni. Nel quotidiano, anche da noi, chi lavora la pietra nelle valli e in montagna per costruire un rustico, un rifugio, un muro a secco, un tetto, per definire il tracciato di un sentiero o per mantenerlo, di solito utilizza le risorse del posto. La loro varietà e natura, diverse da luogo a luogo, possono però facilitare o rendere difficoltosa, se non impossibile, la lavorazione: dipende dalla struttura della roccia, da come questa è nata e ha partecipato all’evoluzione della storia della Terra e alla formazione delle Alpi. «È la geologia a tenderci la mano, offrendoci spiegazioni e chiavi di lettura. Una materia tutt’altro che noiosa e impenetrabile o riservata solo agli esperti», dice Peter Hayoz, direttore del Centro di informazioni geologiche del Servizio geologico nazionale: «Da diversi anni l’Ufficio federale di topografia swisstopo la sta rendendo più accessibile al grande pubblico partecipando a progetti tesi a far conoscere il patrimonio geologico dell’arco alpino, facendogli scoprire alcuni tra i suoi più interessanti e sorprendenti monumenti naturali e culturali».
55 chilometri con importanti dislivelli: la Via GeoAlpina ticinese offre uno spaccato di storia delle Alpi La Via GeoAlpina è un progetto europeo del 2007, anno internazionale del Pianeta Terra, lanciato da Nazioni Unite, Unione internazionale delle Scienze geologiche e Unesco. Propone itinerari di montagna da Trieste a Monaco, che ricalcano parti della più conosciuta Via Alpina e rivelano evidenze di geologia, geomorfologia, idrologia, pericoli naturali e sfruttamento della pietra. La Svizzera ne è parte, insieme a altri cinque Paesi (Germania, Austria, Francia, Italia, Slovenia), sostenuta da swisstopo e dall’Accademia svizzera delle Scienze naturali. In definitiva si cammina su sentieri escursionistici le cui peculiarità sono documentate sul sito di
La geologa Alessia Vandelli mostra, su un masso lungo la strada tra Prato e i Monti di Rima, l’interpenetrazione di due diversi liquidi magmatici, indice di un contatto avvenuto «a caldo» circa 300 milioni di anni fa. (Elena Robert)
swisstopo da materiale didattico scaricabile in anticipo, in cui sono indicati punti di interesse e curiosità non solo geologici. Dal 1. luglio anche le Alpi Ticinesi sono a tutti gli effetti integrate negli itinerari svizzeri della Via GeoAlpina che contempla nel Paese altri tre significativi tracciati: Dents Blanches‒Les Diablerets (Vallese e Vaud), Meiringen‒Adelboden (Oberland bernese) e l’Arena tettonica Sardona (San Gallo e Glarona). Quello in Ticino unisce la Leventina alla Bavona, attraverso la Verzasca e la Lavizzara. Tre tappe su complessivi 55 chilometri di sviluppo, con importanti dislivelli, adatte a chi è allenato: Personico‒Frasco dal Passo Gagnone (pernottamento consigliabile alla Capanna Efra), Sonogno‒PratoSornico dal Passo Redorta (Capanna Tomeo) e Prato-Sornico‒Fontana dalla Bocchetta Fiorasca (Rifugio Fiorasca). Attraversano regioni del Bellinzonese e Locarnese dalla geologia complessa, valli selvagge, offrendo panorami mozzafiato e uno spaccato della storia delle Alpi nonché sorprendenti, interessanti testimonianze dello sfruttamento delle risorse e dell’adattamento dell’uomo alle asperità del territorio. Anche per il Ticino è stata realizzata una piccola carta geologica semplificata, disponibile negli uffici turistici, nei rifugi, nei musei dei territori attraversati. La capoprogetto per il Ticino Alessia Vandelli ha curato il materiale divugaltivo sul sito, frutto di sue ricogni-
zioni, verifiche, ricerche bibliografiche, a loro volta riferite a studi centenari. Diplomatasi in geologia a Losanna, ha lavorato per swisstopo prima di stabilirsi nella Svizzera italiana dove ha aperto con il collega Benoit Fragnol lo Studio Geosfera a Breganzona, dirigendo poi dal 2012 al 2015 il Museo dei fossili a Meride. «Le Alpi Ticinesi a nord del Ceneri ‒ racconta ‒ sono il cuore delle Alpi Lepontine centrali. La loro lettura è complessa, in quanto durante la formazione delle Alpi hanno subito il sovrapporsi di molteplici lembi di crosta terrestre (continentale o oceanica) ricoperta di sedimenti. Sono le falde più profonde dell’edificio alpino, sottoposte nell’orogenesi alpina a importanti sconvolgimenti dovuti a pressione e temperatura. Sul percorso della Via GeoAlpina in Ticino si incontrano così la Falda della Leventina, del Simano, di Antigorio appartenute all’antico continente europeo, quella della Maggia, parte del microcontinente Brianzonese che si era intromesso insieme a due oceani tra Europa e Africa nel Cretacico (tra 145 e 66 milioni di anni fa) e la Falda di Cima Lunga, una zona di mélange tra le due. In definitiva, 35 milioni di anni fa, non ci fu un “semplice” scontro tra due continenti, in mezzo c’era molto di più, centinaia di chilometri di rocce. Sul percorso in Ticino manca una grossa parte della storia delle Alpi, essendo il Triassico (252‒201 Mio) e il Giurassico (201‒145 Mio) testimoniati solo da tracce di sedimenti non facilmente in-
dividuabili o osservabili in lontananza nei panorami. E non si osservano neanche rocce di ere successive fino a 2 milioni di anni fa. Si attraversano invece – spiega la geologa – basamenti cristallini (principalmente gneiss) delle falde più profonde e tra le più antiche delle Alpi, risalenti a oltre 300 milioni di anni fa quando le terre emerse erano ancora riunite nel supercontinente Pangea, tornate poi in superficie con l’orogenesi alpina, nonché rocce recenti da 2 milioni di anni fa a oggi». La prima tappa da Personico a Frasco ci porta sul Passo Gagnone, a camminare sulla Falda di Cima Lunga, sulle vestigia di un antico oceano, dove sono visibili affioramenti di pietra ollare, roccia ultrabasica ricca di ferro e di magnesio, rara in un contesto di gneiss e graniti acidi, perché formatasi nel mantello terrestre, nel magma primario, a circa 50 chilometri di profondità sotto i continenti e a 5 chilometri sotto gli oceani: trasportata in superficie durante la formazione di una catena montuosa è stata sottoposta a un metamorfismo idrotermale che ha cambiato la sua composizione mineralogica, deformandola in lenti più o meno estese. Facilmente lavorabile è stata sfruttata dall’uomo per le notevoli qualità termiche. In prossimità del passo un masso ospita numerose incisioni lasciate dall’uomo nel tempo. Tra Sonogno e Prato-Sornico le osservazioni ci riconducono invece soprattutto ai modellamenti glaciali nel paesaggio, visibili fin nella parte alta
della Val Redorta. Circa 24mila anni fa, durante l’ultimo massimo dell’epoca glaciale, all’altezza di Sonogno la superficie del ghiacciaio si situava a quasi 2000 metri di altitudine: una risultanza delle centinaia e centinaia di dati osservati sul terreno e confluiti nella speciale carta 1:500000 pubblicata nel 2010, elaborata da undici esperti del Quaternario alpino. Sul tratto Prato-Sornico‒Fontana collegato dalla Bocchetta Fiorasca, due punti panoramici, dall’Alpe di Brünesc (Corte Grande) sulla Val Lavizzara e dalla spalla della Valle di Larèchia verso la Valle Bavona, offrono un’interessante vista d’insieme sulle Alpi Lepontine. Verso est lo sguardo corre al Pizzo Rüscada sul limite di rocce triassiche tra due diversi gneiss compatti e simili, oltre che alla frana di Peccia che oggi non preoccupa più e in lontananza a nord agli affioramenti dolomitici del Passo Campolungo. La Bocchetta Fiorasca, angusta e ripidissima con una successione di scalini sul versante della Lavizzara e scalinate per raggiungerla anche sul versante della Bavona, racconta le fatiche dell’uomo e delle bestie per sopravvivere all’asprezza del territorio di questa valle: chi era costretto ad accontentarsi di piccoli alpi discosti, poveri e sassosi come quello di Fiorasca (2086 m, caricato fino al 1965 da Olimpio Dalessi), doveva ingegnarsi. Le cascine di Fiorasca sono diventate un affascinante rifugio nel 2009. Ci racconta Armando Donati di Broglio, che dal 1952 al 1971 seguì tutte le estati suo padre a Corte Grande (1618 m), un alpe che non ha conosciuto l’abbandono: «Capitava che l’alpigiano di Fiorasca spingesse le vacche da latte ancora in calore durante la stagione calda, attraverso la bocchetta (2289 m) per farle accoppiare col toro a Corte Grande. L’arrivo era preannunciato solo dal suono delle campane dei bovini che si avvertivano in lontananza. Per l’accoppiamento era previsto un compenso in denaro. Un’ora di pausa e le vacche ripartivano per la Bocchetta Fiorasca. A metà anni Cinquanta, le vacche erano più robuste e l’alpigiano ricorse alle mine per allargare la strettoia della bocchetta da 57 a 70 centimetri». La condizione della transumanza delle vacche in calore attraverso luoghi impossibili accomunò altri alpi della Valle Bavona. Informazioni
https:///www.swisstopo.ch/viageoalpina. www.via-alpina.org www.geologieportal.ch
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Tor Seidler, Il principe dei lupi, Piemme Il Battello A Vapore. Da 12 anni I protagonisti di questo romanzo sono animali non umani: un branco di lupi e una gazza; ed è dalla prospettiva, lucida e arguta, del pennuto che è narrata la storia. Una storia che non ha nulla di tenero, e men che meno di zuccheroso. Le cose che accadono sono terribili, semplici e belle; a volte crudeli come la natura, o ineluttabili come la vita. Tor Seidler non scrive romanzi all’acqua di rose, anche se parlano di gattini e violini (come il bellissimo Il gatto che amava la musica) o, come in questo caso, di giovani lupi anticonformisti. Nei suoi romanzi si muore, anche. Ma soprattutto si onora la vita. La forza vitale, la sofferenza dei congedi definitivi e la capacità di accettarli, la lealtà, il sapersi rialzare dopo un errore o una sconfitta, le seconde possibilità da saper cogliere per riparare
le ferite subite o inferte. Anche se il risvolto di copertina indica nel giovane lupo Lamar che fa amicizia con una coyote il tema centrale del libro, nel Principe dei lupi si parla di questi temi esistenziali e di molto di più. E ci sono spazi aperti, avventura, legami profondi. L’io narrante è, come dicevamo, quello della gazza Gaia, la quale si unisce a un branco di lupi, inizialmente in un rapporto di mutuo soccorso: lei può avvistare dall’alto prede e pericoli, loro le lasciano i succulenti avanzi dei loro pasti. I lupi hanno caratteristiche e personalità varie, umanizzate
certo, ma molto fedeli al comportamento reale di un branco, proprio come nell’altro intenso romanzo sui lupi uscito per coincidenza quest’anno (La luna è dei lupi, di Giuseppe Festa, Salani). Capobranco è Blue Boy, un lupo dall’animo nobile e coraggioso, guida inflessibile dei suoi tra le selvagge foreste del Nord America. Lamar è il suo primogenito (Firstborn, si intitola infatti il romanzo in originale), maestoso e forte come lui, ma anche curioso e teso a porsi e a porre tante domande sul mondo e sulla vita. Gaia gli si affeziona, tuttavia non vuole mancare di lealtà nei confronti di Blue Boy. Intorno a loro si muovono vari altri personaggi, soprattutto animali, tra rivalità, paure e istinto di sopravvivenza. Nel quale però emerge, a mitigarne la durezza, un sentimento che – senza paura di essere retorici – possiamo tranquillamente chiamare amore.
Sergio Ruzzier, Due topi, Topipittori. Da 3 anni Dopo Una lettera per Leo, di cui abbiamo parlato a gennaio in questa rubrica, ecco un altro albo in cui si manifesta la mirabile sobrietà verbale di Ruzzier (artista italiano trasferito da più di vent’anni a New York), perfettamente complementare all’espressività affabulatoria delle immagini. Uno, due, tre. Un ritmo ternario per raccontare questa piccola storia: semplice, certo, ma anche avventurosa. Una casa, due topi, tre biscotti. Tre barche, due remi, un rematore. Se poteste vedere
le immagini, avreste tutto il «non detto» della narrazione, perché, appunto, nulla è ridondante e sono anche le immagini a raccontare: due topi vivono nella stessa casa, uno dei due, quello col pelo maculato, mangia due biscotti lasciandone uno solo all’altro; ma poi sarà quest’altro a starsene in panciolle in barca mentre l’amico rema. Questi sono solo dettagli introduttivi, le peripezie stanno per iniziare: ...tre scogli, due falle, un naufragio... C’è un’isola su cui approdare, ma le insidie non sono terminate, ci saranno altri pericoli da sconfiggere prima del rassicurante lieto fine. Un’avventura da seguire col dito sulle pagine, per cogliere i particolari, per seguire col fiato sospeso i topini, per imparare a contare. Non ci sono verbi, solo sostantivi; ma paradossalmente l’azione abbonda. È come se la funzione verbale fosse affidata ai disegni. E alla voce di un adulto cantastorie, che condivide la lettura con il suo bambino.
PUNTI. RISPARMIO. EMOZIONI.
TITANIC – IL MUSICAL
CIRCO NOCK
Nell’estate del 2015, il musical open air Titanic ha entusiasmato oltre 42 000 spettatori sulle rive del Walensee. Ora questo spettacolo di enorme successo parte alla conquista del pubblico ticinese. Sali a bordo e vivi la toccante storia d’amore di Kate McGowan e Jim Farrell, che scardina le barriere imposte da una società classista. Quando: dal 13 al 27 agosto 2016 Dove: Melide Prezzo: da fr. 46.50 a fr. 105.75 (invece che da fr. 62.– a fr. 141.–), a seconda della categoria Informazioni e prenotazione: www.cumulus-ticketshop.ch
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Quest’anno il circo Nock attraversa la Svizzera con il travolgente programma «Rytmo y pasión». Con numeri raffinati di dressage, uno show mozzafiato al trampolino, una spettacolare troupe di funamboli e altri artisti eccezionali, la famiglia circense condurrà il pubblico nel magico mondo del circo. Quando: fino a inizio novembre 2016 Dove: diverse località Prezzo: da fr. 9.60 a fr. 48.– (invece che da fr. 12.– a fr. 60.–), a seconda della categoria Informazioni e prenotazione: www.cumulus-ticketshop.ch
Le Settimane Musicali di Ascona, la più antica rassegna di musica classica del Ticino, celebrano la 71esima edizione. Tredici in totale i concerti proposti dal 5.9 al 14.10.2016 nelle due suggestive sedi del festival: la chiesa del Collegio Papio di Ascona per i concerti da camera e la chiesa di San Francesco a Locarno per gli appuntamenti sinfonici.
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi L’ebreo errante È una leggenda che si ritrova in molte varianti nella cultura popolare di tutta Europa: un ebreo che si sarebbe rifiutato di dare aiuto a Gesù sulla via del Calvario sarebbe stato maledetto a girovagare sulla terra fino al Giudizio Universale senza aver – nemmeno – il privilegio di morire e trovare finalmente, in qualche modo, requie. Chi vuole fosse un servo del Sinedrio, chi una guardia di Ponzio Pilato, chi ancora un mercante o un ciabattino: sta di fatto che non bastarono gli strali di Tertulliano già nel III secolo, che dichiarava l’ipotesi di un Ebreo Errante come addirittura eretica per stoppare sul nascere la diffusione della leggenda. Tanto che, nel XIII secolo – e dunque in pieno medioevo – il vescovo bulgaro Teolfilatto sottoscriveva la realtà della leggenda: nel 1267 l’astrologo Guido Bonatti testimoniava del passaggio dell’Ebreo Errante per la città di Forlì. Potete immaginarvi: se passava per Forlì, passava veramente dappertutto. In inglese esiste un’espressione che coglie in pieno la logica simbolica e cognitiva di
simili mitologemi. «A self-fulfilling prophecy» è un’ affermazione che si vorrebbe profetica e che invece crea essa stessa le basi per il proprio inveramento. E certo ne sapevano qualcosa proprio i sudditi inglesi quando, il 18 luglio del 1290, Re Edoardo I firmò il primo decreto d’espulsione degli ebrei dal Regno in tutta Europa. L’Atto di Espulsione riguardava circa 2000 persone e culminava 200 anni di persecuzioni più o meno aperte: un secolo prima più di un centinaio di ebrei erano stati massacrati nelle città di York, mentre già dal 1218 – ancora un altro first in tutta Europa – gli ebrei d’Inghilterra dovevano indossare in pubblico un distintivo di riconoscimento. I primi contingenti ebraici di una certa consistenza erano arrivati Oltremanica nel 1066 con Guglielmo il Conquistatore. Il loro stato giuridico era tuttavia specifico: non erano, come tutti, sottomessi ai signori feudali locali, ma sudditi diretti del Re. La ragione è presto detta: non potendo per legge possedere la terra, gli ebrei praticavano la mercatura sfruttan-
Erano gli anni nei quali, in tutta Europa, alla leggenda dell’ebreo errante cominciò ad associarsi il pregiudizio anti-ebraico che vedeva negli ebrei i nemici giurati di Cristo, dediti a pratiche rituali abominevoli. Sono quelli, in particolare, gli anni nei quali si diffonde in tutta Europa la credenza secondo la quale all’avvicinarsi della Pasqua ebraica, gli ebrei rapivano fanciulli cristiani per poi ritualmente sacrificarli e confezionare – col sangue – i pani azzimi della festa. La situazione diventava insostenibile per tutte le parti in causa. La Corona fu finalmente costretta ad emettere un decreto che proibiva il prestito di denaro ad interesse. Furbescamente, però, si concedevano agli ebrei quindici anni di tempo per «adeguarsi». Fortemente indebitato a causa della partecipazione alla Nona Crociata prima ed alle guerre contro gli Scozzesi ribelli dopo, nel 1289 Edoardo I si trovò in pessime acque finanziarie. La trovata migliore? Come primo atto, nel 1287 la Corona ordinò l’espulsione di tutti gli ebrei dal Ducato di Guascogna:
i debiti maturati sarebbero d’ora in poi stati pagabili alla Corona. Due anni più tardi, il Re si trovò di nuovo a tasche vuote. Che fare? Convocati i baroni li mise di fronte all’aut-aut: se si fossero sottomessi ad una nuova pesante tassa la Corona avrebbe emesso un decreto di espulsione degli ebrei: deal? La proposta passò seppure a malincuore. Tre giorni dopo gli ebrei erano out – per non tornare se non con un decreto di Oliver Cromwell nel 1655 – un Oliver Cromwell (sì, avete indovinato) anche lui indebitato fino al collo. Si racconta – ma forse è solo una leggenda – che ai tempi un capitano inglese si fosse offerto di trasportare una nave carica di ebrei espulsi in Francia per una cifra non da poco. Rimasto in secca per una bassa marea eccezionale del Tamigi, persuase i passeggeri a scendere dalla nave per sgranchirsi le gambe: lui stesso li avrebbe guidati. Al momento opportuno il nostro si affrettò a risalire sulla nave lasciando i croceristi in balia della marea montante. Si racconta – ma forse è solo una leggenda.
comunità monastica femminile: «Madre superiora». Superiore alle consorelle ma sottoposta però, nella gerarchia ecclesiastica, a figure maschili come il confessore e il vescovo. Nella società patriarcale, la madre di famiglia godeva di autorevolezza ma non di autorità, in quanto il potere spettava esclusivamente agli uomini. Inoltre fuori dall’ambito del privato non le erano concessi diritti, tanto che l’ammissione al suffragio universale è stata una difficile e recente conquista. Un tempo, una donna con figli veniva spesso chiamata dai familiari «mamma», anche in Lombardia, perché era soltanto tale mentre il padre non è stato mai appellato dalla moglie come «papà» perché svolgeva molti altri ruoli: era un lavoratore, un cittadino, un elettore. Dagli anni ’60 in poi molte cose sono cambiate: è avvenuto un lento ma definitivo declino del patriarcato, sostituito da una sostanziale parità di diritti e doveri tra i coniugi. Le appartenenti alle ultime generazioni sono ora, non completamente ma in gran parte,
equiparate agli appartenenti al sesso opposto. Il processo di emancipazione, tuttora in corso, ha tuttavia provocato molte contraddizioni, in gran parte concentrate sul problema del tempo: la miseria più democratica! Ne hanno infatti troppo poco sia le povere che le ricche, le giovani come le anziane, le mamme di bambini piccoli in particolare. Le cure domestiche e l’accudimento dei figli piccoli sono ora condivisi dalla coppia ma in modo ineguale. Lui può sottrarsi agli impegni domestici quando il lavoro lo richiede, lei molto meno. Proprio per questo, il sito internet del «Corriere della Sera» dedicato alle donne è stato denominato «27a Ora»: tre ore in più di quante ne segnino le lancette dell’orologio. Ma la situazione è in movimento, come rivelano i vostri interventi. Avete capito infatti quanto siano importanti le parole. Non sono mai semplici etichette ma rivelano una complessa visione del mondo. Madre (che deriva dal latino «materia», intesa in senso originario) rinvia infatti a «Matrimonio», rapporto
finalizzato a rendere madre una donna; Padre, invece, rimanda a «Patrimonio», impegno maschile a mantenere la famiglia. Il fatto che questi termini vengano ultimamente utilizzati per relazioni diverse da quelle tradizionali, ci dice che stiamo assistendo a trasformazioni profonde dei rapporti umani e che le identità più convalidate, messe repentinamente in crisi, richiedono una ridefinizione dei legami familiari tutt’altro che facile da contrattare. Nell’epoca delle «identità multiple», in cui ognuno occupa posizioni differenti sulla scacchiera del mondo, l’invito, inciso sulla facciata del tempio di Delphi dedicato ad Apollo, poi ripreso da Socrate: «conosci te stesso» non è mai stato tanto attuale.
lità, da persone qualificate, in grado di valutare oggettivamente attitudini e prospettive reali e indirizzare verso corsi di formazione e riqualificazione. Con criteri e mezzi nuovi, il servizio operava in un ambito spesso trascurato e frainteso qual è la parità nel lavoro e nelle carriere. E seppe dimostrare efficienza, concretezza e utilità. Ottenendo il riconoscimento da parte dell’Ufficio federale per l’uguaglianza donna-uomo (UFU), e quindi usufruendo di un sostegno finanziario. Indispensabile per coprire i costi di un’attività che, in parte, faceva capo a volontari e, in parte, a specialisti, fornendo prestazioni a tariffe favorevoli: agli inizi, un’ora di colloquio per 20 franchi. Comprensibile, quindi, lo sconcerto, provocato dalla notizia, arrivata recentemente da Berna: l’UFU decurterà i sussidi, destinati al Consultorio di Dialogare. Provve-
dimento determinato, ovviamente, da questioni di forza maggiore. Ciò che apre una stagione d’incertezza per un settore d’attività, che sta particolarmente a cuore alle responsabili di Dialogare, sul filo di una continuità d’intenti, condivisi dalla fondatrice Osvalda Varini e dall’attuale presidente Carmen Vaucher de la Croix. Lo Sportello Donna, grazie al contatto diretto con il mondo del lavoro, vissuto dalla parte delle donne, ha registrato come un sismografo le scosse di un terremoto sociale, tecnologico e morale dagli effetti sconvolgenti. «Le donne ne sono state le testimoni più dirette – racconta Daniela Peduzzi, responsabile del consultorio, sin dalla fondazione. – Oggi, le mentalità sono radicalmente cambiate. Il lavoro professionale è considerato un diritto per così dire scontato, e a ogni età: dai 30 ai 50 e oltre. Ma dietro
do la vasta rete mercantile della Diaspora. Prestavano pertanto denaro ad interesse tanto ai correligionari quanto ai Gentili – attività strettamente interdetta ai cristiani almeno fino alla fondazione delle Banche come enti legali «caritatevoli» grossomodo due secoli più tardi. Il filo diretto legalmente sancito con le risorse finanziarie degli ebrei rendeva possibile al Re di appropriarsi del surplus imponendo pesanti tasse ai banchieri ebrei senza aver bisogno di convocare il Parlamento. Ignorati in tutte le garanzie e i diritti della Magna Charta (1215), gli ebrei d’Inghilterra si trovarono presto fatti oggetto di una crescente impopolarità: i tassi d’interesse si alzavano mano a mano che gli stessi si trovavano esposti a tassazioni sempre più insopportabili: fra il 1219 ed il 1272 almeno 49 decreti di tassazione eccezionale colpirono la comunità ebraica, favorendo così l’escalation dei tassi d’interesse e – soprattutto – il crescere dell’odio diffuso in tutti gli strati popolari contro chi veniva ormai additato come la fonte di tutti i mali.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Moglie e mamma Gentile signora Vegetti Finzi, sono sposato da 55 anni (prossimo novembre) ma mai mi sono sognato di chiamare mia moglie mamma. Credo, che oltre all’amore bisogna avere anche del rispetto. Chiamando la moglie mamma non si rispetta né lei ne la propria madre. Io avrei consigliato Emma di chiamare il marito papà. Cordiali saluti. / Bruno Gentile signora Vegetti-Finzi, ho letto con interesse la sua risposta alla lamentela della lettrice, stufa di esser chiamata mamma dal marito. Mi permetto un’osservazione: Bisognerebbe sapere se il marito «incriminato» è ticinese originario, perché notoriamente nel Ticino storico, in ispecie nelle nostre valli e montagne, era in uso da tempi immemori che il marito chiamasse sempre «Mamm» la propria consorte, subito dopo la nascita del primo figlio. Non era segno di debolezza o di rassicurazione immatura, magari risucchiando il pollice, ma anzi un segno di stima e valorizzazione della donna, perché la moglie era assurta a «madre» nel senso più alto e nobile del termine. Diverso invece il discorso, laddove il
suddetto marito non abbia nessun legame con la «ticinesità» d’un tempo, e allora le sue osservazioni alla lettera di lamentele ci stanno tutte. Ma nella prima ipotesi storicizzata e contestualizzata, no, per nulla. Con i più cordiali saluti. / Marco Gentili Bruno e Marco, grazie per essere intervenuti nella Stanza del dialogo con contributi così interessanti. Il confronto tra le vostre lettere esprime, meglio di molte analisi astratte, le variazioni intervenute nell’ambito della famiglia, soprattutto per quanto riguarda il ruolo delle donne. Storicamente, nell’ambito della famiglia estesa, e non solo in Ticino, il posto spettante alla donna sposata con figli era quello della madre, corrispondente a un ruolo importante e culturalmente venerato ma, di fatto, subordinato all’autorità paterna. Al limite, la moglie che avesse commesso qualche trasgressione, poteva essere castigata dal marito anche con punizioni corporali. Comunque il valore della parola «madre» è confermato dalla carica attribuita alla suora posta a capo della
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Donna-lavoro: fa sempre notizia Non solo le apparenze, ma anche le statistiche possono ingannare. Guardandosi attorno e cifre ufficiali alla mano, ci sarebbe ragionevolmente da credere che il vecchio problema dell’incompatibilità fra professione e famiglia sia ormai superato. Ecco, invece, che ricompare nelle nostre cronache, in controtendenza rispetto alle notizie da prima pagina, dove le donne in carriera sembrano sulla cresta dell’onda, da Hillary Clinton a Virginia Raggi a Theresa May. Al di là di queste affermazioni femminili di risonanza internazionale, e tornando alla quotidianità locale, merita di far notizia l’allarme lanciato, in Ticino, dall’Associazione Dialogare: è in pericolo l’avvenire del Consultorio Sportello Donna, attivo da un ventennio. Era stato creato, nel 1977, da Osvalda Varini. Attenta alle trasformazioni, intervenute anche nel
nostro tessuto sociale, ne aveva captato le conseguenze, proprio per le donne nell’ambito professionale. In particolare, la generazione delle quarantenni, e over, stava vivendo, sulla propria pelle, un disagio tipico del momento. Il desiderio di tornare a lavorare, dopo la lunga pausa forzata, imposta dalla maternità e dagli impegni familiari, si scontrava con la necessità di aggiornare ai nuovi standard conoscenze e competenze: per rimettersi in gioco. Furono, principalmente loro, alle prese con un’incompatibilità, che allora sembrava insormontabile, ad approfittare dello Sportello-Dialogare, che metteva a disposizione un luogo dove incontrarsi, una persona con cui parlare o una voce da ascoltare al microfono: e in vista di un obiettivo. Insomma, non una semplice chiacchierata, bensì un colloquio, condotto con professiona-
l’aspirazione, per così dire naturale, di svolgere un’attività professionale c’è una motivazione d’ordine finanziario: impellente. Si vuole ma soprattutto si deve lavorare. E non sempre si può». Qui, infatti, le statistiche ufficiali peccano di ottimismo: «La crisi pesa di più sulla manodopera femminile. Anche in un paese evoluto e benestante, permangono lacune inspiegabili. Il lavoro a tempo parziale stenta a diffondersi. I servizi a sostegno delle famiglie, come gli asili nido, rappresentano ancora un lusso». Sulla scorta della sua esperienza, lo Sportello Donna conferma che la condizione femminile, malgrado le apparenze, rimane fragile. Esposta, non da ultimo, agli umori e malumori dell’economia. Se gli affari tirano, gli imprenditori spalancano le porta alle donne. Se, la congiuntura rallenta, è meglio che stiano a casa.
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Ambiente e Benessere Nelle acque delle Azzorre Reportage su Sao Miguel e sui bagni nelle acque sulfuree delle piscine naturali disseminate nell’arcipelago pagina 10
Veicoli ecologici Diverse le case automobilistiche impegnate per ottenere i massimi progressi nella diminuzione dell’impatto ambientale
Mangiare in Russia Una tradizione ritrovata riporta sulle tavole dell’ex Urss piatti molto saporiti e ricchi
Testuggini di casa Tartarughe terrestri e acquatiche, autoctone ma anche invasive pagina 14
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La nostra coscienza è come un’opera di Escher Neuroscienza Con un cervello modulare,
abbiamo evoluto un’utile illusione
Lorenzo De Carli Tra quanti si occupano di filosofia della mente, è condivisa l’idea che la mente sia un’entità distribuita, composta per così dire di «moduli». È vero che è difficile trovare due studiosi che diano lo stesso nome al medesimo «modulo» e che, anzi, c’è persino controversia sulla legittimità dell’esistenza di unità ben circoscrivibili, definibili in quanto «moduli» – ciò nondimeno il modello è largamente condiviso, tanto più che a legittimarlo concorrono varie discipline. Le neuroscienze, per esempio, stanno mappando con crescente precisione le aree del cervello, indentificandone non solo le specifiche funzioni locali ma anche le interazioni. Il paradigma evoluzionista è coerente con un modello di mente «plurale» perché è un’ipotesi legittimamente darwiniana a supporre che la mente umana sia non solo una versione più complessa di menti che hanno conosciuto diverse traiettorie evolutive, ma anche espressione di una «rifunzionalizzazione» di moduli che erano stati selezionati per altri scopi, ma che si sono rilevati essere utili pre-adattamenti. L’idea che la mente sia fatta di «moduli» è poi anche coerente con una concezione computazionale del nostro cervello, immaginato da alcuni neuroscienziati come un insieme di processori che lavorano in parallelo – fornendo in tal modo un quadro di riferimento condiviso anche da chi, con hardware e software, sta provando a mimare il funzionamento del cervello. Se, dunque, una visione della mente come un insieme di moduli sembra essere stata accettata dalla comunità scientifica come un’ipotesi di partenza accettabile, restano di solito escluse due questioni che per tutti noi sembrano importanti ma che molti scienziati o mettono tra parentesi, oppure vi si avvicinano lasciando da parte le cautele
scientifiche, magari abbracciando la fede: perché abbiamo la coscienza? E perché, nonostante la pluralità dei moduli mentali, noi ci sentiamo soggetti unitari? Se è vero che la nostra mente è fatta di moduli, cooptati nel corso dell’evoluzione da un’entità che chiamiamo «Io», da dove prende questa entità – la mattina, quando ci svegliamo – la forza di arruolare tutte quelle sub-unità, metterle in ordine, preparandoci ad affrontare la giornata con piena convinzione di essere soggetti unitari, responsabili delle proprie azioni, e capaci di autodeterminarsi? Dopo tutto, solo qualche minuto prima, quando ancora stavamo dormendo, la situazione era ben diversa: in balia degli eventi, non solo non eravamo dei soggetti unitari, ma avremmo anche potuto far esperienza di essere contemporaneamente in tempi e luoghi diversi – proprio come descritto da Marcel Proust nelle prime pagine della Recherche. La riappropriazione di sé al risveglio sembra un processo come quello che gli informatici chiamano «bootstrapping»: «tirarsi su da soli». Nicholas Humphrey, professore emerito alla London School of Economics, psicologo e filosofo, ha affrontato questo argomento nel suo ultimo saggio, intitolato Polvere d’anima. La magia della coscienza. Humphrey è autore di numerosi libri sull’evoluzione dell’intelligenza e della coscienza umana. È uno scienziato, il primatologo che per primo ha dimostrato l’esistenza della «vista cieca» anche nelle scimmie, dopo un danno del cervello. Sicché, non sorprende se fin dall’inizio del suo saggio egli sostiene che la coscienza «è un prodotto altamente improbabile d’ingegneria biologica»: «il mio punto di partenza è che la coscienza, per quanto elusiva ed enigmatica in una prospettiva scientifica, è un fatto di natura». Insomma, abbiamo una coscienza perché abbiamo dei neuroni che fun-
L’opera di M.C. Escher Drawing Hands è citata da Nicholas Humphrey per la capacità di mostrare l’illusione del punto di vista e l’autoreferenzialità del soggetto. (Mulling it Over)
zionano in un certo modo; anzi: meglio detto: in un modo che si è ottimizzato durante l’evoluzione. Ciò che ci porta, logicamente, ad arguire che c’è stato un tempo in cui avevamo una coscienza meno spiccatamente presente. Per Humphrey la coscienza è, nello stesso tempo, il sentimento di esserci e la percezione di essere nelle condizioni di poter agire nel mondo. Secondo Humphrey siamo arrivati ad avere la coscienza attraverso tre tappe: dapprima, gli organismi più semplici, reagivano con risposte locali agli stimoli dell’ambiente (è il livello del semplice «stimolo»); in seguito essi, invece di reagire senza mediazione, hanno evoluto la capacità di «sentire» gli stimoli (è il livello della «sensazione»); successivamente gli organismi più complessi hanno sviluppato la «sentizione», ovverossia la capacità autoriflessiva della mente di essere cosciente delle sensazioni. Secondo Humphrey, la coscienza – vantaggio evolutivo sicuramente
frutto di adattamento – si è andata via via consolidando attraverso la selezione di quei processi computazionali dei neuroni capaci di consolidare in noi la sensazione di avere un’unità nel tempo e nello spazio. Mentre, cioè, le sensazioni scorrono senza soluzione di continuità perché i nostri organi di senso interagiscono con il mondo in continua trasformazione, la nostra coscienza ha sviluppato la proprietà di persistere unitaria nel tempo grazie alla capacità di usare unità temporali più ampie del semplice stimolo. Tutto ciò, però, è un’illusione – Humphrey stesso la chiama «magia». Se apriamo il cervello, non troviamo la coscienza; né la troveremmo se dipanassimo la miriade di connessioni neurali che si trasmettono segnali in ogni momento. Quando descrive la coscienza, per mettere in risalto l’aspetto soggettivo di questa illusione, Humphrey fa spesso riferimento all’opera grafica di M. C. Escher o del meno noto
Oscar Reutersvärd: la coscienza è l’illusione che nasce, osservando i fenomeni della mente da uno specifico punto di vista: quello del sé. Un po’ come le anamorfosi in pittura, che vediamo solo da un preciso punto di vista. Secondo Humphrey, la coscienza è uno stato del cervello; ma se qualcuno dovesse esaminarlo, non la troverebbe perché la coscienza è un nostro peculiare punto di vista su quello che ci accade, un’illusione a nostro beneficio. A che cosa serve la coscienza? Serve per farci apprezzare la vita, in una maniera tale da incoraggiarci a viverla. «L’esperienza dell’essere cosciente accresce l’esistenza delle persone» scrive Humphrey; il quale – scienziato – riconosce che anche la speranza di una vita ultraterrena, a causa del senso ultimo che suggerisce, è una forma di coerente adattamento. E ora l’illusione della coscienza è tanto forte, che, ormai, siamo una specie adattata a «vivere nel paese dell’anima».
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Ambiente e Benessere
Le calde acque delle Azzorre Reportage Le piscine naturali di Sao Miguel permettono di apprezzare gli effetti del vulcanesimo secondario,
le fumarole e le sorgenti termali che emergono dalle fratture delle rocce magmatiche
La vista sulla costa da uno dei punti di osservazione nella parte nord di Sao Miguel.
Stefania Prandi, testo e foto Le alte felci, le orchidee gialle, lo scroscio dell’acqua, il vapore brumoso che sa di zolfo e ferro, il silenzio tutto attorno. Una valle segreta, fitta di vegetazione, si spalanca a pochi metri dal cancello d’entrata di Caldeira Velha, riserva naturale dell’isola di Sao Miguel, nell’arcipelago delle Azzorre. Il sentiero in terra battuta porta a un’ampia vasca naturale, riempita da una piccola cascata che spunta tra le rocce. L’acqua è calda, tra i 27 e i 30 gradi. Dopo che ci si è immersi, abbracciati dalla natura luminosa, si capisce perché questa piscina è stata inserita, da una recente classifica online, tra le più belle del mondo, insieme a quelle di Semuc Champey del Guatemala, alle Cascate di Ouzoud in Marocco e del lago Vittoria in Zambia.
Di solito alle isole blu si fa trekking, si avvistano balene o si fa il bagno al fianco dei delfini Poco lontano, a fianco di una sorgente bollente dove è vietato bagnarsi, c’è un’altra vasca, più piccola, con la temperatura che arriva fino a 38 gradi. Entrambe sono ancora poco frequentate dai turisti che ogni anno visitano Sao Miguel, la più grande e attrezzata tra le nove isole blu, nel mezzo dell’Atlantico. Un arcipelago che si è creato in seguito all’eruzione dei vulcani, 1766 in tutto, nove ancora attivi. «Queste vasche sono una tappa degli itinerari meno battuti. In genere, si visitano le Azzorre per il trekking, l’avvistamento delle balene e il bagno con i delfini. Trascorrere qualche ora qui, tra bagni e passeggiate nel parco, permette di apprezzare un altro aspetto dell’isola, gli effetti del vulcanesimo secondario, le fumarole e le sorgenti termali che emergono dalle fratture delle roc-
ce magmatiche». Così racconta Tiago Menezes, biologo del Centro di conservazione ambientale Caldeira Velha, ammodernato due anni fa. «Le acque contengono sodio bicarbonato, hanno un ph leggermente acido e un’alta concentrazione di metalli come il ferro. Ma gli effetti del vulcanismo si manifestano anche nella vegetazione lussureggiante con le felci imponenti, le specie esotiche e gli alberi di acacia». Da non perdere, vicino a Caldeira Velha, l’occasione di ammirare le acque trasparenti del lago del vulcano Fogo, anche se per farlo occorre un po’ di fortuna, perché possono passare interi giorni prima che la fitta nebbia che cala fin dalle prime luci dell’alba se ne vada e lasci spazio al cielo terso. Questo lago, di origine vulcanica, con la sua sabbia bianca e l’assoluta pulizia (nemmeno una carta in giro), sembra un luogo ancora incontaminato. Anche in caso di foschia, comunque, non bisogna disperare. C’è, infatti, un’altra piscina termale che lascia senza fiato per la sua bellezza. Per raggiungerla bisogna salire a Ribeira Grande, cittadina dalle case basse e bianche, e percorrere la costa nord, dove si incontrano le piantagioni di tè dell’isola, tra le poche in Europa. Quella del tè era un’industria fiorente, nelle Azzorre, fino agli inizi del Novecento, quando contava quindici aziende. Adesso è rimasta soltanto Chá Gorreana attiva da fine Ottocento, da più di cinque generazioni, che utilizza ancora tecniche tradizionali di coltivazione. Dopo una trentina di chilometri su strade attorniate da file di cespugli di ortensie azzurre, bianche, lilla, con qualche sosta nei punti panoramici che si affacciano sulle scogliere, si rientra nel fitto dei boschi, attraverso uno scenario alla Jurassic Park, e si arriva nella valle di Furnas. Superato il lago vulcanico con i suoi sentieri soleggiati e le fumarole, ci si ritrova nell’omonima cittadina di Furnas.
Le fumarole nella notte.
La piscina termale nel parco Terra Nostra.
Fumarole a Furnas, alla destra del lago.
Questa è una stazione termale storica, famosa per il parco Terra Nostra, uno dei più vasti e antichi giardini delle Azzorre, che copre un’area di 12 ettari. «Ci sono le palme e i ginkgo biloba, che hanno molti secoli. Uno spettacolo che ricorda come dovevano essere le foreste europee prima dell’ultima glaciazione. Qui il clima è perfetto, per molte piante, d’estate e d’inverno, grazie alla Corrente del Golfo», spiega in inglese il ragazzo alla biglietteria, con un senso di orgoglio per la propria terra che solo un luogo come questo può dare. Di recente classificato come uno dei più bei giardini al mondo, il parco Terra Nostra ha una delle maggiori collezioni di camelie. Al centro dei viali, che si snodano lungo le acque dolci, si trova una piscina color arancione. È così spaziosa da invogliare a nuotare, ma una volta immersi, al caldo dei 35 gradi, non si riesce a fare altro che qualche bracciata per poi cercare un angolo, nel mezzo o sui lati, dove rilassarsi, avvolti dal verde tropicale (senza l’inconveniente di insetti o animali velenosi che paesaggi simili in genere comportano). Costruita nel 1780 dal console americano Thomas Hickling, la piscina termale è stata ingrandita nel 1935 ed è rimasta intatta fino ai giorni nostri, a parte qualche lavoro di manutenzione. L’acqua è ricca di minerali disciolti e una volta usciti è difficile togliersi di dosso il caratteristico odore di zolfo. Un odore diffuso in tutta la zona, per via dei vapori sulfurei soffiati dalle viscere della terra, anche nella zona sopra al parco, dove le fumarole regalano uno spettacolo difficile da dimenticare. Il calore geotermico viene usato dalla popolazione locale per cuocere lentamente carne e verdure nel terreno. Specialità che si possono gustare in diversi ristoranti di Furnas. La sera, quando restano soltanto le luci artificiali a illuminare, il luogo assume un aspetto mistico, con il rumore interrotto dei geyser e la nebbia densa.
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Ambiente e Benessere
In gara presente e futuro
Azione
Motori Tra avveniristici prototipi di supercar
e l’impegno costante verso una netta riduzione delle emissioni globali di anidride carbonica
amarlo Per
come lui
ti ama Il «siluro» Idrakronos. Il veicolo che consuma meno al mondo.
Mario Alberto Cucchi Sembra un siluro ma in realtà è un ecologico prototipo realizzato da un gruppo di circa sessanta studenti italiani del Politecnico di Torino. Si chiama H2politO e pochi giorni fa ha vinto con la sua Idrakronos la Shell Eco-marathon di Londra nella categoria veicoli fuel cell e idrogeno. Una competizione in cui sul gradino più alto del podio sale chi consuma meno e non chi arriva primo. A questa gara partecipano studenti delle migliori università europee. Quest’anno i team erano duecento e si sono confrontati su sostenibilità ambientale, bassi consumi e riduzione delle emissioni. La «corsa automobilistica», giunta alla 31a edizione, si è svolta all’interno del Queen Elizabeth Olympic Park di Londra. Tante curve, salite e discese mettono alla prova prototipi che sembrano siluri o missili ma che in realtà si muovono composti, spinti da alcune centinaia di watt e raggiungono velocità massime di 25-35 km/h.
Alla Shell Eco-Marathon vince chi consuma meno e non chi arriva primo Molto diverse le prestazioni dell’ultima creazione di Pininfarina. Si chiama appunto H2 Speed ed è un avveniristico prototipo realizzato dalla Carrozzeria Pininfarina. Una supercar a idrogeno che è stata premiata con il Best Concept del Salone di Ginevra 2016. In questi giorni H2 Speed sta raccogliendo consensi in un tour europeo dove in molti potranno toccarla con mano. Un vero e proprio bolide. Grazie alla tecnologia Full Hydrogen Power sfrutta un potente gruppo motopropulsore elettricoidrogeno fuel cell da ben 503 cavalli che le permette di raggiungere i 300 chilometri orari e scatta da ferma a cento in 3,4 secondi rilasciando nell’atmosfera solo vapore acqueo. Questo è il futuro
ma arrivano dati molto incoraggianti anche per il presente. Nissan Motor Co., Ltd. ha pubblicato il suo Rapporto annuale sulla sostenibilità che evidenzia nell’ultimo decennio una riduzione del 22,4 per cento delle emissioni globali di anidride carbonica (CO2) da parte della Casa giapponese. Hitoshi Kawaguchi, responsabile sostenibilità di Nissan, ha dichiarato: «Miriamo a conseguire i massimi progressi nei miglioramenti sull’impatto ambientale, come parte del Nissan Green Program, promuovendo i veicoli elettrici e perseguendo nell’anno in corso una maggiore efficienza energetica e delle risorse utilizzate come anche nel riciclaggio dei materiali. Questo riflette i continui sforzi di tutti i dipendenti e partner di Nissan, in linea con i nostri obiettivi aziendali di medio termine». Risultati raggiunti anche grazie a Nissan Inghilterra che ha installato nei suoi stabilimenti di Sunderland 19mila pannelli solari che, uniti alle 10 turbine eoliche, generano energia sufficiente a costruire più di 31mila auto l’anno. L’energia derivante dai pannelli solari e dalle turbine eoliche incide per il 7 per cento del consumo totale dell’impianto. Non da meno Nissan Messico che punta sull’utilizzo di sorgenti di energia rinnovabile, compresa energia eolica e biomassa. Rappresentano il 50 per cento dell’energia usata fin dal 2013 negli impianti di Aguascalientes. Intanto a Detroit, negli Stati Uniti, Ford ha lanciato il Model Year 2017 della Fusion Energi, ibrida plug-in che sta riscuotendo discreto successo negli States. La vettura è stata decisamente migliorata rispetto alla serie precedente, soprattutto per quanto riguarda l’autonomia, ora praticamente come quella di un’auto a gasolio. Fusion Energi ha infatti guadagnato un centinaio di km e ha ora un’autonomia di circa 975 chilometri di cui 35 in modalità solo elettrica. La velocità massima è invariata: circa 135 km/h.
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Ambiente e Benessere
Vinos de Argentina Bacco giramondo Il presente in due cifre: 225mila ettari
di superficie vitata e 15 milioni di ettolitri di vino prodotto
Davide Comoli Situata nella fascia conica più sottile dell’America Latina, l’Argentina presenta relativamente attenuati gli effetti della continentalità; soggetta al clima di tipo oceanico freddo, e per l’alta catena andina, resta largamente al di fuori degli influssi tropicali che caratterizzano le altre parti della regione meridionale del «nuovo mondo». L’Argentina è inoltre il più europeo di tutti i Paesi latino-americani, non soltanto per la sua popolazione quasi per intero composta da immigrati e discendenti di immigrati dall’Europa, ma anche e soprattutto per l’elevato grado di sviluppo, tuttavia incrinato dalle ricorrenti crisi economiche e politiche. Particolarmente diffusa è la viticoltura, specie nella lunga e fertile fascia che si snoda parallela alla Cordigliera delle Ande, dove sono situate oltre il 90 per cento delle piantagioni nonché le maggiori cantine del Paese. La vite giunse in Argentina con i conquistadores spagnoli. Arrivò da più parti: non solo con le navi spagnole – dopo che Pedro de Mendoza alla testa di 2500 uomini diede inizio nel 1535 alla vera e propria conquista del Paese, fondando la città fortilizio di Santa Maria de los Buenos Aires, capitale del territorio del Plata – ma anche dal Perù e dal Cile, dove già la Vitis vinifera veniva coltivata con successo. Le prime uve Creole o Criollas sa-
rebbero giunte a maturazione nella zona di Santiago del Estero, sulle rive del Rio Dulce, ai piedi dei primi rilievi Andini, in una vigna curata dal sacerdote Juan Cedrón con l’aiuto di Illimado Jufré, un agricoltore arrivato dalla Spagna, correva l’anno 1556 e documentata è la prima produzione di vino nell’anno 1557. Dopo quelli di Santiago del Estero, i primi raccolti di una certa consistenza furono ottenuti a San Juan e a Mendoza, le tre aree colturali che costituiscono gli attuali capisaldi vitivinicoli dell’Argentina. A quell’epoca le pelli di bue, di cui vi era grande abbondanza, venivano adoperate come otri per mettervi il mosto a fermentare e la svinatura si effettuava usando la coda, chiusa per mezzo di un tampone di legno avvolto nella canapa. Fino al 1861 vennero usate esclusivamente viti indigene, poi i primi coloni immigrati che arrivavano da Italia, Francia, Spagna, Svizzera e Germania, gettarono le fondamenta per una viticoltura moderna, importando vitigni dai loro paesi d’origine e costruendo per prima cosa degli sbarramenti e dei canali d’irrigazione, indispensabili per il clima caldo e secco dell’Argentina. Gli impianti di piccoli vigneti, oggi chiamati viñas particolares, destinati anche solo per il consumo familiare, rappresentavano per queste persone un legame con la madrepatria, ma in molti casi questo è stato il punto di partenza
per un’attività produttiva oggi ben presente sul mercato internazionale. Nel 1883 il francese Dimé Pouget, introdusse dal Cile dove risiedeva, i vitigni nobili francesi tra cui lo Chardonnay e il Malbec e realizzò a Mendoza un vigneto sperimentale. Un altro pioniere della viticoltura argentina fu Tiburcio Benegas, anch’egli nel 1883 realizzò sempre a Mendoza una cantina modello chiamata El Trapiche, circondata da 250 ettari di vigneto che servì da esempio concreto a molti imprenditori sino ad allora titubanti nell’iniziare un’attività vitivinicola. A favore della crescita del settore, contribuirono senz’altro la costruzione della ferrovia Buenos Aires-Mendoza tra il 1878-1885 e la Ley de Aguas nel 1883 che consentì la diffusione, con un sistema di canali, dell’irrigazione nella provincia di Mendoza. Negli anni 70, il settore vitivinicolo argentino conobbe una forte e drastica contrazione in seguito alla crisi economica durante gli anni della dittatura militare. La ripresa iniziò negli anni 80, con l’abbandono di vigneti in zone meno vocate, la realizzazione di vigneti con ceppi di vitigni internazionali e con l’arrivo di investitori stranieri che portarono sia in vigna che in cantina moderne tecnologie. Oggi l’Argentina con circa 225mila ettari si colloca all’ottavo posto come superficie vitata, ma con i suoi 15 milioni di ettolitri di vino, si colloca al quinto posto per produzione.
Vigneti vicino a Los Árboles in Uco Valley, Mendoza, sullo sfondo le Ande. (David)
Il vigneto argentino occupa una fascia lunga 1700 km da nord a sud, raggiungendo i 1700 m s.l.m. A causa del clima caldo e secco dell’interno, l’irrigazione è indispensabile nella parte occidentale del Paese. Più di 30mila pozzi, dighe e canali, sfruttano le acque dei fiumi e del disgelo delle nevi delle Ande, per il complesso sistema irriguo necessario per le vigne. Molti vigneti si trovano su terreni alluvionali e le acque sono usate frequentemente per inondare le piantagioni così da annegare la fillossera ancora presente, evitando l’infestazione delle lunghe radici non innestate. Le uve a bacca nera dominano il panorama viticolo argentino e occupano i tre quarti della produzione: uno studio ha dimostrato che i vini rossi argentini contengono molti più ossidanti che i vini prodotti con gli stessi vitigni nel resto del mondo. Il Malbec è il vitigno a bacca nera più coltivato e in questi anni è diventato la bandiera dell’enologia argentina. Tra le uve rosse troviamo: Syrah,
Cabernet Sauvignon, Merlot, Tempranillo, Bonarda, Barbera, Sangiovese e Nebbiolo. Tra i bianchi: Pedro Jimenez, Torrontes, Chardonnay, Moscato, Trebbiano, ma le varietà coltivate sono poco meno di un centinaio. Pensate che l’uva Criolla chiamata Cereza, ottima come uva da tavola, può raggiungere i 400 quintali per ettaro! Superiore a qualsiasi altra uva al mondo. La vite in Argentina viene coltivata nelle cosiddette oasis andinos raggruppate in tre regioni: nord-ovest dove troviamo Salta e Rioja con vigne sino a 1700 m, il centro-ovest, la più importante con San Juan, e la provincia di Mendoza con le due zone più elevate Maipú e Luján de Cuyo. La Patagonia dove la vite è concentrata nella provincia di Rio Negro, copre con i suoi 3mila ettari il 2 per cento del totale. Se capitate a Córdoba, fondata dai Gesuiti nel 1620, non mancate di visitare in centro paese la Colonia Caroya: si narra che da lì partì il primo vino americano servito alla corte del re di Spagna. Annuncio pubblicitario
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Enoteca Vinarte, Centro Migros S. Antonino
Enoteca Vinarte, Centro Migros Agno
Orari d’apertura: lun.–mer. + ven. 9.00–18.30 / gio. 9.00–21.00 / sab. 8.00–18.30 tel.: +41 91 858 21 49
Orari d’apertura: lun.–mer. + ven.–sab. 8.00–18.30 / gio. 8.00–21.00 tel.: +41 91 605 65 66
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 18 luglio 2016 ¶ N. 29
Ambiente e Benessere
Tra blini, smetana, piroghi, pel’meni e vareniki
La cucina russa è un grande melting pot la cui base slava è stata via via arricchita da contributi scandinavi, mongoli, turco-tartari, persiani, ebraici, tedeschi e di grandi cuochi francesi al servizio delle famiglie nobili. Certo, con la rivoluzione del 1917 c’è stato, a livello culinario, un regresso, ma dopo il crollo dell’Urss la grande cucina russa, ricca e barocca, è tornata a crescere.
La cucina russa condivide i principali ingredienti con tradizioni europee, slave, orientali, ebraiche, semplicemente declinate in modo diverso Gli ingredienti di base, naturalmente, sono figli della terra russa. Non c’è qui spazio per elencarli tutti, comunque sono condivisi con quelli delle tradizioni centro-europee e anche nostrane: non esistono ingredienti «alieni». Figli dei cereali sono il pane su tutto: spesso integrale, spesso umido e nero, spesso di segale. Poi la kaša, una preparazione diffusa in tutta l’area slava, che è una specie di polentina di cereali realizzata di preferenza con grano saraceno, ma anche con orzo e avena; viene cotta fino al completo assorbimento dell’acqua, condita con burro e servita come contorno. Ne esiste anche una versione dolce, con zucchero, miele o confettura. Ma con i cereali si fanno anche i blini, che sono crêpe lievitate a base di grano saraceno, uova, latte e lievito; cotti in padella, vengono serviti come antipasto, guarniti con salmone, caviale, aringhe e accompagnati con la smetana, panna acida che completa moltissimi piatti russi. Anche in questo caso ne esiste una variante dolce, farcita con mele.
I piroghi sono panzerotti serviti ripieni veramente di tutto, e in genere asciutti. I pel’meni e i vareniki sono ravioli ripieni, per esempio, con tvorog, manzo o maiale, funghi e uova. Entrambi possono essere serviti in brodo oppure asciutti; in questo caso vengono conditi con burro e smetana oppure con una salsina a base di aceto e senape. Cardine di quella cucina sono le zuppe calde: nessuna sorpresa, da sempre un valido rimedio contro i rigidi freddi dell’inverno russo. L’antica zuppa ucha è preparata con pesce persico e cipolle o con patate e pomodori; la šči, diffusa soprattutto negli Urali e in Siberia, comprende sempre tanti funghi più crauti, cipolle, pomodori e brodo di carne, oppure ortiche, prosciutto affumicato e odori; la rassol’nik è una minestra di brodo di carne o di pesce, rognoni, lattuga, cetrioli conservati e aneto, eventualmente anche orzo o miglio; sostanziosa anche la soljanka, di cui esistono tre versioni: a base di pesce (preferibilmente storione, accompagnato da cetrioli freschi, capperi e olive), carne o funghi. La zuppa più famosa è però il boršč, preparato con barbabietole (si usano quelle crude, non precotte), cavolo, patate, carne e smetana. Ma non prendete troppo alla lettera queste mie definizioni, non esiste un codex della cucina russa e quindi ciascuno fa come vuole e lo chiama come vuole… Ma ci sono anche, per le calde estati, zuppe fredde. Alcune sono preparate con il kvas, una bevanda fermentata a base di pane di segale e lievito di birra messi a mollo nell’acqua; fino a qualche tempo fa, questa bevanda rinfrescante e amarognola era venduta a Mosca direttamente dalle autobotti. Molto diffusa, tanto da aver fatto breccia anche nei menu della cucina internazionale, è la botvin’ ja, a base di spinaci, acetosella, scarola e cetrioli, servita con salsa al cren o smetana. Parlare dei piatti di carne, quelli di pesce e i dolci non si può perché non c’è abbastanza spazio; un’altra volta.
CSF (come si fa)
Peter Forster
Allan Bay
Jpatokal Blini
Gastronomia Dopo il crollo dell’Urss la grande cucina russa, ricca e barocca, è tornata a crescere
L’agresto è un condimento a base di succo di uva acerba molto diffuso in Europa in epoca medievale quando il gusto per l’agro e per l’agrodolce prevaleva su quasi ogni preparazione. Oggigiorno è un ingrediente molto raro da reperire in Italia, mentre si può facilmente trovare nella regione del Perigord, in Francia, dove è conosciuto col nome di verjus. Di origine mediorientale, husroum è il corrispettivo nome in lingua araba.
Si può usare per la preparazione di salse, condimenti e anche per deglassare i fondi di cottura. A mio parere usarlo per deglassare, cioè metterlo nella casseruola dopo aver levato la carne e il resto, portarlo al bollore e grattare il fondo con un cucchiaio per recuperare le saporitissime crosticine che saranno poi frullate col fondo di cottura, è la morte sua. Vediamo la ricetta dell’agresto fatto in casa. Prendete 1 kg di uva bianca acerba. Tenetela per un paio di giorni sul davanzale di una finestra, in modo che appassisca un poco. A questo punto sciacquate l’uva abbondantemente sotto acqua corrente e staccate gli acini dal graspo lasciando attaccato un pezzetto di picciolo. Scegliete i 30 acini tra i più grossi e succosi e incideteli con un
coltellino affilato per estrarne i semi. Centrifugate il resto degli acini e conservate il succo in una tazza. Per ogni tazza di succo ricavato, preparate 2 tazze di alcol puro per liquori, ½ tazza di aceto di vino bianco e 75 g di zucchero. Versate lo zucchero nel succo di uva acerba e mescolate con un cucchiaio di legno fino al completo scioglimento. Versate il succo in un vaso di vetro a chiusura ermetica e aggiungete gli altri ingredienti, lasciando per ultimi gli acini d’uva. Chiudete accuratamente. A piacere, potete arricchire di gusto l’agresto aggiungendo 1 ciuffo di dragoncello. Serve poi un po’ di pazienza: prima di essere gustato, l’agresto deve maturare per almeno tre mesi. Se ben conservato in un luogo fresco e asciutto, può durare anche un anno.
Ballando coi gusti Due proposte a base di cozze, scampi e grancevole che richiedono veramente poca fatica, ma che sono molto, molto gustose.
Cozze all’aglio
Carpaccio di scampi e grancevole
Ingredienti per 4 persone: 2 kg di cozze · 2 spicchi di aglio · 1 rametto di rosmarino · finocchietto selvatico · 2 pomodori · 1/2 bicchiere di vino bianco secco · olio di oliva · sale e pepe.
Ingredienti per 4 persone: 600 g di scampi · 1 grancevola · limone · 1 carota · 1 zuc-
Spazzolate e lavate le cozze; trasferitele in una casseruola, coprite e fatele aprire su fuoco vivace. Scolatele e scartate quelle che sono rimaste chiuse e i gusci vuoti. Fate rosolare in un tegame con un filo di olio l’aglio tritato con gli aghi di rosmarino e del finocchietto selvatico. Unite le cozze, salate, pepate e fatele insaporire; aggiungete i pomodori in dadolata, e bagnate con il vino. Lasciatelo evaporare, coprite e fate cuocere per 5’. Servite le cozze calde.
china · 1/2 costa di sedano · 1 cucchiaio di aceto balsamico · olio di oliva · sale e pepe. Sgusciate gli scampi e disponete le code su un vassoio unto di olio. Copritele con pellicola per alimenti e ponetele in frigorifero. Cuocete la grancevola per quindici minuti in acqua bollente con poco succo di limone. Scolatele, fatele raffreddare, rompete il guscio e recuperate tutta la polpa. Conditele con olio, pepe e succo di limone. Tagliate la carota e la zucchina a cubetti e saltateli in padella con un filo di olio. Insaporiteli con l’aceto balsamico. Disponete le verdure attorno agli scampi al centro dei piatti. Sovrapponete la polpa di grancevola alle code. Completate con il sedano tagliato a listarelle e condito con olio e sale.
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Ambiente e Benessere
Chi va piano...
«Non è sempre semplice tenere un gruppo di maschi e queste indicazioni non sono sempre chiare al momento dell’acquisto» Nel frattempo, però: «Circa 30 anni fa, le tartarughe dalle orecchie rosse (Trachemys scripta elegans) venivano importate a tonnellate; erano grandi come un cinque franchi e sguazzavano nelle vaschette d’acqua in casa, finché non cominciavano a crescere…». Di fatto, ci viene spiegato che questa specie di tartaruga acquatica pesa alla nascita solo sette grammi: «È carina, sta in una piccola vaschetta, ma poi però crescerà e raggiungerà fino ai tre o quattro chilogrammi, della quale solo il guscio avrà una dimensione di un foglio A4, per intenderci». È chiaro che un animale come questo richiederà un’adeguata struttura che lo possa ospitare, con ricambi d’acqua frequenti, e spazi non immaginabili su un mobiletto di casa: «Perciò, tante di queste tartarughe sono state abbandonate e liberate in tutti i luoghi più o meno adatti a loro, per cui se ne vedono alle Bolle di Magadino, al biotopo di Camprino, nel lago di Lugano e alla foce
della Magliasina». Il vero problema riguarda la loro natura non autoctona, che entra in conflitto con l’unica tartaruga del nostro territorio, la tartaruga di palude europea (Emys orbicularis): «Essa è più timida, meno invadente e meno aggressiva della Trachemys e questo ne complica la convivenza, in quanto la nostra autoctona vedrà ridursi il proprio spazio vitale, avrà meno cibo a disposizione e le due specie entreranno in concorrenza anche per i luoghi della deposizione delle uova». Al contrario delle tartarughe di terra, le piccole tartarughe acquatiche sono carnivore («Quelle adulte si nutrono anche di un po’ di piante») e comunque: «Quando ci si dovesse rendere conto che non le si possono più
Dalla guida del Cantone Per contenere i problemi creati dalla Tartaruga dalle orecchie rosse (Trachemys scripta elegans) il Cantone ha creato una scheda contenuta nella «Guida ai Neobiota invasivi» (scaricabile da internet: www4.ti.ch/generale/ organismi/per-saperne-di-piu/documenti) e che qui riportiamo quasi integralmente. La Tartaruga dalle orecchie rosse appartiene al gruppo delle testuggini originario del Centro e Nord America ed è una specie di acque dolci. L’adulto (fino a 30 cm) è molto vorace e onnivoro. Depone le uova sotto terra. Si possono trovare facilmente fuori dall’acqua a prendere il sole. L’adulto
Antiche magie Giochi matematici Poteri divini o trucchi e imbrogli
da intrattenimento?
Ennio Peres Le origini dell’Arte Magica si perdono nella notte dei tempi. Già nella Preistoria esistevano furbi individui che, sfruttando trucchi di loro ideazione, millantavano il possesso di poteri divini, ricavandone onori e ricchezze. Nel corso del tempo, l’Arte Magica si è liberata delle finalità da rito religioso, trasformandosi in un’affascinante forma di intrattenimento spettacolare. Anche i giochi di magia matematica, basati su semplici passaggi algebrici, sono molto antichi essendo nati, praticamente, insieme all’invenzione dell’Algebra stessa. Qui di seguito, ne riporto tre significativi esempi; cercate di scoprire, per
ciascuno di essi, il trucco richiesto e il motivo per cui funziona. Gioco no. 1
1. Impartite le seguenti istruzioni a uno spettatore a) pensa a un numero intero (ad esempio: 25); b) moltiplica per 3 questo numero (25 x 3 = 75); c) aggiungi 1 al prodotto ottenuto (75+1 = 76); b) moltiplica per 3 la somma risultante (76 x 3 = 228); d) al prodotto ottenuto, aggiungi il numero pensato all’inizio (228+25 = 253). 2. Fatevi comunicare il risultato finale (253) e individuate velocemente il numero pensato dallo spettatore.
tenere a casa, andrebbero consegnate a una struttura attrezzata che si occupi eventualmente di ritrovare loro una nuova sistemazione adeguata; per nessuna ragione al mondo esse vanno immesse in natura, dove peraltro l’animale stesso o non sopravvive, oppure va a creare problemi a quelli autoctoni». Durante la giornata di approccio alle tartarughe, si è pure parlato di quelle terrestri e di qualche chicca che le riguarda: «Ad esempio, abbiamo spiegato che nei nostri giardini (ndr: non quelli coltivati a prato inglese, ma quelli nei quali vi sono erbe ed erbacce che rappresentano un ottimo habitat) possono nascere delle tartarughe, ma dobbiamo renderci conto che siamo in un’area cosiddetta al limite della quale
Gioco no. 2
1. Impartite le seguenti istruzioni a uno spettatore: a) pensa a un numero intero (ad es.: 32); b) moltiplica per 2 questo numero (32 x 2 = 64); c) aggiungi 4 al prodotto ottenuto (64+4 = 68); d) moltiplica per 5 la somma risultante (68 x 5 = 340); e) aggiungi 12 al prodotto ottenuto (340+12 = 352). 2. Fatevi comunicare il risultato finale (352) e individuate velocemente il numero pensato dallo spettatore. Gioco no. 3
1. Impartite le seguenti istruzioni a uno spettatore:
è caratterizzato da due macchie rosse (una per lato) presenti sulla testa al lato degli occhi. In Ticino è presente in diversi stagni e laghi. È di fatto una specie ritenuta pericolosa a causa dei danni che crea alla biodiversità locale: la tartaruga dalle orecchie rosse soppianta la tartaruga indigena (Emys orbicularis), danneggia alcune piante acquatiche (anche rare) e riduce drasticamente le popolazioni di anfibi presenti. Cosa bisognerebbe fare? In caso di avvistamento avvisare subito l’Ufficio della Natura e del Paesaggio annunciando i ritrovamenti su www.ti.ch/organismi o telefonando allo 091 814 25 92.
a) lancia un paio di dadi, mentre io tengo gli occhi chiusi; b) osserva i due valori usciti (ad esempio 5 e 3); c) moltiplica per 2 il valore più alto di questi due (5 x 2 = 10); d) aggiungi 1 al prodotto ottenuto (10+1 = 11);
esse si possono riprodurre senza l’ausilio di un’incubatrice». Le parole di Petra Santini ci incuriosiscono e le chiediamo di spiegarsi meglio: «Il sesso delle nasciture è deciso dalla temperatura dell’incubazione delle uova: in Ticino non c’è il clima greco (ideale dell’habitat naturale), dunque nascono più maschi che femmine». Il problema, ci viene spiegato, risiede nel fatto che i maschi sono molto focosi e litigiosi e non dovrebbero mai vivere più d’uno in un gruppo di femmine: «Non è sempre semplice tenere un gruppo di maschi e queste indicazioni non sono sempre chiare al momento dell’acquisto». Come pure l’età che una tartaruga può raggiungere: «Una tartarughina di un anno potrà viverne ancora 99 circa: devo dunque pensare che con molta probabilità mi potrà sopravvivere e dovrò per questo organizzarmi di conseguenza». Inoltre, le tartarughe terrestri sono erbivore e la loro alimentazione deve essere adeguata alla loro crescita: «Tartaruga e guscio devono crescere in armonia e ciò si ottiene con un’alimentazione equilibrata, concedendo pure la possibilità di entrare in letargo già durante il suo primo anno di vita». Le tartarughe non sono comunque adatte a tutti: «Sono animali adatti a chi saprà osservarle senza coccolarle: esse non amano venire raccolte e spostate e, anche se si muovono lentamente, restano animali piuttosto selvatici». E qui si pensa, ad esempio, a bambini molto portati, interessati ad andare a cercare le erbe adatte alla loro alimentazione, e all’osservazione del loro ciclo vitale. e) moltiplica per 5 la somma risultante (11 x 5 = 55); f) aggiungi al prodotto ottenuto il valore dell’altro dado (55+3 = 58). 2. Fatevi comunicare il risultato finale (58) e individuate velocemente i due numeri usciti dal lancio dei dadi.
Soluzione
«Gioco e imparo». Questo il tema della Giornata sulle tartarughe organizzata a Magadino questa primavera, da Pro Tartarughe della Svizzera italiana (Ptsi), insieme a Krax (settore per bambini e ragazzi della Protezione svizzera degli animali PSA). «Si è trattato di una giornata ludico-informativa durante la quale bambini e partecipanti hanno avuto la possibilità di assimilare conoscenze sulla corretta tenuta delle tartarughe terrestri, molto diffuse nei giardini del nostro Cantone, e delle tartarughe acquatiche, troppo spesso abbandonate nella natura quando si scopre che non ci stanno più nella vaschetta in salotto». La veterinaria comportamentalista Petra Santini, che pure si occupa del settore Krax della PSA, così riassume gli obiettivi di questa manifestazione aperta a tutti e gratuita, che con grande probabilità sarà riproposta anche in futuro: «In effetti, la Ptsi già organizza con regolarità questo tipo di giornate informative indirizzate agli adulti; da qualche tempo abbiamo accarezzato l’idea di unire le nostre forze per trasmettere queste informazioni anche ai bambini». A Magadino, durante questo primo evento, l’interesse dei partecipanti verso il mondo delle tartarughe è stato davvero grande: «Nonostante il fatto che Magadino sia un luogo un po’ discosto, abbiamo avuto una grande affluenza e proprio lì abbiamo potuto parlare e mostrare come le tartarughe indigene sono oramai un po’ invase da
quelle esotiche». La nostra interlocutrice si riferisce alle tartarughe d’acqua, alcune specie delle quali, oggi, non dispongono più dell’autorizzazione a venire importate qui da noi.
1. Dal risultato, dovete eliminare l’ultima cifra (che deve essere, in ogni caso, un 3); le cifre restanti formano il numero pensato. Nel nostro caso, eliminando da 253 l’ultima cifra (3), resta: 25 (il numero pensato). Per analizzare il trucco, chiamiamo: N il numero pensato e R il risultato. In questo modo, abbiamo: R = 3(3N+1)+N = 9N+3+N = 10N+3; di conseguenza: N = (R–3)/10. 2. Dal risultato, dovete togliere 32 e scartare l’ultima cifra dal numero risultante (che deve essere, in ogni caso, uno 0). Le cifre restanti formano il numero pensato. Nel nostro caso, togliendo 32 da 352, si ottiene: 320; scartando l’ultima cifra (0), resta: 32 (il numero pensato). Per analizzare il trucco, chiamiamo: N il numero pensato e R il risultato. In questo modo, abbiamo: R = 5(2N+4)+12 = 10N+20+12 = 10N+32; di conseguenza: N = (R–32)/10. 3. Dal risultato, dovete togliere 5. La cifra delle decine del numero risultante corrisponderà al valore più alto dei due dadi, mentre quella delle unità corrisponderà al valore più basso. Nel nostro caso, togliendo 5 da 58, si ottiene: 53; da ciò, si deduce che i due valori usciti dal lancio dei due dadi, sono: 5 e 3. Per analizzare il trucco, chiamiamo: N il valore più alto ottenuto dal lancio dei due dadi, M quello più basso e R il risultato. In questo modo, abbiamo: R = 5(2N+1)+M = 10N+5+M; di conseguenza: R–5 = 10N+M.
Maria Grazia Buletti
Petra Santini
Petra Santini
Mondoanimale Tartaruga d’acqua o di terra: si tratta di un animale ancora poco noto alle nostre latitudini
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Ambiente e Benessere
Un calcio a tutto, anche all’Euro 2016 Sportivamente È finita da poco una rassegna continentale che ha riservato molte sorprese, non sempre un gioco
all’altezza delle aspettative, e un finale a sorpresa
giocatori coi nervi tesi, quelli per cui la stampa giudica soprattutto le loro prestazioni. Restando alla Svizzera, un attaccante che s’è dato molto da fare rispettando le consegne dell’allenatore Petkovic, ma non è riuscito a sfruttare almeno una delle numerose occasioni avute durante il torneo, è stato Seferovic. Ci si chiede ora – non essendocene nella nuova generazione di rossocrociati – chi possa andare a segno con una certa regolarità davanti a una squadra per altro ben disposta in campo, nelle prossime partite. Il primo a mettere sotto esame la Svizzera sarà dunque il Portogallo, assai probabilmente senza Cristiano Ronaldo, il quale deve rimettersi in sesto dopo, per l’appunto, la durissima botta a un ginocchio nella finale di Parigi. Quanto a noi, costretti ad assistere a partite spesso di bassa qualità, che cosa avremmo voluto di più dalla nostra Nazionale e pure dalle squadre che hanno proseguito la loro marcia mostrando talvolta qualcosa di buono? Anche il pubblico svizzero ha seguito con simpatia il Galles, giunto in semifinale dove il suo cammino è stato fermato dal Portogallo, così come l’inattesa Islanda piegata nei quarti da una Francia che sfogava una cattiveria fino allora repressa per potersi presentare all’atto finale con la formazione più forte possibile. Dopo aver dato un calcio a questo Europeo è immediatamente cominciato il calcio-mercato, a suon di milioni. Accontentiamoci allora di quanto potrà offrirci il Lugano che, per la seconda stagione consecutiva, liberatosi del tecnico Zeman (lo diciamo noi, perché pare che non tutti siano d’accordo) e affidati i suoi giovani alle cure di Manzo, si appresta ad affrontare un’altra difficile stagione per la permanenza in Super League, facendo scendere in campo la formazione più logica del momento.
Alcide Bernasconi «Non vedo l’ora che ricominci l’hockey», mi dice un amico, sapendo di andare sul sicuro facendomi questa confidenza. Si vede che l’Europeo di calcio non gli è piaciuto, dato che mastica anche lui un pezzetto di pallone, come tutti quelli cresciuti dalle nostre parti e che non sono più… giovanissimi.
L’Euro 2016 l’ha vissuto davanti alla tv, fra i rimbrotti della moglie dopo le prime giornate di questa dieta. Certo, l’aria d’attesa creatasi attorno alla Nazionale svizzera, scesa a Lugano per il suo ultimo campo d’allenamento prima di affrontare gli avversari di gruppo in Francia, lo solleticava non poco. Anche lui faceva parte di quella schiera curiosissima di vedere come se la sarebbe cavata l’Italia, bersagliata dalle critiche della stampa specializzata. I lettori, da tempo immemore, amano le polemiche, soprattutto quelle che ruotano attorno alla propria rappresentativa nazionale e, se da un lato i rossocrociati suscitavano aspettative alimentate da propositi positivi, dall’altro la stampa a noi più vicina non lesinava critiche di vario tipo alla squadra azzurra alle prese con problemi da risolvere soprattutto a centrocampo. Della Svizzera abbiamo detto tutto l’ultima volta, salvo sull’eliminazione negli ottavi ai calci di rigore, a causa di
Keystone
Dopo lodi e critiche distribuite in modo confuso per il torneo giocato in Francia, eccoci attesi da un calcio che ben conosciamo: il nostro
un tiraccio di Xhaka, per il resto ottimo e promosso sul campo dal veterano Behrami quale capitano per i prossimi impegni. E saranno le qualificazioni ai Campionati del mondo che metteranno i rossocrociati fra alcune settimane proprio a confronto con il Portogallo, nuovo campione d’Europa. Chi l’avrebbe detto che i francesi, peraltro alle prese pure loro con diversi problemi, sarebbero stati messi in ginocchio da un avversario considerato inferiore? E, per giunta, senza il suo osannato (fino a prima dell’Europeo) campione Cristiano Ronaldo, infortunatosi dopo una ventina di minuti a causa di un durissimo intervento di Payet, per nulla sanzionato dall’arbitro inglese Clattenburg. Insomma, l’Europeo ha sempre più deluso la critica, a cominciare dal gioco rinunciatario della maggior parte delle squadre, passando dai tecnici fino agli arbitri e a un
buon numero di tappeti erbosi. A metà torneo si può dire che non ci fosse ormai più nessuno esente da colpe per la qualità del gioco, giudicato monotono oltre ogni dire. Se la tv italiana, per contro, era pronta a esaltare ogni minimo accenno di bel gioco da parte dei suoi, non fosse che per vendere al meglio presso il grande pubblico il suo prodotto, con largo dispiegamento di forze, prima e dopo le partite degli azzurri (lasciando intendere che non avrebbe neppure meritato l’eliminazione nei quarti ad opera della Germania), in generale tutti si sono lamentati perché da un tale avvenimento si attendevano ben altro livello di gioco. A difesa di quanto le squadre hanno mostrato (o cercato di mostrare), in questo ultimo atto di una lunga e dura stagione, si sono esposti l’ex tecnico azzurro e del Milan Arrigo Sacchi e il
giornalista Alberto Cerruti, opinionista di grande esperienza che ha commentato l’Europeo nel salotto sportivo della RSI. In generale le critiche non sono piaciute al grande pubblico, come quando da «passaggi stratosferici» si passava a erroracci che neppure gli allievi commettono. In questo circo del pallone, la Svizzera era però riuscita a ritagliarsi più di un buon commento per la sua prestazione in crescendo, per il valore di alcuni protagonisti, a cominciare dal portiere Sommer, autore di interventi difficili e decisivi, fino a Shaqiri, a cui è andato l’applauso di tutti, oltre che dei tifosi elvetici, per il suo gol in rovesciata contro la Polonia, uno dei migliori dell’Europeo regalato a chi ammira soprattutto il bel gioco e non giudica unicamente i risultati. Eppure sono quelli per cui si gioca, quelli che fanno scendere in campo più
Giochi Cruciverba La suddivisione del giorno in 24 ore è … Risolvi il cruciverba e leggerai il resto della frase nelle caselle evidenziate. (Frase: 2, 10, 4, 5)
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Orizzontali 1. «È tratto» per Giulio Cesare 4. Sono in fin di vita 6. Fu scacciata dall’Olimpo 7. Preposizione articolata 8. Le iniziali del filosofo Tommaseo 9. Danno armonia ai versi 10. La Saudita 13. Desinenza di diminutivo 14. Va e viene 18. Pagamenti dilazionati 20. Il serpente maggiore 21. Le iniziali del giornalista Lerner 22. Il cortile della fattoria 23. Parte posteriore 25. Le iniziali dell’attore DiCaprio 26. Moltiplicati da Gesù 27. 504 romani 29. Sollevare, alzare 30. Abitudini insane Verticali 1. Un figlio di Giacobbe 2. Idonea 3. Particella nobiliare 4. Molti in libreria 5. Incerti, rischiosi 7. Si trasforma il bolo 9. Agili saltatrici 11. Nome femminile 12. Dividono l’Europa dall’Asia 15. Davanti al nome del commercialista 16. Giungono in centro 17. Alberi sempre verdi 19. Sigla di sindrome da immunodefi-
cienza acquisita 20. Si dice approvando 23. Una chitarra persiana 24. Sa scriverle il poeta 26. Le iniziali di un noto Angela della TV 28. Il cuore dello smaliziato
Sudoku Livello per geni Scopo del gioco
Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contenga tutti in numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.
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Soluzione della settimana precedente
PICCOLE CURIOSITÁ – Il naso e le orecchie …: CRESCONO DI POCO MA PER TUTTA LA VITA.
C O C O M E R O
E R E D I O M P E A R T L I A I A C D E S T
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50% Azione assortimento Tutti i tipi di Pepsi o Schwip Schwap in conf. da 6, 6 x 1,5 l per es. Pepsi Max, 5.50 invece di 11.–
30% 10.50 invece di 15.– Cosce superiori di pollo speziate Optigal in vaschetta d’alluminio, Svizzera, al kg
20% 1.45 invece di 1.85 Gruyère piccante per 100 g
20% 4.30 invece di 5.40 Insalata del 1° d’agosto Anna’s Best 450 g
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33% Azione assortimento Tutte le acque minerali Aproz in conf. da 6 per es. Classic, 6 x 1,5 l, 3.80 invece di 5.70
Tutti i ketchup e tutte le salse per grigliate Heinz per es. Tomato Ketchup, 700 g, 2.20 invece di 2.75
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4.40 invece di 5.50
5.20 invece di 6.95
Tutti i gelati Fruit Ice in conf. da 6 per es. alla fragola, 6 x 48 ml
Azione assortimento
Mirtilli Migros Bio Svizzera / Germania / Italia / Francia, vaschetta, 250 g
Azione assortimento Tutti i prodotti di pasticceria alle fragole per es. trancio alle fragole, 2 x 190 g, 5.50 invece di 6.90
SOLO DA QUESTO
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 18 luglio 2016 ¶ N. 29
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Politica e Economia Duro colpo per Xi Jinping Il tribunale dell’Aja dà ragione alle Filippine nella questione delle isole contese da Pechino
Inchiesta sulla globalizzazione: 1. Iniziamo una breve serie dedicata alla storia del libero mercato e a come esso venga messo in discussione dai movimenti populisti che rigettano frontiere aperte, mercati comuni e trattati di libero scambio
Ticino e Baviera più vicini? L’apertura della galleria di base del San Gottardo e nel 2020 del tunnel del Monte Ceneri avvicina due regioni che presentano alcune similitudini pagina 24
pagine 22-23
AFP
pagina 21
Un’estate di fuoco per Obama Questione razziale La recente strage di Dallas riporta l’attenzione sulla minoranza black e corrisponde alla parabola
finale di un presidente nero, considerato all’inizio come il simbolo del superamento della divisione fra bianchi e neri Lucio Caracciolo Nel 2004 il celebre politologo Samuel P. Huntington aveva lanciato l’allarme, intitolando un suo ponderoso volume sull’identità americana Who Are We? (Chi siamo noi?). Il teorico dello «scontro di civiltà» aveva così centrato la questione che avrebbe segnato il futuro degli Stati Uniti: come tenere insieme una grande nazione nella quale le differenze di razza e cultura sono destinate ad accentuarsi a causa del declino della prevalenza dei bianchi anglo-sassoni protestanti (Wasp) e della crescita di altri gruppi etnici, in particolare gli ispanici. Su questi ultimi si è concentrata l’attenzione degli studiosi e dell’opinione pubblica attenta al tema etnico. Ma la recente strage di Dallas, quando un veterano nero dell’Esercito, Micah Johnson, ha ucciso cinque poliziotti – nel contesto di una lunga e spesso letale sequenza di attacchi e scontri fra polizia e attivisti neri – ha riportato l’attenzione sulla minoranza black. Un secolo e mezzo dopo la fine della guerra civile, vero momento unificatore della nazione americana, la linea di
divisione fra bianchi e neri continua a caricarsi di tensione. In un Paese di 323 milioni di anime, gli afro-americani, più o meno il 12% della popolazione, sono spesso in condizioni nettamente più disagiate sotto il profilo economico e sociale nei confronti della maggioranza bianca non ispanica (intorno al 63%). Di più, specie negli Stati del Sud, dove la tradizione confederata e i suoi emblemi sono tuttora oggetto di culto diffuso, alla deprivazione socio-economica corrispondono pregiudizi razziali talvolta ostentati, talaltra impliciti, sempre pesanti. Ne consegue una tensione permanente fra polizia, forze di sicurezza e popolazione nera, in particolare quella più giovane e meno integrata. La sfiducia reciproca è profonda. Il modo in cui i poliziotti, non solo bianchi, approcciano un giovane nero, magari solo colpevole di un eccesso di velocità alla guida della sua auto, è molto più aggressivo di quello riservato ai bianchi. Negli scorsi mesi questo ha provocato decine di vittime da una parte e dall’altra, in diversi Stati, specie meridionali e occidentali. Si è diffuso un movimento
radicale nero – Black Lives Matter (Le vite dei neri contano) – che non si limita a denunciare gli abusi della polizia e a organizzare manifestazioni di protesta, ma talvolta slitta in un razzismo alla rovescia che ha i bianchi per bersaglio. Il tutto in un contesto segnato da almeno tre acceleratori di crisi: la campagna presidenziale, con il candidato repubblicano Donald Trump che non esita a profilarsi come campione dei bianchi che si sentono minacciati dalla «globalizzazione», dagli immigrati e dalle minoranze etniche; il crescente distacco fra istituzioni politiche e opinione pubblica, che mette in questione la stessa legittimazione del potere; e la diffusione delle armi nelle mani dei cittadini, in ossequio a un antico precetto costituzionale forse consono al tempo dei coloni e del Wild West, meno all’epoca attuale. Sicché il dibattito e le polemiche che infuriano dopo la strage di Dallas tengono insieme fattori decisivi della vita associata negli Stati Uniti e gettano più di un’ombra sul suo futuro prossimo. Certo non siamo alla guerra civile, come vorrebbe qualche commentatore
enfatico. Ma sottovalutare le conseguenze del clima attuale sarebbe quantomeno ingenuo. Per colmo di paradosso, il riaccendersi della questione razziale corrisponde alla parabola finale del primo presidente nero degli Stati Uniti, Barack Obama. In effetti, da figlio di madre bianca e di padre di origine keniota, Obama è un nero sui generis. Tanto che prima di incontrare sua moglie Michelle aveva avuto solo fidanzate bianche e lui stesso non si considerava nero. E comunque Obama appartiene a quella minoranza di neri che è riuscita, per meriti propri, ad ascendere una scala sociale altrimenti irta di ostacoli per i non bianchi. Quando arrivò alla Casa Bianca, molti salutarono in Obama il simbolo del definitivo superamento dello storico clivage tra bianchi e neri. Verdetto affrettato. Oggi Obama si trova ad affrontare una crisi che lo ha palesemente ferito, oltre che colto di sorpresa. Parlando il 12 luglio ai funerali delle vittime di Dallas, il presidente ha detto: «Non siamo così divisi come sembriamo». Forse un modo di rassicurare sé stesso
e il suo pubblico, più che una profonda convinzione. «È stato come se le più profonde linee di demarcazione interne alla nostra democrazia fossero state esposte all’improvviso e si fossero persino accentuate – ha aggiunto – e se anche sappiamo che queste divisioni non sono nuove, anche se in passato sono state peggiori, questo ci è di scarso conforto». Dobbiamo aspettarci che la questione razziale e quella degli armamenti disponibili a quasi tutti domini la campagna presidenziale, di qui a novembre. Già la lobby dei fucili si è scatenata nella denuncia di Obama e degli altri – non troppi – sostenitori della necessità di limitare la diffusione delle armi. Nell’ambito delle minoranze si costituiscono e rafforzano gruppi di pressione, ma anche militanti armati, quasi si stesse per aprire una lunga stagione di scontri. Forse anche noi europei, nell’atmosfera di xenofobia e paura dell’altro che si diffonde in molti Paesi, dovremmo osservare con attenzione i segnali d’Oltreoceano. Perché quella storia è o potrebbe diventare, in condizioni e misure diverse, anche la nostra.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 18 luglio 2016 ¶ N. 29
Politica e Economia Un poliziotto cinese sbarra la strada verso l’ambasciata delle Filippine a Pechino. (AFP)
«L’accordo con le Farc è una truffa» Paso doble L’ex presidente colombiano
Uribe spiega perché è contrario al negoziato Angela Nocioni
Isole contese La Corte internazionale dell’Aja ha accolto il ricorso
di Manila sul controllo di atolli strategici nel Mar della Cina del Sud. Pechino ha già fatto sapere che non riconosce la sentenza Beniamino Natale Guerra o distensione? Tutto è possibile dopo la sentenza della Corte permanente di arbitrato dell’Aja, che il 12 luglio ha accolto in pieno il ricorso delle Filippine, inferendo un colpo al cuore delle ambizioni cinesi in Asia. Secondo Jerome A. Cohen, stimato sinologo e professore della New York University, la botta è particolarmente dura per il presidente e segretario del Partito Comunista Xi Jinping, che ha fatto della «rivincita cinese» sul resto del mondo l’idea portante della sua iniziativa politica. Cohen ha ricordato che Xi Jinping, al contrario delle apparenze, non è un leader «forte» e che nei mesi scorsi è emerso con chiarezza che buona parte del Partito Comunista non approva la sua «lotta alla corruzione» – che alcuni ritengono una copertura per l’eliminazione degli avversari politici – e il rafforzamento dei poteri del centro a scapito dell’equilibrio tra le varie istanze e fazioni costruito con cura dal gruppo dirigente nei decenni precedenti. La Corte, un’istituzione internazionale creata nel 1899 per la risoluzione pacifica delle divergenze tra Stati, ha stabilito che la rivendicazione di sovranità sul 90% del Mar della Cina Meridionale non ha alcun fondamento storico e giuridico. Le Filippine avevano chiesto nel 2013 il pronunciamento della Corte denunciando come illegale l’iniziativa cinese di costruire delle strutture permanenti sullo Scarborough Shoal, un gruppo di piccoli scogli del quale Pechino si è impadronita con un colpo di mano nel 2012. La Cina estende la sua rivendicazione di sovranità su quasi tutto lo specchio d’acqua sulla «nine-dash-line», un’enorme «U» che passa a poche miglia marine dalle coste di numerosi Paesi rivieraschi tra cui, oltre alle Filippine, Vietnam, Malaysia e Brunei. La «linea» cinese è comparsa per la prima volta su una mappa elaborata da un geografo cinese ed è stata fatta propria nel 1947 dal governo del Guomindang, il Partito Nazionalista del «generalissimo» Chang Kai-shek, che allora governava la Cina. La mappa è stata recentemente rispolverata dall’attuale governo di Pechino e dichiarata come base delle sue rivendicazioni. Oltre alla «nine-dash-line» Pechino ha negli ultimi anni amplificato costantemente le lamentele sulle «umiliazioni» subite nei secoli scorsi che oggi, dato che la Cina è di nuovo un Paese ricco e potente, dovrebbero essere vendicate. Ecco in sintesi cosa ha stabilito la Corte: 1. la «nine-dash-line» non ha una base legale, dato che la Cina non ha mai nella storia avuto il controllo esclusivo dello Scarborough Shoal; 2. le costruzioni di strutture su terre «reclamate»
all’acqua marina da parte della Cina hanno provocato un «danno irreparabile» all’ecologia della zona; 3. non solo lo «Shoal» in questione ma tutti gli atolli che compongono l’arcipelago della Spratly non sono mai stati stabilmente abitati da alcuna comunità, sono stati frequentati da pescatori di tutti i Paesi rivieraschi e sono di dimensioni minime; 4. di conseguenza, non possono essere presi come base per rivendicare acque territoriali (22 chilometri dalle coste secondo la United Nations Convention on the Law of the Sea, o UNCLOS) o Zone Economiche Esclusive (200 miglia marine, cioè circa 370 chilometri) dalle coste. 5. le costruzioni sugli scogli e i pattugliamenti delle acque circostanti da parte della marina militare cinese sono azioni illegali, che sono state compiute in violazione della sovranità delle Filippine. Ne consegue che nessuno, non solo la Cina, può avanzare rivendicazioni di sovranità a partire dalle minuscole isolette della Spratly. Non per niente ha protestato anche Taiwan, l’isola rivendicata da Pechino ma di fatto indipendente, che rivendica parte dell’arcipelago e il cui esercito occupa l’atollo di Itu Aba. L’unica strada per raggiungere la possibilità di sfruttare le ricche risorse naturali del Mar della Cina Meridionale è la trattativa diplomatica basata sulla volontà di collaborazione, stando alla sentenza della Corte. Che questo avvenga effettivamente è improbabile, almeno in tempi brevi. Pechino ha infatti reagito con furia: come già aveva annunciato, ha giudicato «non valida» la sentenza, che sarebbe stata frutto dell’immancabile «complotto» per «contenere» la crescita della Cina e impedirle di raggiugere il «sogno» di Xi Jinping, cioè di diventare la potenza dominante in Asia e nel mondo. I soliti blogger nazionalisti si sono scatenati coprendo di insulti la Corte e i suoi giudici: in particolare uno di loro è stato preso di mira, perché colpevole di essere nato in Giappone cosa che, agli occhi dei propagandisti di Pechino, è sufficiente per iscriverlo nell’elenco dei «nemici». Dirigenti cinesi hanno inoltre rispolverato la minaccia di creare nel Mar della Cina Meridionale una Air Defence Identification Zone (ADIZ), cioè di chiedere a tutti i velivoli che sorvolano lo specchio d’acqua di identificarsi riservandosi il diritto di concedere o meno il diritto di passaggio: bisogna dire che Pechino ha già dichiarato unilateralmente una ADIZ sul Mar della Cina Orientale – con poco successo, dato che la Zona è stata più volte violata ad aerei americani e giapponesi. La reazione delle Filippine – che hanno ottenuto una vittoria politica andata oltre tutte le previsioni – è stata prudente. Un portavoce del Dipartimento
degli Affari Esteri di Manila, Charles Jose, ha affermato che «la sentenza può servire come base sulla quale possiamo iniziare un processo di trattative che alla fine, speriamo, porti alla risoluzione pacifica delle dispute nel Mar della Cina Meridionale». Il ricorso contro la Cina è stato presentato alla Corte dal governo del presidente Benigno Aquino III, che nel frattempo è stato sostituito dal controverso Rodrigo Duterte. Noto come «the punisher» per la sua spietata lotta alla criminalità a Davao – la città nel sud delle Filippine della quale è stato sindaco per due decenni – Duterte ha espresso in passato posizioni concilianti verso la Cina, con la quale ha affermato di voler dialogare. Secondo il già citato Jerome A. Cohen, «il Vietnam deve essere molto felice, anche l’Indonesia ma forse la Malaysia un po’ meno…». Anche il Giappone, prosegue Cohen, potrebbe ora essere tentato di ricorrere alla Corte per risolvere la questione delle isole Senkaku/Diaoyutai, che controlla ma che sono rivendicate da Pechino. Un altro commentatore, Shi Jiangtao, ha scritto sul «South China Morning Post» che la sentenza potrebbe portare ad una spaccatura nell’ASEAN, l’associazione dei Paesi del sudest asiatico, divisi tra i critici di Pechino – Vietnam e Filippine in testa – e i suoi alleati, guidati dalla Cambogia e dalla Thailandia. Due anni fa l’India ha accettato senza discutere la sentenza della Corte sulla sua frontiera marittima col Bangladesh, decisamente favorevole a quest’ultimo. Al momento è impossibile che la Cina faccia lo stesso ma ci sono delle vie d’uscita che permetterebbero a Pechino di accettare di fatto le decisioni della Corte senza «perdere la faccia». Molti, tra cui l’avvocato ed ex-consigliere della Corte Paolo Busco intervistato dal «Corriere della Sera», hanno ricordato due casi. Il primo è quello della Russia, che nel 2013 ha prima rifiutato le sentenze dei tribunali internazionali che le ingiungevano di liberare gli attivisti di Greenpeace che aveva arrestato in acque internazionali ma che dopo breve tempo ha varato un’amnistia che ne ha permesso la scarcerazione. La seconda quella della politica degli Usa di sostegno ai ribelli anti-sandisti del Nicaragua: l’Amministrazione di Ronald Reagan respinse nel 1986 una sentenza internazionale che le imponeva di mettere fine a quella politica, ma due anni dopo fu il Senato americano a ordinare la cessazione degli aiuti ai Contras. Per ora, le speranze che Pechino faccia una discreta marcia indietro sono legate al tenue filo rappresentato dalle dichiarazioni del suo ambasciatore negli Usa, Cui Tiankai, che, pur condannando la sentenza, ha aggiunto che la Cina «rimane aperta» ai negoziati.
Cosa contesta all’accordo?
Le Farc commettono atrocità, sequestrano, reclutano bambini, attaccano ambulanze. Commettono reati gravissimi. Ciò nonostante, secondo l’accordo firmato con l’attuale presidente, se accettano la pace non andranno in carcere. Questa è impunità assoluta, contraria allo statuto della Corte penale internazionale e alla Convenzione americana per i diritti umani che chiede sanzioni severe per questi delitti. È quindi la possibilità delle Farc di risparmiarsi il carcere il punto peggiore dell’accordo a suo giudizio?
Il governo è incerto e claudicante davanti al terrorismo. C’è un punto anche peggiore dell’impunità nell’accordo ed è l’eleggibilità politica dei membri delle Farc. La Costituzione colombiana del 1991 vieta l’eleggibilità di chi ha commesso reati gravi. L’articolo 36 dell’accordo invece regala piena eleggibilità politica a chi dice di uscire dalle Farc. E cosa diremo allora a quei colombiani che sono in carcere per delitti meno gravi di quelli commessi dalle Farc? E cosa diciamo a quei politici colombiani giudicati colpevoli per reati che prevedono l’ineggibilità e che per questo sono esclusi dalla politica colombiana? Perché loro non possono essere eletti e invece membri delle Farc in teoria potranno? Poi è insensato credere che le Farc riconsegneranno le armi. Quale organizzazione internazionale ha l’inventario delle armi delle Farc per poter confermare in futuro che l’arsenale sarà stato interamente riconsegnato? Non dimentichiamoci che parliamo di un gruppo guerrigliero molto ricco, che controlla parte del narcotraffico colombiano. Nessuno ha chiesto loro un centesimo per risarcire le vittime. Resteranno ricchissimi e compreranno tutte le armi che vogliono. Non ci si può accordare su niente con le Farc se questo comporta rinunciare a mettere i capi in carcere, rinunciare alla loro ineleggibilità e lasciare loro tutto il denaro che hanno. Quindi la sua prossima battaglia politica è far perdere al governo il plebiscito che dovrebbe ratificare l’accordo? Punta tutto su quello?
Hanno inventato il plebiscito perché la legge gli avrebbe imposto di sottoporre a referendum ogni singolo punto dell’accordo, il plebiscito consente invece una domanda unica. Voteranno No tutti quelli che vogliono la pace, ma non l’impunità. Per quanto riguarda me, sto lavorando perché alle elezioni del 2018 ci siano candidature dalla nostra parte forti e credibili. Altrimenti la Colombia farà la fine del Venezuela. Perché non ha visto papa Francesco?
Non rispondo. Ha invece incontrato il Segretario di Stato Parolin, che è stato a lungo messo pontificio in Venezuela e conosce bene la politica locale. Avete parlato di Venezuela con Parolin?
Sono un combattente politico aggressivo, ma sono un cattolico umile e immensamente rispettoso. Questa domanda me la scordo subito. Se si rifiuta anche di dire come Parolin ha accolto le sue critiche all’accordo di pace tra Farc e Colombia, dobbiamo pensare che la sua visita in Vaticano sia stata probabilmente un disastro. Ci vuol dire due parole pronunciate dal Segretario di Stato vaticano a riguardo? AFP
Schiaffo alla Cina
Non tutti i colombiani sono d’accordo con la pace firmata all’Avana il 23 giugno dal governo di Bogotà con le Forze armate rivoluzionarie di Colombia (Farc), il gruppo narco-guerrigliero di ideologia marxista che da più di cinquant’anni combatte contro lo Stato colombiano. «L’accordo è una truffa» grida l’ex presidente della Colombia (2002-2010), contrario a qualsiasi trattativa politica, sostenitore della guerra contro le Farc fino al loro annientamento militare. Annientamento che però, in cinquant’anni, non è mai riuscito. Nonostante i miliardi di dollari statunitensi investiti in tecnologia di guerra e aiuti diretti al governo locale. Abbiamo incontrato Uribe (foto) a Roma, in una intervista collettiva organizzata dall’osservatorio di politica americana Mediatrends America per conoscere gli argomenti ufficiali di chi si oppone a un accordo salutato con sollievo da gran parte della gente comune che in Colombia, alla notizia della firma, s’è riversata festante in strada in molte regioni del Paese. Da sempre militante nelle file del Partito liberale, Uribe fu eletto nel 1982 sindaco di Medellín e poi senatore, sedette in Parlamento dal 1986 al 1994. Tra il 1995 e il 1997 fu governatore del dipartimento di Antioquia. Nel 2002 si candidò e vinse le elezioni presidenziali colombiane con una campagna tutta giocata sugli aiuti internazionali che la Colombia avrebbe ricevuto grazie a lui per la guerra al narcotraffico e sul pugno di ferro contro le Farc. Con la riproposizione nel 2006 delle stesse parole d’ordine, fu rieletto con una maggioranza schiacciante per un secondo mandato. Da quando, quattro anni fa, è iniziata la trattativa colombiana con le Farc all’Avana, Uribe ha fatto diventare il no al dialogo la sua bandiera politica. L’accordo è stato firmato dal presidente colombiano Manule Santos, ex ministro di Uribe diventato ora il suo più acerrimo nemico e il capo delle Farc Rodrigo Londoño. Garante della pace sono le Nazioni Unite, insieme a Norvegia e Cile che hanno mediato il negoziato. Grande protettore politico dell’accordo è però il Vaticano. E in Vaticano Uribe è andato la settimana scorsa nel tentativo di ottenere udienza da papa Francesco, che non l’ha ricevuto. «Guardate la grande forza che sta prendendo l’Esercito di liberazione nazionale (altro gruppo guerrigliero di stampo marxista n.d.a.) – si lamenta Uribe – quando ero io al governo lo stavamo per disarticolare, ora invece l’Eln è protetto dal Venezuela, incoraggiato dal vedere l’appoggio del governo alle Farc, molti guerriglieri addirittura cambiano uniforme e passano dalle Farc all’Eln. L’impunità di cui godono le Farc porta nuova violenza. È notizia di questi giorni che l’Eln ha attaccato duramente ad Arauca, vicino alla frontiera con il Venezuela.
Santos era insieme a me la voce più critica del continente latinoamericano nei confronti del governo chavista ora è diventato amico dei chavisti».
Ho visto nella lunga storia della Chiesa molti sfrontati non cadere nelle tentazioni del demonio.
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Politica e Economia
Libero scambio: è sfiducia
a Bruxelles si sono incontrate le delegazioni europea e americana per riprendere le trattative. Ma sta franando il mandato politico che le sosteneva.
Inchiesta sulla globalizzazione L’ordine economico degli ultimi 25 anni sta venendo pesantemente
rimesso in discussione dai movimenti populisti, da Brexit e da Donald Trump – 1. parte
Federico Rampini
Dal 1947 al 1995 il Gatt e la Cee sono stati i primi esperimenti di libero scambio. (AFP)
intanto la globalizzazione entra in uno stallo politico. I due trattati in agenda sono molto diversi. Il Tpp include Paesi emergenti come il Vietnam. Quindi si presta alla critica tradizionale che suona così: abbattendo le barriere con quei Paesi, noi occidentali ci costringiamo a una gara al ribasso, dovendo competere con chi ha salari più bassi, meno protezioni sociali, poche regole a difesa dell’ambiente. Obama reagisce sdegnato: «È
proprio grazie a quell’accordo che in Vietnam stanno nascendo sindacati liberi. Questi trattati non sono come quelli del passato, ci consentono di esportare i nostri standard. Se non lo facciamo, sarà la Cina a dettare le regole della globalizzazione futura». Tant’è, questo messaggio del presidente non convince la maggioranza dei suoi cittadini. Le polemiche elettorali sono più infuocate che mai, contro le delocalizzazioni e la concorrenza dei Paesi
emergenti. Inoltre nella cabina di regìa dei negoziati contano troppo le lobby: dalla finanza alla Silicon Valley, dall’agrobusiness a Big Pharma. Cosa che non rassicura gli avversari di sinistra. L’accordo in gestazione tra Europa e Stati Uniti è diverso. Qui si ridurrebbero barriere tra aree economiche già sviluppate, con livelli di ricchezza comparabili. È significativo l’armamentario di argomenti usato in difesa del Ttip da Calenda, alla Camera il 15 giugno.
«La competizione globale – dice Obama – dà a molti lavoratori la sensazione che li abbiamo abbandonati. Provoca diseguaglianze ancora maggiori. I privilegiati accumulano straordinarie ricchezze e potere. L’angoscia è reale. Quando la gente è spaventata, ci sono politici che sfruttano queste frustrazioni». Pronunciate dopo il risultato del referendum inglese, queste parole del presidente degli Stati Uniti abbracciano fenomeni comuni a tutto l’Occidente. Da Brexit a Donald Trump, forti correnti dell’opinione pubblica appoggiano i politici che promettono un ritorno all’indietro, verso un’Età dell’Oro preglobalizzazione. È un vasto rigetto delle frontiere aperte, dei mercati comuni, dei trattati di libero scambio, oltre che dell’immigrazione. Viene rimesso in discussione tutto ciò che sotto il termine di globalizzazione ha segnato l’ordine economico mondiale nell’ultimo quarto di secolo. Una storia che ha origini in due trattati: l’Atto che crea nel 1992 il grande Mercato unico europeo; il Nafta (North American Free Trade Agreement) negoziato nel ’92 e ratificato nel 1994 tra Stati Uniti, Canada e Messico. Parte da quei due cantieri la costruzione di un sistema che in seguito si estenderà fino ad abbracciare la Cina e altre nazioni emergenti. Ma fin
lavoro. È di quegli anni un progresso nelle tutele dei consumatori, terreno sul quale l’Europa parte tardi ma sorpassa rapidamente gli Stati Uniti. Il Mercato unico è più di un’area di libero scambio. Elimina barriere occulte all’esportazione di beni e anche di
servizi; abolisce ostacoli alla circolazione di tutti i fattori di produzione: dà libertà ai movimenti di capitali e all’emigrazione di manodopera. Coordina politiche fiscali, industriali, agricole. Crea regole standard in quasi tutti i settori. Apre il mercato dei lavori pub-
blici. Vieta gli aiuti di Stato. Il celebre Rapporto di Paolo Cecchini (eseguito su richiesta di Delors) prevedeva, tra i benefici del Mercato unico, due milioni di posti di lavoro. Il Nafta dal primo gennaio 1994 estende un esperimento simile a tutto il Nordamerica: un’area che oggi include 480 milioni di abitanti. Lo firma un presidente democratico, Bill Clinton, con una dichiarazione scolpita nella pietra, che ancora oggi viene rinfacciata a Hillary. «Il Nafta – dice Bill firmando il trattato – significa lavoro. Nuovi posti per gli americani, ben pagati». Fin dall’inizio ci furono resistenze. I sindacati, e non solo. Clinton aveva conquistato la Casa Bianca perché nell’elezione del 1992, a rubare voti al presidente uscente George Bush Senior era sceso in campo un terzo candidato indipendente, un Trump ante litteram: l’industriale Ross Perot. Il suo slogan più celebre, contro Bush che aveva negoziato il Nafta: «Quel trattato succhierà fabbriche e occupazione dagli Usa al Messico». Perot puntava il dito sul divario salariale: la paga oraria di un operaio messicano arrivava a stento a un decimo di quella Usa. Oggi Trump riprende gli stessi argomenti. Oltre al Muro contro l’immigrazione promette pesanti ritorsioni e multe contro le imprese Usa che delocalizzano nei Paesi a basso salario. Uno studio indipendente del Congressional Research Service un quarto di secolo dopo definisce «modesti» i benefici del Nafta. La confederazione sindacale AflCio ha censito oltre 700’000 posti di lavoro trasferiti dagli Usa al Messico. Se si allarga lo sguardo oltre il Messico, si arriva a tre milioni di posti operai eliminati nella vecchia Rust Belt, la «cintura della ruggine», gli Stati industriali del Midwest che furono il centro della potenza industriale Usa per due secoli. È lì che si gioca a novembre la sfida decisiva tra la Clinton e Trump.
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Il governo francese è stato il primo a gettare la spugna, la settimana scorsa un suo esponente ha definito «impossibile un accordo Usa-Ue sul trattato di libero scambio entro il 2016». I francesi hanno sempre guidato una «fronda» protezionista, il loro pessimismo forse non stupisce. Ma dalla sponda opposta, cioè dal partito dei sostenitori del Ttip (Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti), arriva un messaggio analogo. Carlo Calenda, ministro dello Sviluppo economico che ha sempre difeso i benefici del Ttip per l’Italia, quasi si arrende: «Manca la fiducia verso tutto ciò che sa di internazionalizzazione». L’atmosfera è simile sull’altra sponda dell’Atlantico. Barack Obama rischia di non portare a casa prima della fine del suo mandato neppure la ratifica del Tpp, l’altro trattato con l’AsiaPacifico che è molto più avanti nell’iter di approvazione. Il libero scambio è ostaggio della campagna elettorale. Donald Trump promette di abrogare, se eletto presidente, perfino il mercato unico nordamericano con Canada e Messico (Nafta). Hillary Clinton, incalzata a sinistra da un Bernie Sanders ufficialmente ancora in gara, e a destra dal protezionismo di Trump che seduce i colletti blu, ha preso le distanze anche lei da questi accordi globali. Forse la sua è solo tattica (in passato Hillary fu favorevole alle liberalizzazioni), ma
Il ministro ha ricordato che la prima fase della globalizzazione, all’inizio degli anni Novanta, fu asimmetrica: noi aprivamo le nostre frontiere ai prodotti dei Paesi emergenti senza chiedere subito reciprocità, perché li consideravamo i soggetti deboli. In seguito avremmo ottenuto l’apertura dei loro mercati. Quest’asimmetrìa ha generato effetti che oggi vengono contestati in tutto l’Occidente: mezzo pianeta ha imboccato la strada dello sviluppo, ma a casa nostra la classe operaia e anche larga parte del ceto medio si sono sentiti risucchiare verso il basso, i loro redditi hanno smesso di crescere o si sono impoveriti. Ora siamo in una fase nuova, «il Ttip ha l’obiettivo di riportare il timone della globalizzazione nelle nostre mani, è un antidoto agli squilibri causati dalla globalizzazione». Gli ostacoli da superare? Ancora molti, tra cui il protezionismo americano negli appalti pubblici. Sulla salute del consumatore l’Unione europea ha mantenuto il suo «principio di precauzione» come irrinunciabile. Non rientrano nei negoziati gli organismi geneticamente modificati (Ogm). Questi dettagli contano meno di qualche mese fa. Il contenuto del trattato oggi passa in secondo piano, di fronte al terremoto geopolitico. Brexit mette fuori gioco il Regno Unito, da sempre favorevole al libero scambio. S’indebolisce l’asse atlantico. Le forze politiche in ascesa sono d’impronta nazionalista, favorevoli al protezionismo. L’11 luglio
Dopo il terremoto di Brexit si indebolisce l’asse atlantico. Le forze politiche in ascesa sono favorevoli al protezionismo
dall’inizio Mercato unico e Nafta avevano in embrione i problemi destinati a esplodere oggi. Le riforme di mercato degli anni 90 arrivano al termine di un’offensiva neoliberista travolgente: gli anni Ottanta con Ronald Reagan e Margaret Thatcher hanno delegittimato l’economia mista, il capitalismo di Stato, la pianificazione, la concertazione sindacale. Il crollo del Muro di Berlino ha sancito il fallimento dei sistemi comunisti. L’implosione dell’Urss e dei suoi satelliti è l’altra faccia di una storia di successo: di qua dal Muro, l’America e l’Europa occidentale hanno conosciuto decenni di sviluppo e diffusione del benessere, che hanno coinciso con i primi smantellamenti di barriere doganali. Dal 1947 al 1995 il Gatt e la Cee sono stati i primi esperimenti di libero scambio. Con gli anni Novanta la parola d’ordine diventa: andare più avanti, molto più avanti. Reagan-Thatcher sposano le teorie di Milton Friedman, premio Nobel dell’economia, capo della «scuola di Chicago». Qualsiasi laccio che freni il mercato va abolito perché impedisce il dinamismo e la creazione di ricchezza. Senza più barriere e protezionismi ciascun Paese può specializzarsi nelle cose che fa meglio e sfruttare i «vantaggi comparativi». Fin da allora si levano alcune voci critiche. Jacques Delors, socialista e cattolico, è il presidente della Commissione europea che gode dell’appoggio di François Mitterrand. Delors vede la necessità che il Mercato unico sia accompagnato da una «carta sociale» dei diritti: per evitare che la competizione fra Paesi di livello diverso si trasformi in una «rincorsa al ribasso» verso il minimo comune denominatore. Nel Mercato unico c’è qualcosa dell’idea di Delors. Tant’è che i conservatori inglesi allora denunciano un’Europa «socialista» che impone rigidità al mercato del
AFP
Politica e Economia
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Politica e Economia
Ticino e Baviera, possibili sinergie AlpTransit e ricadute Quanto hanno in comune le due regioni?
Forse più di quanto si immagini, e una volta completata la galleria del Monte Ceneri potrebbero nascere interessanti scenari
Edoardo Beretta È lecita la prima reazione di stupore all’accostamento di due realtà apparentemente diverse fra loro come il canton Ticino e il Libero Stato della Baviera: se poi si azzardano parallelismi da un punto di vista economico con le rispettive nazioni (dove il vicino bavarese è in pole position rispetto agli altri Stati federali), gli interrogativi paiono davvero troppi. Eppure, nella fattispecie, è l’approccio del lettore scettico ad essere idoneo alla lettura: non c’è risposta univoca − solo scenari potenziali − alla domanda: «quale futuro (comune) per Ticino e Baviera dopo AlpTransit?». La prima certezza è che il progetto
svizzero di alta velocità ferroviaria in corso di ultimazione consentirà collegamenti più rapidi ed efficienti fra Lugano e Zurigo e, di converso, il resto d’Europa. Dal 2020, una volta entrate in piena funzionalità le gallerie di base del Monte Ceneri e San Gottardo, la riduzione dei tempi di percorrenza fra Zurigo/Basilea/Lucerna ed il Ticino sarà a pieno vantaggio dei cantoni interessati. Se l’effetto economico, che un miglioramento dei collegamenti fra piazze finanziarie svizzere (oltre che mete turistiche reciprocamente attrattive) potrà ingenerare, può apparire aleatorio da stimare ora, è certo che esso si estrinsecherà appieno nel futuro. Convincersi che gli stessi nessi causali possano funzionare con la Ba-
viera pare più complesso: e poi perché non anche con il vicino Baden-Württemberg ed il suo capoluogo Stoccarda, «patria dell’automobile» e centro di fervida ricerca scientifica? Nella fase post-AlpTransit la ricca Monaco sarebbe raggiungibile in tempi ancor più brevi ed altrettanto varrà per Stoccarda. Di particolare attrattività per il Ticino e le sue relazioni commerciali/ finanziarie future può essere proprio la componente socioculturale bavarese (valevole per la comunanza dell’essere al sud dei rispettivi Paesi). Non bisogna essere sociologi per percepire come Ticino e Baviera − e lo stesso dicasi per Lombardia e Catalogna – siano omologabili per un sentimento comune, cioè essere «diversi» rispetto
L’apporto economico di Ticino e Baviera VAL, 2013 (miliardi di CHF) Agri- e silvicoltura, pesca Attività estrattive, di produzione, costruzione Fornitura di elettricità, gas, vapore, aria condizionata, acqua, trattamento di rifiuti, istruzione, servizi sanitari Commercio e riparazione di veicoli, trasporti, servizi di alloggio, ristorazione, informazione, telecomunicazioni Servizi finanziari, assicurativi Attività immobiliari, scientifiche, tecniche, amministrative, artistiche, di supporto, intrattenimento, divertimento Amministrazione pubblica Economie domestiche VAL, 2013 (miliardi di €) Agri- e silvicoltura, pesca Attività produttive Commercio, trasporti, ristorazione, informazione, telecomunicazioni Servizi finanziari, assicurativi, di impresa, alloggio, gestione dei terreni Amministrazione pubblica, educazione, salute, economie domestiche
Ticino 83 6’968
Svizzera 4’369 149’371
2’610
59’917
7’195 1’889
150’424 64’071
3’204 2’222 2’532 26’703
78’314 66’010 41’500 613’796
Baviera 4’075 155’656 91’033 116’394 86’171 453’329
Germania 21’657 775’658 511’338 654’807 562’152 2’525’612
L’imbocco di AlpTransit a Bodio: sarà anche una porta sulla Baviera? (Keystone)
al resto del Paese e contribuire proprio per questo al suo arricchimento. Se nel caso lombardo e catalano motivi economici forse prevalgono su quelli culturali, il Ticino è pur sempre l’unico cantone pienamente italofono, che gli consente di essere un valido trait d’union con la ricca e produttiva regione padana. Nella storia, se con la Penisola è stato il rapporto linguistico a creare solide basi comuni per intense relazioni economiche, con la Baviera nell’era post-AlpTransit potrebbe essere determinante «l’unicità» ticinese. Gli amici bavaresi si sentono «speciali» − per motivi linguistici (cfr. il tanto curato e praticato Bairisch), territoriali (cfr. lo sbocco alpino e turistico), economici (cfr. il secondo apporto al PIL nazionale) e culturali (cfr. l’importanza di tradizioni e radicamento territoriale). Le particolarità ticinesi, che potrebbero rivestire interesse nella tessitura di ulteriori rapporti con Oltralpe, risiederebbero nella posizione strategica a mo’ di «cerniera» con l’Italia, nella combinazione fra orografia alpina e flair mediterraneo e visione autonoma
di sé. Da un punto di vista economico, invece, le differenze sono maggiori – anche solo per estensione geografica (2813 km vs. 70’550 km) e numero di abitanti (346’539 vs. 12’744’475) – come illustra l’apporto rispettivo dei settori economici per Valore Aggiunto Lordo. Lo sforzo di lettura deve essere in chiave «sinergica» per valutare le possibilità di mutua collaborazione. Sarebbero gli enti preposti a dovere esperire il potenziale economico postAlpTransit: puntare sul solo turismo sarebbe sì riduttivo, ma comunque (utilizzando l’armamentario del marketing) contribuirebbe a creare tutte le premesse per incrementarne indotto e ripresa. L’ambito logistico beneficerebbe della riduzione delle distanze – almeno per i trasporti su rotaia – con altri Paesi europei, incrementando la strategicità geografica di Svizzera e Ticino. Anche per la ricerca scientifica ed il settore manifatturiero gli sbocchi potrebbero essere molteplici. Gli scenari possibili sono oltremodo interessanti: si tratterà, però, di saperli sfruttare (al meglio).
Perequazione finanziaria, pochi cambiamenti Solidarietà federale Il Consiglio federale ha reso noti gli importi per il 2017. Sono sei i cantoni che verseranno
più di quanto riceveranno. Il Ticino incasserà ancora 47 e i Grigioni 268 milioni di franchi
Ignazio Bonoli Sostanzialmente si prevedono pochi cambiamenti nel 2017 rispetto a quest’anno nella perequazione finanziaria fra cantoni e con la Confederazione. L’anno scorso le Camere federali avevano deciso il sistema di finanziamento per i prossimi quattro anni, affidando al Consiglio federale il compito di adeguare gli importi da assegnare (o da percepire) annualmente, adattandoli di volta in volta al rincaro e alle risorse fiscali dei singoli cantoni. Così, il Dipartimento federale delle finanze ha pubblicato il 23 giugno scorso i nuovi dati per il 2017. I cambiamenti rispetto al 2016 sono relativamente pochi. Ci sono sempre sei cantoni che pagano di più di quanto ricevono dalla Confederazione, mentre gli altri venti cantoni e semicantoni possono contare su un saldo positivo. Tra questi vi sono però sette cantoni per i quali il saldo positivo della compensazione è poco significativo. Tra questi, oltre a Vaud, vi sono cinque cantoni tra i più piccoli, come Nidvaldo, Sciaffusa, Basilea Campagna, Obvaldo, Appenzello Interno. Il saldo a favore dei cantoni
comincia a diventare più consistente verso una fascia centrale di cantoni, tra i quali il Ticino, che si avvicinano alla cinquantina di milioni di franchi da ricevere. Appenzello Esterno e Ticino con 47 milioni. Da qui in avanti l’ammontare della compensazione comincia a farsi interessante: Glarona 71 milioni, Uri 77 milioni. Sopra i cento milioni si trovano Neuchâtel (141), il Giura (159) e Lucerna (189). Da lì le cifre positive (per i cantoni) diventano più importanti, fino a raggiungere i 663 milioni del Vallese e addirittura i 1’287 milioni di Berna. Anche il cantone dei Grigioni è tra i più favoriti, con 268 milioni. I cantoni che invece versano contributi alla perequazione finanziaria sono Zurigo (444 milioni), Zugo (341 milioni), Ginevra (258 milioni), Svitto (181 milioni), Basilea Città (108 milioni) e Nidvaldo (37 milioni). Da notare che per tutti questi cantoni le cifre da versare risultano in aumento rispetto a quest’anno. Per Zugo l’aumento è di 15 milioni, per Basilea Città di 16 milioni e per Ginevra di 13 milioni. Quelli che si vedono invece aumentare in modo sostanzioso i saldi positivi sono Vallese (+57 milioni), Soletta
(+49 milioni), Argovia (+34 milioni) e Vaud (+27 milioni). I Grigioni hanno invece un aumento di 10 milioni, mentre il Ticino perde circa un milione di franchi. Il totale dei soldi da destinare alla perequazione finanzia-
Berna guida la classifica dei cantoni beneficiari. (Keystone)
ria è pure aumentato di 55 milioni di franchi, salendo a 4,987 miliardi. Se si vuole ponderare il saldo per cantone in base alla popolazione, si trova in testa il canton Zugo con 2901 franchi tra i pagatori e il canton Giura, con 1948 franchi per abitante, fra i maggiori beneficiari. Il calcolo di quanto un cantone deve versare al sistema di perequazione avviene sulla base delle riserve fiscali, basate a loro volta sul reddito e la sostanza delle persone fisiche e sugli utili delle società, rispetto alla media nazionale. Così, per il 2017 si può constatare un aumento di 7,6 punti per Nidvaldo, di 7,4 punti per Obvaldo, di 6,5 punti per Neuchâtel. Si constata però una diminuzione per Sciaffusa (–2,9 punti), per Vaud (–2,5) e Soletta (–2,1). Si ricorderà che anche il Ticino, una decina di anni fa, si situava fra i cantoni pagatori. Un altro fattore importante della perequazione sono gli oneri particolari che devono sopportare i cantoni periferici o cittadini. L’apposito fondo per queste compensazioni è diminuito a causa dello 0,4% di rincaro negativo preso in considerazione. Questo fondo di compensazione per motivi
geografici verserà comunque 715 milioni. C’è infine un terzo fondo, destinato alla compensazione dei casi di rigore. La sua durata è prevista in 28 anni e la sua dotazione diminuisce ogni anno del 5%. Nel 2017 verserà in totale 323 milioni. Come di solito, il rapporto dell’Amministrazione federale delle finanze è stato sottoposto ai cantoni per esame. Solo a fine settembre è prevista una presa di posizione della Conferenza dei direttori cantonali delle finanze. In questi ultimi anni il problema della perequazione finanziaria è stato sollevato a più riprese (vedi «Azione» del 22.2.16). I cantoni «pagatori» vorrebbero ridurre gli oneri a loro carico, mentre i «beneficiari» non sono disposti a cedere parte delle loro entrate. Il momento è reso ancora più difficile dall’applicazione della nuova legge sulla tassazione delle società di sede, che farà diminuire le entrate fiscali, di particolare importanza per alcuni cantoni. Difficile però che si possa giungere a una revisione di tutto il sistema, nato da un faticoso accordo fra le parti e che il Consiglio federale non vorrebbe rimettere in gioco.
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi I 125 anni della «Rerum Novarum» L’enciclica di papa Leone XIII «Rerum Novarum» che ha avuto un ruolo di grande importanza nella definizione della politica sociale della chiesa cattolica ha appena compiuto i 125 anni. È un anniversario da ricordare perché oggi, come allora, siamo alla ricerca di soluzioni per risolvere la questione di come far vivere bene l’insieme della popolazione. Si tratterebbe, né tanto, né poco, di trovare un sistema economico giusto che consenta a ciascuno di vivere dignitosamente. Nel 1891, l’alternativa in discussione era quella tra capitalismo e socialismo. Papa Leone, nella sua enciclica, non accettò né l’una, né l’altra. Si sforzò invece di descrivere quella che, oggi, definiremmo una terza via tra la dominazione assoluta del mercato o il potere, altrettanto assoluto, dello Stato. Riducendo la sua proposta all’osso, si può affermare che il pontefice di allora considerava
giusto quel sistema economico che avrebbe permesso ai lavoratori di conseguire un salario sufficiente non solo a mantenere se stessi e le loro famiglie, ma anche a risparmiarne una parte in modo da conseguire, col tempo, un piccolo capitale da destinare – eravamo alla fine dell’Ottocento e in quasi tutte le nazioni europee il settore di produzione dominante era l’agricoltura – all’acquisto di una piccola proprietà fondiaria. Il papa dunque non si fidava né dello statalismo dei modelli socialisti, né della tendenza alla concentrazione della proprietà dei mezzi di produzione e alla distribuzione sempre più ineguale di reddito e sostanza insita nel capitalismo. Ma non si fidava neppure dello sviluppo urbano promosso dalla nascita dei grandi complessi industriali. La sua visione dell’economia era quella di un insieme di piccoli produttori agricoli
e di piccole aziende artigianali e industriali. I commentatori della «Rerum Novarum» affermano che è da questo documento che sono nate le spinte per creare i partiti politici e i sindacati di ispirazione cattolica. Sono questi movimenti che hanno operato per tradurre le aspirazioni dell’enciclica papale nel concreto. Da questo profilo la realizzazione più importante è stata la «Soziale Marktwirtschaft» (economia sociale di mercato) introdotta, alla fine degli anni Quaranta dello scorso secolo, dal governo democristiano in Germania e copiata da un buon numero di altre nazioni. Questo sistema economico era caratterizzato, da un lato, dall’introduzione di tutte le assicurazioni sociali dello Stato di benessere come pure da una tassazione severa delle successioni e, dall’altro, dal riconoscimento di un diritto alla co-gestione dei lavoratori. Gli
stessi potevano delegare loro rappresentanti nei consigli di amministrazione di tutte le società più importanti del Paese. Il riconoscimento di questo diritto alla co-gestione ha resistito fino ad oggi a tutte le trasformazioni in senso liberistico che ha subito il concetto di «Soziale Marktwirtschaft» nel corso degli ultimi tre decenni. È giusto aggiungere che la «Rerum Novarum» è stata ripresa e ampliata, ma non modificata nei suoi orientamenti principali, da tutta una serie di encicliche dei papi del Novecento e anche di quelli che hanno condotto la chiesa cattolica nel nuovo secolo. Ci sono state, in particolare, un’enciclica di Pio XI per celebrare i 40 anni della «Rerum Novarum», nel 1931, una di Paolo VI per ricordarne gli 80, nel 1971. Non c’è stata un’enciclica per i 120 anni ma potrebbe, chi lo sa?, essercene una per sottolinearne i 125.
Ricordiamo infine che, al di là della sua importanza per la chiesa cattolica e i movimenti della società civile da essa ispirati, la «Rerum Novarum» viene ricordata anche come uno dei tre piloni sui quali si regge la teoria sociale dello Stato del benessere. Gli altri due sono rappresentati, da un lato, dal contributo del neo-liberalismo di stampo keynesiano che ha prodotto le politiche di controllo della domanda aggregata per assicurare la piena occupazione nonché i sistemi di assicurazione sociale e di fiscalità progressiva ispirati dal rapporto Beveridge, e, dall’altro, i disegni socialdemocratici di economie miste nei quali una fetta consistente dei mezzi di produzione – in particolare quelli che, nei domini dell’energia e dei trasporti, venivano considerati come «monopoli naturali» – dovevano essere in mano dello Stato.
Theresa May che diventa primo ministro, sono soltanto l’ultima conferma. I due leader politici europei più importanti degli ultimi decenni, Margaret Thatcher e Angela Merkel, sono donne; e Hillary Clinton è la prima donna ad affacciarsi sulla soglia della Casa Bianca (persino l’arrembante destra populista si affida alle donne: Marine e Marion Le Pen in Francia, Frauke Petry in Germania, Beata Szydlo premier in Polonia). L’Italia è più indietro. Certo, le donne fanno le astronaute, come Samantha Cristoforetti, e dirigono il Cern di Ginevra, come Fabiola Gianotti. Sono donne il sindaco della capitale, il presidente della Camera, il numero 2 del governo, i direttori delle principali carceri, gli amministratori o i presidenti delle più grandi case editrici: tutti sostantivi che dovremo abituarci a declinare al femminile. Ma le discriminazioni resistono; l’Italia è ancora un Paese maschilista. Ma perché le donne sono più adatte a
governare in questa fase della storia? Solo perché, almeno in Europa, non si fanno più le guerre? No, non soltanto per questo. Le donne sono le più attrezzate a prevenire i grandi rischi e a cogliere le grandi opportunità che abbiamo di fronte. Perché sanno preservare; e la terra deve essere preservata. Le donne non guardano soltanto all’oggi ma al domani, hanno a cuore il futuro, i figli, i nipoti e il mondo che li attende. Evitano lo spreco, sono più disponibili a battersi per l’ambiente e le energie pulite; perché hanno compreso che la terra non è immortale, e tocca a noi prendersene cura. Perché le donne, con la loro intelligenza duttile, riusciranno meglio a padroneggiare la rivoluzione dell’intelligenza artificiale. Di solito si pensa che le studentesse siano più portate per le discipline umanistiche. Non è così, come dimostra la loro crescita nelle discipline scientifiche: fisica, chimica, ingegneria. Sono materie in cui il
metodo, la costanza, la razionalità, la serietà di fondo hanno bisogno di essere arricchite dall’intuizione, dall’estro, dal talento, dal senso estetico. E anche dalla sensibilità necessaria ad affrontare l’evoluzione che ci porterà al mondo «post-umano»: dominato dall’intelligenza collettiva del computer e della rete, con possibilità vertiginose di comunicazione ma anche di manipolazione della vita, della verità, del patrimonio genetico, della coscienza. Insomma, l’informatico e l’ingegnere sono mestieri troppo delicati per essere lasciati solo agli uomini. Questo non significa che Theresa May avrà un compito facile. Di sicuro ha dimostrato di essere accorta. Non si è sbilanciata troppo, ha scelto il remain ma senza dannarsi l’anima; e alla fine ha prevalso sui maschi che hanno guidato i due schieramenti. Ha battuto la rivale interna che ha provato a usare contro di lei la propria maternità. La May non ha figli; ma questo non le impedirà certo di governare il Regno Unito.
i tecnocrati hanno fatto degli errori e le persone comuni ne hanno pagato il prezzo. L’introduzione di una moneta europea imperfetta, una strategia tecnocratica per eccellenza, ha portato all’immobilità e alla disoccupazione e sta disgregando l’Europa». L’editoriale post-Brexit della rivista inglese sostiene anche che, per non sentirsi inadeguato e se intende veramente contrastare il populismo, il liberismo deve ritrovare e difendere i suoi valori fondamentali in un’Europa in cui tutti i maggiori partiti sono in crisi perché «invece di distribuire i vantaggi della globalizzazione si sono concentrati su qualcos’altro. La sinistra è passata a occuparsi di cultura: dalle questioni legati al razzismo, all’ambiente, ai diritti umani e alle discriminazioni basate sul genere o sull’orientamento sessuale. La destra invece ha predicato il miglioramento individuale attraverso la meritocrazia, ma non è riuscita a garantire a tutti la possibilità di partecipare al gioco». Nel mio tentativo la globalizzazione è rimasta costantemente nel mirino, ma i
bersagli avrebbero potuto essere quelli legati a scelte Ue in materia economica (contro i Paesi mediterranei o il referendum della Grecia) e di politica monetaria (i salvataggi delle banche fatti pagare ai contribuenti anziché agli azionisti). Ma perché solo adesso le élite burocratiche mostrano la loro inadeguatezza con la globalizzazione e sembrano in difficoltà? Una risposta può forse giungere da un’intuizione di James Traub che su «Foreign Policy» ha spiegato come la rivolta delle masse e le derive populiste – in Gran Bretagna e in Europa, ma anche negli Usa – siano oggi sostanzialmente diverse rispetto a quelle degli anni Sessanta (Guerra in Vietnam, maggio 68 ecc.): negli anni Sessanta le élite erano nel caos perché fuggivano da giovani che si ribellavano al mondo dei loro genitori; oggi invece le élite sono confuse perché fuggono da genitori che si ribellano contro il mondo dei giovani. Quindi fuggono da un’Ue adolescente e digitalizzata, incapace di mostrarsi adulta oltre che globalizzata.
In&outlet di Aldo Cazzullo La rivoluzione delle donne Tante speranze del mondo moderno sono tramontate: gli Stati Uniti d’Europa; la pace e l’amicizia tra i popoli; la coesistenza tra le religioni; l’illusione che il progresso sarebbe durato all’infinito, che la tecnologia avrebbe sempre creato ricchezza e lavoro, che la terra e l’uomo fossero immortali. Una sola, tra le conquiste degli ultimi decenni, ha messo radici: la rivoluzio-
ne delle donne. Per questo è fondamentale difendere i diritti e le libertà che le donne hanno conquistato, e conquisteranno nei prossimi anni: dal mondo islamico alla Cina, dall’Africa all’India. Dirlo non è da «maschio femminista», espressione orribile; è da persona obiettiva. In molti Paesi la rivoluzione è un fatto compiuto. Le notizie da Londra, con
Theresa May è il successore di David Cameron al 10 di Downing Street. (AFP)
Zig-Zag di Ovidio Biffi Liberismo e inadeguatezza delle élite «Le nostre élite non sono come quelle di Russia, Turchia o altri Paesi non propriamente democratici, non impongono scelte; se ora sempre più sovente agiscono nella medesima direzione è perché sono spinte o condizionate dai populismi» mi scrive un amico, commentando un mio articolo apparso sul «Corriere del Ticino». Cita l’esempio ormai classico di Cameron che, dopo aver indetto un referendum voluto per affrancarsi dal populismo montante, si dimette. Non contesto, solo gli faccio notare che anche chi ha veramente voluto e vinto il referendum, Boris Johnson, ha dovuto farsi da parte, tradito da un’élite che lo ritiene inadeguato a succedere a Cameron. Ma l’inadeguatezza è piuttosto delle élite stesse, come mi suggeriscono un furto, una citazione e un’intuizione. Il furto è ai danni di Federico Rampini che a inizio mese così apriva il suo articolo su questo giornale: «Questo voto – ha detto Barack Obama a David Cameron e Angela Merkel – ci dice quanto siano formidabili le sfide della
globalizzazione. Ora è indispensabile che governiate in modo ordinato la transizione, verso la relazione futura tra il Regno Unito e l’Unione europea». Rampini porta in primo piano un argomento poco citato prima e durante la campagna per il referendum inglese: la globalizzazione. È strano ritrovare come priorità da salvaguardare proprio la globalizzazione. Ma a pensarci bene, non sono forse decenni che le élite politiche cavalcano e gestiscono un mondo ciecamente votato alla globalizzazione, quindi facendo leva su una scelta per la quale nessun governo, nessun parlamento e nessun popolo ha mai votato? Forse la globalizzazione era una via obbligata, unica. Ma doveva proprio essere anche senza regole? A metà del secolo scorso Thomas Mann scriveva: «Mi auguro un ritorno all’etica del primo capitalismo, alla borghesia come nobiltà del merito: il rispetto del lavoro ben fatto, dell’opera, della ricompensa giustificata, e non la raccolta di denaro come attività staccata da qualsiasi forma di produzione». L’au-
spicio di Mann oggi mette in evidenza la nostra miopia e i fallimenti delle classi politiche moderne, ma indica anche quanto abbiamo perso, distrutto o sacrificato sull’altare della globalizzazione. Lo ha spiegato in modo diverso un mirabile editoriale dell’«Economist» in cui erano analizzate le cause che stanno spingendo gli elettori a dire no al libero mercato, alla libera circolazione di persone e merci, alla costante perdita di sovranità delle singole nazioni a vantaggio di organismi sovranazionali più arroganti che democratici. Il settimanale inglese afferma senza mezzi termini che inseguendo la globalizzazione sono stati lesi e trascurati i fondamenti ideologici del liberismo, visto che la maggioranza della gente crede di non essere più in grado di dirigere la propria vita in «ambiente politico circoscritto, tecnocratico e ossessionato dalle procedure». E qui giunge l’amara autocritica dell’«Economist»: «La loro rabbia è giustificata. I sostenitori della globalizzazione, compresa questa rivista, devono riconoscere che
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Cultura e Spettacoli Una vita da zucchina Ma vie de courgette, animazione di Claude Barras, è un piccolo gioiello cinematografico
Un po’ di Sardegna a Zurigo Il Museo Archeologico dell’Università di Zurigo dedica una mostra alla Sardegna nuragica
Il Titanic a Melide Mancano poche settimane al debutto del musical Titanic, in palio biglietti per i lettori
Antichi sport Continua il nostro viaggio nelle Olimpiadi dell’antichità, questa volta con le discipline sportive pagina 31
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Montagna e violoncello, un amore Musica Fino al 26 agosto andrà in scena l’amata rassegna «I suoni delle Dolomiti» – ne abbiamo parlato
con il suo fondatore, il violoncellista Mario Brunello
Enrico Parola pagina 28
Toscanini, che diresse le «prime» delle opere di Puccini e spiegava ai tedeschi come suonare Wagner, sosteneva che all’aria aperta si può solo giocare a bocce. Rostropovich, il più grande violoncellista di sempre, esiliato dalla Russia per aver nascosto per quattro anni Solgenitsin nel suo appartamento di Parigi, si mise a suonare Bach davanti al Muro di Berlino che crollava. Tra i due opposti Mario Brunello è andato oltre. O molto più in alto. C’è sempre un violoncello nei momenti in cui la musica interseca il resto del mondo, e quello seicentesco del maestro veneto, color brunito e una testa umana scolpita al posto del canonico ricciolo, ha sfiorato i 3mila metri, è vibrato tra rocce e ghiacciai, sotto guglie dolomitiche e si è confuso nell’erbe degli alpeggi. Ascoltato dal vento, talvolta dalle marmotte e dai cervi; negli ultimi vent’anni anche da orecchie umane. Se prima erano poche decine, ormai sono a migliaia. Dal 1995 i «Suoni delle Dolomiti» richiamano appassionati di musica e-o montagna su rifugi, prati e vette del Trentino-Alto Adige; ormai c’è di tutto un po’: sabato ha inaugurato Neri Marcorè, poi arriveranno il jazz di Stefano Bollani sotto il Sassolungo, Richard Galliano in Val Rendena, orchestre gipsy davanti alla Marmolada, l’etnica Cristina Donà alla Paganella, un altro astro del violoncello classico e ospite fisso di Martha Argerich a Lugano, Mischa Maisky, tra le Pale di San Martino. Ma il pioniere delle prime edizioni, il fantasista delle ultime, l’anima e l’icona di tutte è sempre lui, Brunello.
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In bilico fra contestazione e tradizione Mostre Francis Picabia al Kunsthaus
di Zurigo
Il Kunsthaus di Zurigo dedica una bella, intensa e dettagliata esposizione a Francis Picabia. L’occasione è il centenario del movimento Dada, anche se, a onor del vero, Picabia è non solo ma anche dadaista. Ma chi era Picabia? Un furbastro? Un dandy? Un collaborazionista? Un anti-artista per eccellenza, come recita il suo epitaffio dettato direttamente da lui? Uno squilibrato? O forse semplicemente un playboy, come amava definirsi? Magari tutte queste cose messe assieme. Quello che è certo è che era molto volubile. Fino a qualche decennio fa si sarebbe detto «nomade», per rendere nobilmente l’idea di qualcuno che spazia da un’idea all’altra, da un risultato all’altro, da una tecnica all’altra. Magari un postmoderno. Sta di fatto che l’esposizione al Kunsthaus rende l’idea di un percorso cronologico tutt’altro che lineare. Le mostre si possono vedere in tanti modi: velocemente, chiacchierando, puntigliosamente, passeggiando… Probabilmente il metodo migliore è quello di osservare con calma le singole opere, magari nei dettagli, e al termine riattraversare speditamente tutto il percorso espositivo per coglierne l’essenza. In questo caso noterete subito che le opere sembrano realizzate da personaggi diversi. Un pregio? Un difetto? Decidete voi. L’esposizione si snoda cronologicamente e nello stesso tempo per temi dando l’idea perfetta del carattere dei suoi lavori: ibridi, caleidoscopici, metamorfici. D’altronde Picabia si è mosso lungo l’arco della sua vita attraverso una serie di linguaggi che spaziano dalla pittura alla stampa, dalla scrittura al teatro, fino al cinema, in una sorta di autonegazione di se stesso e dell’arte. Alla fine si potrebbe dire che il suo modus operandi sia stato per tutta la vita l’irrisione e l’irriverenza; che sono caratteristiche del movimento Dada. Sino al periodo maggiormente controverso: quello dell’occupazione nazista della Francia durante la Seconda guerra mondiale e l’instaurazione del regime fantoccio di Pétain. Picabia in questi anni inizia a produrre oli figurativi ammiccanti le nudità proprie del Terzo Reich. Le sue fonti iconografiche sono le riviste come «Paris Sex Appeal», da dove copia l’opera del 1940 Femme au
Come è nato l’incontro tra musica e montagna?
Amo la montagna, sci d’alpinismo a marzo, scalate e trekking d’estate; ho una baita sperduta tra le dolomiti feltrine, nel bellunese, dove ogni estate mi rifugio in eremitaggio a studiare e suonare. Quando nel 1994 mi lanciarono la sfida dissi solo una parola: finalmente! Che cosa unisce la montagna alla musica?
Il silenzio e il suono, ma quelli veri. In
Non sarà la suggestione provocata dalla bellezza oggettiva dei panorami?
Lo può pensare solo chi non c’è mai stato. Lo spettacolo della natura ti immerge in uno stato di contemplazione e ascolto irripetibile; la natura non vive nel silenzio ma lo provoca, sembra pretendere il silenzio per far sentire il suo respiro. Mario Rigoni Stern coglieva nell’alba che incendia le vette un fremito che non è il vento: lo considerava il ripetersi miracoloso del brivido della creazione. Il silenzio della natura è a sua modo una musica recondita. La prima volta?
Nel 1995, in un canalone roccioso sotto lo strapiombo delle Torri del Vajolet. Scelsi la Terza Suite di Bach perché è asciutta, spigolosa e allo stesso tempo imponente, dà il senso dell’ampiezza. C’erano duecento persone, tra cui una non vedente: «Ho camminato per due ore, accompagnata fino a qui, perché il mio sogno era ascoltare Bach in mezzo alle montagne» mi disse; la sola idea che quella signora, attraverso quelle note, avesse potuto immaginarsi le montagne fu la certificazione che eravamo sulla strada giusta. Di strade ne ha aperte: dopo prati e rifugi facilmente accessibili sono arrivati i concerti all’alba e negli ultimi anni il trekking di tre giorni.
Per ampliare gli orizzonti e per recuperare l’intimità che con lo svilupparsi del festival si è persa. Non è un male, ne attesta il fascino e il successo, ma ora a certi appuntamenti dove si può arrivare con gli impianti di risalita o con sentieri in piano, su ampi pratoni, ci sono anche diecimila persone. Io volevo ritornare ai silenzi delle prime volte e così nel 2004 escogitammo i concerti alle 6 del mattino, in luoghi accessibili solo con sentieri non banali.
Mario Brunello in Val Rendena, Dolomiti di Brenta, durante il trekking del 2015. (Fototeca Trentino Sviluppo S.p.A. , foto Daniele Lira)
La prima volta fu al rifugio Alimonta, tra le Dolomiti di Brenta, con Bach e Erri de Luca, scrittore napoletano che ha saputo subito cogliere il senso della montagna; è venuta anche Margherita Hack a narrare l’universo; il primo raggio trafisse il nostro silenzio proprio quando stava raccontando del sole. Ma se all’inizio eravamo in poche decine, negli ultimi anni siamo arrivati ad essere anche più di 3mila. Ho provato anche al rifugio Pedrotti, a quota 2.850 raggiungibile dopo sei ore di cammino; c’erano più di seicento persone venute con le torce… E così il trekking.
A numero chiuso, massimo cento. Non per snobismo, si chiude col concerto in un luogo facilmente raggiungibile da chi sale dalla valle, ma il bello è che il programma nasce in quei tre giorni: io e gli altri musicisti – quest’anno un
dona il movimento e, come altri artisti, si lascia tentare dal «ritorno all’ordine»: un linguaggio formale declinato dal classicismo. Ma è anche il periodo di collisione con il Surrealismo. Per chi non l’avesse ancora visto è la buona occasione per ammirare il cortometraggio Entr’acte del 1924; diretto da René Clair con le musiche di Erik Satie e la scenografia di Picabia. Ventiquattro immagini per secondo per venti minuti di pura follia. Così lo commenta lo stesso artista: «Uno dei miei amici aveva comperato una scimmia magnifica che gli somigliava come un fratello, il che vuol dire che aveva una grossa personalità. Di ritorno a casa la chiuse in una stanza per vedere che cosa avesse fatto… aspetta un attimo, poi va a incollare l’occhio alla serratura della porta e vede… vede, dall’altra parte della serratura l’occhio della scimmia che lo guarda». In sostanza Picabia so-
stiene che gli altri sceneggiatori sono solo delle scimmie che guardano dal buco della serratura. Entr’acte invece è la serratura. Seguono i collage, i mostri, i trasparenti fino al neofigurativo della grande guerra. Gli ultimi anni sono segnati da un generico astrattismo. Alla fine del percorso espositivo, dietro una parete, si trovano i tardi disegni erotici. Prima l’artista si è concentrato su Suzanne Romain alla quale dedica dipinti espliciti e lettere, mutuate dal pensiero e dagli aforismi di Friedrich Nietzsche, che la incitano al completo abbandono del corpo senza rispetto né restrizioni. In seguito, verso il 1949-50, prova una sofferta passione per Christine Boumeester, compagna dell’incisore Henri Goetz. A lei dedica lettere con disegni di vulve baffute e peni eretti con il volto di un pesce. Sono
gli ultimi anni di vita: muore ultrasettantenne nel 1953. Un genio irrefrenabile e indisciplinato, come scrive Anne Umland, che si rispecchia nel pensiero nietzschiano dell’eterno ritorno. La mostra nasce in collaborazione con il Museum of Modern Art di New York dove si potrà vedere dal 20 novembre. Buona l’illuminazione come il catalogo con contributi, fra gli altri, di Cathérine Hug e Anne Umland, curatrici rispettivamente del Kunsthaus di Zurigo e del MoMA di New York. Dove e quando
Francis Picabia. A cura di Anne Umland e Cathérine Hug. Zurigo, Kunsthaus. Fino al 25 settembre. Catalogo Edizioni Fonds Mercator, E/D/F, fr. 65.–. www.kunsthaus.ch
violinista e un liutista – suoniamo dove capita e quando viene l’ispirazione, su una roccia, davanti a un laghetto, alla sera al rifugio; si parla e si ascolta, soprattutto si cammina e si guarda. È un’idea nata nel 2012 e che fino alle due prossime edizioni coinvolgerà musicisti dei Paesi toccati dalla Grande Guerra: nel 2018, centenario della fine del conflitto, vorrei formare un’orchestra della pace con tutti gli artisti che hanno partecipato ai trekking. Quest’anno oltre al trekking nella zona dell’Antermoia accompagnerà in Val di Non la danzatrice coreana Yong Min Cho: come sceglie luoghi e programmi?
Parto dai luoghi. Ora sono spesso gli uffici turistici a proporli, ma all’inizio e se posso ancora oggi vado in solitaria a cercarli e provarli. Ho portato il mio violoncello là dove è nato, tra gli
abeti di Paneveggio dove veniva anche Stradivari a prendere il legno per i suoi violini. Era l’inizio di marzo, sul terreno ancora la neve; ho provato a suonare vicino ai tronchi e sembrava che ognuno vibrasse in modo diverso. Lì ho portato a suonare uno dei maggiori violinisti viventi, Gidon Kremer, col suo Stradivari. Momenti da cartolina. Ma il classico temporale d’alta quota?
In vent’anni mai preso uno. Solo una volta abbiamo annullato un concerto perché davano forti temporali al pomeriggio e le guide alpine non volevano gestire mille persone in discesa su un sentiero non banale. Però sono capitate finestre da un’ora di sole in giornate di pioggia, giusto per farci suonare. La Montagna vuole ascoltare il violoncello.
Parliamone di Simona Sala L’eroe e la farfalla
Francis Picabia, Printemps, 1942-1943 ca. (Courtesy Michael Werner Gallery, New York, London, e Märkisch Wilmersdorf © 2016 ProLitteris, Zürich)
Keystone
Gianluigi Bellei
châle vert; «Paris-Magazine», dal quale trae la foto nuda di Valeria Ellenskaya pubblicata nel 1936 che gli serve come sfondo della composizione Le Juif errant del 1941, senza dimenticare i film di propaganda nazista di Leni Riefensthal, come Olympia del 1936 con i suoi corpi perfetti e bellissimi. D’altronde è Picabia stesso che dichiara di essere pro-Mussolini e anti-Lenin. Nell’ottobre del 1944 viene arrestato dalle autorità francesi con l’accusa di collaborazionismo. Un’accusa, questa che, anche se non provata, marchia per sempre l’artista, soprattutto dopo la guerra e il susseguente periodo di epurazioni. Yve-Alain Bois in un articolo intitolato Picabia: de Dada à Pétain pubblicato su «Macula» nel 1976 lo accusa di «indifferenza reazionaria». Bisogna dire però che in quegli stessi anni dipinge opere come L’Adoration du veau, da più parti considerata come una forte rappresentazione antiregime. Nel catalogo della mostra zurighese Michèle C. Cone scrive di collaborazione reale o simulata o di una combinazione di uno e dell’altro fattore. L’esposizione parte dal primo periodo divisionista che va più o meno dal 1905 al 1911. I suoi maestri sono Monet, Sisley, Pissarro. Segue quello dell’astrazione cubista. La source del 1912 è un’anamorfosi che dà le vertigini e la nausea con i suoi piani circolatori. Le sue «macchine» degli anni seguenti sono una sintesi di movimento e sesso. Allo scoppio della Prima guerra mondiale ottiene, grazie alle intercessioni del padre, un posto nell’ufficio del Ministero della guerra. Nel 1915 si reca a Cuba in missione militare per negoziare il prezzo dello zucchero per i soldati. Ricordiamo che il padre nasce a Cuba e discende da una ricca famiglia nobile, proprietaria di una piantagione di canna da zucchero. Decide di abbandonare la missione e susseguentemente si aggrava la sua depressione nervosa – iniziata nel 1908 prima del matrimonio con Gabrielle Buffet. Parte per Barcellona, poi Parigi e infine si stabilisce in Svizzera nel 1918. A Losanna è in cura presso il neurologo Hermann Brunnschweiler. Il 21 agosto Tristan Tzara gli scrive per invitarlo a prendere parte al movimento Dada a Zurigo. Inizia così un periodo fecondo e ricco di stravolgimenti, a cominciare dalla sua rivista «391». Nel 1921 abban-
una sala da concerto si sta attenti all’acustica, al bel suono di uno strumento; in montagna lo spazio è infinito e non c’è la cassa di risonanza che rimbalza il suono arricchendolo di armonici; il suono che esce dal violoncello deve viaggiare il più lontano possibile: lo considero il suono puro, quello che arriva diretto al cuore. Per me il silenzio non è l’assenza di altri suoni, ma uno spazio da riempire.
Anche se Cristiano Ronaldo o CR7 non fosse diventato campione d’Europa, avremmo comunque parlato di lui. Sarebbe stato il protagonista di questa settimana soprattutto per quello che di lui fanno e dicono gli altri. Come ben racconta il documentario del 2015 Ronaldo, realizzato dagli stessi autori di Senna e Amy – The Girl Behind the Name, CR7 è molto più del migliore calciatore esistente, è qualcosa di diverso dalla macchina da guerra idolatrata dalle ragazze di mezzo mondo e invidiata dai ragazzi dell’altra metà. Per la rabbia dei molti detrattori (li abbiamo visti anche sulla RSI, poi smentiti) non solo non presta il fianco a scaramucce e polemiche, preferendo
la solitudine e la compagnia del figlioletto di madre ignota Cristiano jr, ma insiste nell’affermare di essere il numero uno, di essere insuperabile. E ad assecondarlo non vi sono solamente i risultati, il folto e fedele entourage famigliare e i milioni (miliardi?) di ammiratori... lo scorso 10 luglio allo Stade de France il suo carisma è arrivato a influenzare anche i tecnici, che lo lasciavano sbraitare e agire indisturbato a bordo campo, e non da ultimo quella farfalla (era una falena, ma per noi resta una farfalla) che leggiadra e inattesa, si è posata per pochi istanti sulle ciglia di un Ronaldo ferito, lacrimante, che ancora non sapeva di diventare l’eroe della serata e degli Europei.
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Cultura e Spettacoli
Oniriche animazioni grazie a Claude Barras
Mobilità, forza, equilibrismo: le componenti della sua maestrìa. (Szilard Szekely)
Cinema In Ma vie de courgette l’animazione si trasforma
in crudele poesia
Giorgia Del Don Quest’anno la Quinzaine des Réalisateurs ci ha regalato un film che si è istantaneamente e sottilmente insinuato sotto la pelle degli spettatori, fin dentro il loro cuore. Questo piccolo grande miracolo si chiama Courgette e nasce dalla mente e dalle mani di un vero e proprio artigiano dell’animazione, il regista svizzero Claude Barras, allievo delle prestigiose scuole Emile Cohl di Lione ed ECAL (École cantonale d’art de Lausanne).
Il cinema di Claude Barras ricorda quello di Tim Burton, Ken Loach e Hayao Miyazaki Detto ciò quello che il suo toccante, forte ed etereo Ma vie de courgette sprigiona non è tanto l’ostentazione di un sapere che potremmo tranquillamente definire come certosino (l’animazione in stop motion, o «a passo uno» in italiano) ma piuttosto l’introduzione nel mondo dell’animazione di una tonalità chiaroscura molto lontana dal «buonismo» consensuale di molte produzioni dette per il giovane pubblico. Ma vie de courgette è un miracolo d’equilibrio, notevole sia nella forma sia nel contenuto, un film dedicato all’infanzia che non vuole strizzare l’occhio agli adulti ma che cerca piuttosto di attivare nei bambini la capacità rara che questi hanno di reinventarsi, di guarirsi con la spontaneità di un sorriso, con una carezza (anche rubata), con la forza dell’amicizia. Il risultato è che il primo, potente lungometraggio di Claude Barras non è un film per bambini fatto da adulti che ne imitano le emozioni, guardando i personaggi dall’alto in basso, bensì un gioiello che sembra uscito dalla mente dei bambini stessi, un prisma attraverso il quale vedere il mondo diversamente, con quella testarda ingenuità che solo l’infanzia possiede. Durante la breve ma intensa ora del film ci specchiamo negli immensi occhi dei personaggi, con loro tremiamo di paura e speranza, viviamo e respiriamo a pieni polmoni convinti che dietro l’orrore si nasconda per forza la redenzione.
Il pacifico e un po’ introverso Courgette (soprannome che gli ha dato sua mamma, e che in italiano significa «zucchina»), all’anagrafe Icare, non ha mai conosciuto suo padre e ha accidentalmente ucciso sua madre, un’alcolista con una spiccata preferenza per la birra, la quale riversava su di lui la sua collera repressa. Rimasto orfano, Courgette finisce all’istituto «aux Fontaines» accompagnato da un poliziotto dal grande cuore, dal suo aquilone e dall’inseparabile lattina di birra, unico ricordo della madre. Lì lo aspettano altri bambini ammaccati dalla vita: i genitori di Simon si drogano allegramente senza curarsi di lui, il padre di Ahmed è in prigione a causa di una rapina che ha commesso ai danni di una stazione di servizio, la mamma di Béa è stata rispedita in Africa e quella di Jujube è imprigionata nel suo delirio maniaco depressivo, senza dimenticare Alice, il cui sonno continua ad essere tormentato dalle «cose disgustose» che le ha fatto subire suo padre. Arriva infine Camille, la misteriosa e forte Camille, di cui Courgette si innamora perdutamente, che ha assistito all’omicidio di sua madre per mano di suo padre suicidatosi in seguito. «Si vede nei suoi occhi che ha visto tutto» dice Courgette all’amico Simon, con una lucidità e allo stesso tempo una benevolenza che non possono che toccarci nel profondo. Ma vie de courgette avrebbe benissimo potuto trasformarsi in un film dal realismo estremamente cupo, invece ha saputo appoggiarsi sulla crudeltà delle sue premesse per issarsi verso la luce, una luce dolce e tiepida, incerta e fragile come l’infanzia stessa. Il savoirfaire di Céline Sciamma, sceneggiatrice del film, tratto a sua volta dal romanzo di Gilles Paris Autobiographie d’une courgette, e già regista di una splendida trilogia sull’adolescenza (Naissance des pieuvres, Tomboy e Bande de filles) ha di sicuro giocato un ruolo importante nell’equilibrio della scrittura. Se Ma vie de courgette dovesse trovarsi dei padrini, potrebbero chiamarsi Tim Burton, per lo smalto ridato alla stop motion grazie a La sposa cadavere ma soprattutto Nightmare Before Christmas, Ken Loach per il realismo sociale catartico e mai miserabilistico e Hayao Miyazaki – come Claude Barras anche lo splendido regista giapponese ama infatti di-
pingere un’infanzia lontana dai cliché, entusiasta e incredibilmente spontanea malgrado le circostanze. In altre parole, quella leggerezza esistenziale libera da sospetti che gli adulti sembrano aver definitivamente perso. Sebbene «aux Fontaines» sia una sorta di oasi di pace dove potersi ricostruire godendo di un clima di tolleranza e amicizia mai sperimentato (ma magicamente iscritto nel DNA dei giovani ospiti), ciò non edulcora la storia di Courgette e dei suoi compagni di sventura. Le ferite che gli sono state inferte e che ancora bruciano non si sono certamente cicatrizzate, come dimostra il loro frequente e impressionante manifestarsi. Invece di sommergerci ed aggredirci, i sentimenti dei giovani protagonisti di Ma vie de courgette fanno pudicamente capolino durante gli evocativi silenzi che ritmano il film, durante i momenti di pace, quando ancora si sente l’eco delle emozioni, o attraverso gli sguardi che sembrano parlare direttamente al nostro cuore. La scelta (dettata da imperativi di produzione che si sono rivelati azzeccatissimi anche dal punto di vista artistico) di girare la quasi totalità delle scene in piano sequenza (lo stop motion è una tecnica esigentissima, un giorno di lavoro dà vita a soli trenta secondi di film!) permette ai nove animatori impegnati simultaneamente su quindici diversi teatri di posa di concentrarsi su ogni piccolissimo dettaglio che compone tanto i pupazzetti di plastilina quanto il decoro che li attornia, dando al film un soffio intimista, agli antipodi rispetto alla frenesia e alla spettacolarizzazione di tanti film d’animazione attuali. Ma vie de courgette respira e lo fa a pieni polmoni, vola come i suoi aquiloni in equilibrio fra realismo (per una volta le voci dei personaggi sono delle vere voci di bambini) e artigianato facendoci quasi dimenticare che ci troviamo di fronte a un film d’animazione. Magica in questo senso anche la colonna sonora di Sophie Hunger. «Siamo tutti uguali, non c’è più nessuno che ci possa amare» dice Courgette all’inizio del film. Ebbene noi avremmo voglia di rispondergli che noi ci siamo, e che le sue ammaccature sono anche le nostre, stigmate di un passato che gli auguriamo possa trasformarsi in poesia.
Szilard Szekely, maestro di acrobazia Personaggi L’equilibrista ungherese
ha insegnato a lungo alla Scuola Dimitri Giorgio Thoeni Per definizione, la riconoscenza è un sentimento di devozione verso un benefattore. Può manifestarsi in molti modi. In ogni caso il suo scopo sottolinea una nobiltà d’animo che si esprime attraverso un gesto simbolico, destinato a rimanere nella memoria. Recentemente abbiamo avuto il privilegio di assistere a una sorta di «surprise party» alla Fabbrica di Losone, un piccolo evento organizzato da un nutrito gruppo di ex-allievi della Scuola Teatro Dimitri di Verscio, oggi diventata Accademia. Sulle prime non ci era sembrato nulla di straordinario, ma la curiosità spesso viene premiata. Grazie alla segnalazione di David Matthäus Zurbuchen (fra i fondatori della Compagnia del Paravento, oggi attore in proprio), scopriamo presto che i festeggiamenti sono stati architettati in onore di uno di quei personaggi determinanti ma destinati a rimanere confinati nell’ombra, seppur non nell’oblio.
Il leitmotiv di Szilard Szekely è sempre stato il filo... persino alla Fabbrica di Losone
I protagonisti del film di Claude Barras.
Ma la storia dei dimenticati è spesso altamente rappresentativa, in certi casi determinante, nel ricostruire le ragioni del presente. L’occasione era offerta dagli ottant’anni di uno degli insegnanti storici della celebre scuola centovallina: l’ungherese Szilard Szekely. Dopo aver frequentato la scuola del circo di Budapest e lavorato nel settore si è trasferito a Verscio per le primissime mosse della neocostituita scuola (più di quarant’anni fa), dove è stato per anni maestro di acrobazia. È stato un personaggio di riferimento per molti dei suoi ex-allievi. Alcuni di loro sono attori affermati, membri di compagnie nate dopo l’esperienza scolastica oppure personaggi della scena teatrale svizzera. Mobilità, forza, equilibrismo: sono le componenti della maestrìa di Szilard Szekely dopo una vita intera dedicata
alla formazione artistica dei giovani. Forse molti non sanno che è anche stato maestro del clown Dimitri al quale, alla fine degli anni Sessanta, ha insegnato l’arte del «filo molle» – con cui Dimitri ha poi creato numeri divenuti storici. In un certo senso a lui si deve anche la nascita della Fabbrica di Losone, fondata da Michele Tognetti nel 1996. Il centro culturale, oggi di notevole importanza per il Locarnese, nacque dalla voglia di coltivare quell’originale forma di equilibrismo. Come ha dichiarato Tognetti, «L’idea di questa Fabbrica nasce dai fili… ho conosciuto il maestro Szilard Szekely dopo aver fatto costruire delle molle per lui e per altri artisti che camminavano sul filo e mi sono accorto che (…) la storia della Fabbrica è legata a quel filo». E il filo in qualche modo diventa metafora delle difficoltà legate al mantenersi in equilibrio di fronte alle sfide generate dalla passione per la cultura. Una missione che ben si concretizza nell’attività della Fabbrica: un luogo alternativo dove l’espressione artistica trova un tetto ideale e dove, il giorno del compleanno di Szilard, si è radunato appunto molto affetto sincero. Da Roberto Maggini, Alessandro Marchetti e Luisella Sala, ad Aline Del Torre & Martin Hommel (Compagnie Pas de Deux), senza dimenticare Markus Zohner, Patrizia Barbuiani, Ledwina Costantini, Rosario Ilardo e Sara Lerch (Wakouwa Teatro), per citarne solo alcuni. A parlare erano non solo le presenze, ma anche le testimonianze riassunte in alcune dediche trascritte su grandi fogli appesi: «A noi ha insegnato la determinazione e che niente è impossibile... ci ha trasmesso la sua saggezza, il suo spirito combattivo, la sua bontà. L’unicità di Szilard è che riusciva a far diventare acrobata anche un asino zoppo…»: un ricordo sincero di Simone Fassari e Camilla Pessi, i «Baccalà Clown» laureati con il Premio svizzero della Scena 2016. Fra i ringraziamenti, significativo quello di Alberto Foletti: «in lui c’era anche la nostalgia dei paesi dell’Est con lo stampo della scuola di movimento russa. E la voglia di oltrepassare la cortina di ferro anche solo con i pensieri, i sapori e i sogni: che all’epoca era già un’avventura!»
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Cultura e Spettacoli
Una terra di torri in mezzo al mare
Un piccolo capolavoro
Mostre La facoltà di archeologia di Zurigo invita a compiere
alle stampe un’opera della sorella dei Singer
Letteratura Bollati Boringhieri ha dato
un inatteso quanto affascinante viaggio nella storia della Sardegna Marco Horat
Simona Sala
«La bella età dei nuraghi» la chiamava Giovanni Lilliu, l’archeologo sardo che alla antica civiltà della Sardegna ha dedicato la sua vita di studioso. Dire Sardegna è dire nuraghi, quelle caratteristiche torri megalitiche costruite con pietre a secco a partire dalla metà del II millennio a.C. fino al I millennio a.C., che a centinaia costellavano (e in buona parte ancora si possono vedere) il territorio dell’isola. Gli archeologi parlano di almeno 7000 costruzioni originarie realizzate con pietra scura tipo basalto, alte fino a una ventina di metri, che dai crinali delle colline dominavano il paesaggio circostante, anche se le guide turistiche ne riportano oggi solo alcune decine che comunque per il viaggiatore frettoloso bastano e avanzano. Il complesso più spettacolare è quello di Su Nuraxi a Barùmini situato a poche decine di chilometri a nord di Cagliari: un insieme di muraglioni circolari o rettilinei costruiti con grande maestria, un cortile a cielo aperto con pozzo per l’acqua, dominato da un mastio centrale di tre piani a sezione tronco-conica con terrazza superiore, circondato da quattro torri orientate sui punti cardinali e resti di un ampio villaggio con case e botteghe nonché luoghi di culto, cresciuto fino al IV-III secolo a.C. ma ancora abitato in epoca romana. Duemila anni di storia a cavallo tra l’Età del Bronzo e quella del Ferro per un insediamento complesso e ben studiato: un castello ante-litteram con compiti difensivi, un’abitazione civile di prestigio per il signorotto locale e per la sua corte, ma anche magazzino per la conservazione delle derrate alimentari e per mettere al riparo gli animali domestici, cava di pietre di marna riutilizzate più tardi per costruire le abitazioni rurali che circondano il maniero, e infine riparo di fortuna e perfino cimitero in epoca romana. Prima di diventare definitivamente oggetto di studio archeologico e meta turistica di grande impatto, protetto dall’Unesco come Patrimonio dell’umanità. Una storia che si addice anche alle numerose altre strutture che, come detto, caratterizzano il paesaggio sardo. Isola ricca di rilievi e di valli che
Nascere di sesso femminile all’interno di una famiglia chassidica (il chassidismo fu un movimento di rinnovamento spirituale ebraico nato in Polonia nel XVIII secolo sotto l’egida del maestro e mistico Ba’al Shem Tov) non è sicuramente facile oggigiorno, ma doveva esserlo ancora meno all’inizio del secolo scorso, magari a cavallo tra le due guerre che avrebbero costretto in ginocchio l’Europa tutta. Probabilmente per questo motivo Hinde Esther Singer (1851-1954), sorella maggiore dei ben più celebri Isaac Bashevis (Premio Nobel per la letteratura nel 1978) e Israel Joshua, fu in parte contenta quando ebbe modo di abbandonare le severe regole di casa, che oltre ai precetti e ai divieti prevedevano la reclusione delle donne fra le mura domestiche, nonché un totale assoggettamento agli elementi maschili della famiglia. Quella sorella maggiore poco o affatto graziosa, e dunque ogni anno meno maritabile, che aveva avuto una relazione finita male con un comunista, avida di sapere ma tenuta in considerazione con tutta probabilità solamente per cucinare e per mantenere in ordine la casa (il capofamiglia era pur sempre il rabbino Pinkhes Menachem) dovette accettare di buon grado il matrimonio combinato con il commerciante di diamanti Kreitman, e i successivi traslochi ad Anversa e a Londra, capitali indiscusse del trade diamantifero.
Uno dei numerosi nuraghi della Sardegna, a Nieddu presso Codrongianos. (Soprintendenza Archeologia della Sardegna)
hanno creato tante piccole comunità pastorali isolate le une dalle altre, con accessi difficili dal mare al quale gli isolani hanno sempre un po’ girato le spalle – almeno fino all’avvento del turismo moderno con i fenomeni di speculazione edilizia e l’invasione estiva di vacanzieri. Un’apparente contraddizione poiché la Sardegna era stata per secoli al centro delle rotte commerciali marittime di micenei, fenici, cartaginesi e romani poi insediatisi lungo le sue coste e nell’interno dell’isola, e quindi per definizione luogo di scambio di merci e di idee; un’apertura verso l’esterno bilanciata da un altrettanto forte sentimento di identità che ha creato nei suoi abitanti peculiarità culturali durate ben oltre la presenza di Roma e Cartagine, fino praticamente in epoca moderna, pensiamo solo alla lingua. La Sardegna nuragica si presenta ora al pubblico in tutto il suo splendore, prima tappa fuori dall’Italia dopo Cagliari, Roma e l’Expo di Milano, in una grande mostra allestita presso l’Istituto di archeologia dell’Università di Zurigo che presenta oltre 800 oggetti provenienti da diversi musei della Sardegna, frutto di ricerche archeologiche protrattesi sull’arco degli ultimi quarant’anni. Lo scopo è quello di far rivivere una cultura in tutta la sua complessità, ponendo accanto alle megastrutture nuragiche che potrebbero rischiare di rimanere mute testimonianze del passato, i re-
perti emersi durante le ricerche, ampiamente commentati sia con testi esplicativi sia con immagini, video e con una postazione interattiva. Magari un invito a compiere un viaggio non solo virtuale ma nella realtà di un paese affascinante quale è la Sardegna con le sue bellezze e le sue tradizioni. A fare da filo conduttore attraverso l’esposizione tre elementi della natura alla base della storia dell’isola: la Pietra, che racconta la nascita e lo sviluppo dell’architettura nuragica che ha poche analogie con il resto del bacino del Mediterraneo, esclusa Malta; l’Acqua che, oltre che elemento vitale per le singole comunità, riporta il discorso verso il mare, gli insediamenti portuali e quindi gli scambi culturali che ci sono stati con il mondo esterno attraverso il commercio; i Metalli appunto che, dopo l’ossidiana esportata in epoca preistorica, sono stati alla base dei fortunati traffici sardi con il resto del mondo e che hanno fatto fiorire sull’isola generazioni di provetti artigiani diventati famosi per la tecnica di lavorazione del bronzo. Dove e quando
Sardegna – Terra di torri, Università di Zurigo, Istituto di archeologia, (Rämistr. 73). Orari: sa-do 11.0017.00, ma-ve 13.00-18.00. Ingresso libero. www.archaeologie.usz.ch/ sammlung. Fino al 25 settembre 2016.
Una delle pochissime immagini di Esther Kreitman Singer. (Wikipedia)
Alcune voci (sono sporadiche, a volte contraddittorie) narrano del grande talento di Esther Kreitman dato alle fiamme dall’autrice stessa poco prima del matrimonio. Per gli amanti della letteratura ebraica polacca del Ventesimo secolo e per tutti coloro che desiderano completare il quadro famigliare degli straordinari fratelli Singer, non sono rimasti che il romanzo fortemente autobiografico Debora (ambientato all’interno di una famiglia ortodossa) e, appunto, il recente L’uomo che vendeva diamanti. Esther Kreitman Singer scriveva in yiddish, poi a tradurre i suoi romanzi in inglese provvedeva il figlio, giornalista e scrittore, Morris Kreitman (diventato in seguito celebre anche con gli pseudonimi di Martin Lea e Maurice Carr). Protagonista de L’uomo che vendeva diamanti è il ricco commerciante Gedaliah Berman, cui giorno per giorno si appellano commercianti più piccoli, tagliatori e tutto il sottobosco di personaggi più o meno loschi legati a uno dei traffici più redditizi del mondo, quello dei diamanti. Berman riesce a dominare con il pugno di ferro la moglie Rochl e tutto il suo entourage. O quasi. Sfugge infatti al potere di Berman il figlio Dovid, grande amante della bisboccia e di Spinoza, uomo senza regole né orari, che alla precisione, al commercio e alla parola data preferisce il mondo dei gentili, guerra compresa. Il figliol mai prodigo finirà infatti per arruolarsi. Come molti altri ebrei, con l’avvento della Prima guerra mondiale, Berman dovrà trasferirsi da Anversa a Londra. Il suo fiuto congenito, aggiunto a tutta una serie di caratteristiche che altrove avrebbero il sapore del cliché, ma che Esther Kreitman riveste di una irresistibile patina di ironia, permettono a Berman di fare affari redditizi anche nella capitale britannica. In un luogo, ricordiamolo, in cui nonostante i buoni propositi della popolazione locale gli ebrei si ritrovano a soffrire ingiustizie non indifferenti e il sapore della vergogna, Berman in poche settimane si crea una routine ad hoc fatta soprattutto di affari redditizi. La scrittura di Esther Kreitman è leggera, vivace e anche allegra, e ai fratelli minori non ha nulla da invidiare, se non il numero delle opere pubblicate.
Fa ridere? Pubblicazioni Un repertorio di comicità non volute curato dal poeta, bibliofilo e cultore di cose di lingua Paolo Albani Stefano Vassere In un articolo intitolato Perché i veneti non raddoppiano e i valtellinesi triplicano, Achille Loria avanza la tesi che «i montanari, moralmente più puri, fisicamente più robusti, “triplicano” le consonanti; la gente di pianura, invece (e guai se si tratta di popolazioni che stanno al livello del mare, come i veneziani), oltre che moralmente depravata, è anche fisicamente degenerata e non riesce neppure a “addoppiare”». Paolo Albani è «poeta visivo» (lo dice lui nel risvolto di copertina) e scrittore. A queste qualifiche essenziali si potrebbe aggiungere anche quella di cultore di stranezze genericamente espressive (linguistiche, letterarie, socioculturali) e una conclamata propensione per le serie e i repertori. Tentazione dell’elenco che lo ha reso piuttosto noto per almeno una Enciclopedia delle scienze anomale, un Catalogo ragionato dei libri introvabili, un Dizionario degli istituti anomali nel mondo e, per la lin-
guistica, per Aga, magéra, difúra. Dizionario delle lingue immaginarie. Umorismo involontario, che esce ora nelle edizioni della elegante e ri-
verita Quodlibet di Macerata, è un repertorio; ed è un repertorio, nel senso che il materiale vi è ordinato in ordine alfabetico e apposite freccine tracciano un sistema di rinvii e rimandi, tanto che lo strumento risulta consultabile nella forma lineare ma anche in quella discontinua e trasversale tipica dell’enciclopedia. Il tema portante e comune a questi lemmi è quello dell’umorismo inconsapevole e non cercato; e siccome il fenomeno è diffuso e multiforme, perché la stessa esistenza umana si presta a questo sintomatico «effetto collaterale», la serie di occasioni per far ridere senza saperlo assume molti formati e popola le sedi più strane. Così, l’elenco conterrà certamente gaffe, lapsus, papere e tutta la famiglia degli strafalcioni e degli stupidari, ma anche, meno prevedibilmente, pittore della domenica, giudizi di lettura, manuale di conversazione, etimologia, eretico. Alla «fermata» etimologia sono citate le ipotesi di «un vecchio professore, laureatosi dopo la Grande Guerra» che
snocciolava serio etimologie personali del tipo codardo dal nome di chi «fugge come un dardo» tenendo la coda tra le gambe, oppure andare carponi che deriverebbe dall’abitudine delle grosse carpe di nuotare sul fondo marino, o ancora tamburo dal latino tam buius «tanto buio», «perché dentro il tamburo c’è un buio pesto». Ma belle pagine sono dedicate al politicamente corretto quando fa ridere, alla retorica dei dittatori, ai refusi. Sorvoliamo sui giudizi di lettura (quelli del tipo «questo Nabokov fa schifo», «questo Proust non avrà mai successo» ecc.), sui record più inusuali contenuti nel Guinness dei primati, sugli errori dei ragazzini nei temi di italiano, per dire tra l’altro che spesso l’umorismo involontario interessa fatti linguistici: le etimologie appunto, ma anche ipotesi a sfondo sociale per la spiegazione delle caratteristiche dialettali, oltre a una bella serie di paragrafi dedicati agli enunciati contenuti nei manuali di conversazione in lingue straniere: «Mamma, comperasti la tovaglia? No,
ma comperai il rasoio per tuo fratello. Vedeste il mio allacciabottoni? No, ma vidi il vostro colletto e polsini». Insomma, come detto, occasioni a non finire per ridere e sorridere di situazioni non pensate per essere ridicole. Il libro ha generoso apparato iconografico (fotografie e disegni) e una breve premessa teorica del curatore con benvenute tipologie storiche dell’umorismo, quelle ormai classiche di Umberto Eco, del genio Vladimir Propp (tutti noi, laureati negli anni OttantaNovanta lo conosciamo, il caro Vladimir), e poi di Jurenev, Achille Campanile, Giulio Ferroni. «Il comico involontario è una bellezza di natura più che di arte, e ha bisogno di uno scopritore che lo collochi nelle mappe letterarie e lo metta in cornice come si incornicia la pietra paesina». Bibliografia
Paolo Albani, Umorismo involontario, Macerata, Quodlibet, 2016.
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Cultura e Spettacoli
Un iceberg di fronte a Melide
Il Cantonetto per Macaluso
Musical sul lago Dal 10 agosto prende avvio un’iniziativa originale, con il sostegno
Editoria La rivista
di Migros Ticino. Concorso per i nostri lettori
luganese ha dedicato un numero speciale allo storico Un amore trionfa sul destino: Kate McGowan (Eveline Suter) e Jim Farrell (Gerrit Hericks) alla fine raggiungono l’America. (Immagini dal Walensee, 2015)
Una drammatica storia della navigazione civile è diventata tema per un musical di successo: dal 10 agosto al 10 settembre il lungolago di Melide si trasforma in un teatro all’aperto, mentre un palco galleggiante sull’affascinante sfondo del San Giorgio propone al pubblico la vicenda del celebre transatlantico, affondato al largo delle isole Terranova il 15 aprile 1912. Il musical è già stato presentato con successo nel 2015
sul Walensee e ha entusiasmato oltre 42’000 spettatori: a Melide lo spettacolo verrà proposto da una compagnia di 26 attori e 14 musicisti. Importante: la vicenda narrata è diversa da quella del film che conosciamo, diretto nel 1997 da James Cameron. Titanic, il musical è stato infatti scritto e presentato sui palcoscenici di Broadway nello stesso anno, ma precedentemente all’uscita del film. Il libret-
to dell’opera si deve a Peter Stone, mentre le musiche sono di Maury Yeston, un celebre compositore di spettacoli musicali. Anche in questa sua versione la vicenda della più sfortunata nave da turismo di tutti i tempi è intrecciata con una storia d’amore stavolta, almeno quella, a lieto fine. Maggiori dettagli sul cast e sulla trama (oltre a biglietti e altre informazioni logistiche) sono disponibili sul sito www.musicalmelide.ch.
Biglietti in palio I lettori di «Azione» possono aggiudicarsi alcuni biglietti gratuiti per la rappresentazione di sabato 3 settembre alle ore 20.00, telefonando mercoledì 20 luglio 2016 alle ore 10.30 (fino ad esaurimento) allo 091 840 12 61. Buona fortuna!
Il numero di luglio 2016 del periodico «Il Cantonetto», diretto da Carlo Agliati, propone ai suoi lettori un sentito e significativo omaggio di vari studiosi al lavoro compiuto negli scorsi decenni dallo storico Pompeo Macaluso. Affiancando la sua attività di docente di storia al Liceo di Mendrisio a quella del ricercatore, Macaluso ha affrontato impegnative ricerche d’archivio e, in particolare, ha applicato all’osservazione della storia politica ticinese i concetti moderni della politologia. In questo modo lo storico, scomparso proprio un anno fa, ha lasciato al nostro cantone un’eredità culturale di grande valore. La sua Storia del partito socialista autonomo e ancor di più la Storia del Partito Liberale Radicale Democratico Ticinese (edite entrambe da Dadò) sono volumi fondamentali per comprendere le dinamiche sociali e ideologiche che hanno determinato la vita di questi due organismi, e ne inquadrano l’attività nel contesto della situazione economica e politica cantonale dell’epoca. Anche il suo recente Tra due guerre. Problemi e protagonisti del ticino (1920-1940) ci permette di trarre utili e illuminanti confronti tra passato e attualità. La rivista contiene interventi, tra gli altri, di Virginio Pedroni (che ha intervistato il padre di Macaluso, Emanuele), Gianni Tavarini, Orazio Martinetti, Paolo Favilli, Sonia Castro. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 18 luglio 2016 ¶ N. 29
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Cultura e Spettacoli
Tra agoni, ginnici e ippici Olimpia rivive a Rio Quinta parte. Una breve descrizione delle gare previste Elio Marinoni Le gare che si svolgevano a Olimpia si suddividevano nelle due categorie degli agoni ginnici e degli agoni ippici. Gli agoni ginnici (cosiddetti perché gli atleti gareggiavano gymnoí, cioè nudi) corrispondevano grosso modo alle nostre atletica leggera e atletica pesante e comprendevano le seguenti specialità: le corse veloci (stadio e diaulo), la corsa di fondo (dolico) e la corsa degli opliti; il pentathlon; il pugilato, la lotta e il pancrazio. Gli agoni ippici comprendevano: la corsa dei cavalli montati a pelo e la corsa delle quadrighe, nonché altre specialità minori (corsa delle bighe trainate da muli o da cavalli, corsa delle quadrighe trainate da puledri). Lo stadio – Questa disciplina, che prendeva nome da un’unità di misura lineare pari a 600 piedi, era una corsa in linea su una distanza di circa 190 metri (lo stadio di Olimpia ne misurava 192, quello di Delfi 185). Nelle prime tredici edizioni delle olimpiadi fu l’unica gara e anche in seguito ne rimase la gara simbolo, come i 100 metri nelle olimpiadi moderne: tanto che al vincitore dello stadio spettava l’onore di legare il proprio nome al quadriennio iniziato con la propria vittoria. Il diaulo – Si correva sulla distanza di due stadi (ca. 385 m.). I corridori percorrevano la pista dello stadio dalla linea di partenza a quella di arrivo, giravano attorno a un palo e ritornavano poi alla linea di partenza. Il dolico – Era una corsa lunga (questo è il significato dell’agg. greco dólichos) su una distanza massima di 12 díauloi (= 24 stadi), in tutto circa 4600 m (le cifre indicate dalle fonti variano però dai 7 ai 24 stadi), e può perciò essere considerata l’equivalente dei nostri 5000 metri. I mezzofondisti impegnati in questa disciplina appaiono nelle raffigurazioni vascolari, com’è ovvio, in posizione più eretta e con le gambe meno divaricate rispetto ai velocisti dello stadio e del diaulo. Corsa degli opliti – Introdotta solo nel 520 a.C., la corsa in armi era dispu-
tata sulla distanza di un díaulos dai corridori rivestiti delle armi difensive della fanteria pesante (scudo, elmo e schinieri). Il pentathlon – Era composto dalle seguenti cinque discipline in ordine fisso: lancio del disco, salto, lancio del giavellotto, corsa dello stadio, lotta. Il lancio del disco, attestato a partire dai poemi omerici, era praticato con dischi piatti di pietra o di metallo, di dimensioni maggiori di quelle attuali, ed era già allora caratterizzato dal tipico movimento rotatorio del corpo. Il punto di atterramento dell’attrezzo veniva segnato da un picchetto infisso nel terreno. La seconda disciplina del pentathlon era il salto in lungo (secondo alcuni studiosi, un salto multiplo), eseguito probabilmente senza rincorsa dagli atleti muniti di due manubri di pietra o di bronzo, detti halteres, non solo spesso raffigurati nella pittura vascolare, ma anche ritrovati in gran numero negli scavi archeologici. Seguiva il lancio del giavellotto, provvisto nella zona mediana di un laccio di cuoio nel quale gli atleti infilavano due dita. Quarta disciplina era la corsa dello stadio e quinta e ultima la lotta, nella quale per vincere occorreva atterrare tre volte l’avversario. La vittoria nel pentathlon non veniva assegnata – come avviene oggi – sulla base della somma dei punteggi acquisiti nelle singole discipline, bensì sulla base del numero delle vittorie in esse ottenute. Non appena un atleta aveva conseguito tre vittorie, la gara veniva conclusa, anche qualora non fossero state ancora disputate la quarta e/o la quinta disciplina. La lotta – La lotta (pále) praticata negli agoni ellenici era più simile alla moderna lotta libera che non alla cosiddetta lotta greco-romana, in realtà ignota agli antichi. Poiché la vittoria si otteneva, come detto, con tre atterramenti dell’avversario e poiché la caduta coinvolgeva spesso i due contendenti, molto importante era la funzione dei giudici di gara. Il pugilato – In questa discipli-
Due sportivi di atletica pesante raffigurati su un’anfora panatenaica di ceramica attica a figure nere risalente al 540/535 a.c.
na il combattimento, non suddiviso in riprese, continuava a oltranza fino all’abbattimento o all’abbandono dell’avversario. La potenza dei colpi era accentuata – e non attenuata, come dai moderni guantoni – dalle strisce di cuoio che i pugili si cingevano alle mani e ai polsi. Si poteva colpire anche a mano aperta e «a martello» (dall’alto in basso). Poiché tuttavia non erano ammessi colpi alla figura, ma solo alla testa e al collo, i combattenti potevano tenere una guardia più alta. Il pancrazio – Si trattava di un intreccio di pugilato e di lotta, in cui i contendenti si scambiavano colpi d’ogni sorta. La vittoria era determinata anche qui dal knock-out o dal ritiro dell’avversario. Nelle tre specialità dell’atletica pesante non esistevano categorie di peso. Pugili e lottatori specialisti presentavano perciò, come ci mostra la pittura vascolare, una corporatura massiccia,
propiziata da diete ipercaloriche e soprattutto iperproteiche, con assunzione di grandi quantità di carne. Diverso è il caso dei pentatleti che, dovendo anche correre e saltare, erano ovviamente più snelli. Tutti gli agoni ippici si svolgevano su una pista speciale di forma ellittica, l’ippodromo, che a Olimpia era parallela allo stadio. Essa era attraversata longitudinalmente da una barriera (di pietra o di legno) della lunghezza di due stadi, attorno alle cui estremità, contrassegnate da una meta, giravano gli animali o i carri. Si può perciò calcolare che ogni giro dell’ippodromo misurasse ca. 800 m. Il kéles o corsa dei cavalli montati a pelo, che si svolgeva su un giro dell’ippodromo, può essere paragonato al nostro galoppo, con la differenza però che i fantini non facevano uso di selle. Si trattava di individui molto giovani e mingherlini, che vengono raffigu-
rati sollevati sulla groppa del cavallo. Corsa delle quadrighe (téthrippon) – Introdotta nel 680 a.C., era la specialità ippica più prestigiosa, e consisteva in 12 giri dell’ippodromo (ca. 9600 m). Il carro, munito di due ruote e aperto sulla parte posteriore, era guidato dall’auriga, vestito con una lunga tunica fermata da una cintura e, sulle spalle, da due bretelle intrecciate. Nelle corse ippiche la vittoria non era attribuita ai fantini o agli aurighi, ma al proprietario del cavallo o dei cavalli vincitori. Si spiega così come negli elenchi dei vincitori compaiano talora nomi di donne, a cui era vietato partecipare ai giochi: il più antico è quello di Cinisca, figlia del re di Sparta Archidamo III, vincitrice del téthrippon nel 396 e nel 392 a.C. (PAUSANIA, Descrizione della Grecia, III, 8, 2); successivamente vi figurano le regine tolemaiche Berenice I (284 a.C.) e Arsinoe II (272 a.C.).
Caro amico ti scrivo Cartoline musicali Abbiamo chiesto ad alcune persone legate alla musica di inviare delle cartoline ideali
a personaggi importanti della loro vita – Il primo invio è di Barbara Knopf
A cura di Zeno Gabaglio Barbara Knopf
Ha studiato musicologia, etnomusicologia, scienze della comunicazione e letteratura francese all’Università di Zurigo, ma anche flauto traverso e pianoforte al Conservatorio di Zurigo. È stata produttrice di musica popolare e responsabile dei programmi di musica popolare presso la radio svizzera tedesca DRS1, giornalista di musica tradizionale per il quotidiano «Landbote», corrispondente a Zurigo per l’Agenzia telegrafica svizze-
ra nonché corrispondente in Ticino per il quotidiano «Le Temps». Oggi insegna tedesco e francese e collabora in ambito linguistico con varie istituzioni. Nel 2012 ha fondato il LocarnoFolk Festival con l’ex-marito Pietro Bianchi, con cui ha praticato per diversi anni la musica popolare del Ticino e dell’Insubria (flauti, cornamuse, canto), anche assieme a Carlo Bava e Diego Orelli. Oggi suona la musette nella Piccola Banda di Cornamuse di Gabriele Coltri e, grazie a Un Due Tre Folk, sta diventando un’appassionata di balfolk, assieme al presidente
Barbara Knopf con tre suonatori di corno delle Alpi.
e alla vice-presidente dell’Associazione LocarnoFolk! Cartoline
La mia cattedrale – A Johann Sebastian Bach Uno dei primi 33 giri, ereditato da mio papà, aveva la copertina bianca-verde ingiallita ed era una vecchia registrazione dei tuoi Concerti brandeburghesi, caro Bach: per me un angolo di paradiso perduto, un ampio tempio dalle simmetrie perfette. Ti sono stata poi molte volte infedele, con altri compositori e altre musiche, e oggi non ti suono neanche più. Ma di tanto in tanto ritorno – grazie a te – nella cattedrale della mia gioventù. Una finestra sul mondo – Al professore Akio Mayeda Quante ore ho passato con lei, caro professor Mayeda, assieme a una manciata di studenti dei corsi di etnomusicologia dell’Università di Zurigo. Stavamo nella semi-oscurità di un’aula sempre troppo grande, dall’odore di vecchia polvere e sapienza. Io ero affascinata dalle maschere contorte, dai movimenti a scatti e dai versi gutturali degli attori del teatro giapponese Kabuki o Noh, che sembrano usciti da un libro di fia-
be: mi sentivo come Alice nel paese delle meraviglie. Oggi ricordo con nostalgia e gratitudine questa finestra aperta sul mondo, che nel mio percorso mai si è più richiusa. If it ain’t got that swing – Ai Roland Fink Singers Con voi, cari Roland Fink Singers, ho scoperto la voluttà delle «close harmonies», la leggerezza dello swing che trasmette all’intero corpo onde liberatorie, l’ebrezza dei ritmi ondulatori della musica latinoamericana, la ricchezza dei canti popolari o di tradizione popolare. Ma soprattutto, ho riscoperto il piacere di far musica senza competizione, la gioia della condivisione e di una possibile comunione fra esseri apparentemente differenti di questo pianeta. Zoccolino, polenta e piva – A Pietro Bianchi Programmavo la «tua» musica, caro Pietro, quando ero produttrice di musica popolare per la radio svizzera tedesca DRS. Mi veniva spesso rimproverato di mandare in onda musiche troppo «esotiche» o particolari. Molti anni dopo, questi brani della Svizzera italiana li abbiamo suonati o cantati assieme, in osterie come Lo Zoccolino
a Bellinzona, attorno a una polenta con degli amici. Un nuovo mondo mi si è aperto, e con lui un pezzo dell’anima ticinese. Un giorno, si è aperto anche un tuo armadio pieno di strumenti; ci ho trovato una piva, e da allora le cornamuse non le ho più mollate. Piccola fiamma olimpica – Agli artisti passati e futuri di LocarnoFolk Ogni volta che animate i luoghi degli eventi e del festival LocarnoFolk con la vostra musica, cari artisti passati e futuri, accendete una luce che illumina tutti noi presenti e che ci ricorda la nostra propria luce. E quando si spengono le luci, e tacciono strumenti e voci a fine concerto, la vostra luce non si spegne; è come una piccola fiamma olimpica che portate in altri luoghi, da altre persone. Con lei si propagano i suoni, i sapori e i ricordi della terra, ma anche le sue possibilità future, il suo divenire. Cartoline musicali – elenco
1. A Johann Sebastian Bach 2. Al professore Akio Mayeda 3. Ai Roland Fink Singers 4. A Pietro Bianchi 5. Agli artisti passati e futuri di LocarnoFolk
Vinci monete d’oro per un valore complessivo di fr. 100 000.–* *Possibilità di vincita in tutti i panini del 1° d’agosto da 400 g. Chi trova uno dei 500 talleri Migros nascosti nei panini vince una moneta d’oro da fr. 20.– (del valore attuale di fr. 226.– circa, giorno di riferimento 14.6.2016). Nessun obbligo d’acquisto. Partecipazione gratuita e condizioni di partecipazione su www.migros.ch/agosto OFFERTA VALIDA FINO AL 2.8.2016, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
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Idee e acquisti per la settimana
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shopping
Il buono dei pomodori, dal Frutteto alla nostra tavola! Attualità L’azienda orticola Il Frutteto della Fondazione Diamante
Giovanni Barberis
rifornisce Migros Ticino di deliziosi pomodori
L’estate è oramai esplosa con il clima caldo e non c’è niente di meglio che una buona insalata di pomodori per rifocillarsi e rinfrescarsi. Da Migros trovate anche pomodori coltivati dall’azienda orticola Il Frutteto del Laboratorio Incontro 2 della Fondazione Diamante a Gudo, che impiega 12 persone in situazione di andicap, contribuendo al loro inserimento nella società e nel mondo del lavoro. I pomodori sono stati scel-
ti in base a specifiche caratteristiche, tra le quali gusto, conservabilità, resa e adattabilità al clima. Prodotti a tutti gli effetti nostrani, essendo i più ideali per la coltivazione alle nostre latitudini. I pomodori vengono piantati a metà marzo circa e dal 20 maggio è iniziata la raccolta, che prosegue fino a metà-fine agosto. Il fattore più importante è quello della maturazione dei frutti, che deve avvenire sulla pianta perché questi ri-
Degustazione di pomodori nostrani Martedì 19 luglio Giovedì 21 e venerdì 22 luglio Venerdì 22 luglio Venerdì 22 e sabato 23 luglio Sabato 23 luglio Mercoledì 27 e giovedì 28 luglio Mercoledì 27 e giovedì 28 luglio Venerdì 29 luglio Sabato 30 luglio
Migros Sementina Migros Locarno Migros Taverne Migros Serfontana Migros Arbedo-Castione Migros Agno Migros S. Antonino Migros Pregassona Migros Biasca
sultino più gustosi. Più il frutto rimane sulla pianta più sarà alto il concentrato di zuccheri, facendo risultare il prodotto finale più dolce. Tre le varietà scelte che trovate da Migros. I pomodori peretti si distinguono per la loro inconfondibile forma cilindrica, hanno una polpa piena e consistente perfetta per preparare insalate e salse di pomodoro. Il pomodoro tondo è ottimo sia in insalata che per la preparazione di piatti che richiedono una cottura prolungata come i pomodori ripieni al forno, in quanto la loro consistenza gli permette di non spappolarsi. Ultimi ma non per importanza i pomodori cherry, tra i più apprezzati per il loro sapore concentrato e dolce. Si prestano benissimo per arricchire insalate o anche per il condimento della pasta, sia a crudo che cuocendoli. Tutte e tre le varietà si apprezzano anche per una caratteristica molto importante: si conservano molto bene e per un periodo abbastanza lungo. Tutti i pomodori sono coltivati in terra secondo i criteri bio. / Luisa Jane Rusconi
Carmine Miceli, Responsabile Laboratorio Incontro 2, Fondazione Diamante. (Giovanni Barberis)
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Idee e acquisti per la settimana
La passata bio di pomodori locali Attualità Un prodotto tradizionale senza additivi preparato dalla tigusto SA di Gerra Piano
solo con pomodori bio ticinesi
Nata con l’intento di valorizzare ulteriormente i deliziosi pomodori coltivati dai nostri orticoltori ticinesi, la passata nostrana è prodotta lentamente e in modo artigianale dalla tigusto SA seguendo una ricetta tradizionale della mamma del titolare dell’azienda, Pierluigi Zanchi. Per ottenere 1 kg di ottima passata sono necessari ben 2 kg di pomodori freschi. La scelta di pomodori ben maturati in pianta, un metodo di produzione particolare e un pizzico di cloruro di magnesio estratto dal sale marino, permettono di ottenere una passata con una acidità piacevole al palato che sprigiona al meglio l’inconfondibile aro-
ma del pomodoro. «Il magnesio – spiega Zanchi – arricchisce la componente nutritiva dell’alimento. Infatti esso svolge un ruolo importante nel rafforzamento del nostro sistema immunitario e nervoso». La passata bio può essere usata a crudo, per esempio miscelandola a minestre fredde (Gazpacho), succhi di frutta e verdura, oppure direttamente a freddo sulle paste. A caldo si distingue ovviamente per la sua versatilità senza limiti: è ottima per preparare ottimi sughi per pasta, per melanzane alla parmigiana e lasagne, aggiunta a cipollotti saltati e finita di gusto con erbette per i più svariati piatti, o ancora come classica base della pizza.
Passata di pomodori bio 350 g Fr. 5.60
Benefica e rinfrescante Un piatto di sapori dal territorio Attualità Non c’è estate senza la tisana
A maggior ragione con il caldo, è molto importante assumere liquidi a sufficienza per rimanere sani e in forma tutta la giornata. È inoltre bene bere in qualsiasi occasione, senza aspettare che la sete si faccia sentire. Il nostro fabbisogno giornaliero di acqua è di almeno 1,5 litri, che può tranquillamente arrivare a 2,5 litri in estate oppure se si pratica regolarmente un’attività sportiva che comporta un maggior dispendio di liquidi. Per coprirlo, oltre naturalmente all’acqua, sono consigliati anche succhi di frutta e verdura oppure anche tè o tisane alle erbe, senza o poco zuccherate. Un contributo importante in questo senso lo può sicuramente dare la tisana nostrana biologica della Migros che, oltre ad essere benefica per il nostro organismo, è pure incredibilmente buona e rinfrescante. Questa bevanda lievemente zuccherata è prodotta con cura ed esperienza dalla Sicas SA di Chiasso ed è indicata per tutta la famiglia. È realizzata con un infuso di erbe officinali riconosciute per le loro proprietà salutari: la menta piperita e citrata sono apprezzate per le loro virtù digestive, tonificanti e calmanti sulle stomaco; la lippia citronella aiuta in caso di flatulenza; la melissa è nota per la sua valenza antiinfiammatoria, mentre la salvia per quelle antisudorifere e stimolanti della digestione.
Flavia Leuenberger
nostrana alle erbe officinali
Tisana Nustrana bio 50 cl Fr. 1.90
Sinonimo di qualità, convenienza e varietà, i Ristoranti Migros di Serfontana, Agno, Grancia e S. Antonino non potevano certo mancare all’appuntamento con le specialità dei Nostrani del Ticino. E da oggi, fino al prossimo 30 luglio, saranno veri protagonisti nei supermercati Migros. Tra le numerose proposte, ogni cliente saprà trovare quella capace di stuzzicargli le papille gustative. Cosa direste ad esempio di
iniziare concedendovi una ricca tagliata di salumi o formaggi locali accompagnata da un’insalatina di rucola e pomodorini o una ricca insalata mista? Chi poi opta per il piatto principale anche qui ha solo l’imbarazzo della scelta, come per esempio saltimbocca di maiale con risotto, spiedino di manzo con patate al forno, stinco di maiale al forno oppure luganighetta nostrana in umido con risotto. La Ristorazione di Migros Ticino con il suo servizio catering «Party Service» sarà, tra l’altro, partner dell’attesissimo «TITANIC Openair Musical di Melide», in programma dal 10 agosto
al 10 settembre 2016. Per l’occasione è online fino al 24 luglio su il grande concorso che mette in palio un montepremi del valore di oltre 1’800 franchi. Non mancate quindi l’occasione di potervi aggiudicare uno dei biglietti e assistere ad una rappresentazione a scelta, con cena a buffet e aperitivo, con cena a buffet, oppure «solo» con aperitivo. www.migrosticino.ch/ristorazione/attivita.php Auguriamo già sin d’ora un buon divertimento ai fortunati vincitori e a tutto il pubblico del «TITANIC Openair Musical di Melide».
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Idee e acquisti per la settimana
Carne Migros: la scelta degli chef Gastronomia Il ritratto dei ristoranti: Il Giardino di Bombinasco Daniele Meni, proprietario e chef. (Flavia Leuenberger)
Immerso nel verde del piccolo paese di Bombinasco, il Ristorante Giardino è gestito dalla famiglia Meni dal 1960. Già nel ’56 lo zio di Daniele, attuale proprietario e chef del ristorante, aveva aperto una piccola osteria, che con gli anni è stata ampliata con una nuova sala grande e con un bocciodromo e una bellissima terrazza affacciata sul giardino. Il campo da bocce è stato in seguito convertito in un salone polifunzionale, capace di accogliere 180 persone e luogo ideale per organizzare eventi, cerimonie, cene sociali e serate danzanti. Monique e Daniele propongono una cucina regionale ticinese, con numerosi piatti «importati» dalla tradizione lombarda e piemontese come gli gnocchi e i diversi risotti. Lo chef è inoltre molto attento alla stagionalità e i prodotti della terra rispettano rigorosamente la regola del km 0.
I piatti a base di carne caratterizzano la carta, ma non è da trascurare il Pesce persico del Ceresio, che è uno dei piatti preferiti dai clienti del locale. Il fiore all’occhiello dello chef è però il Cordon Bleu, per cui il ristorante è conosciuto. Il piatto viene proposto secondo la ricetta classica o con variazioni come il Cordon Bleu del Giro d’Italia, con 4 formaggi italiani, o quello del Tour de Suisse, a base di formaggi svizzeri. Da metà settembre a fine novembre la regina della carta è la selvaggina e gli appassionati del genere hanno l’appuntamento fisso con la Sella di capriolo, per cui Daniele Meni pare essere insuperabile. La clientela è prevalentemente ticinese o di turisti abituali e affezionati e, come lo chef sottolinea, è per questo molto esigente e pretende il meglio. Ma, a quanto sembra, non viene mai delusa! www.carnemigros.ch
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 18 luglio 2016 ¶ N. 29
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Tanta voglia di gelato! I diversi gusti dei i popolari gelati di M-Classic sono molto apprezzati ormai da tanti anni. Costituiscono la base ideale per ogni tipo di dessert, dai frappè alle coppe gelato o all’Iced Coffee. E si possono guarnire facilmente con pezzi di frutta o qualche altra golosità. La conveniente confezione da 2 litri è perfetta per occasioni affollate come compleanni e raduni di famiglia. Un altro vantaggio: le palline di gelato si possono comodamente modellare all’interno del recipiente.
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M-Classic Vaniglia 2 l Fr. 5.90
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L’Industria Migros produce numerosi prodotti, tra i quali anche i gelati M-Classic.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 18 luglio 2016 ¶ N. 29
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 18 luglio 2016 ¶ N. 29
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Idee e acquisti per la settimana
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2. Prosciutto crudo dei Grigioni, sottilissimo, Svizzera, 97 g Fr. 5.10
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3. Le Gruyère piccante, per 100 g Offerta al 20 % di sconto Fr. 1.45 invece di 1.85 dal 19 al 25 luglio. 4. Actilife Breakfast, 1 l Fr. 1.85 5. Mini girella, rossa con la croce svizzera* Fr. 2.– 6. Miele di fiori cremoso, 550 g Offerta Fr. 4.70 invece di 5.30 dal 19 al 25 luglio. Quella del Primo d’Agosto è sempre stata una festa familiare. Apparecchiare la tavola tutti assieme è parte integrante delle celebrazioni.
7. Asciugapiatti, set da 3, a nido d’ape e a quadretti con genziane ricamate* Fr. 9.80
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1. Agosto
Brunch rossocrociato Quando i coniugi Bernasconi imbandiscono il loro tradizionale brunch del Primo d’Agosto, l’acquolina sale in bocca. Carne secca dei Grigioni, fette di salame e formaggio della Gruyère abbinati a yogurt, lamponi e soffici panini… Ed ecco apparecchiata la festa nazionale della gastronomia svizzera! Testo Heidi Bacchilega; foto Daniel Aeschlimann, Styling: Miriam Vieli Goll
Il 1° agosto del 1291 i tre cantoni originari di Uri, Svitto e Untervaldo conclusero il patto eterno, con la promessa di prestarsi aiuto reciproco, di non derubarsi vicendevolmente e di punire chi appiccava incendi. Era nata la Confederazione Elvetica. Oggi gli svizzeri celebrano questo giorno assieme a parenti ed amici, iniziando con abbondante brunch. Si apparecchia con pane fresco, bevande di tutti i tipi, succulenti piatti a base di carne e tante varietà di formaggio. Il tutto su una tavola decorata con i colori rossocrociati. E, nei panini del 1° d’Agosto, i più fortunati trovano il tallero della Migros, che vale oro colato! / MM
Concorso del Primo d’Agosto
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Trova il tallero della Migros e vinci un marengo d’oro Nei panini del 1° Agosto (400 g) sono nascosti dei talleri bianchi della Migros. Chi ne trova uno vince una moneta d’oro da 20 franchi, che al corso attuale (quotazione del 14.06.2016) vale circa 226 franchi. In palio ci sono marenghi d’oro per un valore complessivo di oltre 100 000 franchi. Partecipazione gratuita su www.migros.ch/agosto
8. Mirtilli Migros-Bio, vaschetta da 250 g Offerta al 25% di sconto Fr. 5.20 invece di 6.95 dal 19 al 25 luglio.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 18 luglio 2016 ¶ N. 29
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Idee e acquisti per la settimana
Favorit
Basta un giro di mano Grazie al coperchio con sistema «easyopen», i vasetti di marmellata Favorit da 350 grammi si aprono senza sforzo. Tra le confetture ad alto contenuto di frutta delle linee les suisses, les spécialités o Satin chiunque trova qualcosa di proprio gusto. Che ne dite di far colazione con del pane fresco spalmato di ciliege nere svizzere? O di un piatto di formaggio e patate lesse con contorno di confettura di fichi? E chi vuol provare qualcosa di nuovo assaggi la varietà lamponi-maracuja senza semi né pezzetti di frutta, magari spalmata sugli scones o la panna cotta. Tra l’altro: oltre al nuovo coperchio di facile apertura, il vasetto più leggero contribuisce alla protezione dell’ambiente.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 18 luglio 2016 ¶ N. 29
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Idee e acquisti per la settimana
American Favorites
Dolcezza a stelle e strisce A tutti i patiti dello stile di vita americano, la pasticceria di American Favorites presenta una delle specialità tipiche della gastronomia degli Stati del Sud: la leggendaria Red Velvet Cake. La sua particolarità è il colore rosso acceso dell’impasto spumoso che contrasta con la farcitura bianca, costituita da una crema di yogurt fredda. Questa torta vellutata è disponibile in porzioni singole, perfetta quindi non solo per le pause caffè ma anche come dessert da viaggio. E chi non ha una forchetta a portata di mano, ne riceve una alla cassa della Migros.
Azione 20X Punti Cumulus per la Red Velvet Cake di American Favorites fino al 25 luglio
American Favorites Red Velvet Cake 1 fetta, 120 g Fr. 3.90
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Matite colorate Caran dâ&#x20AC;&#x2122;Ache, FSC 12 pezzi
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 18 luglio 2016 ¶ N. 29
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Idee e acquisti per la settimana
Papeteria
Per vivacizzare la lezione Molti stanno già pensando al ritorno a scuola dopo le vacanze estive. L’infinito assortimento di articoli di Papeteria offre agli scolari accessori divertenti che, oltre ad essere di grande utilità, portano in classe un tocco d’allegria. Per esempio, il pratico porta-appunti in versione modellino Vespa o la penna a sfera con un personaggio dei fumetti che invoglia alla scrittura. Molto originale pure il blocnotes da personalizzare: basta infilare nel riquadro di copertina la foto che si preferisce o una cartolina con dedica personale. E la scuola può iniziare!
Per salvare gli appunti o qualche bel ricordo: Memoclip Vespa in tre colori Fr. 6.90
Un diario davvero personale: DIY Bloc-notes con copertina modificabile Fr. 8.50
Una piccola pressione e strabuzza gli occhi:
Foto: Lucas Peters; styling: Miriam Vieli-Goll
Duckys Farm Penna a sfera, varie figure Fr. 3.90
Con qualche accessorio originale si torna a scuola molto più volentieri.
Set di foglietti adesivi, FSC, 13 blocchi, colori sgargianti Fr. 7.90
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AXE deodorante Duo p.es. Africa, Black aerosol Duo, 2 x 150 ml
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La nuova linea per la cura dell’uomo.
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Idee e acquisti per la settimana
Soft
Più strati per più morbidezza La maggior parte delle comuni carte igieniche hanno tre strati. Un prodotto di prima categoria ha, però, almeno quattro strati. Il marchio Soft ne propone addirittura sei per la sua carta Deluxe. L’unica in tutta la Svizzera
La sensibile
La vellutata
˚ Oqnoqhds¤9 con balsamo all’Aloe per le pelli sensibili, Profumo delicato ˚ Hm bheqd9 5 strati, 129 fogli ˚ L‘sdqh‘kd9 100% cellulosa, materia prima da gestione forestale sostenibile (FSC) ˚ B‘q‘ssdqhrshbgd9 particolarmente morbida e tollerata dalla pelle, extra delicata, soffice
˚ Oqnoqhds¤9 con lozione lenitiva alla jojoba ˚ Hm bheqd9 6 strati, 120 fogli ˚ L‘sdqh‘kd9 cellulosa (all’esterno), fibre riciclate (al centro), materia prima da gestione forestale sostenibile (FSC) ˚ B‘q‘ssdqhrshbgd9 molto morbida, extra delicata, elevata tollerabilità cutanea
Soft Sensitive FSC Carta igienica, 5 strati, 6 rotoli Fr. 4.65
Soft Deluxe FSC Carta igienica, 6 stati, 6 rotoli Fr. 4.65
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˚ Oqnoqhds¤9 color verde menta, molto morbida grazie al tessuto ovattato ˚ Hm bheqd9 4 strati, 140 fogli ˚ L‘sdqh‘kd9 100% cellulosa, materia prima da gestione forestale sostenibile (FSC) ˚ B‘q‘ssdqhrshbgd9 extra morbida, extra sicura, soffice
˚ Oqnoqhds¤9 con lozione lenitiva al burro di karité lenitiva ˚ Hm bheqd9 4 strati, 150 fogli ˚ L‘sdqh‘kd9 100% fibre riciclate ˚ Oqnoqhds¤9 extra morbida, extra sicura, elevata tollerabilità cutanea
Soft Color FSC Carta igienica, 4 strati, 12 rotoli Fr. 8.20
Soft Recycling Supreme Carta igienica, 4 strati, 12 rotoli Fr. 7.30
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 18 luglio 2016 ¶ N. 29
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Idee e acquisti per la settimana
Milette
Bucato pulito per pelli delicate
*Offerta speciale 20% di sconto Sui detersivi Milette dal 19 luglio al 1° agosto
Un aspetto davvero importante per i vestiti dei bambini: i detersivi di Milette lavano a fondo ma con delicatezza.
La pelle dei neonati e dei bambini piccoli è estremamente sensibile. Per questo motivo tutti i tessuti che indossano dovrebbero essere lavati con detersivi delicati, soprattutto gli indumenti che più aderiscono al corpo. La nuova formula dei detersivi speciali biodegradabili di Milette è particolarmente delicata sulla pelle, poiché contiene componenti accuratamente bilanciati. I prodotti, che ora hanno imballaggi con un nuovo design, sono disponibili sia liquidi che in polvere e rimuovono le macchie anche a bassa temperatura di lavaggio.
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Milette concentré Detersivo speciale polvere 1,5 kg Fr. 10.80* invece di 13.50
L’Industria Migros produce numerosi prodotti, tra i quali anche i detersivi Milette.
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