Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVII 15 settembre 2014
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Azione 38
Società e Territorio Fare filosofia con i bambini per saper accogliere le loro domande e dare valore al dialogo
Ambiente e Benessere Piedi che portano lontano: Alberto Benigna ci spiega l’importanza della loro cura e terapia
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Politica e Economia Chi è l’Isis che costringe Obama a rimettere piede in Mesopotamia?
Cultura e Spettacoli La grande diva italiana Sophia Loren compie ottant’anni
pagina 15
pagina 3
pagine 25 e 27
di Simona Sala pagina 37
p.s.72productions
Molto più di una bettola
pagina 35
Risucchiati nel caos di Peter Schiesser Come può succedere che un presidente (americano) che ha tanto desiderato la pace debba prepararsi alla guerra? Un presidente, si noti bene, che ha speso molte energie per porre termine agli interventi armati in Iraq e Afghanistan voluti dal suo predecessore, che aveva teso la mano al mondo islamico (moderato) con un discorso senza precedenti al Cairo, nel giugno del 2009. Forse la risposta sta nel fatto che Obama non è stato in grado di imporre la pace, o che ha creduto di poterla evocare semplicemente con la forza delle parole (con il cosiddetto soft power) anziché difenderla con le armi. Ed ora, eccolo qua, alla vigilia del 13.esimo anniversario dell’11 settembre, annunciare una guerra contro lo Stato islamico del sedicente califfo al-Baghdadi. Una guerra dai contorni ancora poco definiti, complessa, e che verosimilmente dovrà essere portata a termine dal suo successore. Barack Obama ha promesso di non inviare truppe americane in Medio Oriente, al di là di qualche migliaio di soldati appartenenti a corpi speciali con il compito assistere gli iracheni che combattono l’Isis. Vi sarà una massiccia campagna di bombardamenti aerei, nel quadro di una
vasta alleanza contro il Califfato, benché oggi non sia del tutto chiaro da quali Paesi sarà composta (e quali compiti avranno). Basterà? I motivi per essere scettici sono molteplici (vedi Lucio Caracciolo a pagina 25). Da un lato, il presidente americano non gode più di grande credibilità nel mondo arabo: non solo non ha tradotto in atti o strategie concrete la volontà espressa al Cairo di contribuire a pacificare e sviluppare il Medio Oriente e il mondo islamico, ma ha pure perso la faccia quando un anno fa ha rinunciato a intervenire in Siria dopo che il regime di Assad aveva superato la «linea rossa» impiegando armi chimiche contro la popolazione (benché resti controverso se gli attacchi chimici siano stati opera del regime o di forze ribelli). La sua parola oggi vale quindi ancora meno di ieri. Dall’altro lato, contro l’Isis, gli americani si trovano in compagnia di loro nemici storici e di alleati poco affidabili: gli ayatollah iraniani, il siriano Assad, quell’Arabia Saudita dove fondamentalisti islamici di ogni specie trovano sostegno finanziario, ideologico, e uomini volonterosi ad immolarsi per l’Islam (wahabita, la corrente radicale che ha ispirato al Qaeda e i suoi eredi), una Turchia filo-islamica che fino a ieri ha sostenuto l’Isis in funzione anti-Assad, un Iraq diviso in fazioni etnico-religiose (sunniti, sciiti, curdi, cristiani, yazidi...). Una
ridda di attori che perseguono una propria agenda geo-politica. Lo Stato islamico rappresenta la «minaccia perfetta», in virtù di stragi, deportazioni, decapitazioni di chiunque non si pieghi al suo potere, e del rischio che le migliaia di cittadini affluiti dall’Occidente per combattere nelle sue fila un giorno tornino a casa e lancino campagne terroristiche. Obama può contare sull’appoggio dell’opinione pubblica americana, poiché la ben mediatizzata natura sanguinaria rende l’Isis la perfetta incarnazione del male, mentre l’America può calarsi ancora una volta nel ruolo di «potenza del bene». Ma anche qui sta un grosso equivoco: sono davvero meno intolleranti e sanguinarie le milizie sciite che in Iraq combattono lo Stato islamico, come pure molti oppositori di Assad in Siria, a loro volta accusati di compiere stragi di innocenti? E a ben guardare, l’intolleranza violenta dell’Isis non affonda le sue radici «culturali» proprio nel wahabismo saudita, dove le decapitazioni sono previste dalla legge, come succede nel Califfato? Con simili alleati non si arriva lontano in una lotta del «bene» contro il «male». Si rischia piuttosto di giustificare dei regimi e dei despoti che in comune con il Califfato hanno la ferrea volontà di sottomettere con più o meno violenza i propri cittadini.