Azione 40 del 29 settembre 2014

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVII 29 settembre 2014

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Società e Territorio Pippi Calzelunghe sta per compiere settant’anni e ha bisogno di un fratellino

Ambiente e Benessere Soltanto una persona su dieci, tra coloro che ne avrebbero bisogno, si sottopone a una psicoterapia: ne parliamo con lo psichiatra Paolo Migone

Politica e Economia La Turchia alle prese con la doppia emergenza califfato-Kurdistan

Cultura e Spettacoli Quattro artisti si confrontano con il filo del discorso

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di Roberto Porta e Simona Sala pagine 40-41

Keystone

La grande sfida del LAC

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Una voce nel deserto di Peter Schiesser È stato un appello accorato o disperato, quello di Barack Obama davanti all’Assemblea generale dell’ONU, in cui ha invitato la comunità internazionale e in particolare i Paesi arabi ad unirsi contro il terrorismo islamico (v. pag. 25)? È stato il discorso, forte, di un presidente americano che guida il suo Paese in guerra? Oppure, affermando schiettamente che nessuna strategia contro il terrorismo potrà avere successo fino a quando i giovani avranno solo la scelta fra uno Stato tirannico e un estremismo brutale, ha voluto anche esprimere la sua enorme frustrazione di uomo che vorrebbe la pace ma è costretto alla guerra? Benché gli sforzi diplomatici del Segretario di Stato americano Kerry abbiano portato alla creazione di una vasta alleanza nella lotta contro il sedicente califfato islamico guidato da al-Baghdadi, chi pianifica e conduce i bombardamenti è e resta l’America. Dei 50 Paesi che formano l’alleanza, non uno è disposto a inviare truppe di terra a combattere contro i fondamentalisti dell’Isis, pochi a inviare qualche bombardiere. Ma una guerra non si vince dall’alto dei cieli, men che meno contro un esercito-guerriglia pronto a ritirarsi di fronte alle bombe e lesto a

occupare il terreno lasciato libero. E soprattutto: così non si vincerà mai la pace. Poiché la pace può attecchire solo laddove c’è giustizia, rispetto, democrazia, libertà di pensiero... condizioni che i popoli arabi non conoscono da secoli, per la cui conquista erano nati quattro anni fa i moti denominati speranzosamente «Primavera araba». Certo, distruggere i centri logistici dello Stato islamico, le raffinerie di petrolio che assicurano la sua ricchezza, frenare il flusso di capitali che alimentano il fondamentalismo islamico ha un senso militare, strategico e psicologico: l’aura di invincibilità di un movimento che in pochi mesi ha occupato vaste parti di Siria e Iraq ne uscirà scalfita e qualche jihadista internazionale troverà meno eccitante lasciare i sobborghi di Londra o di Parigi per farsi bombardare in Siria piuttosto che poter sgozzare un ostaggio davanti ad una telecamera. Ma è importante distinguere la cura dei sintomi dalla cura della malattia. E qui ha ragione Obama: finché esiste l’humus che alimenta la violenza degli estremismi, ogni guerra è persa e la pace impossibile. A complicare il quadro ci sono poi numerosi fattori, il primo fra questi è che l’America è malvista in Arabia, dopo le guerre di Bush padre e figlio in Iraq e di Bush figlio in Afghanistan. Lo ha ricordato, non a torto, il presidente

dell’Iran, Hassan Rohani (Paese che per decenni ha sponsorizzato terroristi arabi contro interessi occidentali...). Abbandonando i toni diplomatici, Obama si è dunque rivolto senza ambiguità ai Paesi arabi affinché riconoscano che la pace può nascere solo dal dialogo, dalla libertà, dal rispetto e dalla giustizia, gli ideali che hanno generato le proteste della Primavera araba. Ma quale nazione araba è disposta a imboccare quella via? Forse la Giordania. Non l’Egitto dei generali che hanno incarcerato e ucciso esponenti della Fratellanza musulmana, non l’Arabia Saudita che si fonda su quel fondamentalismo wahabita/salafita da cui sorge la fenice del califfato islamico, non il Qatar che sostiene finanziariamente i palestinesi-islamisti di Hamas, non questo Paese, non quello, non quell’altro... E in questo conto negativo ci sta pure Israele, più a suo agio come potenza militare regionale che come partner economico dei suoi vicini arabi. Dunque: era un appello accorato o disperato, quello di Obama? Bush figlio era convinto di poter imporre la democrazia (in Iraq e Afghanistan), Obama ha capito che la risposta immediata ad una tirannia è spesso una tirannia peggiore, non la democrazia. Ma il mondo attende un’opzione migliore, di fronte al baratro.


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