Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVIII 05 ottobre 2015
Azione 41 M sh alle p opping agin e 45 -54
Società e Territorio Buoni si nasce o si diventa? Le ricerche dello psicologo Paul Bloom
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Politica e Economia La deriva integralista dall’Afghanistan al Bangladesh
Ambiente e Benessere Nuovi usi terapeutici grazie all’ingegneria genetica sono al vaglio di studi ancora sperimentali, che stanno però già scatenando diverse polemiche di natura etica e morale
Cultura e Spettacoli A Basilea in mostra la spettacolare ricostruzione di un antico naufragio
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Passando leggeri sull’isola dei S’ard
Nelle viscere del Malcantone
di Peter Schiesser
di Daniela Delmenico
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Stefano Spinelli
«Conosce Passavamo sulla terra leggeri?». La hostess di Alitalia alle mie spalle alla cassa della libreria nell’aeroporto di Cagliari non si trattiene, alla vista dei quattro libri di Sergio Atzeni che sto acquistando: «Per me Atzeni è il nostro più grande testimone della sardità». Il giovane alla cassa annuisce e intuisco che di quel «nostro» fa parte anche lui, che quell’autore è patrimonio di una generazione di sardi che ha scelto di aprirsi al mondo restando consapevole di dover riconoscere le radici che la legano a tempi antichi e popoli diversi. Alla domanda su come sia morto in mare a soli 43 anni, la hostess risponde con un movimento della testa che rimanda lontano: «l’ha rapito un’onda…». Il libraio accenna all’ipotesi del suicidio ma il tono respinge le sue stesse parole, e lei, ormai al mio fianco e dall’alto di tanto verde e statura, sottolinea: «non cerchiamo spiegazioni», richiamando quel «noi» che si ritrova nel narratore anziano Antonio Setzu in Passavamo sulla terra leggeri, con cui rende la dimensione epica del racconto sul mitico popolo primordiale dei S’ard, i «danzatori delle stelle», come Sergio Atzeni ha chiamato le genti nuragiche. Oltre la metà del libro attende ancora di essere letta, ma la settimana trascorsa in Sardegna e le genti conosciute mi porta a riaprirlo ad una pagina precisa: «Passavamo sulla terra leggeri come acqua, disse Antonio Setzu, come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci (…). A parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti, eravamo felici. Le piane, le paludi erano fertili, i monti ricchi di pascolo e fonti. Il cibo non mancava neppure negli anni di carestia. Facevamo un vino color del sangue, dolce al palato e portatore di sogni allegri. Nel settimo giorno del mese del vento che piega le querce incontravamo tutte le genti attorno alla fonte sacra e per sette giorni e sette notti mangiavamo, bevevamo, cantavamo e danzavamo in onore di Is. Cantare, suonare, danzare, coltivare, raccogliere, mungere, intagliare, fondere, uccidere, morire, cantare, suonare, danzare era la nostra vita. Eravamo felici, a parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti». Le associazioni mentali, soggettive e certo non solidamente supportate, vanno a quel gruppo di amici incontrati a lungo in un bar sul mare occidentale, provenienti da una località della Barbagia ai piedi del Gennargentu, laddove una forma di quell’antichità, di quella felicità e follia, resiste a modo suo. Dove l’uomo è conservatore, amante di vino e cibo, e ancora cacciatore – come Robertino, un barbuto Obelix sardo che alla velocità della luce fa scorrere il pollice sull’archivio fotografico del suo smartphone per mostrarci le dimensioni dei cinghiali della zona, che potrebbe benissimo uccidere con una stretta del braccio. Robertino che, ogni tanto, con Ciclamino, suo amico di caccia, va anche a pescare, ma – essendo montanaro – pesca con la «bomba». E la bomba ritorna, quando dal fondo del suo sguardo nero Robertino spiega come mai il loro paese è l’unico in Sardegna – almeno così vantano – in cui i cinesi non sono riusciti a insediarsi: l’avvertimento a non aprire un negozio in paese non era bastato, c’era voluta la bomba. E te lo dicono con la stessa leggerezza con cui ti giurano amicizia, fedeltà e omertà, e affermano che i veri sardi sopravvivono solo in quella stretta striscia di terra che va da Nuoro e dintorni fino al mare occidentale: tutti grandi lavoratori, con due o tre impieghi – di Robertino è indiscutibilmente famoso il formaggio; a nord e a sud, di quelli di Sassari e di Cagliari invece non ti puoi fidare, dicono. Ma è pericoloso mitizzare la Sardegna, se non sei sardo. Rischi di illuderti di capirla. Meglio lasciarsi condurre leggeri, forse un po’ straniati, dal vento che induce gli incontri. Anche solo per accorgersi che il mondo può davvero essere alla rovescia. Come quel giorno seduti al ristorante tra mare e piazzetta, ad osservare un diverbio tra cani e padroni: da una parte un anziano sardo con un cane di piccola taglia che scorrazza liberamente per la piazza, dall’altra un uomo più giovane, con uno yorkshire, che dapprima si ferma al margine della piazza, incerto se affrontare il possibile assalto del primo cane. Assalto che al suo incedere nella piazza avviene e si trasforma in azzuffatina. E con il padrone del cane libero che sbraita furioso contro l’uomo con il cane al guinzaglio: «Lo istigasti! Coglione!». Tornati la sera per assistere ad un nuovo round, come la gente del luogo ci aveva assicurato sarebbe avvenuto, rivediamo l’uomo con il cane al guinzaglio e chiediamo lumi: sì, dopo mesi in cui l’altro cane la faceva da padrone su tutto il lungomare, aveva deciso di affrontarlo, portando lo Yorkshire (al guinzaglio) in piazza, scatenando la baruffa: «ma l’ho fermato, perché è cane da caccia grossa e di quell’altro ne fa polpette!». Poi se ne va, camminando leggero.
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