Azione 47 del 17 novembre 2014

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVII 17 novembre 2014

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Società e Territorio Hollaback, un movimento internazionale contro le molestie di strada

Politica e Economia Il mondo ha celebrato il 25.mo anniversario del crollo del Muro

Ambiente e Benessere Che cosa c’è di etico nella sperimentazione dei farmaci sull’uomo? Secondo e ultimo articolo dedicato al tema

Cultura e Spettacoli A Berlino oltre a Beckett soggiornò anche Thomas Wolfe

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Un accordo storico ma non basta ancora

Stati Uniti e Cina insieme per il clima

di Peter Schiesser

di Federico Rampini

pagina 27

AFP

Dopo averla attesa a lungo – speriamo non troppo a lungo –, ecco la svolta epocale: i presidenti di Stati Uniti e Cina hanno annunciato un accordo sulla protezione del clima (v. Federico Rampini a pagina 27). I due maggiori «produttori» di CO2 – va sul loro conto quasi la metà delle emissioni di gas a effetto serra – assumono infine in prima persona la responsabilità di affrontare una delle maggiori sfide che attendono l’umanità nei prossimi decenni e secoli. Con questa stretta di mano, Barack Obama e Xi Jinping sigillano il superamento di uno stallo culminato nei Protocolli di Kyoto del 1997 e della filosofia su cui si basavano: unicamente le nazioni sviluppate erano chiamate a tagliare le emissioni di CO2, quelle emergenti, come Cina e India, ne erano esentate in virtù dell’esigenza di traghettare dalla povertà alla modernità le proprie popolazioni – motivo per cui Washington non li ratificò. Ora Stati Uniti e Cina, le due maggiori economie del pianeta, hanno convenuto che tutti devono fare la propria parte, i sacrifici vanno condivisi. Non deve sorprendere che questo accordo sia sopraggiunto, dopo nove mesi di trattative segrete, nel momento di massima debolezza del presidente americano Obama e di grande potenza di quello cinese Xi Jinping. Ora che la Cina ha statura di potenza economica, che va costruendo quella di potenza militare, ha raggiunto lo status che impone ad ogni «attore globale» di assumere un ruolo stabilizzante. Per la sua stessa sicurezza. Siccome Xi Jinping si sta dando poteri assoluti come un tempo gli imperatori, per lui sarà forse meno difficile, rispetto ad Obama, dirigere l’economia e la società verso obiettivi consoni alla protezione del clima. Barack Obama, invece, lascia sostanzialmente il compito di concretizzare la svolta di politica energetica al prossimo presidente degli Stati Uniti, mentre gli obiettivi a breve termine sono raggiungibili con gli attuali strumenti e poteri presidenziali, ciò che evita confronti con un Congresso ora pienamente nelle mani dei repubblicani, poco inclini ad accettare sacrifici in nome della lotta ai mutamenti climatici (della cui esistenza dubitano). Ma anche per Obama questo era il momento giusto: vari sondaggi suggeriscono che l’elettorato americano oggi è molto sensibile al tema del surriscaldamento del clima, riconosce che si tratta di un enorme problema anche per gli Stati Uniti. Il tema diventa ora automaticamente dominante per la campagna delle presidenziali americane del 2016. Gli obiettivi annunciati da Barack Obama e Xi Jinping comportano per gli Stati Uniti, rispetto ad oggi, il raddoppio degli sforzi (–28% di CO2 nel 2025 rispetto al 2005), dal canto suo la Cina esprime per la prima volta la volontà di porsi un obiettivo temporale per la riduzione delle sue emissioni (al più tardi dopo il 2030, quando le energie rinnovabili dovrebbero aver raggiunto il 20 per cento del fabbisogno totale). A essere sinceri e concreti, l’accordo rappresenta il minimo comun denominatore, sia Stati Uniti che Cina non dovrebbero faticare molto a raggiungere gli obiettivi dichiarati. Tuttavia, non sarebbero sufficienti ad evitare un surriscaldamento dell’atmosfera superiore alla soglia dei 2 gradi celsius, il limite oltre il quale i mutamenti climatici diverrebbero irreversibili, secondo i calcoli degli esperti dell’ONU. Per cui ci si augura che l’accordo fra Stati Uniti e Cina rappresenti non il tetto massimo da raggiungere, bensì una base su cui costruire al più presto una politica più solida e incisiva. Può sorgere una spirale virtuosa, se ogni Paese si convince della serietà dell’impegno delle due maggiori potenze economiche mondiali. Non va dimenticato che anche l’Unione europea ha da poco annunciato obiettivi ambiziosi: taglio di almeno il 40% delle emissioni di CO2 rispetto al 1990 entro il 2030, 27% di energie rinnovabili entro il 2030, consumo di energia da ridurre del 27% entro il 2030. A questo punto, dopo troppi anni inconcludenti, diventa possibile che l’anno prossimo alla Conferenza sul clima di Parigi si possa trovare un accordo cui aderiscano molti altri importanti generatori di CO2. La Cina e gli Stati Uniti, e forse anche l’Unione europea, fungeranno da traino, ma non per tutti. L’India per esempio – terzo produttore di CO2 al mondo – non ha intenzione di mutare rotta, per ora. Molto dipenderà dalla volontà o meno dell’Occidente di aiutare i Paesi emergenti nello sforzo di adattamento, sia tecnologico, sia alle mutate condizioni climatiche (siccità, alluvioni, fenomeni naturali estremi). In particolare, il 20 novembre a Berlino si terrà la prima riunione di capitalizzazione del «Fondo verde per il clima»; dei 10 miliardi di dollari che dovrà avere inizialmente in dotazione ne sono stati raccolti solo 3. La chiave di volta potrebbe essere questa: la solidarietà internazionale.

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