Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXIX 6 giugno 2016
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Società e Territorio La spiritualità nell’arte: un incontro con Fra Roberto al Convento del Bigorio
Ambiente e Benessere Un viaggio scandito dalle pietre miliari poste dai romani lungo la Via de la Plata, la meno frequentata delle strade che portano i pellegrini a Santiago de Compostela
Politica e Economia Prima visita di un presidente Usa a Hiroshima, la città rasa al suolo dalla bomba atomica
Cultura e Spettacoli Il grande Billy Wilder quando era giovane si chiamava Samuel e viveva a Berlino
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Arte liquida
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Davide Stallone
di Eliana Bernasconi e Davide Stallone pagina 41
Wegelin e BSI chiudono un’era di Peter Schiesser I tempi sono cambiati. D’altronde, si poteva capirlo fin dal 2007, da quando UBS e poi Credit Suisse sono finiti nel mirino della giustizia statunitense per aver aiutato facoltosi contribuenti americani a evadere il fisco, ciò che poi, in una reazione a catena, ha portato alla fine del segreto bancario svizzero e alla prossima introduzione dello scambio automatico di informazioni tra autorità fiscali. Non pochi si erano stupiti che la Wegelin, assieme ad altre banche svizzere, avesse compiuto il fatale errore di accaparrarsi i «clienti tossici» di UBS in America, finendo anch’essa nel mirino del fisco statunitense nel 2012: era ben chiaro che gli americani non avrebbero più tollerato la complicità delle banche nell’evasione fiscale. Prigionieri di vecchie mentalità, i suoi dirigenti si erano illusi di poter tener testa in tribunale al fisco americano, con la conseguenza che la Wegelin è fallita, mentre tutte le altre banche svizzere coinvolte in quei casi ed altri (fra cui la BSI), si erano dovute salvare pagando multe salate. Ancora più incredibile, quindi, che la Banca della Svizzera Italiana abbia creduto di poter applicare a Singapore i vecchi
metodi, ossia di chiudere gli occhi sulla provenienza dei capitali. Non che la BSI non fosse stata avvisata: già nell’autunno del 2013 la FINMA aveva reso attenta la banca sui rischi che stava correndo a Singapore, nel 2014 l’omologa autorità di Singapore (MAS) aveva riscontrato gravi irregolarità, sfociate nel 2015 in un’inchiesta vera e propria. Come ricordato dall’ex magistrato Paolo Bernasconi durante la trasmissione della RSI «60 minuti», qualche anno fa la FINMA aveva messo in guardia le banche svizzere: non sostituite la clientela diventata task compliance in Occidente con altra non compliance di mercati che non conoscete! Eppure, non pochi erano convinti che nel resto del mondo vigessero altre regole, che la «strategia del denaro pulito» fosse solo di facciata al di fuori dell’Europa e degli Stati Uniti. Si sono sbagliati: dalla seconda metà del decennio scorso non è soltanto in atto una lotta all’evasione fiscale, ma l’OCSE sta implementando in modo serio anche la lotta al riciclaggio di denaro sporco frutto di corruzione, imponendo dove possibile gli standard della Financial Action Task Force. Anche Singapore ha deciso di adeguarvisi, diversamente da quanto molti credevano. È stata l’avidità a spingere i vertici di BSI a non volersi porre troppe
domande sui lucrosi affari del loro uomo a Singapore, quello Yak Yew Chee amico di Low Taek Jho, il quale gestiva su incarico del primo ministro malese Najib Razak il fondo 1MDB (da cui secondo le accuse il premier e il suo entourage avrebbero prelevato 4 miliardi di dollari)? Molti ne sono convinti. Ma la molla potrebbe anche essere stata la crisi che alla BSI si trascina da tempo. Sempre a «60 minuti» il consulente finanziario Vittorio Volpi, che conosce bene la banca, ha ricordato che prima della fusione BSI e Gottardo amministravano capitali per 102 miliardi e generavano utili per 130 milioni di franchi, dopo la fusione i capitali amministrati erano 76 miliardi e gli utili 76 milioni: «la BSI non era una banca gestita bene». Ora bisogna guardare al futuro, e un futuro si può costruire solo con l’eccellenza dei servizi bancari elvetici unita alla stabilità che offre la Svizzera. Ma anche cambiando la mentalità all’interno del settore bancario e para-bancario. E qui va sottolineato che non è più sostenibile un sistema di bonus che premia chi porta più affari anche a costo di operare in zone grigie o nere. Sarebbe il caso di prevedere per legge che i bonus debbano essere restituiti in caso di affari andati male, come chiede Paolo Bernasconi?