Azione 22 del 30 maggio 2016

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R F E R DI OLT

Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXIX 30 maggio 2016

Azione 22

Società e Territorio Un manuale di Bernard Roth spiega come cambiare il modo di ragionare per raggiungere i propri obiettivi

Ambiente e Benessere In cinquemila alla StraLugano: immagini da una gara popolare di grande successo pagina 18

Politica e Economia La vittoria di van der Bellen scongiura in extremis il pericolo nazionalista in Austria

Cultura e Spettacoli Indagine su un mito: in mostra le opere di alcuni «seguaci» di Piero della Francesca

-81 ping M shop ne 53-62 / 76 i alle pag pagina 9

pagina 27

pagina 39

Una sfida continentale AlpTransit Gottardo, e canton-ticinese una galleria aperta sul futuro di Peter Schiesser Il grande momento è arrivato: dal 1. al 5 giugno ai portali della nuova galleria ferroviaria sotto il San Gottardo sarà il momento di celebrare un’opera mastodontica, la cui progettazione e realizzazione ha attraversato l’esistenza di molti di noi. Siamo un popolo di ferrovieri, scrive Orazio Martinetti nelle pagine speciali dedicate a questa galleria che sfida e al tempo stesso protegge un’altra magnifica opera: le Alpi. Ma forse ancor di più siamo un popolo di scavatori; pazienti, pragmatici, precisi, anche visionari quando serve, se riusciamo a sfruttare le finestre temporali che si aprono in un animo nazionale generalmente conservatore e scettico. Così ha saputo fare Adolf Ogi da ministro dei trasporti, come ricorda lui stesso nell’intervista che vi proponiamo. Così è stato fatto altre volte nella storia della Svizzera, ricordiamo soltanto l’introduzione dell’AVS. Così a volte invece non avviene: ancora più a lungo che AlpTransit ci accompagna la ricerca di un consenso sulla realizzazione di depositi di scorie radioattive, e siamo ben lontani dall’obiettivo. La più lunga galleria ferroviaria al mondo, con i suoi 57 chilometri ed altri mirabolanti primati tecnici, dimostra a noi stessi e agli altri che siamo capaci di essere ancora una volta i primi della classe.

Forse in questi giorni il trionfalismo prevarrà sull’umiltà, ma questa servirà molto presto, poiché – come hanno detto in molti in questi giorni – con San Gottardo e Lötschberg abbiamo un cuore, ma l’aorta non è finita, le vie di accesso non hanno lo standard necessario per una rete di alta velocità, sia in Svizzera, sia in Germania e Italia – l’Olanda invece ha fatto la sua parte. Noi in Ticino aspettiamo la galleria del Ceneri che, oltre a ridurre i tempi di percorrenza fra Zurigo e Milano, accorcia anche quelli tra Lugano, Bellinzona e Locarno, mentre la pianificazione del prolungamento della linea veloce a sud di Lugano slitta dal 2035 al 2040.

Anche nella Svizzera tedesca ci sono numerosi colli di bottiglia e infrastrutture logistiche da realizzare, i cui tempi di concretizzazione si estendono dal 2020 al 2050, con probabili ritardi (idem per Germania e Italia). C’è dunque ancora molto da fare, d’altronde progetti infrastrutturali e logistici complessi, di dimensioni continentali ma attuabili con i ritmi delle singole politiche nazionali, necessitano tempi lunghi. San Gottardo e Lötschberg si inseriscono in due grandi progetti in corso su scala continentale: la rete di alta velocità per il trasporto passeggeri e il corridoio tra Rotterdam e Genova per il trasporto delle merci, un’aorta lunga 1400-1500 chilometri che dovrebbe razionalizzare una logistica che oggi rende poco attrattivo l’uso della ferrovia. Al contempo, con il parallelo potenziamento del porto di Genova, si eviteranno molti viaggi inutili attraverso il continente, oggi inevitabili, essendo gran parte della merce scaricata a Rotterdam.

Se consideriamo che mai nella storia sono state prodotte e trasportate tante merci come oggi e vi aggiungiamo i tempi di realizzazione di una rete di trasporti all’altezza della realtà, è evidente che l’obiettivo di trasferire su rotaia il traffico merci che attraversa le Alpi svizzere non è a portata di mano. Ma per noi svizzeri e in particolare per noi ticinesi, qualcosa cambierà molto presto. Si intuisce che potranno esserci mutamenti importanti: per alcuni le distanze si ridurranno, per altri, da Bellinzona in su, potrebbero allungarsi. Saremo comunque meno isolati dal resto della Svizzera, ciò che da tempo viene lamentato, ma che ha fatto anche comodo perché ha permesso ai ticinesi di evitare eccessive intromissioni e di gestirsi secondo proprie regole e con la propria mentalità. Se il mondo politico ed economico ticinese sapranno offrire progetti interessanti ai partner di Oltralpe, se il turismo saprà orientarsi secondo le richieste degli svizzerotedeschi, che senz’altro si trasformeranno, se sapremo essere un po’ meno «ticinocentrici», la nuova galleria potrà unire dei mondi. In caso contrario, ci scavalcherà.

RICHIAMO – VOTAZIONE GENERALE 2016 la votazione generale giunge al termine – Le schede di voto devono essere deposte nelle apposite urne delle filiali o spedite entro

SABATO 4 GIUGNO 2016

di Porta, Fedele, Dozio, Martinetti, Beti

pagine 5,6,7,8

Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 30 maggio 2016 ¶ N. 22

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Attualità Migros

M I prodotti ti aspettano dove vuoi PickMup Un innovativo servizio offerto ai clienti permette

di ritirare le proprie ordinazioni online nella filiale più vicina o nei negozi dei partner Migros

Da oggi la consegna degli acquisti via web è più semplice.

Da oggi il servizio PickMup è disponibile anche in Ticino. Il nuovo concetto di vendita permette di effettuare un’ordinazione nei principali negozi online della Comunità Migros e poi ritirare la merce in una delle 14 filiali della Cooperativa che aderiscono al progetto. Sono sei i partner online presso i quali è possibile effettuare le ordinazioni: oltre a SportXX e Micasa figurano infatti anche Digitec, Ex Libris, LeShop e Galaxus. Sia che si tratti di un CD musicale, di un apparecchio fotografico o di un accessorio per la casa, è possibile ritirare quanto ordinato nel negozio più comodo

rientrando a casa dal lavoro, oppure laddove si effettua la spesa settimanale. Al momento dell’avvenuta consegna nel punto prescelto, il cliente riceve un’informazione per e-mail o per SMS. Il pagamento avviene online al momento dell’ordinazione e il ritiro viene effettuato in filiale al servizio accoglienza.

I punti di ritiro PickMup di Migros Ticino sono ad Agno, ArbedoCastione, Biasca, Grancia, Locarno, Mendrisio Sud, Pregassona, S. Antonino, Serfontana e Bellinzona (i prodotti di tutti gli shop online), oltre a Crocifisso di Savosa, Minusio, Soldu-

no e Taverne, che per questioni di spazio non possono gestire le consegne Micasa.

Dopo le reazioni molto positive della clientela alla fase pilota, PickMup arriva anche in Ticino. L’obiettivo Migros è di giungere a offrire complessivamente 290 punti di ritiro in tutta la Svizzera, quindi entro quindici minuti di tragitto dal proprio domicilio per oltre il 90 per centro della popolazione. La lista aggiornata dei punti PickMup e altre utili informazioni su questo nuovo ed efficiente sistema di consegna si trovano sul sito www.pickmup.ch.

Migros premiata per la biodiversità Ecologia Il suo impegno in questo campo

le è valso il riconoscimento annuale della Fondazione svizzera per l’ambiente Il premio per l’ambiente viene assegnato dalla Fondazione svizzera per l’ambiente sin dal 1994. La biodiversità nelle aree urbanizzate era il tema principale sotto la lente dell’edizione di quest’anno. E in questo contesto Migros ha ricevuto il «Premio di riconoscimento». Rico Kirchhofer, direttore della fondazione e membro della giuria, spiega le ragioni del verdetto: «Nel suo programma a favore della sostenibilità, Migros promette di sistemare i terreni aziendali, i centri per il tempo libero e i complessi abitativi di cui è proprietaria garantendo la massima sintonia con la natura. Sinora ha già creato più di 2,7 milioni di metri quadrati di spazio vitale per piante e animali. Questo impegno straordinario merita di essere riconosciuto».

Attualmente Migros possiede 24 aree naturali per una superficie totale corrispondente a circa 378 campi da

calcio. Tutti i siti sono stati certificati dalla Fondazione Natura ed economia. Per ottenere la certificazione è necessario che almeno un terzo del terreno sia sistemato in modo naturale. Ciò significa, ad esempio, campi di fiori anziché prati, flora endemica e locale anziché esotica, terreni permeabili al posto dell’asfalto, tetti piani con superfici verdi o biotopi umidi come gli stagni.

Nel 2015, ad esempio, sul terreno del centro commerciale Zugerland Migros e «Wildbiene & Partner» hanno creato un piccolo paradiso per api selvatiche, il primo di tutta la Svizzera. Accanto all’ingresso principale del centro commerciale è sorto un importante spazio vitale per questa specie animale minacciata. Pareti di argilla, mucchi di pietre, ceppaie cave e legno morto servono alle api selvatiche per costruire il nido e come substrato nutritivo per la flora selvatica indigena.

Fino ad oggi sono stati creati 2,7 milioni di mq di spazio, per animali e piante.

Il sale della vita Living the Room La Scuola Club Migros Ticino di Lugano propone un incontro con lo chef Pietro Leemann Cuoco. Vegetariano. Alla ricerca della verità. Questo è l’affascinante identikit del prossimo ospite di Living the room, il ciclo di eventi gratuiti promossi dalla Scuola Club Migros Ticino. Ad accomodarsi sul divano rosso della scuola di Lugano il giorno 3 giugno alle ore 19.00 sarà il famoso chef stellato Pietro Leemann.

Nato in Svizzera nel 1961 ma da tempo abitante del mondo, Leemann è cuoco «per folgorazione». La sua vocazione nasce dall’incontro con il grande chef ticinese Angelo Conti Rossini, come Leemann stesso racconta sulla sua bellissima pagina web che è quasi un diario. Invitato a cena, Conti porta per dolce una Charlotte russe, un dolce di altissima pasticceria, il cui gusto «risveglia» il giovane Leemann. Davanti a lui si schiude un nuovo mondo.

Nonostante le resistenze della famiglia, il sogno prende pian piano forma e diventa realtà.

Sono davvero numerose e variegate le esperienze che il futuro chef stellato colleziona nel corso di una crescita che va ben oltre la dimensione puramente professionale. Dalla nouvelle cuisine alla

cucina creativa italiana, fianco a fianco con grandissimi maestri come il già citato Angelo Conti Rossini, Gualtiero Marchesi e Frédy Girardet: in Leemann la scoperta del cibo si accompagna a una ricerca più profonda, culturale, perfino spirituale, che lo porterà a confrontarsi con l’Estremo Oriente. Per due anni si

Azione

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

fermerà in Giappone per insegnare nella prestigiosa Scuola di Cucina Tsuji di Osaka.

Il successo e la fama che meritatamente non tardano ad arrivare non stravolgono una direzione chiara di sperimentazione, piuttosto la irrobustiscono, aprendo nuove, importanti prospettive che trovano casa in Joia – Alta Cucina Naturale, il ristorante che dal 1989 il grande chef svizzero dirige a Milano.

Primo (e finora unico in Europa) ristorante vegetariano insignito della stella Michelin, Joia diventa il contesto in cui si perfeziona incessantemente una cucina sana, che fa bene al corpo e all’anima.

Nel 2015 pubblica Il sale della vita, un libro autobiografico in cui il grande chef racconta la ricerca interiore che lo porterà a diventare vegetariano.

Leemann non nasconde i dubbi che lo hanno accompagnato nella scelta e per questo le pagine sono ricche di umanità. I viaggi, gli incontri, le esperienze nei migliori ristoranti del mondo sono passi in avanti in un percorso evolutivo non sempre lineare ma autentico verso un crescente equilibrio, in armonia con il creato. Il «sale della vita» è la libertà di

scegliere che solo gli esseri umani hanno. La strada intrapresa da Leemann si snoda verso un’integrazione sempre più profonda tra il buono e il giusto, dove la cucina costituisce uno spazio di interrogazione e di verità su se stessi e su quello che ciascuno vuole essere e diventare.

Con Pietro Leemann si chiude la prima serie di eventi del ciclo Living the room quest’anno dedicati alla salute. Il successo che l’iniziativa ha raccolto costituisce un chiaro invito a continuare e in calendario per la primavera 2017 ci sono già nuovi appuntamenti con altri testimonial del nostro tempo, per continuare a conoscere, interrogare, capire e dialogare, facendo vivere lo spazio della scuola con sempre nuovi pensieri, emozioni, relazioni.

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

Tiratura 101’035 copie

Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Informazioni

L’evento è gratuito e avrà luogo alle ore 19.00 presso la sede di Lugano della Scuola Club Migros Ticino, via Pretorio 15. Per esigenze organizzative vi preghiamo di confermare la vostra presenza: 091 821 71 50 / scuolaclub. lugano@migrosticino.ch.

Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Corsi in grembiule Tantissime sono le attività in cucina proposte dalla Scuola Club Migros Ticino

In tutte le quattro sedi vi aspettano spazi perfettamente attrezzati dove, oltre alla ricchissima offerta corsi sul tema del food, è possibile organizzare: ■ Team building in cucina. Per far crescere le competenze del vostro team ecco un’originalissima formula che combina la qualificazione di competenze con il piacere di condividere un pranzo o una cena preparati insieme sotto la guida di un cuoco esperto.

■ Eventi in cucina. Con un minimo di cinque partecipanti è possibile ideare un corso di cucina su misura per voi da vivere fianco a fianco con i vostri amici. Ad esempio un compleanno speciale da festeggiare con una cena cucinata da voi con l’aiuto di un maestro dell’arte culinaria.

Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–

Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 30 maggio 2016 ¶ N. 22

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Società e Territorio Si inaugura l’opera del secolo AlpTransit è un’opera ingegneristica monumentale che rispecchia lo storico attaccamento degli svizzeri alla ferrovia e che apre importanti prospettive di sviluppo per il Ticino: tre articoli di approfondimento

Intervista ad Adolf Ogi L’ex consigliere federale è il padre della nuova ferrovia transalpina, per otto anni, dal 1988 al 1995, si è battuto perché quest’opera divenisse realtà pagina 8

pagine 6-7

Un riuscito poker politico AlpTransit La volontà di realizzare

Roberto Porta Lasciate correre l’immaginazione, fate un balzo a ritroso nella storia e pensate di trovarvi, in una sera del 1988, nell’ufficio dell’allora consigliere federale Adolf Ogi, a Palazzo federale. Il ministro dei trasporti è seduto alla sua scrivania, davanti a lui una cartina della Svizzera. Con una matita Ogi traccia due linee, la prima tra Altdorf e Biasca, la seconda tra Frutigen, nel canton Berna, e Visp, nel canton Vallese. Dopo decenni di studi, di gruppi di lavoro e di perizie e contro-perizie, Alptransit nasce così, con un semplice tratto immaginato dal responsabile del Dipartimento federale dei trasporti (vedi intervista ad Adolf Ogi a pagina 8). Pochi centimetri sulla mappa svizzera per riassumere anni e anni di discussioni e per gettare le basi di un compromesso tutto elvetico: la linea ferroviaria veloce sotto le Alpi dovrà essere doppia, per poter attirare attorno a sé il consenso politico necessario e per poter essere sostenuta da tutte le regioni del Paese.

Visto così sembra un gioco (quasi) da ragazzi, due linee tracciate con la matita e il tracciato è scelto. In verità Adolf Ogi compie una vera e propria inversione di marcia, rispetto a chi guidava il dipartimento federale dei trasporti prima di lui. Al suo arrivo in governo nel 1988, Ogi prende il posto del grigionese Leon Schlumpf, padre di una certa Evelyne Widmer-Schlumpf, che il Paese imparerà a conoscere vent’anni più tardi. Da consigliere federale Schlumpf è un agguerrito oppositore a qualsiasi nuovo progetto ferroviario sotto le Alpi svizzere e con lui la maggioranza del governo. La Svizzera aveva appena festeggiato, nel 1980, l’apertura della galleria autostradale del

San Gottardo e a Berna, nella stanza dei bottoni, si pensava che quella fosse l’unica risposta possibile al netto aumento del traffico pesante, registrato in Svizzera e in Europa in quegli anni.

Anche perché – questo il pensiero di Schlumpf – i Paesi europei a noi vicini stavano progettando altri nuovi collegamenti alpini. L’Italia e la Francia, tra Torino e Lione; l’Austria e ancora l’Italia, attraverso il Brennero. Inutile dunque aggiungere una nuova opera, per di più ferroviaria.

L’arrivo di Ogi però scompagina le carte in tavola perché il ministro bernese decide di riaprire questo tipo di discorso, di cui, a ben guardare, si parlava già nell’800. A partire dal secondo dopoguerra diversi gruppi di lavoro studiarono l’argomento, anche con il sostegno di alcuni consiglieri federali. Al centro del confronto politico su questo tema c’era sempre l’aspetto finanziario di un’opera del genere e i benefici che una nuova galleria avrebbe potuto garantire allo sviluppo economico del Paese. Ogi ebbe poi il merito di sintetizzare quello e tanti altri studi in quelle ormai famose due linee tracciate sulla cartina svizzera e soprattutto, al di là dell’aneddoto, di portare il suo progetto in governo e in parlamento, dove non mancavano scetticismi e opposizioni. E questo malgrado che nel 1986 le Camere federali avessero approvato con un’ampia maggioranza una mozione dell’allora consigliere nazionale Sergio Salvioni che chiedeva di iniziare a pianificare una nuova galleria di base. Mozione sostenuta anche da un secondo atto parlamentare promosso al Consiglio degli Stati, con l’appoggio del senatore ticinese Franco Masoni.

Superato l’ostacolo parlamentare, il progetto di una doppia trasversale

Keystone

due nuovi trafori ferroviari sotto le Alpi significava una rottura con la politica dei trasporti del passato e si scontrò con numerose opposizioni – Una retrospettiva

alpina, con il Lötschberg e il San Gottardo, dovette vedersela con l’esame popolare, perché contro di esso fu lanciato un referendum da parte degli ecologisti. A loro dire il progetto era esagerato, non sostenibile dal punto di vista finanziario e non dava garanzie per un concreto trasferimento dalla strada alla ferrovia del trasporto delle merci. Il referendum fu sostenuto anche dal partito degli automobilisti, per una volta al fianco dei Verdi. Piccolo aneddoto storico: le firme raccolte furono 50’150, un numero di poco superiore al limite posto per la validità di un referendum.

Al momento del voto, il 27 settembre del 1992 il parere del popolo fu chiaro visto che il 63% dei cittadini svizzeri si schierò a favore della nuova trasversale. Bocciano Alptransit solo i due semicantoni di Appenzello e Uri, posizionato proprio sull’asse del San Gottardo.

Il Ticino i favorevoli sfiorarono il 60% per un progetto che ottenne un robusto appoggio in particolare nei cantoni romandi, proprio grazie alla variante del Lötschberg. Nel canton Ginevra il primato dei «sì», con l’85% dei cittadini a

favore dei due nuovi tunnel ferroviari.

Subito dopo, e malgrado il risultato del voto popolare, in governo scoppiò una sorta di guerra di logoramento tra Adolf Ogi e il socialista Otto Stich. Per il ministro delle finanze di quell’epoca, Alptransit, con le due gallerie, rappresentava un lusso che il nostro Paese non sarebbe stato in grado di permettersi.

Troppo caro e troppo alto il rischio di un collasso per l’insieme delle finanze federali. Tra il 1993 e il 1995, i due ministri si scambiarono reciprocamente accuse pesanti. Celebre in questo contesto una frase di Stich – «in governo ci sono sei ministri e un maestro di sci» – riferita proprio ad Ogi, appassionato sciatore e incapace, a detta del ministro delle finanze, di valutare le conseguenze delle nuove trasversali alpine. Più volte i loro colleghi di governo, tra cui anche il ticinese Flavio Cotti, dovettero richiamare i due ministri a più miti consigli. Alla fine si trovò un compromesso, dopo una storica e tesissima riunione «extra muros» del consiglio federale a La Neuveville, nel canton Berna.

La spuntò la variante delle due gallerie

– anche perché approvata dal popolo – ma con il traforo del Lötschberg ridimensionato rispetto ai progetti iniziali.

Stich non ne fu per nulla contento e decise di dare le dimissioni. Gli subentrò Moritz Leuenberger, che andò subito a dirigere il Dipartimento federale del trasporti. Ogi finì alla difesa, pagando anche lui per le tensioni politiche create negli anni precedenti. La calma tornò così in governo e il tema si ripresentò più volte al vaglio dei cittadini, che tra le altre cose, nel 1998 approvarono l’introduzione della tassa sul traffico pesante, indispensabile per il finanziamento della nuova opera ferroviaria. In quegli anni il Ticino riuscì a difendere la realizzazione della nuova galleria del Monte Ceneri, per un tracciato che si ferma comunque a Lugano. Per la linea verso Chiasso occorrerà aspettare ancora, magari la matita di un altro ministro, che sull’esempio di Ogi, sappia dare nuovi impulsi al completamento di Alptransit.

Ma questa sarà un’altra storia, l’ennesima battaglia politica attorno ai trasporti ferroviari svizzeri.

Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 30 maggio 2016 ¶ N. 22

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 30 maggio 2016 ¶ N. 22

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Società e Territorio

Società e Territorio

L’opera del secolo

FFF HHH CCC

AlpTransit La galleria più lunga e profonda del mondo, la cui costruzione è durata 11 anni e la progettazione 25, è un’opera ingegneristica

57 km di lunghezza totale della galleria

2,3 km di copertura rocciosa massima

28,2 mio. tonnellate di materiale di scavo

46 ºC di temperatura massima nel sottosuolo

Costi: ca. 23 mia. franchi

4 mio. m di cemento

125 000 tonnellate di arcate d’acciaio

3200 km di cavi di rame

che non ha eguali – Avvicina il Ticino (ma anche l’Italia) al resto della Svizzera e al nord Europa L’hanno chiamato il cantiere del secolo e non a caso. Le cifre sono impressionanti, per lunghezza degli scavi, profondità, quantitativi di materiale rimosso, tempi di lavorazione, milioni – anzi miliardi – di spesa e molto altro ancora. La Svizzera può e deve essere orgogliosa di quanto ha realizzato. Complice la morfologia del territorio alpino, da noi si è dovuta affinare da tempo la tecnica per superare gli ostacoli. Il nostro Cantone a sud delle Alpi ha sempre guardato con attenzione alle vie di comunicazione e fino dalla sua costituzione si è assunto come compito prioritario la costruzione delle strade. A queste sono seguite le ferrovie, sfociate in quel capolavoro di ingegneria che è stata la linea del San Gottardo, con le rampe e le gallerie elicoidali e con il famoso traforo inaugurato nel 1882. Sono passati molti anni e per far fronte alle esigenze dei commerci e dell’accresciuta mobilità degli anni 2000 su questa tratta bisognava fare di più. Così è nato il progetto della NEAT, con 5 comparti distinti: a nord quello di Erstfeld, a sud quello di Bodio, in mezzo Amsteg, Sedrun e Faido. Da queste ultime località partono i cunicoli di accesso ai 2 tubi.

Le prime idee per una nuova galleria ferroviaria sotto il San Gottardo risalgono agli anni del dopoguerra quando, nel 1947, un geniale ingegnere di Basilea presentò un progetto che contemplava una galleria alta 20 metri con tre livelli: quello inferiore per la ferrovia, quello mediano per l’autostrada e quello superiore per i servizi. Era forse troppo presto per un’idea così lungimirante e non se ne fece nulla. Poi negli anni ’70 apparve un altro progetto, che rimase tale. Si era avviato lo scavo della galleria autostradale, inaugurata poi nel 1980, e l’automobile riceveva molti più consensi del treno. Tuttavia, i grossi problemi legati al traffico motorizzato spinsero il popolo svizzero, solo 12 anni dopo l’inaugurazione del tunnel autostradale del San Gottardo, a votare la decisione di trasferire su rotaia le merci che attraversavano il nostro territorio. I tempi erano maturi per rilanciare l’importanza del treno con l’abbandono parziale del traffico su strada.

Tuttavia, per scavare un tunnel tanto ardito sotto il massiccio del San Gottardo ci volevano studi preliminari.

Il percorso migliore della galleria ferroviaria di base lo dettò la geologia. La spina dorsale delle Alpi svizzere è per lo più composta da gneiss e graniti cristallini duri e compatti, ma vi sono anche sedimenti sottoposti in parte a profonde fratture. Nelle zone giudicate critiche sono stati necessari studi approfonditi e anni di sondaggi, cominciati nel 1989. Tra i punti più indagati ci sono stati il massiccio intermedio del Tavetsch (con roccia morbida come il burro, la fillite tenera e poco compatta) e la Sacca di Piora, il regno della temuta Dolomia Saccaroide (una roccia che si altera facilmente sgretolandosi come zucchero) i cui comportamenti avrebbero potuto mettere fortemente a rischio la costruzione della galleria ferroviaria. In Ticino si scavò un cunicolo orizzontale di oltre

5 km a Polmengo (Faido). Le prime perforazioni di controllo misero in allarme ma successivamente, con uno scavo eseguito più in basso, si poterono dissipare molti dubbi.

Nel 1998 venne fondata la AlpTransit San Gottardo SA, società figlia delle Ferrovie Federali Svizzere, committente delle nuove trasversali alpine sull’asse del San Gottardo. L’asse comprendeva, oltre al tunnel principale di 57 km, quelli del Monte Ceneri (15,4 km) e dello Zimmerberg, vicino a Zurigo. Le caratteristiche della linea di base sotto il San Gottardo avrebbero permesso velocità fino ai 160 km/h per i treni merci e addirittura 250 km/h per quelli passeggeri. Questo potrà succedere perché le pendenze sono ridotte e i raggi di curvatura delle curve sono molto ampi. Il tunnel di base si mantiene mediamente al livello di circa 500 metri sul mare. La linea è equiparabile a una ferrovia di pianura e come tale risulta velocissima. Oltre ad essere la galleria più lunga del mondo è anche quella più profonda, in certi punti vi sono 2300 metri di roccia sopra il tunnel.

La scelta tecnica è caduta su 2 canne a binario unico, distanti 30 m tra loro.

Ognuno dei 2 tubi ha un diametro di 9,4 m. Ogni 325 metri le due gallerie principali sono collegate da cunicoli trasversali che, in caso di fermate di emergenza del treno, serviranno da vie di fuga verso il tubo adiacente. Sappiamo che la galleria è lunga 57 km ma, se contiamo i cunicoli di collegamento e di accesso e i pozzi, gli scavi hanno superato i 152 km. Nelle località di Faido e Sedrun vi sono due enormi caverne con i locali tecnici e le installazioni per la ventilazione. Sono le cosiddette stazioni multifunzionali. Dentro di esse si possono anche effettuare i cambi di corsia, con il passaggio del treno da un tubo all’altro, oppure far sostare i treni in caso d’emergenza.

L’accesso di Sedrun è singolare: una galleria orizzontale di circa 900 metri porta a un pozzo che con un velocissimo ascensore permette di scendere nella stazione posta 800 metri più in basso. È questa la strada che quotidianamente hanno percorso i minatori e gli addetti allo scavo con tutti i loro materiali. Per quella stessa strada sarebbe stato impossibile portare e montare l’enorme fresatrice usata nel cantiere di Faido, ragion per cui, nel comparto di Sedrun, in galleria fu scelto l’avanzamento con l’esplosivo.

Finito lo scavo vi è stata la lunga parentesi per attrezzare l’intero tunnel con la cosiddetta tecnica ferroviaria, cioè con i binari, i cavi, l’illuminazione, l’areazione, la segnaletica, i sistemi di allarme e rilevamento, i programmi computerizzati di gestione e altro ancora. A garantire i collegamenti sarebbero stati tirati oltre 2500 km di fibre ottiche. 25 anni di progettazione e 11 anni di costruzione, appunto il cantiere del secolo!

Per il completamento verso sud da oltre 5 anni si è messo mano alla nuova galleria di base del Monte Ceneri. Dopo la sistemazione definitiva, dal dicembre 2020, anche questa tratta sarà percorribile.

La fresa «Sissi» rompe l’ultimo diaframma della galleria di base, il 15.10.2010 a Sedrun. (Keystone)

Massiccio dell’Aar

Massiccio dell’Aar

Zona di Intschi

Erstfeld

Portale Nord 460m s.l.m.

Cunicolo d’accesso Amsteg

Galleria di base del San Gottardo

57,1 km

2016

Massiccio Intermedio di Tavetsch

Cunicolo d’accesso Sedrun

Zona di Urseren-Garvera

Massiccio del Gottardo

Zona di gneiss pennidico

Sacca di Piora

Bodio

2,3 km di copertura rocciosa massima

Portale Sud 312m s.l.m.

Cunicolo d’accesso Faido

Caduta del diaframma: 15 ottobre 2010

Svizzera

Le gallerie ferroviarie più lunghe a confronto 1988

Giappone

1994

Francia e Gran Bretagna

Lötschberg

2007

Svizzera

Tunnel di Guanjao

2014

Cina

Tunnel di Guadarrama

2007

Spagna

Galleria Seikan 50,5 km

Eurotunnel

0

5

10

15

20

Un popolo di ferrovieri Ferrovia e identità nazionale Simbolo di precisione e affidabilità,

ha contribuito a unire città e campagna, pianura e montagna, cantoni rurali e industriali, e a far conoscere la Svizzera agli svizzeri Orazio Martinetti La Swissair è scomparsa dai cieli; la Posta è stata smembrata in vari comparti; l’esercito combatte ogni volta contro tagli e risparmi. E le Ferrovie federali svizzere? Nonostante mugugni contingenti per ritardi, rincaro dei biglietti o carrozze sovraffollate, l’azienda conserva un alto tasso di popolarità. La grande trepidazione che si è creata intorno ad AlpTransit lo conferma: la «cultura ferroviaria elvetica» rimane salda, poggia su basi granitiche, ed è tuttora simbolo di precisione e affidabilità.

Certo, nel canton Ticino non mancano le apprensioni per le sorti delle Officine di Bellinzona, uno dei cardini dell’economia locale, punto di riferimento storico sia sul lato dell’occupazione, sia sul lato dell’associazionismo sindacale e ricreativo. La speranza è che la nuova linea ridia vigore anche al centro di riparazione e manutenzione: sarebbe incomprensibile se questo non succedesse, lungo uno degli assi di traffico più battuti d’Europa.

La cultura ferroviaria alimenta ancora oggi l’immaginario del cittadinoviaggiatore, ponendolo al centro del servizio: la grafica, l’estetica, l’edilizia delle stazioni e dei buffet permettono un orientamento e un’identificazione immediata con l’azienda. La ferrovia ha svolto ovunque questa funzione, ossia la capacità di «fare rete» attraverso la propagazione rizomatica delle tratte.

Ma in Svizzera l’impresa ferroviaria è andata ben al di là dei suoi compiti di vettore di trasporto, per ergersi a collante mobile dell’unità e della coesione nazionale.

L’elevazione delle FFS a simbolo dell’identità nazionale prese avvio con la nascita dell’azienda controllata dalla Confederazione nel 1902. Quattro anni prima, nel 1898, il popolo svizzero aveva ratificato alle urne la statizzazione delle cinque maggiori compagnie ferroviarie, tra le quali spiccava quella del Gottardo. La campagna fu accesa perché non si riduceva alla contrap-

Le comodità di un viaggio in treno: un addetto del vagone-ristorante mostra il menu ad una passeggera di prima classe, anno 1941.

(Keystone)

posizione «federalisti contro unitari» come spesso era accaduto in precedenza: questa volta la posta in gioco comprendeva vitali ragioni di natura economica, diplomatica e militare. Le ferrovie – dicevano i giornali – dovevano essere al servizio del popolo e non ubbidire a potentati esteri e ad azionisti ebrei. L’affermazione della società industriale, l’esigenza di reperire oltre confine, soprattutto nella Ruhr, il carbone destinato alle vaporiere, l’aumento dei flussi di import-export resero urgente la revisione della gestione e l’allestimento di un programma d’investimenti. Solo una regia unica sarebbe stata in grado di recuperare i ritardi accumulati.

Fino alla grande guerra, le FFS investirono le loro energie nel rinnovamento degli impianti e del materiale rotabile. La croce svizzera doveva figurare sia sulle fiancate delle carrozze sia sui berretti del personale; anche nell’abbigliamento la direzione volle ispirarsi alle uniformi dell’esercito. Ma il patriottismo dei ferrovieri non fu totale e

incondizionato. Nel novembre del 1918, in un clima di forti tensioni sociali (caro-vita, disoccupazione, penuria dei generi di prima necessità, la grande epidemia influenzale «spagnola»), i ferrovieri aderirono in massa allo sciopero generale proclamato dal comitato di Olten.

Le privazioni imposte dal conflitto avevano evidenziato il punto di maggior debolezza: la dipendenza dall’estero nell’approvvigionamento del combustibile. Fu così che le FFS decisero di accelerare l’elettrificazione della rete, investendo nella produzione del «carbone bianco». Appoggiandosi ai progressi compiuti dall’industria elettrica, le FFS riuscirono nel giro di pochi anni a liberarsi del carbon fossile e quindi ad allargare gli spazi della sua autonomia. Nel contempo, in un’atmosfera di crescente introversione politica e culturale (la difesa spirituale), le ferrovie ri-orientarono la loro offerta al mercato interno, prima trascurato. Dopo il 1914 infatti la clientela abbiente, perlopiù germanica e inglese, era crollata; oc-

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correva quindi guadagnarsi i favori del pubblico indigeno attraverso accorte campagne promozionali. Agenzie di viaggio e sportelli spuntarono nelle vie eleganti e nelle piazze delle principali città. Si trattava di conquistare i nuovi ceti medi che avevano migliorato la loro condizione economica, come gli impiegati, i funzionari amministrativi, gli operai specializzati, i docenti.

A questi ceti la ferrovia offriva sconti e vantaggi, soprattutto nei giorni festivi. In carrozze sempre più comode si potevano raggiungere comprensori sciistici e stabilimenti termali, località alla moda, funivie e funicolari che in pochi minuti permettevano alle comitive di salire agli alberghi costruiti in quota. Le rotaie formavano la ragnatela che collegava i cantoni industriali con quelli rurali, la città con la campagna, la pianura con la montagna. Col treno anche il popolo che prima non aveva mai avuto occasione di viaggiare poteva scoprire «la madrepatria» e quindi apprezzarla nelle sue diversità di lingua, costumi, mentalità, abitudini alimentari, feste.

L’indipendenza energetica permise al Paese e alle sue ferrovie di affrontare la prova della seconda guerra mondiale con maggiore serenità. Le FFS assursero a simbolo viaggiante della volontà di difesa, utilizzato da civili, militari e da vocianti e allegre scolaresche in gita.

Nel 1947 la direzione poté festeggiare il primo secolo di esistenza della ferrovia con sentimenti d’orgoglio. Le FFS avevano fatto la loro parte nel mantenere unito il Paese assediato dalle potenze nazifasciste; inoltre avevano conservato intatte le qualità del servizio: celerità, sicurezza, redditività, puntualità, confortevolezza. Allora di «ecologia» ancora non si parlava, ma il senso era quello.

Nei decenni del dopoguerra, il «trentennio glorioso» della crescita economica, la ferrovia ha dovuto affrontare la concorrenza dell’auto, incassando anche qualche bruciante sconfitta. Ma poi ha sempre trovato le forze per rialzarsi, traendo beneficio dalle crisi petrolifere, come al principio degli anni ’70, o dagli allarmi ambientali. Con il programma «Ferrovia 2000» ha evitato di finire sul binario morto. E ora, con AlpTransit (che comprende, non dimentichiamolo, Lötschberg e Gottardo), le FFS aprono un nuovo capitolo della loro ultracentenaria storia. Con le incognite e gli interrogativi che sempre accompagnano tutte le grandi svolte di rilievo epocale.

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Infografica: Yvette Hettinger e Michael Stünzi (MM).

Loris Fedele

AlpTransit tra enfasi e realismo Prospettive economiche Bellinzona, Locarno e Lugano potranno beneficiare della galleria

di base, a condizione che autorità ed economia privata sappiano realizzare nuovi progetti – La Leventina, invece, rischia l’isolamento Fabio Dozio La galleria di base del San Gottardo entrerà in funzione in dicembre, ma solo nel 2020, con l’apertura della galleria del Ceneri, avrà effetti significativi.

«Fino all’apertura del Ceneri non cambia molto, è solo circa mezz’ora in meno da Zurigo a Bellinzona». Parola di Doris Leuthard, consigliera federale a capo del Dipartimento dei trasporti. Ministra realista!

Uno studio del Credit Suisse dedicato alla galleria di base la definisce «un’opera di portata epocale che crea prospettive fino a oggi impensabili». E indica alcune cifre strabilianti. Bellinzona potrebbe diventare un potenziale luogo di lavoro per ulteriori 33 mila persone.

A Locarno potrebbero giungere 260 mila turisti di giornata in più ogni anno, a Lugano 315 mila.

Uno studio precedente, commissionato dal Dipartimento delle finanze e dell’economia, «Effetti economici della messa in esercizio di AlpTransit: opportunità e rischi», ipotizza un incremento dei posti di lavoro in Ticino da 700 a 1400.

«Al di là di questo dato quantitativo – ci dice il consigliere di Stato Christian Vitta – sono dell’idea che soltanto con un impegno comune di autorità e iniziativa privata sarà possibile ottimizzare l’impatto economico di AlpTransit, realizzando una serie di progetti specifici con anche ricadute importanti in ambito del mercato del lavoro. Le prospettive di sviluppo sono molte, ma le ricadute non saranno automatiche. I vantaggi che ne potranno derivare arriveranno soltanto se gli attori che operano sul territorio sapranno cogliere le opportunità che questa infrastruttura offre».

«Bisogna restare con i piedi per terra – precisa Fabio Regazzi, consigliere nazionale e presidente degli industriali ticinesi – AlpTransit rappresenta un potenziale di sviluppo interessante, ma non mi sbilancio sulle cifre, bisogna valutare e verificare i fatti. Il settore industriale ripone molte aspettative, perché la galleria

di base può contribuire ad avvicinarci al nord della Svizzera e dell’Europa, mercati interessanti e attrattivi. Per la nostra industria è un evento che può imprimere ottimismo».

La manna di AlpTransit non pioverà su tutto il Ticino. La galleria di base, che sbuca a Pollegio, avrà ricadute positive a sud, ma da Pollegio ad Airolo, che cosa succederà?

«Alcune regioni riceveranno stimoli minori dall’apertura di AlpTransit – afferma il responsabile del Dipartimento finanze ed economia – l’accentramento dei posti di lavoro renderà in particolare necessario uno sforzo supplementare per arrestare il divario di crescita osservato tra le regioni urbane e quelle periferiche.

Non dobbiamo però dimenticare che potrebbero crearsi delle nuove dinamiche.

Al giorno d’oggi, il 23% degli svizzeri lavora da casa ed è previsto che, in futuro, questa quota salirà al 42%. Con la volontà politica di garantire le strutture necessarie, penso ad esempio all’internet veloce, anche le zone periferiche potrebbero beneficiarne e trovare nuova linfa vitale, posizionandosi come aree residenziali di qualità. Luogo di residenza e di lavoro potrebbero coincidere».

La ferrovia di montagna, lo storico percorso che si inerpica fino ai 1175 metri di Airolo, avrà un futuro?

Andreas Meyer, CEO delle FFS, scrive che «la tratta di montagna storica continuerà a essere gestita conformemente alla domanda». Una frase sibillina, che nella bocca di un presidente di una società anonima potrebbe essere tradotta così: «se ci costa troppo perché sarà poco usata, la chiuderemo».

Fabio Regazzi, che fa parte della Commissione dei trasporti del Nazionale, è perentorio: «La Leventina va difesa, è una battaglia politica e bisogna muoversi subito cercando sostegno e solidarietà a Berna. Le FFS lasciano già intendere che potrebbero disimpegnarsi se la linea di montagna non sarà più redditizia. La vecchia ferrovia deve essere mantenuta, forse valorizzata in senso turistico, in ogni caso deve essere garantito

Intercity fermo alla stazione di Airolo: quale futuro aspetta la Leventina? (Keystone)

un servizio adeguato sulla vecchia linea.

AlpTransit sarà l’occasione del secolo, ma non per tutti. Le regioni discoste, come la Riviera e la Leventina, devono ottenere contropartite».

Fabio Pedrina, ex consigliere nazionale e presidente onorario dell’Iniziativa delle Alpi, è determinato: «AlpTransit può avere un effetto economico tendenzialmente negativo per la Leventina, che rimane tagliata fuori. Bisogna garantire la sopravvivenza della linea di montagna, che deve diventare un mezzo di trasporto per rilanciare la regione. Una specie di S-Bahn, un interregionale, che offra possibilità di crescita agli agglomerati delle valli. Non può essere solo un’offerta turistica. Potrebbe stimolare uno sviluppo demografico, perché le nostre periferie offrono buona qualità di vita, con ottime possibilità residenziali a costi minori. La linea di montagna deve anche rimanere quale supporto e appoggio ad AlpTransit. Se la linea di base avrà successo, potrebbe sovraccaricarsi e quindi la vecchia ferrovia ha ancora un suo valore».

Christian Vitta sottolinea che a fine 2017 «l’Ufficio federale dei trasporti

esaminerà le condizioni dell’offerta, ad esempio la frequenza dei collegamenti, e stabilirà se la tratta di montagna dovrà continuare a essere gestita nell’ambito del traffico a lunga distanza o eventualmente del traffico regionale cofinanziato dalla Confederazione e dai Cantoni.

Questo tema sarà seguito da vicino da parte del Cantone».

AlpTransit garantirà il tanto auspicato trasferimento delle merci dalla strada alla ferrovia?

Uno studio dell’Iniziativa delle Alpi indica che la trasversale alpina potrà trasportare circa 50 milioni di tonnellate di merci all’anno: oggi strada e ferrovia non raggiungono complessivamente i 40 milioni. «Non ci sono più scuse, – afferma Fabio Pedrina – bisogna spingere perché si possano trasferire almeno 6 milioni di tonnellate sulla ferrovia, delle attuali 12,5 che transitano sulle nostre strade».

Per Fabio Regazzi si è perso di vista l’obiettivo originale, che doveva liberare la Svizzera dal traffico pesante, «finché non ci saranno le rampe di carico adatte alla frontiera, o vicino al porto di Genova, l’operazione AlpTransit non può dirsi conclusa».

Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 30 maggio 2016 ¶ N. 22

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Società e Territorio

«Ho lottato per un’impresa storica» AlpTransit Ripercorriamo con l’ex consigliere federale e ministro dei trasporti Adolf Ogi, gli anni in cui

si decise di realizzare le gallerie di base del Lötschberg e del San Gottardo

Da una parte, la sua opposizione al progetto era comprensibile visto che il suo compito come ministro delle finanze era di far quadrare i conti della Confederazione. Il mio compito era invece di promuovere una politica dei trasporti lungimirante. Io dovevo leggere nella sfera di cristallo per vedere come si sarebbe sviluppato il traffico in 20-100 anni.

Luca Beti È difficile avvicinarsi al momento storico, all’inaugurazione della galleria di base del San Gottardo senza pensare ad Adolf Ogi. È il padre della nuova ferrovia transalpina (NFTA). Per otto anni, dal 1988 al 1995, si è battuto come un leone per quest’opera epica. «Era un compito che gli calzava a pennello.

Adolf Ogi cercava costantemente una sfida e con la NFTA aveva pane per i suoi denti», scriveva nel 2001 Helmut Hubacher in una pubblicazione (OgiMacht und Ohnmacht) che lui, socialista, ha dedicato al suo antagonista politico. A 73 anni, Ogi è ancora come lo ricordiamo: parla con entusiasmo del suo progetto, usando frasi a effetto e svelando interessanti aneddoti. «Per convincere i più reticenti, ho chiesto al pilota dell’elicottero di avvicinarsi alla parete dell’Eiger affinché cedessero finalmente alle mie argomentazioni», ci descrive l’ex consigliere federale un momento particolare della visita dei ministri dei trasporti dell’UE in Svizzera.

Dagli anni Sessanta si parlava di una nuova trasversale alpina. Prima di lei nessuno però aveva trovato il coraggio di trasformare in realtà questa idea visionaria. Lei questo coraggio l’ha trovato.

Il 1° gennaio 1988 ho ereditato il dossier da Leon Schlumpf. Sulla mia scrivania c’erano studi, analisi, valutazioni, piani finanziari: con tutta questa documentazione avrei potuto riempire una piscina olimpica. Dopo un intervento parlamentare sulla NFTA, mi sono subito dato da fare. Ho intuito che era il momento giusto per realizzare questo ambizioso progetto. C’erano vari fattori che giocavano a favore della più grande opera ecologica mai realizzata in Europa. Si era aperta una finestra a livello politico e io non potevo tergiversare perché questa opportunità poteva sfumare da un momento all’altro.

Dopo aver studiato queste carte, certo non tutte, una sera tra le dieci e le undici ho preso una cartina della Svizzera.

Per prima cosa ho tracciato una riga che partiva da Altdorf, attraversava Erstfeld e finiva a Biasca. Questa è stata una decisione semplice; il San Gottardo è la via più veloce, è il simbolo della Svizzera. E poi ho preso il coraggio a due mani e ho disegnato un’altra retta tra Frutigen e Visp. E da quel momento, da parte mia non c’è stato più alcun ripensamento. Da quel momento ho dovuto lottare, lottare per portare avanti questa impresa storica.

Sul tavolo aveva tante varianti. Perché ha scelto proprio questa?

Ho deciso per questa variante perché sapevo che sarebbe stato lanciato un referendum contro questo progetto. La scelta di realizzare le gallerie di base del

La diatriba tra lei e Otto Stich durò quasi due anni. Come ne siete venuti a capo?

Nel 1995, dopo le vacanze estive, il Consiglio federale ha tenuto una seduta straordinaria a porte chiuse a La Neuveville, nel canton Berna. All’ordine del giorno c’era il finanziamento della NFTA. Abbiamo iniziato alle cinque di mattina e a mezzanotte avevamo finalmente trovato un’intesa su come garantire il finanziamento del progetto. Tutti erano d’accordo con questa proposta. Ma poi c’è stato il colpo di scena: la mattina dopo, mentre eravamo seduti a colazione, Otto Stich mi ha comunicato che ci aveva ripensato, che non condivideva più la decisione presa poche ore prima. Lo stesso giorno, alle 10, avevamo indetto una conferenza stampa a Palazzo federale durante la quale io avevo il compito di informare i giornalisti sul risultato della seduta a porte chiuse.

E allora ho chiesto al ministro delle finanze di accompagnarmi alla conferenza stampa per presentare il suo punto di vista. È stata una situazione molto difficile.

Adolf Ogi, ex consigliere federale: «Non dimentichiamo che la NFTA viene inaugurata senza scandali finanziari né errori di realizzazione».

(Michael Sieber)

San Gottardo e del Lötschberg non è casuale. La variante con un unico traforo tra Erstfeld e Biasca avrebbe scontentato sia i cantoni della Svizzera orientale, sia quelli della Svizzera francese. Con le due gallerie di base, le possibilità di superare lo scoglio di una votazione popolare erano invece intatte.

Dopo aver preso questa decisione, lei procede a spron battuto…

Sapevo che dalla stesura del messaggio alla realizzazione dell’opera sarebbero trascorsi dai venti ai trent’anni e quindi non c’era tempo da perdere. Così, a meno di due anni dalla mia entrata in carica come capo del Dipartimento dei trasporti, il Consiglio federale ha presentato alle Camere federali il messaggio concernente la costruzione di una ferrovia transalpina. Il 4 ottobre 1991, il parlamento ha approvato la costruzione delle due nuove gallerie di base.

Gli ostacoli sulla strada della realizzazione della NFTA non sono però finiti. L’UE, l’allora Comunità europea, ha altre idee per attraversare le Alpi. Com’è riuscito a convincere i ministri dell’UE?

Tra il 1° gennaio 1988 e il 2 maggio

1992 mi sono recato ben 37 volte all’estero per incontrare i ministri dei trasporti dell’UE. Durante queste riunioni ho cercato di spiegare loro che non era possibile ampliare la rete autostradale nelle Alpi o creare un corridoio da 40 tonnellate per il traffico pesante. Durante questi colloqui ho avuto sempre più l’impressione di parlare a un muro. Ho deciso quindi di cambiare strategia e ho organizzato una sorta di visita didattica per mostrare da vicino la situazione ai miei omologhi europei.

Dopo aver presentato loro il sistema di trasbordo dei camion dalla strada alla ferrovia a Birrfeld, li ho portati in elicottero a Wassen per fare vedere loro che era impossibile costruire altre autostrade nelle strette valli alpine. Infine ho condotto i più testardi davanti alla croce della chiesetta di Wassen e a vedere la parete nord dell’Eiger mentre eravamo in volo verso Kandersteg, dove ci aspettava un ricco spuntino.

Una strategia che ha sortito l’effetto sperato…

Sì, il 2 maggio 1992, dopo anni di tenaci trattative, Svizzera e Comunità europea hanno firmato l’accordo di transito

Galleria di montagna del San Gottardo Erstfeld Amsteg Wassen Sedrun

Infografica: Yvette Hettinger e Michael Stünzi (MM).

Göschenen

Basilea

Airolo

Zurigo

Berna

Lötschberg Ginevra

Faido

Bodio Gottardo

Ceneri

Milano

Tempi di costruzione: 1872-1882 Lunghezza: 15,003 km Capacità: 180 treni merci al giorno Persone impegnate nei lavori: 3305 Incidenti mortali sul lavoro: 199

Tunnel di base San Gottardo Tempi di costruzione: 1999-2016 Lunghezza: 57,104 km (canna Est) Capacità: 250-260 treni merci al giorno Persone impegnate nei lavori: 2600 Incidenti mortali sul lavoro: 9

Tunnel di base San Gottardo Galleria di montagna del San Gottardo Cunicoli d’accesso Punti di raccordo San Gottardo, Ceneri e Lötschberg

a Porto. Questa intesa ci obbligava a costruire un corridoio intermodale per il trasporto dei camion lungo la tratta ferroviaria del Lötschberg e del Sempione e a realizzare a lungo termine le gallerie di base del Lötschberg e del San Gottardo. In cambio, l’UE accettava il limite delle 28 tonnellate per gli autocarri. Il Consiglio federale non ha semplicemente detto no alle richieste dell’UE, bensì ha proposto delle alternative nell’interesse della protezione delle Alpi, della nostra natura, di una politica dei trasporti lungimirante.

Nello stesso anno il progetto della NFTA ha dovuto superare un ulteriore scoglio: il referendum popolare.

Dopo l’approvazione in parlamento, un comitato ha lanciato con successo un referendum contro il progetto. Ne facevano parte i Verdi, un comitato del canton Uri e il giornalista basilese Bernhard Böhi. Nei mesi precedenti la votazione ho percorso in lungo e in largo la Svizzera. Ogni sera ero in un’altra località per partecipare a un dibattito pubblico e per sostenere il progetto della nuova ferrovia transalpina. Tutto questo viaggiare e lottare non è stato inutile.

Il 27 settembre 1992 il popolo svizzero ha approvato la costruzione della NFTA con il 63,6 per cento dei voti.

Tutto sembrava giocare a suo favore. In soli cinque anni, dal 1988 al 1992, era riuscito a vincere su più fronti: in parlamento, alle urne, in Europa. In Consiglio federale però non tutti erano favorevoli al progetto. Nel 1994, Otto Stich mise in dubbio pubblicamente, attraverso i media, il finanziamento e la redditività della NFTA. Fu un attacco frontale contro di lei. Come lo visse?

È stato un periodo molto difficile.

Nonostante il popolo avesse approvato la NFTA con il il 63,6 per cento, Otto Stich si è sempre opposto alla realizzazione del tunnel di base del Lötschberg.

Per lunghi mesi, durante quasi tutte le riunioni del mercoledì del Consiglio federale ha riproposto la questione del finanziamento.

Niente intesa quindi, nemmeno dopo una seduta straordinaria che aveva anche il compito di lavare i panni in casa. A questo punto il Consiglio federale ha incaricato la ditta inglese Cooper & Lybrand di verificare la redditività della NFTA e ha istituito un gruppo di lavoro interdipartimentale.

Il rischio era che si iniziassero a contare i centesimi, che la questione del finanziamento potesse far naufragare il progetto. Ma non era certo ciò che desiderava il popolo; quest’ultimo aveva approvato la costruzione delle trasversali alpine con un’ampia maggioranza.

Per salvare il progetto si è deciso di amputare l’idea inziale: solo un terzo della galleria di base del Lötschberg veniva realizzato a binario doppio e si rinunciava alla maggior parte delle linee di accesso, tra le quali la galleria dell’Hirzel. Naturalmente come ministro dei trasporti mi sono sempre chiesto se era più saggio costruire prima le vie di accesso o i tunnel. Da un punto di vista politico ho capito che era il momento di costruire le gallerie; tra 10-20 anni non sarebbe magari più stato possibile perché quella famosa finestra si era chiusa.

Il 1° giugno si inaugurerà Alptransit.

Come vivrà questo momento?

Sarà un momento molto gratificante per me. Mi ricorderà le tappe per giungere all’inaugurazione di questa opera storica: la presentazione del progetto in governo, le discussioni e l’approvazione in parlamento, il referendum, la disputa sul finanziamento, i problemi geologici. Il 1° giugno sarò un uomo molto felice poiché la storia mi ha dato ragione. La galleria di base del Lötschberg è un successo, quella del San Gottardo sarà un successo ancora maggiore. Ho promosso un’opera incredibile nell’interesse della Svizzera e della nostra natura. E non dimentichiamo che la NFTA viene inaugurata senza scandali finanziari né errori di realizzazione grazie alle ditte che hanno svolto un lavoro impeccabile.

Il grazie più grande va rivolto però al popolo che nelle varie votazioni ha sempre sostenuto questa impresa straordinaria.

Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 30 maggio 2016 ¶ N. 22

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Società e Territorio

Ventidue consigli per uscire dagli schemi Design thinking Bernard Roth, direttore all’Istituto Hasso Plattner di Standford spiega nel suo ultimo libro

Se vuoi, puoi come farci cambiare modo di ragionare per sfruttare al meglio le nostre capacità

Stefania Prandi «Se vuoi, puoi». Con queste tre parole, che suonano come un monito e che compongono il titolo del suo ultimo libro (appena pubblicato in italiano), Bernard Roth promette di farci cambiare per sempre il modo in cui ragioniamo, scardinando le abitudini che ci impediscono di sfruttare al meglio le nostre capacità. Considerando il suo curriculum e le vicende personali, c’è da credergli. Dopo il master e il dottorato alla Columbia, è diventato direttore all’Istituto di design Hasso Plattner di Standford, tra le migliori università del mondo. Un successo raggiunto nonostante, durante l’adolescenza, abbia dovuto superare la morte prematura della madre, i problemi di un padre con un grave disturbo maniaco compulsivo, amicizie sbagliate e scarsi rendimenti scolastici. Inoltre, da adulto, ha affrontato la nascita di un figlio con una paralisi cerebrale, con conseguente ritardo mentale e spasticità motoria.

Il design thinking porta a concentrarsi sull’azione perché spesso le persone si bloccano nei percorsi di pianificazione troppo lunghi e non trovano più il coraggio di rischiare Il professor Roth è conosciuto in tutto il mondo per essere uno degli inventori del design thinking, termine con cui si intende un insieme di pratiche efficaci nel risolvere le sfide della progettazione in ambito scientifico e aziendale. Si tratta di un metodo che, attraverso lavori di gruppo, consiste nell’individuare il problema da risolvere, trovare soluzioni, sviluppare piani per metterle in pratica, testarle e ottenere dei riscontri.

La particolarità dei corsi di Roth è che insegna ad applicare questo sistema a diversi ambiti della vita. C’è chi, dopo avere frequentato le sue lezioni, è riuscito a lasciare un lavoro poco soddisfacente per trovarne uno migliore, chi ha trovato la costanza per scrivere un libro, chi ha realizzato il sogno nel cassetto.

Il design thinking porta a concentrarsi sull’azione: invece di pensare e pianificare troppo, si passa al fare. «Proviamo.

Tra i suggerimenti di Bernard Roth c’è anche quello di fare elenchi di idee e tabelle delle decisioni.

(Keystone)

Falliamo. Proviamo di nuovo. Falliamo meglio. Durante questo processo riusciamo a fare funzionare le cose come mai avremmo immaginato e guadagniamo una migliore comprensione di noi stessi e degli altri». Ad esempio, in uno dei corsi all’Istituto Hasso Plattner, viene insegnato come fondare un’azienda in dieci settimane. «Al termine degli incontri, si sta già producendo reddito.

Lo stesso obiettivo si può certamente ottenere in altri modi, come andando in una business school e passando un anno a pianificare, prima di fare il grande passo. Spesso, però, le persone si bloccano nei percorsi lunghi, e non riescono più a trovare il coraggio di rischiare».

Il suo metodo riscuote così tanto interesse, spiega Roth ad «Azione», che deve fare una forte selezione sulle iscrizioni perché le domande che gli arrivano sono troppe. «Le mie lezioni sono seguite da studenti di tutto il mondo e da professionisti nel bel mezzo della loro carriera che si prendono un anno sabbatico per ridefinire percorsi e aspettative. Quando finiscono il training, li

vedo diversi: hanno una maggiore consapevolezza, cioè sono più sicuri delle proprie abilità nel risolvere i problemi personali e professionali in maniera creativa. Sono anche più predisposti a credere nei propri sogni e ad affrontare le difficoltà. Io ricordo sempre a tutti loro che si perde più tempo a provare, invece che a fare».

Spesso non riusciamo a dare il meglio perché restiamo prigionieri di schemi mentali sbagliati. A frenarci sono le giustificazioni che diamo a noi stessi e agli altri, scuse per nascondere il fatto che non siamo disponibili a dare veramente priorità a qualcosa, e per negare a noi stessi i nostri limiti. Il design thinking prevede che le giustificazioni vengano messe al bando. Soltanto smettendo di trovare motivazioni anche commoventi ai nostri comportamenti sbagliati, infatti, possiamo riuscire a migliorare. Un altro fattore da rimuovere è quello della proiezione, che si verifica quando le persone attribuiscono un sentimento o un tratto a un altro individuo, e invece sono loro stesse ad avere

quella caratteristica e quel sentimento.

Una persona ingenua, ad esempio, tende a credere che tutti siano affidabili e proietta la propria onestà su chi incontra, mentre una con alla spalle esperienze di doppiezza e disonestà si comporta in modo diffidente nei confronti degli altri, visto che attribuisce agli altri il proprio comportamento manipolatore.

Un altro freno dannoso è l’indecisione continua: perdiamo troppo tempo a scegliere tra diverse opzioni che in certi casi possono sembrare infinite. «Quando do consigli ai miei studenti su grandi decisioni da prendere scopro che, dopo aver delineato la questione e avere discusso i pro e i contro di ogni opzione, è meglio introdurre quello che chiamo il test della pistola. È molto scientifico, sapete? Con le dita mimo una pistola che punto alla fronte di una persone e dico: okay, hai quindici secondi per decidere o premo il grilletto. Qual è la tua decisione? Sanno sempre la risposta. Anche se alla fine non prendono quella direzione, questo esercizio di solito allenta la pressione che si costruisce intorno al

ciale? Sono andata in Rete a vederne alcuni. Alberico De Giglio nei suoi video non fa altro che parlare della sua quotidianità con una tale banalità di contenuti, una povertà di linguaggio e delle riprese prive di qualsiasi accorgimento tecnico o effetto speciale che viene orrore pensare che abbia scritto un libro.

Ma ancora di più rendersi conto che qui siamo di fronte ad una tendenza – speriamo di brevissima durata – che da un lato trova ampio consenso tra gli adolescenti, dall’altro viene promossa e spinta da diversi editori e qualche manager che per ora cavalcano l’onda. Per intenderci, Mondadori Electa oltre al libro di Alberico De Giglio ha pubblicato anche Sotto le cuffie, di FaviJ, Mamma sono diventato una webstar di Sebastian Gazzarrini, Fuori dal web dei due ragazzi

comici (si fa per dire) Matt & Bise e altri. Sono tutte autobiografie di giovani youtuber che – a detta delle giovanissime – spopolano in Rete per due grandi qualità: sono spontanei e autentici. Capacità e doti particolari?

Nessuna.

A parlar chiaro sono i numeri: FaviJ conta oltre due milioni di iscritti su youtube e ha venduto 75mila copie.

Alberico De Giglio ha 700mila iscritti su youtube e per ora 55mila copie vendute. La casa editrice Mondadori Electa ha per altro annunciato che per la fine del 2016 le webstar da loro pubblicate, in tutto, saranno dieci. A curare l’immagine degli youtubers in esclusiva ci pensa invece Web Stars Channel, prima agenzia italiana nata con questo intento. Secondo il suo fondatore Luca Casadei «uno youtuber dura per sempre e il segreto sta

processo di scelta e li aiuta ad avvicinarsi alla soluzione».

Per aiutarci a uscire dagli schemi che ci impediscono di ottenere quello che realmente vogliamo, Roth dà 22 consigli. Il primo è lavorare duro: qualche volta le cose arrivano in un lampo, ma in genere sono il frutto di un lavoro faticoso e di molta frustrazione. Altri suggerimenti: non perdere l’umorismo, fare elenchi, tabelle delle decisioni, usare mappe mentali, imparare dagli altri.

Il metodo del design thinking è buono per tutti, sostiene Roth. «A volte c’è chi dice di essere pigro e di non volersi applicare: si tratta di scuse che nascondono la paura di fallire. Durante i nostri corsi insegniamo proprio a non avere paura delle sconfitte: i fallimenti sono sempre parziali perché ci permettono di aggiustare il tiro. Anche l’età non rappresenta un problema, in questo senso.

Ho ricevuto testimonianze da ottantenni e novantenni che mi hanno scritto che il libro gli è stato utile per liberarsi da problemi che li hanno afflitti per decenni».

La società connessa di Natascha Fioretti Webstar allo sbaraglio, anche nell’editoria Non ci potevo credere quando, qualche giorno fa, al Salone del libro di Torino, tutt’attorno e all’interno dello stand della Mondadori Electa ho visto un’orda di ragazzine in pieno visibilio – modalità mi strappo i capelli – impazzire e gridare neanche fossero ad un concerto rock. La mia incredulità non era data solamente dagli atteggiamenti sguaiati e isterici ma dall’ignoranza di non sapere chi e che cosa potesse provocare tanto fragore tra quegli stand pieni di libri che, come più di un visitatore mi ha confidato, dovrebbero essere immersi in un maggiore silenzio per dare la possibilità di sfogliare le pagine con la giusta calma e attenzione senza avere l’impressione che qualcuno stia sbattendo i coperchi delle pentole nelle

nostre orecchie. Un po’ furtiva e con quel sorriso da ebete tipico dell’adulto che vuole capire le cose da giovani senza in realtà saperne nulla, mi sono avvicinata. Finché, in mezzo a quel marasma, l’idolo di tante teenager si è rivelato ai miei occhi: tutto intento a lanciare sorrisi e a distribuire autografi, c’era lui, Alberico De Giglio, sguardo spavaldo, qualche brufolo, e il cappellino da basket girato al contrario. Senza dare troppo nell’occhio, ho iniziato a girare intorno allo stand finché sotto il titolone «Webstar» ho visto tre copertine con tre facce di ragazzi diversi. Una era proprio quella di Alberico De Giglio, classe 1998, di professione youtuber che per Mondadori Electa ha pubblicato il suo primo libro dal titolo Youdream.

La prima domanda è nata spontanea: che cosa racconteranno di tanto spe-

nell’essere costantemente sintonizzati con i fan per capire come muoversi e raggiungere sempre il più ampio pubblico possibile. Tutto sta nel saper intrattenere il pubblico».

Il processo di democratizzazione della Rete ha avuto il merito di eliminare certe gerarchie comunicative rendendo alcuni dialoghi possibili e bidirezionali. La comunicazione non deve però essere una mercenaria della sete di visibilità che oggi sembra muovere la società intera dimenticando il valore della cultura del saper fare e del saper essere. Dobbiamo aiutare i nostri ragazzi a dare una giusta lettura e dimensione a questi fenomeni ma anche spiegare a certi editori ed imprenditori che nell’eleggere questi giovanissimi, senza arte né parte, a delle webstar del nulla, non aiutano a formare i lettori e le coscienze critiche di domani.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 30 maggio 2016 ¶ N. 22

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Società e Territorio Rubriche

Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Rispetto: che parola è?

Mi è capitato tra le mani un ritaglio di giornale che avevo accantonato anni fa: nel 2011, «Le Monde» dava notizia di un sondaggio condotto in Francia.

Alle persone intervistate si chiedeva che cosa li infastidisse maggiormente e causasse loro più stress. Curiosamente, al primo posto tra i fattori di disturbo non si collocava la preoccupazione per il denaro, o la mancanza di tempo, ma la mancanza di cortesia e l’aggressività dilagante.

Non credo che nei cinque anni che sono passati da quel sondaggio le cose siano sostanzialmente cambiate; semmai, direi che maleducazione e aggressività tendono ad accentuarsi. Certo, ci sono fattori che causano questa progressione: ad esempio, quando si viaggia in autostrada o sulle strade cantonali in certe ore di traffico straripante è inevitabile assistere a scene di scorrettezza o di aggressività: l’auto che ti taglia la strada per guadagnare qualche

metro in una coda che procede a passo d’uomo, imprecazioni e insulti che, dai finestrini abbassati, sovrastano persino le musiche techno e rap ad alto volume.

Si può capire. Metterci una cinquantina di minuti per fare un ventina di chilometri innervosisce chiunque. Ma poiché la crescita dell’aggressività e la mancanza di cortesia non si manifestano solo in certi frangenti estremi, ma stanno diventando la nuova «normalità», credo che il fenomeno vada indagato non nelle situazioni peggiori, ma nella banalità quotidiana. Quanti sono, ad esempio, i giovani, seduti in treno o nel bus, che invece di schiamazzare ad alta voce parlano educatamente tra loro per non dare fastidio agli altri viaggiatori? Quanti di loro cedono il posto ad una persona anziana rimasta in piedi?

Non per cattiveria questi giovani si comportano così, ma perché non hanno acquisito il senso del rispetto.

Dove c’è rispetto non è necessario moltiplicare i regolamenti e i richiami: l’abitudine a capire l’altro, a mettersi nei suoi panni, induce spontaneamente a non molestarlo e ad aiutarlo, se occorre. Ma senza un’educazione al rispetto, l’egocentrismo dominante lo blocca e lo inibisce.

Non che manchino le campagne preventive e pubblicitarie: ma di solito puntano sul «rispetto per il diverso». Il diverso è lo straniero con altro colore di pelle, o il disabile. Belle cose, non c’è dubbio: ma il rispetto comincia col tuo vicino di banco – che sia ticinese o straniero, maschio o femmina, disabile o abilissimo. Se impari a rispettare l’altro – chiunque sia – non avrai bisogno di campagne pubblicitarie che ti sensibilizzino verso la diversità. Se si comprende che sporcare o stracciare il quaderno del compagno non è solo uno scherzo sciocco, ma un’ingiusta cattiveria, forse si riuscirà anche a tro-

vare sbagliato l’imbrattare i muri della scuola o della stazione.

Regolarmente si hanno notizie di danneggiamenti provocati da ragazzi a strutture e a edifici pubblici, come ancora recentemente è successo con sette minorenni a Giubiasco. Non si tratta di una vendetta mirata, ma di uno sfogo di rabbia o di un’esibizione di potenza. L’adolescenza, si sa, è l’età della ribellione. La voglia di ribellione nasce dal disorientamento, dal senso di vuoto che erompe in quella delicata fase di passaggio. Fino a poco prima si era bambini, protetti dalla famiglia, tutt’uno con essa; poi la crescita sconvolge gli equilibri ormonali, schiude un mondo vasto – troppo vasto, dove si scopre con angoscia che non si è nessuno. E scoprire di essere nessuno, sconosciuto e anonimo, può risultare deprimente, specie in una cultura dove si innalzano altari agli idoli pubblici, le star, i campioni sportivi, gli eroi televisivi. E il

giovane solo, che non sente di appartenere a una comunità, magari s’infila in una banda di disorientati come lui che fanno bravate per sfogare la rabbia e sentirsi grandi, eroi da battaglia. Ma non è solo agli atti di vandalismo che occorre guardare per rilevare la mancanza di rispetto: anche piccoli gesti mostrano con evidenza la rabbia che cova. Quanti giovani fanno rombare il motorino – magari anche truccato appositamente – senz’altro motivo che quello di attirare l’attenzione, infastidire, esibire una potenza che non hanno? Quel dare gas per fare quanto più fracasso possibile è un messaggio chiaro: «Ecco che passo IO e vi rompo i timpani a tutti. Fate largo!».

Chi vuol imporsi esteriormente con esibizioni di prepotenza, è perché è vuoto dentro. È questo vuoto che occorrerebbe colmare: con l’educazione, con la cultura, con gli affetti. Altre cose che, mi pare, si vanno perdendo.

e pieno di vergogna, Donato partì e nessuno da quelle parti ne ha più sentito parlare. Le fate, visto il segreto svelato lasciarono la grotta, ma il nome è rimasto. Alle 13.51 arrivo alla stazione heimatstil di Vallorbe, angolo sperduto del Vaud ai piedi del Giura e a due passi dalla Francia. Il paese è giù in basso, ai fianchi dell’Orbe che fluisce lento. Sui due versanti della vallata calcarea lo sguardo si perde percorrendo le pinete il cui odore arriva fin qui, sulla strada.

Le leggende incidono nell’animo un affetto a priori per un posto mai visto.

Laggiù le industrie metallurgiche che affondano le radici nelle storiche fucine dell’epoca. I prati ai bordi della strada sono pieni di fiori spontanei: ranuncoli a iosa, salvia pratense, achillea millefoglie, qualche geranio di San Roberto, e altri ancora. Meno male, rallegrano i quattro chilometri fino alle grotte di Vallorbe: notevole attrazione turistica aperta nel 1974 e ammantata con l’alone leggendario preso in prestito dalla grotta delle fate

che non dovrebbe essere tanto lontana da lì. All’altezza del restaurant de la Source, un grande cartello indica queste grotte turistiche, mentre su quello solito giallo pannocchia delle passeggiate: grotte aux fées, 20 min. Nel bosco, le sorgenti dell’Orbe: ruscelletti che sgorgano d’incanto da ogni dove.

M’inerpico su per il sentiero, aiutato a un certo punto dalle traversine ferroviarie. Eccola la grotta delle fate (861m) una domenica pomeriggio di fine maggio. Magico antro dove si aprono due grandi cavità inquietanti.

Eppure, pare, al contrario di quello che si può pensare, l’ambiente cavernicolo non è ostile alla vita. In questa grotta ci sono più di quaranta specie animali, tra le quali, alcune, non si trovano da nessun’altra parte al mondo. Come ad esempio alcuni pallidi troglobi ciechi molto longevi con lunghe antenne tipo crostacei. Conducono una vita al rallentatore, raggiungono la maturità sessuale a cent’anni e vivono fatati fino ai duecento.

delle esposizioni, dei concerti? A complicare le cose, per orientarci nel caos di una società esuberante, intervengono le classifiche che registrano il successo di prodotti, che dovrebbero essere culturali, in base però a criteri commerciali: alle vendite, alla permanenza nella schiera dei top che resistono alla concorrenza, alle mode, all’instabilità dei gusti popolari. Ora, proprio questi elenchi non agevolano la scelta del libro o dello spettacolo meritevole, riflettono piuttosto una confusione di temi e di valori persino esilarante. Ecco per esempio che l’ultimo libro del Papa è superato dal ricettario di Cracco. Mentre, in testa alla narrativa, svettano sempre le , chissà perché fortunatissime, Sfumature di grigio, eccetera. Per fortuna, sulla stessa pagina de «La lettura», il domenicale del «Corriere della sera», Antonio D’Orrico mette in guardia dagli inganni di queste graduatorie editoriali dove si confrontano autori e pagine non paragonabili. Con ciò, anche lo stesso D’Orrico,

pur conducendo una rubrica di successo, si è fatto forse più nemici che amici, tanto da guadagnarsi il titolo di «il Vanzina della critica letteraria».

D’altra parte, al suo risaputo entusiasmo per Joel Dicker, autore ginevrino di bestseller mondiali, si è contrapposto il severo giudizio alle recenti Giornate letterarie di Soletta: l’organizzatrice dell’incontro, Reina Gehrig ha dichiarato: «Non abbiamo accettato, come ospite, Dicker: la qualità del suo ultimo romanzo non rispondeva ai requisiti di qualità della nostra manifestazione». Insomma, bestseller e buona letteratura non possono coincidere?

L’interrogativo imbarazza il lettore e, naturalmente, il critico, Che non è un mestiere comodo. In proposito, devo sempre ricordare una vecchia vignetta, comparsa sul «Nebelspalter», intitolata, credo, la solitudine del critico: si vedeva uno spettatore, serio e corrucciato, in mezzo a un pubblico che rideva, divertito da un film probabilmente banale.

Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf La grotta delle fate a Vallorbe Sopra Vallorbe, in un fianco del Giura, si apre una grotta dove nessuno ha mai osato entrare per paura delle fate. Una di loro, ogni domenica delle palme, appariva in lontananza portando al guinzaglio una pecora bianca come la neve nelle annate propizie, una capra nera come un corvo in quelle grame.

A mezzanotte d’estate, un’altra faceva il bagno nelle acque sorgive dell’Orbe con due lupi di guardia. In inverno, quando gli operai delle numerose fucine della zona rincasavano, le fate dal lungo vestito bianco trascinato per terra nascondendo i piedi, entravano a scaldarsi fino al canto del gallo. Tra i fabbri ce n’era uno chiamato Donato: giovane e bello, robusto, temerario, arrogante, incapace di tenere un segreto. Una domenica decise di entrare nella grotta. Percorsa in lungo e in largo, stava per uscire quando notò uno spacco nella roccia: s’infila e sale al secondo piano dove c’è un letto di muschio e felci. Si sdraia lì sopra e si addormenta. Al suo risveglio la grotta

è illuminata e una bella fata bionda tenendogli la mano dice: «Donato, vuoi restare con me ? Ti farò felice per un secolo. Ti donerò la conoscenza dei metalli preziosi e ti farò divertire assieme alle mie sorelle». Il giovane accettò di buon grado. «A una condizione» aggiunse la fata. «Tu mi vedrai solo quando mi pare, se mi ritiro in un altro antro della grotta non devi cercarmi.

Sennò ti abbandonerò per sempre e te ne pentirai per il resto dei tuoi giorni.

Tieni, ecco due borse, ogni giorno che sarò contenta di te, metterò una moneta d’oro in una e una perla nell’altra».

Per quindici giorni ricevette così, ogni sera, la perla e la moneta d’oro. Poi ai rintocchi di mezzogiorno della chiesa di Vallorbe, una stanza sotterranea si apriva e appariva un banchetto da leccarsi i baffi: trote dell’Orbe, selvaggina giurassiana, miele dell’abbazia di Saint Benoît, vino d’Arbois. Ogni tanto, la fata, gli raccontava delle storie o cantava, poi spariva. Dopo un po’, questa sparizione, provocò in Donato,

noia e solitudine. Immaginò angoli ancora più straordinari in quelle cavità. Finito il pranzo del sedicesimo giorno, ancora più lieto del solito, la fata andò a riposare. La porta rimase, per distrazione o malizia, socchiusa: entra e vede la fata addormentata. Il vestito, sollevato, mostrava al posto dei piedi, delle zampe d’oca. Donato, stupito, esce piano ma inciampa in una stalagmite. La fata si sveglia: «Maledizione! Ero contenta di te finora, pensavo di sposarti e condividere con te la mia forza, i miei segreti, il mio tesoro.

Vattene e porta con te le tue borse, non le voglio indietro, ma guai a te se dici a qualcuno quello che hai visto».

Tornato al lavoro, tutti gli chiesero la ragione della sua assenza, Donato raccontò tutto quanto, scherzando persino sulle zampe d’oca della fata. I fabbri risero di lui, chiedendo la prova del suo racconto. Donato aprì allora le sue borse. Al posto delle monete d’oro c’erano solo foglie di sorbo, niente più perle ma bacche di ginepro. Disperato

Mode e modi di Luciana Caglio I critici: un’autorevolezza discussa e necessaria Si conclude il Festival di Cannes e, puntualmente, si riapre la disputa intorno al palmarès che soddisfa o, invece, delude le aspettative del pubblico. Ed è un pubblico ben diverso da quello dei patiti di film da cineclub di buona memoria, obbedienti alle decisioni di una critica che, allora, faceva opinione sul piano estetico e ideologico. Oggi, in tutt’altro clima, diventa difficile prevedere le sorti di una pellicola premiata: riempirà le sale I, Daniel Blake, l’ultima fatica di Ken Loach, uno degli ultimi registi politicamente impegnati , nel significato tradizionale del termine?

Chissà. Infatti i componenti di una giuria, personaggi famosi e competenti, non appaiono più, per forza di cose, infallibili. Anzi. Al pari dei politici, dei medici, dei docenti, dei sacerdoti, insomma delle categorie per definizione autorevoli, anche i critici si trovano ad affrontare le reazioni di cittadini che li contestano, li deridono, e credono persino di poterne fare a meno. Ciò che, in pratica, si rivela illusorio.

Mentre si moltiplicano le occasioni per vedere, ascoltare, leggere, ammirare, insomma partecipare ai cosiddetti eventi, cresce l’importanza del critico, guida indispensabile, anche se discussa, per non perdersi in un labirinto. Si tratta, del resto, di una funzione che, paradossalmente, ottiene effetti opposti. Il critico serve da punto

La critica ha premiato I, Daniel Blake: farà altrettanto il pubblico? (Keystone)

di riferimento per accettare o rifiutare uno spettacolo, un concerto, una mostra, un libro da lui raccomandati o sconsigliati. In parole povere, se lo dice lui, quel film non lo vedo e quel libro non lo leggo. Gioca, insomma, un fattore simpatia-antipatia, paragonabile a quello che interviene in politica, quando capita, e come, di votare più contro che pro. Involontariamente anche i critici fanno un partito, creano consenso, dissenso, e più raramente unanimità.

Lo confermano, con evidenza, le grandi rassegne cinematografiche di Berlino, Cannes, Locarno Venezia che, appunto, riescono a dividere il pubblico in categorie distinte: i festivaldipendenti, che seguono le indicazioni, fornite dai verdetti delle giurie, e i festival-indipendenti che, da quei film invece stanno alla larga.

Ma, in definitiva, chi ha ragione? Quali sono le opere meritevoli di attenzione, non soltanto nell’ambito del cinema, ma in quelli sempre affollati dell’editoria,

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 30 maggio 2016 ¶ N. 22

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 30 maggio 2016 ¶ N. 22

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Ambiente e Benessere In vacanza sul mare Royal Caribbean presenta la sua nuova nave, «Harmony of the Seas», la più grande del mondo

Lezioni di giardinaggio Grazie ai consigli e ai racconti di Lorenza Zambon si possono imparare trucchi e segreti per abbellire gli spazi urbani

I segreti dell’Universo Dalla teoria della Relatività alla scoperta delle onde gravitazionali – Prima parte

Una magnifica pianta fiorita La Medinilla, nemica dell’aridità, può essere coltivata anche in casa pagina 25

pagina 20

Un gigante d’acqua dolce Mondo sommerso Un’ispezione nei fondali dei nostri laghi, alla ricerca del pesce siluro (Silurus glanis)

Sabrina Belloni

pagina 23

Marka

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Cambia stagione, che sonno...

La notizia di un pesce siluro lungo oltre due metri nelle acque nostrane pareva un po’ strana e doveva essere verificata prima di poterla divulgare. Si sa che alcuni tendono a ingigantire le misure dei loro avvistamenti e un’informazione riportata da altre persone spesso differisce dalla prima narrazione. Sapevamo che nel Po, nei pressi di Mantova, era stato catturato un esemplare di 2 metri e 30 cm del peso di 113 kg (con tanto di fotografie e rilievi a testimonianza della cattura) e che in altri Paesi europei erano stati pescati altri esemplari enormi, ma in Svizzera la certezza di pesci così grandi non c’era. Quindi abbiamo indossato le nostre pesanti attrezzature e ci siamo incamminati lungo la riva per trovare il punto più adatto a entrare in acqua, alla ricerca di un predatore ai vertici della catena alimentare ittica, e precisamente del Silurus glanis – da non confondere con il pesce gatto – che vive nelle acque di alcuni fiumi e laghi.

Il Silurus glanis è il pesce d’acqua dolce più grande d’Europa. È giunto in Svizzera attraverso il bacino del Danubio, in seguito ai cambiamenti climatici e idrogeologici causati dalle ultime glaciazioni, e si è acclimatato nelle zone a lui più favorevoli come i laghi e i fiumi di pianura. Già dal 1952 fu avvistato e pescato nel lago di Morat: l’esemplare è esposto a Locarno nel locale museo di zoologia. Attualmente si trova nei laghi di Bienne, Costanza, Morat, Neuchatel e Verbano, e in alcuni fiumi, come l’Aar. I suoi luoghi di origine sono l’Europa dell’Est e l’Asia.

Il genere Silurus comprende 17 specie che hanno avuto un progenitore comune (origine monofiletica). La divisione delle specie tra Europa e Asia sarebbe avvenuta con l’innalzamento della catena dell’Himalaya e dell’Altopiano Mongolico, che avrebbe isolato nell’Asia orientale della gran parte delle specie. In Europa ne sopravvivono due: il siluro

europeo (Silurus glanis) e il siluro di Aristotele, diffuso in Grecia e nella regione del Mar Ionio.

La presenza del pesce siluro non è mai passata inosservata. Il celeberrimo filosofo greco Aristotele è la fonte più antica di cui sono state rinvenute testimonianze riguardanti il suo comportamento. Nella Historia Animalium – un punto di riferimento per tutti gli studiosi fino al medioevo – egli descrive la biologia riproduttiva del Silurus aristotelis (che da lui ha preso il nome), dalla scelta del luogo di deposizione delle uova (un punto riparato, ricco di vegetazione), al loro sviluppo, fino alla difesa del nido e delle larve da parte del maschio.

Il Silurus glanis è una specie molto fertile: la femmina depone migliaia di uova tra le alghe o tra la vegetazione caduta dalla superficie e il maschio, dopo averle fecondate, le custodisce e se ne prende cura fino alla schiusa che avviene dopo 3-4 giorni. Alla nascita gli avannotti si cibano di plancton e invertebrati; nel primo anno di vita crescono rapidamente e si trasformano in voraci predatori.

Il vantaggio riproduttivo dato dal prestare cure parentali (il maschio «cura» il nido) e di avere una periodo riproduttivo lungo (dalla fine di maggio a tutto agosto), assicura la possibilità che almeno qualche nidiata vada a buon fine anche in caso di eventi eccezionali di natura alluvionale o siccitosa, con una probabilità maggiore rispetto ad altre specie ittiche.

Anche Gaio Plinio Secondo o Plinio il Vecchio, nel libro nono della sua opera più importante, la Naturalis Historia, parla dei pesci siluro e ne descrive la pesca nel Danubio, con l’uso di corde e ramponi. Ancora, nel libro 32, che tratta dei rimedi in medicina che si ottenevano dagli animali acquatici, egli scrive che «... il grasso del siluro liquefatto al sole, misto a miele giova molto alla vista se spalmato sugli occhi (...) i siluri salati o freschi corroborano la voce (...) il siluro

La bocca del pesce siluro è larga quanto l’intera sua testa. (Franco Banfi)

col suo brodo e la torpedine come cibo allentano l’intestino (...) il suo grasso cura i geloni (...) il fegato del glanis se applicato sulle verruche le elimina (...)».

Per nostra fortuna, gli odierni prodotti di sintesi sono molto più efficaci e meno empirici dei preparati alchemici a disposizione dei nostri antenati.

La parte più insolita e curiosa del pesce siluro è sicuramente la testa, che è decisamente sproporzionata rispetto al corpo, appiattita e terminante in una bocca larga quanto la testa stessa. Le ossa mascellari sono robuste e sviluppate, e la mascella inferiore è prominente. Sulle mascelle sono presenti numerosi dentelli molto piccoli di forma conica, adatti a trattenere la preda una volta catturata.

Gli occhi sono piccolissimi rispetto alla dimensione dell’animale, a indicare che non è la vista il senso più sviluppato. Le sue capacità sensoriali sono quasi completamente affidate ad altro: in particolare al sistema della linea laterale (una serie di organi ricettori disposti lungo i fianchi dell’animale), all’apparato di Weber (alcune vertebre modificate che collegano la vescica natatoria al labi-

rinto, permettendo la trasmissione e la ricezione di suoni) e ai due lunghi barbigli posizionati tra il labbro superiore e gli occhi; altre due paia di barbigli, molto più sottili e piccoli sono inseriti sulla mascella inferiore.

Il pesce siluro si è evoluto adattando il proprio comportamento alle sue caratteristiche fisiche. Si tratta di un pesce fotofobo, il quale – non potendo affidarsi alla vista – preferisce nascondersi e limitare la propria attività durante le assolate ore diurne, e ha sviluppato quei sensi che gli permettono di essere attivo durante le ore crepuscolari e notturne. Essendo in grado di sfruttare appieno una condizione ecologica lasciata libera dalla maggior parte delle specie ittiche di acqua dolce e pertanto privilegiata, tale caratteristica gli conferisce un indubbio vantaggio a discapito dei pesci cosiddetti diurni.

Inoltre, il raggiungimento in pochi anni di una taglia enorme lo mette al sicuro, in quanto preda potenziale, dagli attacchi di altri animali. È un pesce molto robusto dalla grande adattabilità che gli consente di colonizzare ambienti molto diversi per

caratteristiche idromorfologiche: si trova a suo agio sia in acque lentiche (cioè quelle non correnti dei bacini interni : laghi, stagni e pozze), sia in acque lotiche (cioè delle acque correnti dei fiumi), ed è capace di sopravvivere in habitat degradati e in carenza di ossigeno, con una longevità che gli assicura oltre 30 anni di vita.

Il pesce siluro costituisce una minaccia per le specie autoctone, poiché genera uno squilibrio all’interno dell’ecosistema che dipende sia dalle caratteristiche ecologiche sia dalle interazioni con gli altri organismi dell’ecosistema esistente (ad esempio predazione, competizione, ibridazione, modificazioni ambientali). L’impatto delle specie invasive (come il pesce siluro) sulla biodiversità naturale è secondo solamente a quello connesso con il degrado ambientale.

E mentre l’introduzione del Silurus glanis in bacini estranei al suo areale originario è generalmente temuta e combattuta dai biologi per gli effetti dannosi che la sua presenza produce sulle comunità ittiche preesistenti, in alcuni Paesi dove questa specie è nativa essa è invece minacciata d’estinzione.

Nei Paesi dell’Europa centrale il pesce siluro ha una notevole importanza commerciale e viene allevato per la carne, consumata sia fresca che affumicata; per le uova, mescolate a quelle di Storione per ottenere il caviale; e per le ossa dalle quali si ricava la colla di pesce.

Le sue caratteristiche di accrescimento individuale, che lo vedono raggiungere i 2 kg di peso in circa 12 mesi, lo rendono particolarmente idoneo ad essere allevato. In Ungheria, questa è la specie più importante nel campo dell’allevamento ittico e talvolta è allevato in policolture insieme alla carpa. Il Silurus glanis era ed è tuttora una componente importante nella dieta delle popolazioni dell’Est europeo, dove viene consumato fresco, salato, essiccato, viene venduto surgelato oppure in scatola come il tonno.

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Salute Le giornate diventano più lunghe e luminose, la temperatura si alza:

ma che fare quando tutto questo sembra soltanto aumentare la nostra stanchezza?

Maria Grazia Buletti «La sveglia, il tram, le quattro ore di ufficio o di officina, la colazione, il tram, le quattro ore di lavoro, la cena, il sonno…questo cammino viene seguito senza difficoltà la maggior parte del tempo. Soltanto un giorno sorge il “perché”, e tutto comincia in una stanchezza colorata di stupore». Le parole dello scrittore, filosofo, saggista, drammaturgo e attivista francese Albert Camus (1913–1960) ci permettono di parlare di uno stato d’animo e un diniego fisico comuni a parecchie persone, soprattutto ad ogni cambio di stagione e preferibilmente dall’inverno alla primavera – estate. Quando le giornate si allungano, le temperature aumentano e la natura si risveglia, il morale si predispone al buonumore. «Ma porta con sé anche una sorta di stanchezza», mette in guardia la Fondazione Promozione Salute Svizzera, che definisce la situazione piuttosto frequente e suggerisce alcuni modi per alleviare i sintomi e combattere il senso di stanchezza.

Per tutti quelli che: «Sono stanco di essere stanco», come ha detto un Anonimo, ci sono alcuni semplici con-

sigli da attuare quando la situazione si fa critica, dopo i mesi invernali, quando la scarsa luce solare, la mancanza di movimento all’aria aperta e spesso anche un’alimentazione ricca di grassi mettono a dura prova l’organismo. La Fondazione Promozione Salute Svizzera si è ampiamente occupata di questo aspetto della salute della popolazione, in particolar modo per ciò che riguarda la stanchezza primaverile: «È risaputo che tra marzo e aprile quasi la metà della popolazione svizzera accusa sintomi come stanchezza (malgrado sia appagata da sufficienti ore di sonno), meteoropatia, debolezza circolatoria, irritazione o mancanza di energia».

Il passaggio alla stagione estiva e le oscillazioni di temperatura destabilizzano l’organismo, anche quello delle persone sane, come sostiene Jvo Schneider, co-responsabile del gruppo di alimentazione e attività fisica: «La stanchezza non è una malattia, bensì una manifestazione causata dal cambio di stagione e dalla modifica del ritmo sonno-veglia». E se qualcuno pensa che il modo migliore per vincere la stanchezza stagionale sia quello di riposarsi e dormire, si sbaglia di grosso. Secondo

gli esperti serve invece una maggiore capacità di adattamento, cosa che non si ottiene sicuramente dormendo, oppure stando seduti in poltrona a guardare la televisione. Il nostro interlocutore mette in guardia: «In questo modo, senza saperlo, si amplificano i sintomi fino a rendere cronica la spossatezza».

Questo malessere si fa sentire anche al lavoro: «Tuttavia, non siamo del tutto alla sua mercé, poiché praticando movimento sufficiente e alimentandoci in modo sano possiamo ottenere validi risultati», termina Schneider. Ed è risaputo che l’attività fisica, meglio ancora se praticata all’aperto, non allena soltanto la circolazione e i muscoli, ma anche il cervello: «Il movimento migliora l’afflusso di sangue al cervello, attiva le cellule nervose, accelera il metabolismo e aumenta l’efficienza cardiaca».

E allora, Promozione Salute Svizzera ricorda che il movimento non è utile solamente per combattere la stanchezza stagionale, ma aiuta anche la salute in generale e, inoltre, è facilmente integrabile nell’attività lavorativa e nel tempo libero: «Fare una passeggiata durante la pausa pranzo, preferire le scale o usare la bicicletta al posto dell’auto-

mobile sono abitudini che stimolano la circolazione e riducono lo stress». Tutti sanno oramai che la luce del sole aumenta persino tali benefici: «Già dopo 10 o 15 minuti passati all’aria aperta, vengono prodotto ormoni attivanti come la serotonina, il testosterone e le endorfine». Insomma, come dice il giornalista italiano Roberto Gervaso: «Lavorare stanca, ma far niente stanca ancor di più».

Seguire questi semplici consigli che invitano al movimento all’aria aperta e a una sana alimentazione, non può far altro che produrre grandi vantaggi e alleviare quell’antipatica sensazione di stanchezza stagionale: «Si consigliano alimenti ricchi di vitamine e minerali e, dato che spesso la stanchezza è pure conseguenza di un insufficiente apporto di liquidi, raccomandiamo di bere molto durante tutta la giornata, optando per acqua, tè o bevande non zuccherate».

Una sferzata di vitalità attraverso il movimento riesce facilmente a vincere la stanchezza e ci permette di vivere pienamente la bella stagione che ci si prospetta: questa in sintesi la conclusione di Promozione Salute Svizzera e

di Jvo Schneider, alla quale fa da specchio il pensiero espresso dallo scrittore giapponese Haruki Murakami nel libro L’arte di correre, quando dice: «Proprio nello sforzo enorme e coraggioso di vincere la fatica riusciamo a provare, almeno per un istante, la sensazione autentica di vivere. Raggiungiamo la consapevolezza che la qualità del vivere non si trova in valori misurabili in voti, numeri e gradi, ma è insita nell’azione stessa, vi scorre dentro». Azione, movimento e sana alimentazione invece della staticità e del riposo ad oltranza!

E per sdrammatizzare, una riflessione: volete vedere che l’antidoto alla stanchezza potrebbe essere appannaggio dei pigri, come afferma a inizio ‘900 l’aforista e scrittore francese Jules Renard: «La pigrizia non è altro che l’abitudine di riposarsi prima di essere stanchi». Naturalmente, quest’ultima perla di saggezza era un modo simpatico per terminare con un sorriso, mentre i consigli di Promozione Salute Svizzera sono ciò che fa testo e va seguito per non trovarsi, all’inizio dell’estate, con una stanchezza cronica che non ci permetterebbe di godere come vorremmo dei giorni belli.

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Ambiente e Benessere

La nave delle meraviglie Viaggiatori d’Occidente Nel mondo delle crociere prende forma la vacanza del futuro

Claudio Visentin Si chiama «Armonia dei mari» («Harmony of the Seas»), ma l’armonia è solo nel nome. È invece un gigante smisurato, la più grande nave da crociera mai costruita, che ha preso il mare pochi giorni fa dal porto inglese di Southampton per il suo viaggio inaugurale. Nella prossima stagione estiva sarà attiva nel Mediterraneo occidentale, con base a Barcellona, per poi trasferirsi d’inverno in Florida e nei Caraibi. È la nave delle meraviglie e dei record, a cominciare dal costo: oltre un miliardo di dollari. È lunga 361 metri, larga 47, alta 70, per 227’000 tonnellate di stazza (se volete fare un paragone, il celebre «Titanic» non superava le 60’000 tonnellate). Può accogliere a bordo fino a 5500 passeggeri. Gli enormi spazi sono divisi in 18 ponti e 7 «quartieri», con attrazioni di ogni tipo: 23 piscine con lo scivolo più alto del mondo («Ultimate Abyss»), due simulatori di onde per il surf, una parete per arrampicata, 6 ristoranti, baristi robot al «Bionic Bar», una casa da gioco, un teatro da 1300 posti, migliaia di opere d’arte in mostra… persino una riproduzione di Central Park a New York, con veri alberi e piante!

La nave appartiene a Royal Caribbean, la compagnia che più di ogni altra ha puntato su queste gigantesche creature: prima di «Harmony of the Seas» infatti il primato era appartenuto a due navi della stessa classe e compagnia, «Oasis of the Seas» e «Al-

lure of the Seas». Pur controllando un quarto del mercato, Royal Caribbean non è la più importante compagnia nel settore (è seconda dopo Carnival), ma è quella che più di ogni altra ha elaborato un nuovo concetto di crociera e di vacanza.

Per cominciare, in questa visione il viaggio per mare è soltanto uno sfondo ideale, un tenue legame simbolico con l’antica tradizione marinara, con tutto il suo potenziale evocativo. In realtà la nave è così larga che appena si avverte il moto delle onde. E a volte sembra quasi che anche del mare si possa fare a meno: le cabine senza balconi o oblò hanno infatti «balconi virtuali», ovvero grandi schermi che riproducono il paesaggio esterno.

Un nuovo concetto di vacanza: quando la nave da crociera diventa la meta del viaggio Anche l’utilizzo del tempo è cambiato. Se negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso si navigava di notte per visitare sempre nuove città durante il giorno, ora si preferisce restare a bordo per la maggior parte del tempo, impegnati nelle più diverse attività, mentre la nave solca pigramente le onde. Certo, queste imbarcazioni sono così grandi che molti porti sono loro

preclusi; ma perché scendere a terra quando a bordo si passa di sorpresa in sorpresa? E così la nave non è più un mezzo di trasporto verso nuove esperienze, quanto piuttosto la vera attrazione della vacanza.

La progettazione di «Harmony of the Seas» ha combinato competenze diverse: il mondo dei villaggi vacanza naturalmente, ma anche l’esperienza dei parchi a tema e dei grandi centri commerciali. Molti grandi marchi infatti sono presenti sulla nave con i loro negozi, nella convinzione che il clima svagato e festoso sia favorevole agli acquisti d’impulso. È l’ultima frontiera del turismo globale. Le grandi compagnie rinunciano a qualunque contenuto e puntano tutto sulla meraviglia e sul divertimento, un ritorno alla spensieratezza dell’infanzia. Il rapporto coi territori, sempre più problematico da quando la sponda sud del Mediterraneo è sprofondata nel caos, è accantonato in favore delle distese marine.

Sotto la lucida perfezione esteriore s’intravede però anche qualche zona d’ombra. Per cominciare, nonostante Royal Caribbean sia una compagnia norvegese e statunitense, «Harmony of the Seas» inalbera la bandiera delle Bahamas: il fondato sospetto è che la nave sia registrata nel piccolo Stato insulare caraibico per ridurre le tasse così come i controlli di sicurezza e delle condizioni di lavoro. A bordo infatti, nelle zone della nave inaccessibili ai turisti, vive un equipaggio di oltre 2000 persone, provenienti da 77 Paesi. Ma gli impie-

La nave «Harmony of the Seas» è lunga ben 361 metri. (Royal Caribbean)

ghi migliori sono quasi tutti riservati agli occidentali, mentre i camerieri sono soprattutto indiani e il personale delle pulizie filippino. Il reporter Paul Mills, che per cinque settimane ha lavorato come cameriere su una nave da crociera, ha raccontato di orari di lavoro interminabili e di intere settimane senza un giorno di riposo o la possibilità di scendere a terra.

Anche la sensazione di trovarsi in un mondo protetto e sicuro potrebbe rivelarsi ingannevole. Da qualche tempo infatti anche le navi da crociera

sono entrate nel mirino del terrorismo internazionale. Proprio per la loro imponenza del resto sono un simbolo perfetto dell’orgoglioso Occidente. Un efficiente quanto invisibile servizio di sicurezza e l’attenta scelta delle rotte hanno evitato sinora il peggio, ma potrà durare per sempre? In un film di fantascienza del 1997, Il quinto elemento, si raccontava di gigantesche navi spaziali da crociera in orbita intorno al pianeta dei divertimenti Fhloston, dove però, nel mezzo della festa, sbarcano i vendicativi Mangalores…

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Ambiente e Benessere

Un weekend tutto di corsa StraLugano L’undicesima edizione della manifestazione podistica ha fatto registrare

un record di partecipazione con oltre 5’000 iscritti

Renato Facchetti Quella andata in scena sabato 21 e domenica 22 maggio a Lugano è stata una grande edizione della StraLugano. E l’appuntamento si conferma essere la festa della corsa ticinese per eccellenza, in grado di contagiare l’intera città. Già dal primo pomeriggio del sabato, il villaggio in Piazza Riforma e Piazza Manzoni si è animato con un ricco succedersi di animazioni sul palco principale. Migliaia i visitatori agli stand degli sponsor e delle associazioni-no profit beneficiarie della «5 km Run4Charity» partita puntualmente alle 20.30 e che ha visto oltre 600 partecipanti al via all’insegna di una salutare solidarietà.

L’appuntamento con la dodicesima edizione è già stato fissato per il 20 e 21 maggio del 2017 Nel pomeriggio allo stadio di Cornaredo si era già svolta la gara internazionale di Handbike in collaborazione con «Roundtable Lugano». Grazie a condizioni meteo favorevoli, ideali sia per le incredibili prestazioni degli atleti di punta che per quelle meno pretenziose dei runner amatoriali, la giornata di domenica è stata un vero successo. Tanta gente lungo il magnifico percorso ad applaudire e incitare i partecipanti della «mezza maratona» e a seguire della «10 Km». Unanimi gli apprezzamenti sul nuovo tracciato che alterna tratti da vera e propria «stracittadina» a passaggi dal panorama mozzafiato con i giri di boa costituiti dal «Ponte del Diavolo» a Castagnola e fino alla fine del lungolago di Paradiso, con il suggestivo attraversamento del «Parco Ciani».

Nelle foto: la partenza della mezza maratona (qui sopra ); il Piccolo coro arcobaleno a pois di Pura che ha cantato l’inno svizzero alla partenza (qui sotto a sinistra); e vari altri momenti della manifestazione. (Mario Curti)

Ultimati gli arrivi delle due principali competizioni e mentre al Centro Sportivo Resega in molti recuperavano le energie al «Migros Pasta Party», l’entusiasmo era tutto per i 565 giovanissimi partecipanti alla Kids-Run. Con la loro partecipazione hanno contribuito a realizzare una delle promesse formulate da Migros nell’ambito del

progetto «Generazione M»: entro la fine del 2019 l’azienda svizzera si è infatti impegnata affinché oltre 70’000 bambini possano partecipare gratuitamente a una corsa popolare. Questi ragazzi rappresentano anche il futuro della StraLugano, la quale proprio in quest’ottica ha sancito una collaborazione con il Panathlon Club Lugano con la dichiarazione sull’etica nello sport giovanile.

Se per la dodicesima edizione di questa bellissima manifestazione si dovrà pazientare fino al 20 e 21 maggio 2017, tutti i partecipanti all’edizione 2016 della StraLugano sono invitati a prendere parte alle prossime gare del circuito di corse popolari denominato «Serie Corse SportXX», in calendario il 12 giugno la «Schweizer Frauenlauf» di Berna, il 17 settembre la «Greifenseelauf», il 2 ottobre la storica «MoratFriborgo» e il 15 ottobre la corsa del lago di Hallwil (AG). La partecipazione ad ognuna di queste competizioni, permetterà di ricevere interessanti premi (www.sportxx.ch/serie-corse).

Correre è da sempre la forma più spontanea di sport e un sempre maggior numero di persone d’ogni età sembrano riscoprire con piacere quel gesto naturale, che ci si porta dentro sin da bambini. Le cronache hanno ampiamente riportato i risultati delle

varie gare, ma se vorrete curiosare fra le classifiche online e scoprire il tempo impiegato dall’amico o dal vicino di casa, basta accedere a: www.services. datasport.com/2016/lauf/stralugano.

Tutto quanto hanno potuto vivere i partecipanti all’undicesima edizione della StraLugano si deve all’enorme lavoro del comitato organizzativo e delle

centinaia di volontari che hanno collaborato. A loro va un grande grazie, così come all’indispensabile e insostituibile sostegno della Città di Lugano e di tutti gli sponsor.

StraLugano 21 e 22 maggio, Lugano

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Ambiente e Benessere

Storie raccontate dalle piante Il seme nel cassetto Tra giardino, palcoscenico e pagina scritta Lorenza Zambon ci parla

della sua grande passione per la vita vegetale Laura di Corcia Semi che viaggiano e rammendano gli strappi, si posano sulla terra per curare le sue ferite; semi che invece rimangono nascosti per anni e anni, poi improvvisamente sentono che è arrivato il momento e si slanciano con fierezza verso la luce; e ancora semi che diventano bombe, scagliate contro le brutture delle periferie più squallide, diventate inospitali sia per il mondo vegetale che per quello umano. Sono i semi e le storie da essi custodite il cuore pulsante del nuovo libro che propongo per la nostra rubrica di letture green, Lezioni di giardinaggio planetario.

«Fare, non fare e disfare» sono i tre principi base che regolano l’attività nel proprio giardino L’autrice merita due parole, perché è riuscita a coniugare le sue due passioni – il teatro e la natura – proponendo azioni militanti, spettacoli pensati per luoghi naturali, come boschi e giardini, e tanto altro ancora. Lorenza Zambon di semi nel cassetto ne ha tanti: quello che suggerisce, in queste lezioni, che spiegano anche cose del tutto pratiche (leggendolo imparerete che cos’è una talea, come si pianta un bulbo, come scegliere la terra e in che modo creare un piccolo orto

sul vostro balcone), è un modo diverso e creativo di vivere i nostri spazi urbani, soprattutto quelli più squallidi e degradati, partendo dal basso.

D’altronde, l’autrice sa che non è dal cielo che si genera la vita, ma dalle profondità e dall’ombra: gliel’hanno sussurrato i semi, che, come le ha insegnato una botanica di nome Rosa, sono «piccole astronavi, capsule completamente autosufficienti, perfette per viaggiare nello spazio e nel tempo»; sanno rispuntare lì dove si è consumata la tragedia, come a Berlino, dopo i bombardamenti della Seconda guerra mondiale, quando piano piano, sui detriti, sono nate dapprima piccole piantine (comunemente definite erbacce), poi veri e propri boschi.

Ognuno di noi ha un seme nel cassetto: prenderlo in mano significa diventare giardinieri planetari (la definizione è presa in prestito da Gilles Clément, ne abbiamo parlato in occasione dell’ultima puntata), rispondendo a tre dettami: fare, non fare, disfare.

E qui arrivano le storie. Perché «fare» significa armarsi – come ha fatto lei – di un sacco dell’immondizia da riporre nel bagagliaio dell’auto, fermarsi quando si trovano aree degradate ricoperte da spazzatura e rifiuti e ripulire la zona, in modo da lasciar respirare la terra. «Fare» è dare vita a movimenti di «guerriglia gardening», come quello raccontato da Joyce, un’inglese un po’ freak che con un gruppo di persone scatenate e visionarie mette a punto vere e proprie azioni con i fiori, piantando i

Lorenza Zambon si definisce «attrice-giardiniera», ma è anche scrittrice.

bulbi che poi diventano scritte contro l’abuso edilizio e la cementificazione.

Risponde al richiamo del «fare» anche Nandino di Antignano, il quale si è opposto alla semina del mais americano salvaguardando il suo mais, denominato in seguito il «Mais otto file di Antignano».

Non fare può voler dire molte cose: un esempio? A Bordeaux, nel 1996, il sindaco voleva rifare una piccola piaz-

za. Il progetto viene affidato a una coppia di architetti: loro studiano, si applicano, si interrogano sul concetto di abbellire. Alla fine, agnizione: non c’era niente da sistemare, andava già tutto bene così! Il loro messaggio all’inizio non attecchiva, ma alla fine hanno raggiunto lo scopo.

Disfare: si tratta sempre di una coppia, di Brugherio stavolta, un paesino fra Milano e Bergamo. Avevano

ereditato una casa, in mezzo al cortile c’erano dei garage molto redditizi: ma loro, a un certo punto, han sentito il richiamo del giardino. E allora, per il bene della famiglia, per i loro figli, si sono messi ad affettare la costruzione e poi finalmente hanno piantato i fiori, il fico, il caco, gli alberi che con la loro ombra allietano il momento del pasto o la pennica post-prandiale.

Lo scopo di Lorenza Zambon, che ha scritto questo libro a partire da uno spettacolo intitolato Tre lezioni di giardinaggio planetario, è quello di ricordarci che lo spazio pubblico appartiene a tutti e tutti ne siamo responsabili: riappropriarsene significa creare orti urbani ai margini delle città, significa prendere una manciata di semi, infilarla nel cappotto e piantarli dove ci pare, seguendo l’intuizione; significa fare come sua madre, che troviamo all’inizio del libro, una signora veneta piuttosto elegante che non ci pensava due volte a rubare i bulbi, strappandoli con le unghie, per poi piantarli sul balcone di casa sua. «Se ciapa, ciapa», diceva: a quanto pare «ciapavano» sempre. Perché la vita è così, è più forte dell’inerzia: bisogna guardarla e lasciarsi trasportare, diventare noi stessi i semi di ciò che vorremmo nel futuro, per noi e i nostri figli.

Bibliografia

Lorenza Zambon, Lezioni di giardinaggio planetario, Ponte alle Grazie, 10 euro, 107 pagg.

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Ambiente e Benessere

Quei dubbi di Einstein Storia della scienza La recente scoperta dell’esistenza di onde gravitazionali conferma

l’ipotesi elaborata dal fisico svizzero nella sua Teoria della relatività – Primo articolo di una serie Simone Balmelli Più di un miliardo di anni fa, due buchi neri, in un luogo non ben precisato del nostro universo, ruotavano vorticosamente l’uno attorno all’altro, intrappolati in una danza mortale. Con il passar del tempo, la rotazione si faceva via via più veloce, e i buchi neri sempre più vicini, fino al punto in cui si scontrarono e si fusero l’uno con l’altro. Durante questa danza, e in particolare nel momento della collisione, emisero un’onda gravitazionale, e cioè una perturbazione dello spazio-tempo, che cominciò a propagarsi nello spazio alla velocità della luce.

Ed è così che, il 14 settembre scorso, alle nostre 10:50:45, l’onda gravitazionale sprigionata durante questo enorme scontro così lontano nel passato ha raggiunto la Terra, e ha messo in lievissima oscillazione i sensori dei due rilevatori di onde gravitazionali LIGO, negli Stati Uniti.

Il segnale osservato da LIGO non è solo una delle prove più schiaccianti dell’esistenza di buchi neri, ma è anche la prima misurazione di un’onda gravitazionale mai compiuta. Si tratta di una scoperta davvero eccezionale: le onde gravitazionali sono state infatti uno dei fenomeni fisici più elusivi e controversi di sempre, e la loro storia ha attraversato tutto il Novecento. Uno dei principali protagonisti di questa vicenda fu Albert Einstein, che, con la teoria della Relatività Generale, fornì il formalismo necessario per descrivere le onde gravitazionali in modo matematico. Einstein stesso,

tuttavia, ebbe non pochi dubbi sulla loro esistenza.

Ma cominciamo dall’inizio. Questa è infatti la storia di un concetto teorico che, ben prima di ogni evidenza sperimentale, si è fatto strada poco a poco. Il primo a parlare di onde gravitazionali fu il matematico francese Henri Poincaré nel 1908. Egli fu ispirato dalla teoria dell’elettromagnetismo, la quale era già allora molto meglio conosciuta di quanto non fosse la gravità. In particolare, verso la fine dell’Ottocento, era stato appurato che la luce non è altro che un’onda elettromagnetica che si propaga nel vuoto. Di conseguenza, dal momento che le forze gravitazionali agiscono per certi aspetti in modo simile a quelle elettriche, la domanda sorgeva spontanea: e se anche il campo gravitazionale ammettesse, allo stesso modo, l’esistenza di onde?

L’analogia con l’elettromagnetismo, pur non fornendo alcuna prova dell’esistenza delle onde gravitazionali, giocò anche in seguito un ruolo importante nel fornire la motivazione allo studio del problema.

Non è un caso che, una volta ultimata la teoria della Relatività Generale, uno dei primi aspetti affrontati da Einstein fu proprio legato a questa tematica. Nel 1918, in un articolo intitolato «Über Gravitationswellen», egli mostrò in modo matematico che la Relatività Generale prevede l’esistenza di onde gravitazionali. Si rese subito conto che si trattava però di un fenomeno estremamente debole e difficile, se non impossibile, da misurare.

I suoi calcoli sono oggi ritenuti corretti, ma ci sarebbero voluti decenni per arri-

Un Einstein un po’ perplesso di fronte ai suoi calcoli. (www.universetoday.com)

vare a un consenso all’interno della comunità scientifica.

Il motivo principale di questa confusione è il fatto che la Relatività Generale è terribilmente complicata, e a volte non è ovvio distinguere, al suo interno, ciò che è reale da ciò che non lo è. È un po’ come se, guardando il mondo da un’altalena, non si riuscisse a capire se è il mondo che oscilla, o se si tratta solo di un’impressione legata al proprio punto di vista. Ed ecco che nel 1936, quando l’opinione dominante sembrava in favore delle onde gravitazionali, Einstein e un suo allievo, Nathan Rosen, si convinsero che in realtà non esiste nessun’onda gravitazionale: inversione di rotta, dunque, ma non tutti erano d’accordo.

L’articolo che Einstein e Rosen volevano pubblicare ricevette delle critiche da parte di un giudice (referee) anonimo.

Era forse la prima volta in cui Einstein dovette confrontarsi con la procedura editoriale secondo la quale un articolo scientifico deve essere, appunto, approvato da una terza persona esperta del campo prima di essere pubblicato. La sua reazione fu quella di un orgoglioso rifiuto. Non lesse neppure i commenti ricevuti, rispose con una certa stizza e si rivolse a un editore minore, che approvò la pubblicazione senza obiezioni.

Ma qualche tempo dopo, il fisico Howard Robertson, un cosmologo esperto di Relatività, ritornò, dopo un anno sabbatico, a Princeton, dove si tro-

vava Einstein. Durante un incontro con Leopold Infeld (un altro collaboratore di Einstein), Robertson mostrò interesse per la supposta dimostrazione di nonesistenza delle onde gravitazionali. Non ci volle molto perché Robertson trovasse una falla nella dimostrazione. Grazie alla mediazione di Infeld, Einstein si rese infine conto dell’errore, e fu costretto a rivedere la sua pubblicazione.

Il fatto curioso è che, se solo Einstein avesse letto i commenti ricevuti dal referee, avrebbe trovato le stesse osservazioni di Robertson, e si sarebbe dunque risparmiato la pubblicazione di una dimostrazione falsa. Inoltre, solo di recente, in base alla corrispondenza di Robertson, si è potuto appurare che il referee anonimo non era nessun altro che lui, Robertson in persona! Il cosmologo era dunque tornato alla carica una seconda volta, ma con più finezza, e aveva avuto successo.

Il dibattito sull’esistenza delle onde gravitazionali non era però esaurito, e si sarebbe protratto fino alla fine degli anni Cinquanta. Solo allora, grazie al contributo del fisico inglese Felix Pirani e dell’austriaco Herman Bondi, si trovò il giusto approccio matematico, che portò finalmente a un consenso generale in favore delle onde. Ma un conto è ammettere l’esistenza di queste onde, un altro capire in quali circostanze vengano emesse. In particolare, la domanda centrale divenne se due stelle in rotazione l’una attorno all’altra – era ancora troppo presto per parlare di buchi neri – potessero essere una sorgente di onde. Ne parleremo nel prossimo articolo.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 30 maggio 2016 ¶ N. 22

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Ambiente e Benessere

Medinilla la magnifica Mondoverde Soprannominata «uva rosa», è una pianta

delle regioni calde che si è acclimatata anche da noi

Anita Negretti Per una volta, l’aggettivo «magnifica» che io utilizzo per descrivere quasi tutte le piante, non è farina del mio sacco, ma è proprio il corretto nome della specie di questa bella pianta d’appartamento.

Originaria delle isole dell’Oceano Indiano e delle regioni limitrofe, la Medinilla deve il suo nome al governatore della colonia spagnola delle isole Marianne, Josè de Medinilla y Pineda, vissuto nel 1800. Di circa 125 specie, solo la varietà Medinilla magnifica viene coltivata e commercializzata su larga scala, grazie soprattutto ai suoi fiori molto grandi ed appariscenti. Medinilla curtisii è più rara e presenta fiori bianco latte, mentre Medinilla speciosa non ha le brattee rosate che avvolgono i fiori come nella magnifica.

Rosati e sgargianti, i fiori della magnifica sbocciano a partire dalla primavera e per tutta l’estate, producendo pannocchie pendenti, lunghe fino a 40 cm, dalla tonalità rosa pastello, caratteristica che hanno valso loro il soprannome di «uva rosa». I rami a sezione quadrangolare sono spessi e forti, visto che devono portare un peso non indifferente, specie quando sulla stessa pianta si sviluppano fino a una decina di fiori contemporaneamente. Le foglie sono spesse, permanenti, opposte e lunghe fino a 30 cm, con nervature molto evidenti.

Nel loro ambiente naturale queste piante raggiungono i 2 metri d’altezza mentre se coltivate in appartamento non superano il metro. Originarie

dei tropici, non tollerano temperature fredde, quindi dall’autunno vanno ritirate in casa e mantenute ad una temperatura tra i 15 ed i 20°C. Così facendo la pianta entra in un periodo di riposo, che le permette di interrompere sia la crescita sia la produzione di boccioli. Se questo intervallo non viene rispettato la pianta continuerà a produrre foglie a scapito dei boccioli fiorali che non si svilupperanno. Durante l’estate se lo si desidera, la si può trasportare in terrazza, avendo cura di lasciarla in una posizione all’ombra luminosa, evitando zone ventose che non solo non vengono tollerate dalla Medinilla, ma possono anche recare danni ai pesanti fiori rompendo gli steli.

Trovato il luogo ideale, va tenuta bagnata con frequenza: in primavera e in estate circa una volta alla settimana, lasciando asciugare solo il primo strato di terreno, mentre in autunno e in inverno possono passare anche una decina di giorni tra un’innaffiatura e l’altra. È importante utilizzare acqua piovana o demineralizzata, per evitare di rendere calcareo il terreno, essendo la Medinilla una pianta che predilige qualche grado di acidità. Quando irrigate ricordatevi di nebulizzare la chioma, specie nei mesi più caldi. Essendo originaria di ambienti umidi, trae giovamento sia dalle nebulizzazioni, sia da un sottovaso con argilla espansa ed un filo acqua da mettere sotto al vaso per ricreare l’ambiente naturale.

La si concima con un prodotto liquido per piante fiorite ogni due settimane partendo da marzo,

Il fiore della Medinilla.

(TANAKA Juuyoh)

mentre nel periodo di riposo si sospende la concimazione.

Ogni due anni, se la pianta cresce rigogliosa, potete rinvasarla in un vaso di terracotta di qualche centimetro più grande del precedente: un buon fondo di argilla espansa o di cocci per evitare ristagni ed un terriccio universale miscelato con qualche manciata di torba garantiranno un ottimo substrato per lunghi mesi.

Al momento del rinvaso, da eseguirsi all’inizio della primavera, si può anche procedere alla moltiplicazione della pianta mediante talea: si tagliano porzioni di fusti legnosi lunghi circa 8-10 cm, tagliati subito sotto al

nodo, ciascuna munita di 2-3 foglie.

Messe a radicare al caldo, intorno ai 30 °C, in vasetti di torba e sabbia in parti uguali, tenute ben vaporizzate e protette da un sacchetto trasparente o in una mini serretta, radicheranno in un mese circa e saranno pronte per irrobustirsi e fiorire nel giro di qualche mese.

Se ben tenuta la Medinilla raramente si ammala, ma può succedere che un periodo di aridità o una corrente d’aria troppo vigorosa la facciano ammalare. Nessun problema: vediamo insieme malattie e soluzioni. Se le foglie vengono attaccate dal ragnetto rosso, un acaro che produce

piccolissime ragnatele, le foglie ingialliscono, si macchiano di giallo e marrone accartocciandosi su loro stesse assumendo un aspetto polverulento.

Si consiglia di aumentare l’umidità (vaporizzando maggiormente) e ripulendo le foglie con un batuffolo di cotone con acqua tiepida eliminando ragnateline ed acari. Se avete altre piante colpite da cocciniglia, sia bianca che bruna, questa può colonizzare anche la vostra Medinilla, portando le foglie alla caduta. In questo caso passate con un batuffolo di cotone intriso di alcool: vedrete che le cocciniglie si staccheranno facilmente liberando la pianta.

Giochi Sudoku Livello difficile

Cruciverba Trova il proverbio nascosto nel cruciverba, risolvendolo e leggendo nelle caselle grigie.

(Frase: 2, 5, 3, 3, 1, 6, 7)

Orizzontali 1. Sono di famiglia 5. Impiegata nel ristorante 9. Riposa in pace 10. Tirato 11. Svizzera in due parole 13. Le iniziali di Arbore 14. Avvolge la superficie terrestre 16. Vanno in coppia 17. Particolari sedili 18. Aspro in latino 19. Mio a Berlino 20. Lente, poco perspicaci 22. Pietra preziosa lavorata a rilievo 24. Fiume della Francia settentrionale 25. Strumenti musicali 26. Rappresentazioni grafiche di terreni

Scopo del gioco

Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contenga tutti in numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.

29. Scorre... perfido 30. Si accorciano scrivendo 31. Una consonante 32. Acceso a Londra 33. Differenti, diversi 34. Una...cricca di amici 36. Spazioso 37. Un piccolo centro Verticali 1. Guidano al porto 2. Un moto dell’animo 3. Le iniziali di Magalli 4. Esprimono gioia e dolore 5. Uno dei sette colli di Roma 6. Abituato, solito 7. Seguono uno in cento

8. Risplendenti, illuminate 10. Dieci inglesi 12. Noleggio a Londra 15. Particella atomica 16. Espressioni di rincrescimento 17. Ha le sue previsioni 18. Inconsueta, inusuale 19. Nome femminile 21. Magliette senza maniche 22. Amato, diletto 23. Osso del braccio 27. Gli dei di Sigfrido 28. Risultato a cui mira un’azione 30. Felici se si anagramma già 31. Si consuma sotto pressione 33. Le iniziali dell’attrice Puccini 35. Articolo

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Politica e Economia Perù alla urne Fujimori o Kuczynski? Nel ballottaggio di domenica la sfida è tutta a destra

Amministrative italiane: Torino I salotti buoni della città contro la città di estrazione operaista: i primi rappresentati da Chiara Appendino, la seconda da Piero Fassino, sindaco uscente che dovrebbe spuntarla anche nel ballottaggio

Macron, il Blair francese Nella Francia di Hollande in difficoltà spunta un’iniziativa che da una parte piace e dall’altra dà fastidio

Votazioni federali 5 giugno Alla lente l’iniziativa «vacca da mungere» e i referendum su asilo e diagnosi preimpianto

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La vittoria di van der Bellen non basta per scongiurare la minaccia del nazionalismo.

(Keystone)

Un mezzo respiro

Presidenziali austriache La vittoria in extremis del verde van der Bellen sul nazionalista Hofer non significa

la rivincita dell’establishment moderato. È un segnale che in realtà non promette bene per l’integrazione europea Lucio Caracciolo La vittoria in extremis del candidato verde Alexander van der Bellen sul «liberale» (in realtà nazionalista) Norbert Hofer alle elezioni presidenziali austriache ha un valore molto relativo.

Non significa la rivincita dell’establishment moderato ed europeista, ma solo un mezzo respiro di sollievo per le formazioni politiche tradizionali, in una partita tutta in salita per chi, in Austria come nel resto dell’Ue, intende contrastare le tendenze protezioniste e xenofobe oggi più evidenti che mai.

Riportiamo la questione ai suoi termini effettivi. In sei punti.

Primo. In termini numerici, l’affermazione di van der Bellen è stata risicatissima. Appena 31.026 i voti di vantaggio su Hofer. Inoltre, decisivo è stato il suffragio espresso per corrispondenza, ossia da parte di cittadini austriaci residenti all’estero, evidentemente più sensibili all’eco internazionale negativa che la vittoria di Hofer avrebbe suscitato.

Secondo. Van der Bellen non rappresenta lo storico establishment austriaco, appartenendo all’area ecologista. I grandi sconfitti di questa votazione sono stati i partiti di governo – socialdemocratici (SPÖ) e popolari (ÖVP) – che da decenni si sono spartiti non solo le poltrone ministeriali ma tutti gli uffici pubblici austriaci, dai dirigenti di punta dello Stato ai bidelli e ai postini.

Terzo. La questione migratoria è stata alla radice della campagna che ha portato Hofer a vincere il primo turno e a sfiorare la vittoria nel ballottaggio.

Paradossalmente però Hofer ha vinto nell’Austria rurale e alpina, dove di migranti non si vede quasi l’ombra, mentre van der Bellen si è aggiudicato il successo in tutte le città capoluogo di Land, a cominciare da Vienna, dove si concentra quasi un quarto della popolazione nazionale e la maggior parte dei richiedenti asilo.

Quarto. Il profilo politico di van der Bellen, professore di economia da tempo impegnato nella cosa pubblica, è piuttosto vago. Figlio di padre russo

di origine olandese, nato in Tirolo, il nuovo presidente ama riferirsi alle sue radici multietniche e al suo status di rampollo di una famiglia di immigrati. Come studente universitario è stato un sessantottino, anche per reazione all’anticomunismo viscerale respirato a casa. Negli anni Settanta si iscrive a una loggia massonica di Innsbruck, da cui poi si dissocia – ma non si sa se vi aderisca ancora o meno. Passa negli anni Ottanta alla socialdemocrazia.

Nel 1994 si rivolge ai Verdi, di cui nel 1996 diventa presidente. Più che un classico ecologista, sembrerebbe un liberale piuttosto eclettico.

Quinto. In Austria il presidente conta quasi nulla. Il leader politico del Paese è da pochi giorni il cancelliere Christian Kern, «tecnico» socialdemocratico, già amministratore delegato delle Ferrovie austriache, a capo dell’ennesima coalizione con i popolari. Il fatto che Hofer abbia raggiunto quasi la metà dei voti lascia presagire che alle prossime elezioni politiche, previste per il 2017, il suo partito (FPÖ) possa conquistare la guida del governo.

Si profila anzi una sorda concorrenza per la cancelleria fra Hofer e il leader della FPÖ, Heinz-Christian Strache.

Il sistema proporzionale in vigore potrebbe infatti favorire la destra nazionalista, mentre i due classici partiti di governo non sembrano capaci di ricostruirsi un profilo credibile.

Sesto. A confermare la disaffezione dei ceti popolari per i socialdemocratici, tutte le analisi informano che il voto «liberale» ha una forte matrice di classe lavoratrice, operaia. In generale, l’86% degli elettori della FPÖ viene dai ceti meno avvantaggiati, il 55% si è fermato alla scuola dell’obbligo. In Austria come altrove, gli operai votano massicciamente a destra, rovesciando una tendenza più che secolare.

Ma il voto austriaco è l’indicatore di un processo molto più vasto, che tocca più o meno profondamente le democrazie occidentali, dagli Stati Uniti a diversi Paesi europei. È in corso una rivolta degli elettori contro i poteri stabiliti. A determinarla è l’incrocio di stagnazione o comunque bassa crescita economica, fenomeni migratori reali o

percepiti, crisi dei valori tradizionali.

Ne risulta un offuscamento del senso di identità e una chiusura in se stessi, come se si fosse minacciati da fenomeni terribili e incontrollabili.

Questo vale sia per il fenomeno Trump negli Usa che per le formazioni ipernazionaliste al governo in Ungheria, Polonia o Finlandia, sia per i movimenti o partiti di analoga vocazione xenofoba in Grecia (Alba Dorata), Francia (Front National), Germania (Alternativa per la Germania), Italia (Lega), Regno Unito (Ukip) o Svezia (Democratici Svedesi).

Il segnale dato dalle elezioni presidenziali austriache va quindi interpretato su questo sfondo, che non promette bene per il futuro dell’integrazione europea. Anzi, sembra annunciare una fase di disintegrazione, di ripiegamento nazionalista, di chiusura xenofoba, che avrebbe come primo bersaglio le minoranze allogene, a cominciare dai migranti provenienti da Paesi di cultura islamica. Il successo in extremis di van der Bellen potrebbe insomma rivelarsi una vittoria di Pirro.

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Politica e Economia

Perù, Fujimori o Kuczynsky?

Ballottaggio Si gioca tutto a destra il secondo turno per le presidenziali di domenica prossima da cui

uscirà il nome del nuovo presidente Angela Nocioni

Nelle ultime settimane la campagna è stata tutta incentrata sulla battaglia fra fujimorismo e antifujimorismo, i due grandi campi di appartenenza politica in cui si divide il Paese Dopo quaranta giorni in cui i sondaggi hanno costantemente disegnato uno scenario da «empate tecnico», un quasi pareggio tra i due candidati, l’ultima inchiesta diffusa sulle intenzioni di voto prevede un 52,6% per Keiko Fujimori e un 47,4% per Pedro Pablo Kuczynski. Si è quindi scatenata la caccia agli indecisi. L’esito dello scontro sarà deciso dal recupero di parte di quel 12% di elettori al momento orientati per il non voto o il voto nullo.

Convitato di pietra di ogni discussione politica in Perù è ancora Alberto Fujimori, che ha governato con pugno di ferro tra il 1990 e il 2000, al momento in carcere per una condanna a 25 anni di reclusione per gravi violazioni dei diritti umani durante la sua presidenza. È stato giudicato colpevole in processi successivi anche per appropriazione indebita e corruzione.

La campagna elettorale nelle ul-

AFP

La sfida è tra Keiko Fujimori, 41 anni appena compiuti, leader del partito Fuerza popular, figlia dell’ex dittatore Alberto Fujimori di cui rivendica orgogliosamente l’eredità politica, e Pedro Pablo Kuczynski (entrambi nella foto), 71 anni, economista di centro destra che si presenta con la formazione Peruanos por el kambio, ex ministro del governo di Alejandro Toledo.

Al primo turno Keiko ha ottenuto il 39,48% dei consensi, Kuczynski il 21,38%. In un probabile testa a testa, fondamentale sarà la scelta elettorale di chi al primo turno ha votato per Verónica Mendoza, trentacinquenne di Cusco che ha raccolto il voto della sinistra senza superare il 18,64%.

time settimane è stata tutta occupata dalla battaglia tra fujimorismo e antifujimorismo, i due grandi campi di appartenenza politica in cui si divide il Paese. Da una parte quelli per cui il nome Fujimori è sinonimo di tirannia.

Dall’altra quelli per cui Fujimori era e rimane l’uomo forte che si faceva vedere nelle zone più desolate del Perù, raccoglieva meticolosamente richieste e preghiere e poi faceva arrivare qua e là camion di elettrodomestici da distribuire gratuitamente in quartieri in cui un frullatore funzionante era un miraggio. Vecchia ricetta populista. Ma ricetta che funziona. Dei 22 milioni di cittadini attesi domenica alle urne, 10 milioni vivono tuttora in case senza acqua corrente e prive di fognature.

Durante la dittatura il Paese economicamente cresceva in fretta. Ora cresce sì, ha registrato un grande boom, ma già cresce più lentamente rispetto a qualche anno fa e il rallentamento fa paura a molti.

Dell’epoca fujimorista molti ricordano il salto compiuto verso il benes-

sere, inteso come possibilità di accesso al consumo, nonché i successi militari ottenuti contro il sanguinario gruppo terroristico Sendero luminoso che con una ideologia delirante predicava rivoluzione in punta di fucile e terrorizzava la popolazione civile.

Scrive a proposito di ciò, sul quotidiano spagnolo «El País», Mario Vargas Llosa, l’intellettuale più famoso del Perù, premio Nobel in letteratura da sempre impegnato in politica su posizioni liberali, sconfitto alle presidenziali del 1990 proprio da Fujimori: «Il fujimorismo dispone di una grande capacità di spesa. Si consideri che soltanto 180 milioni di dollari sono stati recuperati degli oltre sei miliardi di dollari rubati in quegli anni. La sua propaganda ha letteralmente invaso il Paese. I mezzi di comunicazione che controlla hanno costruito la fiction secondo la quale l’ex dittatore avrebbe sconfitto Sendero Luminoso e liberato i peruviani dall’inflazione. Puro mito.

In verità, la dittatura ha combattuto il terrore con il terrore, assassinando,

torturando e riempiendo le carceri di innocenti. Una corruzione senza freni ha arricchito i dirigenti fujimoristi e tolto prestigio al Paese collocandolo sull’orlo dell’abisso. È per questo che Fujimori è fuggito dal Perù, caso unico nella storia, inviando via fax dall’estero la sua rinuncia alla presidenza».

Vargas Llosa milita apertamente in favore di Kuczynski.

Keiko Fujimori e Pedro Pablo Kuczynski si disputano intanto i voti degli indecisi a suon di randellate su modello di sviluppo economico e politiche per la sicurezza. Keiko, in attesa che la Corte costituzionale discuta il ricorso per l’annullamento della condanna nei confronti di suo padre e nel timore di scivolare al secondo posto, ha deciso di radicalizzare a destra la sua campagna brandendo il tema della introduzione della pena di morte nel caso di abusi sui minori.

Kuczynski punta tutto sulla confluenza dell’elettorato antifujimorista su di sé. Spera che le sue posizioni moderate siano sufficientemente attraenti

da convincere tutti gli antifujimoristi a votarlo anche se da posizioni eterogenee tra loro. Conta di recuperare parte dell’elettorato mobilitato da Veronica Mendoza contro le scelte in politica economica fatte dal governo uscente di Ollanta Humala, considerato da sinistra ancora troppo escludente.

Con grande efficacia Keiko Fujimori gli risponde con accenni vaghi, ma ammiccanti, alle attività dell’estrazione mineraria illegale, unica fonte di sostentamento per molte zone rurali. Le miniere peruviane, legali e non, sono parte fondamentale della ricchezza del Paese. Secondo i dati forniti dalla Sociedad Nacional de Minería, Petróleo y Energía (SNMPE) il solo settore dell’estrazione di oro avrebbe registrato un incremento dell’8,6% l’anno scorso, arrivando a 4100 tonnellate, a fronte delle 3777 del 2014, e confermato così la sua leadership mondiale nel settore.

Ora che l’ultimo sondaggio lo dà per probabile sconfitto, Kuczynski sceglie come cavallo di battaglia l’accusa alla Fujimori di essere pronta a metter su un governo pieno di corrotti riciclati dagli anni Novanta. Argomento debole a cui lei, con un’aggressività molto efficace nella propaganda televisiva, risponde con l’arma vincente dell’orgoglio nazionale. Uno dei punti forti della ultima offensiva televisiva di Keiko è stata la polemica sollevata a sorpresa sugli otto giorni di campagna elettorale spesi dal suo rivale a cercare appoggi negli Stati Uniti. «Il nostro piano di governo è stato costruito percorrendo il Perù metro per metro - ha attaccato Keiko Fujimori in tv – il suo invece nasce per difendere gli interessi dei grandi imprenditori e le corporazioni internazionali». Così ha risposto Kuczynski: «Abbiamo la forza per fornire servizi di base a tutti i villaggi del Perù, lo faremo con il programma di governo Nuestras ciudades in cui funzionari capaci e non corrotti realizzeranno gli obiettivi che oggi promettiamo. Con i sei miliardi di dollari rubati dal governo di Alberto Fujimori si sarebbero potuti costruire molti ospedali. Perché non parliamo di questo?». Keiko Fujimori ha avuto buon gioco a rispondere: «La presidente sarò io, non mio padre».

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 30 maggio 2016 ¶ N. 22

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Politica e Economia

Torino, c’era una volta la grandeur Elezioni comunali 5 giugno – 4. fine Anche qui, come nelle altre tre grandi metropoli descritte

nelle precedenti puntate, si profila un ballottaggio: fra il sindaco uscente Fassino che se la vedrà molto probabilmente con Chiara Appendino

La Torino dei salotti buoni contro la Torino di estrazione operaista. La prima rappresentata da una smagliante neo mamma, laureata nella culla degli eletti, la Bocconi, e bene addentro all’area confindustriale. La seconda appesa alle spalle, apparentemente incurvate e gracili, di un anziano «apparatnik», che ha fatto in tempo ad apprezzare Togliatti, poi a entusiasmarsi per la svolta di Berlinguer, infine ad accompagnare le varie capriole dal Pci (Partito comunista italiano) al Pd (Partito democratico), attraverso Pds (Partito della sinistra) e Ds (Democratici di sinistra).

Chiara Appendino avrebbe l’appeal giusto per rappresentare la parte moderata della città, invece sta con Grillo e fino a un mese addietro pareva in grado di vincere la corsa a sindaco. Piero Fassino si è dato il compito di aggiungere gli anziani Fiat e gli amanti dell’ordine all’abituale voto riformista per essere riconfermato nel ruolo.

Gli altri 16 candidati contano poco più di zero. Il centrodestra, che a Torino mai ha beccato palla, anche stavolta è andato in frantumi senza riuscire a individuare un nome spendibile. Berlusconi si è intestardito su un vecchio parlamentare di Forza Italia, Osvaldo Napoli, il cui merito principale è di esser nato a Torino; Lega e Fratelli d’Italia hanno scelto il volto rassicurante del notaio Alberto Morano; corre invece da solo l’ex sottosegretario Roberto Rosso dagli inizi democristiani prima di fare dentro e fuori dall’area berlusconiana e che nelle amministrative del 2001 fu scelto per sfidare Sergio Chiamparino. Venne sconfitto di misura: poteva essere la base per preparare la rivincita, viceversa le gelosie interne all’allora Popolo della Libertà sfociarono, all’appuntamento del 2006, nella designazione dell’oltranzista cattolico ed ex ministro Rocco Buttiglione, per soprammercato di ascendenze pugliesi in una realtà assai legata alle tradizioni.

Se Napoli (10 per cento), Rosso (7,5 per cento) e Morano (7 per cento) avessero unito le forze e trovato il supercandidato, che non c’è, avrebbero totalizzato il 24,5 per cento. Quanto sarebbe bastato per superare il Movimento 5 Stelle, accreditato del 23 per cento, e prendersi il lusso di arrivare perlomeno al ballottaggio. Al contrario, il 19 giugno i loro elettori potranno soltanto scegliere se astenersi o preferire chi, tra Fassino e Appendino, si allontana meno dai propri desideri.

Marka

Alfio Caruso

L’Appendino ha trentadue anni, diploma al liceo classico Gioberti, laurea con lode in Economia internazionale, tesi sul marketing delle strategie di entrata nel mercato cinese, argomento a lei assai familiare: suo padre Domenico, da vicepresidente e responsabile dello sviluppo internazionale di Prima Industrie, si è reso protagonista dell’espansione in Cina con l’apertura di vari stabilimenti. Il relatore di Chiara fu l’attuale presidente dell’Inps, Tito Boeri. Il master specialistico in pianificazione e controllo di gestione aziendale, con particolare riguardo sulla valutazione del parco giocatori nelle società di calcio, le ha aperto le porte del settore finanziario della Juve. È la squadra del cuore da quando vi giocava Baggio. Lei stessa ha praticato il calcio per indossarne la maglia. L’avventura finisce con il matrimonio. Pur professandosi cattolica non praticante, Chiara ha sposato in chiesa Marco Lavatelli, tre anni più di lei, e gli si è affiancato nella piccola azienda di prodotti per la casa occupandosi di contabilità e amministrazione.

Dopo una lontana esperienza tra i Verdi, nel 2011 si è presentata alle elezioni amministrative con il M5S. Fu definita dalla buonanima di Casaleggio la «candidata borghese» ed è stato quello, per l’appunto, il suo bacino di voti. Paradossalmente l’hanno votata perché è l’opposto dello stile sguaia-

to di Grillo: niente Vaffaday, niente insulti, niente minaccia, capace di esprimersi in francese e in tedesco, affidabile, ostinata nello studiare ogni argomento, del quale si è occupata in consiglio comunale. Lo stesso Fassino l’ha insignita del titolo di «Giovanna d’Arco della pubblica moralità». Lei ha dimostrato grande abilità nello sfuggire a qualsiasi etichetta passando dal reddito minimo di cittadinanza all’abolizione dell’Irap. Viene considerata una tipica olivettiana, benché il mitico Adriano Olivetti sia morto da oltre mezzo secolo e ben poco rimanga delle sue utopie. Ma a Torino significa il massimo dell’apprezzamento. Al punto tale che Appendino si è potuta affidare a uno slogan semplicissimo: «L’alternativa è Chiara».

Dall’altro lato della barricata caracolla Fassino approdato nel 2011 sullo scranno di sindaco quale contentino per la defenestrazione da segretario del partito imposta da D’Alema, Veltroni e Bersani allorché partorirono il Pd (lo sostituì Veltroni). Relegato a un ruolo marginale, malgrado avesse accettato di portare la croce negli anni rampanti di Berlusconi, Fassino ha fatto sua l’antica massima di Giulio Cesare: meglio il primo nell’ultimo villaggio dell’impero, che il secondo a Roma. Gli è andata meglio del previsto: per Torino sono stati gli anni del grande rilancio Fiat, sotto l’egida di

Marchionne, e della crescita internazionale tra eventi, fiere, mondanità, nonostante i debiti lasciati dalle Olimpiadi invernali del 2006 al Sestrière.

Fassino è stato bravo nel proseguire la cauta navigazione frutto di un accordo che dal 1993 mette assieme la Fiat, la Grande Banca – un tempo il San Paolo, oggi Intesa – e la Sinistra dell’efficienza.

Fassino approdò sulla poltrona di sindaco nel 2011 quale contentino per la defenestrazione da segretario del partito L’accordo nacque in casa del filosofo Gianni Vattimo, amico e concorrente di Umberto Eco, oggi su posizioni assai estremiste. Servì per stoppare il ritorno del comunista tutto d’un pezzo Diego Novelli, sindaco dal 1975 al 1985 quando erano i partiti a indicare i primi cittadini. All’epoca scovarono un garbato ingegnere, professore del Politecnico, Valentino Castellani, sconosciuto a tutti. Però bastò la forza dei contraenti e la benedizione di Gianni Agnelli per lanciarlo verso una clamorosa rimonta (al primo turno aveva raccolto il 20 per cento, contro il 40 per cento del rivale). Il benservito a Novelli lo dette un

pensionato di Mirafiori intervistato dal Tg3 regionale prima dell’appuntamento decisivo: «Novelli? Oh basta là!

Zingari e piste ciclabili». Da allora la singolare alleanza non ha perso un’elezione cittadina calibrando ogni volta il personaggio giusto. E chi può essere più giusto di un Fassino, ultimo erede del glorioso Pci torinese (torinesi di nascita o di formazione furono Gramsci, Togliatti, Secchia, Terracini, Longo, Pajetta, Pecchioli, Occhetto, Violante)? Gli fanno il solletico i candidati nel nome della purezza ideologica: l’ex duro del sindacalismo Giorgio Airaudo (Torino in Comune), l’irriducibile nostalgico Marco Riccio (Partito Comunista), il rombante ex piddino Mario Cornelio Levi (Italia dei valori).

Un sondaggio ha stabilito che il problema principale dei torinesi è, come nel resto d’Italia, la disoccupazione; a seguire la criminalità, la sicurezza, la manutenzione delle strade, il decoro della città, cioè le buche e il taglio dell’erba. Niente voli pindarici, dunque; niente nuove frontiere, bensì la gestione attenta della cosa pubblica. Quasi che la scomparsa dei fratelli Agnelli abbia cancellato ogni tentazione di grandeur. D’altronde, l’accordo di Elkann con De Benedetti per l’unione dei propri gruppi editoriali significa che la «Stampa» perderà, dopo più di un secolo, l’allure di grande giornale nazionale. Gli stessi successi della Juve in campionato risultano affliggenti per gran parte della città tifosa del Torino, mentre le sue scivolate nella Champions League sembrano la conferma di un’inguaribile modestia. I più esigenti vorrebbero una migliore qualità dei servizi sociali e sanitari, maggiore attenzione per l’immigrazione e la gestione dei campi Rom. Piccole cose di pessimo gusto, avrebbe commentato Gozzano. Come lo sono il trasporto pubblico, la viabilità, la raccolta rifiuti, per i quali si sprecano i consensi nei confronti della giunta. Non a caso promossa con il 59 per cento dei consensi. Lo stesso Fassino risulta gradito al 54 per cento dei suoi concittadini. È quasi la stessa percentuale di voti (56,8 per cento), che gli viene riconosciuta nel ballottaggio, oltre 20 punti in più rispetto al risultato atteso al primo turno. La garbata Appendino, un po’ con il fiato corto in questa vigilia, risulterebbe assai lontana (43,2 per cento) e condannata ad altri cinque anni di opposizione, anche se da una posizione stavolta molto più prominente.

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Politica e Economia

Francia en marche Scenari politici Il ministro dell’Economia lancia un movimento

politico e molti già lo considerano il Tony Blair francese

Marzio Rigonalli Nella Francia di Hollande alle prese con un’economia che stenta a ritrovare slancio e statistiche confortanti, con una disoccupazione ancora troppo alta, con una riforma del mercato del lavoro tesa a dare più autonomia alle aziende, ma all’origine di una grossa contestazione sociale e di una profonda spaccatura in seno al partito socialista, con una scemata fiducia nella politica, in particolare nel presidente e nel suo governo, e con un clima generale caratterizzato da un diffuso pessimismo, è sorta una nuova iniziativa che ha subito suscitato un flusso di critiche e nello stesso tempo una moltitudine di elogi.

L’autore dell’iniziativa è Emmanuel Macron, giovane ministro dell’Economia. Egli ha lanciato un nuovo movimento politico, denominato «En marche!». Lo ha fatto ad Amiens, sua città natale, con l’aiuto di amici e collaboratori, ma senza l’appoggio dichiarato di primi attori della scena politica francese. Quali sono le finalità del nuovo movimento? Macron non è stato molto chiaro sulle sue intenzioni e quando i giornalisti gli hanno chiesto di definire quello che è stato subito chiamato il «macronismo», lui si è dichiarato incapace di farlo. Si è autodefinito un politico di sinistra, ha criticato l’operato dell’attuale governo ed ha espresso il desiderio di superare la contrapposizione tra la destra e la sinistra e di costruire una nuova maggioranza in vista delle elezioni presidenziali del 2017. La parola «libertà» è quella che emerge con più frequenza dalle sue dichiarazioni e molti, tenendo conto anche di alcune sue posizioni adottate come ministro, per esempio contro l’obbligo delle 35 ore lavorative settimanali o a favore dell’apertura prolungata dei negozi, hanno parlato di una scelta social-liberale. Macron si è subito messo al lavoro ed ha inviato i suoi seguaci e simpatizzanti a bussare alla porta di casa di molti francesi per chiedere loro che cosa si aspettano dalla politica e da chi li governa. Le ri-

sposte costituiranno un giorno la base di un programma politico sicuramente più concreto ed affinato delle intenzioni espresse finora.

L’iniziativa del ministro dell’Economia ha subito creato un certo nervosismo in seno al governo e tra i sostenitori della maggioranza socialista. Le critiche non sono mancate. Si è subito sottolineato che un ministro dovrebbe operare a favore del governo al quale appartiene e non lanciarsi in iniziative personali, e si sono sentite domande perlopiù imbarazzanti per Macron. Perché il ministro non si è dimesso prima di criticare il governo e di creare un nuovo movimento politico? Perché un giovane di 38 anni, ex banchiere, che non è mai stato eletto a livello nazionale o locale, che non ha nessun influsso nel partito socialista e che deve la sua posizione di ministro al presidente Hollande, si comporta in modo così irriguardoso nei confronti dei membri del governo e dell’inquilino dell’Eliseo? Molti gli attribuiscono l’ambizione di diventare un giorno presidente e temono che il primo tentativo potrebbe essere compiuto già l’anno prossimo, creando così ulteriori difficoltà all’attuale presidente.

L’iniziativa di Macron è rivelatrice di una tensione ai vertici dello Stato e del marasma nel quale è immersa la sinistra Più positive invece sono state le reazioni nell’opposizione di centrodestra. I vari candidati alle prossime elezioni presidenziali e coloro che li sostengono hanno visto di buon occhio l’apertura del ministro verso posizioni liberali ed avranno sicuramente apprezzato il fatto che l’iniziativa crei ulteriori problemi e divisioni in seno all’attuale maggioranza

socialista. Alcuni hanno individuato in Macron un possibile Tony Blair francese, l’originale britannico rivisto e corretto secondo le nuove esigenze della globalizzazione; altri hanno tracciato paralleli con Jacques Delors, l’ex presidente della Commissione europea, per la sua fede nell’Europa e per la sua richiesta di una zona euro maggiormente integrata. Jean-Pierre Raffarin, primo ministro dal 2002 al 2005 con Chirac presidente, è andato ancora più in là ed ha dichiarato di non vedere grandi incompatibilità tra Emmanuel Macron e Alain Juppé, il candidato del centro-destra favorito nei sondaggi per le prossime presidenziali. Ha lasciato intendere che in un domani ed in seguito alla ricomposizione della scena politica francese, non è da escludere che Juppé, eletto presidente, scelga Macron come primo ministro.

Al di là delle reazioni, l’iniziativa di Macron è rivelatrice di due situazioni altrettanto negative per la maggioranza socialista: la tensione che regna ai vertici dello Stato francese ed il marasma nel quale è immersa la sinistra francese. All’Eliseo, sede della presidenza, ed a Matignon, residenza del capo del governo, si guarda con apprensione all’appuntamento elettorale che avverrà fra un anno. I sondaggi sono impietosi per Hollande e prevedono che l’attuale presidente, se decide di chiedere un secondo mandato, verrà eliminato già al primo turno e sarà battuto sia dal candidato del centro-destra che dalla presidente del Fronte nazionale. Per i socialisti, occorre invertire la rotta e tentare di riguadagnare la fiducia degli elettori, ma il tempo che rimane a disposizione, un anno, è probabilmente troppo breve. Oggi, la percentuale dei francesi favorevoli al loro presidente si situa intorno al 15%. È quindi molto bassa, troppo bassa per poter sperare in una rimonta spettacolare. E troppo amara è anche la scia lasciata dalle due ultime importanti riforme volute dal governo, quella costituzionale, interrotta dopo mesi di febbrili discus-

Emmanuel Macron: il 38% dei francese lo vedrebbe presidente. (AFP)

sioni, e quella sul mercato del lavoro, approvata grazie ad uno stratagemma costituzionale, ma senza una vera maggioranza parlamentare e ancora al centro di violente proteste dei sindacati e degli studenti nelle principali città francesi.

Per di più, la sinistra che nel 2012 si era presentata compatta ed era riuscita a far eleggere Hollande, oggi appare dilaniata. I cosiddetti «frondisti», rappresentanti l’ala sinistra del partito socialista, non nascondono più la loro opposizione al presidente, al primo ministro Valls ed al governo e, dopo l’approvazione della legge sul lavoro, hanno addirittura tentato di presentare all’Assemblea nazionale una mozione di censura del governo. Il numero di parlamentari richiesto non è stato raggiunto ma soltanto di poco, perché sono mancate due firme. Sarebbe stata probabilmente la prima volta nella storia della democrazia parlamentare che un governo praticamente monocolore venisse preso di mira da una mozione di censura depositata dal suo partito. I Verdi si sono spaccati e soltanto una parte di loro sostiene ancora il governo. Il Fronte di Sinistra, infi-

ne, rappresentante tutte le formazioni che si situano alla sinistra del partito socialista, è pure schierato contro Hollande ed il governo Valls, ed ha già designato Jean-Luc Mélenchon come suo candidato alle prossime elezioni presidenziali. È difficile prevedere quale sarà il futuro dell’iniziativa di Macron in questo scenario denso di rivalità apparentemente insanabili. Il ministro dell’Economia gode di una buona immagine tra i francesi. Il 38% pensa che sarebbe un buon presidente e lo preferisce al primo ministro Valls, che ottiene il 28%, ed al presidente Hollande, che deve accontentarsi dell’11%.

Se Hollande sarà candidato nel 2017, Macron potrà aiutarlo portandogli voti dal centro, che altrimenti il presidente non otterrebbe. Se, invece, l’attuale inquilino dell’Eliseo non chiederà un secondo mandato, si assisterà probabilmente ad un braccio di ferro tra il primo ministro ed il ministro dell’Economia, all’interno del partito socialista. La forte rivalità fra i due, dunque, potrebbe esplodere in tempi relativamente brevi e tutto indica che è destinata a protrarsi per molti anni.

L’abito indiano non è di moda Seta indiana Perché gli stilisti della Lakmé Fashion Week non sfondano sul mercato occidentale

Francesca Marino Si sono appena concluse le sfilate, a Bombay e a Delhi. Che non scatenano il circo mediatico di migranti di lusso tra Parigi-New York-Londra-Milano con relative isterie all’ingresso delle sfilate più importanti, ma che sono comunque diventate in una decina d’anni o poco più un fenomeno di tutto rispetto anche in India. E che sono accompagnate come ogni anno dal solito contorno di polemiche. Sul colore della pelle e la taglia delle modelle, anzitutto. Via le modelle bianche, dentro le modelle locali: che si sono più o meno adeguate, così come le loro colleghe di Bollywood, agli standard internazionali. Niente più modelle taglia 42 abbondante, via libera alle taglie 38. In controtendenza con le polemiche sulla magrezza eccessiva dell’Occidente? Sì, certo.

Due anni fa su un famoso numero di «Vogue» India si celebrava una famosa attrice che era riuscita, prima tra le sue colleghe, a entrare in una taglia 38. La magrezza di ritorno, quella ottenuta a furia di diete e ginnastica e non

per mancanza di cibo, fa parte dell’aumentato benessere sociale. Che ci piaccia o no. Tanto per dire, mi hanno fatto tenere tempo fa un discorso semiserio al Rotary Club su come fanno le europee (italiane e francesi, in particolare) a non ingrassare. Una delle mie argomentazioni, poco seria forse ma calzante, riguardava appunto la moda: gli abiti tradizionali indiani non hanno taglie, a parte il corpetto dei sari in cui però sarti previdenti lasciano all’interno circa 5 cm di stoffa per poterli all’occorrenza allargare. Per il resto, basta allargare o stringere il cordino con cui si chiudono i pantaloni tradizionali o le sottogonne dei sari.

Alle sfilate di questa stagione, come ogni anno, si sono viste meravigliose variazioni sul tema. L’artigianato indiano in tutto il suo splendore, il recupero di tradizioni secolari di tessitura e ricamo, le variazioni sul tema tunica-pantaloni che mischia oriente e occidente, le variazioni sul tema del sari e il modo di indossarlo in maniera più moderna. Le lunghe gonne indossate con una cortissima blusa, i cosiddetti Anarkhali (dal nome di una

famosa e sfortunata cortigiana di Lahore), dress tornati di gran moda da un paio d’anni, i caftani che impazzano ormai anche sulle passerelle occidentali. Prodotti e ricamati in India, però, ma da sarti occidentali. Come le ormai numerose capsule collection di Prada dedicate in qualche modo all’India, la cui capostipite coniugava il tradizionale ricamo Chickan tipico di Lucknow con linee occidentali. Con il prezzo di un abito avresti potuto comprare dieci ricamatrici e tutte le loro famiglie, ma questa è un’altra storia.

Ed è una storia che ha in qualche modo a che fare con l’altra polemica d’obbligo a ogni settimana della moda indiana: perché gli stilisti della Lakmé Fashion Week non sfondano sul mercato occidentale? Perchè nessuno stilista, e ce ne sono di bravissimi, riesce a entrare nel circuito della moda con la M maiuscola o dei più prestigiosi negozi online? È vero che per un paio di stagioni una boutique di Firenze ha venduto gli abiti (i peggiori...) del mio stilista indiano preferito, Sabyasachi Mukherjee. Che Manish Arora, altro stilista di culto, ha disegnato per un

paio d’anni le collezioni di Paco Rabanne e sfila ormai regolarmente a Parigi, che ho trovato in una boutique di Oxford abiti di un negozio di Delhi chiamato Tulsi e che altri marchi di nicchia sono presenti in qualche department-store nei Paesi anglosassoni. È vero anche che i suddetti signori vendono moltissimo all’estero, ma... A comprare la moda indiana da questa parte del mondo sono per la maggior parte indiani, pakistani o bangladeshi espatriati. E ciò che si vende di più sono abiti adatti a matrimoni e cerimonie varie, il genere di abiti tradizionali che è impossibile trovare in un qualunque altro negozio.

La moda per ogni giorno, a parte che è in generale poco presente sulle passerelle indiane, praticamente non esiste. E non soltanto perché lo stesso capo prodotto in serie da una grande catena costa praticamente un decimo di uno prodotto a mano da artigiani locali, e agli occhi del consumatore non esperto è praticamente lo stesso.

Il fatto è, ed è la lamentela avanzata da tutti i compratori e i produttori occidentali che si sono in qualche modo

rapportati con gli stilisti indiani, che la moda indiana soffre di una specie di autismo culturale. Le taglie, quando esistono, non sono conformi agli standard internazionali, ad esempio, e a nessuno standard conosciuto. Un abito è un abito, se va lungo o largo o ha dei difetti basta portarlo dal sarto. Che in India è una figura comune, in occidente ovviamente non più. E mentre nessuna o quasi da questa parte del mondo ha voglia, tempo o fantasia per far sistemare un pantalone o una maglia, in India e dintorni è più che normale.

Oltre a questo, esistono il concetto di urgenza e quello di tempi di consegna che qui assumono un significato piuttosto peculiare. Come ricordo sempre agli amici designer occidentali che si lamentano delle difficoltà spazio-temporali, in hindi «oggi» si dice kal. E per dire domani si usa la stessa parola, è soltanto il verbo a cambiare.

Basta tenerlo sempre presente, e godersi come faccio io senza rodersi troppo il fegato pensando a quando il sarto consegnerà la blusa, il mio nuovo, magnifico completo di gonna e corpetto firmato Sabyasachi.

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Politica e Economia

Sorvegliati e perseguitati Libertà di stampa nell’era di internet – 1 Come svolgere un giornalismo d’inchiesta quando i mezzi tecnologici

permettono alle autorità un controllo a tappeto – Il caso della giornalista statunitense Laura Poitras e l’inchiesta internazionale sui «Panama Papers» Enrico Morresi Alla giornalista indipendente Laura Poitras quel tipo di trattamento era divenuto insopportabile. Ad ogni uscita e rientro negli Stati Uniti veniva perquisita, interrogata, minacciata. Le avevano sequestrato il materiale di lavoro, inclusi il laptop, le macchine fotografiche e i computer portatili. Avendo confidato le sue inquietudini a un collega suo amico – Glenn Greenwald , firma di punta del quotidiano britannico «The Guardian» –, questi ne scrisse sulla rivista online «Salon», molti lettori manifestarono solidarietà e la persecuzione cessò. Restava da stabilire chi e per quale ragione avesse ordinato quel tipo di sorveglianza. La risposta si trova nelle carte che Edward Snowden – il più famoso dei whistleblower – ha reso pubbliche sui metodi di sorveglianza messi a punto dalla National Security Agency americana. Una mostra organizzata al Whitney Museum di New York li descrive con il sostegno di una documentazione ineccepibile e il pubblico fa la fila per entrarci.

(Anticipo che ammiro la grandezza con cui la grande nazione americana è disposta a veder messi in piazza i retroscena meno gloriosi della reazione all’attentato infame alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. Onestamente, del resto, la mostra si apre con una lenta panoramica sui volti atterriti e affranti delle persone accorse quel giorno a vedere che cos’era successo a Ground Zero).

Ma perché era sorvegliata quella giornalista? Dai documenti risulta che avrebbe, il 20 novembre 2004, «intralciato un’azione di combattimento in cui erano morti dei soldati americani». Dagli spezzoni del filmato, lasciati fuori dal prodotto finale ma provvidenzialmente non mandati al macero, risulta invece che Laura filmava la curiosità tutta infantile con cui i bambini di una famiglia irakena, correndo qua e là sul terrazzo di casa, seguivano l’azione militare.

L’esposizione conferma che la sorveglianza dei giornalisti era moneta corrente. È mostrata la lettera, contrassegnata dal marchio Top secret, con cui,

il 6 marzo 2002, George Tenet, direttore della CIA, istruiva la NSA «to collect, process and disseminate non-communication data from foreign computers», ossia l’avvio della più grande impresa di spionaggio elettronico estesa fino a sorvegliare i più fedeli alleati dell’America.

E si vede come la burocrazia accettasse di scendere nei particolari, istruendo a distinguere le clandestine collections dalle covert actions, dal watchlisting, sempre precisando che l’azione non concerneva i veri e propri terroristi – di cui si occupava la CIA – bensì più genericamente giornalisti, politici e quant’altro.

Edward Snowden: «Possiamo garantire una difesa da una vigilanza assurda se la comunità tecnologica sarà disposta a trovare soluzioni sovra-ingegnerizzate» Dal volume di Glenn Greenwald No Place to Hide (tr. it. Sotto controllo, Rizzoli 2014) ricavo l’informazione che riguarda Laura Poitras. Specializzata in documentari giornalistici, aveva realizzato servizi nelle circostanze più rischiose senza il supporto di una troupe o la tutela di giornali o reti televisive, contando solo su un budget modesto, una videocamera e la sua forza di volontà. Si era avventurata, per esempio, nel Triangolo sunnita nei giorni più violenti della guerra in Iraq per girare My Country, My Country, un docufilm molto crudo sulle condizioni di vita degli iracheni sotto l’occupazione statunitense. Un paio d’anni più tardi aveva iniziato a lavorare a un documentario sui sistemi di sorveglianza della NSA. È logico che whistleblower e giornalisti dovessero ricorrere alle stesse armi che la tecnologia mette a disposizione per proteggere le informazioni raccolte.

Della necessità di usare la crittografia, Laura Poitras e Glenn Greenwald erano

Laura Poitras, a Berlino nel 2015, in occasione della premiazione del suo documentario Citizenfour. (Keystone)

stati resi attenti da Edward Snowden: «Possiamo garantire a tutte le persone un’uguale difesa da una vigilanza assurda […] solo se la comunità tecnologica sarà disposta ad affrontare la minaccia e a impegnarsi per attuale soluzioni sovra-ingegnerizzate». Il caso recente dei «Panama Papers» conferma che i giornalisti dispongono di strumenti efficaci per proteggere i propri dati, di cui anche i servizi segreti possono avere difficoltà a trovare la chiave. Philip di Salvo, ricercatore all’Osservatorio Europeo di Giornalismo dell’USI, ne ha illustrato i dettagli agli intervenuti a una serata organizzata a Lugano dall’Associazione Ticinese dei Giornalisti: nel caso specifico sono consistiti nell’impiego di una best practice – «irrinunciabile in tempi di sorveglianza digitale pervasiva» – che ha stivato la bellezza di 11,5 milioni di file per un totale complessivo di 2,6 terabyte. Tanto grande il territorio da esplorare che la «Süddeutsche Zeitung» (il giornale che tiene i contatti con la fonte interna allo studio legale Mossack-Fonseca) decise di coinvolgere l’International Consortium of Investigative Journalism – della cui esistenza i lettori di «Azione» hanno avuto notizia

con i miei articoli del 2014 sul giornalismo d’inchiesta.

In un anno di lavoro, protetti dal crittogramma, confronti puntuali, nazione per nazione, hanno occupato 400 giornalisti appartenenti a cento testate di 80 Paesi diversi. In Italia vi ha lavorato «L’Espresso», in Svizzera «Le Matin dimanche» e la «Sonntagszeitung». «Questo approccio» – dice Philip di Salvo – «ha fatto segnare alcuni tra i maggiori risultati investigativi recenti. Ed è inevitabile che il futuro vada sempre più in questa direzione». «Le Monde» ha dedicato una pagina il 14 aprile a spiegare «la révolution du journalisme collaboratif».

Ma è ancora possibile gestire questi strumenti in modi e forme decenti e civili? Che la sorveglianza di massa sia diventata un problema lo dimostra un rapporto pubblicato lo scorso marzo dal Consiglio d’Europa (Surveillance de masse. Quel contrôle démocratique?) contenente una descrizione impressionante delle pratiche correnti.

In ballo è la violazione di diritti umani fondamentali. Il rapporto sostiene che gli Stati non dovrebbero sottrarsi alle regole ma rispettare un codice di comportamento tradotto in una legge

approvata dai parlamenti, la cui applicazione sia sorvegliata.

Esiste tuttavia un problema a monte, che pure dovrebbe condurre a una normativa legale: consiste nella protezione della fonte, da intendere non solo come garanzia della libertà d’informazione ma come offerta di sicurezza e legittimazione legali agli autentici whistleblower. Finora, per dirla banalmente, chi ci mette la faccia rimane con il cerino in mano. Edward Snowden non può tornare in America senza rischiare l’imprigionamento, Julian Assange ha dovuto accettare la clausura di un’ambasciata «amica». In Lussemburgo sono state richieste pene detentive a carico dei denunciatori delle scappatoie con cui le grandi aziende sfuggono al fisco dei loro Paesi di sede. In Svizzera, l’impiegato di banca che rivelò le operazioni disinvolte dell’ex presidente della Banca Nazionale è stato condannato penalmente, dopo aver perso l’impiego. Un rapporto dell’Alta Scuola di Commercio di Coira (Whistleblower und Medien in der Schweiz – Situationsanalyse und Empfehlungen für die Zukunft, HTW Chur Verlag, Chur 2016) constata che meno che mai nel nostro Paese i lanceurs d’alerte sono protetti e propone ragionevoli modifiche di legge, che tengano conto non solo del sacrosanto segreto degli affari ma anche dell’interesse pubblico.

Ai giornalisti che fanno il loro dovere non può mancare il sostegno dell’opinione pubblica. Che tale sostegno esista, anche se non può essere definito un moto oceanico, sembra provato dall’interesse che le sale cinematografiche mostrano mettendo in programma, oltre al classico Citizenfour girato da Laura Poitras sul «caso Snowden», i più recenti Spotlight sul caso dei preti pedofili di Boston (premiato con l’Oscar) e Truth sulle rivelazioni di Mary Maples e Dan Rather circa il giovane Bush. Ma su questo punto il discorso dev’essere ripreso da un altro punto di vista, perché della funzione del giornalista è necessario che non si faccia un mito.

L’AVS e la necessità di un suo risanamento Assicurazione vecchiaia Ipotizzabile un aumento dell’età di pensionamento che alcuni parametri giustificano,

come pure l’uso dell’indice misto per indurre una diminuzione delle rendite Ignazio Bonoli Dopo che la Commissione degli affari sociali ha accolto l’idea di un freno alla spesa anche per l’AVS, le discussioni sul futuro delle assicurazioni vecchiaia in Svizzera hanno ripreso vigore. Tra l’altro, l’eventualità di un aumento dell’età di pensionamento a 67 anni (invece degli attuali 65) è tornata alla ribalta. La cosa non piace però al ministro della socialità Alain Berset, che vedrebbe compromesso il suo piano per il risanamento delle

assicurazioni vecchiaia entro il 2020 (vedi «Azione» del 4.4.2016).

D’altro canto il bilancio dell’AVS 2015 non manca di sollevare qualche preoccupazione, dal momento che le riserve del Fondo AVS (per legge un anno di rendite da pagare) è ormai vicino a questo limite. Ma, secondo Berset, l’aumento dell’età di pensionamento non potrebbe oggi essere sopportato dal mercato. Opinione non condivisa dagli ambienti economici, per i quali l’aumento dell’età di pensionamento non farebbe

A quale età andranno in pensione le future generazioni?

(Keystone)

che compensare l’aumento della speranza di vita della popolazione. Del resto, si fa anche notare che il mercato ha sempre più bisogno di persone con esperienza e le restrizioni che si vanno chiedendo all’ingresso di lavoratori stranieri potrebbe creare lacune importanti proprio sul mercato del lavoro.

Da un paio d’anni, la stessa OCSE va ripetendo che 67 anni è ormai diventata l’età di riferimento per il pensionamento dei lavoratori. In Svizzera però il problema è più complesso, poiché una simile modifica necessita della maggioranza dei votanti in votazione popolare. L’esperienza insegna che questo voto è sempre molto delicato, da un lato perché la popolazione invecchia e non vuole rinunciare al pensionamento a 65 anni, dall’altro perché l’idea che questo pensionamento peserebbe poi sui giovani e i non ancora nati è ben recepita.

D’altro canto, non si può sottacere il problema che per certi tipi di lavoro o per certe persone il pensionamento a 65 anni comporta già alcune difficoltà. Non per nulla si va anche chiedendo un pensionamento anticipato senza diminuzione delle rendite. Berset sembra però condividere l’idea secondo cui la quantità di

lavoro è fissa e quindi un aumento di lavoratori provocherebbe disoccupazione.

Tesi però smentita sia dalla teoria, sia dalla pratica. In teoria se la quantità di lavoratori aumenta, aumentano anche la produzione e i redditi, quindi aumenta la domanda aggregata, che può creare posti di lavoro. In Svizzera poi il problema viene accentuato dalla forte necessità di importare mano d’opera dall’estero. In pratica, l’esperienza insegna che Paesi con debole occupazione di lavoratori anziani, generalmente non hanno un basso tasso di disoccupazione. È piuttosto vero il contrario, come si può verificare in Paesi come la Francia e l’Italia, nei quali l’occupazione di persone oltre i 55 anni è bassa. La Svizzera ha – nel confronto internazionale – un tasso d’occupazione di anziani piuttosto alto, ma nel contempo un basso tasso di disoccupazione. Anche l’aiuto sociale a persone oltre i 55 anni è tradizionalmente sotto la media. La disoccupazione nelle classi d’età da 55 anni a 64 anni, nel 2015, era del 3,9%, mentre la media nazionale era del 4,5%. Corregge un po’ questa tendenza il fatto che i disoccupati anziani lo sono più a lungo dei giovani. Anche alcune ricerche dimostrano che le persone con oltre 55 anni

non sono meno produttive dei quarantenni. Accanto ad alcuni svantaggi, godono però del vantaggio dell’esperienza.

Infine, si constata che aumentando l’età normale di pensionamento, anche quella effettiva media aumenta. Il contrario si verifica in Paesi con bassa età di pensionamento normale.

Ovviamente l’aumento dell’età di pensionamento è una delle misure per garantire in futuro un’AVS efficiente.

Senza misure drastiche sarà molto difficile risolvere il problema creato dall’aumento della speranza di vita. Un recente studio della Banca Migros («Azione» del 16.5.2016), sulla base della situazione attuale, dice che l’anno prossimo – per la prima volta – le rendite AVS potrebbero diminuire. Non tanto per le difficoltà finanziarie, quanto per l’uso dell’indice misto (prezzi/salari) per il calcolo delle rendite. La causa principale è la bassa inflazione, inferiore alle attese. Le rendite versate sono state quindi superiori a quelle dovute all’indice misto. Il Consiglio federale le ridurrà il prossimo anno per il biennio? Anche questa è una decisione politicamente molto delicata, ma sottolinea ancora una volta la necessità di una revisione a fondo del sistema.

Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 30 maggio 2016 ¶ N. 22

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Politica e Economia

Una vacca da non più mungere Votazioni federali 5 giugno TCS, ACS e importatori d’auto chiedono che l’intero ammontare dei dazi sui

carburanti vada a favore della rete stradale, Consiglio federale e maggioranza parlamentare si oppongono

Alessandro Carli Ridare agli automobilisti quello che loro spetta. Questo, in sostanza, ciò che chiede l’iniziativa popolare «Per un equo finanziamento dei trasporti», detta anche «vacca da mungere», in votazione il 5 giugno prossimo. Consiglio federale e maggioranza parlamentare respingono l’iniziativa promossa dagli importatori di auto, dal TCS e dall’ACS, poiché la stessa, chiedendo il versamento alle infrastrutture stradali della totalità del gettito dell’imposta sugli oli minerali riscossa sui carburanti, priverebbe le casse federali di 1,5 miliardi di franchi annui. Un buco – sottolinea il Governo – che dovrebbe essere controbilanciato da un aumento delle imposte o da un drastico programma di risparmio. Un ritornello già sentito, come in occasione della proposta di aumentare il prezzo del contrassegno autostradale.

Per il momento – almeno stando al primo sondaggio – gli Svizzeri, dopo aver detto sì alla costruzione di una seconda galleria stradale al San Gottardo, sembrano «tiepidi» nei confronti di questa proposta: solo il 42% l’approva, il 47% la respinge, con un 11% di indecisi.

Le differenze in questo sondaggio sono più marcate tra le famiglie che posseggono una o più automobili, favorevoli all’iniziativa, e quelle senza veicoli.

Il divario in Ticino è ancora più netto: 29% di favorevoli, 48% di contrari e 23% di indecisi. Dato che i veicoli consumano sempre meno carburante, in ossequio a opportune disposizioni di legge a tutela dell’ambiente, diminuisce anche il gettito fiscale. Per compiti stradali vi sono dunque meno soldi a disposizione.

L’iniziativa in questione chiede quindi di attribuire alle infrastrutture stradali la totalità dei proventi dell’imposta sugli oli minerali (eccetto i carburanti per l’aviazione), ossia circa 3 miliardi di franchi. Attualmente, la metà di questo importo finisce nella cassa generale della Confederazione.

L’altra metà, dal 1983 a destinazione vincolata per la strada, unitamente

al supplemento fiscale sugli oli minerali (sovrapprezzo sui carburanti) e al contrassegno autostradale, ha permesso di mettere a disposizione nel 2014 per i compiti connessi con la circolazione stradale 3,7 miliardi di franchi. Se l’iniziativa dovesse essere accolta si salirebbe a 5,2 miliardi.

Il progetto vuole porre fine, una volta per tutte, alla «disparità di trattamento» nel finanziamento delle infrastrutture. I fautori dell’iniziativa denunciano il «dirottamento dei fondi riuniti dagli utenti della strada per altri scopi, segnatamente per il finanziamento dei progetti ferroviari». Secondo loro, gli utenti stradali pagano 9 miliardi di franchi tra imposte su oli minerali e autoveicoli, contrassegno autostradale, IVA e tassa sul traffico pesante, di cui solo il 30% viene impiegato per la manutenzione e costruzione di strade; il resto finisce nelle casse federali.

Gli automobilisti pagano sempre di più, ma restano bloccati nelle colonne. Dal 2008, le ore di coda sono raddoppiate. Eliminando le strozzature, si riducono gli «enormi costi» che queste colonne causano all’economia, tenendo presente che oltre il 75% delle persone e più del 60% delle merci sono trasportati su strada. Con 1,5 miliardi di franchi supplementari si potrebbero potenziare queste vie di collegamento e accrescere la sicurezza stradale per tutti, evitando di foraggiare a oltranza le infrastrutture ferroviarie. Visto che oltre il 60% del prezzo della benzina è costituito da tasse – sottolineano ancora i fautori – con questa iniziativa si dà la possibilità agli utenti della strada di dire dove investire i loro soldi.

Il testo in votazione è sostenuto dall’UDC e da rappresentanti di tutti i partiti borghesi, sebbene PPD e PLR siano divisi in materia. Vari parlamentari di queste due formazioni figurano nei ranghi del comitato d’iniziativa, tra cui la presidente del PLR svizzero, consigliera nazionale Petra Gössi (SZ).

Pur ammettendo che negli ultimi 25 anni il numero dei veicoli è aumen-

Lo svincolo di Lugano-Nord, in un momento con scarso traffico: in realtà, in Svizzera dal 2008 le ore di coda sono raddoppiate.

(Keystone)

tato del 56%, sovraccaricando le strade e bloccando il traffico, il Consiglio federale non condivide le rivendicazioni dell’iniziativa, definita eccessiva e dannosa per il sistema attuale. Inoltre, essa graverebbe le finanze federali. Secondo il ministro delle finanze Ueli Maurer, il testo «non è applicabile senza provocare danni collaterali». In caso di accettazione dell’iniziativa, verrebbero a mancare 700 milioni già nel 2016 e il doppio l’anno prossimo. In particolare, 400 milioni per la formazione, 300 per l’esercito e 200 per l’agricoltura. Maurer ricorda che l’imposta sugli oli minerali non è mai stata prevista per finanziare unicamente la strada.

Attualmente, le Camere mirano a una soluzione più moderata: un Fondo per le strade nazionali e il traffico d’agglomerato (FOSTRA), destinato a finanziare la manutenzione, la gestione e l’estensione della rete stradale, compresi i contributi per i trasporti

Per la ministra di giustizia e polizia Simonetta Sommaruga procedure più rapide stanno alla base di una politica credibile e umana: le persone minacciate potranno ottenere protezione in Svizzera e integrarsi più in fretta. Le altre ripartiranno prima. Per garantire l’equità di un trattamento accelerato, i richiedenti avranno diritto a una consulenza e rappresentanza giuridica gratuite.

Proprio questi «avvocati gratuiti» sono particolarmente indigesti all’UDC. Tutti i sedicenti richiedenti l’asilo – afferma – sono messi meglio di qualsiasi cittadino svizzero.

Nell’interesse degli avvocati – sottolineano – vi sarà un’esplosione di ricorsi, «ciò che si tradurrà in costi ancora più alti nel settore dell’asilo».

Altro aspetto contestato: la semplificazione delle lunghe e complesse procedure di approvazione per l’edificazione di nuovi centri d’asilo della Confederazione. Per l’UDC,

mere dopo il 5 giugno? Essi sostengono che proprio un’accettazione dell’iniziativa salverà il FOSTRA, evitando il ventilato aumento del prezzo della benzina.

Secondo un’alleanza d’opposizione di deputati appartenenti a sei gruppi parlamentari (PS, PLR, PPD, Verdi, PBD ed Evangelici), l’iniziativa distruggerebbe invece il FOSTRA, che costituisce una soluzione migliore (nonostante l’incognita che grava sul suo iter parlamentare) per un finanziamento duraturo della rete viaria nazionale. Per la citata alleanza, il titolo dell’iniziativa è ingannevole. Infatti, la tassa sugli oli minerali è invariata da 20 anni ed è quindi errato sostenere che gli automobilisti siano una «vacca da mungere». Inoltre, gli automobilisti non partecipano ai costi esterni della strada, pari a 6,5 miliardi di franchi all’anno. Come si vede, gli argomenti pro e contro sui due piatti della bilancia non mancano.

Ancora dubbi sulla diagnosi preimpianto

Asilo: ennesima revisione contestata La legge sull’asilo è oggetto di continue revisioni. Le misure urgenti dell’ultima riforma sono state approvate nel 2013 dal 78% dei votanti.

Hanno in particolare sancito la fine della diserzione quale motivo d’asilo e della possibilità di deporre la domanda in un’ambasciata. La revisione in votazione il 5 giugno è intesa soprattutto a velocizzare le procedure, per ridurre i costi ed evitare di lasciare per anni i richiedenti l’asilo nell’incertezza. Sebbene quest’obiettivo non sia contestato, l’UDC ha lanciato il referendum, criticando in particolare la protezione giuridica gratuita per i richiedenti e l’autorizzazione semplificata per l’insediamento di nuovi centri d’asilo.

Stando ai sondaggi, il referendum non avrebbe il vento in poppa, tanto che la riforma supererebbe lo scoglio popolare con il 59% dei consensi. L’idea centrale della revisione è di riunire tutti gli attori dell’asilo in una manciata di centri federali nell’intento di svolgere le procedure più rapidamente. In questi centri, l’obiettivo è di risolvere i casi che non necessitano di particolari chiarimenti (60%) entro 100 giorni e quelli concernenti le persone che hanno già depositato una richiesta in un altro Stato della convenzione di Dublino entro 140 giorni, rinvio compreso.

negli agglomerati. Esso è parallelo al Fondo per il finanziamento e ampliamento dell’infrastruttura ferroviaria (FAIF). Il Governo ricorda che il fatto di impiegare «esclusivamente» il gettito dell’imposta sugli oli minerali per compiti stradali è in contraddizione con il FAIF: nel 2014, popolo e cantoni decisero infatti che, per un periodo transitorio, ogni anno 310 milioni sono destinati a questo fondo.

La versione FOSTRA del Consiglio degli Stati prevede che il 55% dell’imposta sugli oli minerali sia versata alla strada. La commissione dei trasporti del Nazionale ha proposto il 60%. Tuttavia, dato che la sua maggioranza ha bocciato nel voto finale la legge sul FOSTRA, l’intero progetto viene rimesso in questione. Una situazione inaccettabile per i fautori dell’iniziativa, anche perché «il FOSTRA non si presenta attualmente come un complemento paritario al FAIF». Poi, che cosa decideranno le Ca-

quest’ultima potrà espropriare terreni ed edifici a comuni e privati (art.

95b), calpestando i diritti alla proprietà dei cittadini e l’autonomia di comuni e cantoni. Simonetta Sommaruga precisa al riguardo che questa possibilità sarà utilizzata solo in ultima ratio. A ogni modo la legge la prevede.

Con la riforma la Confederazione dovrebbe risparmiare 110 milioni di franchi all’anno e i cantoni 92. La revisione annovera anche inasprimenti «sottaciuti»: la Confederazione potrebbe sanzionare finanziariamente i cantoni che non eseguono i rinvii sistematicamente. La domanda dei richiedenti che non cooperano sarà archiviata più velocemente, mentre coloro che minacciano la sicurezza saranno sistemati in centri specifici.

Ciononostante, i fautori del referendum sostengono che con la riforma ancora più persone potranno rimanere in Svizzera e che la revisione non apporta alcun miglioramento nella lotta agli abusi. Vero è che per il cittadino non è facile districarsi nella trentina di pagine della revisione contenute nell’opuscolo esplicativo del Consiglio federale. In particolare, è difficile appurare se effettivamente la Svizzera sarà meno attrattiva per i migranti illegali e sempre ospitale per i veri rifugiati. (A.C.)

Il popolo svizzero sarà nuovamente chiamato a pronunciarsi il 5 giugno prossimo sulla diagnosi preimpianto (DPI). La relativa modifica costituzionale che l’autorizza è stata accolta il 14 giugno 2015 dal 61,9% dei votanti.

Ora occorre pronunciarsi sulla legge d’applicazione e sapere fino a che punto sarà possibile svolgere esami su embrioni concepiti in vitro, prima del loro impianto nell’utero. Per il Partito evangelico, gli ambienti cristiani e le organizzazioni di invalidi, il progetto adottato dal Parlamento apre le porte alla selezione. Hanno dunque lanciato il referendum.

La Legge federale concernente la procreazione con assistenza medica (LPAM) vieta tuttora in Svizzera la DPI, una tecnica utilizzata da 20 anni all’estero. Togliendo il divieto, si vuole evitare alle donne di dover ricorrere all’aborto e il turismo della DPI. In caso d’approvazione, potranno ricorrere alla DPI soltanto le coppie portatrici di gravi malattie ereditarie o quelle che non possono avere figli in modo naturale. Per ciascun ciclo di trattamento possono essere sviluppati 12 embrioni (3 secondo la normativa in vigore e 8 nella proposta del Consiglio federale): quelli non utilizzati possono essere congelati in vista di un eventuale ulteriore trattamento. Contestata anche l’estensione della DPI a 6000

coppie, contro le 50-100 previste dal governo.

L’opposizione si cristallizza sulla possibilità di svolgere test cromosomici, una possibilità che il Consiglio federale aveva inizialmente esclusa. I fautori del referendum temono che con la possibilità di depistare la trisomia 21 (sindrome di Down) si corra il rischio di sconfinare nell’eugenismo. I sostenitori della legge ricordano al riguardo che sono stati posti numerosi paletti. È per esempio vietata la selezione degli embrioni in base al sesso o ad altre caratteristiche fisiche come il colore degli occhi. Altri difensori della legge ritengono assurda e inumana una sua bocciatura: «perché autorizzare test genetici sui feti e vietarli sugli embrioni?».

Chi – replicano i fautori del referendum – ha il diritto di dire: «se non sei un embrione di prima qualità, non ti è consentito di vivere»? Le associazioni di disabili temono una crescente pressione sui genitori chiamati a dover scegliere tra embrioni «degni di vivere» e quelli che non lo sono. Timore non condiviso dai fautori del progetto, tra cui il consigliere federale Alain Berset, «costretto» a superare le proprie reticenze e a difendere la versione parlamentare della revisione legislativa. Per lui, la modifica della LPAM costituisce un’estensione «modesta» e «accettabile». La decisione spetta ora al cittadino. (A.C.)

Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 30 maggio 2016 ¶ N. 22

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Politica e Economia

Il mito del miracolo economico cinese La consulenza della Banca Migros

Albert Steck

120 % 100 % 80 %

Q Svizzera Schweiz Q Gran Grossbritannien Bretagna Q Taiwan Ex-Sowjetunion Unione Sovietica Q Cina China

60 % 40 % 20 %

5 201

5

0 200 5 201 0

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0 199

5 198

0 198

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0 196 5 197 0

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0 194 5 195 0

5

194

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0 193

5 192

192

0

0%

5

Albert Steck è responsabile delle analisi di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros

L’economia cinese funziona un po’ come una bicicletta. Per rimanere in equilibrio ha bisogno della forza della velocità di corsa, ossia della crescita economica. Ma se il ritmo di crescita scende sotto la soglia critica, l’economia rischia di rovesciarsi, come la bicicletta.

Questa instabilità differenzia la Cina da un’economia matura come quella svizzera, in grado di superare senza problema una provvisoria situazione di stallo. In Cina, invece, una fase di ristagno provocherebbe ben presto forti disordini sociali. Il Partito comunista cerca di contrastare questo rischio con il suo obiettivo di crescita senz’altro ambizioso. Secondo il piano quinquennale, dal 2016 al 2020 la Cina dovrebbe crescere almeno del 6,5 percento – l’anno.

Il dato appare strepitoso rispetto alle debole congiuntura occidentale, ma la realtà e meno rosea delle apparenze.

Il grafico illustra l’evoluzione della ricchezza della popolazione cinese negli ultimi cento anni rispetto alla Svizzera, cui corrisponde sempre un valore del 100 percento. Da qui emerge che con la ripresa degli ultimi decenni la Cina ha soprattutto recuperato il

La lunga marcia verso la ricchezza

191

Il boom dell’economia cinese desta meraviglia in Occidente. Ma l’apparenza inganna. Sinora il Paese ha unicamente corretto i gravi errori del suo passato comunista. E il futuro a più lungo termine appare poco incoraggiante.

Prodotto interno lordo (Pil) pro capite in rapporto alla Svizzera (il valore della Svizzera corrisponde al 100 percento). (Dati: Banca Migros / Maddison Project / OCSE)

disastro compiuto nei decenni di dittatura di Mao Zedong conclusasi con la sua morte nel 1976. Colpisce anche l’andamento sempre più divergente tra Taiwan e la terraferma comunista a partire dagli anni 50.

Il fatto che il governo prema (o debba premere) così tanto sull’acceleratore della crescita è un segnale di un’economia già pericolosamente in bilico.

La metà del prodotto interno lordo cinese è costituita dagli investimenti, la cui quota raggiunge soltanto un quarto in Svizzera. Questa bolla degli investimenti genera un enorme eccesso di capacità, ad esempio nella produzione dell’acciaio o nelle costruzioni navali.

I motori di questa crescita malsana sono le 150’000 aziende statali della

Cina, delle quali 30’000 sono considerate «società zombie», tenute artificialmente in vita. Invece di correggere questi squilibri, il governo comunista ha un’altra strategia: premere ancora di più sull’acceleratore e non frenare in alcun caso.

Attualità su blog.bancamigros.ch: maggiori informazioni e grafici sull’andamento in Cina.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 30 maggio 2016 ¶ N. 22

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Un enigma che resta da spiegare L’abbandono del cambio minimo del franco con l’euro, a metà gennaio del 2015, ha generato una serie di conseguenze importanti per l’economia.

In generale si tratta di conseguenze negative. Per quel che riguarda l’economia ticinese ve ne è però una estremamente positiva: il tasso di disoccupazione del Cantone Ticino si è, nel corso degli ultimi 16 mesi allineato con quello medio svizzero. Da quando esiste la statistica sulla disoccupazione, o quasi, il tasso di disoccupazione ticinese è sempre stato superiore al tasso di disoccupazione nazionale di almeno otto decimi di punto nei mesi estivi e di 1.2 punti percentuali nei mesi invernali. Queste differenze ci sono da quando esiste la statistica sulla disoccupazione, o quasi. Ma a partire dal marzo del 2015 ecco che lo scarto tra i due tassi comincia a diminuire. A luglio dell’anno scorso la differenza non era più che di due

decimi di punto. I media locali avevano rilevato questa insolita tendenza.

Il «Corriere del Ticino», alla ricerca di spiegazioni per il singolare fenomeno, aveva intervistato un ricercatore dell’IRE il quale aveva avanzato due ipotesi. Stando alla prima, l’economia ticinese risentiva con ritardo gli effetti negativi dell’abbandono del cambio minimo. La seconda ipotesi era invece che i datori di lavoro, costretti a licenziare, cercavano di proteggere la manodopera residente. Questa ipotesi può essere scartata subito. Se i datori di lavoro avessero cominciato a praticare una politica di licenziamenti discriminante, il peso della crisi l’avrebbero dovuto sopportare i frontalieri. Di fatto il contingente di frontalieri non è cresciuto lo scorso allo stesso ritmo degli anni precedenti. Ma è difficile pensare che il rallentamento nella crescita di questo contingente sia dovuto ad un impen-

nata nel tasso di disoccupazione dei frontalieri. È probabile invece che i datori di lavoro, visto come si evolvevano i mercati, siano diventati più prudenti nelle assunzioni in generale e nelle assunzioni di frontalieri in particolare. L’altra ipotesi, e cioè che il ciclo congiunturale in Ticino sia in ritardo rispetto a quello della Svizzera, mi sembra più degna di attenzione. Di fatto l’abbandono del tasso minimo di cambio con l’euro ha determinato un peggioramento della posizione concorrenziale delle aziende esportatrici svizzere i cui costi di produzione, rispetto al mercato mondiale, sono aumentati, in un colpo di più del 10%.

Nei mesi successivi alla decisione della Banca nazionale queste aziende hanno cercato misure per tentare di ritrovare la loro concorrenzialità.

Hanno aumentato le ore di lavoro senza compensare i salari, hanno fatto ricorso alla disoccupazione

parziale, hanno cercato di esportare funzioni produttive verso regioni con salari più bassi, in Svizzera e all’estero. È possibile che aziende ticinesi abbiano potuto profittare di questa situazione assumendo commissioni per aziende di oltre S. Gottardo. Si tratta di un fenomeno che resta da dimostrare e che, purtroppo, non ha che carattere temporaneo. Il vero enigma del mercato del lavoro ticinese è però che la diminuzione dello scarto nel tasso di disoccupazione con la media svizzera dura oramai da quasi un anno e mezzo. In effetti, dopo che nei mesi invernali lo scarto era di nuovo aumentato, ma non nella misura degli anni precedenti il 2015, con il ritorno della primavera si è di nuovo palesata la tendenza alla diminuzione dello scorso anno. In aprile, la differenza tra i due tassi di disoccupazione non era più che di un decimo di punto.

Sembra difficile quindi attribuire que-

sta evoluzione a un semplice ritardo nel ciclo congiunturale. In attesa di altre spiegazioni potrebbe valere anche la seguente ipotesi, la cui portata pure andrebbe verificata: la minore ripercussione sulla disoccupazione dell’abbandono del cambio minimo con l’euro potrebbe essere dovuta alla diversa struttura per rami dell’occupazione ticinese, in particolare alla maggiore importanza che hanno nel mercato del lavoro ticinese rami che lavorano solo per il mercato interno come l’edilizia, le amministrazioni pubbliche, l’educazione e il Parastato.

Chiudiamo osservando come il fatto che, per il momento non esista ancora una spiegazione soddisfacente per il fenomeno, non deve comunque impedirci di rallegrarci per il riavvicinamento del tasso di disoccupazione ticinese ai valori medi nazionali.

Speriamo che lo stesso duri a lungo nel tempo.

pensare che la minaccia sia imminente: è fiction, certo, ma alcuni dettagli contano anche quando si raccontano delle storie.

Tra le misure adottate dalla Nato per contenere l’instabilità sul suo fronte est, considerato il più pericoloso, c’è una forza speciale rapida che dovrebbe contare almeno quattromila soldati. Gli americani avevano annunciato qualche mese fa che avrebbero contribuito a questo miniesercito a intervento rapido – l’obiettivo è la deterrenza – con circa duemila uomini, ma hanno appena fatto sapere che il loro contributo sarà di soltanto mille soldati. Secondo i funzionari statunitensi si tratta non di una mancanza di volontà di intervento, ma di uno sprone nei confronti degli alleati europei: dovete contribuire di più a difendere voi stessi. Il ruolo dell’Europa dentro all’Alleanza non gode di grande fama in America: il presidente Barack Obama ha accusato alcuni

Paesi europei di essere freerider, di voler cioè approfittare della presenza americana per spendere ed esporsi di meno. Il candidato repubblicano, Donald Trump, è stato come è sua natura ancora più diretto: la Nato è «obsoleta», ha detto, «molti Paesi non stanno pagando una quota equa» nel mantenimento dell’Alleanza atlantica. Ecco che allora gli Stati Uniti hanno iniziato la loro opera di responsabilizzazione dell’Europa, riducendo il proprio apporto alla forza prevista per il fronte est.

La decisione è stata accolta con una buona dose di preoccupazione. Gli europei sanno di doversi assumere le proprie responsabilità di autodifesa, ma allo stesso tempo fanno fatica a trovare fondi e consenso per rendersi indipendenti. C’è anche una ragione politica più specifica nei confronti del fronte est: molti Paesi non considerano alta la minaccia russa, e quindi non sono disposti a investire su una

forza che potrebbe rivelarsi inutilmente aggressiva. Questa motivazione ha molto a che fare con l’identità stessa dell’Alleanza atlantica, che dalla caduta del Muro in poi ha dovuto rivedere, crisi dopo crisi, il suo ruolo e i suoi obiettivi. Per questo molti si interrogano sul futuro della Nato: serve ancora? E se sì, per cosa? La risposta unanime – nonostante gli sberleffi che arrivano di continuo dalla Russia – è che la Nato è indispensabile, ma su tutto il resto il dibattito è aperto.

Per quanto riguarda la forza a est, i tedeschi e gli inglesi hanno già dichiarato che contribuiranno con un loro battaglione, ma mancano ancora all’appello almeno mille uomini. Gli Stati Uniti stanno facendo pressioni soprattutto su Norvegia e Danimarca in sostegno ai Paesi baltici e la risposta è stata: va bene, ma non subito.

Qual è il piano B allo studio in questo momento? Coinvolgere il Canada, cioè un altro Paese non europeo.

pero tener distinti la propaganda del regime dalle plurisecolari acquisizioni della cultura italiana, condannando la dittatura e aiutando i dissidenti costretti al silenzio o all’esilio. Vi furono certamente ambiguità, cedimenti, compromessi, ma in complesso un

intimo antifascismo non abbandonò mai la maggioranza della popolazione ticinese. Anche nel secondo dopoguerra, negli anni 60 e 70, seppe opporsi alle sirene xenofobe di James Schwarzenbach.

Oggi tutto questo sembra preistoria.

La fine della guerra fredda, questa cortina che permetteva di coltivare un’immagine del nemico precisa, ha scombinato le coordinate di riferimento. L’idea di ritrovarsi in uno spazio aperto, sconfinato, privo di frangiflutti, ha gettato il cantone in uno stato d’ansia permanente. Di fronte ai nuovi pericoli, anonimi e indistinti, la reazione è stata una raffica di no ad ogni iniziativa che prefigurasse un’apertura filoeuropea, fosse solo uno spiraglio.

Purtroppo – e qui è il punto che ci interessa – questo antieuropeismo di principio ha trascinato con sé anche il lume della ragione. Gli intellettuali tacciano, spaventati; i politici cavalcano l’onda, felici di poter incamerare con poco sforzo qualche consenso.

Quel che rimane sul campo è una «terra di mezzo» caduta in un vortice privo di appigli, ignara del passato e scontenta del presente. L’italianità è stata spodestata dall’identità, concetto vago e indefinito, che spesso si rivela vuoto perché sganciato dal patrimonio accumulato nei secoli.

Purtroppo – e questo va allegato all’atto di accusa come attenuante – dal Sud, dalla madre nutrice non giungono più quegli stimoli e quel sostegno che in passato permettevano al cantone di farsi valere come «terza Svizzera» nel consesso federale. Anche sul versante della tutela della lingua, i segnali che giungono dalla vicina Repubblica sono poco incoraggianti, per non dire sconfortanti.

Se questa è la situazione, si dirà, c’è poco da fare. E invece no, occorre reagire, combattere le piccinerie e le grettezze d’animo, mantenere il sangue freddo, ricordarsi che in passato questo «popolo limitaneo» ha saputo superare ostacoli che, sulle prime, sembravano invalicabili.

Affari Esteri di Paola Peduzzi Nato in cerca d’identità Richard Shirreff è un ex generale britannico che è stato per alcuni anni a capo del quartier generale della Nato in Europa, l’europeo più alto in grado tra gli strateghi dell’Alleanza. Shirreff ha appena scritto un libro che è un romanzo, quindi è fiction, ma che secondo lui prefigura uno scenario non così remoto. Il titolo è 2017, War with Russia, ed è chiaro di che cosa parla. Il ritorno della Guerra fredda è sulla bocca di tutti da tempo, da quando la Russia ha annesso la Crimea violando la sovranità territoriale dell’Ucraina e ha poi guidato, mai in modo esplicito, l’offensiva contro Kiev nella regione del Donbass. Da allora è cominciata una politica di isolamento della Russia, culminata con le sanzioni da parte dell’Europa che a luglio dovranno essere rinnovate se c’è il consenso da parte dei Paesi membri dell’Ue. Nel tempo la rigidità nei confronti di Mosca è andata sfumandosi e a oggi è più forte il coro

di chi si augura una riapertura dei rapporti con la Russia – soprattutto per la gestione della crisi siriana – di chi continua a vedere nella strategia di Vladimir Putin un obiettivo di espansionismo inconciliabile con le regole occidentali. La Nato, che a luglio terrà uno dei suoi vertici di revisione strategica che solitamente coincidono con una crisi d’identità fortissima (non a caso molti esperti mettono quel vertice in fila dopo tutti gli eventi che dall’inizio di giugno rischiano di sovvertire l’ordine costituito in Europa: il referendum inglese in particolare), è da sempre una delle più forti sostenitrici di una politica dura nei confronti della Russia.

Nessuno, a parte l’Amministrazione Obama nei momenti più difficili della crisi ucraina, ha usato toni tanto determinati contro la politica espansionistica di Putin. Il romanzo di Shirreff si colloca in questa visione, ma l’anno – il 2017, cioè domani – fa

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Il Ticino e la ragione perduta Archiviate le tornate elettorali, è ora tempo che il canton Ticino ritrovi lucidità e discernimento. Contingenze esterne – in primis la libera circolazione delle persone e la pressione del mercato del lavoro lombardo – l’hanno infatti sospinto in una landa nebbiosa in cui ogni ombra lo fa sussultare.

L’ultimo caso riguarda la nomina della nuova direttrice del Liceo 1, la prof. Valeria Doratiotto Prinsi, il cui cognome tradirebbe un’evidente origine italiana. Verrebbe da dire: povera italianità, antica bandiera, continuamente sventolata per ottenere sussidi dalla Confederazione, e ora svilita e piegata al calcolo politico. Ma questo è lo «spirito del tempo» che circola oggi spavaldamente per monti e valli senza incontrare resistenza: uno spirito alimentato dal sospetto e da velenose insinuazioni.

L’atteggiamento anti-italiano di molti ticinesi non è un fenomeno recente, e non ci riferiamo soltanto alle rivalità sportive, al godimento che suscita ogni sconfitta della squadra di calcio

azzurra. È possibile infatti rintracciarne i segni sin dalla proclamazione del Regno d’Italia. Già dopo il 1861 il solco politico-istituzionale e giuridico tra la piccola repubblica cisalpina e la grande monarchia peninsulare si era fatto profondo e per certi versi incolmabile. Tale divaricazione tuttavia non recideva i legami linguistici, culturali e religiosi: l’Italia rimaneva la «gran madre» da cui il cantone traeva la necessaria linfa per sopravvivere nel grembo elvetico. Era il suo particolare vanto: rappresentare la tradizione latina-mediterranea, dalla lingua alla musica, dall’arte all’architettura, nella famiglia allargata nazionale: un popolo non bellicoso ma creativo, capace di illustrarsi anche a Venezia e Roma, e poi in Francia, in Polonia, nella Russia degli zar. Insomma, questa gente dei laghi ci sapeva fare, viaggiava, edificava, abbelliva chiese e palazzi, dimostrando un’inventiva e una capacità di adattamento fuori del comune.

Anche durante il periodo cupo del fascismo i ticinesi più illuminati sep-

Il linguista Carlo Salvioni ha preso parte alla discussione sull’italianità del Ticino nei primi decenni del 900.

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Cultura e Spettacoli Cannes 2016, un bilancio Quest’anno, accanto al glamour anche la denuncia sociale, oltre a uno strepitoso, giovane Dolan

I ritmi di Ivano Torre Il musicista ticinese ci racconta la sua più recente doppia fatica, composta da un cd e da un libro

La balena di Giona A Lugano si ricorda la tormentata figura dell’artista ticinese Giona Bernardi

Letteratura raccontata James Wood è considerato universalmente uno dei migliori critici letterari in circolazione pagina 49

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Da Piero della Francesca a Balthus Mostre Un’intrigante esposizione ai musei

di San Domenico a Forlì Gianluigi Bellei Piero della Francesca. Indagine su un mito. Così recita il titolo della mostra ai Musei di San Domenico a Forlì. Parecchi mesi prima dell’apertura i quotidiani e i settimanali italiani ospitavano ampie inserzioni pubblicitarie e veri e propri dépliant. Stilizzato accanto al titolo un profilo che ricorda il lavoro di Piero. Forse la silhouette del ritratto che fece a Sigismondo Pandolfo Malatesta nel 1451. Una mostra irripetibile, così viene descritta dai comunicati stampa, a cura, tra gli altri, di Antonio Paolucci e Daniele Benati. Due rispettabilissimi studiosi del mondo dell’arte. Ricordiamo l’ottima esposizione da loro curata sempre a Forlì su Melozzo degli Ambrogi nel 2011 (vedi «Azione» del 16 maggio 2011); quella su Annibale Carracci al Museo civico archeologico di Bologna nel 2006 a cura di Daniele Benati ed Eugenio Riccomini («Azione», 14 novembre 2006); la curatela di Paolucci del Padiglione della Santa Sede alla 55esima Biennale di Venezia nel 2013 («Azione», 8 luglio 2013) e tante lodevoli iniziative analoghe. Due studiosi di alto livello che non perdono occasione per criticare, con petizioni internazionali e altro, le mostre fasulle e acchiappaturisti dei vari Vittorio Sgarbi e Marco Goldin. Prima della conferenza stampa i giornali nazionali hanno dedicato ampie paginate all’evento, descrivendo nei dettagli la vita e le opere di Piero.

Detto questo, diligentemente, partiamo per Forlì. Alla conferenza stampa un giornalista chiede quali siano le novità che la mostra offre su Piero. Paolucci risponde che non è questo l’obiettivo, ma sostanzialmente la riflessione dell’originalità critica e mitografica sull’artista. Insomma, su come Piero ha condizionato l’opera e lo stile degli artisti che gli sono succeduti fino ad oggi. Un confronto fra dipinti distanti 500 anni, da Laurana a Carrà. 250 lavori che hanno in sé dei riflessi, delle suggestioni e degli omaggi a Piero.

Fra tutte queste tele, quattro, dicasi quattro, sono di Piero. «Quelle che siamo riusciti a ottenere», ammettono sottovoce i curatori.

Appare subito chiaro che la serietà scientifica si scontra con l’abbindolamento e che le lotte intestine fra storici e critici non portano a nulla di buono.

Antonio Pinelli, a un convegno

di qualche anno fa, raccontava di una grande mostra su Canova a Bassano del Grappa nel 2003. Il suo giornale gli chiese un articolo al buio che uscì come apertura di un inserto un paio di giorni prima dell’inaugurazione. Alla prima della mostra – scrive Pinelli – «ebbi una delle più forti delusioni (con conseguente irritazione e frustrazione della mia carriera di recensore)». La maggior parte delle volte è così: chi ha più disponibilità finanziaria può permettersi di pagare inserti di due o tre pagine sugli eventi che sembrano redazionali perché sono scritti dai critici del giornale.

Anche questa volta è successo così, complici studiosi seri e di nomea internazionale come Paolucci che fa da garante. Altro che Da Tutankhamon a Van Gogh o magari Da Eva a Belen…

Il catalogo poi è quanto di più immaginifico si riesca a pensare. Sostanzialmente è diviso in due parti. Quella che riguarda gli artisti coevi o immediatamente successivi a Piero con ogni opera affiancata dalla relativa bibliografia, dalla spiegazione della sua storia e delle sue traversie e l’altra metà riguardante diciamo gli artisti dall’Ottocento ad oggi, con unicamente le didascalie.

Detto questo la mostra appare decisamente gradevole anche se ovviamente gli accostamenti a volte possono essere del tutto soggettivi soprattutto se ridotti a una sorta di impersonalità e assenza di emozione unite alla prospettiva, tipici di Piero.

Le opere di Piero in mostra sono la Madonna con il bambino, lavoro giovanile proveniente dalla Alana collection di Newark, San Gerolamo in preghiera con un donatore del 1458-60 delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, la Madonna della Misericordia del 144555 del Museo civico di Sansepolcro e Sant’Apollonia degli anni Sessanta del XV secolo della National Gallery di Washington. Accanto troviamo gli artisti che hanno dialogato con lui come Paolo Uccello, Giovanni Angelico e Domenico Veneziano. Da notare il parallelismo fra il retro della Madonna con il bambino contenente una tarsia prospettica e la Costruzione prospettica di un calice, disegno attribuito a Paolo Uccello e che alcuni come Parronchi sostengono essere dello stesso Piero: un disegno a penna e stilo di eccezionale virtuosismo. Intriganti, poi, le tarsie di Cristoforo Canozi da Lendinara il quale, secondo Longhi, ha usufruito dei cartoni

Piero della Francesca, Madonna della Misericordia, 1445-1462, olio su tavola. Museo Civico, Sansepolcro.

forniti da Piero «con diritto di riproduzione illimitata».

Dopo secoli di oblio – ricordiamo che Piero era visto come un primitivo e di lui si parlava unicamente come teorico della prospettiva – alla fine dell’Ottocento gli artisti lo riscoprono. Ma è Roberto Longhi nel 1927 che rilegge le sue opere come sintesi fra colore e spazio. Ed è sicuramente attraverso la lente longhiana che i curatori della mostra forlivese riscoprono i rapporti fra lui, Domenico Veneziano e Giovanni Bellini e nei secoli seguenti con il sincretismo di Seurat, il cubismo o il surrealismo prospettato da Kurz. La seconda parte della mostra spazia quindi

dai Macchiaioli al ritorno all’ordine di Carrà e Casorati. Ma anche dal Neorealismo alla Metafisica, in un tripudio di arte italica, un po’ fascista. Sino ai silenzi di Giorgio Morandi e di Edward Hopper o alle pulsioni misteriose e intriganti di Balthus.

La mostra avrebbe dovuto probabilmente intitolarsi I seguaci di Piero della Francesca secondo Longhi e allora ci sarebbe sicuramente stato di che discutere. Anche perché le libere associazioni di Longhi a volte sanno di «iconologia selvaggia», sia dal punto di vista stilistico che interpretativo. Questo per quel che riguarda il suo approccio da conoscitore ma anche il suo, a volte be-

nemerito, metodo di comparazione storico. Il titolo più corretto però, preso a prestito dai tanti vituperati modelli collaudati, alla fine avrebbe dovuto essere semplicemente Da Piero della Francesca a Balthus.

Dove e quando

Piero della Francesca. Indagine su un mito. A cura di Antonio Paolucci, Daniele Benati, Frank Dabell, Fernando Mazzocca, Paola Refice. Forlì. Musei San Domenico. Fino al 26 giugno. Mave 9.30-19.00, sa-do 9.30-20.00. Lunedì chiuso. Catalogo Silvanaeditoriale. www.mostrapierodellafrancesca.com

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Cultura e Spettacoli

Un’Opera da tre soldi che delude Teatro Damiano Michieletto firma lo spettacolo in scena al Piccolo di Milano

Giovanni Fattorini Quanti fra gli spettatori che oggi assistono a una rappresentazione dell’Opera da tre soldi si rendono conto che la banda di ladri capeggiata da Macheath e la ditta di Jonathan Jeremiah Peachum – la cui ragione sociale è «L’Amico del Mendicante» – vogliono essere una raffigurazione analogica dell’imprenditoria capitalistica e di una borghesia ipocrita il cui più intimo credo – per usare le parole della signora Peachum – è che «il denaro regge il mondo»? Molto pochi, penso. La scarsa evidenza dell’analogia proposta da un’opera che manca di «concretezza sociale» – come rilevò giustamente la Weltbühne dopo la prima berlinese del 1928 – è comprovata, fra l’altro, dal fatto che fu proprio il pubblico borghese a decretarne lo straordinario successo (tanto che il drammaturgo, in seguito, volle aggiungere al testo delle Note intese a rendere esplicite le sue intenzioni), e che Die Dreigroschenoper – come rilevava Arbasino sessant’anni fa – è «l’opera di Brecht più favorita dal pubblico borghese, dai cantanti e registi prediletti dal capitalismo».

All’inizio dello spettacolo di Damiano Michieletto – quarantenne, veneziano, particolarmente apprezzato (e a volte contestato) fuori dai confini nazionali come regista di opere liriche – la gabbia in cui Macheath si trova rinchiuso alla fine del terzo atto è stata ingrandita al punto (la scenografia è di Paolo Fantin) che le sue altissime sbarre delimitano un’ampia superficie, al centro della quale, in piedi sotto un pendulo

La prigione diventa una grande gabbia nella scenografia di Paolo Fantin.

capestro, Mackie pronuncia il suo famoso discorso di congedo e chiede a tutti perdono. La rappresentazione è pertanto un lungo flashback, che si conclude con la replica della scena iniziale e la festeggiata concessione della grazia reale, e che si svolge sotto gli occhi di una giuria composta anche dai personaggi principali, i quali lasciano di volta in volta il loro sedile per farvi poi ritorno, equiparando in tal modo, sia pure parzialmente, giuria popolare a delinquenza.

Un’altra vistosa modifica del testo brechtiano (tradotto – a parte i versi dei song – da Roberto Menin) è la sostituzione dei mendicanti in marcia con un gruppo di extracomunitari muniti di giubbotti-salvagente, che dapprima ve-

diamo arrampicarsi sulle sbarre della grande gabbia e poi morire per annegamento. Una modifica attualizzante, di facile effetto e alquanto incongrua. Benché Michieletto abbia eliminato alcuni riferimenti all’ambientazione londinese, è infatti evidente che l’azione ha luogo in Inghilterra, e non mi risulta che i migranti tentino di raggiungerla via mare.

Si aggiunga che «i miseri tra i miseri» (diversamente da quelli strehleriani del 1956 e del ’73) sono tutti giovani e privi di tratti efficacemente distintivi, così come lo sono le prostitute del bordello di Turnbridge e i componenti la banda di Macheath, i quali, nella scena del pranzo di nozze (non ambientandola in una stalla Michieletto la priva del suo

carattere parodico) indossano dapprima delle identiche tute da impresa di traslochi e poi degli identici completi grigi (i costumi sono di Carla Teti) che li fanno sembrare – pur tenendo conto della nota in cui Brecht raccomanda di non farne delle vistose canaglie – un gruppo di borghesi dall’aspetto troppo uniformemente rispettabile. Donde un effetto – anche per via del loro poco diversificato modo di parlare, di gestire e di atteggiarsi – di piattezza e monotonia, che si avverte del resto in buona parte dello spettacolo.

E i personaggi principali? I coniugi Peachum (Peppe Servillo e Margherita Di Rauso) hanno quasi sempre un aspetto e modi troppo compostamente borghesi (ma lei è molto meglio di lui). Polly

Peachum (Maria Roveran) ha un’aria immatura e canta con voce acuta, perforante. Lucy (Stella Piccioni) non manca di carattere quando insolentisce l’avversaria. Jackie «Tiger» Brown (Sergio Leone) è accettabile, non memorabile. E Macheath? Come molti attori italiani (e non solo) dei giorni nostri, il trentanovenne Marco Foschi ha un’aria da adolescente attardato, da teenager passatello: a volte indossa una t-shirt e scarpe da tennis; è spesso in preda a frenesia ambulatoria; saltella, piroetta e monelleggia: gli manca insomma il piglio spavaldo o brutale e il falso bon ton da seduttore malavitoso che sono propri del personaggio. La più en rôle è indubbiamente Rossy De Palma, una Jenny delle spelonche di notevole presenza scenica. Giandomenico Cupaiuolo è un garbato cantastorie che indossa un abito di taglio sartoriale.

Ci sarebbero parecchie altre cose da dire (per esempio sulla musica di Weill, che nell’esecuzione dell’Orchestra Sinfonica Giuseppe Verdi diretta da Giuseppe Grazioli risulta non di rado piuttosto fiacca, spenta), ma ce n’è una che non posso tacere. Nella traduzione di Damiano Michieletto il celebre verso «Erst kommt das Fressen, dann kommt die Moral» («Prima viene il Mangiare, poi viene la Morale») diventa «Se un uomo ha fame si ribellerà». Più «non capire» di così!

Dove e quando

Milano, Piccolo Teatro Strehler, fino all’11 giugno.

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La tua pelle fa molto per te.

Restituiscile il favore.

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Cultura e Spettacoli

Una giuria attenta ai valori umani

Dentro una luce

Festival di Cannes Un capolavoro e una decina di film notevoli rendono memorabile

Declinando il pensiero Corso

questa edizione

Donati, il metrò / scava diverse gallerie ai giardini

Fabio Fumagalli Iniziamo col dire che si è trattata di una delle migliori recenti edizioni del Festival di Cannes. Specie dopo quella del 2015, con una selezione incerta che aveva finito per favorire le sezioni parallele Un Certain Regard e Quinzaine des réalisateurs (opere come Fatima o Mustang, autori come Desplechin o Garrel, meritevoli di entrare nella Selezione ufficiale).

Quest’anno è successo l’opposto. Con le solite dovute eccezioni (Neruda, di Pablo Larrain, Fai bei sogni di Bellocchio, il film testamento di Susan Anspach, per quanto riguarda la Quinzaine) ma tenendo conto del Certain Regard, considerato un serbatoio di scoperte, l’offerta parallela ha riservato poche rivelazioni rispetto alla competizione principale. Di conseguenza, e secondo logica, i giurati avrebbero dovuto approfittare di questo ritorno all’ovile delle opere più innovatrici voluto dal direttore Thierry Frémaux. E non è stato un caso.

Non si può infatti dire che il gruppetto composto in buona parte da attori e attrici (ma mi spiegate per quale ragione un festival dalla strabordante presenza di fenomeni mediatici deve metterli anche nella Giuria?) sia stato animato da indomito coraggio. Certo, non ha premiato opere indegne, sorvolando sul Personal Shopper di Assayas con i suoi tentativi via cellulare di comunicare con l’Aldilà, e questo malgrado la presenza di una sempre più sublime Kristen Stewart. La giuria infatti, fatta eccezione per una pellicola stilisticamente innovatrice rispetto alle precedenti dell’autore

I premi Palma d’Oro: I, Daniel Blake di Ken Loach Grand Prix: Juste la fin du monde di Xavier Dolan Miglior regia: Olivier Assayas per Personal Shopper e Cristian Mungiu per Bacalaureat Miglior sceneggiatura: Asghar Farhadi per The Salesman Miglior attrice: Jaclyn Jose per Ma’ Rosa di Brillante Mendoza Premio della giuria: American Honey di Andrea Arnold Miglior attore: Shahab Hosseini per The Salesman di Ashgar Farhadi Caméra d’or: Divines, opera prima di Houda Benyamina

L’aspetto occidentale del vestito

A Giancarlo Majorino Corso Donati, il metrò scava diverse gallerie ai giardini radici che non dissero inutilmente le ossa di qualche romano in provincia e una valigia di fibra la ferrovia della stazione Nord, ora non ricordo tutti i particolari un tempo passato corre via dietro gli alberi.

(Da L’aspetto occidentale del vestito, Guanda, Parma, 1976)

Xavier Dolan a Cannes è stato consacrato definitivamente enfant prodige del cinema mondiale.

(Keystone)

(Juste la fin du monde, dell’incredibile Xavier Dolan), più che a un valore strettamente artistico, è sembrata affidarsi a valori umanistici, sociali e politici.

Illuminante in questo senso la Palma d’Oro a I, Daniel Blake di Ken Loach (proprio la prima della quale abbiamo riferito nello scorso numero di «Azione»). Si tratta della seconda opera (dopo quella nel 2006 con Il vento che accarezza) vinta dal più grande e amatissimo dei cineasti sociali e politici ancora in circolazione: un’opera dalla commossa generosità, più che benvenuta urgenza politica ed efficacia. Farà la gioia di molte iniziative sui diritti umani per molti anni ancora; ma senza collocarsi (come la sua Palma precedente) fra le più trascendentali, le meno utilitarie, dell’autore di Family Life, My name is Joe o Sweet Sixteen.

La Giuria di George Miller ha comunque dimostrato un’esemplare incongruenza assegnando due premi al pur interessante film iraniano di Ashgar Farhadi, Il cliente: uno più che legittimo a sottolineare l’acuta sceneggiatura, l’altro assolutamente inutile (e oltretutto vietato dal regolamento) destinato al protagonista. Come dire: ho sette premi e almeno una decina di opere da onorare: ne spreco due e dimentico così un capolavoro come Elle di Paul Verhoeven, Paterson, una delle opere più poetiche della lunga carriera di Jim Jarmusch, l’ineffabile, paradossale ma splendido Ma loute, di Bruno Dumont, l’originale e a tratti irresistibile Toni Erdman della tedesca Maren Ade. L’argento del Festival è quindi andato a Juste la fin du monde, sesto lungometraggio in sei anni dello straordi-

nario enfant prodige del Québec, reduce dall’acclamatissimo Mommy. Straordinario, il film di Xavier Dolan non lo è soltanto per le sue qualità intrinseche; le sue punte artistiche andranno probabilmente valutate nel prosieguo di una carriera ancora tutta da scoprire in un cineasta di soli 27 anni. Straordinario soprattutto perché questo kammerspiel tutto vissuto sui primissimi piani dei personaggi e quasi esclusivamente all’interno di pochi ambienti rappresenta uno sberleffo al conformismo e al frettoloso consumo di comodo che ormai facciamo del prodotto cinema – divenuto esattamente come tutti gli altri nei quali stiamo affondando. Questa storia, emozionante e per nulla elitista, di un giovane scrittore che, dopo dodici anni di assenza, ritorna in famiglia per tentare di annunciare la sua prossima fine, Xavier Dolan l’ha infatti scritta cinematograficamente agli antipodi di Mommy. Rifiutandosi, come alcuni altri grandi autori (ricordate un certo Stanley Kubrick che riprendeva le stesse preoccupazioni intime, ma esprimendole in un genere ogni volta inedito?) di lasciarsi incollare l’etichetta (pertanto alquanto redditizia) di manipolare le emozioni. Mommy nasceva nel segno di un’ansia continua di aprirsi alla vita, di un’esaltazione esistenziale destinata fatalmente a scontrarsi con quelle sociali; al punto che il regista l’aveva tradotto in un inedito formato quadrato, destinato a spalancarsi sullo schermo panoramico nei momenti più lirici. In Juste a la fin du monde tutto è destinato al contrario a rinchiudersi. Nell’uso sistematico, claustrofobico ma rivelatore dei minimi soprassalti delle focali lunghe, non solo entriamo nell’intimità dei protagonisti

isolati dall’ambiente, ma entriamo nella dimensione più segreta della vicenda, nell’importanza del non detto, della difficoltà di comunicare con coloro che ci stanno più vicini. …e qui di seguito le nostre stellette: ****Elle, di Paul Verhoeven; ***(*)Juste la fin du monde, di Xavier Dolan; ***(*) Paterson, di Jim Jarmusch; ***(*)Ma loute, di Bruno Dumont; ***I, Daniel Blake, di Ken Loach; ***Loving, di Jeff Nichols; ***Toni Erdman, di Maren Ade; ***Bacalaureat, di Cristian Mungiu; **(*)Il cliente, di Ashgar Farhadi; **(*)Ma’ Rosa, di Brillante Mendoza; **Sieranevada, di Cristi Puiu; **Julieta, di Pedro Almodovar ; **American Honey, di Andrea Arnold; *(*)Personal Shopper, di Olivier Assayas; *The Neon Demon, di Nicolas Winding Refn

Una buona decina di film di notevole qualità sui quali ritornare al momento della (auspicabile) apparizione sui nostri schermi. Primo fra tutti Elle di Paul Verhoeven, con una strabiliante Isabelle Huppert: nel quale l’olandese a lungo americano di Basic Instinct trova il proprio capolavoro, con una perfetta fusione tra il grande mestiere hollywoodiano e una proverbiale voglia di destabilizzazione tutta europea. Tratto dal romanzo di Philippe Djian, non un film su una donna che «accetta» di essere violentata, non solo su una figura dall’affascinante provocazione. « Non si è mai demoni per ventiquattr’ore», spiega l’autore: mentre si affida genialmente ai fantasmi di Hitchcock e Chabrol, Cronenberg e Haneke.

Parliamone di Simona Sala Siamo tutti figli di Manuzio

Bartolomeo Veneto (1502-1555), presunto ritratto di Lucrezia Borgia nei panni di Flora.

La nostra civiltà deve molto al tipografo Aldo Manuzio (1449-1515), come dimostrano le opere esposte fino al 19 giugno alle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Oltre alle innumerevoli pagine nate dall’estro e dalla lungimiranza del precursore della carta stampata Manuzio, nella città lagunare sono esposti alcuni capolavori di maestri vissuti nello stesso periodo, tra cui Giorgione, Carpaccio, Giovanni Belli-

ni, Cima da Conegliano, Tiziano, Lorenzo Lotto, Pietro Lombardo e Bartolomeo Veneto.

Il progetto visionario di Manuzio può essere compreso in tutta la sua portata grazie alle parole del grande umanista olandese Erasmo da Rotterdam: «Aldo ha intenzione di costruire una biblioteca la quale non abbia altro confine che il mondo stesso».

Sono i due versi inziali di una breve poesia di Giampiero Neri che dà il titolo a una sua raccolta del 1976: L’aspetto occidentale del vestito.

Mi sono entrati dentro senza più lasciarmi, quei due versi, che allora mi sembravano così misteriosi e che ancora adesso mi appaiono come qualcosa di vagante nell’aria che si sposta da un mondo all’altro. Senza trovare riposo, amando una specie di eternità.

Mi hanno accompagnato in tutti questi anni trascorsi a decifrare la vita. E, di tanto in tanto, mi vengono alla mente, balzano fuori a raccontarmi l’esigua fondatezza del tempo, la puntuale e impietosa natura del suo inganno, a sospenderni in talune domande che non devono avere risposta. Ancora non ne ho capito davvero la ragione, ma mi è chiaro che ragione non deve esserci.

E io non la voglio neanche cercare, né tantomeno trovare. Perché è già qui, in quelle parole e nel loro suono, nell’intensità di quello che non dicono, che non possono dire.

Sapere che Corso Donati non è una via di Milano ma è il nome di un guelfo nero contemporaneo e avversario di Dante, non mi aiuta alla comprensione vera del sentimento del testo.

Ma è tutto quello che quei versi nascondono a farmi sospendere dentro una luce, dove ogni istante deve rimanere là dove si trova, a raccontarmi delle cose che non riesco a vedere e che sento intorno frullare tra i rami degli alberi, nello sferragliare del treno. / Franco Facchini Bibliografia

Giampiero Neri, pseudonimo di Giampiero Pontiggia, è nato a Erba nel 1927 e vive a Milano. Pubblica per la prima volta i suoi versi nel 1965, sulla rivista «Il Corpo». Seguono altre pubblicazioni su «Almanacco dello Specchio», «Paragone», «Resine», fino a quando, nel 1976, esce la sua prima raccolta poetica edita da Guanda, con il titolo L’aspetto occidentale del vestito.

Nel corso degli anni seguenti pubblica altri libri presso diversi editori, tra i quali Mondadori. Presso l’editore Sottoscala di Bellinzona, è in corso di stampa il suo nuovo libro: una raccolta di prose poetiche, dal titolo Persone.

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Cultura e Spettacoli

Ivano Torre, l’alieno che trasforma in ritmo l’esistenza Musica Pubblicati da poco un libro e un disco del musicista bellinzonese Zeno Gabaglio Dovesse scendere un alieno sulla terra – completamente estraneo alle dinamiche socioculturali del nostro pianeta ma tanto curioso d’imparare a conoscerle – si potrebbe cominciare con un grand tour reale dei più impressionanti manufatti umani e un grand tour ideale delle più solide istituzioni che l’uomo ha creato a propria rappresentazione e conservazione. Accademie, università, tribunali, parlamenti, teorie cosmogoniche, economiche ed estetiche.

Malgrado la brevità e le semplificazioni, il quadretto esposto all’interessato alieno sembra tutto sommato reggere. Finché, per un fortuito caso, non ci si trova a camminare a Bellinzona, da Piazza Indipendenza verso il parcheggio Cervia. Scesa la scala a chiocciola in cemento si sentono provenire dei suoni da dietro una porta a vetro; certo organizzati, ma non proprio nel modo canonico con cui avevamo appena spiegato all’extraterrestre il concetto di «musica». Qualcosa di più strano, di sfuggente, che mischia dolcezza e asperità, note e rumori, spirito e sangue. Proviamo a entrare oltre la porta – in quello che si chiama Spazio culturale temporaneo – ma ci troviamo di fronte un personaggio ancor meno corrispondente alle categorie e agli schemi sin qui adottati per spiegare al marziano concetti quali «musicista», «didatta», «artista», «pensato-

re», «performer» o «ticinese». È Ivano Torre, l’instancabile creatore di suoni e artefice d’idee, che visto l’imbarazzo dell’illustre ospite gli mette in mano un libro e un disco. Per provare a capire un po’ meglio.

Max Pizio e Ivano Torre – Iperturmax

È da diverso tempo che Ivano Torre non si misura con la forma creativa del disco, cioè con una musica concepita per essere fissa e immutabile nel tempo. Lui che invece all’estemporaneità – all’improvvisazione, alla celebrazione del momento sonoro e della sua essenza effimera – ha dedicato gran parte della propria recente ricerca musicale. Ma non è del tutto inspiegabile, questo ritorno alla registrazione, dal momento che con il polistrumentista Max Pizio (musicista altrettanto sui generis che pure meriterebbe un’ispezione aliena) ha deciso di recuperare del materiale musicale risalente a circa trent’anni fa. Composizioni (temi, frasi, cellule musicali) che nel disco vengono interpretate accanto a momenti di libertà improvvisativa, con l’interpolazione di suoni ambientali e un curioso utilizzo della voce. Materiale per un’indomita esperienza sensoriale, intensa per contenuti ma leggera – addirittura ironica – nell’approccio: «L’opera, creata minuziosamente e curata nelle sonorità e negli impasti ritmici, ha una durata di 70 minuti. Dopo l’ascolto si possono avvertire effetti di apertura mentale e

leggero smarrimento. Per questi motivi Iperturmax non può essere ascoltato sotto la doccia, durante i pasti o durante funzioni religiose di qualsiasi tipo».

Ivano Torre – Canta la batteria

Torre è però anche un didatta, e non pochi batteristi/percussionisti di almeno tre generazioni sopracenerine hanno appreso da lui i fondamenti (ma anche le sublimazioni) del mestiere ritmico. Non in modo ordinario, ovviamente, ma con un metodo sviluppato negli anni – e ora pubblicato da Officina della Narrazione – che si pone come una guida elementare e intuitiva (semplice, si potrebbe anche dire senza volerla svilire) ma dai risultati effettivi.

Perché per l’autore la batteria non è un risultato puramente motorio del tanto odiato solfeggio, quanto piuttosto una conseguenza del respirare e del muoversi – o anche del vivere – in cui si cerca la consapevolezza del proprio corpo.

Una volta individuata, viene indirizzata nel senso dell’ordine temporale: movimenti nello spazio e nel tempo che – se padroneggiati – possono regalare musica. Sembra quasi una magia, un rito iniziatico che risponde a regole oscure, e l’idea non è così peregrina.

Perché con la sola logica è impossibile spiegare fino in fondo l’assunto di base dell’apprendere musica: esercizio rigoroso, costante e ripetitivo che conduce alla fine alla più spensierata libertà creativa.

Il musicista bellinzonese Ivano Torre in una foto di Adriano Heitmann.

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Cultura e Spettacoli

Nel ventre della balena Mostre All’Ala Est di Palazzo Reali di Lugano si ricorda l’artista Giona Bernardi

Alessia Brughera L’interesse che il Museo d’arte della Svizzera italiana riserva in questo periodo alla realtà artistica più attuale del nostro cantone non si esaurisce con la rassegna Che c’è di nuovo? (di cui abbiamo parlato sul numero 19 di «Azione»). Accanto a questo appuntamento, infatti, gli spazi dell’Ala Est di Palazzo Reali a Lugano ospitano una mostra dedicata a Giona Bernardi, giovane artista ticinese scomparso lo scorso anno. La trilogia del mare e altre storie, come titola l’esposizione, ci dà la possibilità di conoscere le sue opere attraverso quello che vuole essere insieme un ricordo e un omaggio a una figura sensibile e tormentata, fra gli interpreti della nuova generazione che in questi ultimi anni ha animato la scena artistica regionale. È muovendosi nella cultura underground ticinese che Bernardi si accosta all’arte, dapprima esprimendosi con il disegno e il fumetto, poi ampliando la propria ricerca attraverso molteplici linguaggi, dalla performance al video, dall’installazione alla pittura. Spirito creativo e inquieto, studia all’Accademia di Belle Arti di Brera e si lega in amicizia con artisti e curatori, si dedica alla scrittura e alla musica, vive in quel melting pot che è il numero 42 di viale Bligny a Milano e trascorre un anno in Messico, fonda la rivista «Lolabrigida» e collabora con passione a svariati progetti con artisti, fotografi e musicisti.

Nel 2013 una sua grande opera approda al Museo del Novecento di Mila-

no per una mostra dal titolo Arimortis, curata dall’amico Roberto Cuoghi, conosciuto ai corsi braidensi di pittura. È una balena lunga sei metri dipinta su carta, a rappresentare la sua idea di smisuratezza.

Quella stessa balena campeggia oggi nelle sale del museo luganese, con il suo grosso ventre in cui l’artista ha introdotto tutta la sua vita, spezzettata, scomposta, ridotta in tante minuscole caselle che accostate l’una all’altra raccontano la sua vicenda umana fatta di dolori e di silenzi, bruscamente interrotta con un gesto estremo che non ammette ripensamenti.

«GnB», si è firmato per molto tempo l’artista: «Giona nella Balena», ispirandosi alla storia del suo omonimo profeta biblico inghiottito dalla misteriosa e gigantesca creatura degli abissi per aver disobbedito al Signore, e che nel corpo del cetaceo ha trascorso tre giorni e tre notti per poi essere vomitato fuori nello stesso punto in cui ci era finito dentro, a rimarcare l’ineluttabilità del suo destino.

Alla balena, Bernardi ha fatto ingoiare i suoi ricordi, i suoi deliri e le sue psicosi. Moderno capitano Achab, ha incarnato i suoi dilemmi in questo animale mitico, cercando di abbattere il male o almeno di definirlo, dandogli una forma per guardarlo in faccia e una collocazione simbolica per poterlo contenere.

«Ho pensato di essere il diavolo, che non era di sicuro più in basso di me» leggiamo tra le tante scritte che popolano l’opera: citazioni, spunti, tracce, testi dell’artista tradotti in giapponese.

più tenue, morbido, con tante caselle lasciate vuote. È presente in mostra anche una serie di piccoli ritratti ad acquarello realizzati dall’artista nei suoi ultimi anni, lavori che restituiscono la sua abilità nel cogliere e nel fissare con poche delicate pennellate i tratti distintivi di un viso.

Sono facce che ci guardano, che ci scrutano, con quei lineamenti persi nella fluidità e nella trasparenza del colore liquido a renderle quasi spettri, spiriti attoniti e silenti che si stagliano sullo sfondo di desolanti brani metropolitani.

Bernardi aveva anche collaborato con «Azione», eseguendo i ritratti di scrittori celebri, da Franz Kafka a William S. Burroughs, da Truman Capote a Emil M. Cioran: volti immortalati nella fluttuante limpidezza dell’acquarello, dilatati, sfaldati, quasi dissolti negli aloni di pigmento, ma vividi e potenti come la mano che li ha generati.

Giona Bernardi.

La balena, 2013.

Tecnica mista su carta. Dettaglio.

(Alexandre Zveiger)

Dove e quando

Scorrono gli attimi della sua esistenza, attenuati nella loro tragicità da uno stile fumettistico non privo di ironia, come quella tavolata al centro della scena in cui i parenti lo esortano in vari modi dicendogli «dai che ce la fai», «vedi di fare il bravo» e «su con la vita». È una congerie di volti, di sguardi e di corpi.

Diamanti, libellule e farfalle convivono con pugni, siringhe e serpenti in una narrazione frammentaria e serrata in cui le immagini si susseguono fitte facendo rimbalzare di continuo il nostro sguardo da un riquadro all’altro, alla

ricerca di un punto su cui poter sostare.

A quest’opera in cui l’artista ha condensato la sua storia se ne affiancano altre due, raffiguranti un calamaro gigante e un capodoglio, anch’essi di grandi dimensioni e dipinti con il medesimo impianto visivo. Il primo è un tentativo di dare espressione all’irrazionale attraverso una sequenza di illustrazioni in cui richiami all’arte antica e alla letteratura si uniscono a elementi presi a prestito dalla cronaca contemporanea, il secondo, invece, rappresenta per Bernardi la razionalità: qui il disegno si fa

Giona Bernardi. La trilogia del mare e altre storie. Palazzo Reali – Ala Est, Lugano. Fino al 19 giugno 2016. Orari: martedì 14.00-17.00, mercoledìdomenica 10.00-17.00, lunedì chiuso. www.masilugano.ch In collaborazione con

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Cultura e Spettacoli

Joy Harjo, potenza di una voce

Preparatevi per l’estate in tutta bellezza

Poesia I trascinanti versi di una poetessa

americana appartenente alla tribù dei Creek

Laura Di Corcia Non si entra in punta di piedi nella poesia di Joy Harjo, voce potente della poesia americana che lo scorso febbraio è stata ospite a Roma di un’interessante rassegna sulla poesia contemporanea, «Ritratti di poesia», curata da Vincenzo Mascolo.

La poetessa, appartenente alla tribù pellerossa dei Creek andata incontro a devastazioni e sofferenze inflitte dai bianchi, letteralmente trascina il lettore in un universo a spirale, dove la guerra e l’amore, l’orrore e la sua rivisitazione in chiave onirico-favolistica spingono verso un altrove che però torna prepotentemente nel qui e ora, rivelando che l’immanenza non è l’unica chiave di lettura possibile, che esiste altro e che quest’altro è in fondo una presenza in absentia. Così, nelle pagine di Con furia d’amore e in guerra, pubblicate dalla casa editrice QuattroVenti con la cura di Laura Coltelli, si viene catapultati in una terra di nessuno, nelle desolate lande americane teatro di vite spezzate e di efferatezze imperdonabili: ma la ferita, quella di un popolo che non ha più nessun mezzo per suturare le umiliazioni e il dolore, non dà vita come potremmo pensare a un universo spaccato a metà, disgiunto.

L’odio presente nelle poesie di Joy Harjo sa trasformarsi in benevolenza C’è qualcosa che può ricucire ciò che è stato dilaniato, ed è proprio la cultura tribale, ricca com’è di racconti e leggende ispirate alla natura e agli animali, imperniata sul concetto del tutt’uno.

Grazie a queste favole, grazie alla presenza di bisonti, cervi e animali connotati di una valenza salvifica che camminano quasi al di sopra dei testi, come presenze mute di un destino crudele e allo stesso tempo ineluttabile, è possibile aprire «un varco in una stagione di false mezzanotti», o continuare a insistere sulla strada dell’ «epica ricerca della grazia» nonostante si sia costretti a scivolare «per campi di fantasmi», brancolando «in un inverno di ricordi espatriati». Ma non tutto è perduto, dal momento che «c’è qualcosa di più vasto della memoria / di un popolo espatria-

to». In fondo tutta la raccolta è riassunta nel terzo testo della raccolta (il più forte), intitolato Danzatrice del cervo: lì una donna bellissima entra in un bar dove siedono senza parole «gli irriducibili», i reduci. La sua energia centrifuga, la sua furia sarà per alcuni superstiti un sogno, per altri uno schiaffo: nessuno potrà resisterle e nessuno potrà proferir parola, perché «in questa lingua non ci sono parole per spiegare come il mondo reale / si frantuma».

Immagini potenti, stratificate, rese ancora più plastiche dal verso lungo, stigma della poesia americana a partire da Walt Withman (in Italia ha raccolto la lezione il Cesare Pavese di Lavorare stanca), capace di accogliere nel suo ampio ventre una realtà scissa anche nelle sue coordinate spazio-temporali.

Il tempo verbale più utilizzato in questa prima parte, non a caso, è il passato remoto; scrive la poetessa: «Spesso cambio i tempi in una poesia e lo faccio sapendo quel che faccio. Non accade per caso. Il tempo non opera realisticamente in modo lineare». Leggere Joy Harjo significa uscire dalla linearità del tempo, scardinare la logica della causa-effetto per entrare in un tempo altro, quello del rito, quello in cui il futuro non è altro che una proiezione del passato. «Il modo in cui ricordo, considerando la natura stessa della parola, è in relazione con l’andare indietro» – dichiara la poetessa in occasione di un’intervista. «Ma la sento anche in un altro modo. La sento come un divenire, non solo l’andare indietro, ma il divenire ora, e anche gli accadimenti futuri…

La memoria è una grande forza viva che plasma il futuro».

Se è vero che «il passato e il futuro sono lo stesso tiro alla fune», allora la sua vita quotidiana, quel piccolo spazio di tranquillità mai al riparo dagli scossoni dell’amore non corrisposto, è ancora il tempo dell’odio, ma di un odio che sa riconvertirsi in benevolenza. La seconda parte della raccolta, Furia d’amore, è un tentativo di andare oltre, di investigare nuove strade. Ha ragione Laura Coltelli, nella prefazione, quando scrive che il suo percorso «è quello del superamento di altre barriere, che fa della poesia di Joy Harjo una poesia di metamorfosi e volontà di trasformazione, con tutte le forze vitali tese al rinnovamento». Non resta che sperare che tutte le sue poesie, che oltreoceano hanno ricevuto riconoscimenti prestigiosi (e meritatissimi), siano presto tradotte in italiano.

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Cultura e Spettacoli

Un meraviglioso critico Pubblicazioni Il grande critico letterario James Wood ha appena dato alle stampe La cosa più vicina alla vita

Mariarosa Mancuso «Un critico meraviglioso, uno dei pochi rimasti», scrive Martin Amis di James Wood. Lo scrittore di L’informazione – romanziere ricco e famoso contro romanziere tormentato costretto a campare di recensioni – non è noto per il suo carattere conciliante: se si sbilancia così, ha i suoi buoni motivi. Ne aveva anche Christopher Hitchens – suo il pamphlet contro Madre Teresa di Calcutta La posizione della missionaria – quando distribuiva ai suoi studenti la recensione firmata James Wood di Il terrorista: «leggetela, è molto meglio di quella che ho scritto io» (John Updike raccontava un giovanotto del New Jersey convertito all’islam e in odore di terrorismo).

Il saggio di James Wood fa a gara con la migliore critica letteraria, senza avere la pesantezza degli accademici Se il nome non vi dice niente, e non lo avete sentito neppure associato al successo americano di Elena Ferrante (l’unico abbaglio preso da James Wood, finora mai ci aveva deluso) ricordiamo un suo libro uscito una decina di anni fa da Mondadori, con l’irresistibile titolo Come funzionano i romanzi. Nel doppio significato: «come funziona la macchina romanzesca», e «ha funzio-

nato la medicina?» (ovvero: che effetto fanno i romanzi sui lettori).

Altrettanto appetitoso il titolo dell’ultimo libro, sempre Mondadori: La cosa più vicina alla vita. Lo ha rubato a George Eliot, che parlava dell’arte in generale, e lo applica ai romanzi. Ricavandone un saggio che gareggia con la critica letteraria migliore. Quella praticata dagli scrittori, una lunga lista che comincia con Vladimir Nabokov e finisce – provvisoriamente – con Nick Hornby. Non hanno la pesantezza degli accademici, non hanno tesi da dimostrare, non venerano le note a piè di pagina, non parlano in gergo, non tentano di ridurre Guerra e pace a un’equazione.

Lo faceva, per esempio, il critico strutturalista in Il professore va al congresso di David Lodge, mentre un altro paragonava la critica letteraria a uno spogliarello: «levi uno strato, ne levi un altro, poi un altro ancora, alla fine non resta che squartare la ragazza (David Lodge, prima di scrivere romanzi ambientati in campus universitari, faceva il professore, i suoi compagni di convegno li conosce e li descrive benissimo). È della stessa idea anche Daniel Pennac, che preferisce dichiararsi «passeur», ovvero contrabbandiere. I critici secondo lui sono anatomo-patologi che studiano brandelli di carne morta.

James Wood non ammazza nessuno, i romanzi li tratta con una cura e con un rispetto quasi religiosi. Non è un modo di dire. Nato nel 1965 e cresciuto a Durham – cittadina nel nord dell’Inghilterra dotata di università,

Un particolare della copertina de La cosa più vicina alla vita di James Wood.

maestosa cattedrale romanica, miniere di carbone ormai abbandonate – cantava nel coro e frequentava un istituto ecclesiastico dove ancora vigevano le punizioni corporali assestate con una spazzola sul fondo schiena (centosei a tredici anni, per amor del dettaglio che è l’arma segreta del romanziere e anche del memorialista).

Entrambi i genitori erano cristiani praticanti, il giovane James capì subito

che tra il romanzo e la religione c’erano fondamentali differenze, e che la bilancia pendeva decisamente a favore del romanzo. In casa non poteva far certe domande – ad esempio: perché preghiamo per la guarigione del nostro amico o parente, e poi ai funerali sentiamo il sacerdote dire «Dio lo ha voluto con sé in Paradiso»? («Possibile che Dio ascolti le nostre preghiere e deliberatamente le ignori?» Possibile, certo,

ma allora perché ostinarsi a pregare?).

Si rifugiava allora nei romanzi, dove succedeva qualsiasi cosa (con un certo stupore: portava a casa libri che a lui sembravano blasfemi, e i genitori non avevano nulla da ridire) e dove tutte le domande erano consentite. Ragiona sulla questione oggi e ragiona sulla questione domani, quando si imbatte nella frase di Dostoevskij – «se Dio non esiste tutto è permesso» – capisce che nei romanzi Dio è morto da tempo, e nessuno ne sente la mancanza.

I lettori sono vanitosi, come l’umanità tutta, e alla domanda «quale è stato per te il romanzo più importante» sfoderano di solito grandi classici letti in età tenerissima. James Wood non ha paura di dire la verità. Il libro che più lo influenzò – aveva quindici anni – era Novels and Novelists – A Guide to the World of Fiction. Aveva una copertina marroncina bruttissima, foto di Hemingway a torso nudo, un dizionarietto di 1348 autori sbrigati in poche righe. Per un ragazzino che amava i libri, cresciuto nella provincia inglese, era come sognare sulle riviste con le auto di lusso o «sugli orari del treno notturno da Zurigo a Milano». La lettura degli orari ferroviari – sia detto per inciso – accomuna James Wood a Marcel Proust. Li unisce anche un’altra frase, acchiappata al volo in un libro ricco di osservazioni intelligenti e aneddoti curiosi (Isaak Babel’ sosteneva di poter scrivere una storia su una donna guardando il contenuto della sua borsetta).

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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Oggi, 27 maggio 2098 Oggi mio bisnonno Bruno, se fosse ancora vivo, sarebbe contento di me.

Perché oggi, 27 maggio 2098, compio 80 anni e vado in pensione. Sono stato fortunato: alla fine di quest’anno entrerà in vigore la nuova disciplina che sposta in avanti di cinque anni il limite minimo per lasciare il lavoro. Mio bisnonno, negli ultimi anni della sua lunga vita, era diventato un implacabile catastrofista, collezionava con feroce determinazione tutti gli indizi, articoli, libri, inchieste che vaticinavano la scomparsa del lavoro così come lui e i suoi coetanei l’avevano praticato. Ma, come tutti i pessimisti cronici, sarebbe il primo a esultare per la fallacia delle sue profezie. Il mio nonno bis ha iniziato presto a istillarmi le sue idee sul futuro che mi attendeva. Nel 2027 io stavo per compiere 9 anni e lui 90. Frequentavo una scuola privata che poteva permettersi, grazie alle rette degli studenti, una maestra al posto di un robot. Quella maestra era così vecchia che ancora assegnava dei temi d’italiano congegnati in modo tale che non si potevano

copiare da internet; erano così personali che i genitori dei miei compagni minacciavano di denunciarla per crudeltà mentale e violazione della privacy.

Sono trascorsi da allora 70 anni e me lo ricordo ancora; il tema da svolgere consisteva in una domanda: «Quale lavoro vorresti svolgere da grande? Motiva la tua scelta». Chiedere aiuto a mio bisnonno fu come aprire i portelloni di una diga: tirò fuori un articolo dove si dimostrava, numeri alla mano, che nel 2050 il 50% delle attività svolte da esseri umani sarebbe stata cancellata dalla diffusione dei robot: autisti, badanti, infermieri, cuochi, agenti di viaggio, musicisti, eccetera. Non ero del tutto convinto, gli ricordai che lui continuava a scrivere articoli per giornali e riviste, non più su carta ma online. «Ti metto da parte di un segreto», mi disse. «Ma giura che non lo dirai a nessuno». Penso che, trascorsi tanti anni, il mio giuramento sia scaduto. «Mi sono fatto spedire dalla California un programma che in pochi secondi scrive le cronache degli incontri sportivi, siano partite di calcio,

finali di tennis, gare di formula Uno. È sufficiente immettere i dati, formazione degli squadre, goal segnati e a che minuto, tempi di percorrenza e soste ai box; lui ti sforna meravigliosi resoconti della lunghezza richiesta. Ho chiesto a uno studente del Politecnico di Torino, un bengalese (sono i più dotati) di modificare il programma per renderlo adatto alle mie esigenze. Gli ho dato da leggere un bel po’ dei miei articoli e gli ho elencato i temi che mi interessano. A lavoro concluso ho testato il programma e in pochi secondi è comparso il risultato: la macchina mi aveva letto nel pensiero; ho fatto piccoli insignificanti ritocchi e ho spedito gli articoli ai redattori incaricati di metterli in pagina. Nessuno si è accorto che i testi non erano miei e da uno di loro mi sono arrivati dei complimenti. A quel punto li ho ritirati spiegando che avevo cambiato idea e ne ho inviati di autentici. Per ora mi sono fermato lì ma non è detto che un giorno o l’altro, pressato dai tempi di consegna, non ricorra al programma». Cosa poteva obbiettare un bambino di nove anni?

Ma ora so, in base alla mia esperienza, che il mio amato bisnonno aveva torto. È vero che gli esseri umani sono stati integralmente sostituiti nei lavori utili dalle macchine dotate di intelligenza artificiale, ma non si è mai lavorato così tanto come in questi tempi. Prendiamo il mio caso: subito dopo aver conseguito la terza laurea ho iniziato a lavorare per il ministero dei Giochi, nel dipartimento del gioco delle bocce. Mio bisnonno sarebbe fiero della carriera che ho fatto, iniziando a girare l’Italia per vigilare sulla corretta tenuta dei campi da gioco, il peso delle bocce, l’idoneità dei giocatori, fino a diventare designatore degli arbitri e perito d’ufficio nelle decine di migliaia di cause intentate dai perdenti presso il Tar. Come sapete, per legge la popolazione maschile in buona salute deve trascorrere almeno due pomeriggi alla settimana sui campi da bocce. Ho avuto anche un momento di gloria quando da ispettore ho sgominato il fenomeno conosciuto come «bocciopoli»; una banda di malfattori organizzava scommesse sulle partite, influendo sui

risultati. Introducevano dei microchip nelle bocce e le pilotavano dall’alto con l’uso dei droni che volteggiavano sui campi con la scusa di riprendere le partite per un canale televisivo. Ho avuto la prima intuizione notando che il picco di scommesse si aveva quando le sfide si svolgevano all’aperto. Il tutto integrato dal «doping all’incontrario», con l’introduzione di sonniferi nelle bottiglie di vino a disposizione dei giocatori. Da allora vivo sotto scorta ma non sono pentito. Vado in pensione ma non ho alcuna intenzione di stare con le mani in mano; entrerò nel mondo del volontariato, occupandomi dei trenini elettrici. È appena entrata in vigore la legge che obbliga ogni condominio ad allestire un ambiente per il montaggio di un impianto di trenini. Mi aspetta un lavoro immenso, dalla stesura dei regolamenti alla definizione delle misure standard dei binari e dei vagoni. È dall’incomprensibilità dei regolamenti che si misura la grandezza di una nazione e in questo settore l’Italia non è seconda a nessuno.

permettere di comprare un libro e di imparare a leggere, ci sarebbero voluti almeno tre-quattro secoli. Ma la nefasta tecnologia non venne fermata, né dai prelati, né dai pensatori. Avanzò certamente aiutata di volta in volta da accadimenti, rivoluzioni (la Riforma, per esempio), decisioni di qualcuno (il capitalismo muove il mercato, che fa più di qualcosa), ma trovò da sé il modo di conquistare il mondo intero. Qualche giorno fa mi è scaduto l’abbonamento al quotidiano online.

Ho pensato che sul web si trovano le notizie in tempo reale, e c’è persino il sito dei necrologi cittadini, ultima scusa per leggere «il» giornale della città. Poi ho pensato a tutte le volte che avevo maledetto il tablet perché troppo delicato per la mia manona, quindi spesso impazzito. Poi per qualche

giorno ho comprato il giornale di carta, godendo al solo pensiero di poter ricominciare a ritagliare gli articoli da conservare, attività di grande soddisfazione rispetto a un anodino «salva il pdf e buttalo nella cartella dove sarà irriconoscibile tra tutti i pdf». Però.

Però non ricordavo che l’inchiostro macchiasse le solite manone. Che occorre un’arte ormai desueta per leggere il giornale bevendo il caffè o addirittura mangiando qualcosa che non sia una caramella. Che in borsa, anche ripiegato otto volte, non entra.

E con grande soddisfazione ho deciso di spendere cinque euro al mese, ripromettendomi di stare ben attenta a quando, zitti zitti, diventeranno cinquanta. E, me sventurata, ancora una volta, risponderò all’ammicco di quel diavolo di tecnologia.

qualche affezionato lettore non disposto a lasciarsi prendere in giro? E se nessun giornale recensisce i racconti di Ligabue (magari per spiegare che non valgono molto), per non risultare snob, elitario e antipatico, dov’è finita la critica letteraria? E dov’è finita la funzione dei giornali? La critica superata dalle anticipazioni e dalle interviste promozionali… tipo Fabio Fazio (3+)?

Sono domande che non meritano una risposta. Semplicemente perché sono domande retoriche. O meglio, l’unica risposta possibile sarebbe andare a cercare quel che non proviene dal marketing e lasciare Ligabue a Einaudi.

E anche lo chef Antonino Cannavacciuolo (Il piatto forte è l’emozione, appena uscito): «Questo libro l’ho immaginato proprio come uno stimolo ad affrontare percorsi nuovi, un po’ fuori dall’ordinario, l’ho pensato per appassionati che amano le sfide». Un ricettario per appassionati che amano le sfide! Filosofia e gastronomia… Anche gli chef non fanno che scrivere (e filosofare). Ma quand’è che cucinano?

Anche gli attori non fanno che scrive-

re: ma quand’è che recitano? Anche i magistrati non fanno che scrivere: ma quand’è che celebrano i processi?

Si diceva che sarebbe meglio andare a cercare quel poco che non proviene dal marketing, ma non è facile. I «libroidi» hanno preso (fisicamente) il posto dei libri: si dice che sono loro a salvare il mercato editoriale, ma viene il dubbio che in realtà i «libroidi» non facciano che nascondere il libro, prevaricarlo ovunque, in definitiva affondarlo. E soprattutto confondono le idee e i gusti: è il trionfo dell’indistinto. Tutto è uguale a tutto. Ligabue nella stessa collana di Murakami Haruki: fino a qualche anno fa Einaudi l’avrebbe collocato in «Stile Libero», dove il suo lettore sapeva che confluivano attori, ballerini, presentatori televisivi, vallette, comici, dj, sportivi e rock star.

Fatto sta che per trovare i libri in libreria bisogna addentrarsi oltre le montagne dei «libroidi», a volte senza successo. E le librerie che non si rassegnano a costruire cattedrali ai «libroidi» folgoranti e misteriosi, inconfondibili e originali, in genere chiudono.

Postille filosofiche di Maria Bettetini La tentazione del virtuale A ondate alterne, si sente echeggiare tra la folla una volta il lamento per la fine del mondo del libro e del giornale di carta, un’altra l’entusiasmo per le piccole strumentazioni che contengono intere biblioteche. Nel primo caso, si ricorda come sia più sano ed efficace lo studio, o anche solo la lettura, di una cosa che si possa toccare, scarabocchiare, sottolineare con colori o con patacchini di carta colorata. Nel secondo, oltre a rammentare le infinite operazioni applicabili a un testo digitale (colorare, evidenziare, aggiungere una nota, aggiungere più note da parte di più persone… altro che la vecchia sottolineatura a matita), si ricorda ancora che supporti piccoli e leggeri ci possono accompagnare ovunque, permettendoci di leggere il giornale in cima a un albero o a un monte, di

tenere il romanzo da leggere in viaggio in un taschino, di consultare la Treccani senza l’ingombro delle decine di neri, tetri volumi. E così si potrebbe continuare all’infinito, all’infinito si potrebbe prendere parte pro o contro la tecnologia, ma sarebbe una grande perdita di tempo, perché come tutti i cambiamenti epocali, non sarà un parere – per quanto illuminato – a dirigerne il senso. Cosa sarà? Il mercato? Nemmeno, il mercato avrebbe da tempo fatto vincere il nuovo e dato al macero i depositi di libri invenduti. Invece gli e-book non raggiungono nemmeno il dieci per cento delle vendite di libri, e per favorire gli abbonamenti ai quotidiani online si mercanteggiano prezzi ridicoli (ultima offerta ricevuta, 5 euro al mese, meno di 20 centesimi al giorno): sperano di farci abituare, così

da mantenerci fedeli anche quando i prezzi si alzeranno. Allora, cos’è che induce ai grandi mutamenti sociali e culturali? Le idee? Nemmeno per sogno. Platone, che alle idee ha dato tanta importanza, si è speso come ha potuto contro quella barbara novità della scrittura. Attraverso le parole scritte, si legge nel Fedro, tutti quelli che sapranno leggere riterranno di poter diventare sapienti, ostentando la sapienza di coloro che hanno scritto.

Platone divenne famoso, immortale tra i sapienti, ma si continuò a scrivere.

E quando Gutenberg perfezionò la stampa? Alti prelati tuonarono: e adesso magari anche un contadino si può tenere in casa la Bibbia, e interpretarla a suo piacimento, cadendo sicuramente nell’eresia. In verità, prima che un contadino si potesse

Voti d’aria di Paolo Di Stefano L’insostenibile disordine di Ligabue «Folgoranti e misteriosi» sono, secondo il risvolto, i racconti di Luciano Ligabue, pubblicati dall’Einaudi sotto il titolo Scusate il disordine (3- in pagella e 1° in classifica). «La musica non la si prendeva. Mai» è la frase scelta per la copertina. Basterebbe quella (con quel punto a frantumare la sintassi), ma se qualcuno volesse indagare di più, apra il libro a caso, almeno per valutarne lo stile, la cui musica è, appunto, imprendibile. Sempre. Si vada, per esempio, a pagina 75: «Poi, quando si sentì pronto, fece quel passo caricandolo di un significato quasi insostenibile». Insostenibile, come il libro di Ligabue, che non ha niente di apprezzabile e niente di troppo disprezzabile. Non c’è nulla: nulla che denoti alcuna qualità letteraria, nulla che dia un brivido di sorpresa, non c’è una frase morbida: «La volta successiva hai pensato a quanto la sua gioiosità fosse vera e mai dettata da una reazione nervosa o – adesso proprio no – di circostanza». Non c’è una frase che canti: «Vienimi a dire di tenerti la coca che se la trovano a te è un casino… E visto che ci sei, quando ci sarai, vieni-

mi a dire che meno male che ci sono io. Che i tuoi amici se ne sono andati tutti». Il cantante Ligabue, scrivendo, non canta: «Ti ha guardato freddo e se n’è uscito con: prepararvi alla realtà per tempo». Che significa? Boh! D’altra parte, pensate a un Calvino in concerto alla stadio di San Siro o a un Moravia che provasse a fare il ballerino in un varietà televisivo… Otterrebbero

risultati migliori di quelli che ottiene Ligabue scrivendo? No di certo. Ci si chiede che cos’è questa irresistibile attrazione per la scrittura narrativa che hanno i cantanti: Vecchioni (La vita che si ama, Einaudi), Eros Ramazzotti con la sua autobiografia (Grazie di cuore, Bur)… Si dice che sono loro a salvare i bilanci delle case editrici, così come Checco Zalone, Samantha Cristofoletti, Antonello Venditti e Francesco De Gregori hanno salvato gli incassi del Salone del Libro di Torino (4-): sensibile incremento di biglietti venduti. Ma che c’entra il libro? La loro presenza non avrebbe fatto impennare anche la Fiera del Salame o quella del Baccalà?

Se l’editore Einaudi presenta Ligabue, nella storica collana dei «Coralli», come «la voce inconfondibile e originale di uno scrittore che sa raccontare l’inafferrabilità delle nostre vite», che cosa dovrà scrivere quando presenta Elsa Morante? Se l’editore di Philip Roth presenta Ligabue come fosse un Philip Roth, non rischia di perdere la faccia (e magari anche Roth), oltre a

Non risparmiare sul gusto, ma solo sul prezzo.

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Idee e acquisti per la settimana

shopping Sono arrivati i pomodori ticinesi Attualità È iniziata la stagione per l’ortaggio nostrano più apprezzato dai consumatori

L’aromatico Cuore di bue nostrano.

(Giovanni Barberis)

Cherry, ramato, tondo, carnoso, cuore di bue, datterino, S. Marzano… i pomodori della nostra regione nelle più svariate tipologie sono finalmente ritornati in forze sugli scaffali dei reparti verdura dei supermercati di Migros Ticino. Il pomodoro è a livello nazionale l’ortaggio più amato: ogni svizzero ne consuma mediamente qualcosa come 10 kg all’anno. In Ticino la superficie del territorio destinata alla coltivazione del pomodoro è di ca. 250’000 metri quadrati, ciò che corrisponde ad una produzione annua di ca. 5000 tonnellate. Il 70% della produzione prende la via dei mercati d’oltre Gottardo. Su tutto il territorio cantonale si contano una trentina di orticoltori che coltivano pomodori secondo i criteri di «SwissGap», ossia con metodi rispettosi dell’ambiente.

La classifica I pomodori nostrani più venduti da Migros Ticino durante la scorsa stagione

1. Ramato Maturato e venduto sul proprio ramo: per questo acquisisce un sapore molto intenso. Come per il cugino tondo, si presta a molti usi.

2. Cherry Gustati come saporiti bocconcini dolci oppure saltati brevemente in padella, i pomodorini cherry hanno conquistato anche i bambini.

3. Cuore di bue Di pezzatura grossa, carnoso, il cuore di bue è povero di succo, molto aromatico, dolce e privo di acidità. È ideale per insalate.

4. Tondo È un pomodoro molto versatile, con polpa soda e succosa e pelle liscia. Si presta bene per insalate, sughi o per essere farcito.

5. Carnoso Più dolce del pomodoro tondo, è particolarmente indicato per essere farcito oppure anche per preparare sfiziose zuppe.

6. Datterino Il piccolo snack dalla forma caratteristica spicca per il suo sapore intenso. È molto amato dai bambini per la sua dolcezza.

7. S. Marzano Il pomodoro da salsa per eccellenza.

Sprigiona tutto il suo aroma con la cottura ma il suo lieve sapore dolciastro è apprezzato anche da freddo.

8. Intense Il pomodoro che non perde il sugo, non sgocciola e non si sfalda: ideale per grill, bruschette, al forno o caprese. Si conserva a lungo.

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Idee e acquisti per la settimana

Il pane del mese Attualità Dal 1° al 30 giugno si potrà gustare il pane Schlumberger Lo Schlumberger è un pane chiaro molto croccante, composto da sei micche che nella forma ricordano una rosetta. Già conosciuto nella regione di Basilea dagli inizi del secolo scorso, è tuttavia originario della vicina Alsazia. Il pane prende infatti il nome del banchiere alsaziano Amedée Schlumberger, il quale verso la seconda metà del 1800 dovette lasciare la sua regione per la Svizzera a causa dell’occupazione tedesca. Una delle poche cose della sua terra che ricordava con nostalgia era un panino di farina chiara che aveva accompagnato tutta la sua vita.

Schlumberger diede l’incarico ad un panettiere basilese di produrre questo pane che ricordava la sua infanzia.

Il pane ottenne un ottimo successo e divenne una specialità fissa della gastronomia locale. Il pane Schlumberger si distingue non solo per la sua sapidità ma anche per la sua praticità: le sei micche di cui è formato si possono staccare facilmente con le mani per trasformarsi in croccanti panini da farcire a piacere.

Pane Schlumberger TerraSuisse 360 g Fr. 3.–

Serate in panetteria per adulti

Flavia Leuenberger

Giovedì 9 giugno, dalle 17.30 alle 20.00 ca., nelle panetterie della casa di S. Antonino e Serfontana, è prevista una serata in panetteria riservata agli adulti (10 partecipanti per filiale).

Con l’aiuto dei nostri panettieri, si potranno preparare squisite specialità rustiche. Per partecipare è necessario iscriversi telefonando al no. 091 840 12 61, martedì 31 maggio, a partire dalle ore 14.00.

Valido per chi non ha partecipato agli ultimi due appuntamenti.

Tempo di grigliate: le costine Serie I consigli dell’esperto Signor Dodi, perché le costine sono tanto apprezzate?

Credo che di principio sia perché si parla di una tradizione ben radicata in Ticino. Le costine le mangiavamo già da quando imparavamo a fare i primi passi ed è il pezzo di carne per antonomasia, quando si parla di grigliata.

Inoltre il loro gusto dato dal mix

Novità: ordina le tue grigliate Da subito puoi ordinare la tua carne per il grill comodamente da casa e ritirarla presso le filiali Migros di: ■ Locarno ■ Agno ■ S. Antonino ■ Serfontana Vai su: www.migros.ch/grigliate

ottimale tra grasso e carne, insaporito dal fumo che emana la brace, è praticamente inimitabile rispetto ad altri pezzi di carne magari anche più pregiati.

Come si ottengono delle costine belle succose?

È importante non avere fretta nel cuocerle: dopo una prima scottata da entrambi i lati, ad alto calore, le costine vanno fatte cuocere a fuoco lento, alzando la griglia o diminuendo il calore proveniente da brace o fuoco a gas. Vanno in seguito tenute d’occhio, girate regolarmente senza bucarle, e spennellate (consiglio 2 volte per parte) con della birra, che aggiunge un buon sapore alla costina. Tempo di cottura 1 ora e 15, fino ad 1 ora e 30. Il risultato finale dev’essere una costina ben dorata, succosa e la carne deve staccarsi dall’osso senza fatica.

Qual è la marinata più indicata e quanto tempo vanno lasciate marinare?

Patrick Dodi, responsabile assortimento carne e salumeria Migros Ticino.

Personalmente consiglio di non esagerare con le stravaganze. Una marinata piuttosto semplice valorizza il sapore della costina, senza coprirlo con aromi forti. Una marinata semplice consiste in olio d’oliva, sale, pepe macinato fresco, rosmarino, e un poco di senape.

Una chicca per chi ama variare, è aggiungere un po’ di miele alla marinata, ingrediente che dona alle costine un sapore leggermente agrodolce.

Azione 40% Costine di maiale Svizzera 100 g Fr. 1.15 invece di 2.05 Valido dal 31.5 al 6.6

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Idee e acquisti per la settimana

Carne Migros: la scelta degli chef Gastronomia Il ritratto dei ristoranti: Ristorante Stazione di Bodio Costruito nel 1910, l’Albergo Stazione è la più antica struttura alberghiera della Valle Leventina. Da sempre la struttura rappresenta il punto di incontro del paese di Bodio, tanto da essere stata in un primo tempo una sala cinematografica, poi una discoteca, fino alla gestione di oggi che unisce l’attività alberghiera a quella di ristorazione. La discoteca è diventata ora una bella e ampia sala per feste e banchetti, che completa le sale dedicate alla ristorazione situate sul fronte dell’edificio. Nandi e Pascal Mayer, professionisti del settore da 40 anni, gestiscono il ristorante pizzeria con grande attenzione ai prodotti stagionali e del territorio. Si cucinano sia carne sia pesce e i piatti «della casa» sono i rösti con rognone di vitello alla senape della Valle Maggia, il fritto misto e il cordon bleu. La pasta e gli gnocchi sono rigorosamente fatti in casa. La carta dei vini è curata e dedicata prevalentemente alla produzione della Leventina, alla quale si affianca una selezione di vini stranieri, soprattutto pensata per un pubblico locale che a volte ha voglia di esplorare profumi e sapori nuovi.

Come accennato, il ristorante è il punto di riferimento del paese, sin dai tempi della Monteforno, azienda che ha significativamente caratterizzato la storia e l’economia del luogo. Tuttora, durante la settimana, il Bar Ristorante Stazione è una tappa irrinunciabile per cominciare la giornata con un caffè o una vera e propria colazione. Tant’è che il lunedì – giorno di riposo – si chiude sì, ma solo dopo le 11! www.carnemigros.ch

Nandi e Pascal Mayer, titolari del Ristorante Stazione di Bodio. (Flavia Leuenberger)

Ghiaccio tritato e in cubetti Novità Confezioni di ghiaccio già pronto

nelle filiali Migros di Agno e Locarno

Bibite superinfrescanti pronte in un attimo grazie al ghiaccio tritato o a cubetti.

Niente paura di restare senza ghiaccio per bibite, cocktail o aperitivi: grazie alle confezioni di ghiaccio già pronto potrete sempre tenere una bella scorta nel congelatore e servirvene al momento del bisogno. I sacchetti da 2 kg sono in vendita presso le filiali Migros di Agno e Locarno. Il ghiaccio tritato è particolarmente indicato per rinfrescanti cocktail estivi, granite oppure anche per tenere in fresco i buffet freddi. I cubetti di ghiaccio, invece, sono perfetti per tutte le bibite: dal momen-

to che non si incollano tra di loro, sono facili da dosare e sono privi di brina.

Inoltre, grazie ad uno speciale procedimento di produzione, hanno eccellenti proprietà di raffreddamento, mentre il residuo di acqua è minimo.

Ghiaccio tritato o a cubetti 2 kg Fr. 3.90 In vendita presso le filiali Migros di Agno e Locarno

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Idee e acquisti per la settimana

Vinci il nuovo libro di Anna Todd

Scambio figurine

30% sui libri La carriera della giovane scrittrice statunitense Anna Todd è «nata» su Wattpad, il social dedicato alle storie d’amore. Dopo aver scritto il grandissimo successo After, la Todd ritorna in libreria con il romanzo Before, che racconta il prima e il dopo della storia d’amore fra Tessa e Hardin, i due personaggi ispirati agli One Direction.

Il libro narra delle vicende di Hardin prima di conoscere Tessa, il suo amore infinito che gli ha cambiato completamente la vita. Raccontato dal punto di vista di Hardin, Before rivela tutto il mondo di After prima che sia stato narrato, e ci permette di rivedere questa appassionante storia con occhi nuovi.

Lasciatevi sorprendere…

Mercoledì 1. giugno, dalle ore 14.00 alle 17.00, nei Ristoranti Migros di S. Antonino, Grancia, Agno e Serfontana, è prevista una borsa di scambio spontanea delle figurine Football Stars. Gli appassionati potranno scambiarsi le figurine doppie e trovare quelle mancanti per completare

Offerta valida fino al 04.06.2016 in tutti i reparti libri di Migros Ticino.

l’album delle stelle del calcio svizzero.

La raccolta vuole celebrare l’evento calcistico dell’anno, gli Europei in Francia, dal 10.6 al 10.7. Questa promozione esclusiva, che si è svolta dal 19.4 al 30.5, si compone di 120 figurine dei giocatori di punta della nazionale svizzera.

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Concorso

In palio cinque copie del romanzo Before di Anna Todd.

Compila questo tagliando, ritaglialo e imbucalo nell’apposita urna presso i reparti libri Migros di Locarno, S. Antonino, Lugano, Agno e Serfontana. Ultimo termine di partecipazione: 11 giugno 2016.

Un solo tagliando per partecipante.

Esclusi collaboratori di Migros Ticino.

Nome

Cognome

Indirizzo

E-mail

Top10 CD

Top10 DVD

Top10 Libri

1. Zucchero

1. Piccoli Brividi

1. Andrea Vitali

Black Cat 2. Francesco Renga

Scriverò il tuo nome 3. Renato Zero

Alt 4. Beyoncé

Lemonade 5. Elisa

On 6. J-Ax

J-Ax & Friends (2 CD+Sticker) 7. Baglioni e Morandi

Capitani coraggiosi (2 CD) 8. Alessandra Amoroso

Vivere a colori 9. Coldplay

A Head Full Of Dreams

J. Black, O. Rush 2. Il piccolo principe

Animazione 3. Revenant

L. Di Caprio, T. Hardy 4. The Hateful Eight

S.L. Jackson, K. Russel 5. Steve Jobs

M. Fassebender, K. Winslet 6. Quo Vado?

C. Zalone, E. Giovanardi 7. Creed

S. Stallone, M. B. Jordan

Le mele di Kafka, Garzanti 2. Jeffrey Deaver

Il bacio d’acciaio, Rizzoli

9. Joy

La strategia di Bosch, Piemme 4. Anna Todd

Before, Sperling 5. Sylvia Day

Insieme a te, Mondadori 6. Lisa Hilton

Maestra, Longanesi La meraviglia degli anni imperfetti, Garzanti 8. Alex Connor

Cospirazione Caravaggio, Newton

J. Lawrence, B. Cooper

Now Summer Hits 2016

10. Star Wars 7

Migros adegua i prezzi di diversi prodotti. A causa della diminuzione nei prezzi del latte sono più convenienti la ricotta magra e il latte UHT M-Budget.

Un aumento si riscontra invece nella linea Bio Herbamare e Bio Trocoma-

re, a causa dei prezzi più elevati presso i fornitori regionali di verdure e erbe biologiche. Aumento dei prezzi per le materie prime nel settore della carne di manzo portano invece a un rincaro di diversi prodotti a base di carne secca.

7. Clara Sanchez

9. Nicholas Sparks 10. Artisti Vari

Informazioni sui cambiamenti di prezzo

3. Michael Connelly

8. Point Break

L. Bracey, T. Palmer

Il barometro dei prezzi

Nei tuoi occhi, Sperling

H. Ford, M. Hamill 10. Geronimo Stilton

Viaggio nel tempo 9, Piemme

Alcuni esempi:

Prezzo vecchio in Fr.

M-Budget quark magro, 500 g M-Budget latte UHT, 2 l Alimento per animali, conf. 500 g, surg.

Bio Herbamare Original, 250 g Bio Trocomare, 250 g Carne secca dei Grigioni, fino, 97 g Carne secca affumicata, vaschetta mini, 100 g Carne secca dei Grigioni, vaschetta maxi, 110 g Swiss Beef Chips, 85 g Bio Möckli di manzo, 100 g

1.25 1.90 4.80 4.10 4.80 8.60 8.55 9.20 5.50 7.50

Nuovo in Fr.

in %

1.20 1.85 5.20 4.25 4.85 9.— 8.80 9.60 5.70 7.70

–4,0 –2,6 8,3 3,7 1,0 4,7 2,9 4,3 3,6 2,7

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Idee e acquisti per la settimana

Smoothie

Il gustoso mix dell’estate Sono saporiti, nutrienti e sono facili da preparare: ecco gli smoothie. Bastano un buon frullatore mixer, della frutta fresca, verdura ed erbette aromatiche: tutti ingredienti disponibili in un’ampia scelta alla vostra Migros. La parte liquida può invece essere costituita da acqua, succo di frutta o latte. In diverse filiali Migros il 3 e 4, come pure il 10 e 11 giugno, si potranno gustare diverse varietà di smoothie preparati freschissimi.

Degustazioni 3-4.6 Migros Taverne 10-11.6 Migros Bellinzona e Serfontana Scopri altre gustose ricette su www.migros.ch/ frutta-verdura

Smoothie di albicocca e pomodoro Per 2 bicchieri da ca. 3,5 dl

Ingredienti 200 g di albicocche, fredde 250 g di pomodori, freddi 2,5 dl di succo di mele, freddo 2 gambi di basilico

Gli smoothie forniscono al corpo importanti vitamine, sali minerali e sostanze vegetali.

Preparazione Dimezzate le albicocche, snocciolatele e tagliatele a pezzetti. Tagliate i pomodori in spicchi. Versate nel frullatore le albicocche, i pomodori, il succo di mele, le foglioline di basilico e frullate bene.

Servite freddo.

Aggiunta Frullate nello smoothie anche 2 cucchiai di semi di sesamo.

Tempo di preparazione ca. 10 minuti.

Un bicchiere ca. 3 g di proteine, 1 g di grassi, 26 g di carboidrati, 500 kJ/120 kcal.

Ricette di

www.saison.ch

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Idee e acquisti per la settimana

Grigliate

Il petto o la coscia?

Non devono essere sempre bistecche e luganighe. Perché non mettere sulla griglia un tenero petto di pollo o una succulenta coscia? Oppure un’aletta, così deliziosamente croccante. Con le appetitose specialità di pollo marinato di Optigal si ha solo l’imbarazzo della scelta. Una cosa è certa: la carne di pollo è povera di grassi, quindi ideale per la dieta estiva improntata alla leggerezza. E, con i prodotti da griglia Optigal, preparare qualcosa di gustoso è questione di un attimo. Un po’ d’insalata o di Tabulé e il contorno è fatto!

Chi, però, se ne infischia delle calorie accompagna la grigliata con pane all’aglio e patate al forno abbondantemente ricoperte di panna acida. Da sapere: con i prodotti di Optigal sulla brace finiscono solo polli svizzeri d’alta qualità. Sono allevati in Svizzera da piccole e medie aziende agricole che prestano particolare attenzione al benessere degli animali. Inoltre i polli hanno accesso ad uno spazio esterno.

Optigal Petto di pollo BBQ per 100 g* Fr. 2.60

Maggiori informazioni sulle grigliate al sito www.laveraestate.ch

Alberto Lucca è capo-macellaio alla filiale Migros di Serfontana.

Alberto Lucca

«Croccante fuori, tenero dentro» Signor Lucca, come consiglia di grigliare il pollo ai suoi clienti? È molto importante il dosaggio corretto della temperatura. In una prima fase, la carne dovrebbe essere grigliata con poco calore, poi ad alta temperatura. In questo modo diventa croccante all’esterno e succosa all’interno.

Per una coscia di pollo le due fasi durano circa un quarto d’ora ciascuna. Durante la seconda fase, il nucleo dovrebbe scaldarsi a 72 gradi, perciò consiglio di dotarsi di un termometro da cucina da infilare nella carne.

In questo modo si tiene sotto controllo la temperatura.

Optigal Spiedini di pollo marinati* per 100 g* Fr. 3.55

Cos’altro si può fare per rendere gustoso il pollo?

Sono molto consigliate le nostre marinate per il pollame. Esse danno al pollo un leggero gusto di curry che si abbina molto bene a questa carne.

Con la carne di pollo già marinata si risparmia tempo. Chi non vuole le spezie, insaporisce i pezzi di pollo con un pizzico di sale e li cosparge d’olio vegetale. Oppure si possono speziare con erbe aromatiche fresche.

Optigal Coscia di pollo alla paprika per 100 g* Fr. 1.40

Quali prodotti di pollo del banco della carne preferisce Lei? Gli spiedini di pollo nelle più diverse varianti. È sempre bello mettere qualcosa di speciale sulla griglia. In fondo, non si griglia un po’ anche per fare bella figura con gli ospiti?

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Idee e acquisti per la settimana

Da sapere

Quattro consigli d’igiene quando si griglia il pollo Quando si maneggia la carne di pollo è indispensabile rispettare alcune regole. L’igiene è fondamentale!

1. Conservazione Dopo aver fatto la spesa portate subito a casa il pollame e mettetelo in frigorifero e nel congelatore. Fate attenzione che durante la conservazione in frigorifero non fuoriescano liquidi dalla carne. Per scongelarli, togliete i prodotti dall’imballaggio, lasciateli in un piatto e una volta scongelati gettate via i liquidi fuoriusciti.

2. Preparazione Dopo l’uso, lavate i coltelli e il tagliere con acqua bollente e detersivo.

Bisognerebbe lavarsi di continuo anche le mani e non utilizzare la marinata avanzata per preparare altre pietanze.

3. Pulizia della cucina I cuochi professionisti lo fanno: per preparare la carne utilizzano altri coltelli e ripiani. Così facendo, evitano che le verdure crude vengano a contatto con il pollo.

4. Grigliare Cuocete bene il pollo da tutte parti, finché non saranno più visibili punti in cui la carne è rosa e non fuoriesce più succo. Mettete la carne grigliata sempre su piatti puliti.

Suggerimento Con il pollo alla griglia si sposano bene i chutney e altre salse alla frutta.

Optigal Ali di pollo speziate* per 100 g Fr. 1.45

Optigal Poulet Sticks* per 100 g Fr. 1.40

Il pollo grigliato trova sempre qualcuno che non vede l’ora di afferrarlo. Molto amate come contorno sono le country potatoes o gli spicchi di patate dolci arrosto con panna acida ed erbette.

Optigal Spiedi di pollo India* per 100 g Fr. 3.25

Optigal Cosce inferiori di pollo speziate* per 100 g Fr. 1.60

Optigal Alette di pollo speziate* per 100 g Fr. 2.–

Optigal Pollo alla paprika* al kg Fr. 10.20

* In vendita nelle maggiori filiali Migros.

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Idee e acquisti per la settimana

M-Classic

Tanto gusto per le provviste Non c’è gita senza zainetto riempito di provviste! Per queste ci sono i panini al burro, i sandwich e i panini Sils di M-Classic. I bambini li preferiscono farciti con salame, formaggio, affettati, prosciutto e fleischkäse. A seconda dei gusti, ci sono anche ce-

triolini sottaceto, ravanelli o, ancora, un uovo sodo. Questi panini M-Classic sono prodotti con farina di elevata qualità TerraSuisse di cereali coltivati in Svizzera e possono essere conservati da uno a due giorni in un luogo fresco.

Nelle classiche provviste per una gita scolastica o un’escursione i panini non mancano mai.

M-Classic TerraSuisse Sandwiches 4 pezzi/260 g Fr. 2.–

M-Classic TerraSuisse Panini Sils 6 pezzi/300 g Fr. 3.40

M-Classic TerraSuisse Panini al burro 5 pezzi/325 g Fr. 2.80

L’M-Industria produce numerosi prodotti Migros, tra cui anche il pane di M-Classic.

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AGNELLO AL PROFUMO DI ROSMARINO Una carne tenera e gustosa come piace ai nostri vicini d’oltre confine: rosa al centro e aromatizzata al rosmarino. Per accompagnarla, niente di meglio di un cremoso risotto al taleggio. Tutti gli ingredienti sono in vendita alla Migros. Trovate la ricetta delle costolette d’agnello al rosmarino con risotto su www.saison.ch/it/consigliamo

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Pollo speziato cotto al grill Svizzera, al pezzo, nelle maggiori filiali

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Prosciutto cotto Puccini prodotto in Ticino, affettato fine in vaschetta, per 100 g

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Sminuzzato di manzo TerraSuisse Svizzera, imballato, per 100 g

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2.50 invece di 3.80

Salmone selvatico Sockeye MSC pesca, Alaska, 280 g

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Furmagèla (formaggella della Leventina) prodotta in Ticino, a libero servizio, per 100 g

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Filetti di platessa MSC pesca, Atlantico nord-orientale, per 100 g (fino al 4.6)

Treccia di mozzarella in conf. da 200 g

Spinaci Svizzera, imballati, 500 g

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Ciliegie bio Italia / Spagna, in conf. da 500 g

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20% Azione assortimento Tutto l’assortimento Thai Kitchen per es. pasta di curry rosso, 225 g, 3.60 invece di 4.50

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20% Azione assortimento Tutti i biscotti in sacchetto Midor (prodotti Tradition esclusi), per es. schiumini al cioccolato, 175 g, 1.80 invece di 2.30

Carta igienica Soft in confezioni speciali, FSC per es. Deluxe, 24 rotoli, 13.– invece di 18.60, offerta valida fino al 13.6.2016

25% Conf. da 3 in azione Biscotti Walkers in conf.da 3 Highlanders, Chocolate Chip o Chocolate Chunk, per es. Highlanders, 3 x 200 g, 9.95 invece di 13.50

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20% Tutti i gelati in coppetta per es. Ice Coffee, 165 ml, 1.40 invece di 1.80

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20% Azione assortimento Tutte le tavolette, le palline o tutti i Friletti Frey Suprême, UTZ a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione, offerta valida fino al 13.6.2016

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16.80 invece di 19.80 Tutte le capsule Delizio, 48 pezzi, UTZ per es. Lungo Crema

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Tutte le linee di bicchieri Cucina & Tavola Hygo WC in conf. da 3 per es. Classico Rosso, 3 x 32 cl, 4.90 invece di 9.80, per es. Maximum Power Gel, 3 x 750 ml, 7.80 invece offerta valida fino al 13.6.2016 di 11.70, offerta valida fino al 13.6.2016

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Altre offerte.

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Trio Pack Rio Mare, 3 x 104 g e 3 x 112 g, per es. tonno rosa Rio Mare, 3 x 104 g, 9.10 invece di 11.40 20%

Petto di pollo Optigal, 4 pezzi, Svizzera, per 100 g, 1.95 invece di 3.30 40% Offerta valida dal 2.6 al 4.6.2016

Palline di cioccolato Frey al latte finissimo con soggetto calcistico, UTZ, 1 kg, 12.40 invece di 24.80 50%

Pane e latticini Tutti i biscotti freschi, per es. amaretti ripieni, 210 g, 4.45 invece di 5.60 20%

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Tutti gli articoli M-Plast per es. cerotti Sensitive, conf. da 10, 2.15 invece di 2.70

Altri alimenti

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Tavoletta da nuoto in neoprene con pregiato rivestimento in neoprene stampato, aerodinamica, dimensioni 45 x 30 x 4 cm, il pezzo

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9.80 Materassino gonfiabile Intex con due camere d’aria, grigio, dimensioni 188 x 89 cm, il pezzo

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14.80 Bestway Clown Fish Ride On indicato a partire da 3 anni, dimensioni 158 x 94 cm (sgonfio), maniglie robuste, il pezzo

Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 30 maggio 2016 ¶ N. 22

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 30 maggio 2016 ¶ N. 22

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Idee e acquisti per la settimana

Moda balneare

Criteri d’acquisto e cura

Ellen Amber

Ad ogni fisico il suo costume Con un nuovo costume da bagno l’estate si annuncia più eccitante

Intero o due pezzi? Dipende dal fisico.

Uno o l’altro può mettere in risalto le doti migliori… Migros propone i bikini «Mix and Match» di Ellen Amber, i cui due pezzi si possono combinare a piacere a seconda della taglia, per adattarli alle propri forme del corpo. Così, anche

le donne dal seno prosperoso troveranno la combinazione appropriata, poiché molte coppe sono disponibili anche nelle misure C e D. Oltre ai bikini, la Migros offre un’ampia scelta di costumi interi e di tankini. Così, ogni donna trova il costume adatto per le vacanze al mare o semplicemente per prendere il sole in balcone.

Costume intero color smeraldo gr. 38-48 Fr. 39.80 Borsa da spiaggia bianca con la stella* Fr. 24.90 * Nelle maggiori filiali

Tessuto Prima di comprare un costume da bagno bisogna chiedersi: è per prendere il sole o per fare il bagno?

Gli indumenti balneari con un’alta percentuale di cotone si asciugano più lentamente e quindi non sono particolarmente appropriati per l’acqua, ma piuttosto per i bagni di sole.

Chi, invece, vuol trascorrere tanto tempo in mare o in piscina dovrebbe fare attenzione che il tessuto sia un composto di elastomero poliammidico.

Maggiore è la percentuale di elastan, maggiore è l’elasticità. La poliammide conferisce resistenza alla deformazione.

Set bichini gr. 36-42 con coppa B* gr. 36-44 con coppa C Fr. 29.80 * Nelle maggiori filiali

Colore Bikini, tankini e costumi interi in tinte chiare come il giallo, l’arancione oppure l’oro stanno bene specialmente alle donne dalla carnagione scura. Viceversa, sulle pelli più chiare stanno meglio le tinte scure. Le donne formose dovrebbero evitare i modelli dai colori sgargianti, perché le fanno apparire più grosse.

Lavaggio Cloro, acqua salata e creme solari mettono a dura prova le fibre di elastan. Perciò, dopo averli indossati, bisognerebbe sempre lavare i costumi a mano con un detersivo per capi delicati e poi risciacquarli bene con l’acqua. Ogni tanto si possono mettere in lavatrice con un ciclo delicato, meglio se riposti in un apposito sacchetto per il bucato.

Tankini Pezzo superiore gr. 38-48 Fr. 24.80 Slip pieghettato gr. 36-48 Fr. 14.80 Cappello da spiaggia Fr. 19.80

Aggiusta la linea: Il tankini consiste in uno slip e in una parte superiore lunga, che cela abilmente l’adipe addominale.

Snellisce: Chi vuole camuffare qualche chilo in più sceglie un costume intero con pieghe a tinta unita.

I bikini a tinta unita esaltano la silhouette.

L’arancione è articolarmente appropriato alle carnagioni abbronzate.

Novità

PUNTI

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Novità 10.80 10 80 Kneipp® Lozione per il corpo ReVital, 200 ml

Novità 13.80 13 80 Kneipp® Crema da giorno ReVital, 50 ml

Novità 15.80 15 80 OFFERTE VALIDE SOLO DAL 31.5 AL 13.6.2016, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

Kneipp® Crema da notte ReVital, 50 ml

Kneip pp è in vendita alla tua Migros e su LeShop.c ch

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Idee e acquisti per la settimana

Farm Chips

Croccante e piccante piacere Proprio in contemporanea con gli Europei di calcio, evento che promette appassionanti serate davanti alla TV, la famiglia di Farm Chips si arricchisce di due varietà particolarmente aromatiche. Mentre le apprezzate Chips Barbabietola & Nature sono di ritorno in Limited Edition, ecco giungere come novità la variante con peperoncino delle Alpi, che non mancherà di ingolosire gli amanti dei sapori piccanti.

Tutte le Farm Chips sono prodotte con ingredienti svizzeri. Queste chips a base di patate con la buccia e barbabietole tagliate spesse sono buone come quelle fatte in casa.

Nelle Alpi svizzere si coltiva il peperoncino. Il clima aspro conferisce un aroma intenso.

Peperoncino delle Alpi In Svizzera da oltre 25 anni i peperoncini alpini si sono ben acclimatati. Essi prosperano nell’Oberland bernese ad un’altezza da 600 a 1000 metri.

Vengono piantati in primavera e la raccolta avviene tra agosto e ottobre con le prime gelate.

Nuovo Farm Chips con peperoncino dolce delle Alpi svizzere

I peperoncini biologici coltivati sono lunghi da 8 a 15 centimetri e crescono lentamente nell’aspro clima alpino. In questo modo sviluppano il loro intenso aroma.

Farm Chips Barbabietola & Nature* 150 g Fr. 2.90

Farm Chips Peperoncino delle Alpi* 150 g Fr. 2.90

*Nelle maggiori filiali

Tutto è pronto: saporite Farm Chips per (si spera) partite di fuoco.

L’Industria Migros produce numerose specialità, tra cui anche le Farm Chips.

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Idee e acquisti per la settimana

Namaste India

Il banchetto indiano 2

1 3 4

Offerta speciale 20x Punti Cumulus Sull’intero assortimento Namaste India fino al 6 giugno

Tra i prodotti Namaste India c’è tutto il necessario per imbandire una Thali, la tipica combinazione di pietanze indiane.

Grazie ai prodotti della marca Namaste India, il subcontinente indiano approda sulle nostre tavole: riso precotto, pane chapati, chips di lenticchie e salsa allo yogurt si abbinano perfettamente a una miscela di curry, pomodori e peperoni, come d’altronde a un curry alla crema di cocco. Le salse possono diventare un condimento per verdure e carne di pollo.

I prodotti si conservano a lungo non refrigerati e vanno messi in frigorifero solo una volta aperti. Namasté e… buon appetito!

Namaste India Salsa Korma 350 g Fr. 4.10 Nelle maggiori filiali

1

Namaste India Tikka Masala Curry 350 g Fr. 4.10

2

Namaste India Raita dip 175 g Fr. 2.90 Nelle maggiori filiali

3

Namaste India Papadum Chips 70 g Fr. 2.90

4

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Idee e acquisti per la settimana

Cucina & Tavola

Professionalità in cucina

Per paste e minestre Le pentole d’acciaio della linea Gastro sono disponibili in forme e dimensioni diverse. Sono adatte anche alle piastre a induzione.

Pentola Gastro 24 cm/6,5 l* Fr. 29.50 invece di 59.–

Per lasagne e gratin Le teglie d’alluminio della linea Lasagniere sono molto maneggevoli e, grazie al loro rivestimento antiaderente, sono facili da pulire anche in lavastoviglie.

Lasagniere Prima* Fr. 12.45 invece di 24.90

50% di sconto sul pentolame delle serie Prima e Gastro dell’assortimento Cucina & Tavola, fino al 6 giugno Per pesce e verdure Le padelle d’acciaio con rivestimento in teflon sono particolarmente adatte per cuocere delicatamente il pesce o per friggere le verdure e le pietanze a base di uova.

Padella Gastro adatta all’induzione, 28 cm* Fr. 19.90 invece di 39.80

Per bistecche Il rivestimento antiaderente di ceramica è ideale per arrostire la carne ad alta temperatura.

Padella piatta Gastro adatta all’induzione, 24 cm* Fr. 17.40 invece di 34.80 * nelle maggiori filiali

La Svizzera gioca e tu vinci.

PUNTI

2x 5x x 0 1 PUNTI

PUNTI

Grandi vantaggi dopo ogni

partita della Svizzera!

Il primo giorno lavorativo dopo una partita della Svizzera agli Europei, vieni ad approfittarne in tutte le filiali Migros, nei negozi specializzati, nei punti gastronomici e su LeShop.ch. Se vince la Svizzera, ti aspettano punti moltiplicati per 10, se pareggia, punti moltiplicati per 5 e in caso di sconfitta, punti moltiplicati per 2.

Sono esclusi sacchi e bollini con tassa, vignette, depositi, schede telefoniche, prestazioni di servizio incl. prestazioni di Migros-Service, e-loading, carte iTunes/app, carte SIM, buoni, carte regalo e Smartbox.