Azione 08 del 22 febbraio 2016

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXIX 22 febbraio 2016

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Azione 08

Società e Territorio La solitudine è un problema sempre più diffuso e, paradossalmente, aggravato dai social network

Ambiente e Benessere Per far fronte ai dolori della cervicale, elaborato un nuovo approccio multidisciplinare in cui la parte fisioterapica attiva è appannaggio del paziente

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Politica e Economia Sempre più, la guerra in Siria e Ucraina serve a far dimenticare la crisi economica in Russia

Cultura e Spettacoli A Firenze una piccola ma preziosa mostra celebra il pittore Carlo Portelli

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Daisy Gilardini

Yellowstone, arcaico paradiso

di Daisy Gilardini pagina 17

Avevamo occhi diversi di Peter Schiesser In questi tempi di muri che sorgono per respingere i migranti, forse le generazioni più giovani non sanno, e quelle più anziane non ricordano, che anche solo 35 anni fa chi fuggiva dalla guerra e dalla dittatura era visto e accolto con simpatia. Eravamo giovani liceali quando nel 1980 i Boat people vietnamiti giunsero in Svizzera e anche in Ticino. La curiosità e la solidarietà umana verso chi fuggiva dal proprio Paese in barconi di ogni genere a rischio della vita favoriva incontri, amicizie, anche qualche amore, in un clima umano accogliente da entrambe le parti. Li si ascoltava stupiti spiegarci in un inglese stentato la ricchezza della loro lingua, con la sinfonia di accenti che modella il significato di ogni parola, le loro esotiche abitudini culinarie, i racconti della loro vita laggiù, in quel Paese che conoscevamo solo dalle cronache di guerra. E così era successo pochi anni prima, quando giunsero i cileni che fuggivano da un’altra dittatura, questa volta di destra, quella di Pinochet: altre amicizie, altri amori. E qualche anno prima di loro erano giunti, accolti con simpatia e solidarietà, i tibetani fuggiti dall’esercito cinese e (forse meno in Ticino)

gli ungheresi che si erano trovati i carri armati dell’Armata Rossa a Budapest, nel 1956. Ma da allora il mondo non si è di certo calmato, altre guerre e dittature hanno generato nuovi profughi, sempre di più, e il loro numero è cresciuto anche in Svizzera. Ad un certo punto, la curiosità ha cominciato a lasciare il posto alla paura. Ricordo negli anni Ottanta i titoli allarmati del «Blick» sui tamil dello Sri Lanka, i nervosismi che si riflettevano sulla stampa nazionale quando negli anni Novanta giunsero i profughi dall’ex Jugoslavia. Anche loro nel frattempo si sono integrati, hanno arricchito il tessuto sociale svizzero e ticinese. Eppure, le paure non sono sparite, anzi, con l’arrivo di sempre nuovi profughi sono aumentate e, come primo riflesso spontaneo, hanno sostituito lo spirito di accoglienza. Forse è semplicemente normale, quando i numeri diventano troppo grandi per la nostra immaginazione. Ma noi ci siamo accorti del cambiamento che è avvenuto in noi e nella nostra società? Ci rendiamo conto che ci siamo lasciati derubare del senso di umanità con cui ci rivolgevamo al prossimo e che questo ci rende più poveri? Come è potuto accadere? Non idealizziamo: le paure di inforestieramento sono presenti in

Svizzera da molto tempo, ne hanno fatto le spese i lavoratori italiani negli anni Sessanta e via di seguito altri immigrati. Ma verso chi fuggiva da guerre e dittature l’atteggiamento era diverso, si guardava con empatia negli occhi di chi approdava dalle nostre parti senza più nulla che un misto di disperazione e speranza. Al contrario, oggi Angela Merkel viene criticata per avere aperto le porte, anziché erigere muri. L’impotenza di risolvere una situazione genera paure e oggi spinge molti governi a reagire impulsivamente, con gesti solo apparentemente liberatori. Anziché unirsi per affrontare l’emergenza profughi, molti Stati prediligono la via solitaria: chiudere le frontiere, introdurre contingenti massimi, come sta facendo l’Austria che ora non intende accogliere più di 80 richiedenti l’asilo al giorno (e 3200 in transito verso la Germania), per un massimo di 37’500 l’anno (a metà febbraio siamo già a 11mila). Se questo sia sufficiente per fermare le masse di disperati resta da vedere. Potrebbe rivelarsi un’illusione, con ricadute negative per i migranti, ma anche per la coesione dell’Unione europea. In realtà, tutti sanno che l’unica soluzione sta nel porre fine al conflitto in Siria. Ma qui ci scontriamo con l’enorme senso di impotenza con cui siamo chiamati a convivere.


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