

Tutti i tipi di Caffè Latte Emmi per es. macchiato, 230 ml, 1.68 invece di 2.10, (100 ml = 0.73)
20%
Bevande energetiche al latte Emmi per es. Protein alla vaniglia, 330 ml, 2.28 invece di 2.85, (100 ml = 0.69)
Bevande I'm your meal Emmi gusto cioccolato, fragola e vaniglia, 500 ml, 3.96 invece di 4.95, (100 ml = 0.79)
conf. da 12 20%
7.60 invece di 9.50 Yogurt da bere Aktifit Emmi fragola, pesca e frutta esotica, 12 x 65 ml, (100 ml = 0.97)
2.10
invece di 2.80
Formaggio cremoso Luzerner Emmi circa 280 g, in conf. speciale, per 100 g 25%
conf. da 12 20%
Benecol Emmi lampone, fragola o mirtillo, per es. fragola, 12 x 65 ml, 9.20 invece di 11.50, (100 ml = 1.18)
Sostituti del latte Emmi beleaf bevanda all'avena, bevanda alle nocciole e all'avena e alternativa alla crème fraîche, per es. bevanda all'avena Nature, senza zuccheri aggiunti, 1 litro, 2.56 invece di 3.20 20%
3.20 invece di 4.40
Yogurt Pur Emmi disponibili in diverse varietà, 4 x 150 g, (100 g = 0.53)
1.48
Yogurt ai frutti di bosco Emmi Mix it 250 g, (100 g = 0.59) 20%
invece di 1.85
edizione
MONDO MIGROS
Pagine 5 / 8
SOCIETÀ
Intervista alla professoressa Sara Rubinelli che analizza l’impatto dei social media sulla nostra vita
Pagina 7
La necessità di ripensare l’aiuto umanitario e il ruolo della Svizzera in un contesto di grossa crisi
ATTUALITÀ Pagina 15
Un collettivo di associazioni attive nella difesa dei diritti umani e della democrazia ha firmato nei giorni scorsi un contributo apparso su «Le Monde» per chiedere all’Europa di diventare il nuovo leader del mondo libero.
«Oggi, nel 2025 – scrivono i firmatari, provenienti da Francia, Germania, Ucraina e Georgia – constatiamo con tristezza che gli Stati Uniti, un tempo leader del mondo libero, si sono progressivamente ritirati dalle loro responsabilità internazionali. Poi, sotto la nuova amministrazione Trump, gli Stati Uniti non hanno smesso di allinearsi alle narrative autoritarie di Vladimir Putin, hanno tagliato finanziamenti cruciali per le iniziative internazionali, hanno agito contro la Corte penale internazionale, hanno interrotto il sostegno a diversi giornalisti, hanno minacciato d’espellere rifugiati politici e ricercatori. Questo ripiegamento ha lasciato un vuoto nella governance mondiale che solo l’Unione europea può ormai colmare». La diagnosi dei mali menzionati è corretta. Ne scrive su «Azione» anche Paola Peduzzi a pag. 19: «Un Paese che è stato un rifugio sicuro per la dissidenza globale – senza quel porto in cui approdare, ad esempio, gran parte delle idee, della scienza, degli intellettuali europei sarebbe stata spazzata via dai totalitarismi del Novecento – ora diventa inaffidabile e ostile». Del resto, è sotto gli occhi di tutti che se non ci si può lucrare sopra, magari assicurandosi l’uso delle terre rare ucraine o lo sfruttamento del territorio di Gaza per la creazione di una specie di Club Méditerranée sloggiato dai palestinesi, la guerra è un fastidio di cui Donald Trump non ha nessuna intenzione di occuparsi. Si direbbe che nella sua testa non esi-
stano negoziati di pace, ma solo trattative d’affari. A giudicare dal modo in cui gestisce la crisi ucraina e quella mediorientale, l’amore per la giustizia, il tentativo di ristabilire torti e ragioni non ha la minima importanza. Conta solo il portafoglio. Una volta la grande generosissima America ci metteva vite umane e mezzi.
Oggi, se i negoziati sono un’operazione economicamente a perdere, bye bye baby, fa un passo indietro e vinca il più forte.
D’altra parte, però, se c’è un momento storico complicatissimo per chiamare l’Europa al risveglio collettivo e all’orgoglio continentale come risposta di senso al vuoto americano, è questo. Perché per prendere il posto di un colosso come gli Stati Uniti, anche solo dal punto di vista morale (visto che militarmente ed economicamente non c’è confronto) bisogna prima di tutto credere in se stessi. La prima nemica dell’Europa non è l’Amministrazione Trump, è l’Europa. In cinque Paesi oltre il 50% dell’elettorato è euroscettico: Ungheria, Italia, Polonia, Francia e Grecia. In due la percentuale oscilla tra il 25 e il 50% (Svezia e Paesi Bassi). Negli altri, Germania compresa, è in forte crescita. La Svizzera non fa politicamente parte dell’Ue, ma aderisce a molti dei suoi valori. E il dibattito sulla neutralità dimostra quanto sia difficile, anche nel nostro Paese, immaginare una strategia comune col resto del continente. Eppure, «ahora es cuando», non ci sarà dato un altro momento per derogare alla responsabilità di unire le forze per cercare di creare una riserva mondiale di democraticità, gli Stati Uniti del mondo libero. O lo si fa ora, tutti insieme, o finiremo condannati nel migliore dei casi all’irrilevanza planetaria.
Rinnoviamo a tutti i soci l’invito a partecipare alla votazione generale. L’ultimo termine per esprimersi tramite voto elettronico o cartaceo (spedizione o consegna della scheda) è
SABATO 7 GIUGNO 2025
L’iscrizione al VOTO ELETTRONICO per il
CULTURA Pagina 21
Alla Pinacoteca Züst, l’arte libera e tenace di Angelo Giorgetti, artista rimasto lontano dai riflettori
La montagna sacra della Catalogna, Montserrat, celebra un millennio di spiritualità, arte e resistenza
TEMPO LIBERO Pagine 34-35
Festa di Pentecoste
10:00 alle 18:00
(*Centro Grancia chiusura ore 19:00)
migrosticino.ch
Info Migros ◆ Per celebrare l’anniversario dei 100 anni, lo storico mezzo Migros ringrazia offrendo i prodotti Migros più acquistati e apprezzati dalla clientela locale in 100 località della Svizzera; dal 6 al 14 giugno è il turno del Canton Ticino
Quando arriva da noi il camion Migros?
Il Tour di ringraziamento farà ben dieci tappe in Ticino, nei pressi dei Supermercati Migros di:
Faido: 4.6.2025 ore 16.00-19-00
Torta di noci in omaggio
Arbedo-Castione: 5.6.2025 ore 10:00-13:00
Gazosa in omaggio
Giubiasco: 5.6.2025 ore 16:00-19:00
Gelato Cremdor espresso in omaggio
Tenero: 6.6.2025 ore 10.00-13.00 Gelato cappuccino in omaggio
Il Tour di ringraziamento a spasso per la Svizzera è iniziato lo scorso 6 marzo.
In ogni località viene ricreata un’atmosfera festosa da piazza di paese, con panchine, caffè e torte. È previsto anche un piccolo programma di intrattenimento.
Ma perché il Tour de Suisse in camion vendita?
Il camion vendita rappresenta le origini di Migros: 100 anni fa, Migros andava dalla gente e le fermate del camion si trasformavano in luogo di ritrovo nei diversi villaggi. Si è dunque voluto riprendere questo concetto e svilupparlo ulteriormente: è così che è nata l’idea del tour in combinazione con la campagna legata ai prodotti Migros più apprezzati nei singoli Comuni. In
questo modo, i prodotti più amati nelle rispettive località creano un ponte tra la Migros e la gente, dando anche vita a tante piccole storie emotive, che alimentano il legame alla marca Migros. Informazioni
Merci-Bus.ch
Festival ◆ Dal 10 al 20 luglio l’appuntamento è con la buona musica in Piazza Grande a Locarno
Migros da sempre è protagonista dell’estate openair svizzera con i suoi meravigliosi palchi all’aperto e sotto le stelle sparsi nei quattro angoli del Paese. Fra i molti appuntamen-
Azione mette in palio 3x2 biglietti per il concerto di Zucchero (martedì 15 luglio) e 2x2 biglietti per il concerto di Gianna Nannini (giovedì 17 luglio). Per partecipare al concorso mandare una e-mail a giochi@azione.ch (oggetto «Moon&Stars 2025», specificare il concerto cui si vuole partecipare) con i propri dati entro domenica 8 giugno 2025 (estrazione 11 giugno). Buona fortuna!
si trasforma nel
ti di cui è sponsor vi sono i festival musicali estivi, tra cui i grandissimi Paléo di Nyon, Gurtenfestival di Berna, Openair Gampel o Openair Frauenfeld, ma anche Summerstage Basel, Openair Lumnezia e Seaside Festival Spiez. Anche il Ticino può fregiarsi di un suo Festival sostenuto da Migros: quest’anno, dal 10 al 20 luglio, in Piazza Grande a Locarno tornerà per la 21esima volta Moon&Stars. Oltre a una piazza sempre suggestiva come quella locarnese, sono numerose le attrazioni collaterali: appuntamenti per grandi e piccoli (cui è dedicato il palcoscenico di Piazza Magnolia), concerti alternativi, una ruota panoramica e una ricca offerta culinaria con bancarelle e truck food lungo la Food & Music Street, dove si troveranno specialità culinarie come i trendy Smash hamburger e i gyros,
le specialità ticinesi, passando per le piadine e i gelati italiani.
Tanta voglia di divertimento sono infatti da sempre gli ingredienti di questo magico Festival tutto locarnese, che negli anni ha saputo portare alle nostre latitudini stelle musicali del panorama internazionale e nazionale.
La serata di apertura sarà un momento clou con Nek, Rose Villain e Gigi D’Agostino. Nei giorni successivi si esibiranno artisti come Zucchero, Amy Macdonald, Scorpions, Cro, Gianna Nannini, Alvaro Soler, Bastian Baker e molti altri. I momenti da brivido non saranno limitati alla Piazza Grande, ma si estenderanno anche alla Piazza Piccola, dove saranno proposti concerti gratuiti, mentre i DJ si occuperanno di creare l’atmosfera giusta per gli afterparty.
In luglio per dieci giorni Locarno si trasformerà in una capitale della musica votata alla leggerezza e al divertimento, nel nome dei momenti conviviali e di indimenticabili notti stellate. Mettete subito in calendario il periodo dal 10 al 20 luglio! Noi ci saremo, e voi?
Dove e quando Moon&Stars, 10-20 luglio 2025, Locarno. moonandstars.ch/it
Losone: 6.6.2024 ore 16.00-19.00
Blévita in omaggio
Maggia: 7.6.2025 ore 9.30-18.00
Sbrinz in omaggio
Mendrisio Campagna
Adorna: 12.6.2025 ore 16.00-19.00
Madeleine in omaggio
Pregassona: 13.6.2025 ore 10.00-13.00
Pistacchi in omaggio
Tesserete: 13.6.2025 ore 16.00-19.00
Petit Beurre in omaggio
Caslano: 14.6.2025
ore 9.30-18.00
Berliner in omaggio
Info Migros ◆ Il 23 e il 24 maggio le e i clienti sono stati regine e re dei supermercati Migros
Il 23 e il 24 maggio, come molte e molti di voi avranno avuto modo di constatare, nei supermercati Migros, oltre al personale di vendita normalmente presente nelle filiali, ad accogliere la clientela c’erano anche dipendenti Migros impiegate/i nell’amministrazione della Cooperativa Migros Ticino a Sant’Antonino. I dipendenti hanno supportato le colleghe e i colleghi della vendita e si sono dedicati alla clientela, offrendo una bibita, caffè e tortine e indugian-
do in qualche simpatica chiacchiera. L’iniziativa ha avuto un grande successo, soprattutto per chi lavora in ambito amministrativo, che per un giorno ha avuto la preziosa possibilità di confrontarsi con la clientela. Un grazie sentito da parte di Migros Ticino a chiunque abbia partecipato a questa iniziativa, ma soprattutto alle clienti e ai clienti, che con il loro affetto e la loro costanza dimostrano ogni giorno di apprezzare la nostra offerta.
Proteggere la salute della pelle
In estate la cute è più esposta a scottature, irritazioni e infezioni: ne parliamo con la dottoressa Laura Uccella
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Bavona, la forza di reinventarsi
Il premio svizzero per il paesaggio 2025, sostenuto anche dalla Migros, è stato attribuito alla Valle Bavona
Pagine 10-11
Amore e amicizia al tempo del digitale
Tra swipe e silenzi: il nuovo libro della psicologa Cristina Milani invita a riflettere su relazioni e responsabilità emotiva
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Intervista ◆ Oggi i social media sono ambienti in cui si forma e si trasforma l’identità individuale e collettiva, la professoressa
Sara Rubinelli analizza il loro impatto sulla nostra vita
Alessandra Ostini Sutto
Nell’era digitale, i social network sono diventati onnipresenti nella quotidianità della maggior parte di noi. Dalla condivisione di foto e aggiornamenti di stato alla connessione con amici, vecchi e nuovi, e familiari, ci offrono opportunità di interagire con gli altri finora inedite. Una rivoluzione non esente da rischi, perché i social possono influire negativamente sulla nostra salute mentale ed emotiva. Del loro impatto, spesso invisibile, sulla nostra vita, abbiamo parlato con la professoressa, ricercatrice e scrittrice Sara Rubinelli, che al tema ha dedicato una conferenza – tenutasi il mese scorso a Bellinzona – dal significativo titolo Like, ergo sum? – i social media e il dilemma dell’esistenza
Esperta di comunicazione e salute a livello nazionale ed internazionale, Sara Rubinelli è professoressa di Scienze della Salute presso l’Università di Lucerna. Da anni studia come il linguaggio e le strategie comunicative influenzino il benessere psicologico, la percezione della realtà e il rapporto con la tecnologia, approfondendo temi quali la persuasione, la disinformazione e l’impatto dei social media sull’identità digitale. Su queste tematiche è autrice di libri, scrive per il quotidiano «La Stampa» e sui social network con il profilo @comunicalascienza.
Professoressa Rubinelli, qual è attualmente il ruolo dei social media nella nostra vita?
Oggi i social media non sono più soltanto strumenti di comunicazione: sono diventati architetture di senso, ambienti in cui si forma e si trasforma l’identità individuale e collettiva. Essi modellano il modo in cui ci relazioniamo agli altri, agli eventi e, ancor più profondamente, a noi stessi. Sono l’estensione digitale della nostra presenza nel mondo, il luogo dove la narrazione di sé diventa pratica quotidiana e dove l’attenzione, la nuova moneta simbolica, si scambia come bene di consumo. In questo contesto il ruolo dei social media è tanto potente quanto ambiguo: essi offrono opportunità straordinarie di connessione ed espressione, ma al contempo rischiano di intrappolarci in dinamiche di visibilità, competizione e controllo.
I social sono nati per essere degli strumenti di connessione e condivisione; nella realtà dei fatti, sono riusciti a raggiungere questo obiettivo? Concretamente, ci avvicinano davvero agli altri?
La promessa originaria dei social media – connettere le persone oltre i confini geografici e culturali — ri-
mane, almeno in superficie, straordinariamente viva. Tuttavia, la pratica quotidiana ci racconta una storia più complessa: i social ci avvicinano in apparenza, ma spesso ci allontanano in sostanza. Frequentiamo le proiezioni idealizzate degli altri, non le loro presenze autentiche. Ci scambiamo like più che sguardi, commenti più che parole vissute. È un paradosso moderno: mentre moltiplichiamo i canali di contatto, rischiamo di impoverire la qualità profonda delle relazioni. In definitiva, ci avviciniamo agli altri, ma forse ci allontaniamo da ciò che significa davvero «essere in relazione».
Uno degli aspetti problematici in questo ambito è quello relativo all’immagine di sé non sempre reale che viene mostrata sui social; a cosa è dovuto e cosa comporta?
La costruzione dell’immagine di sé sui social si fonda su una tensione antica: il desiderio di essere riconosciuti. Tuttavia, nella dimensione digitale, questo desiderio si amplifica fino a diventare spettacolo. L’io non si limita più a essere vissuto: deve essere esibito, curato, ottimizzato. Così selezioniamo i momenti migliori, eliminiamo le imperfezioni, confezioniamo versioni edulcorate della nostra quotidianità. Questo processo risponde a una logica di merca-
to: l’attenzione è il bene da conquistare, l’immagine è il prodotto da vendere. Il rischio, però, è profondo: finiamo per vivere nella continua rincorsa di un ideale che non potrà mai coincidere pienamente con la realtà. Il prezzo da pagare è spesso un senso strisciante di alienazione e di inadeguatezza.
Nello specifico, quando il rapporto tra il «me ideale» e il «me reale» diventa problematico?
Il divario diventa problematico quando non è più percepito come gioco consapevole, ma si trasforma in criterio di autovalutazione. Quando iniziamo a misurare il nostro valore reale sulla base della performance digitale, l’identità autentica viene erosa. Non siamo più padroni della nostra immagine, ne diventiamo schiavi. In questi casi, l’immagine social non solo influenza, ma riplasma la percezione che abbiamo di noi stessi, orientando aspettative, giudizi e perfino emozioni. Si tratta di una mutazione sottile ma profonda: l’identità non nasce più dal vissuto, ma dal rispecchiamento nello sguardo virtuale degli altri.
I social dunque tendono a modellare la nostra percezione della realtà, oltre all’immagine che abbiamo di noi stessi; è corretto?
Sì, e in modo radicale. I social media non si limitano a filtrare la realtà: ne producono una nuova versione, costruita attraverso algoritmi che privilegiano ciò che emoziona, polarizza, semplifica. Ogni scroll, ogni feed, è un montaggio narrativo che ci restituisce un mondo parziale, selettivo, orientato. Progressivamente ciò che vediamo sui social diventa il metro attraverso cui interpretiamo il reale. La nostra mappa mentale si adatta ai confini di ciò che ci viene mostrato. In altre parole: i social non solo raccontano il mondo, ne disegnano i confini
Che ripercussioni può avere tutto questo sul nostro benessere mentale?
Quando la realtà viene ridotta a una rappresentazione filtrata e l’identità viene compressa in un’immagine da esibire, il nostro equilibrio psicologico si trova sotto pressione. L’insoddisfazione cronica, il confronto costante con vite apparentemente migliori, l’ansia da prestazione e il bisogno ossessivo di approvazione diventano compagni silenziosi delle nostre giornate. Sul lungo periodo il rischio è quello di un impoverimento emotivo, di una fragilità dell’io che si manifesta attraverso stati d’ansia, depressione, disturbi dell’autostima. L’invisibile fatica del «restare all’al-
Quanto finora visto, per chi vale?
Per i ragazzi e i giovani o anche per gli adulti?
Se è vero che i giovani, nel pieno del processo di costruzione identitaria, sono più esposti agli effetti distorsivi dei social media, è altrettanto vero che anche gli adulti non sono immuni. Per i giovani, il rischio è di costruire la propria identità su fondamenta fragili, basate su parametri esterni di approvazione. Per gli adulti, il pericolo risiede nella perdita del senso critico, nella ricerca tardiva di una visibilità che sopperisca a insicurezze latenti o a insoddisfazioni esistenziali. Le dinamiche cambiano nelle modalità, ma il bisogno sottostante, quello di essere visti e riconosciuti, rimane universale e pervasivo.
In conclusione, come definirebbe l’impatto che i social hanno sulla nostra vita?
L’impatto è profondo, strutturale, ineludibile. I social media agiscono come forze carsiche: invisibili in superficie, ma potenti nella trasformazione del nostro modo di essere, di sentire, di pensare. Non sono né buoni né cattivi in sé: il loro effetto dipende dall’uso consapevole o inconsapevole che ne facciamo. Sono strumenti straordinari di libertà, ma anche potenziali strumenti di alienazione. In definitiva, i social media sono lo specchio di una condizione più grande, quella di un’umanità che cerca, nel riflesso degli altri, la conferma di sé. E che, per non perdersi, deve imparare a guardarsi dentro prima che fuori.
Cosa fare affinché l’uso dei social media sia consapevole? Innanzitutto l’educazione ai social media deve essere considerata una forma imprescindibile di educazione civica. Non basta «sapere usare» questi strumenti: occorre sapere pensare nel loro ambiente. Insegnare un uso consapevole dei social significa educare alla capacità di distinguere tra apparenza e sostanza, tra bisogno di approvazione e autenticità, tra libertà di espressione e responsabilità comunicativa. In questo senso, i social media rappresentano una straordinaria occasione: essi ci obbligano a riflettere su chi siamo, su come costruiamo le nostre relazioni, su quale società vogliamo abitare. Non si tratta di demonizzarli né di esaltarli ingenuamente, si tratta di abitare il digitale con la stessa dignità e profondità con cui vorremmo abitare il mondo reale. E la sfida non è solo tecnica, è profondamente umana.
Attualità ◆ La bistecca Tomahawk rappresenta il non plus ultra di ogni grigliata. Una delizia irresistibile per tutti gli amanti dei tagli di carne più pregiati
Per la sua forma particolare, che ricorda appunto l’ascia di guerra dei nativi americani, il Tomahawk, con l’osso sporgente che somiglia al manico e la parte carnosa che potrebbe sembrare la lama.
La Tomahawk è una grossa bistecca, ottenuta dal lombo situato nel costato del manzo. Essendo una parte poco sollecitata dall’animale, la carne risulta particolarmente tenera e succosa. Altro segno distintivo è la tipica marmorizzazione del taglio, dovuto alla generosa presenza di grasso intramuscolare, ciò che rende la carne molto aromatica, trasformando ogni pasto in un’esperienza unica. Insomma, una tentazione che si scioglie letteralmente in bocca.
Anche la frollatura all’osso, ovvero la maturazione dei tagli per alcune settimane in ambienti a temperatura e umidità controllate, influisce sulla qualità della carne, intensificandone il sapore e la tenerezza. In genere, la bistecca Tomahawk viene lasciata frollare dalle due alle quattro settimane. Idealmente, questo taglio viene venduto con uno spessore di ca. 5 cm e un peso di 1-1,5 kg, ciò che permette di ottenere una cottura uniforme.
Viste le sue dimensioni importanti, la bistecca Tomahawk è particolarmente indicata per la cottura alla
griglia, ma in alternativa può essere preparata anche in una capiente bistecchiera. Essendo già naturalmente saporita, non necessita di troppi condimenti. Togliere la carne dal frigorifero almeno mezz’ora prima di cucinarla, in modo che i tessuti muscolari si rilassino e la cottura risulti più delicata. Condire la carne con un filo d’olio d’oliva, un pizzico di sale e poco pepe. Posizionare la bistecca
sulla griglia o in padella solo quando quest’ultime sono ben calde, al fine di ottenere una cottura ottimale e una crosticina caratteristica. I tempi di cottura variano da ca. 10 minuti per lato al sangue (55°C al cuore); 11 minuti per una cottura media (60°C) fino a 12 minuti ben cotta (68°C). Prima di servire, lasciare riposare la bistecca per 15 minuti avvolta in carta d’alluminio.
Attualità ◆ La gamma dei Nostrani del Ticino offre squisite proposte di formaggini freschi, tra cui la variante senza lattosio dell’azienda agricola di Isa e Marco Scoglio di Mugena
Bistecca Tomahawk Irlanda, per 100 g, al banco Fr. 4.90
Con la stagione estiva alle porte i formaggini a base di latte ticinese sono una prelibatezza che non può mancare in tavola, un piatto fresco e genuino che conquista i palati con i suoi sapori autentici.
Tra le diverse tipologie di formaggi freschi dell’assortimento Migros, offriamo anche la versione senza lattosio, facente parte della linea Nostrani del Ticino. Sono prodotti nell’Alto Malcantone dall’azienda agricola di Isa e Marco Scoglio, che da oltre due
decenni allevano con passione bovini da latte di razza Brown Swiss e una settantina di capre. Con un approccio volto al benessere animale, gli animali sono liberi di pascolare nei prati adiacenti all’azienda, ai piedi del Monte Lema, nutrendosi principalmente della buona erba fresca che la terra offre loro. Con la loro consistenza morbida e il gusto delicato ma riconoscibile ricco degli aromi di montagna, i formaggini senza lattosio sono una valida alternativa per chi, nonostante la propria intolleranza alimentare, non vuole rinunciare al piacere di un prodotto di qualità del nostro territorio. Un alimento semplice e versatile che può fungere da piatto principale, anche condito solo con un filo d’olio e spezie a piacimento e accompagnato da un’insalata di stagione, per un piatto fresco, estivo e nutriente.
Formaggini freschi senza lattosio aha! per 100 g Fr. 2.20 invece di 2.60 dal 3.6 al 9.6.2025
Salute ◆ Nella stagione calda la cute è più esposta a scottature, irritazioni e infezioni. I consigli della dottoressa Laura Uccella
Maria Grazia Buletti
Con l’arrivo della bella stagione, cresce il desiderio di esporsi al sole e vivere all’aria aperta. Tuttavia, se non gestito con attenzione il sole estivo potrebbe comportare diversi problemi e trasformarsi in un pericolo per la salute della nostra pelle. Secondo l’Ufficio federale di statistica (UST), in Svizzera si registrano ogni anno circa 2800 nuovi casi di melanoma (la forma più aggressiva di tumore cutaneo), mentre in Ticino se ne contano circa cento nuovi casi all’anno. Sempre nella Confederazione, i carcinomi basocellulari, spesso legati all’eccessiva esposizione ai raggi UV, sono stimati tra 20’000 e 25’000 all’anno. Secondo l’Ufficio federale di statistica in Svizzera si registrano ogni anno circa 2800 nuovi casi di melanoma
Per questi tumori e per le patologie della pelle in generale, comprese quelle con cui bisogna fare i conti nel periodo estivo, la prevenzione gioca un ruolo molto importante e le semplici ma efficaci raccomandazioni dell’Ufficio federale di salute pubblica (UFSP) si possono riassumere in pochi accorgimenti, come spiega la specialista in Chirurgia e Medico d’urgenza Laura Uccella, responsabile del Pronto Soccorso alla Clinica Sant’Anna di Sorengo: «Bisogna innanzitutto esporsi ragionevolmente al sole scegliendo gli orari migliori, ed evitare le ore in cui è a picco (tra le 11.00 e le 15.00) quando l’intensità dei raggi UV è massima. È consigliato indossare sempre indumenti protettivi come cappelli e occhiali da sole con protezione completa UV, e mai dimenticarsi di applicare una crema solare con alto indice di protezione (SPF 50 per bambini e persone con la pelle più delicata, a scalare SPF 30 e 20 per coloro la cui pelle è meno delicata, tutti comunque hanno bisogno della protezione solare, con l’applicazione rinnovata ogni paio d’ore, soprattutto dopo il bagno). La regola di base sta nel non esporsi troppo a lungo al sole e scegliere un ombrellone di quelli che filtrano un po’ i raggi UV». La dottoressa ricorda pure l’importanza dell’idratazione, a maggior ragione nel periodo estivo: «Dobbiamo ricordarci di bere molto e mangiare frutta e verdura, cosa che aiuta certamente la salute della nostra pelle». Sebbene l’UST e l’UFSP non dispongano di dati precisi sugli accessi estivi al pronto soccorso per problemi cutanei, è appurato che d’estate la richiesta per queste problematiche si fa notare: «Parliamo di bisogno di assistenza per scottature, eritemi, infezioni cutanee e reazione allergiche». Alla luce di questo aumento, la nostra interlocutrice ribadisce che la prevenzione («dalla protezione solare all’adozione di abitudini corrette») rimane lo strumento più efficace per ridurre i rischi.
Tra i problemi della pelle più co-
ore in cui l’intensità dei
muni che portano i pazienti a rivolgersi al pronto soccorso durante l’estate primeggiano le ustioni solari e le scottature: «Tipiche, ad esempio, di chi si addormenta al sole e, fortunatamente, di solito arriva con un arrossamento diffuso della pelle o al massimo un’ustione di primo grado. Successivamente, vediamo le eruzioni cutanee, l’eritema solare e i colpi di calore, ma pure gli eritemi e le dermatiti da contatto con le meduse (al mare) o le ortiche (in campagna o montagna). Le dermatiti possono inoltre essere provocate dal contatto con animali particolarmente urticanti co-
L’appuntamento
me la processionaria». La dottoressa completa l’elenco con le infezioni della pelle come micosi, follicoliti, impetigine: «Favorite da caldo e umidità, soprattutto nelle zone della pelle più calde e umide come pieghe, ascelle, inguini e ombelico che possono essere soggette a infezioni sia batteriche che fungine; poi abbiamo le micosi e le reazioni allergiche su puntura di insetto o morsi di aracnidi come zecche o ragni violino». Naturalmente, dicevamo, non tutte le problematiche necessitano di una corsa al pronto soccorso: «Fortunatamente, in generale è raro l’erite-
La prevenzione nel periodo estivo
Come si cura la pelle nel periodo estivo? Cosa si può fare a livello di prevenzione e di diagnosi? Quali sono le cure più appropriate? Sono questi i temi della conferenza gratuita e aperta al pubblico che si terrà alla Clinica Sant’Anna di Sorengo gi ovedì 5 giugno alle 18 (Stabile Villa Anna 2).
R ete Sant’Anna, la prima rete di cure integrate in Ticino, propone un calendario di appuntamenti regolari, gratuiti e aperti a tutti sul tema della prevenzione come accompagnamento al paziente nel percorso di c ura: non solo della malattia, ma in primis per la conservazione della sua salute, incoraggiando prese a carico sempre più personalizzate e focalizzate al bisogno individuale, per mezzo
di un approccio multidisciplinare integrato
In questo senso, Rete Sant’Anna poggia sulla sinergia tra medici, cliniche e ospedali, servizi a domicilio, per ottimizzare le cure garantendo un’assistenza migliore e più sostenibile: un’opportunità di cambiamento culturale e sociale che mette al centro la responsabilità e la libertà del paziente e del medico.
Rete Sant’Anna e i suoi professionisti sottolineano l’ importanza della prevenzione e della diagnosi precoce, unitamente a un corretto stile di vita.
Il tema della conferenza del 5 giugno sarà: La prevenzione nel periodo estivo: cura della pelle, prevenzio-
ma solare grave e gravissimo, mentre l’ustione da sole più comune si limita al primo grado e si cura con il raffreddamento, con le creme lenitive e con idratazione accurata». Quando però queste ustioni sono associate ai colpi di calore la situazione cambia: «Per tutte le problematiche cutanee, il grado di gravità è dato dall’estensione della lesione e dal peggioramento dello stato generale di malessere: pressione bassa, febbre, prurito importante sono tutti segnali d’allarme, così come lo sono una velocissima progressione e un cambiamento repentino della lesione o della reazione». Parti-
Pubbliredazionale
ne e diagnosi. Appropriatezza delle cure nel percorso terapeutico.
Le conferenze aperte al pubblico si svolgeranno sempre di giovedì alle ore 18.00 presso la Sala Conferenze della Clinica Sant’Anna di Sorengo (Stabile Villa Anna 2) e saranno condotte dagli specialisti che saranno in seguito a disposizione per rispondere a dubbi e domande.
Seguirà un rinfresco. Ingresso libero previa registrazione.
colare attenzione, dunque, e la corsa alla presa a carico professionale vanno riservate alle reazioni allergiche che possono essere scatenate da punture di api, vespe, calabroni: «Possono indurre a reazioni locali più o meno gravi (sovrainfezioni o ascesso cutaneo per il quale è richiesta un’incisione e una pulizia dello stesso) o, peggio, reazioni allergiche che potrebbero condurre immediatamente a shock anafilattico. Non vanno sottovalutate le ustioni che, oltre al rossore, provocano le cosiddette bolle (che noi chiamiamo fittene): la loro presenza è indice di un’ustione un po’ più profonda di quella semplice di primo grado e va portata all’attenzione del medico». Con buonsenso, la persona deve perciò recarsi dal medico che, secondo la gravità della situazione, può valutare la necessità di un ricovero per la perfusione in vena di liquidi, perché i pazienti ustionati ne perdono parecchi a causa della pelle lesa che perde la sua funzione termoregolatrice. Il processo infiammatorio che si crea a seguito dell’ustione produce una vasodilatazione dei vasi sanguigni (ndr: li «allarga») che portano più sangue nella zona infiammata creando malessere diffuso, spesso aggravato da febbre: questi sintomi sistemici sono sempre un campanello di allarme per accedere a una visita medica con un’adeguata presa a carico personalizzata. Anche il contatto con una medusa può essere un semplice contrattempo spesso risolvibile immediatamente: «Quelle del Mediterraneo non sono particolarmente velenose o pericolose e, generalmente, basta sciacquare subito con acqua fredda, usare del ghiaccio (non a diretto contatto con la pelle, ma sempre con un panno) e farsi dare una crema antistaminica in farmacia. Naturalmente, va ricercata la consulenza medica se l’applicazione non produce sollievo e se l’estensione aumenta». Un ultimo cenno pure alla cellulite batterica: «Si tratta di un’infezione cutanea seria perché si presenta al di sotto dell’epidermide, a livello più profondo, ed è sempre favorita da una “porta d’entrata” come una ferita procuratasi sugli scogli, una puntura di insetto o tafano (ferita da inoculo) attraverso la quale entrano i batteri e i germi». A questo proposito, la dottoressa elargisce un semplice ma efficace consiglio: «Il primo modo per prevenire un’infezione della pelle o qualsiasi altra più profonda, è lavare le ferite sotto l’acqua del rubinetto: va benissimo l’acqua tiepida a temperatura corporea». In conclusione, d’estate, la pelle è più esposta a scottature, irritazioni e infezioni. Proteggersi con creme solari, indumenti adeguati e una buona igiene aiuta a prevenire molti problemi. «In caso di sintomi intensi o insoliti, però, è importante non aspettare e rivolgersi al pronto soccorso perché un intervento tempestivo può evitare complicazioni», conclude la dottoressa Laura Uccella ricordando che un’estate sicura parte dalla prevenzione e dalla consapevolezza. azione
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Territorio ◆ Il premio svizzero per il paesaggio 2025, sostenuto da Migros, è stato attribuito al territorio ticinese che si prepara a reinventarsi
Sono stato in Vallemaggia per visitare con un centinaio di altri iscritti i luoghi della Valle Bavona devastati dall’alluvione della notte fra il 29 e il 30 giugno dell’anno scorso. E per seguire, qualche ora dopo, l’attribuzione del premio di Paesaggio svizzero dell’anno 2025 alla Fondazione Val Bavona e al comune di Cevio (vedi articolo sotto). Credevo che mi sarei portato via i panorami vertiginosi del luogo e le parole commosse dei relatori in un giorno di festa in la minore. Invece, passano i giorni, e mi resta dentro l’immagine iconica di una Madonna mutilata.
L’appuntamento era per le 10 di sabato 24 maggio, ma a Cavergno volevo arrivarci un po’ prima per gironzolare sacco in spalla nel villaggio, prenderne piano piano coscienza. Partendo dal cimitero, dove Plinio Martini – l’amatissimo autore del Fondo del sacco – riposa in una tomba di sasso che accoglie pure la moglie Maria, morta nel 2008, 31 anni dopo di lui. E visitando la parrocchiale tardobarocca, dove – ancora ignaro di cosa fosse – vengo folgorato dalla visione della statua lignea di una Madonna senza volto e senza mani, all’interno della cappella della Vergine del rosario.
Ferita ma viva
Solo un paio d’ore dopo mi verrà spiegato che fino a undici mesi prima quella statua si trovava a Mondada, nella cosiddetta «cappella degli australiani», completamente rasa al suolo dall’alluvione con circa altre 15 costruzioni. Notando una massa colorata nelle acque e credendo potesse essere il corpo di uno dei dispersi – leggo nel sito di catt.ch - il pompiere Brenno Inselmini l’aveva ripescata dalle acque ruggenti del fiume tre chilometri più a valle, a Cavergno, poche ore dopo il nubifragio. Guardo questa Madonna in manto blu e tunica rossa che non può guardarmi e non può toccarmi e penso che potrebbe essere lei il simbolo della Vallemaggia ferita eppure ancora viva, coraggiosa e luminosa.
L’escursione ci porta proprio lì, dove il «demonio infuriato (…) straripa e mena via tutto», come scriveva già più di cent’anni fa – era il 1919 – Giovanni Anastasi, facendo riferimento al fiume Bavona e alla sua forza incontrollabile nelle buzze che ogni tanto travolgono la valle. «Alle alluvioni siamo abituati da sempre», spiega Rachele Gadea-Martini, direttrice della Fondazione Valle Bavona, accompagnandoci con passo deciso all’imbocco della valle. «Ce ne sono già state moltissime nella nostra storia, ma di queste dimensioni ne conosciamo solo altre tre o quattro: quella di 5 o 6 mila anni fa nella regione oggi denominata Gannariente e altre due, di fronte a Fontana e Foroglio, attorno al millecinquecento».
Lo attesterebbe – ma il condizionale è d’obbligo perché di documentazione non ce n’è – la scritta incisa su un masso proprio a Fontana: Giesu Maria/ qui fu bela campagnia/ 1594 Come a dire che un tempo, da quelle parti c’erano distese di prati. Oggi, e già a fine ’500, li guardi e li trovi pieni di massi ciclopici, portati a valle da una delle innumerevoli catastrofi del passato.
Quante vittime? Una contabilità precisa delle tragedie del passato remoto non esiste, «abbiamo la scritta di un uomo schiacciato da un masso tra Roseto e Foroglio, chissà di quanti altri non abbiamo notizia».
In ogni caso piccoli nuclei («le Terre», come le chiamano qui) con le loro casupole, le stalle, gli oratori e i mulini, si sono costruiti attorno ai macigni. I vallerani si sono ingegnati per trarre profitto dalle bizzarrie del terreno. Tra gli anfratti dei gi-
ganteschi pietroni finiti sui prati, per esempio, hanno creato delle cantine, gli splüi, sfruttando un sistema perfetto di protezione dalla pioggia e spifferi d’aria che consentiva loro di conservare cibo, alloggiare bestiame e in alcuni casi, con mirati interventi di muratura, di viverci dentro. Anche Plinio Martini parlava dei «massi del fondovalle che hanno travolto la campagna, e sotto i quali i Bavonesi testardi hanno anche scavato il canvetto. Poi vi appoggiavano una sca-
la e portavano su la terra a creare un praticello o un orto di lattughe».
Perfino le selve castanili, osserva dal canto suo Rachele, devono adattarsi a spuntare tra i massi. E per avere un po’ d’erba o di grano da falciare si sono appunto inventati dei giardini pensili, piccoli orti sospesi sopra ai blocchi di pietra più comodi.
Vita difficile quassù, annotava sempre Plinio Martini ne I funerali di zia Domenica: «Sonlerto continuava però a distare due ore e mezza
Clima perfetto, a partire dal tempo molto soleggiato, e folta partecipazione delle autorità nazionali e cantonali accanto ai numerosi presenti, per la cerimonia di premiazione del «Paesaggio dell’anno» 2025, sabato 24 maggio a Cavergno, con la consegna di 10mila franchi alla Fondazione Valle Bavona e al comune di Cevio.
Albert Rösti: sono un montanaro e vi capisco
di cammino lungo una mulattiera le cui pietre erano levigate dalla transumanza degli uomini e delle bestie meglio che i ciottoli del fiume; inoltrarsi in quella strada voleva dire uscire dalla storia verso un mondo antico, dove la vita ritrovava il suo ritmo solare e la fatica non era compensata con danaro».
Ma a quelle fatiche i Bavonesi si sono affezionati. Perfino oggi, per scelta deliberata, undici delle dodici terre della Valle (esclusa quella di
Anche il presidente del governo ticinese Norman Gobbi ha parlato «come uomo di valle e padre di famiglia», promettendo che «noi ci saremo sempre per voi» e ricordando l’impegno del Consiglio di Stato e la creazione della Commissione indipendente che gestisce i fondi raccolti dalla Catena della solidarietà: le entrate sono «finite direttamente nelle mani di chi ne aveva bisogno» (e ce ne sarebbero altre in vista). Il Governo, insomma, stanzierà altri fondi per la Vallemaggia.
Gianni Rossi:
Migros vicina da subito
Il presidente del Consiglio d’amministrazione di Migros Ticino, Gianni Rossi, ha dal canto suo ricordato che
Dal 2011, il riconoscimento viene attribuito ogni anno dalla Fondazione svizzera per la tutela del paesaggio per celebrare i valori dei paesaggi svizzeri e onorare l’impegno della popolazione locale per curarli. Il premio è sponsorizzato dalla Federazione delle Cooperative Migros e da Balthasar Schmid di Meggen e rappresenta soprattutto un riconoscimento simbolico, motivazionale e di immagine per chi ne beneficia. Prima del discorso, il consigliere federale Albert Rösti ha visitato i luoghi della tragedia. «Sono un montanaro, originario dell’Oberland bernese e conosco i movimenti della montagna. Ciò che è avvenuto qui l’anno scorso è fuori dal comune». Ci vorranno finanziamenti aggiuntivi, ma «se il Cantone coprirà la metà dei 20 milioni di franchi per i costi supplementari dei comuni, la Confederazione è pronta a partecipare con l’altra metà. Parlo per il Consiglio federale, ma ora tocca al Parlamento decidere». Non è ancora tempo, invece, per un fondo nazionale per le catastrofi.
nell’anno del centenario di Migros, «la Cooperativa regionale Migros Ticino, impresa al 100% ticinese con sede a Sant’Antonino e parte integrante del nostro territorio da oltre 90 anni, non può che essere molto contenta della scelta fatta dalla Fondazione svizzera per la tutela del paesaggio». Già subito dopo la tragedia, ha osservato, «Migros era presente al fianco delle Autorità e dei residenti e ha potuto da subito rendersi conto del dolore e dei danni provocati da questi infausti eventi naturali. La valle ha però reagito con orgoglio, forza e umiltà, e sta rifiorendo».
Raimund Rodewald: la forza delle donne
Tra gli altri discorsi, oltre alle parole di gratitudine della sindaca di Cevio Wanda Dadò e del presidente della fondazione Valle Bavona Lorenzo Dalessi, meritano una menzione quelle di Raimund Rodewald, già direttore della Fondazione svizzera per la tutela del paesaggio, che conosce bene la Valle Bavona e ha dedicato un pensiero di gratitudine alle sue donne, par-
lando della loro forza e ricordando il modo in cui hanno raccontato quello che è successo undici mesi fa. «È una festa con un occhio che ride e un occhio che piange», ha detto, «l’evento ha stravolto la valle ma non la sua popolazione. Sono sbalordito dalla vostra perseveranza. Le rocce della valle hanno forgiato un’energia particolare nei suoi abitanti e forme di coesione e spirito di pace di cui oggi sentiamo tutti particolarmente bisogno». I prossimi passi che si affronteranno sono la consultazione delle persone che vivono e amano la Valle Bavona, la recezione di una carta dei pericoli, la raccolta delle aspettative emerse su cosa ricostruire e cosa preservare con la memoria. Marcello Martinoni, che cura il processo partecipativo, ci spiega che «nei prossimi quattro mesi cercheremo di fare emergere idee, vissuti e desiderata della gente per il futuro di questo territorio. Lo faremo attraverso dei laboratori di lavoro partecipativi. Il primo si terrà il 14 giugno a Cevio ed è aperto alle persone che vivono la Valle Bavona ma anche a chi vuole sostenerla. Il nostro compito, da qui a settembre, è fare emergere i vissuti e le opinioni, un brainstorming ragionato».
San Carlo) rinunciano all’uso dell’energia elettrica e si arrangiano col gas, i pannelli solari o semplicemente con niente.
Con queste idee nel cuore, ci avviciniamo al luogo dove ci sono stati più morti l’anno scorso (cinque a Fontana, mentre altri due più un disperso si sono avuti in Lavizzara). Ai lati della strada rifatta c’è un’antica grà bombardata dai sassi. Più in basso, spiega la nostra interlocutrice, due persone hanno perso la vita.
Lì c’erano i loro rustici riattati, spazzati via dalla corrente creata dall’infinita tempesta riversatasi su una linea tra Bavona e Lavizzara con un’intensità inaudita: in sei ore è sceso dal cielo quello che normalmente piove in un mese e mezzo-due. Per fortuna le dighe create negli anni Sessanta hanno trattenuto un bel po’ d’acqua, altrimenti sarebbe stato ancora peggio. Colpisce che dei 15 edifici distrutti nel giugno scorso (altri cento quelli danneggiati) nessuno, originariamente, fosse una casa d’abitazione. Segno che gli antichi sapevano scegliere con precisione chirurgica dove costruire o non costruire le case.
Il passaggio da Cavergno alla Valle Bavona è, prima di tutto, una questione cromatica: dal verde sfavillante dei prati e dei boschi si incappa di colpo nel grigio-bianco marmoreo delle pietre precipitate a valle.
Nei mesi scorsi, qui sono stati spostati 300’000 metri cubi di materiale. Improvvisamente camminiamo come formiche dentro un’immensa pietraia che attraversa la valle partendo dalle pendici della montagna per giungere fino al fiume. Ma lì, fino a prima dell’alluvione, era tutto
un bosco, manco le vedevi, le acque della Bavona. Nei giorni successivi la strada faceva impressione, era come butterata di piccoli crateri nell’asfalto. «Qui a Mondada – ci dice Rachele – la pressione dell’acqua doveva essere così potente da spingere i sassi a bucare l’asfalto da sotto, il catrame era vetrificato».
Laddove viveva la Madonna ripescata, oggi c’è una massa candida di pietrame su cui qualcuno ha disteso un albero divelto scrivendo con vernice arancione: «Cappella d’Australia». A Fontana osserviamo sgomenti il canalone da cui è piovuto il grosso dell’inferno (anche se le frane dai riali sono state cinque, tra cui quella di Roseto che ha chiuso il fiume) modificando per sempre l’aspetto della valle.
È una ganna di pietre che scendono e si allargano verso il fondo, montagne di massi bianchi punteggiati di macigni alti fino a tre-quattro metri, come quello precipitato nei pressi del vecchio ponte del Chiall, poco distante dalla sorgente dell’acquedotto comunale.
La pietraia ha preso il posto della vegetazione che cent’anni fa faceva sognare un altro scrittore valmaggese, Giuseppe Zoppi, che scriveva: «Ma nel bosco, soltanto nel bosco cominciava l’imprevisto, germinava il fantastico, fioriva, come un selvatico rosaio, la leggenda».
Poesie e leggende sono costrette ora a convivere con la massa sterminata delle pietre, una ferita bianca nella valle verde. Rachele ci indica col dito la zona dove sono morte tre donne, lassù, dietro un caseggiato che spunta tra le rocce.
la furia della natura ha sbriciolato una stalla, ma non la casa adiacente. Poco sopra, spiega Rachele, racconte-
ranno poi che quella notte vedevano le pietre volare sopra le loro teste come asteroidi, illuminate a giorno dai lampi della tempesta.
Picche, pale e galline
La Valle Bavona, attraversata oggi da ciclisti e motocilisti mossi dal turismo della curiosità, è un mondo ridisegnato che non potrà più tornare a essere quello di prima. «Ma sa cosa le dico?», s’infiamma Rachele Gadea Martini, «È vero: questa ferita non verrà mai rimarginata, nuovi massi si aggiungono ai massi delle catastrofi precedenti, ma come tutte le altre volte ci siamo tirati indietro le maniche e abbiamo portato picche, pale e galline qui sul posto per ricominciare. In uno scenario instabile e provvisorio (stiamo ancora aspettando una carta aggiornata dei pericoli), torneremo a vivere e far vivere questi luoghi. Tutto questo risveglierà ancora una volta la solidarietà di tutti e il potere creativo della gente di valle». L’apparizione tra le acque della statua mariana – commissionata nel 1859 da 22 emigranti valmaggesi rientrati dall’Australia dove avevano cercato fortuna – sarà anche un caso fortuito ma, simbolicamente, rappresenta la fiducia dei Bavonesi in se stessi, nei propri mezzi e nella propria buona stella. La valle è ferita, come la sua Madonna, e toccherà ai suoi abitanti e ai numerosi estimatori che l’amano ridarle il volto e le mani che ne costruiranno il futuro.
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Pubblicazioni ◆ Nel suo ultimo libro Cristina Milani analizza l’amore e l’amicizia ai tempi del digitale
Barbara Manzoni
«Credo che oggi, nell’era della tecnologia e dei social, la vera sfida sia quella di costruire legami autentici, avendo cura e rispetto dell’altro. Legami che rispettino e valorizzino l’individualità di ciascun partner. Cercare un equilibrio tra indipendenza e connessione è anche un invito alla gentilezza, non solo verso l’altro ma verso se stessi».
«Credo che la vera sfida nell’era digitale sia quella di costruire legami autentici, avendo cura e rispetto dell’altro»
A parlarci di relazioni affettive è Cristina Milani, psicologa ed esperta di marketing e comunicazione, che da anni promuove con grande impegno la cultura della gentilezza in Svizzera e in Italia, è stata presidente del World Kindness Movement e guida dell’organizzazione non-profit Gentletude. Nel suo ultimo libro intitolato Tra swipe e silenzi: l’amore e l’amicizia ai tempi del digitale, Cristina Milani esplora la complessità dei legami, resi più fragili e impersonali dall’avvento dei social, che sono ambienti, come ci racconta la professoressa Rubinelli nell’intervista che ospitiamo a pagina 7, in cui si trasforma la nostra identità individuale e collettiva e di conseguenza anche le nostre relazioni.
«Il libro è nato da racconti di amiche che mi spiegavano il loro vissuto sui social, principalmente in app di incontri come Tinder, e mi confidavano il loro malessere o mi chiedevano di interpretare determinati comportamenti che avevano osservato. Sono rimasta piuttosto sorpresa dal fatto che ci si potesse innamorare di qualcuno sfogliando un profilo su queste app ma soprattutto ero sorpresa dal fatto che queste persone erano davvero molto sofferenti», spiega Cristina Milani. L’autrice ha così colto l’occasione per approfondire aspetti teorici sulle dinamiche delle relazioni umane, proponendo al lettore, alla fine di ogni capitolo, un’agile e semplice scheda riassuntiva. Il libro è poi arricchito appunto dalle storie reali di relazioni complicate. Il punto di vista è quello dell’osservazione senza giudizio, il tema, insomma, non è se usare le app di incontro sia opportuno o meno. D’altronde avere relazioni sane non è mai stato semplice e in passato non erano sempre rose e fiori. Il ghosting (cioè lo scomparire senza una spiegazione) o il benching (cioè tenere qualcuno «in panchina») sono comportamenti che sono sempre esistiti ma il digitale, ci dice la nostra interlocutrice «li ha amplificati ed è come se la velocità che propongono i social fornisse un alibi, ad esempio, per chiudere una relazione in fretta, senza bisogno
di parlare, senza ulteriori preoccupazioni, semplicemente sparisco. Insomma nell’epoca delle connessioni rapide ci disconnettiamo anche altrettanto rapidamente e improvvisamente. Ma questa è una cosa gravissima, troncare una relazione senza una parola, senza un confronto, può essere molto doloroso per chi subisce la decisione».
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Nelle relazioni affettive, però, non esistono e non sono mai esistite ricette facili e veloci. Il tempo sottolinea Cristina Milani è un fattore determinante nei rapporti che hanno bisogno di cura, di approfondimento, di pazienza, di tempo di qualità. Così come ha bisogno di tempo il processo di autoriflessione che il libro suggerisce al lettore, perché solo «attraverso un
dialogo aperto e un sincero processo di autoriflessione possiamo superare aspettative irrealistiche, paure di abbandono e dinamiche tossiche». Alla fine del libro l’autrice propone anche una «Lista di controllo per relazioni sane e felici». Dieci punti o meglio dieci domande che il lettore è invitato a porsi. «Non ha nessuna pretesa scientifica – ci tiene a precisare Cristina Milani – è però un invito a riflettere sulla propria condizione. In fondo non c’è nulla di nuovo, ma a volte facciamo fatica a soffermarci e analizzare la nostra stessa situazione, questa check list messa nero su bianco ci obbliga a fermarci e a soppesare tanti piccoli segnali che possono farci aprire gli occhi prima di cadere in una trappola. Ma attenzione, la trappola è nostra, siamo noi che ci mettiamo in trappola da soli, nessuno ci obbliga mai ad entrare in una relazione, forse qualcuno ci illude ma noi dobbiamo essere in qualche modo “complici”. La realtà però è che purtroppo ci sono molte persone ferite, che hanno vissuto situazioni distruttive emotivamente e psicologicamente. Per questo spero che il mio libro possa essere una sorta di bussola per navigare nel mare delle relazioni».
Bibliografia
Cristina Milani, Tra swipe e silenzi: l’amore e l’amicizia ai tempi del digitale, GentleBooklets 2025.
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Giro d’orizzonte di un Continente dove dilaga la crisi economica e i diritti umani fondamentali non vengono spesso rispettati
Pagina 16
Everest: sempre più commerciale ll Governo nepalese ha di recente annunciato una serie di misure nel tentativo di ridurre i problemi legati all’overtourism
Pagina 17
Una danza contro la guerra Avi Kaiser e Sergio Antonino: «Nulla sarà mai più come prima del 7 ottobre 2023», «L’artista che accusa la realtà è un politico»
Pagina 18
Prospettive ◆ La crisi a Gaza mette a nudo l’emergenza umanitaria globale, aggravata dai tagli ai fondi (vedi Stati Uniti).
L’inazione politica è sempre più difficile da giustificare, servono intenzioni forti e approcci innovativi
«Oggi è l’inferno assoluto». Con queste parole, il direttore del Comitato internazionale della Croce Rossa (CICR), Pierre Krähenbühl, ha descritto la drammatica situazione nella Striscia di Gaza. Intervistato dalla Radiotelevisione svizzera di lingua francese (RTS), ha rivolto un appello urgente alle autorità politiche affinché «dimostrino coraggio, alzino il telefono e usino la propria influenza» per spingere le parti in conflitto a raggiungere un cessate-il-fuoco. «Se siamo disposti a tollerare ciò che sta accadendo nella Striscia di Gaza», ha aggiunto Krähenbühl, «allora è la nostra umanità collettiva a essere in gioco».
In un territorio poco più grande del Canton Ginevra, milioni di civili si trovano intrappolati senza cibo né assistenza medica
In un territorio poco più grande del Canton Ginevra o della Valposchiavo, milioni di civili si trovano intrappolati senza cibo né assistenza medica, privati di qualsiasi base per un’esistenza degna di questo nome. Secondo l’Ufficio delle Nazioni unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA), oltre due milioni di persone rischiano la fame. Anche l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) segnala che l’esercito israeliano ha distrutto o danneggiato il 94% delle strutture ospedaliere presenti nella Striscia. Dopo quasi tre mesi di blocco totale, il Governo israeliano ha finalmente consentito l’ingresso di aiuti umanitari. La gestione è stata affidata alla Gaza Humanitarian Foundation. Secondo Manuel Bessler, ex delegato del Consiglio federale per l’aiuto umanitario, con questa fondazione Israele sta strumentalizzando gli aiuti, che per principio devono essere neutrali, apartitici e indipendenti.
Oltre dieci anni fa, in un’intervista concessa al settimanale «Azione», Cornelio Sommaruga, alla guida per dodici anni del CICR, ricordava come «in un mondo ridotto a un bazar globale, l’opinione pubblica sia l’unica vera superpotenza», sottolineando l’urgenza di una «globalizzazione della responsabilità». Una responsabilità che chiama in causa Governi, forze politiche, mondo economico, media, università e scuole, religioni e confessioni, ma anche ogni singolo individuo. La voce di Sommaruga, spentasi l’anno scorso, sarebbe oggi più che mai necessaria per rilanciare quell’appello alla responsabilità collettiva.
Intanto si moltiplicano gli inviti al Consiglio federale, in particolare a Ignazio Cassis, affinché si impegni per porre fine alle uccisioni a Gaza.
Tra le firmatarie di una lettera aperta inviata mercoledì al Governo figura anche Micheline Calmy-Rey. L’ex ministra degli Esteri ha richiamato il principio della responsabilità morale e politica della Svizzera, in quanto Stato depositario delle Convenzioni di Ginevra: «Il Consiglio federale non può rimanere in silenzio, altrimenti si rende corresponsabile. Deve agire e difendere i valori umanitari».
Un invito che andrebbe esteso anche alle tante altre crisi umanitarie nel mondo. Perché ce ne sono molte, altrettanto gravi, ma spesso dimenticate. Emergenze multiple e interminabili su cui i riflettori dei media, e talvolta degli stessi attori umanitari, si sono spenti da tempo. Quando è stata l’ultima volta che abbiamo sentito parlare della Repubblica Democratica del Congo, un Paese dilaniato da un conflitto tra gruppi armati? E della popolazione somala, provata prima da una lunga siccità e poi travolta da alluvioni devastanti? O ancora del Sahel centrale, teatro di una delle crisi umanitarie più estese del pianeta? E anche quando queste tragedie riescono a conquistare l’attenzione dei
media, raramente riescono a scuotere davvero le coscienze. Se non si consumano proprio davanti alla porta di casa, come nel caso dell’Ucraina, questi drammi sembrano ormai normali, quasi fossero parte della routine quotidiana di un’opinione pubblica sempre più assuefatta al dolore altrui.
Se non si consumano proprio davanti alla porta di casa, come nel caso dell’Ucraina, questi drammi sembrano ormai normali
Una sofferenza che, purtroppo, non accenna a diminuire. E questo nonostante la comunità internazionale abbia assunto l’impegno di «non lasciare indietro nessuno». Con l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, adottata nel 2015, tutti gli Stati membri delle Nazioni unite hanno promesso, ad esempio, di sradicare la fame e la povertà, promuovere società pacifiche, giuste e inclusive, e proteggere le risorse naturali e il clima del pianeta per le generazioni future. Basta guardare al numero crescente di conflitti arma-
ti e alle catastrofi naturali sempre più devastanti per intuire che quell’ambizioso traguardo appare ormai sempre più una chimera. Secondo le stime delle Nazioni unite, nel 2025 ben 305 milioni di persone necessitano di assistenza e protezione. È la cifra più alta mai registrata nella storia. Inoltre, negli ultimi vent’anni, la domanda globale di aiuti umanitari è aumentata di dieci volte: da 5 miliardi di dollari nel 2005 a quasi 50 miliardi nel 2025. Di fronte a questi bisogni giganteschi molti Paesi hanno tuttavia scelto di tagliare i fondi destinati alla cooperazione allo sviluppo e all’aiuto umanitario, aumentando nel contempo le spese militari, tra cui anche la Svizzera. Questa tendenza ha ulteriormente ampliato il divario tra risorse disponibili e necessità. Solo lo scorso anno, le Nazioni unite hanno ottenuto meno della metà dei fondi richiesti per coprire i bisogni umanitari globali. La decisione del presidente americano Donald Trump di ridurre drasticamente i finanziamenti destinati a USAID e a diverse agenzie delle Nazioni unite ha aggravato un’evolu-
zione che dura da anni. Questo disimpegno americano, unito alla cronica mancanza di mezzi finanziari, obbliga ora le ong e le agenzie internazionali a prendere decisioni difficili: stabilire nuove priorità, lasciando intere comunità al loro destino. Tuttavia questa situazione potrebbe rappresentare anche un’opportunità per rinnovare l’azione umanitaria, rendendola più efficace e sostenibile. Da anni si parla di localizzazione, cioè del trasferimento di risorse e responsabilità alle organizzazioni locali nei Paesi colpiti da una crisi, al fine di rafforzarne la resilienza e la capacità di risposta autonoma. È uno dei principi chiave del Gran Bargain, un accordo tra donatori e organizzazioni umanitarie – a cui ha aderito anche la Svizzera – che prevede, concretamente, di destinare il 25% dei fondi direttamente agli attori locali. A quasi dieci anni di distanza, anche questa promessa è rimasta in gran parte disattesa. Per il Nord globale si tratta di abbandonare modelli di pensiero e di potere legati al passato. In altre parole, è tempo di decolonizzare l’aiuto allo sviluppo.
Il punto ◆ Giro d’orizzonte di un Continente dove dilaga la crisi economica e i diritti umani spesso non vengono rispettati
Angela Nocioni
Buio pesto per i diritti umani in America Latina. Le analisi economiche continentali parlano di decennio perduto per sottolineare i conti pessimi della maggior parte dei Paesi, a parte il gigante brasiliano. Ma l’emergenza latinoamericana al momento non è soltanto l’economia ma lo stato pessimo dei diritti umani che le fragili democrazie del Continente avevano cominciato a conquistare appena uscite dal ciclo delle dittature degli anni Settanta fino alla metà degli Ottanta. Per alcuni Paesi latinoamericani, regimi dispotici e assenza dei diritti civili sono ancora la quotidianità con cui convivere giorno per giorno.
Dal Venezuela al Nicaragua, passando per Haiti, Cuba, Ecuador, El Salvador, Perù o Argentina, il deterioramento democratico in America Latina è «dilagante» nel 2024, secondo i dati della ong Human Rights Watch. Il rapporto mondiale 2025 fotografa in 550 pagine la situazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali in più di un centinaio di Paesi, la situazione in America Latina è appunto peggiorata.
La situazione più preoccupante è quella dell’Argentina, non perché lì si stia peggio che altrove ma perché l’ideologia di estrema destra del presidente Javier Milei, su modello di Trump, indica il rischio di un’esplosione sociale. Milei ha replicato in Argentina quel che era fallito in Brasile con il
Governo Bolsonaro, poi travolto dalle elezioni che hanno riportato al potere (nel 2023) l’ex presidente Lula Da Silva, fondatore del Partito dei lavoratori e simbolo della sinistra continentale. Tra l’altro ora sappiamo di più sul tentativo di Bolsonaro di ordire o promuovere un colpo di stato per annullare la vittoria di Lula.
Il Governo di Milei ha in comune con quello di Bolsonaro un programma basato su un feroce anti-comunismo, che non è tanto collegato alla re-
altà, ma che è efficace come retorica per i militanti estremisti di destra ai quali è rivolto. Inoltre sia Milei sia Bolsonaro hanno ritenuto conveniente tentare di riabilitare nel discorso politico le sanguinarie dittature militari argentina e brasiliana degli anni Settanta. Milei, ad esempio, ha dedicato momenti dei suoi discorsi pubblici a mettere in discussione il numero dei desaparecidos e il suo vicepresidente ha visitato in carcere criminali del regime militare. L’ Argentina, che settima-
Javier Gerardo Milei
è presidente dell'Argentina dal 2023. (Keystone)
na scorsa ha confermato la sua uscita dall’Organizzazione mondiale della sanità, continua a vivere una profonda crisi. Amnesty International, nel suo «Rapporto 2024-25», esprime grande preoccupazione: «L’accesso all’aborto è rimasto pieno di ostacoli»; sono stati decisi «tagli agli investimenti nella sanità e nell’istruzione» in un contesto in cui i diritti di bambini e adolescenti vengono sempre meno protetti; «una nuova legislazione ha legalizzato la sorveglianza di massa»; «sono aumentati i protocolli repressivi contro le manifestazioni pubbliche»; «a partire dall’inizio, nel 2023, dell’Amministrazione del presidente Milei, quasi 30 giornalisti e giornaliste hanno subito vessazioni e violenza sui social media e sui media da parte del presidente o di altre autorità»; «il Governo ha adottato misure regressive nella lotta al cambiamento climatico, tra cui una legislazione per autorizzare la deforestazione...»
A questi tragici interpreti della destra estrema latinoamericana fanno da contrappunto due autocrati di stampo castrista, Daniel Ortega in Nicaragua e Nicolás Maduro in Venezuela, che sono già riusciti effettivamente ad asfissiare i loro Paesi: Nicaragua e Venezuela sono infatti regimi dispotici di violenza brutale, dove ogni giorno c’è una libertà in meno, le cui prigioni sono piene di prigionieri politici e in cui giornali, blog e tv sono controllati ne non chiusi.
Il potere giudiziario perde progressivamente indipendenza mentre dilagano la corruzione e il crimine organizzato
Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca ha aggravato la situazione in America Latina. L’autoritarismo e il deterioramento della democrazia sono «avanzati in modo dilagante», insieme alla corruzione, alla perdita di indipendenza giudiziaria e alla crescita del «fenomeno parallelo» del crimine organizzato, ha detto alla France press Juanita Goebertus, direttrice della Divisione delle Americhe di Human Rights Watch. Anche se la situazione di Venezuela, Cuba e Nicaragua – «tre dittature assolutamente consolidate» – non è la stessa di quella di Haiti: un Paese in balia di bande criminali che seminano il terrore di fronte all’assoluta assenza di uno Stato. L’insediamento di Nicolás Maduro in Venezuela il 10 gennaio dell’anno scorso, nonostante
le indicazioni di frode nelle elezioni del 28 luglio, «è il risultato finale di un’elezione che ha apertamente ignorato la volontà del popolo, e consolida l’autoritarismo in Venezuela», dice. I risultati delle recenti elezioni per il rinnovo del Parlamento e di quelle amministrative consolidano il potere del gruppo di militari al potere di cui Maduro è più ostaggio che referente. In Nicaragua l’esercizio dittatoriale del potere di Daniel Ortega e Rosario Murillo «ha ampliato l’uso dell’esilio forzato e la revoca della cittadinanza come modi per perseguitare i critici», nota Human Rights Watch (Hrw). Dal 2018 il Governo ha chiuso oltre 5600 ong e 58 media, nonché università. Più di 263 giornalisti sono fuggiti dal Paese, di cui 26 nei primi sei mesi del 2024. Quasi 3000 minori sono stati arrestati a El Salvador. Hrw avverte che in Messico, all’estrema violenza del crimine organizzato, si aggiunge «l’abuso generalizzato da parte di agenti statali, con quasi totale impunità». Allo stesso modo dice che i recenti cambiamenti costituzionali per rafforzare il ruolo dell’esercito nel lavoro di polizia e per rivedere il sistema giudiziario potrebbero «perpetuare gli abusi e minare gravemente lo stato di diritto».
In Colombia, nel frattempo, gli abusi dei gruppi armati, l’accesso limitato alla giustizia e gli alti livelli di povertà, in particolare nelle zone rurali, delle comunità indigene e afro-discendenti preoccupano Human Rights Watch, nonostante la recente ratifica dell’accordo di Escazú (per la protezione dei diritti dei difensori dei diritti umani in materia ambientale) da parte del governo di Gustavo Petro. In Perù il Governo «ha avallato» attacchi perpetrati dal Congresso che ha approvato leggi che «minano l’indipendenza giudiziaria, indeboliscono le istituzioni democratiche e ostacolano le indagini sul crimine organizzato, la corruzione e le violazioni dei diritti umani». Da parte sua, l’Honduras continua a lottare contro la corruzione diffusa, alti livelli di violenza e attacchi contro i difensori dell’ambiente. Per quel che riguarda il Brasile, dopo l’arrivo di Lula da Silva alla presidenza sono state registrate notizie positive come la caduta del 30% della deforestazione dell’Amazzonia, o l’approvazione di leggi per proteggere i diritti digitali dei bambini, ma i dati ufficiali dicono che la polizia aveva ucciso (dati fino a settembre 2024) 4565 persone, più dell’80% dei quali sono di pelle nera. Alle minacce ai diritti umani si aggiungono la «maggiore sofisticazione e interiorizzazione» del crimine organizzato e le risposte governative «molto inefficaci», ricorda Goebertus. È il caso del «populismo punitivo» praticato da El Salvador, dove in due anni e mezzo sono state arrestate 83’000 persone e 300 sono morte in prigione, «senza che ci siano stati un processo e delle indagini serie». O in Ecuador, che da un anno è in stato di emergenza con un aumento esponenziale dei casi denunciati «di uso eccessivo della forza, torture, sparizioni ed esecuzioni extragiudiziali». «Abbiamo politiche a breve termine basate sull’incarcerazione di massa, ma senza una reale capacità di indagine tecnica giudiziaria per svelare le strutture», nota Hrw, che chiede «investimenti a lungo termine» per «rafforzare la capacità di amministrazione della giustizia reale».
Nepal ◆ ll Governo ha di recente annunciato una serie di misure nel
Giulia Pompili
Ogni anno, all’inizio della primavera, alpinisti e responsabili delle agenzie specializzate nelle spedizioni sull’Everest guardano la meteo: c’è un momento preciso in cui le correnti di aria gelida si spostano e si apre la finestra meteorologica perfetta per consentire l’accesso alla cosiddetta «zona della morte», quella oltre i settemilanovecento metri, un passaggio obbligato e pericolosissimo per raggiungere le vette più alte dell’Himalaya.
Fu la giapponese Junko Tabei la prima donna a conquistare la cima, nel 1975, insieme allo sherpa Ang Tshering
Ma il turismo intensivo e i cambiamenti climatici stanno rendendo l’ascensione alla montagna più alta del mondo (8’848 metri) sempre più complicata: ogni primavera si diffondono online le fotografie di passaggi critici come il Colle Sud e l’Hillary Step intasati dai cosiddetti «turisti della montagna», facilitati nell’impresa sia dagli sherpa – le guide in alta montagna dell’omonimo gruppo etnico nepalese – sia dalle agenzie specializzate che promettono di far vivere l’esperienza anche a scalatori inesperti.
Da anni si parla di una possibile
riforma delle regole per accedere alla vetta: a fine aprile il Governo del Nepal, che ospita otto delle quattordici montagne più alte del mondo, tra cui l’Everest, ha annunciato una serie di misure nel tentativo di ridurre i problemi legati all’overtourism. Anzitutto, il costo del permesso per l’ascensione, a partire da settembre di quest’anno, aumenterà del 36%, passando da 11 mila a 15 mila dollari. Ma è allo studio anche una legge che potrebbe rendere obbligatorio, per arrivare alla cima dell’Everest, dimostrare di aver scalato almeno una montagna da settemila metri. Secondo l’agenzia di stampa indiana Ndtv, «il Nepal è stato criticato per aver permesso a troppi alpinisti inesperti di scalare l’Everest». Nel 2023 il Governo ha rilasciato 478 permessi: nello stesso anno almeno 12 alpinisti sono morti durante la scalata e cinque sono dispersi. L’anno scorso erano stati otto i morti, e tre i dispersi. «Gran parte di questi decessi sono avvenuti nella cosiddetta “zona della morte”, vicino alla vetta», riporta la Ndtv, «dove l’ossigeno è scarso e spesso si creano delle code». E tutti ricordano il 23 maggio del 2019, quando – per le condizioni meteo variabili – 354 persone raggiunsero la vetta nello stesso giorno, un record assoluto: tre scalatori morirono. Quest’anno l’allerta è alta: la stagione di scalata è appena iniziata,
e finora Katmandu ha rilasciato 402 permessi, che si prevede supereranno i 500 tra maggio e giugno.
C’è un motivo: il Nepal, Paese stretto fra India e Tibet, fra l’influenza di Delhi e quella di Pechino, dipende dal turismo di montagna internazionale per le sue riserve di valuta straniera. E molti nepalesi, legati alla sacralità dell’alpinismo, denunciano l’eccessiva commercializzazione che, negli anni, ha trasformato la catena montuosa himalayana. La scorsa settimana, un sondaggio lanciato dal «Kathmandu Post» ha rivelato che quasi il 46% dei lettori ritiene che l’ascensione dell’Everest sia una questione «di fama più che di scoperta». Per il 42%, invece, «il vero problema è la commercializzazione». Come quella di cui si è discusso nelle ultime settimane: la «7-Day Mission Everest», l’idea di quattro britannici di compiere il record (per beneficenza) di partire da Londra, conquistare la vetta della montagna più alta del mondo e tornare a casa nel giro di una settimana.
Ci sono riusciti, anche grazie all’inalazione del gas xeno, considerato dopante nell’arrampicata sportiva, che permetterebbe di evitare le lunghe fasi di acclimatamento nelle tappe intermedie dell’ascensione. «Con il sostegno di anni di ricerca, di protocolli di acclimatazione guidati da esperti, e con il supporto salvavita di
un’applicazione d’avanguardia dello xenon, puntavamo a dimostrare che con la tecnologia, la preparazione e l’etica giusta è possibile accelerare le ascensioni – senza rischiare vite», ha detto al suo ritorno il manager della spedizione, Lukas Furtenbach. È un mondo molto diverso rispetto a quello dei primi pionieri. Il 29 maggio del 1953 furono il neozelandese Edmund Hillary e la sua guida nepalese Tenzing Norgay a raggiungere per la prima volta la vetta dell’Everest. Da allora, quasi 9’000 persone
ci sono riuscite, e più di 280 hanno perso la vita nel tentativo di farlo. Dopo la prima impresa di Hillary e Tenzing, ci sono voluti altri ventidue anni prima che una donna riuscisse ad arrivare in cima.
Nelle scorse settimane, il Giappone ha celebrato i cinquant’anni dall’impresa dell’alpinista Junko Tabei, che il 16 maggio del 1975, insieme con lo sherpa Ang Tshering, conquistò la cima dell’Everest e divenne una leggenda dell’alpinismo femminile, e più in generale del femminismo nipponico. «Non riesco a capire perché gli uomini facciano tutto questo clamore per l’Everest: è solo una montagna», disse una volta Tabei, che all’inizio degli anni Settanta – quando era già madre di una bambina e cercava fondi per finanziare la sua missione in Nepal – aveva ricevuto molti dinieghi proprio perché l’alpinismo non era considerato un affare per donne. Tabei è morta nel 2016. Anche dopo aver scalato tutti i sette ottomila, continuava a fare da guida sul monte Fuji, la montagna sacra del Giappone. E in un’intervista allo Spiegel di qualche anno fa continuava a minimizzare l’impresa: «Ma quale eroismo! Ho fatto solo quello che volevo». Tabei è un’icona ancora oggi per molte donne e per molti alpinisti, che guardano alla montagna e vedono competizione o profitto. Lei vedeva solo forza di volontà.
Israele ◆ Avi Kaiser e Sergio Antonino: «Nulla sarà mai più come prima del 7 ottobre 2023», «L’artista che accusa la realtà è un politico»
Sarah Parenzo
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A oltre 600 giorni dal 7 ottobre la situazione in Israele e Palestina è più drammatica che mai. Mentre si rafforza la condanna del mondo sempre più indignato di fronte alla crisi umanitaria a Gaza, dove ogni giorno adulti e bambini muoiono a causa delle bombe, ma anche della fame e della sete, le famiglie degli ostaggi israeliani sono state abbandonate dal primo ministro Netanyahu che persiste nella propria linea dura nonostante l’assenso a un accordo di pace proposto dagli Usa (che però non soddisfa Hamas). Nel frattempo, in risposta all’agenda messianica dei sionisti religiosi al Governo, che ostentano senza pudore la brama di colonizzare la Striscia, in Israele si levano dure voci di condanna, tra cui quella di Yair Golan, leader del nuovo partito democratico nel quale molti ripongono le speranze per le prossime elezioni. Tuttavia – come dimostrano le marce tenutesi nella Città Vecchia in occasione della Giornata di Gerusalemme (festa nazionale israeliana che commemora la «riunificazione» di Gerusalemme est con Gerusalemme ovest nel 1967), che lunedì scorso hanno offerto al mondo uno dei peggiori spettacoli possibili – la battaglia degli oppositori del Governo israeliano è ancora lunga. Netanyahu, dal canto suo, minaccia i Paesi esteri di procedere all’annessione della Cisgiordania qualora riconosceranno lo Stato palestinese come annunciato da alcuni. In un momento in cui l’incertezza domina la scena lanciamo uno sguardo all’arte che denuncia e getta ponti anche quando la speranza vacilla.
Tel Aviv è da sempre pioniera nel campo della danza contemporanea, nota per aver regalato al mondo artisti come Ohad Naharin, dal 1990 direttore artistico della compagnia Batsheva. Nel mese di maggio, spinti dall’esigenza di dare voce a un grido doloroso per un cessate-il-fuoco immediato a Gaza, per il rilascio di tutti gli ostaggi, per la promozione di un accordo di pace sostenibile e per la costruzione di un futuro di convivenza, i ballerini di Batsheva hanno invitato il pubblico ad una serata di beneficenza dal titolo «Artisti per la pace». In opposizione al ciclo di accuse, violenza e disumanizzazione nel quale la società viene trascinata dal 7 ottobre 2023 (attacco di Hamas a Israele) hanno affermato: «Dobbiamo fare in modo che l’idea di pace non diventi un’idea radicale. Non pretendiamo di cambiare il mondo dall’oggi al domani, ma consideriamo la cultura come una rappresentazione viva e pulsante dello spirito della società e, data la possibilità di scegliere tra il silenzio e un forte grido, scegliamo di alzare la voce e gridare “Basta!”, convinti che ciò possa aprire la strada a un futuro più luminoso». Durante la serata è intervenuta Sally Abed, una delle principali attiviste di Standing Together, movimento di cittadini israeliani, ebrei e palestinesi, che lottano per la pace, l’uguaglianza e la giustizia sociale. Al fine di trasmettere un messaggio comune di riconciliazione, solidarietà e umanità, buona parte del ricavato dell’evento è stato donato al Families Headquarters for the Return of the Abducted and Missing per il sostegno finanziario ed emotivo degli ostaggi e delle loro famiglie. Per meglio comprendere cosa significa essere ballerini e coreografi a Tel Aviv, incontriamo gli artisti
Avi Kaiser e Sergio Antonino, rispettivamente israeliano e italiano, che dal 2002 condividono vita e creatività a cavallo tra Israele e Germania.
Si può dire che cercando di sopprimere la creatività, la guerra e la politica finiscono per stimolarla?
Lo scopo di ogni atto artistico non è quello di edulcorare, trasformare o sublimare la realtà. È un dovere, quello dell’artista, di denunciarla e spingere il fruitore dell’arte a compiere un’analisi della storia in cui vive ed agisce. Il tempo dell’ispirazione è finito (o non c’è mai stato): anche quando un lavoro non ha apparentemente un legame col presente, ha sempre in sé l’urgenza di sviscerarlo. È un politico l’artista che «accusa» la realtà, soprattutto quando questa è drammatica, come nel caso di una guerra. C’è sempre stata la tendenza nella storia, da parte dei Governi dispotici e dittatoriali, a soffocare la voce degli artisti, perché forse rappresenta la coscienza del popolo. Ma è proprio in questi paesaggi di repressione che l’artista è chiamato a gridare il suo disappunto.
Com’è cambiato il vostro lavoro dopo il 7 ottobre?
Nulla sarà mai più come prima del 7 ottobre. Questa data rappresenta uno spartiacque. Serviranno generazioni per arrivare di nuovo a spiragli di speranze per un futuro migliore, in Israele e nel mondo. Il nostro lavoro, crediamo, possiede ora la volontà di essere ancora più autentico. È una danza, la nostra, che si mette a nudo e si offre, dialoga col pubblico, mette in dubbio anche se stessa, se necessario. Il bello fine a se stesso è inutile.
Il vostro stile nel teatrodanza nasce anche dal confronto e dalla discussione: proprio la vostra diversità è fonte di creatività. Perché la società israeliana è così spaventata dalle diversità al punto da non riuscire più ad integrarle?
La società israeliana non è spaventata dalla diversità; è la sua stessa essenza. Al massimo, la tendenza, forse esagerata, è quella di proteggerla, difenderla coi denti e con le unghie. Dovrebbe forse alleggerire questa tensione e «normalizzare», per non essere esclusiva…
Percepite un cambiamento da parte del pubblico europeo? Cosa pensate del movimento BDS a guida palestinese per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele.?
La danza israeliana è molto apprezzata all’estero e finora non abbiamo
mai avuto problemi. Bisognerà vedere ora se il movimento di protesta, quello becero e spesso privo di una vera ed attenta analisi della situazione, rovinerà questa stima. Chi boicotta l’arte è uno stupido.
La danza è parte integrante della cultura ebraica religiosa e popolare, in particolare chassidica. Anche durante la Amidà, la preghiera a bassa voce che costituisce il momento più intimo del dialogo con Dio, gli uomini usano dondolarsi avanti e indietro. La spiritualità e la fisicità sono dunque connesse, pensate che la danza potrebbe «curare» la sofferenza che permea lo spazio pubblico dopo il 7 ottobre?
La danza, come il rito, la preghiera, il mantra, la trance sono collegati in qualche modo alla trascendenza… La danza è una forma d’arte e, come ogni forma di espressione, stimola le coscienze. Tuttavia non si tratta di una terapia. La danza-terapia è un’altra cosa.
Dal 2009 uno dei vostri lavori di punta è «At your place», uno spettacolo nato su iniziativa del Ministero della Cultura tedesco allo scopo di portare la danza a casa delle persone, negli spazi privati. Mentre oggi il sistema cerca di sopprimere la curiosità e impedire il dialogo, il vostro tipo di danzateatro mira ad accorciare la distanza con lo spettatore che svolge un ruolo attivo che lo responsabilizza. Pensate che questo modello di condivisione e avvicinamento potrebbe aiutare anche nella relazione tra ebrei laici e religiosi, o tra israeliani e palestinesi? Un corpo che si muove di solito non mente. Veicola un senso di verità ed autenticità. La danza che esce dai teatri e si avvicina al pubblico, sfondando la quarta parete, può e deve diventare motivo di incontro e di dialogo. Dove ci conduce la vostra prossima coreografia «Ben Acherim» (lett. «tra gli altri») che andrà in scena a Tel Aviv il 20 giugno prossimo? «Ben Acherim» è il nostro ultimo duetto e si ispira alla dicotomia tra «essere» e «apparire». Lo spunto è Pirandello e il suo concetto di maschera. Siamo Uno, nessuno e centomila, siamo personaggi in cerca d’autore sul palcoscenico della vita.
Porterete lo spettacolo in Europa?
La prima si è tenuta lo scorso marzo in Germania al DKM Museum di Duisburg. Dopo Tel Aviv a giugno, saremo di nuovo in Germania e forse Parigi.
Nella sua rappresentazione più semplice, il circuito di un’economia è descritto come lo scambio di prestazioni e merci tra due gruppi di agenti: i consumatori da un lato e i produttori dall’altro. Ad ogni flusso di merci e di prestazioni corrisponde un flusso di denaro. In un sistema che funziona, i flussi di denaro che nascono dallo scambio di merci e quelli originati dallo scambio di prestazioni si equivalgono. Inflazione e deflazione sono invece le malattie che insorgono nel sistema quando questi flussi non sono in equilibrio. Questa descrizione del modo in cui funziona un’economia è altamente semplificata e serve, nei corsi introduttivi alla materia, solo per cominciare il discorso. Se dalla considerazione più astratta vogliamo avvicinarci alla realtà dell’operare quotidiano di un’economia dobbiamo riconoscere per esempio che a far da tramite
tra i produttori e i consumatori c’è la distribuzione. In un’economia avanzata come la nostra, la distribuzione assicura che le merci prodotte vengano messe a disposizione del consumatore nella quantità e qualità volute e al prezzo più conveniente. Che il compito della distribuzione non sia dei più facili, produttori e consumatori lo realizzano solamente quando la cattiva stagione influisce negativamente sul prezzo della produzione agricola o quando, per problemi tecnici o a causa di incidenti il trasporto dai luoghi di produzione verso quelli del consumo, viene sospeso per qualche giorno.
Quest’anno la cooperativa Migros compie 100 anni. Nata nel Canton Zurigo la Migros ha saputo creare, in meno di 30 anni, una fitta rete di negozi in tutta la Svizzera. Non è stata impresa da poco perché il suo fondatore, Gottlieb Duttweiler, si è
trovato in più di un Cantone a dover superare grosse difficoltà e forti opposizioni da parte di coloro che vedevano l’affermarsi di un colosso nella distribuzione come una minaccia per i piccoli negozi locali. È possibile che la trasformazione dell’azienda in una federazione di cooperative regionali abbia aiutato a sminuire le opposizioni e a superare più di un ostacolo durante questo periodo di espansione. Così oggi i negozi della Migros sono amministrati da 10 cooperative regionali, di diversa taglia, tra le quali Migros Ticino. Come è già stato evocato in questo settimanale, la storia della Migros è quella di un’azienda di successo. Questo successo lo deve largamente all’idea del suo fondatore che pensò che, con il diffondersi della motorizzazione privata, fosse arrivato il momento anche in Svizzera di creare un’organizzazione di distribuzione mi-gros,
«Credo che Donald Trump non abbia capito che cos’è il soft power », ha detto qualche tempo fa Joseph Nye, il professore di Harvard che nel 1990 coniò l’espressione soft power : «Ripensate alla Guerra fredda, allora la deterrenza nucleare Usa e le truppe americane in Europa erano cruciali. Ma quando il muro di Berlino crollò, non fu l’artiglieria a tirarlo giù. Venne giù per via dei martelli e dei bulldozer delle persone le cui menti erano state cambiate da Voice of America o dalla Bbc». Nye è morto lo scorso maggio, a 88 anni, e nei tanti necrologi che gli sono stati dedicati ricorreva proprio questo tema: Trump sta distruggendo il soft power americano, che è una risorsa preziosa per gli Stati Uniti ma lo è stata moltissimo anche per il resto del mondo. Il presidente americano ha smesso di promuovere la democrazia nel mondo; ha tagliato gli aiuti internazionali ai popoli in guerra e in povertà; ha licenziato dipendenti di
Voice of America, Radio Free Europe, Radio Liberty e di altre emittenti che erano nate nell’immediato dopoguerra all’interno di quella che allora veniva chiamata «la crociata per la libertà», per dare voce ai dissidenti e agli oppressi del mondo non (ancora) libero; ha tagliato i fondi per la ricerca e lo sviluppo e sta rendendo la vita impossibile agli studenti e ai ricercatori stranieri nelle università e nei centri di ricerca Usa. Lo scontro con l’università di Harvard, l’ateneo più ricco del mondo, si colloca in questo smantellamento rapido del soft power americano. Ci sono temi specifici: la volontà dichiarata dall’Amministrazione Trump di sradicare l’antisemitismo e l’ideologia woke ad Harvard e negli altri campus, ma il progetto è più ampio, lo ha detto lo stesso presidente, lasciando intendere che la lotta agli studenti stranieri è fatta a difesa degli studenti americani, come se i primi rubassero posti
ai secondi. La segretaria alla Sicurezza interna, Kristi Noem, ha affermato che il Governo deve avere la possibilità di controllare chi sono gli «alieni» che vanno a studiare ad Harvard, è un suo diritto, visto che l’università prende fondi pubblici. Noem, come molti altri ministri, ha qualche problema a riconoscere i valori e i diritti su cui si fonda l’America e il mondo libero. In un’audizione al Congresso, Noem ha dato questa definizione dell’ habeas corpus: «È il diritto costituzionale che ha il presidente di poter espellere le persone da questo Paese». È vero l’esatto contrario, come le ha detto la senatrice democratica che le aveva fatto la domanda: «No, non è corretto, l’ habeas corpus è il diritto fondamentale che divide le società libere, come l’America, dagli Stati di polizia come la Corea del nord». Questo scambio non proprio rassicurante permette di comprendere lo scontro tra l’Amministrazione e Harvard: non è, co-
Messaggi captati il mese scorso mi inducono a tornare sulla guerra in atto da decenni fra stampa scritta e mezzi di informazione digitali. Le spinte arrivano da un editoriale del direttore del «Corriere del Ticino» Paride Pelli e da una newsletter del peraltro direttore de «Il Post», Luca Sofri. Il primo analizza l’aumento sul fronte dei lettori realizzato dal CdT lo scorso anno (2000 in più per un totale di 94’000 lettori) e si sofferma sul futuro del giornale alla vigilia dei suoi 135 anni. Il secondo in pratica si congeda (ha lasciato la direzione a Francesco Costa) e rivela che dopo 15 anni di attività il maggior giornale digitale italiano oggi può contare su oltre 100’000 abbonati che lo sostengono per quanto quotidianamente propone sul web grazie a un manipolo di validi giornalisti. Il messaggio di Pelli l’ho letto sul giornale, risultato finale di
ossia mezzo grossista e mezzo dettagliante. Con la forza della domanda nei suoi negozi al dettaglio Migros poteva, nelle sue contrattazioni di grossista, esercitare quell’azione calmierante sui prezzi che le prime cooperative della seconda metà del secolo diciannovesimo, obbligate a muoversi in modo individuale negli acquisti e prive di mezzi di trasporto, ancora non avevano potuto fare. Così, nei centri industriali dei primi decenni del ventesimo secolo, la popolazione si riforniva nei negozi di commestibili o coloniali che offrivano un limitato ventaglio di prodotti a prezzi elevati. Si può affermare che l’impatto della grande distribuzione nel contenimento dell’evoluzione dei prezzi dei beni del consumo quotidiano sia stato determinante. Pensate che, ancora negli anni Trenta dello scorso secolo, la famiglia ticinese spendeva più del 40 per cento del suo
reddito per l’acquisto di beni per il consumo quotidiano. Oggi, invece, per questi beni spende meno del 10 per cento. La storia della Migros è però anche la storia di un’azienda della distribuzione che ha trasformato il modo di vivere e la qualità della vita degli svizzeri. Nel 1925, quando Duttweiler aprì il primo negozio, buona parte della popolazione svizzera era ancora occupata nell’agricoltura e viveva, in campagna o in montagna, largamente di beni che produceva direttamente nel proprio orto e nella propria azienda. La dieta era sufficiente ma certamente poco variata. Dalle poche decine degli inizi, l’offerta di prodotti, nei negozi e nei camion della Migros, salì rapidamente a qualche migliaio. Oggi, nei negozi e online, i suoi clienti possono scegliere tra decine di migliaia di prodotti. Un vero e proprio Paese di Bengodi!
me vogliono far sembrare i trumpiani, una lotta contro l’università dei ricchi che vuole approfittare dei fondi pubblici per portare avanti idee antisemite o woke È un riposizionamento ideologico dell’America e del suo potere «dolce», che ora smette di portare conoscenza, innovazione e libertà nel mondo ma si richiude, pensando – come dice Trump – di aver fatto già abbastanza o, peggio ancora, che la repressione della libertà nel mondo non sia più un suo problema. Così un Paese che è stato un rifugio sicuro per la dissidenza globale – senza quel porto in cui approdare, ad esempio, gran parte delle idee, della scienza, degli intellettuali europei sarebbe stata spazzata via dai totalitarismi del Novecento –ora diventa inaffidabile e ostile. Ma il nostro ordine globale si fonda proprio sulla capacità degli Usa di esercitare il proprio soft power, di metterlo a disposizione degli alleati e delle per-
sone che vivono sotto a regimi autoritari, di attirare e di proteggere. Senza questo ombrello ideale, l’Occidente rischia di spezzarsi, perché se è vero che l’Europa può compensare in parte l’assenza del rifugio americano, è anche vero che la potenza fintamente soft della Cina è già molto più avanti. Il paradosso sta nel fatto che, proprio come è accaduto con i dazi, l’America in questo modo fa male a sé stessa: l’eccellenza di cui dispone non è per forza autoctona, il fatto di essere sempre stato il Paese dei desideri ha contribuito a farla diventare un tempio del sapere e della conoscenza di cui è difficile fare a meno. Basti vedere il dollaro, che non è più considerato all’unanimità la valuta-rifugio, quanti mal di testa sta causando all’Amministrazione Trump. Ma il presidente finge di non vedere che nella difesa di un interesse comune – la libertà, la democrazia – sta anche la difesa dell’interesse nazionale, e distrugge entrambi.
un processo di meccanizzazione che ha caratterizzato l’informazione del secolo scorso; il secondo invece su un tablet, figlio di un’automazione che sta segnando il futuro dell’informazione e della società nel mondo intero. Colpisce il filo conduttore sinora (da me) mai considerato: il ruolo determinante ricoperto dall’elettricità nel passaggio non solo da un media all’altro, ma anche da un’era all’altra.
Con l’elettricità, da sempre, ho un rapporto strano dominato un sottofondo di mistero riconducibile anche alla mia ignoranza. Più che dalla luce nelle case o nelle strade – forse per la presenza dei fili che un tempo collegavano gli edifici – la vena di mistero è progredita scoprendo radio e telefono: come può, mi chiedevo, la voce viaggiare mediante, se non assieme, alla corrente elettrica? Lo stesso interrogativo è tornato non tanto con il cinema, ma
con l’arrivo delle immagini della televisione, per poi rafforzarsi di recente con le ibridazioni in atto fra elettricità e informatica. Componente di mistero a parte, è comunque l’elettricità a dettare accelerazioni alla storia, a favorire conquiste e dispositivi che stanno spingendo la nostra società ad abbandonare l’era della meccanizzazione del ventesimo secolo e ad avviare quella dell’automazione. Come già detto, una prova di questa evoluzione, applicata al mondo multimediale, è contenuta negli stessi messaggi ricevuti: il primo stampato su carta da macchine che l’editoria ha saputo aggiornare con ibridazioni informatiche. Il secondo, invece, scritto e distribuito con il web, a conferma di un’automazione che continua a evolvere, visto che dietro l’angolo elettricità e industria mediatica stanno varando incroci fra giornalismo e intelligenza artificiale.
Andare oltre queste considerazioni e immaginare il futuro dell’informazione è troppo per la mia mente, oltretutto sempre più condizionata dal cupo scenario previsto da Andrey Mir, futurologo canadese: «Il punto di non ritorno per il collasso del sistema di produzione e distribuzione dei giornali verrà raggiunto tra la metà e la fine degli anni Venti. La lunga serie di chiusura di giornali continuerà fino a metà degli anni Trenta: cinque anni di agonia, seguiti da dieci anni di convulsioni, e poi la morte». Per attutire il pessimismo concreto di Mir posso solo proporre una finezza dell’umorismo yiddish attribuita al signor Morgenstern. Salvatosi per miracolo dalla deportazione, dopo la guerra aveva ripreso le vecchie abitudini. Prima fra tutte, la lettura del giornale al suo solito caffè, accolto con l’elettricità, gioia e affetto dal
vecchio cameriere che era solito servirlo. «Hans, insieme al caffè, portami lo Stürmer », dice distrattamente il signor Morgenstern. Il cameriere gli fa notare che il giornale non esiste più. Il giorno dopo la stessa scena si ripete. «Hans, insieme al caffè, portami lo Stürmer », ordina il signor Morgenstern. «Lo Stürmer non esce più, Herr Morgenstern, è stato chiuso», ripete Hans. La cosa va avanti per vari giorni, finché Hans, spazientito, chiede al signor Morgenstern perché continua a chiedere lo Stürmer. «Solo per il piacere di sentirmi dire che il giornale del partito nazista non esce più», risponde allegro il signor Morgenstern. Nella guerra mediatica attuale gli schieramenti sono gli stessi: delicati dettagli socio-culturali contro funerei diktat industriali. E il verdetto finale rischia di dipendere dall’intelligenza artificiale.
Novità 2.80
Il palco come strumento di lotta civile
Dagli Stati Uniti al Medio Oriente, i comici hanno sfidato censure, regimi e razzismo; Dick Gregory fu tra i primi a spianare la strada
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Uno sguardo all’editoria ticinese
Dal Nonno che non è una locomotiva di Silvana Bezzola, ai Territori di parole, passando per saggi e romanzi, fino alle poesie di Alfonsina Storni
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Il talento di Georges Bizet
Scomparso un secolo e mezzo fa, il compositore francese non fu solo la mente della meravigliosa Carmen, ma scrisse anche altri brani di valore
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Mostre ◆ Rancate ospita la prima mostra monografica dedicata a questo talentuoso artista dimenticato
Quello di Angelo Giorgetti è un nome poco noto ai più. Attivo nella prima metà del Novecento, il pittore e scultore nato a Milano da una famiglia ticinese appartiene a quella cerchia di artisti che, nonostante siano riusciti a costruirsi una solida reputazione, sono rimasti figure conosciute e apprezzate solo da un ristretto gruppo di intenditori e collezionisti.
L’esilio di Giorgetti tra i «dimenticati dell’arte» appare strano perché, anche solo scorrendo la sua biografia, ci si rende conto di avere a che fare con un uomo curioso e intraprendente, capace, poco più che ventenne, di partire alla volta di Parigi mosso dal desiderio di vivere della propria pittura. Senza il consenso della famiglia (il padre Mario, direttore di banca, voleva per lui un futuro più stabile) e con non poche difficoltà economiche, Giorgetti sceglie la Ville Lumière, in quanto luogo stimolante e dal respiro internazionale dove potersi sentire libero e appagato. D’altra parte non può stupire che un artista eclettico e avventuroso come lui abbia deciso di vivere nella capitale della modernità, per giunta nei cosiddetti «Anni folli» parigini, in quel clima cosmopolita di grande effervescenza culturale che travolse la città dopo la fine del primo conflitto mondiale. Uomo dalle tante passioni e aperto alle gratificazioni della vita, in Francia l’artista trova terreno fertile per il suo entusiasmo. A rendere Giorgetti una figura per certi versi sui generis è anche il suo approccio all’arte, un modus operandi che lo vede procedere controcorrente rispetto alle tendenze del tempo e che ne mette in risalto la risolutezza nell’accostarsi alla pittura in maniera diretta e genuina. Del 1955 è l’emblematica testimonianza dello storico Giuseppe Martinola: «Pittori in giro per le piazze, al parco, sulla riva non se ne vedono quasi più; e anche quelli che uscivano all’aperto, che lavoravano en plein air si sono tappati nei loro studi silenziosi. Il Giorgetti ha saputo tener duro, continuando una tradizione che s’è venuta spegnendo. Invidiabile lui, ha superato il fastidio della gente che si accalca intorno curiosa e che ha fatto battere in ritirata tanti altri, si è corazzato contro il rumore e il frastuono della città, contro le mutevolezze del clima a cielo scoperto». Peculiarità della pittura di Giorgetti, difatti, è la rapida esecuzione del soggetto, sia esso un paesaggio o un ritratto, proprio per riuscire a restituire con intuizione e tempestività tutti gli aspetti che lo caratterizzano nel preciso momento in cui viene immortalato. Tale abilità di cogliere l’attimo con uno stile che non si attarda «nella ricerca di raffinatezze e in costruzioni mentali», per citare ancora il Martinola, si sposa però con l’estrema attenzione per l’equilibrio formale
della composizione, per gli effetti luministici e per l’uso del colore. Lungo il suo cammino, troviamo l’artista frequentare a Milano l’atelier di Adolfo Wildt, dal quale assimila il rigore plastico della scultura simbolista, e studiare sotto la guida del pittore Aldo Carpi. Nel 1924 parte per Parigi, dove resterà per ben quindici anni seppur con ritorni periodici a Lugano. Nella capitale francese, forse in contatto con la nutrita colonia di ticinesi che proprio in quegli anni, grazie all’Associazione Pro Ticino, conduce una vita molto attiva a livello sociale e culturale, Giorgetti inizia la sua nuova avventura senza risparmiarsi in impegno e fatica. Frequenta l’Académie Julian, scuola improntata a incentivare la libertà espressiva degli studenti, e partecipa al Salon de la Société des Artistes Français, l’esposizione annuale che si tiene al Grand Palais. Nel quartiere di Montmartre, «la collina degli artisti», si dedica alacremente alla pittura e apre anche un’attività come disegnatore d’arte tessile, collaborando con molta probabilità con Robert Ruepp, celebre designer di tessuti e carte da parati. Quando nel 1939 Giorgetti rientra in Ticino viene accolto come il figliol prodigo tornato in patria con il prestigio di una lunga esperienza a Parigi.
A Lugano e a Zurigo raccoglie i primi consensi sia per la vivacità e la schiettezza della sua pittura, sia per la sua capacità di passare con estrema disinvoltura da un soggetto all’altro, dedicandosi anche a tecniche differenti.
Attraverso un percorso al contempo cronologico e tematico, la mostra allestita nelle sale della Pinacoteca Züst di Rancate, curata da Simona Ostinelli, racconta la parabola artistica di Angelo Giorgetti radunando opere compiute dall’artista dagli anni Venti alla fine degli anni Cinquanta. Questa rassegna è la prima monografica del pittore e presenta un nutrito nucleo di dipinti, disegni, mosaici e sculture a cui si aggiungono fotografie e documenti inediti che permettono altresì la conoscenza degli aspetti legati alla vita privata di Giorgetti.
I primi dipinti in esposizione ci parlano non a caso della sua famiglia, come i ritratti della moglie Jolanda Lanfranchini o del figlio Michelangelo, testimonianze del forte sentimento che ha sempre unito il pittore ai suoi cari. Interessanti anche le prove iniziali dell’artista sotto la guida di Adolfo Wildt che attestano la sua abilità nella lavorazione del marmo. Alcune fotografie, invece, ci riferiscono del «Giorgetti bon vivant », immortalato sugli sci, a cavallo e a un ballo in maschera, introducendo così la sezione dedicata agli anni parigini. Tra le opere realizzate in questo periodo troviamo Il vestito nero, una tela che effigia un’affascinante don-
na con un vaporoso abito da sera che ricorda le dame parigine di Paul Albert Laurens, maestro di Giorgetti all’Académie Julian. Oltre a vedute di Notre-Dame e a suggestivi scorci di Montmartre, spicca il ritratto, datato 1936, di Elsa Franconi-Poretti, giornalista, scrittrice e politica luganese molto attiva professionalmente in quegli anni, anche lei a Parigi insieme al marito, presidente della Pro Ticino. Lavoro significativo nella produzione di Giorgetti è Ritratto di signora in giallo, del 1940, una sorta di anello di congiunzione tra il periodo francese e il ritorno in Ticino: il quadro rappresenta un’elegante dama dal fisico statuario e dallo sguardo fiero, sicura-
mente uno dei più riusciti del pittore. A documentare la versatilità di Giorgetti ci sono poi alcuni mosaici a soggetto sacro degli anni Cinquanta e i bozzetti eseguiti per il concorso per gli affreschi delle cappelle della chiesa parrocchiale di Morcote. Bella anche la serie di nudi, un tema, questo, che l’artista declina in varie tecniche e che gli permette di esercitarsi con grande libertà sulla figura umana. Anche le nature morte, alcune delle quali tradiscono i dettami compositivi di Cézanne, e i paesaggi, dedicati non solo al Ticino ma anche alla natura incontaminata dell’Engadina, in particolare alla Val Poschiavo, terra d’origine della moglie Jolanda, ci
raccontano di un artista che sa destreggiarsi tra vari soggetti e tecniche espressive con quel piglio energico e vivace grazie al quale è sempre riuscito a impadronirsi della scena rappresentata per riconsegnarla nella sua seducente immediatezza.
Dove e quando Angelo Giorgetti (1899-1960). Dalla Parigi degli «Anni folli» al Ticino del Dopoguerra. Pinacoteca Züst, Rancate. Fino al 7 settembre 2025.
Orari: da ma-ve: 9-12/14-17; sa-do e festivi: 10-12/14-17; luglio e agosto: 14-17; chiuso il lunedì. www.ti.ch/zuest
Vite da ridere (o quasi) ◆ Pioniere della stand-up comedy black, Dick Gregory trasformò la satira in lotta civile, e non fu il solo
Carlo Amatetti
Da sempre ridere è un atto liberatorio. Ma non sempre ricordiamo che chi ci fa ridere è anche, talvolta, chi più lucidamente ha denunciato ingiustizie, svelato ipocrisie, affrontato i potenti. I comici, in certi momenti storici, sono stati ben più che intrattenitori: hanno contribuito a cambiare il corso delle cose. Un esempio su tutti? Gli Stati Uniti d’America.
A lungo dominata dalla segregazione razziale sancita dalle leggi Jim Crow, l’America del Dopoguerra era un Paese formalmente democratico ma profondamente diviso. I diritti civili degli afroamericani erano negati con ostinata assiduità, anche dopo la storica sentenza Brown vs. Board of Education (1954) che dichiarava incostituzionale la segregazione scolastica. Eppure, a innescare un’accelerazione verso la parità fu anche – a sorpresa –la comicità.
Prima nei teatri clandestini poi nelle marce per i diritti: l’umorismo nero ha aperto la strada al confronto razziale fuori dai cliché
Prendiamo Dick Gregory. È il 1961 quando si esibisce al Playboy Club di Chicago. Di fronte a un pubblico composto da uomini d’affari del Sud bianchi, pronuncia una battuta del repertorio di un altro comico nero, William Ashcan Jones, che vent’anni prima l’aveva concepita, però, per un pubblico prevalentemente nero che frequentava teatri come l’Apollo di New York, formato da persone da poco emigrate al Nord in cerca di lavoro e di sollievo dagli Stati più segregazionisti: «Qui non
serviamo persone di colore», dice un cameriere. Gregory risponde: «Va bene, non mangio persone di colore. Portami un pollo fritto intero». Una gag. Ma anche un cortocircuito politico, sociale e culturale. Gregory diventa il primo comico nero a portare l’umorismo razziale nella cultura mainstream, e da lì a poco sarà in prima fila nelle marce del movimento per i diritti civili, fino alla storica marcia su Washington del 1963.
Prima di quella storica esibizione al Playboy Club di Chicago, la comicità afroamericana aveva dovuto trovare un proprio spazio nei teatri di quartiere,
nei locali notturni clandestini, nelle incisioni dei cosiddetti party album. Artisti come Redd Foxx, Nipsey Russell e Slappy White sfidavano gli stereotipi, criticavano apertamente il razzismo e la morale dominante, e lo facevano con intelligenza, provocazione e ironia. Ma sempre di fronte a un pubblico formato da uomini di colore e da uno sparuto di bianchi curiosi. L’umorismo diventava così un modo per capire, esorcizzare, condividere: un linguaggio accessibile anche a chi non aveva altre forme di rappresentanza. Ma non ancora un ponte tra gruppi razziali che rimanevano lontani anni luce.
Teatro ◆ Lo spettacolo Köszeg torna con forza al festival Territori
Giorgio Thoeni
A dieci anni dal debutto, lo spettacolo Köszeg di Opera retablO si ripresenta a Territori, il festival di teatro negli spazi urbani di Bellinzona. Un ritorno che avrà luogo nell’Officina Nephos sabato 7 giugno con inizio alle 22.
Molti ricorderanno Köszeg quando era ancora un progetto teatrale e venne realizzato nello stile della performance nelle sale dalla fatiscente bellezza della novecentesca villa Bonetti: un site-specific che aveva affascinato tutti per la crudele dolcezza e potenza simbolica.
La sua versione definitiva venne poi inserita con successo nel cartellone del Teatro Sociale nel novembre del 2015.
Il suggestivo progetto teatrale di Ledwina Costantini e Daniele Ber-
nardi è liberamente ispirato all’opera di Àgota Kristóf, la scrittrice ungherese naturalizzata svizzera (1935-2011), in particolare al libro de Il grande quaderno, il primo della celebre Trilogia della città di K., tradotta in oltre trenta Paesi, dedicata alle vicende dei gemelli Lucas e Klaus in un Paese occupato da forze straniere.
Un’opera apparsa in Francia nel 1986 che svelò alla scena letteraria internazionale una voce unica, definita come una favola nera. In realtà è una parabola sulla guerra più che mai attuale, ma è anche un omaggio all’amore, come ci hanno raccontato i due artisti, entusiasti di poter riproporre un lavoro complesso e ricco di rimandi.
Köszeg è uno spettacolo apparentemente crudele, fra altari, fango, fe-
ticci accanto a stilizzazioni grafiche che ricordano il giovane artista ticinese Giona Bernardi, scomparso prematuramente proprio in vista dell’allestimento a cui stava collaborando.
Tuttavia Köszeg, con le sue immagini forti, al limite della provocazione, in realtà trasporta lo spettatore fra le pagine della Kristóf nell’universo dei giochi infantili, quelli che trasformano gli eterni conflitti fra bambini in una continua baruffa alla ricerca di uno slancio d’amore che diventa un abbraccio, una promessa di pace. È forse questo il messaggio allusivo più bello e significativo che ci si possa attendere dal teatro in questo momento di grave crisi internazionale. Da rivedere.
L’anno prossimo ricorrerà il 50esimo della prima pubblicazione de Il
Il comico nero, insomma, si muoveva in bilico tra accettazione e resistenza, rappresentazione e censura. Finché, proprio grazie a figure come Gregory, l’umorismo divenne un linguaggio rispettabile anche per l’America bianca. Gregory rinunciava alle volgarità sessuali – ingrediente immancabile negli spettacoli «clandestini» pensati per un pubblico nero –ed evitava i cliché dei minstrel show, scegliendo invece di parlare con tono pacato ma deciso, puntando a colpire il bersaglio senza inviare messaggi di odio. E soprattutto, non si limitava al palcoscenico: marciava, scriveva,
denunciava, aiutava concretamente le persone, neri e bianchi, vittime della povertà e dell’emarginazione. Il suo successo aprì la strada a molti altri: i club, i produttori, i media iniziarono a cercare altri comici neri. La comicità afroamericana entrava nel circuito ufficiale, diventava un’industria, ma anche una forza culturale e politica capace di raccontare l’America vera, con tutte le sue contraddizioni. E questo non è accaduto solo negli Stati Uniti. Nel mondo, altri comici hanno saputo esercitare un’influenza simile. Beppe Grillo in Italia, prima di darsi alla politica, scardinava dogmi con monologhi spiazzanti. E ancora, comici come l’inglese Mark Thomas che usa il formato del documentario comico per denunciare le multinazionali, la corruzione e la sorveglianza governativa; il comico Zarganar che è diventato il simbolo della resistenza culturale alla dittatura birmana; Bassem Youssef, il «Jon Stewart egiziano», che ha dovuto riparare negli USA per la sua satira contro i regimi egiziani della post-Primavera Araba; lo standup comedian di origini azere Idrak Mirzalizade, espulso dalla Russia dove ha denunciato episodi di razzismo… e tanti, tanti altri che continuano a sfidare il potere con battute, parodie, vignette e strali più o meno espliciti. A dimostrazione di come ancora e soprattutto oggi, in un mondo iperconnesso e dalle mille fibrillazioni, il ruolo del comico resta centrale. Perché quando le parole scottano, quando la politica tace o si fa ambigua, è spesso il comico a dire ciò che tutti pensano ma nessuno osa pronunciare. E allora sì, ridere può diventare un atto sovversivo. O persino rivoluzionario.
grande quaderno e sarebbe bello immaginare una riproposta di Köszeg su una scena istituzionale. Un atto d’amore in sintonia con il messaggio di Àgota Kristóf e un’occasione d’oro per ricordare la grande scrittrice. Territori Festival ritorna per la sua nona edizione dal 4 all’8 giugno 2025 organizzato dal Teatro Sociale di Bellinzona e dalla piattaforma artistica Zona’B. La sua caratteristica principale consiste nell’avere un occhio di riguardo sulla scena della Svizzera
italiana, ad alcuni dei più interessanti soggetti di una nuova generazione di artisti indipendenti che si è affacciata alla professione e che sta offrendo un nuovo slancio al settore con estetiche inedite, nuove modalità produttive, organizzative e di promozione.
Dove e quando: Köszeg di Opera retablO, all’Officina Nephos, sabato 7 giugno, dalle 22. www.territorifestival.ch
Letteratura ◆ Nel libro Mio nonno non è una locomotiva Silvana Bezzola Rigolini racconta la storia del nonno colpito a morte nel 1945, a
Stefano Vassere
«Non guardano tanto per il sottile, i caccia. Un pomeriggio, sbucati dalla collina di Quarcino, hanno fatto un giro sopra i tetti e all’altezza della parrocchiale uno di loro si è sganciato dalla squadriglia e ha dato una mitragliata allo scalo merci, forse convinto di colpire un convoglio di armi tedesche: invece ha colpito un macchinista di qui, falciato dalla raffica mentre faceva manovra». C’è modo e modo di raccontare un fatto storico, in letteratura ma anche nel resoconto storiografico più responsabile e preoccupato di aderire alla verità. Questo è uno di quei modi e sta all’inizio di un antico racconto di Alberto Nessi. Poi ci sono i fatti. Quelli documentati che concernono le violazioni dello spazio aereo svizzero a carico di velivoli americani nei primi due mesi del 1945, tre a Chiasso nel breve periodo di tre giorni, e gli atti di aggressione armata che causarono in Svizzera la morte di 26 persone e il ferimento di una quarantina, oltre a danni materiali. I destini di una di queste persone e della sua famiglia sono raccontati in questo nuovissimo
Begoña Feijoo Fariña Come onde di passaggio Capelli Editore
C’è un tempo in cui tutto sembra ordinario, ma in realtà ogni singolo gesto nasconde la possibilità di una frattura improvvisa. Nel romanzo Come onde di passaggio di Begoña Feijoo Fariña, la quotidianità di cinque vite si intreccia, rivelando una Genova che ignora l’imminente catastrofe del crollo del Viadotto Polcevera. Dario, Sandy, Luca, Marisa e Dante sono i protagonisti di storie diverse, ognuna con le proprie sfide: da una vacanza in Svizzera con la figlia alla gestione di un grave malessere familiare, dalla ricerca di una carriera in Germania alla lotta con un passato doloroso. Tuttavia, il destino li costringerà a confrontarsi con un evento che cambierà per sempre il corso delle loro esistenze, come accade a molti il 14 agosto del 2018, quando si verificò il dramma. Feijoo Fariña, che dopo anni in Ticino si è trasferita a Brusio in Valposchiavo, fonde la narrazione con il respiro di una realtà che a volte scivola via senza lasciare traccia, nel tentativo di catturare l’inquietudine di un presente sospeso e l’urgenza di riconsiderare le proprie certezze. La vita è un flusso inarrestabile, proprio come le onde, che con forza colpiscono, ma che lasciano anche spazio alla speranza.
libro Mio nonno non è una locomotiva di Silvana Bezzola Rigolini (Bellinzona, Salvioni Edizioni, 2025, con testo introduttivo di Alberto Nessi), figlia del figlio dell’unico ferroviere macchinista svizzero ucciso durante la Seconda guerra mondiale. È dunque la storia del nonno della narratrice, che si chiama Lindoro, ed è anche la storia di una specie di compatibilità della sua tragedia con un contesto storico e oggettivo più ampio, nel quale cercare di collocarla. Di più, è il resoconto della ricostruzione di quei fatti attraverso la memoria, o meglio le differenti memorie possibili: personali, cognitive, documentarie, testimoniali, fotografiche. «Volevo ricostruire la storia di mio nonno sulla base dei documenti ufficiali, ma senza trascurare quell’aspetto umano non meno importante eppure in gran parte ignorato dai libri di storia. Il destino individuale, la memoria personale all’interno della grande storia e la memoria transgenerazionale dietro quella ufficiale». Quindi, questo testo ci rende conto di visite negli archivi lontani o più prossimi, della consultazione di articoli di cronaca dei giorni della tragedia, di una intera pubblicazione dedicata al destino del povero Lindoro edita nella Svizzera romanda, di testimonianze raccolte direttamente presso amici e persone vicine, spesso esercitando rituali di amicizia e affetto all’interno dei quali emergono per gradi memorie, testimonianze, documentazioni minute. Colpisce l’effetto prodotto sulla narratrice da uno dei bossoli dei proiettili ritrovati dai ragazzini nei prati circostanti la stazione ferroviaria e recapitatole per posta da un testimone; un valore di prova così vivida ed evocativa da risultarne tra tutte quella più esplicita e clamorosa.
A cura di Baggi e Ceresa Domenico Ceresa, l’album dell’immigrato Edizioni Lucie
È un tributo a una figura fondamentale nella documentazione visiva del Ticino e dell’emigrazione. Parliamo de L’album dell’immigrato di Domenico Ceresa, muratore e fotografo autodidatta proveniente dalla Valle d’Intelvi. Un album di belle fotografie, scattate con una Leica negli anni Trenta-Cinquanta, che restituisce l’intensità della vita nelle nostre valli, con uno sguardo unico che raccoglie un mondo di storie, emozioni e paesaggi attraverso le comunità di Malvaglia, Semione e Ludiano, impegnate in attività quotidiane, matrimoni, lutti e tradizioni. Ceresa ha saputo immortalare con grande sensibilità le storie di una popolazione segnata dalla fatica dell’emigrazione. Il volume, curato da Willy Baggi e Arnoldo Dino Ceresa, raccoglie oltre 300 immagini che offrono una testimonianza storica e sociale dell’epoca.
Nella ricchezza di diverse fonti, percorre l’intero libro l’attenzione privilegiata alla documentazione fotografica, praticata oltretutto con competenza e passione. Delle persone ritratte viene indagato ogni particolare, non da ultimo la direzione dello sguardo, l’oggetto dell’attenzione dei protagonisti di quelle istantanee: del funerale di Lindoro sono conservate sette immagini «inserite in un album color marrone»; gli sguardi degli astanti sono puntati sui due figli, che avanzano affiancati senza guardarsi; di uno sono rilevati «i lineamenti quasi femminili, che non lasciano
Doris Femminis
Chiara cantante e altre capraie
Temposospeso Editore
Il vento fresco delle valli alpine soffia sulle storie di donne che non si arrendono, che combattono la monotonia e la fatica, ma allo stesso tempo sognano e desiderano più di quanto il destino sembri riservare loro. Elisa, con la sua intelligenza inquieta e la voglia di altro, sente sulla pelle il peso di un mondo che non le appartiene. Ma la montagna, per quanto grigia e implacabile, custodisce sogni di libertà e di cambiamento che solo chi sa guardare oltre il confine della quotidianità può scorgere. Pubblicato per la prima volta nel 2016 da Pentàgora, Chiara cantante e altre capraie è tornato da poco in libreria in una nuova edizione, e con una rinnovata forza narrativa. Il romanzo si immerge nella Cavergno di inizio Novecento, dove le vite di quattro bambine diventano un cammino che le condurrà a diventare donne nel segno di un mondo che muta. Tra transumanza, storie di contrabbando e tensioni sociali, le protagoniste sono costrette a fare i conti con le rigide regole sociali che hanno per sfondo la montagna, non solo come luogo geografico, ma anche quale metafora di una lotta per la libertà. Un romanzo che esplora la forza dei legami umani e la resilienza delle donne.
trasparire quasi nulla». Un’altra fotografia (ma sono molte le occasioni) rappresenta un ritratto di famiglia, «otto occhi che mi scrutano, ne sono un po’ intimorita». In questi casi non può non tornare alla mente – sia concesso il pensiero laterale – un saluto a una delle idee più affascinanti della semiotica moderna, l’attacco della Camera chiara di Barthes. Ecco le parole, tenere e dolenti, del maestro: «un giorno, molto tempo fa, mi capitò sottomano una fotografia dell’ultimo fratello di Napoleone, Girolamo (1852). In quel momento, con uno stupore che da allora non ho mai potu-
Giorgia Gianetiempo
Sessantasei gradini
Accornero Edizioni
Nel suo claustrofobico rifugio, Diletta ha costruito un universo di regole per sfuggire a un tormento interiore che dura da diciotto anni. Nel suo libro d’esordio, Giorgia Genatiempo di Lugano, ci conduce in un viaggio psicologico intenso, dove le ossessioni si intrecciano con la fragilità, e ogni giorno è scandito da limitazioni che sembrano impossibili da superare. Il mondo esterno, con i suoi sessantasei gradini, rappresenta una sfida che non può più evitare. Un susseguirsi di eventi sconvolgenti stravolgerà quel fragile equilibrio, obbligandola a confrontarsi con paure che l’hanno tenuta prigioniera troppo a lungo. Sessantasei gradini è una narrazione che esplora i confini tra isolamento e rinascita, immergendo il lettore in una realtà soffocante e al tempo stesso intrisa di speranza.
to ridurre mi dissi: “Sto vedendo gli occhi che hanno visto l’Imperatore”». Nel vasto sondaggio delle memorie possibili c’è l’indagine che è premurosa e insieme quasi scientifica sulla memoria cognitiva del padre-figlio, anziano e affetto da una malattia cerebrale che sonda e rastrella rimozioni e memorie antiche. Soprattutto qui: «la malattia che sconvolge i sentieri della memoria ha riparato la ferita, quella che emerge quando il presente se ne va e il passato diventa presente». E qui: «l’amigdala, parte del sistema limbico cerebrale sede della memorizzazione dei ricordi as-
Giuliano Scabia Lettere a un lupo Edizioni Casagrande
Nel fitto della coscienza, dove le domande si aggirano come animali notturni, un uomo comincia a scrivere a un lupo. Non è il pretesto per una favola, né l’allegoria di un’anima in pena: è un gesto preciso, radicale, poetico.
Lettere a un lupo, ora ristampato nella collana «Tascabili» a ventiquattro anni dalla prima uscita, è una breve raccolta di prose firmata da Giuliano Scabia, tra le figure più visionarie del teatro e della letteratura italiani. In questo libriccino illustrato – le immagini sono dello stesso autore – Scabia affida la voce narrante a un io solitario che dialoga con una creatura simbolica, ma concreta. Il lupo, da figura dell’altro o dell’ombra, si trasforma in interlocutore capace di ascolto e vicinanza. Ogni lettera è un esperimento di prossimità. I pensieri scivolano leggeri, ma restano incisi come graffi. Ci sono la città e la foresta, l’ingranaggio e il sogno, la stanchezza e la speranza: contrasti che l’autore orchestra con una lingua affilata e tenera. Il formato epistolare – scelto non per nostalgia ma per precisione – rende possibile una forma di onestà spoglia, e forse anche infantile, ma mai ingenua. Non cerca consolazioni, ma domande.
sociati a eventi emotivi, si consumava inesorabilmente. L’ippocampo, sede della memoria a breve e lungo termine oltre che della memoria spaziale e di orientamento, stava mescolando le carte della percezione, stravolgendo tempo e spazio».
La ricerca della verità per le vie più varie è costante e determinata, e si ferma soltanto davanti a una tra le dimensioni individuali più critiche, quella dell’identità del pilota autore del gesto: raccolte tutte le informazioni, la ricercatrice rinuncerà a fornirle a chi saprebbe rivelarle quel nome, chiedendosi a che cosa sarebbe, in fondo, servito. Anche qui, la tensione tra individui e storia collettiva pare forse insopportabile e alla dimensione privata si sceglie di privilegiare altre necessità.
Insomma, questo libro è principalmente il triste ricordo di un fatto familiare tragico ma è anche, e forse soprattutto, un sondaggio dei protocolli di memoria: da quelli individuali, a quelli famigliari, a quelli ufficiali, documentali, percettivi, intuitivi, cognitivi, testimoniali. L’inventario puntuale delle diverse prospettive dalle quali guardare un fatto, per cercare di leggerne caratteristiche e sedimenti qualificanti. Tutto l’occorrente per capire e interpretare un episodio e, dunque, per cercare di dargli pace. Interrogandosi sulla natura del trauma di suo padre, reso orfano troppo presto e oltretutto in quelle circostanze, chi racconta questa storia ha modo di ragionare anche su quali e quante siano le discipline che concorrono nella ricerca di senso: psichiatri sistemisti, neuropsichiatri, filosofi, neurobiologi, specialisti dell’intelligenza artificiale. Colpisce la determinazione nell’esame, attraverso tutti i mezzi possibili, delle personalità, dei visi, delle abitudini e delle passio-
Francesca Auguadri
Solo in alto guardano le foglie FirenzeLibri
È un invito a cercare lo slancio, quando tutto spinge a restare a terra. C’è una zona intermedia in cui la poesia accade: un varco fra soglia e sparizione, fra tensione e caduta. È lì che si muove la voce di Francesca Auguadri, nella raccolta Solo in alto guardano le foglie (collana «Fuori stagione», FirenzeLibri), che genera spazi incerti dove il senso non si impone, ma si lascia intravedere. Ne dà prova, ad esempio, la poesia Tra, grazie alla quale si entra agilmente in questa zona di passaggio: tra sacro e profano, veglia e fine, stoffa e pelle. Al di là dell’interpretazione ultima, è un linguaggio fatto di pieghe e sussurri, in cui il corpo si disgrega e l’emozione si annida nei dettagli minimi – «il piacere nei capelli», «le ossa nella schiena». Versi che sembrano tenuti insieme da fragilità, come «ali di farfalla», eppure reggono una visione nitida. Auguadri, docente e già autrice di Fram-menti di vita, affida alla poesia un compito preciso: non spiegare il mondo, ma salvarne ciò che ancora splende. Anche quando tutto pare spingere verso il basso, il suo sguardo resta in alto, dove le foglie – e chi le osserva – possono ancora volare. Una raccolta al contempo leggera e intensa, che tiene il lettore in ascolto.
ni, per dare un volto e un carattere a queste care ombre.
L’ultima parte, per contro, ci riconduce alle parole di Alberto Nessi qui in apertura, e descrive l’immediatezza dei fatti: è una maniera tutta letteraria e lontana dai documenti di dare respiro a quella vicenda e renderla con le parole libere della letteratura e dell’impressione estetica. Il registro è apparentemente oggettivo, quasi una cronaca. Ma il lettore attento rintraccerà, tra le righe e le frasi, tutta la tenerezza della narratrice che, in capo alle innumerevoli ricerche, può dar voce a una sorta di sereno e consapevole dolore, suo e dell’intera sua famiglia.
Infine, quasi a riproporre quella vertigine disorientante del confronto tra le scale di questo libro, quella che richiama l’intimità famigliare e quella che fa i conti con gli accadimenti della storia di tutti, è commovente e insieme emblematico l’episodio nell’ambito dell’indagine svolta, della ricezione sul PC della narratrice, sospesa per tutto il racconto dentro e fuori la Storia, di una mail del presidente Barack Obama in nome del popolo americano. Sembra infatti che, all’epoca, l’ufficio del presidente fosse solito scegliere un paio di corrispondenti cui rispondere tra la moltitudine di lettere pervenute ogni giorno alla Casa Bianca. Scrive Barack, in risposta alla narratrice Silvana: «Credo che tutti noi abbiamo il potere di perseguire il mondo al quale aspiriamo. Le nostre differenze, se unite da ideali condivisi, ci fanno diventare più forti». Insomma, leggete, per tanti motivi, questo libro.
Bibliografia
Silvana Bezzola Rigolini, Mio nonno non è una locomotiva, Bellinzona, Salvioni Edizioni, 2025.
Prosa poetica ◆ Per le Pagine d’Arte è uscita una raccolta epistolare di Alfonsina Storni, sospesa fra rivendicazione e ironia
Manuel Rossello
Più passano gli anni e più la figura di Alfonsina Storni si impreziosisce di un’affascinante e irriducibile ambivalenza. Da un lato l’immagine di un’esistenza sradicata, un arco vitale esile e fugace, segnato dal più delicato dei sentimenti: l’amore; dall’altro, la consapevolezza che l’autrice – nota ai lettori italofoni soprattutto a partire dalla raccolta edita da Casagrande nel 1988 – già in vita aveva ottenuto un largo riconoscimento tra i poeti argentini e che nel frattempo è ormai entrata di diritto nel canone latinoamericano accanto a Rubén Darío, Pablo Neruda e Jorge Luis Borges. Qualunque nuova uscita editoriale che la riguardi è perciò motivo di soddisfazione per i non pochi estimatori della poetessa originaria di Sala Capriasca. Ogni nuovo materiale venuto alla luce, come queste Cinque lettere delle edizioni Pagine d’Arte, è un tassello importante per delineare più compiutamente una figura in parte ancora avvolta da un alone di leggenda.
Certo, il volumetto – poco più che una plaquette – raccoglie dei marginalia rispetto al corpus poetico di Alfonsina Storni, tuttavia la pubblicazione è meritevole perché riporta l’attenzione su una figura non sufficientemente valorizzata dopo l’iniziale entusiasmo seguito all’edizione bellinzonese (ricordo, a Pavia, l’ammirazione con cui ne parlò Maria Antonietta Grignani).
Il volume potrebbe recare come sottotitolo Trattato sul corteggiamento a uso degli uomini, perché dietro l’apparenza di scambi epistolari tra amanti (sono comprese solo le lettere delle controparti femminili), ciascuno dei testi dichiara la volontà di autoaffermazione femminile e, in ultima istanza, di rivendicazione della sua superiorità spirituale sul maschio
(perlomeno nella sua variante gauchesca). Un’asimmetria sentimentale che doveva certo pesare nella quotidianità di una giovane donna nella società argentina dei primi decenni del Novecento, tanto più se questa donna era madre senza essere sposata.
Ibrido per sua natura, il genere epistolare soggiace nelle Cinque lettere alla personalissima scansione poetica dell’autrice («la prosa esita sul ciglio del metro» ha scritto Derek Walcott). Leggendole si viene come sospinti in quella terra di mezzo tra prosa e poesia che con opportuno ossimoro è detta prosa poetica o poesia narrativa. Inutile citare brani dove, tra le righe, pulsano ritmi e ribattiture sonore. Vedrà il lettore avendo tra le mani il prezioso libretto.
In questa piccola raccolta aleggia inoltre un fascino del tutto particolare: la sua ambientazione tardoromantica. Non c’è pagina infatti dove non si colga un’incantevole aria fin-desiècle, un clima alla Amalia Guglielminetti, seppur temperato da una sorta di controcanto gozzaniano.
Un aspetto, infine, che fa di questo esile libro una lettura avvincente è l’ironia di cui il testo è finemente intarsiato. La terza lettera, per esempio, si apre lusingando il destinatario con un elogio in forma di metafora del suo stile epistolare, salvo disilluderlo subito dopo rivelandogli di averla ricavata, la metafora, dal proprio repertorio retorico: «Dalle prime righe della vostra lettera sapete esprimervi come facevate in riva al mare, il quale sussurrava quando la bianca e languida viaggiatrice celeste vi poneva nelle mani una livida luce incantatrice. Non sorprendetevi di questa frase, […] noi donne ci stiamo abituando a dire galanterie con la stessa abilità degli uomini, e ciò dentro il rancido cerimoniale amatorio ha tanto di sconveniente quanto di rivoluzionario». Non c’è modo più perfidamente accattivante per prendersi gioco di un uomo.
Bibliografia
Alfonsina Storni, Cinque lettere, a cura di Carla Borla, Pagine d’Arte, Tesserete, 2025.
Guida letteraria ◆ La Svizzera italiana tra le pagine, ma con poche voci contemporanee
Immaginate di poter esplorare la Svizzera italiana non solo con gli occhi, ma anche attraverso le parole. Di seguire un sentiero e, invece dei cartelli, trovare citazioni di scrittori che quei luoghi li hanno vissuti, amati, narrati. È questo il cuore del progetto Territori di parole, un’iniziativa dell’Osservatorio culturale del Cantone Ticino che unisce letteratura, geografia, narrazione e memoria. Un’iniziativa (concepita in modo da essere dinamica e partecipativa, aperta alle segnalazioni del pubblico) che ha suscitato l’interesse di diverse istituzioni culturali e accademiche. Ad esempio, il Campus SUPSI di Mendrisio ha ospitato la mostra Territori di sguardi e di parole (conclusasi il 17 aprile), che ha valorizzato la Guida letteraria della Svizzera italiana (https://map.geo.ti.ch/s/guida_letteraria) attraverso testi, mappe tematiche e immagini realizzate dagli studenti. Questa esposizione ha evidenziato l’importanza del progetto nel creare connessioni tra letteratura, territorio e arti visive, promuovendo una comprensione più profonda e sfaccettata della regione. Sempre di fresca realizzazione è ora un piccolo cofanetto
– sobrio ed elegante – che raccoglie una serie di fascicoli dedicati ai diversi distretti della Svizzera italiana, che a loro volta contengono selezioni di citazioni estratte proprio dalla già citata e fornitissima guida-mappa letteraria virtuale.
Ogni fascicolo racconta un territorio attraverso brani selezionati da autori che lo hanno descritto in versi o prosa: da Bellinzona alla Vallemaggia, dalla Riviera al Grigioni italiano. Le parole si intrecciano con immagini create dagli studenti del Bachelor in Comunicazione visiva della SUPSI, creando un dialogo tra arte, paesaggio e narrazione. È un modo inedito di camminare tra le righe della geografia ticinese, lasciandosi guidare non solo da mappe topografiche ma da suggestioni letterarie.
Il cofanetto «Territori di parole» è pensato come strumento di divulgazione e scoperta, e rappresenta anche un invito a un turismo più lento, consapevole, fatto di soste e riflessioni. La già citata mostra al Campus SUPSI di Mendrisio, Territori di sguardi e di parole, ha ulteriormente valorizzato il progetto, dimostrando come l’unione tra parole e paesaggio possa diventare esperienza estetica e culturale. Eppure, dietro la brillante idea e la qualità dell’esecuzione, si intravede una zona d’ombra «necessaria» e nota agli addetti ai lavori che hanno dovuto scegliere come dare il via a un progetto di più ampie aspirazioni. Ciò significa che le citazioni sono tutte di autori (non pochi, invero, dato
che sono oltre 800) del passato – soprattutto dell’Ottocento e Novecento – con scarsissima rappresentanza della produzione letteraria contemporanea. Gli scrittori attivi dal 2000 in poi, sono pochi e già passati a miglior vita, per linea editoriale. La mappa letteraria del Ticino non si fermerà però alla tradizione, dato che – sentito Roland Hochstrasser, responsabile del progetto – vi sono già buone idee che le permetterà di evolversi includendo anche voci nuove, quelle che raccontano il territorio di oggi, con i suoi mutamenti sociali, climatici, culturali. Fondamentali, in un’epoca che chiede proprio di saper leggere il presente. Il progetto sarà aggiornato, ampliato, e aperto alla scrittura contemporanea, anche giovane. Solo così la mappa potrà davvero riflettere non solo la memoria, ma anche la vita attuale del territorio trasformandolo persino in attrazione turistica... «Territori di parole» è un oggetto culturale prezioso: è agile come un taccuino da viaggio, profondo come una biblioteca tascabile. Un invito a (ri)scoprire il Ticino con occhi diversi, e orecchie attente a ciò che si è detto... e, presto, a ciò che si dice ancora.
Anniversari ◆ I 150 anni dalla morte del grande compositore sono occasione di riscoperta della sua opera complessiva Giovanni Gavazzeni
Il luogo comune che vuole Georges
Bizet autore d’un opera sola, Carmen, è duro a morire. Forse l’occasione celebrativa dei 150 anni dall’immatura morte sarà propizia per smantellare l’idea del solo capolavoro, scritto pochi mesi prima che una polmonite buscata dopo una nuotata a fine maggio nella Senna, lo spedisse al Creatore. Il pubblico dell’Opéra-comique di Parigi, il teatro delle famiglie e dei fidanzamenti borghesi, rimase scioccato dall’opera rivoluzionaria di Bizet, che presentava nel 1875 una donna libera di scegliere chi amare, fino a pagare con la vita la folle gelosia dell’amante che per lei ha disertato e s’è fatto contrabbandiere. La storia ha elevato Carmen allo status di super-capolavoro che in occasione e anche prima di queste celebrazioni è stato possibile vedere nello storico primo allestimento del ’75, dopo tante operazioni registiche fantasiose e traslochi temporali. Il regista Romain Gilbert ha concertato ogni movimento sulla musica e sull’azione, lo scenografo Antoine Fontane ha dipinto la Spagna di fantasia vista dal nord dei Pirenei, il costumista Christian Lacroix ha resuscitato stoffe, fogge e colori del libretto tratto dalla novella di Prosper Merimée, il datore luci Hervé Gary ha ripensato l’originale illuminazione a gas con barre luminose a bassa intensità collocate dietro ogni telaio. Hanno dimostrato che lo studio delle fonti
storiche a disposizione (libretto, disposizioni sceniche, stampe, bozzetti e figurini) è la chiave per una messa in scena che galvanizza la vista in concordia con l’udito.
Oltre a guardare e ad ascoltare Carmen con diversa consapevolezza, è possibile vedere il genio del suo autore risplendere ben prima del capolavoro. Per decenni altre due opere di Bizet sono rimaste diversamente popolari: l’opera giovanile, Les Pêcheurs des perles (1863), amata nei loggioni ma snobbata dai «sapienti» come dolciastro frutto esotico, giammai accostabile a Carmen che Nietzsche eleverà a simbolo della libera arte mediterranea contro il dilagante dramma nordico wagneriano; e le stupende musiche di scena, raccolte in due suite per orchestra, per l’Arlesienne (1872), il dramma di Alphonse Daudet del ragazzo di campagna sedotto dalla circe provenzale. Se la popolarità dei Pêcheurs si specchia in parecchie incisioni di riferimento sotto le bacchette luminose di André Cluytens, Manuel Rosenthal e Georges Prêtre (riesumatore anche della rara e preziosa Jolie Fille de Perth con lo stile belcantistico di Alfredo Kraus e June Anderson), un «Ritratto» pubblicato dal Palazzetto Bru Zane (4 cd BZ 1059) colma tutte le lacune della musica meno nota, come le cantate per i concorsi del Prix de Rome. Opere d’occasione che mostrano quanto lo studio al Conservatoire pa-
rigino e l’esempio di Gounod avessero reso Bizet capace di superare le condizioni più difficili, come musicare libretti zuppi di convenzioni: la forza drammatica della tempesta e lo slancio del Duo conclusivo del Retour de Virginie (1852) sono palesi dimostrazioni che Bizet non sottovalutava nulla, nemmeno gli «invii» che il vincitore del Prix de Rome doveva mandare durante il formativo pensionato alla Vil-
Immagine di Georges Bizet (1838-1875) poco prima della sua morte. (Wikipedia)
la Medici di Roma. Nell’ode-sinfonica Vasco de Gama (pubblicata postuma nel 1880) c’è già tutto Bizet – la mano maestra dell’orchestratore, la rara sensibilità coloristica, il pronunciato gusto per combinazioni strumentali inattese.
C’è poi una riuscita che sorpassa tutte le altre, l’atto unico commissionato dall’Opéra-Comique, Djamileh (1872) Una perla «svelta e aristocratica»: Gustav Mahler l’amava per la
verità della pittura psicologica. È uno scrigno «di charme e d’accenti penetranti quando la situazione lo richiede» (J. Massenet); musica che compensa l’esile trama della schiava che conquista il padrone che l’aveva abbandonata. Il Cairo dov’è ambientata appare come un quadro orientalista di Henri Regnault, il direttore/regista dell’Opéra-Comique, Camille Du Locle, parve svaligiare il bazar di Costantinopoli per svestire le sue erotiche almee velate e avvolgere gli uomini di sete blu striate d’oro. Bizet inventa il suo «colore locale» fascinoso come per la Ceylon dei Pêcheurs, la Scozia della Jolie fille, e la Spagna di Carmen, orienti coloniali e terre pittoresche come antidoto al wagnerismo, dilagante dopo la disfatta francese di Sedan e il crollo del Secondo Impero davanti alle truppe di Bismarck. I primi a capire il genio del giovane Bizet furono i colleghi come Camille Saint-Saëns che dedicò a Djamileh un sonetto satirico: il borghese «ruminante nella chiusa stalla, / panciuto, sporco, separato a malavoglia dalla sua orda» che tra le logge dell’Opéra-Comique «schiude un occhio vitreo, mangia un bonbon zuccherato, s’addormenta, credendo che l’orchestra stia accordando», mentre Djamileh «fra effluvi di rosa e sandalo, segue il suo sogno d’oro, d’azzurro e di cristallo, sdegnosa della folla ebete», e si allontana «fra gli archi moreschi (…) perla gettata ai porci».
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In fuga dall’ufficio, ma a che prezzo? I nuovi migranti del Wi-Fi dopo aver cercato la libertà ora iniziano a scoprire che la geografia non basta a cambiare una routine: nessun luogo è vacanza se ci lavori dentro
Reportage ◆ Da mille anni, Montserrat custodisce un’intera grammatica del sacro: profili cesellati dal vento, cori secolari, architetture che rispondono alle preghiere
Enrico Martino, testo e foto
A Montserrat bisogna arrivarci volando nel guscio metallico dell’Aeri, la teleferica giallo limone che sfiora la montagna risalendo il gigantesco puzzle di rocce che emerge dalla nebbia del mattino. «Nodose dita di pietra alzate verso il cielo e scolpite dagli angeli» secondo il poeta catalano Jacint Verdaguer o, secondo i geologi, più prosaicamente frutto di movimenti tettonici, erosione e cambi climatici.
Da molti secoli il «monte seghettato» protegge il monastero di Montserrat, una terrazza dello spirito sospesa a 720 metri di altezza sulla valle scavata dal rio Llobregat a una cinquantina di chilometri da Barcellona. Nel 2025 si celebrano i mille anni della sua fondazione ufficiale ma per i catalani è molto più di un luogo di pellegrinaggio, è la Montagna Sacra, uno dei più potenti simboli della loro identità. «Siamo come il Monte Kailash in Tibet o i monasteri ortodossi del Monte Athos
in Grecia, proibiti alle donne. L’unica differenza è che qui qualche donna c’è» ironizzano i monaci benedettini.
Ogni anno lo raggiungono oltre due milioni e mezzo di visitatori, per pregare, ammirare la chiesa e il mu-
seo dove è esposto uno dei tre quadri di Caravaggio conservati in Spagna, ma molto più spesso salgono quassù per ascoltare il coro dell’Escolania, una schola cantorum tra le più antiche d’Europa secondo un documento del
1307. Ogni giorno dell’anno, alle 13 in punto, annunciati da uno scampanio che fa vibrare la montagna, gli oltre cinquanta ragazzi di uno dei cori gregoriani più famosi al mondo intonano un Salve Regina impregnato di
incensi e misticismi, seguito invariabilmente da «Rosa d’aprile, dei Catalani sarai per sempre la principessa» dell’inno ufficioso della Catalogna, El Virolai, scritto da Jacint Verdaguer, che era anche sacerdote.
Poi i visitatori si mettono pazientemente in coda per sfiorare la mano della Mare de Déu de Montserrat, un’arcaica statua lignea alta meno di un metro che ritrae una madonna romanica di struggente bellezza. Per tutti è la Moreneta , la «Vergine Nera» che nel 1881 Papa Leone XIII proclamò Patrona della Catalogna, un soprannome dovuto al suo volto scuro, nessuno sa se per il colore del legno o per il fumo di secoli di candele.
La Madre, i monaci, i bambini, la montagna, sono le granitiche icone del monastero simbolo di una Catalogna mitizzata e testimoniata da decine di lampade votive offerte da città, villaggi, aziende, associazioni, persino dai giocatori del Barça che ringraziano la Moreneta per qualche pallone miracoloso.
La statua della Madonna, trovata in una grotta, si sarebbe rifiutata di essere spostata, indicando così il luogo del futuro santuario
Quanto basta perché durante il franchismo il monastero si trasformasse in un baluardo culturale di resistenza alla dittatura. «I catalani sono da sempre molto legati al santuario ma oltre il quaranta per cento dei visitatori arriva dall’estero. Turisti o pellegrini? Alcuni arrivano con organizzazioni e parrocchie, altri sono sicuramente turisti. Ma non si sa mai come escono…» sorride padre Ignasi Maria Fossas, abate presidente della Congregazione Sublacense-Cassinese e autore di numerosi libri su spiritualità e monachesimo, per molti anni priore di un monastero che fa risalire la sua storia all’anno di grazia 880.
L’origine di tutto
Secondo la tradizione un gruppo di giovanissimi pastori avrebbe visto una luce che scendeva dal cielo sulla montagna accompagnata da un coro angelico. I ragazzi corsero a casa a raccontare quello a cui avevano assistito e i loro genitori, all’inizio piuttosto scettici, dopo avere vissuto più volte la stessa esperienza riconobbero che si trattava di un segno divino. Quando in una vicina grotta scoprirono una statua della Madonna, il vescovo decise di trasferirla nella cittadina di Manresa ma la scultura diventò improvvisamente pesantissima, segno inequivocabile che non volesse farsi spostare, e fu così che nessuno osò più farlo.
Se la data di origine del monastero di Santa Maria di Montserrat è incerta, la fondazione ufficiale risale al 1025, sul luogo di un antico eremo a sua volta costruito su un tempio romano dedicato a Venere. Dopo secoli di splendore, la grande abbazia venne saccheggiata e incendiata due volte dalle truppe napoleoniche, e il colpo di grazia sembrò arrivare nel 1833 con un’asta pubblica dei terreni ecclesiastici non coltivati. Con un ennesimo colpo di scena i monaci però tornarono sulla montagna nel 1844 iniziando la ricostruzione della nuova Montserrat in un improbabile stile neobizantino, grazie all’aiuto finanziario della rampante borghesia catalana e all’intervento di molti artisti, tra cui un giovane Antonio Gaudì, celebre architetto della Sagrada Familia a Barcellona.
Codici miniati e cori angelici
Oggi la gloria dell’antica basilica è perpetuata da una biblioteca con oltre trecentomila volumi, erede di uno scriptorium medioevale famoso per i suoi codici miniati, da una casa editrice e dalle oltre cento produzioni della casa discografica dell’Escolania. Nel frattempo i circa ottanta monaci, spesso chiamati a insegnare teologia in qualche università, continuano una vita scandita da preghiere e meditazione, ritrovandosi ogni giorno nel refettorio in un silenzio rotto solo dalla lettura, rigorosamente in catalano, di brani della Bibbia e del Vangelo. «A Montserrat non abbiamo il problema della crisi delle vocazioni, però a differenza del passato sono soprattutto vocazioni adulte, frutto di percorsi di vita più complessi» raccontano i monaci.
«Ogni monastero vive la tensione tra la solitudine e l’essere parte di una comunità, e questo è particolarmente vero in un luogo fortemente radicato nella realtà locale come il nostro dove il pellegrinaggio ha una dimensione festiva più che penitenziale. Ogni fine settimana ci trasformiamo in una sorta di piazza del mercato, un’agorà dove i pellegrini condividono con noi desideri, progetti, frustrazioni, paure». Montserrat è uno spazio-tem-
po remoto ma contemporaneamente inserito nelle contraddizioni del presente e soprattutto scandito dalla musica, perché per i benedettini da sempre pregare significa cantare, come testimonia l’esistenza stessa dell’Escolania, dove gli aspiranti non mancano mai.
Cinque anni di corsi per ragazzi tra i nove e i quattordici anni, prima che cambino la voce, che vivono prevalentemente in internato e la musica più che studiarla la assorbono in una scuola d’eccellenza da cui provengono direttori d’orchestra spagnoli come Pablo Casals, che dedicò tutta la sua musica sacra proprio a Montserrat. Le rette vengono pagate per il 20% dai genitori, al resto contribuiscono par te degli introiti dell’abbazia, i diritti musicali e un aiuto del Governo cata lano, nessuno viene escluso per ragio ni economiche.
Dal Graal al portale extraterrestre
L’ultimo gioiello musicale del mona stero sono le 4242 canne del nuovo or gano che ricordano le canne di pietra della montagna, nata cinque milioni di anni or sono come fondale mari no. Una macchina musicale natura le alimentata dai venti, abitata da mi riadi di uccelli e scolpita da milioni di anni di erosione che hanno inventato
paesaggi fiabeschi. Sarebbero stati loro, durante un soggiorno di Richard Wagner a ispirargli l’idea di ambientare il suo Parsifal in un Montsalvat immaginario nel nord della Spagna, una calamita irresistibile per Heinrich Himmler (comandante in capo delle SS) che nel 1940 visitò il monastero in cerca del Graal. Del santo calice non si sono mai trovate tracce, ma forse il vero tesoro è questo piccolo massiccio, dichiarato Parco Naturale nel 1989, che culmina nei 1236 metri del Pic de San Jeroni dove i pellegrini spesso incrociano
devoti di un’altra fede, graniticamente convinti che il Col de Bruc sia un astroporto frequentato da extraterrestri. Più scientifico è invece il divieto, fino a qualche decina di anni fa, di sorvolo aereo del massiccio per il magnetismo delle rocce che faceva impazzire gli strumenti di bordo. Tutto carburante per il motore mistico di Montserrat, la montagna sacra di un popolo che vuole essere nazione.
Informazioni
Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.
Tipo di contratto
80-100% a tempo indeterminato
Data di inizio
Da concordare
Mansioni lavorare manualmente pizze, focacce e prodotti affini; applicare le norme HACCP; svolgere servizio diretto al cliente anche per prodotti di caffetteria e gastronomia; gestione denaro (incasso); attività di riordino e organizzazione del magazzino.
Requisiti richiesti
formazione di pizzaiolo o almeno 5 anni di esperienza certificata nel ruolo; spiccate doti comunicative e facilità nei rapporti interpersonali; costanza nelle prestazioni e resistenza fisica; conoscenze linguistiche rappresentano requisito preferenziale; flessibilità e disponibilità al cambiamento (anche legata a spostamenti sul territorio ticinese), sono fattori collegati alla funzione in oggetto.
Candidatura
Candidature da inoltrare attraverso il sito www.migrosticino.ch, sezione «Lavora con noi» - «Posizioni disponibili» entro il 22.6.2025.
Crea con noi ◆ Un’attività semplice e coinvolgente per scoprire la bellezza delle cose raccolte lungo il cammino
Giovanna Grimaldi Leoni
I braccialetti fioriti sono un’attività semplice e divertente da realizzare a casa con l’aiuto dei bambini, utilizzando cartone di riciclo e nastro adesivo. Una volta pronti, possono essere indossati durante una passeggiata al parco o un pomeriggio in giardino, dove si possono decorare raccogliendo fiori, foglie e piccoli petali. Ogni bambino potrà così creare un braccialetto unico e colorato, sviluppando manualità e amore per la natura.
Procedimento
Stampate il cartamodello e ritagliate
il fiore e la farfalla dalla carta. Tracciateli con una matita su un cartone di riciclo, rigido ma non troppo spesso, in modo che possa essere facilmente tagliato con le forbici. Rivestite il retro del cartone con del nastro adesivo largo, quindi giratelo di nuovo sul fronte e ritagliate le forme con le forbici. Questi diventeranno i supporti su cui attaccare gli elementi naturali.
Preparate la base: praticate un taglio verticale al rotolo di carta igienica per ottenere un rettangolo. Rivestitelo con del nastro biadesivo, quindi
Cruciverba
Quale strumento aveva ricevuto Orfeo dal dio Apollo? Quale particolarità aveva? Rispondi alle domande leggendo a cruciverba ultimato le lettere evidenziate.
(Frase: 2, 4 - 2, 3, 5, 7, 2, 5)
ORIZZONTALI
1. Suppellettile del camino
5. Ha un salone a Torino
9. Si lavano a vicenda
10. La parte querelante
11. Tassa immobiliare
12. In coppia con vegeto
13. Preposizione
14. Lo fu Anita Garibaldi
16. C’è quel di Tenda
18. Preposizione articolata
19. Stato dell’Africa occidentale
20. Centro della Cecoslovacchia
22. Il famigerato Capone
24. Il buffo Mr. di Rowan Atkinson
26. Nel volume e nel fascicolo
27. Riascoltava
29. Preposizione articolata
30. Dio greco della guerra VERTICALI
1. Dei ganci sinistri...
2. Tagliano con il... filo
3. L’ ... Waldheim è un ordine di anfibi di cui fanno parte le rane
4. Fanno rima con ma...
5. Vigore, forza
6. Prefisso che indica uguaglianza
7. Le iniziali del cantante Antonacci
8. Fecondati si trasformano in embrioni
tagliatelo nel senso della larghezza in strisce di circa 2 cm.
Applicate degli scampoli di stoffa sulle strisce e rifinite i bordi tagliando la stoffa in eccesso con le forbici.
Fate due fori alle estremità del cartone, utilizzando una foratrice o la punta delle forbici, e infilate un nastrino di raso per poterlo legare al polso. In alternativa, potete usare del velcro adesivo o un filo elastico.
Sempre con il biadesivo, fissate una delle forme al centro del bracciale, con l’adesivo rivolto verso l’esterno. Ecco pronta la vostra collezione di bracciali da indossare durante una passeggiata all’aperto! Ai bambini non resta che raccogliere piccoli elementi naturali – foglie, petali, fiori, pezzetti di erba – e applicarli per completare la loro creazione.
Idee in più Al termine della passeggiata, se ave-
• Cartone di riciclo
• Rotolo della carta igienica
• Nastro biadesivo largo
• Forbici/matita
• Foratrice
• Nastri in raso giallo
• Scampoli di stoffa
• Foglie, fiori, petali, erba (da raccogliere durante la passeggiata)
(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)
te realizzato più bracciali, potete unirli per creare una colorata ghirlanda decorativa: un’idea divertente da realizzare anche a scuola.
Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi
Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
10. Un filo sul fuso
12. Fiume del Tirolo
13. Moneta del Perù
15. Regione occidentale dei Paesi Bassi
16. Le iniziali dell’attore Amendola
17. Un rettile con gli occhiali
21. Simone Jacob nota politica francese
23. Quando si ...capovolge il sale
25. Simbolo chimico dell’oro
26. Nel caso in cui, qualora
28. Andar col vate... in giro
Soluzione della settimana precedente TRA AMICI – «Ciccio, come si chiama quella che predice il futuro?» «Indovina» Risposta
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku cliccando sull’icona «Concorsi», homepage in alto a destra Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano . Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
In vacanza non si lavora. Se nel turismo c’era una sola certezza, era questa. Poi una ventina d’anni fa sono arrivati i primi nomadi digitali a scombinare le carte e da allora sono sempre aumentati: nel 2021 erano più di 15 milioni soltanto negli Stati Uniti (fonte: MBO Partners). Il nomade digitale è prima di tutto un lavoratore da remoto, che sfrutta la sua libertà dal posto fisso per viaggiare, di regola tutto l’anno; se ha casa nel Paese d’origine, spesso l’affitta per pagare le spese e sostenere il suo nuovo stile di vita, accatastando tutti i suoi averi in un magazzino. Molti nomadi digitali sono giovani esperti di informatica con un buon reddito; altri sono imprenditori, ma c’è anche chi campa di lavoretti (lezioni di lingua, traduzioni).
Dietro la varietà di condizioni individuali (e un poco di scena), sono quasi tutti dei privilegiati, bianchi
occidentali con un passaporto forte e un Paese ricco e potente alle spalle in caso di bisogno.
Naturalmente prima di tutto il nomade digitale ha bisogno di una buona connessione alla rete. In effetti, negli ultimi anni quasi tutti i Paesi, anche nell’Africa subsahariana, offrono servizi adeguati. Senza contare che da qualche tempo è possibile accedere a Internet via satellite, a costi ragionevoli, con una parabola personale. Molti nomadi digitali, per esempio negli Stati Uniti, la installano sopra il loro van e si muovono on the road , lavorando da luoghi anche impensati. Ma la connessione è solo una premessa.
Dimenticate le immagini ricorrenti di nomadi digitali al lavoro dalla spiaggia, con il portatile sul tavolino del bar e un aperitivo accanto. Per essere produttivi in luoghi sempre diversi serve soprattutto concen-
Il cotto esterno stravissuto, sulla terrazza, a spina di pesce, in una certa zona da scovare in mezzo ai tavolini, è la grande minuzia. Muzio è l’architetto, 1923 l’anno, Bonacossa l’uomo dietro le quinte di questo mio tesoro mattinale catturato appena arrivato, di buon’ora, per il primo turno del trofeo Bonfiglio, al tennis club Bonacossa. Grosso personaggio, il conte Alberto Bonacossa (1883-1953): chiamato per il tennis alle olimpiadi di Anversa del 1920 dove trionfa Suzanne Lenglen detta La Divine, campione di pattinaggio artistico, motociclista, alpinista, traversata record del lago di Zurigo, calciatore del Grasshopper, proprietario della «Gazzetta dello sport», altre cariche di presidente o cos’altro che m’intessano meno. È lui – il cui volto signorile con i capelli tirati all’indietro vedo adesso in una delle fotografie incorniciate alle spalle del bancone del bar dove be-
vo al volo un caffè – a chiamare, per la nuova sede del tennis fondato nel 1893, Giovanni Muzio (1893-1982). Reduce dalla Ca’ Brütta (1921) com’è nota la sua opera prima-scandalo all’epoca e manifesto architettonico del Novecento milanese, futuro autore del Palazzo d’Arte per la Triennale, una palazzina in via Ampère avvolta dal verde settantaquattro anni prima della farloccata conosciuta come Bosco Verticale, chiese slanciate, l’Angelicum, magnifico, forse il suo capolavoro. Dal bar sbuco nella hall con pavimento a mosaico, falsi marmi, lampadari in bronzo, giovani promesse del tennis svaccate sui divani. Lancio uno sguardo verso uno scalone in legno dal sapore inglese centenario: scorcio-lampo che si sposa bene con non so quale pianta rampicante che ammanta, fuori, la prima saletta circolare della clubhouse dal vago gusto neopalladiano. La cui in-
trazione e tanta disciplina. Anche se il nomade digitale è quasi sempre in fuga dall’ufficio, ha comunque bisogno di ricreare una routine quotidiana. Per questo, dopo essere giunti a destinazione, molti affittano uno spazio in un coworking, ovvero uno spazio di lavoro condiviso; e a volte il coworking diventa anche coliving, un edificio dove è possibile vivere e lavorare al tempo stesso. Un aspetto decisivo, spesso sottovalutato, è il fuso orario. Per qualche tempo può essere divertente passare la giornata al mare per poi dedicarsi sino a tarda ora alle riunioni online. Ma presto la fatica, fisica e psicologica, si fa sentire. Per questo le destinazioni preferite sono di solito sincronizzate sull’ora di Europa e Stati Uniti. Per esempio il Centro o Sud America (Costa Rica, Colombia) sono perfetti per lavorare con clienti statunitensi la mattina ed europei il
di Claudio Visentin
pomeriggio o la sera; in Africa corrispondono a Capo Verde o Ghana, senza contare molte isole, come le Canarie spagnole o la portoghese Madeira. Una volta sistemati questi fondamentali aspetti tecnici, molto resta ancora da definire. Dopo tutto il nomade digitale lavora per viaggiare, quindi cerca Paesi con un clima piacevole, se possibile il mare, sicurezza diffusa (in particolare per le donne), una comunità locale amichevole, servizi efficienti (specie sanitari), una vita sociale divertente e varia. Requisito essenziale è un costo della vita favorevole; a Malaga con 3500 CHF vivi come a Zurigo con 9000. Di solito per fermarsi basta un visto turistico, ma già 54 Paesi rilasciano un Digital Nomad Visa che consente di rimanere legalmente più a lungo.
Diversi siti web specializzati aiutano
nella scelta, mettendo a confronto le principali destinazioni e integrando anche i giudizi dei viaggiatori. Per esempio nomads.com consiglia Bangkok, Kuala Lumpur, Tokyo, Lisbona, o celebri luoghi di vacanza come Bali. Quando si cresce, e magari si forma una famiglia, servono maggiore stabilità e soggiorni più lunghi. Infatti se nei primi anni di vita dei figli è possibile educarli attraverso homeschooling (insegnamento diretto dei genitori) o worldschooling (si imparano storia, geografia, lingue grazie ai viaggi), col tempo emerge il bisogno di studi più strutturati, frequentando i propri coetanei. Tenuto conto di tutti questi aspetti, al di là delle apparenze, la vita del nomade digitale si rivela piuttosto faticosa e impegnativa, costellata di sfide e incertezze. Dopo tutto che sia meglio starsene tranquilli in ufficio, aspettando le ferie?
quadratura migliore, in faccia alla terrazza in cotto come le scale e il camminamento curvilineo d’entrata, si trova sul campo uno. Color giallino maionese, la struttura si basa su due rotonde ai lati con le finestre bianche e il grigio di colonne-lesene, frontoni triangolari intervallati a quelli a mezzaluna, un fregio decorativo con ellissi iscritte in rettangoli, balaustre in cima al tetto. Alcune nicchie. Tutto mi pare tenue, come di sottofondo, un’architettura-acquarello. «Non sfarzo lungo le prospettive principali, né leziosaggini nemmeno nei recessi più reconditi ma dovunque un che di intimo, di raccolto e di accogliente» osserva Carlo Alberto Felice nel suo articolo apparso su «Domus» dell’agosto 1931: Il tennis club Milano di Giovanni Muzio. Ma lasciamo perdere l’architettura di questo tennis club storico ribattezzato poi Tennis club Milano Alberto Bonacossa e dedichiamo-
Da un paio di decenni, il calcio europeo viene colonizzato da capitali americani e asiatici. Sono poche le grandi società calcistiche del nostro continente gestite autarchicamente. Perché lo sceicco di Abu Dhabi dovrebbe avventurarsi in un’operazione miliardaria con il Manchester City? Chi spinge colossi come le statunitensi RedBird Capital Partners e Oaktree Capital Management a investire su Milan e Inter? Che dire della Qatar Sports che ha puntato i fari sul Paris Saint-Germain? I grandi club, e non solo quelli, sono pesantemente indebitati. Ciò nonostante, la caccia alla società sportiva su cui lucrare, sembra non avere sosta. Da alcuni anni, il fenomeno è giunto anche dalle nostre parti. Sul piano teorico, il giochino è semplice. Si tratta di scoprire giovanissimi talenti. Questi, non potendo essere messi sotto contratto in età giovanile, vengono coccolati, aiutati nella crescita sportiva e nella for-
mazione. Poi, giunti all’età di sedici anni, ecco il documento che li vincola al club. A meno che non si tratti di un fenomeno come Lamine Yamal, il primo contratto non è certo milionario. Da lì, sotto con il duro e paziente lavoro per formare un futuro campione. L’operazione, ovviamente, non va sempre a buon fine. Le vie del grande calcio sono lastricate di giovani ambiziosi che si sono persi per strada. Se però il giochino funziona, si vende a cento, dopo aver investito dieci. Da anni, questo meccanismo si è insinuato anche nel calcio svizzero, che apparentemente non sembrerebbe la classica gallina dalle uova d’oro. Accade nella Super League, dove la metà dei club sono nelle mani di capitali stranieri. Capita anche nella Challenge League. In Ticino, questo sistema non ha portato grandi frutti. Una delle più clamorose operazioni di mercato risale ancora all’inizio del millennio, quando un FC Chias-
so autarchico, con pochi soldi, lancia in Super League Raffael Caetano de Araújo, un diciottenne brasiliano proveniente da Fortaleza. Incanta le platee, e anche l’anima di Lucien Favre, fine intenditore. Se lo prenderà con sé dapprima a Zurigo, poi in Bundesliga, dove Raffael costruirà una brillante e ricca carriera. Un’eccezione. Purtroppo, in Ticino, le cordate straniere, finora hanno causato più danni che benefici. Ha corso dei rischi, ancora una volta, l’Associazione Calcio Bellinzona. Dopo un periodo di trepidazione, il club granata ha ottenuto dalla Lega Calcio la licenza per potersi iscrivere al prossimo campionato di Challenge League. Il verdetto non era scontato. Ballava una cifra di circa mezzo milione. Briciole, ma nel nostro calcio, abbastanza per fungere da spartiacque tra uno stop e un via libera.
Non deve essere stato facile, per una piazza che è sempre stata un modello
ci al sessantacinquesimo trofeo Bonfiglio, gli internazionali d’Italia juniores che tra un quarto d’ora, alle nove di lunedì diciannove maggio, inizieranno su dieci campi contemporaneamente. Qui sono passati Becker, Edberg, Lendl, Djokovic, Federer, Sinner. Molte rose noto in giro, spettatori non ancora tantissimi, mi siedo sul centrale, vuoto con le gradinate color lattementa slavato, dedicato a Gilberto Porro Lambertenghi. Co-autore, assieme all’infaticabile Bonacossa, del primo manuale italiano di tennis intitolato Il tennis (1914). Il sedicenne Gribaldo, a cui non davo una lira per via delle braccia come grissini, doma il più massiccio ma meno sveglio sudafricano Doig in due set. Dal centrale, posizionato di sbieco all’angolo tra viale Monte Ceneri e via Monte Generoso – mini sprazzo di odonomastica ticinese nei dintorni con anche le vie (private) Bellinzona, Lo-
carno, Chiasso, e Piazzale Lugano –scopro la pagoda. Una postazione tipo club méditerranée dove si vedono diversi campi e si ritrovano alcuni drogati di tennis solitari come me. Uno mi racconta di quando «Omar Camporese sul centrale di Roma stava battendo Wilander poi vede in prima fila la Dellera con una scollatura epica e non vince più un game». Torno venerdì per i quarti di finale, un po’ più tardi, però in tempo per ammirare il rovescio a una mano stile Steffi Graf di Lilli Tagger. Assaporare l’ombra dell’ailanto sul centrale, l’odore dei suoi fiori e l’arietta particolare in quella posizione vista palazzi e sopraelevata dove il traffico scorre verso il ponte della Ghisolfa che ha dato il titolo a un libro di racconti di Testori. Sbirciare, nella saletta speciale riservata ai soci, due signore anziane giocare a bridge o burraco.
di simbiosi tra sostenitori e calciatori, che oggi si ritrova con una tifoseria divisa, e un rapporto conflittuale con parte della città. A sud delle Alpi, le risorse scarseggiano. L’ex presidente del FC Lugano, Angelo Renzetti, sostiene che in Ticino ce ne siano a sufficienza per un solo club di vertice. Quindi, parrebbe inevitabile bussare alla porta di investitori stranieri. Tuttavia, in Svizzera, qualche esempio virtuoso l’ abbiamo sotto gli occhi. Lo Young Boys è tornato a volare da quando le redini sono state assunte dall’industriale Andy Rihs. Uscito deluso dal ciclismo, si è votato alla causa dei Gialloneri. Nella stagione 2017-2018 hanno vinto il campionato. Non accadeva dal 1986. Nelle ultime otto stagioni, pilotati dagli eredi di Andy, si sono imposti per sei volte, con un organico che comprende molta Svizzera, sia in campo, sia negli uffici del club. Le grandi rivali dello Young Boys sposano una filosofia
simile. Lo Zurigo, fa capo a capitali svizzeri controllati dalla famiglia del presidente Ancillo Canepa. Il Basilea si appoggia a una Holding con fondi prevalentemente svizzeri. Solo recentemente si è inserito anche Bitpanda, fornitore di servizi finanziari con sede a Vienna. Dal canto suo il Servette si appoggia su una solida fondazione locale. Insomma, a mettere le loro sorti in mani estere sono soprattutto le società piccole e medie, con sede in città di piccola o media dimensione. Ad esempio, Losanna, Lugano, Yverdon in Super League. Bellinzona e Stade Losanne in Challenge League. In sostanza, le grandi vincono con capitali svizzeri. Le piccole, con l’eccezione del Lugano di queste ultime stagioni, arrancano con capitali esteri. Viene da dire: parliamone. Ma probabilmente ha ragione Renzetti. Siamo «poveri». E molto probabilmente lo resteremo.
15.45
di 23.45 Sminuzzato di pollo Optigal Svizzera, 2 x 350 g, in self-service, (100 g = 2.21)
2.85 invece di 5.–
Filetto di maiale M-Classic Svizzera, per 100 g, in self-service
3.50 Pesche gialle Spagna/Italia, al kg
2.95
Petto di tacchino affettato finemente Don Pollo
150 g, in self-service, (100 g = 1.97)
–.80
Yogurt alla fragola Migros Bio
180 g, (100 g = 0.44)
1.40
Yogurt al naturale Migros Bio
500 g, (100 g = 0.28)
1.90
Cotolette di lombo di maiale magre IP-SUISSE per 100 g, in self-service
6.95
Carne secca dei Grigioni IGP Svizzera, 100 g, in self-service
3.60
Treccia al burro IP-SUISSE
500 g, prodotto confezionato, (100 g = 0.72)
1.55
Emmentaler dolce
circa 250 g, per 100 g, prodotto confezionato
2.40
2.25
Pasta per tarte flambée Anna's Best già spianata, rettangolare, 2 pezzi, 400 g, (100 g = 0.56)
Parmigiano Reggiano Da Emilio in blocco per 100 g, prodotto confezionato
8.–
Filetti di salmone Pelican, ASC prodotto surgelato, 250 g, (100 g = 3.20)
2.85
invece di 3.60
Arachidi, Party in conf. speciali, (100 g = 0.38) 20%
12.95
invece di 20.50
Orata intera M-Classic, ASC d'allevamento, Turchia, in conf. speciale, 3 pezzi, 1 kg 36%
Peperoni Migros Bio Spagna/Paesi Bassi, in busta da 400 g, (100 g = 0.53) 20%
2.10
invece di 2.65
Il nostro pane della settimana: questo pane integrale aromatico è ricco di fibre e si mantiene fresco a lungo. La sua forma lo rende ideale per la preparazione di panini.
3.50
6.70
invece di 8.40
Millefoglie alle fragole 2 pezzi, 380 g, prodotto confezionato, (100 g = 1.76) 20%
Tutti i cake Petit Bonheur per es. cake al cioccolato, 420 g, 4.16 invece di 5.20, prodotto confezionato, (100 g = 0.99) 20%
15%
Pain Sarment M-Classic, IP-SUISSE chiaro o rustico, per es. bianco, 3 x 2 pezzi, 900 g, 7.95 invece di 9.45, (100 g = 0.88)
Pane campagnolo integrale IP-SUISSE
400 g, prodotto confezionato, (100 g = 0.88)
20x CUMULUS Novità
Fagottini di spelta alle pere Migros Bio, bastoncini alle nocciole o fagottini alle pere, Petit Bonheur per es. fagottini di spelta alle pere Migros Bio, 3 pezzi, 225 g, 2.80 invece di 3.50, (100 g = 1.24) a partire da 2 pezzi 20%
4.90 Treccia contadina, IP-SUISSE
450 g, prodotto confezionato, (100 g = 1.09)
20x CUMULUS Novità
2.40 Cheesecake Berry Square
Limited Edition, 100 g, in vendita sfusa
20%
Tutti i tipi di Caffè Latte Emmi per es. macchiato, 230 ml, 1.68 invece di 2.10, (100 ml = 0.73)
20%
20%
Bevande energetiche al latte Emmi per es. Protein alla vaniglia, 330 ml, 2.28 invece di 2.85, (100 ml = 0.69)
7.60 invece di 9.50
da bere Aktifit Emmi
pesca e frutta esotica, 12 x 65 ml, (100 ml = 0.97)
20%
Sostituti del latte Emmi beleaf bevanda all'avena, bevanda alle nocciole e all'avena e alternativa alla crème fraîche, per es. bevanda all'avena Nature, senza zuccheri aggiunti, 1 litro, 2.56 invece di 3.20 20%
2.10
invece di 2.80
Formaggio cremoso Luzerner Emmi circa 280 g, in conf. speciale, per 100 g 25%
a partire da 2 pezzi 20%
conf. da 4 27%
3.20
invece di 4.40
Yogurt Pur Emmi disponibili in diverse varietà, 4 x 150 g, (100 g = 0.53)
Bevande I'm your meal Emmi gusto cioccolato, fragola e vaniglia, 500 ml, 3.96 invece di 4.95, (100 ml = 0.79)
1.48
Yogurt ai frutti di bosco Emmi Mix it 250 g, (100 g = 0.59) 20%
invece di 1.85
20%
Deliziosi, saporiti, variegati: i sostituti della carne a base vegetale
Sostituti del pesce e della carne, V-Love, prodotti refrigerati (surgelati esclusi), per es. Peppery Steak Grill mi, 2 pezzi, 200 g, 4.76 invece di 5.95, (100 g = 2.38)
6.95 Spiedini Tandoori Planted 2 pezzi, 200 g, (100 g = 3.48)
pezzi, 200 g, (100 g = 2.98) Novità
4.20 Bratwurst vegano Rügenwalder Mühle 180 g, (100 g = 2.33) 5.95 Beyond Burger Jalapeño Flavour
Tutti i gelati V-Love prodotto surgelato, per es. Vanilla, 450 ml, 3.52 invece di 4.40, (100 ml = 0.78) 20%
10.95
invece di 21.90 Cornetti vaniglia-fragola Fun prodotto surgelato, in conf. speciale, 16 x 145 ml, (100 ml = 0.47) 50%
da 4 30%
Tavolette di cioccolato Frey
Giandor, al latte e alle nocciole o al latte finissimo, 6 x 100 g, per es. Giandor, 10.25 invece di 14.70, (100 g = 1.71)
da 3 20%
Walker's Biscuits
Tutti i gelati Crème d'Or in vaschetta e coppetta prodotto surgelato, per es. vaniglia Bourbon, 1000 ml, 8.76 invece di 10.95, (100 ml = 0.88) a partire da 2 pezzi 20%
Highlanders o Chocolate Chip Shortbread, per es. Highlanders, 3 x 200 g, 12.95 invece di 16.20, (100 g = 2.16)
304 g, (100 g = 1.58)
5.85
Mars in conf. speciale, 9 + 1 gratis, 450 g, (100 g = 1.30)
5.85 Twix in conf. speciale, 9 + 1 gratis, 500 g, (100 g = 1.17)
5.85
Snickers in conf. speciale, 9 + 1 gratis, 500 g, (100 g = 1.17)
conf. da 6 33%
Tutto l'assortimento Evian in confezioni multiple e in bottiglie singole, per es. 6 x 1,5 litri, 4.42 invece di 6.60, (100 ml = 0.05)
Ice Tea Migros Bio disponibile in diverse varietà, in confezioni multiple e in bottiglie singole, per es. alle erbe alpine svizzere, 6 x 1 litro, 6.80 invece di 8.50, (100 ml = 0.11)
Noci e miscele di noci, Party disponibili in diverse varietà, in conf. speciali, per es. Arachidi, 750 g, 2.85 invece di 3.60, (100 g = 0.38) 20%
conf. da 6 40%
Orangina
Original, Zero o Rouge, 6 x 1,5 l e 6 x 500 ml, per es. Original, 6 x 1,5 litri, 8.28 invece di 13.80, (100 ml = 0.09)
9.90 invece di 16.50
Da mixare per preparare dei drink estivi o da gustare puro
Succhi di frutta Sun Queen, Fairtrade arancia o multivitaminico, 6 x 1 litro, (100 ml = 0.17)
Tutto l'assortimento Bundaberg in bottiglie singole e confezioni multiple, per es. Ginger Beer, 375 ml, 2.93 invece di 3.90, (100 ml = 0.78) 25%
Puffs di mais Migros Bio salati e non salati, 85 g, 2.28 invece di 2.85, (100 g = 2.68) a partire da 2 pezzi 20%
Disponibile solo per poco tempo
20x
Novità
3.30 Pringles Thai Green Curry, Black Truffle o Sweet Wings, 165 g, (100 g = 2.00)
Tutto l'assortimento Demeter (latte Pre e latte di tipo 1 esclusi), per es. passata, 360 g, 2.24 invece di 2.80, (100 g = 0.62) 20%
a partire da 2 pezzi 20%
Tutti gli oli di colza, M-Classic e IP-SUISSE per es. olio di colza M-Classic, 1 litro, 3.96 invece di 4.95
a partire da 2 pezzi 30%
Tutte le confetture bio incl. Alnatura, per es. Fragole Migros Bio, 350 g, 2.77 invece di 3.95, (100 g = 0.79)
3.6 al 9.6.2025, fino a esaurimento dello stock. Demeter non solo è il marchio bio più antico, ma anche quello con gli standard più rigorosi
2.50
base di colza svizzera
Pennette rigate, spaghetti o tortiglioni, Agnesi in conf. speciale, con il 50% di contenuto in più, 750 g, (100 g = 0.33)
conf. da 2 20%
conf. da 6 30%
6.30 invece di 9.–
Pomodori pelati triturati Longobardi 6 x 400 g, (100 g = 0.26)
Tutto per il tuo party tex-mex
Latte di cocco Thai Kitchen bio, light o normale, in confezioni multiple, per es. normale, 2 x 500 ml, 6.85 invece di 8.60, (100 ml = 0.69)
Tutto l'assortimento di caffè Migros Bio in chicchi, macinato e istantaneo, per es. macinato, Fairtrade, 500 g, 7.36 invece di 9.20, (100 g = 1.47) 20%
a partire da 2 pezzi 20%
Tutto l'assortimento Pancho Villa per es. Tortillas Flour Big, 6 pezzi, 350 g, 4.36 invece di 5.45, (100 g = 1.25)
Tutto lo zucchero gelificante e tutti i gelificanti (articoli Alnatura esclusi), per es. Gelvite M-Classic, 1 kg, 2.24 invece di 2.80 a partire da 2 pezzi
3 x 200 g, per es. funghi misti, 9.80 invece di 12.30, (100 g = 1.63) conf. da 3 20%
Funghi misti o funghi prataioli, M-Classic
30%
Patate fritte o patate fritte al forno, M-Classic prodotto surgelato, in conf. speciale, 2 kg, per es. patate fritte, 7.– invece di 10.–, (100 g = 0.35)
6.60 Acqua minerale San Pellegrino 6 x 1,25 litri, (100 ml = 0.09)
1.45 Chips Migros alle lenticchie al naturale 90 g, (100 g = 1.61)
8.80
invece di 12.60
Cornetti al prosciutto Happy Hour, M-Classic prodotto surgelato, in conf. speciale, 24 pezzi, 1008 g, (100 g = 0.87) 30%
2.90
Gelato alla vaniglia M-Classic surgelato, in scatola, 1000 ml, (100 ml = 0.29)
5.– Tomato Ketchup Heinz 800 ml, (100 ml = 0.63)
3.60
Miele di bosco M-Classic 550 g, (100 g = 0.65)
8.80
Estratto vegetale in granuli Knorr povero di grassi, 250 g, (100 g = 3.52)
1.95
Kinder Maxi King 3 x 35 g, (100 g = 1.86)
Tutto l'assortimento Garnier (prodotti solari, prodotti per la cura delle mani, deodoranti, confezioni da viaggio e multiple esclusi), per es. Micellar Cleansing Water All in 1, 400 ml, 5.96 invece di 7.95, (100
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12.95 Astuccio Paper & Co. disponibile in diversi colori e motivi, il pezzo
1.95
Adesivi Smiley Fun Paper & Co. disponibili in diversi motivi
9.95 Pennarelli glitterati Paper & Co. 12 pezzi
4.95
Penna a sfera con piuma Paper & Co. disponibile in rosa o blu, il pezzo
6.95
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12.95 Diario con lucchetto Paper & Co. disponibile in diversi motivi, il pezzo
8.95 Agenda A6 Paper & Co disponibile in diversi colori e motivi, il pezzo
79.95 Set cartella scolastica taglia unica, con astuccio per matite e borsa da ginnastica, il set 64.95
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