Azione 5 del 1 febbraio 2016

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXIX 1. febbraio 2016

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Azione 05

Società e Territorio Architettura dello spettacolo: Il cinema Iride di Lugano

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Politica e Economia Primi negoziati diretti russo-americani sul dossier ucraino del Donbass

Ambiente e Benessere Roberto Pasina, farmacologo in forza all’Istituto Mario Negri di Milano, ci parla delle interazioni tra cibi e farmaci

Cultura e Spettacoli La natura invade con grazia e prepotenza gli spazi di Villa Panza a Varese

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Presidenziali americane Hennings, Ball e DADA, paure anziché speranze storia di una rottura totale A partire da oggi, con i caucus nello Iowa, si fa sul serio: gli Stati Uniti si avviano a scegliere il successore di Barack Obama. Ma quale America, tuttora preminente superpotenza mondiale, ci troviamo di fronte? Suona tremendamente lontano quel Yes we can, icona verbale di un collettivo moto di speranza. Oggi dobbiamo constatare che le divisioni nella società americana, sociali e politiche ma anche culturali, sono un’implicita smentita di quel messaggio di speranza. Sotto Obama l’America non si è unita in un collettivo sforzo di armonizzazione sociale, come il presidente avrebbe desiderato. Anzi, se guardiamo quali candidati alla presidenza godono attualmente del favore di molti elettori, vien da dire che il fossato si è allargato, i fronti radicalizzati. Per coloro i quali Obama non è stato abbastanza liberal, il senatore del Vermont Bernie Sanders rappresenta un’ideale alternativa, benché difficilmente eleggibile poiché dichiaratamente socialista, e gode al momento del consenso che spetta a un underdog. Sul fronte repubblicano scopriamo che i favori dei sondaggi vanno a chi si posiziona su posizioni estreme, dal miliardario Donald Trump al governatore del Texas Ted Cruz. In questo schieramento fa presa la paura della middle class bianca che capisce di trovarsi dalla parte perdente di una società in mutamento, come scrive Federico Rampini a pagina 24.

Il risultato delle primarie, a giugno, ci dirà se a novembre ci sarà una sfida tra candidati radicali come Trump, Cruz e Sanders, o se esiste ancora una maggioranza, almeno nel Partito democratico e nell’insieme dell’elettorato con una forte minoranza repubblicana, che esprima dei candidati con la necessaria statura, competenza, moderazione politica richiesti per il ruolo di presidente degli Stati Uniti. Proprio per scongiurare una catastrofica deriva a destra, accanto ad Hillary Clinton potremmo infatti trovare anche il miliardario ed ex sindaco di New York Michael Bloomberg, che sta accarezzando l’idea di presentarsi come candidato indipendente, lui che da democratico si trasformò in repubblicano liberal. Forse, pensano i più ottimisti, in questa fase l’elettorato ha bisogno di esprimere le sue rabbie, frustrazioni, paure, disillusioni, per poi ritrovare un’assennatezza al momento del voto di novembre. C’è da sperarlo, perché crescenti tensioni interne agli Stati Uniti fanno male a tutto il mondo, e perché in questo momento storico il mondo avrebbe bisogno di una superpotenza forte e stabilizzatrice, geopoliticamente ed economicamente, ancora capace di incarnare valori civili positivi.

Le sfide non mancano, a breve e a lungo termine, a cominciare dalla lotta ai mutamenti climatici. Va considerato che un presidente repubblicano sarebbe poco propenso a concretizzare gli impegni presi alla Conferenza di Parigi in dicembre.

Non dobbiamo infatti dimenticare che la politica ambientale dell’Amministrazione Obama si fonda essenzialmente sui poteri presidenziali, poiché il Congresso, a maggioranza repubblicana, vi si oppone fermamente. E Hillary Clinton, o Michael Bloomberg, eventualmente anche un repubblicano moderato, avrebbero bisogno di un Congresso su posizioni nuove (viene rinnovato anch’esso l’8 novembre) per proseguire sulla via tracciata da Obama. Per ora nulla sembra indicare che sarà così. Inoltre, l’attuale eccesso di produzione di petrolio e il conseguente crollo dei prezzi non favorisce la realizzazione di politiche di protezione del clima, e contemporaneamente crea problemi economici e instabilità in numerosi Paesi produttori, Russia compresa.

Non c’è da aspettarsi che il prossimo presidente americano riesca a cavare il Medio Oriente dalla crisi in cui l’hanno trascinato gli sconvolgimenti politici seguiti alla Primavera araba e il radicalismo islamico, un caos segnato in modo sempre più marcato dall’insanabile inimicizia tra il regno saudita, sunnita, e il regime degli ayatollah sciiti iraniani. I rivolgimenti hanno radici profonde e nuovi equilibri non sono dietro l’angolo. Ma una politica sbagliata potrebbe ancora peggiorare le cose. E molto, per gli equilibri mondiali, importerà come si muoverà il prossimo presidente nelle relazioni con potenze emergenti come la Cina e potenze fragili come la Russia. Un’Europa indebolita economicamente dalla crisi dell’euro e oggi anche politicamente dall’afflusso incontrollato di migranti dal Medio Oriente oltre che dall’Africa, ne subirà direttamente o indirettamente le conseguenze.

A tutto ciò si intrecciano le sfide della globalizzazione: uscirà dalle urne l’immagine di un’America più chiusa, pronta ad erigere muri per fermare l’immigrazione dall’America latina, meno disposta a liberalizzare i commerci con il resto del mondo, interessata ad assicurarsi solo il proprio benessere, ignorando che dipende in maniera crescente da quello del resto del mondo? Ecco perché le elezioni americane sono importanti anche per noi.

di Stefan Zweifel e Simona Sala

Keystone

di Peter Schiesser

pagine 36-37

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 1. febbraio 2016 ¶ N. 05

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 1. febbraio 2016 ¶ N. 05

Società e Territorio Gli anziani e le cure a domicilio In Svizzera e in Ticino l’assistenza a domicilio ha avuto un grande sviluppo negli ultimi anni non solo perché le case per anziani hanno costi superiori ma anche perché le persone scelgono di rimanere a casa il più a lungo possibile

I corsi CEMEA In Ticino la delegazione dei Centri di Esercitazione ai Metodi dell’Educazione Attiva si impegna a formare gli animatori di colonie, centri extrascolastici e della prima infanzia

Invecchiare a casa Assistenza e cura La popolazione anziana continua ad aumentare e parallelamente cresce il numero delle persone

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che scelgono di rimanere a casa il più a lungo possibile. L’aiuto a domicilio riveste un’importanza sempre maggiore

Simone Mengani

Simone Mengani

Simone Mengani

Fabio Dozio

Ogni campanile aveva il suo cinema Cinema storici L’Iride di Lugano nei ricordi di Ferruccio Piffaretti

Oliver Scharpf Una mattina d’inverno sbuco in piazza San Rocco, ho un appuntamento alle dieci e mezza con Ferruccio Piffaretti, memoria storica del cinema Iride. Gran bel nome Iride, per un cinema. L’iride, si sa, è una parte dell’occhio, quella colorata, attorno alla pupilla. Calza dunque a pennello questo nome metalessico che capovolge il punto di vista, proiettando da subito lo spettatore in una prospettiva da protagonista. Il film parte dal suo sguardo più che dallo schermo. Ad ogni modo, va detto, per dovere di cronaca e amore di verità, se questo microcinema nel cuore del quartiere Maghetti si chiama così dagli anni Cinquanta, a Napoli, vicino alla ferrovia, esiste un cinema Iride dal 1901: forse il più antico cinema porno d’Italia. Entro nel cortile di gioco dell’oratorio accanto alla chiesa e salgo su le scale di granito verso l’ufficio del signor Piffaretti. «Una volta ogni campanile aveva il suo cinema» mi dice questo signore esile classe 1947 rievocando i bei tempi andati dei cinema parrocchiali. Oltre a quelli visitati nel nostro cine-

ma-tour antipopcorn come Acquarossa, Brissago, Massagno, Molino Nuovo, c’erano anche: Tesserete, Novazzano, Biasca, Lamone, Faido, per esempio.

Il cinema Iride infatti, chiamato allora Oratorio Maschile, nasce proprio all’ombra del campanile di San Rocco, negli anni Quaranta. In origine era uno spazio in legno diventato poi palestra della Fides ginnastica, mentre le proiezioni dei film si spostarono in una sala teatro di trecentonovantun posti distrutta negli anni Ottanta per creare il Maghetti. «Era la prima sala di Lugano» ed era sempre strapiena: quando c’erano i film di Gianni e Pinotto «sudavano i muri» mi dice Piffaretti.

Innamorato del cinema da quando aveva sei anni e ci andava con sua nonna, mi racconta la famosa storia dei cinquanta centesimi. Il biglietto ai tempi costava un franco, ma se si andava a messa la mattina, ricevevi un timbro e nel pomeriggio, dopo aver giocato nel cortile con gli amici e dopo la benedizione delle quattro e mezza, per vedere il film, pagavi solo cinquanta centesimi.

Si ricorda anche di Don Aurelio Rivol-

ta – all’epoca uno dei pochi che sapeva l’inglese perché era stato missionario in India – diventato il traduttore simultaneo dei western per i ragazzi seduti in galleria. La sala attuale, centodiciotto poltrone di velluto rosso e il soffitto affrescato, è stata inaugurata nel settembre 1987. La sua funzione originaria era di sala mensa dell’orfanotrofio. Nella primavera del 1998, mi ricordo di aver visto lì, in una rassegna sul tema cinema e cibo intitolata Cinema da mangiare, un bellissimo film: La commedia di Dio (1995), di João César Monteiro. João de Deus, un vecchietto stralunato e un po’ morboso, padrone della gelateria Paraìso do gelado di Lisbona, cerca con «rigore e fantasia» di produrre il gelato perfetto. Mi hanno sempre colpito, sulla sinistra, le tre finestre trompe-l’oeil aperte sul golfo arcadico di Lugano.

Mentre a proposito dei quattro medaglioni con le quattro stagioni, il signor Piffaretti mi rivela che sono state dipinte sopra dei ritratti di quattro cardinali.

Da questo ufficio spartano, dove ogni giorno dalle dieci e mezza alle undici e mezza, orchestra l’Iride, si vede uno

scorcio inedito del Maghetti: giardinetti a schiera con mura in beton beige bocciardato, lassù il monte Bar. «A dieci anni il mio idolo era il proiezionista» e l’ha poi fatto lui stesso per anni, il signor Ferruccio Piffaretti.

Oggi i proiezionisti nei cinema si sono estinti. Sembra preistoria, ma si parla solo di una ventina d’anni fa. Un primo grande cambiamento è stato il cinemascope. La tunica (1953) – film storico in costume ai tempi di Ponzio Pilato, Caligola e Gesù; con Richard Burton nei panni di Marcello Gallio – «è stato il primo film in cinemascope» mi dice.

Ora nelle poche sale sopravvissute alla morìa di cinema come pure nell’impero delle multisale, non c’è più nessun contatto con la pellicola: basta pizze, ciao ciao artigianalità, addio magia. L’iride dell’occhio però non cambia, il cinema rimane la celebrazione dello sguardo.

E il cinema al cinema, pur sempre un rito irriproducibile a casa. Purtroppo, un po’ per pigrizia un po’ per altro, in questi ultimi anni ho perso questo rito cinematografico un tempo più che settimanale. La sera stessa dell’incontro con

Feruccio Piffaretti per questo articolo però, ho sentito di colpo la necessità di sedermi nella sala del cinema Iride.

Un cinema mimetizzato nel discutibile quartiere Maghetti realizzato dal trio di architetti Camenzind-BrocchiSennhauser nel 1984 – che già quindici anni dopo ha avuto bisogno di un ritocco postmoderno per mano del noto designer milanese Mendini – proprio accanto al caffè-pasticceria Steib. Sul soffitto un pezzo di cielo affrescato con nuvole.

Avevo voglia di sedermi in questo cinema più che per il film, per quel breve arco di tempo al buio, quello sprazzo minimo di attesa, prima del film. «Che cos’è il cinema?» aveva chiesto grossolanamente un giornalista televisivo a Fanny Ardant: memorabile come protagonista di La femme d’à côté (1981) di Truffaut ma indimenticabile anche solo nel cameo del meraviglioso film La Grande Bellezza (2013) di Sorrentino, scendendo la scalinata di via Liguria la notte. Con grazia, umiltà e forse genio, rispose: «Una sala oscura in cui uno si siede e la promessa della felicità».

Si vive più a lungo, si muore più tardi.

Gli ultimi anni di vita a volte richiedono un sostegno e un’assistenza quotidiana. Se un anziano vive da solo e non è più autosufficiente, deve andare in una casa di cura. Ma la maggioranza rimane a domicilio. Chi può resta a casa fino all’ultimo.

In Svizzera, il 90 per cento degli 80-84enni abita al proprio domicilio. A partire dai 95 anni, più del 45 per cento delle persone vive in case per anziani.

La scelta, o la necessità, di entrare in un istituto di cura avviene sempre più tardi. Insomma, si preferisce rimanere fra le pareti domestiche.

In questo contesto assumono un ruolo sempre più importante l’aiuto e la cura a domicilio. Le forme e le tipologie di questa assistenza sono diverse: prima di tutto, c’è quella fornita da organizzazioni Spitex (dal tedesco «Spitalexterne Hilfe und Pflege»). Nel Luganese c’è Scudo, nel Malcantone Maggio, nelle altre regioni sono sigle, AVAD, ABAD, ecc.: sono le associazioni di assistenza e cura a domicilio di interesse pubblico. Poi vi sono altri servizi, senza scopo di lucro, le organizzazioni di aiuto domiciliare di tipo commerciale e, ancora, infermieri, badanti, volontari. Una galassia di attori che verosimilmente nel prossimo futuro è destinata a espandersi.

In Svizzera le associazioni dei servizi di aiuto e cura a domicilio d’interesse pubblico, non a scopo di lucro, coprono l’80 per cento del mercato. I collaboratori, nel Paese intero, sono circa 35mila e le persone accudite più di 220mila. «In Ticino – precisa Chiara Gulfi, caposettore dell’Ufficio cure a domicilio del Dipartimento della sanità e della socialità – oltre ai 6 servizi di assistenza e cura a domicilio (SACD) di interesse pubblico, sono riconosciuti e finanziati 14 servizi privati. Nel 2014, delle circa 705mila ore di prestazioni di cura, poco meno del 60 per cento sono state erogate dai SACD d’interesse pubblico, il 10 per cento dagli infermieri indipendenti, mentre il restante 30 dai servizi privati». Tra servizi d’interesse pubblico e privati vi è una differenza sancita dalla legge: i privati sono finan-

ziati unicamente per le prestazioni di cura, mentre le associazioni di interesse pubblico lo sono anche per le prestazioni di economia domestica, di prevenzione e attivazione delle risorse di rete, nonché per la consulenza materno-pediatrica.

L’invecchiamento della popolazione genera un aumento dei costi di assistenza. E il finanziamento del sostegno agli anziani diventa un problema. Le case per anziani sono decisamente più care delle cure a domicilio, per le quali complessivamente in Svizzera si spendono circa 2 miliardi di franchi, considerando tutti i fornitori di prestazione.

Una cifra importante, ma che rappresenta quasi un quinto di quanto costano gli istituti medico sociali.

Uno studio pubblicato lo scorso agosto ha analizzato la differenza di costi tra settore pubblico e privato delle cure a domicilio. Secondo questa ricerca, curata dal professor Stefan Felder, delle Università di Ginevra e Basilea, il trattamento delle persone anziane a domicilio da parte delle associazioni di interesse pubblico può anche costare il doppio rispetto ai servizi commerciali. In Ticino la differenza non è così marcata, ma esiste e si giustifica in quanto i SACD hanno compiti diversi e maggiori. Ce lo spiega Gabriele Balestra, direttore dell’associazione del locarnese e coordinatore della Conferenza dei servizi di interesse pubblico del Canton Ticino: «Tale differenza si giustifica per tre fattori principali: la diversità di condizioni contrattuali, in particolare per gli stipendi; l’obbligo di universalità del servizio, che significa coprire tutto il territorio e garantire anche interventi di breve durata (è evidente che andare a fare un intervento di pochi minuti a Sonogno o Fusio ha un costo di trasferta sproporzionato); e, infine, il mandato di coordinamento della rete socio-sanitaria, attivando i servizi di appoggio e volontariato, e gestendo situazioni molto complesse, come ad esempio casi dell’autorità regionale di protezione».

Uno dei problemi cruciali è dunque questo: ha senso una concorrenza tra pubblico e privato? «La concorrenza – afferma Roberto Mora, direttore di ABAD, l’associazione del Bellinzonese

Per le cure domiciliari in Ticino oltre ai 6 servizi di interesse pubblico sono riconosciuti e finanziati 14 servizi privati. (Keystone)

– può rappresentare un grosso stimolo per migliorare e sviluppare nuove prestazioni, ottimizzando l’uso delle risorse, a condizione che ciò avvenga grazie a iniziative positive o a idee innovative, sicuramente non attraverso il deterioramento delle condizioni di impiego vigenti spesso nel settore (dumping salariale, generalizzazione dell’impiego a ore su chiamata, non riconoscimento di tutte le spese legate all’attività professionale)».

Questo è uno dei punti critici. Le organizzazioni private, per non dire dei singoli operatori che si offrono sul mercato, quali badanti o aiuti domestici, non sempre offrono una professionalità adeguata che deve essere frutto di un’accurata formazione e non di rado, purtroppo, si caratterizzano per offrire stipendi inadeguati e condizioni di lavoro discutibili. La collaborazione tra pubblico e privato è un obiettivo che il DSS prescrive ai SACD. «Soprattutto nel Locarnese – ci dice Gabriele

Balestra – da anni portiamo avanti con successo una positiva collaborazione con gli enti privati e le infermiere indipendenti, sorvegliando attentamente la qualità delle prestazioni date su mandato ed applicando i medesimi criteri di presa a carico. Non collaboriamo con tutti gli attori presenti sul mercato, ma unicamente con chi adempie i nostri elevati standard qualitativi e rispetta il concetto di sussidiarietà nell’intervento e senza sostituirsi a potenziali risorse individuali, famigliari e/o di volontariato, facendo più prestazioni del dovuto».

In Ticino l’ente pubblico, Cantone e Comuni, spende attualmente circa 29 milioni di franchi all’anno per le cure a domicilio. Chi finanzia è tenuto a controllare. «La qualità delle cure – ci dice Chiara Gulfi del DSS – è verificata tramite le procedure legate all’autorizzazione all’esercizio e quelle previste nel contratto di prestazione, mentre la qualità percepita dall’utenza è attual-

formazione – forse il più adolescenziale tra i suoi lavori – non ha perso nulla della sua intensità e continua a toccare nel profondo i ragazzi di oggi. Ambientato in una foresta epica e senza riferimenti realistici, ci racconta l’adolescenza di una ragazza, il suo primo amore, e soprattutto la sua ribellione alla Legge del padre. Ronja è la figlia amatissima di un brigante e cresce libera nella foresta.

Creatura indomita e selvatica, Ronja infrange un divieto cruciale e si innamora del figlio del brigante rivale, l’acerrimo nemico di suo padre. E là dove gli adulti mettevano muri, i due ragazzi provano a stabilire ponti: come una Giulietta e un Romeo non di palazzi, ma di boschi e rocce e grotte, Ronja e Birk sfidano il pregiudizio. Potente metafora del diventare adulti, con le necessarie e dolorose separazioni dal rassicurante mondo domestico; romantica fiaba d’amore; storia dai valori universali: Ronja è una storia ricca.

Isabella Paglia (testo) e Francesca Cavallaro (illustrazioni), È bello sentirsi grande, Arka. Da 3 anni.

mente oggetto di indagine nell’ambito di un progetto svolto su mandato della SUPSI».

In futuro rischia di esserci una pressione al contenimento delle spese pur dovendo fare i conti con un numero maggiore di anziani che chiede aiuto. Come uscire da questa apparente contraddizione? «La grande sfida – sostiene il direttore di AVAD Gabriele Balestra – è legata all’esplosione della popolazione anziana, con le conseguenti patologie, si pensi all’Alzheimer.

Occorrerà trovare le migliori soluzioni per affrontare il forte aumento di domanda, evitando di far esplodere la spesa pubblica e quindi collassare tutto il sistema. In tal senso una proficua collaborazione con i privati, ma anche la ricerca di soluzioni abitative alternative (si pensi agli appartamenti a misura di anziano), o ancora lo sfruttamento delle possibilità offerte dalla tecnologia e dalla telemedicina, giocheranno un ruolo determinante».

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Astrid Lindgren, Ronja, Mondadori.

Da 10 anni

«I libri saranno anche vecchi, ma i bambini sono nuovi». Lo diceva Roberto Denti, a proposito delle frettolose sparizioni, sugli scaffali delle librerie o nei cataloghi delle case editrici, di libri molto belli ma colpevoli di non essere più delle freschissime novità editoriali, alle quali sembra che occorra sempre, per ottuse leggi consumistiche, far posto. Roberto Denti ci ha lasciati tre anni fa, e in questo mese di gennaio lo ha raggiunto sua moglie Gianna Vitali, che con lui nel lontano 1972 fondò a Milano la prima Libreria dei Ragazzi d’Italia, e fra le prime in Europa. Roberto e Gianna non ci sono più, ma la loro passione continuerà a motivare tutte le persone che si occupano di letteratura per ragazzi (anche nella Svizzera italiana); e la loro Libreria di via Tadino a Milano continuerà ad essere un punto di riferimento vivo e prezioso.

Ripensando a quella frase sui libri cosid-

detti «vecchi» ma imprescindibili per la biblioteca di un bambino, crediamo di poter fornire un piccolo servizio utile a chi legge questa rubrica, segnalandone di tanto in tanto uno. Oggi è Ronja, di Astrid Lindgren (1907-2002), che vogliamo caldamente consigliare. Meno conosciuto di Pippi Calzelunghe, o di Vacanze all’Isola dei Gabbiani, Ronja è un classico della maturità della scrittrice svedese: uscito nel 1981, questo romanzo d’amore, di avventura e di

Grande. Piccolo. Quante volte usiamo queste parole con i bambini. Sei ancora piccolo. Come sei diventato grande. Sei troppo piccolo, non si può. Adesso ormai sei grande per i capricci.

Un bambino si sente a volte grande, a volte piccolo. A volte troppo grande o troppo piccolo. Spesso vorrebbe essere grande. Ma sa che anche sentirsi piccolo può essere confortante. Su queste sensazioni fondamentali e contrastanti è giocato l’albo di Isabella Paglia e Francesca Cavallaro: su alcune pagine mi sento grande, su altre mi sento piccolo. «Quando do un calcio al pallone mi sento grande. Quando mi vola via il palloncino mi sento piccolo». «Quando do da mangiare a Cip mi sento grande. Quando la nonna mi imbocca mi sento piccolo». «Quando gioco con il mio micio mi sento grande. Quando

mio fratello non mi lascia giocare con il computer mi sento piccolo». Ma non sempre è negativo sentirsi piccoli, per esempio è così bello sentirsi piccoli in braccio a mamma e papà, mentre mi leggono una storia! Le illustrazioni di Francesca Cavallaro hanno un ruolo essenziale nell’integrare i brevi testi di Isabella Paglia. Il libro, più che da leggere come una storia, è di quelli da sfogliare con i bambini per soffermarsi a dialogare di emozioni.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 1. febbraio 2016 ¶ N. 05

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Società e Territorio

M Difetto di alimentazione Richiamo Cattivo

funzionamento per i cavi di raccordo AC dei nuovi computer Microsoft Surface Pro

Il corso CEMEA per animatori di colonie fa vivere tutto in prima persona.

(Ti-Press)

L’educazione attiva che anima le colonie Formazione In Ticino la delegazione CEMEA si impegna a formare gli animatori di colonie,

di centri extrascolastici e della prima infanzia dal 1970

Paola Bernasconi Nel 1937 in Francia, a cavallo fra le due guerre mondiali, CEMEA nacque come una rivoluzione. Pensare ad un insegnamento che si basasse sull’attivismo pedagogico, comprendente il principio che ogni essere umano, senza distinzione di età, origine, convinzione, cultura, ha diritto alla nostra considerazione, era innovativo. Lo scopo era formare i monitori delle colonie per i bambini, dato che in quel periodo venivano riconosciuti i diritti alle ferie. I Centri di Esercitazione ai Metodi dell’Educazione Attiva, un movimento prettamente laico, si diffusero in tutto il mondo, Svizzera compresa. In Ticino la delegazione autonoma fu fondata nel 1970 e da lì non ha mai smesso di svolgere il suo compito, formando solo nel 2015 390 persone.

Il segretario Paolo Bernasconi spiega come ci si ispiri, tra gli altri, a «Freire, Rogers, Delacroix e Montessori, tutti pedagogisti dei primi anni del ’900». Lo scopo è mettere al centro la persona, con la consapevolezza che «ogni essere umano può svilupparsi e trasformarsi nel corso della sua vita, e ne ha aspirazione e possibilità, indipendentemente se sia un bambino o un adulto». Non c’è per CEMEA un’educazione di serie A o una di serie B, ma essa è ovunque, «anche nel vivere comune, nel gesto di raccogliere una cartaccia. Educa sia il formatore sia per esempio il panettiere del paese che ci dà il pane modellato in modo che i bambini possano tagliarlo da soli».

Non si dà nulla per acquisito bensì si rimane in «contatto diretto e costante con la realtà, prendendo spunto da presupposti diversi per ogni bambino, dati dal contesto da cui partono. Pen-

Azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

so a Freire, che partiva dalle bidonville brasiliane, e disse che non c’è insegnamento senza apprendimento, anche l’ultimo degli ultimi può insegnare qualcosa». Da non scordare l’importanza dell’ambiente, «sia inteso come la cura del mondo dove siamo, sia quella dell’ambiente dove si svolgono le attività».

Il corso per animatori di colonie è strutturato in modo che i partecipanti siano stimolati su più fronti, l’attività pratica e dinamica è poi accompagnata da momenti teorici e di riflessioni I corsi sono svariati, e si rivolgono soprattutto a persone che desiderano lavorare nell’ambito educativo ma non solo. Elia Pagani è docente d’asilo e responsabile della colonia estiva del comune di Balerna, e ha dei buoni ricordi delle sue esperienze con CEMEA. «Ho frequentato lo stage di base, rivolto ai monitori. Mi ha dato tante idee, utili soprattutto per il fatto che non insegnavo ancora: se lo facessi ora, forse lo troverei meno interessante, dunque vale la pena iscriversi mentre si studia. Ho poi svolto anche il corso base 2, che mi è piaciuto forse meno ma si è rivelato quasi più utile. Lì infatti ho imparato le basi giuridiche per organizzare una colonia, da come svolgere i contratti, a che cosa fare in caso di infortunio e come chiamare aiuto».

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Jone Galli, insegnante nella scuola dell’infanzia, è formatrice del corso base 1, quello frequentato dal nostro interlocutore. «Si tratta di un corso residenziale della durata di nove giorni.

Quest’anno vi sono ancora dei posti disponibili, ci si può iscrivere fino al 4 marzo». Il corso è strutturato con gli stessi principi che animano CEMEA. «Facciamo vivere tutto in prima persona. Lo stage si basa sul fare per imparare, sull’attività pratica e dinamica accompagnata da una riflessione per capire cosa c’è dietro alle attività, per poi ripeterle coi bambini. Si sperimentano gli stessi valori che caratterizzano le colonie, ma su misura per adulti.

Il corso è strutturato in modo che anche il partecipante adulto venga stimolato su più fronti, con momenti teorici di riflessione, con modalità attiva e approcci a danze, canti, attività serali, all’aperto che siano ritrasmissibili».

«Uno dei ricordi più positivi è il gruppo, da cui poi ho attinto per completare l’organico della colonia di Balerna», conferma Pagani. «Ciascuno ha imparato ma anche insegnato».

Anche per la signora Galli è un’esperienza arricchente, «ci dà tanto come persone e come professionisti. È qualcosa di diverso dal lavoro quotidiano a scuola, e farlo da volontari aggiunge valore. Facciamo in modo che in Ticino ci sia un’offerta di qualità per i bambini».

CEMEA è rivolto in particolar modo alle colonie, ma non solo. «Il nostro core business sono gli animatori di colonia, ma anche centri extrascolastici, asili nido, mamme diurne e dove ci sono luoghi di vita collettiva con dei bambini», specifica Bernasconi. Le colonie sono comunque giudicate importanti, «una scuola di vita, che inse-

gna che per stare assieme ci sono delle regole» per Jone Galli. «Insegniamo ai nostri monitori a stimolare i bambini con giochi e attività manuali per sviluppare dimensioni diverse. Si deve partire dai loro bisogni che sono affettivi, relazionali, cognitivi, oltre a quelli primari».

Elia Pagani fa notare che CEMEA crede nelle colonie residenziali, tanto da impostare in quel modo anche i suoi stage, ma che in realtà stanno prendendo sempre più piede le colonie diurne. «I loro monitori guadagnano di più, è difficile trovare chi si mette a disposizione per diversi giorni. CEMEA non può fare nulla al riguardo?»

Rigiriamo la domanda a Paolo Bernasconi, che pone l’accento sul fatto che «c’è un guadagno che non è quello economico, anche se i soldi fanno comodo. Un ragazzo che studia pedagogia o psicologia o vuole diventare docente in colonia sperimenta come gestire tutto, dal pensare al mettere in pratica, dall’accudire i bambini al risolvere i problemi». Per quanto concerne le colonie residenziali, esse sono in diminuzione, ma «vengono conteggiate solo quelle che possono avere un aiuto economico tramite la Legge Colonie del Canton Ticino, ovvero quelle che durano più di 14 giorni con almeno 20 bambini. Sul territorio vi sono esperienze residenziali più corte non riconosciute, penso a quelle del WWF o alla banda musicale con un campo di una settimana».

Per divenire formatori, serve aver frequentato i corsi base, poi è l’associazione stessa a contattare chi appare più adatto per il ruolo. Perché formare chi forma è importante ed è la missione dei CEMEA (www.cemea.ch/ticino) diffusa ormai in tutto il mondo.

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

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Il produttore Microsoft richiama il cavo di alimentazione AC di diversi apparecchi Microsoft Surface Pro. Se i cavi di alimentazione AC in questione vengono piegati ripetutamente o avvolti troppo strettamente per un lungo periodo di tempo possono danneggiarsi. I cavi di alimentazione AC danneggiati potrebbero surriscaldarsi, costituendo un rischio di incendio o di scossa elettrica.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 1. febbraio 2016 ¶ N. 05

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Puntualità Italian style Questa volta – e chiedo perdono ai lettori dell’Altropologo – mi occuperò di cose tutte italiane che riguardano però, e in maniera non minore, anche i vicini confederati. Il tema è un luogo comune: la puntualità, mentre lo spunto specifico per rischiare la banalità è la notizia di oggi secondo la quale un alto dirigente della RAI è stato licenziato per aver fatto finire l’anno 2015 qualche secondo prima del dovuto. Detta così fa solo ridere (ah… i soliti italiani…), ma a ben guardare la cosa ha del drammatico, del grottesco, del surreale, del comico e – in buona sostanza visto il caos che ne è risultato – dell’irrilevante: ai miei lettori decidere in quale rispettiva percentuale dell’uno o dell’altro dopo aver letto i fatti che cercherò di ricostruire in breve. Pare – dico «pare» perché la cosa è naturalmente contestata – che il suddetto dirigente abbia dato ordine al conduttore del Varietà che accompagna come da tradizione lo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre sul canale principale della tv cisalpina di dichiarare finito l’anno in corso ed incominciato quello entrante con an-

ticipo rispetto al «tempo reale» al fine di battere la concorrenza della maggior tv di Berlusconi nella tempistica dell’informazione. La cosa è, natürlich, grottesca: annunciare l’inizio dell’anno nuovo prima dello scadere del tempo è come annunciare la morte di uno per malattia prima che questo si ammali – cosa che peraltro in Italia è possibile, almeno come miracolo: il miracolo di Sant’Alò «che morì e poi dopo si ammalò» – recita un proverbio bolognese.

Ma tant’è: l’assurda situazione si è verificata per l’eccessivo zelo nell’applicare il principio (in sé drammatico poiché la Verità, sappiamo, spesso marcia molto, molto lentamente) della concorrenza mediatica per il quale «vince» (nel senso che si accredita l’audience) chi dà per primo «la notizia».

Probabilmente non se ne sarebbe accorto nessuno (secondo più, secondo meno, sai quanto conta nella vita dell’Universo) se non fosse stato per il fatto che la denuncia del misfatto è arrivata – appunto – dal campo della concorrenza «battuta sul tempo».

Inutile ragionare con il senso comune e

chiedersi quale fosse – nell’occasione – l’autorità imparziale che doveva dare ai due – diciamo concorrenti – il segnale di partenza. Inutile perché l’accusa di aver barato anticipando i tempi pare essere stata «soffiata» dalla concorrenza stessa alle autorità della RAI al fine di far esplodere il caso. Ma c’è velenosamente di più. Pare che (il «pare» è d’obbligo nel pantano mediatico di accuse e contro-accuse) il conduttore della tv berlusconiana abbia mandato un boccone avvelenato in forma di sms poco prima della mezzanotte al suddetto dirigente RAI sfidandolo a batterlo sul tempo nell’annuncio alla Nazione (naturalmente in trepida attesa) che l’Anno Vecchio era finito e cominciava l’Anno Nuovo. Non venite a chiedere a me quanto ingenui (o vedete voi cos’altro) si possa essere per abboccare ad una provocazione del genere. Tant’è: la tv di Stato avrebbe fatto una figura barbina e adesso la canea mediatica chiede di far rotolare teste. Già sento gli echi dei cori di risate da parte dei precisissimi Confederati transalpini: «come se non si sapesse che gli Italiani non sono

mai puntuali», mi direte. Ma andateci piano con queste crudeltà, poiché anche noi cisalpini, nel nostro piccolo, ce la mettiamo tutta per arrivare precisi in tempo. Come quella volta che il vostro Altropologo preferito si reca alla stazione di Bologna per prendere il treno per Trento delle 8.10. Alle 8.40 niente treno, niente annunci di ritardi – niente di niente. Ufficio Informazioni: «Mi scusi, il treno per Trento delle 8.10 è stato abolito?». «No, signore» mi si risponde.

«Ma come? Lo aspetto da un’ora e non è arrivato». «Vede» – si sporge a spiegarmi l’impiegata occhialuta con fare da maestrina – «dal momento che ci sono lavori in corso sulla linea BolognaTrento il treno delle 8.10 lo facciamo partire alle 7.40 così arriva a Trento in orario». Trasecolato chiedo: «Mi scusi, ma io come faccio a saperlo?!». E lei, soave («Elementare, Watson»): «Ah, lei deve informarsi». «Mi scusi» – (L’Altropologo ha ormai la bava alla bocca) – «provi a pensare come reagirebbe se uno le facesse una telefonata chiedendo a che ora parte il treno delle otto e dieci: non penserebbe che la stanno prenden-

do per…». Dall’altra parte del banco sguardo prima vitreo di chi non capisce e poi in crescendo ostile: meglio battere in ritirata e andare a bersi una doppia grappa per tirarsi su di morale.

Il calcolo del tempo ha preoccupato le grandi civilizzazioni fino a diventare quasi un’ossessione. Assiri e Sumeri, Egiziani, Aztechi ed Inca, Cinesi, Indiani: tutti a cercare non solo di calcolare una misura del tempo precisa, ma anche a rifinire gli strumenti per poterlo fare senza fallire. «Quando non penso al tempo, so cosa sia. Ma appena cerco di spiegarmi cosa sia non lo so più». Così Sant’Agostino. Il mio amico Pentu, cacciatore senza orologio del Nord del Ghana, mi dava appuntamento così: «Ci vediamo fra due giorni nel posto tale quando il sole è così» – e alzava il braccio verso il sole ad un certo angolo che io mi sforzavo di ricondurre quadro dell’orologio. Risultato? Ero sempre in anticipo o in ritardo. Come faccio a saperlo? Me lo faceva notare lui – e non chiedetemi, vi prego, come io faccia a sapere che Pentu avesse ragione.

metterti col signor precisino, con il ragioniere «so tutto io». In questo caso la lista della spesa la farebbe lui, perché alla tua manca sempre qualche cosa, la macchina sarebbe sempre al suo posto, lucida e in ordine, ma disponibile solo su preavviso. Sarebbe sempre il primo a giungere dinnanzi alla scuola consultando al minuto l’orologio, ma non si fermerebbe ad aspettare la bimba che vuole attardarsi a giocare con i compagni. Con ogni probabilità i rimproveri che oggi rivolgi a tuo marito, domani toccherebbero a te.

Con questo non intendo spingerti a fare, come accadeva una volta, la crocerossina di un coniuge pigro e prepotente. Se davvero non senti niente per lui, meglio lasciarlo.

Ma i suoi peccati mi sembrano, tutto sommato veniali. Cerca di affidargli meno incarichi ricorrendo a vari servizi (un aiuto domestico, la spesa via Internet, i calzini comperati in quantità industriali ecc.). Come avrai capito, i pigri, i disordinati, i confusionari ci fanno arrabbiare ma in fondo sono simpatici. I guai che possono combinare non sono confrontabili con quelli di certi aridi calcolatori.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Il marito inetto Cara Silvia, non ne posso più. Ho sposato per amore un uomo bello, dolce e appassionato.

Uno studioso serio, impegnato e apprezzato ma, per tutto il resto, un disastro.

Se gli chiedo di andare a far la spesa dimentica la lista degli acquisti, oppure perde la chiave della macchina o al momento di uscire non si ricorda più dove l’ha parcheggiata. Le insegnanti del Nido si lamentano perché è sempre in ritardo. I fiori per il mio compleanno giungono regolarmente il giorno prima o il giorno dopo. La domanda «dove sono i calzini?» risuona ogni mattina, come la sveglia. La programmazione delle vacanze spetta a me perché lui non ci pensa: sta bene dov’è.

Avrei deciso di separarmi perché la

sua imbranataggine mi rovina la vita.

Basta!!

Nostra figlia, di cinque anni, sembra invece non accorgersi di niente e ama questo padre disastroso come fosse un Principe Azzurro. Ma io non ne posso più, sono stanca di fare tutto io perché lui è un eterno bambino. Ne ho parlato con sua madre e anche lei mi dà ragione ma mi esorta ad andare avanti, ma fino a quando? / Ambra Per sempre, cara Ambra, perché mi sembra che nonostante la tua comprensibile esasperazione, in fondo ami ancora questo marito distratto, inetto, incapace di districarsi nelle piccole incombenze della vita. Ma bello, buono, fedele e innamorato e, per giunta, pro-

fessionalmente valido e stimato. Che importa se i fiori per il tuo compleanno giungono troppo presto o troppo tardi?

Pensa quanti partner non ne mandano mai!

Se vostra figlia lo ama, una ragione ci sarà. I bambini sono molto acuti nel valutare le qualità degli adulti, e in particolare dei genitori. Se non lo rimprovera perché giunge in ritardo a prenderla a scuola significa che l’intensità dei suoi sentimenti fa dimenticare l’imprecisione dei suoi comportamenti. Lasciandolo non lo aiuteresti certo a cambiare. Questi temperamenti sono immodificabili. Potrebbe trovare una compagna più tollerante oppure sopravvivere come un barbone. Tu invece saresti indotta, per ripicca, a

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Giovani e passato: rapporto fragile A Breganzona, una strada ha cambiato nome: Passeggiata alle Scuole è diventata Via Federica Spitzer. Non a caso, la sostituzione è avvenuta il 27 gennaio, Giornata mondiale della Memoria.

Proprio della memoria, nel senso più vero del termine, quale dovere civile e necessità morale, Federica Spitzer è un simbolo, rappresentativo sul piano storico e umano: e che ci appartiene. È stata, infatti, a pieno titolo una nostra concittadina. Viennese, di famiglia ebraica, deportata nel Lager di Theresienstadt, dopo un’avventurosa liberazione, arrivò, nel 1945, a Lugano.

Aveva 34 anni e dall’atroce esperienza della prigionia, riuscì a ricavare uno straordinario impulso vitale: per andare avanti, lavorando, mettendosi a disposizione degli altri, apprezzando i piaceri della cultura, della musica, delle amicizie. Ho avuto il privilegio di rientrare nel giro delle sue conoscenze, accolte nell’appartamento di via Berna, e subito a proprio agio. Insieme, si discuteva di tutto, e a volte anche un po’ polemicamente nei confronti delle scelte di Israele. Le sofferenze e le ingiustizie, subite nel Lager, sembra-

vano però lontane. Finché, un giorno, Federica, Fritzi per gli amici, decise di raccontarle affidando i suoi ricordi alle pagine di un diario che sarebbe diventato un libro: Anni perduti, tradotto in italiano da Moreno Bernasconi e pubblicato da Dadò nel 2000.

Dopo mezzo secolo di silenzio, quell’uscita allo scoperto non mancò di sorprendere. Ma per Federica Spitzer

si trattava di un’esigenza, lungamente maturata, che ebbe il sopravvento sull’innato riserbo, sul timore di un’umiliante compassione. «Ho capito» spiegava «che Theresienstadt era stata un’esperienza non soltanto mia, anche gli altri dovevano conoscere le aberrazioni dell’antisemitismo».

E accettò di svolgere un ruolo pubblico, incontrando gli allievi delle scuole,

Inaugurata a Breganzona la via dedicata a Federica Spitzer. (CdT - Gonnella)

per testimoniare che quelle assurdità erano accadute davvero, e ancora possono accadere. Un compito che spetta, adesso, alla Fondazione a lei intestata, che ne gestisce l’eredità culturale ed educativa destinata, innanzi tutto, ai giovani; che devono sapere. Ma come, attraverso quali canali e con quali risultati?

Il primo e il più logico dovrebbe essere la scuola. Dove, in pratica, proprio l’insegnamento della storia si rivela maggiormente a rischio. Esposto, inevitabilmente, ai condizionamenti ideologici del momento. Si pensi ai libri di testo in stile ’68, dove s’ignoravano i gulag ma s’insisteva sulle condizioni di «apartheid» dei lavoratori stranieri in Svizzera e, di questi tempi, all’ondata xenofoba. D’altro canto, però, allargando il discorso ci si scontra con un ostacolo fisiologico, implicito nell’età: la difficoltà di stabilire un rapporto con il passato e i fatti che vi sono accaduti.

Per i giovanissimi, prima di loro c’è una nebulosa, dove tutto si confonde.

Con effetti che sconcertano gli adulti e gli anziani. E a volte divertono.

C’è, magari, da ridere ma non troppo.

Poteva essere, infatti, la prima reazione, leggendo nell’ultimo domenicale del «Sole 24 ore» le riflessioni di Umberto Eco sul tema della memoria: oggi sempre più appiattita e travisata. Punto di partenza, gli infortuni grotteschi in cui spesso incappano i giovani concorrenti del telequiz «L’eredità»: la strage alla stazione di Bologna attribuita «ai carabinieri», l’avvento al potere di Hitler «nel 1948 o nel 1964». E via enumerando svarioni che, oggi, potrebbero essere comodamente evitati. Basterebbe, per colmare queste elementari lacune, consultare Wikipedia, mezzo d’informazione a disposizione di tutti, in grado di fornire notizie e date indispensabili: un materiale, insomma, da sopravvivenza. Ora, come racconta e deplora Eco, Wikipedia sta perdendo seguito: sarebbero oltre 300 milioni gli utenti persi nell’ultimo anno.

Senza mezzi termini, il semiologo li definisce «imbecilli»: abbandonano Wikipedia per «chattare». E ne conclude: «Così si perde la memoria non solo del passato, ma anche del presente». In altre parole, i vantaggi della tecnologia sprecati.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 1. febbraio 2016 ¶ N. 05

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Ambiente e Benessere Bellezze e aromi delicati Resistenti ai rigori invernali le Daphne regalano colore e profumi anche d’inverno

Il vino sul Danubio È di bacca bianca il dominio dei vigneti autoctoni coltivati in Austria

Auto più autonome Sperimentazioni protagoniste al North American International Auto Show

Scimmie famose Diverse le star cinematografiche che hanno avuto per amica una scimmia altrettanto celebre

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Alimentazione e farmaci, gli errori da evitare Medicina Farmaci e cibi possono interagire

tra loro con effetti indesiderati

Sergio Sciancalepore L’interazione tra farmaci e cibo (più che tra farmaci e farmaci) è un fatto che molti ignorano. Perché ci sono farmaci che vanno presi prima o dopo i pasti? Ci sono «relazioni pericolose» tra essi? Perché ad esempio alcuni latticini non vanno sempre d’accordo con gli antibiotici? A dare dei consigli in merito durante una nostra intervista è Luca Pasina, responsabile dell’Unità di farmacoterapia e appropriatezza prescrittiva dell’Istituto Mario Negri di Milano.

Dottor Pasina, cosa accade quando ingeriamo un farmaco?

Il farmaco arriva nello stomaco, è assorbito nel primo tratto dell’intestino e va nel fegato dove è metabolizzato e modificato, poi passa nei vasi sanguigni per svolgere l’effetto terapeutico là dove serve. Le modificazioni sono fatte da enzimi della mucosa intestinale e del fegato: di conseguenza, una certa quantità di principio attivo del farmaco non passa nel sangue. È un meccanismo fisiologico: il metabolismo rende alimenti e farmaci più facilmente eliminabili con le urine e le feci.

Può farci un esempio di interferenza tra i cibi e i farmaci?

Se assumiamo contemporaneamente il latte o i latticini e i bifosfonati – usati in caso di osteoporosi – c’è il rischio che si formino composti non solubili formati da farmaco e calcio e che ostacolano l’assorbimento del farmaco: di conseguenza, si assume una quantità di bifosfonati inferiore al previsto. Quindi, questo farmaco e il latte o i latticini vanno presi separatamente, con un intervallo di due o tre ore: lo stesso vale per gli integratori di calcio che a volte sono prescritti per potenziare l’azione del farmaco. Anche per antibiotici come le tetracicline e i fluorochinoloni, vale la stessa indicazione.

A livello intestinale ed epatico ci sono altre interazioni tra alimenti e farmaci?

Sì, riguardano il metabolismo del farmaco, sono meno frequenti ma possibili, è il caso del succo di pompelmo. Il pompelmo è un forte inibitore

dell’attività di un enzima del fegato e della mucosa intestinale, responsabile del metabolismo di molti farmaci. Il blocco dell’enzima inizia due o tre ore dopo l’assunzione del succo e dura circa 24 ore, per cui se si prendono nel frattempo farmaci come le benzodiazepine (ipnotici e ansiolitici), ciclosporina (antirigetto), alcuni calcio antagonisti (antipertensivi) o alcune statine (per abbassare il colesterolo), la quantità del farmaco nel sangue è superiore a quella prevista proprio perché il succo ne blocca il metabolismo. Per questo motivo, sono possibili effetti indesiderati anche rilevanti come miopatie gravi causate dall’assunzione contemporanea di succo di pompelmo e statine.

I pazienti sono consapevoli delle possibili interferenze tra i cibi e i farmaci?

Non sempre c’è una esauriente informazione, occorre però ricordare che non è sempre facile prevedere le possibili interazioni che vengono magari scoperte solo quando un farmaco è già in uso.

A stomaco pieno o vuoto: è un’indicazione molto generica?

Luca Pasina, responsabile dell’Unità di farmacoterapia e appropriatezza prescrittiva dell’Istituto Mario Negri di Milano.

A volte sì, ma è utile. In genere, se un farmaco è assunto a stomaco vuoto l’assorbimento è facilitato, ci sono invece farmaci per i quali questa indicazione non ha importanza. Gli antinfiammatori vanno presi a stomaco pieno per i possibili effetti lesivi sulla mucosa gastrica, mentre il paracetamolo – spesso confuso con gli antinfiammatori (è antidolorifico e antipiretico) – può essere preso a stomaco vuoto, è meglio assorbito e ha un effetto più rapido.

massime e la durata di assunzione del farmaco.

ria, occorre controllare le condizioni del paziente.

La somministrazione prolungata o permanente di un farmaco può avere effetti sull’assorbimento o il metabolismo di certi alimenti?

I prodotti erboristici possono interferire con l’azione dei farmaci?

Farmaci e alcol: un abbinamento da evitare?

I farmaci vanno assunti sempre con acqua. L’eccesso di alcolici è lesivo per la mucosa gastrointestinale e il fegato e se, per esempio, si usano di frequente antinfiammatori o cortisonici, gli effetti lesivi si sommano. L’alcol potenzia l’effetto degli psicofarmaci come gli ansiolitici e gli antidepressivi e ha una particolare interazione con il paracetamolo: se è utilizzato da chi abitualmente beve alcolici, aumenta molto il rischio di tossicità epatica. È quindi necessaria maggiore cautela per le dosi

Sì. Un esempio è quello degli inibitori della pompa protonica: farmaci usati per diminuire l’acidità gastrica dovrebbero essere usati solo in caso di necessità mentre se ne fa un uso spesso inappropriato. Tra gli effetti collaterali degli inibitori, c’è l’osteoporosi perché riducono l’assorbimento e l’utilizzazione del calcio nell’organismo. Più alta è la dose di farmaco e più prolungata è la somministrazione, maggiore è il rischio di fratture ossee. In più, possono ridurre l’assorbimento della vitamina B12 e del magnesio: la carenza di magnesio può dare sintomi neurologici (depressione, confusione mentale) non frequenti ma il rischio c’è.

E se si devono proprio assumere, come cautelarsi?

Occorre valutare il rapporto tra il beneficio e il rischio. Se la terapia è necessa-

È possibile, occorre attenzione: l’Iperico – Erba di san Giovanni, un blando antidepressivo – ne è un esempio.

Potenzia l’azione di un enzima epatico che metabolizza la maggior parte dei farmaci, ci sono casi di gravidanze inattese in donne che assumono l’iperico e la pillola contraccettiva: aumentando l’attività dell’enzima, i livelli ematici di estrogeni sono più bassi di quelli necessari per evitare una gravidanza.

E gli integratori alimentari?

In questo caso il problema non è l’interferenza ma l’utilità. L’uso degli integratori per chi ha una dieta normale, non è malnutrito o non ha una grave carenza di vitamine o minerali, non ha alcun vantaggio, è provato da numerosi studi: al contrario, ci sono evidenze per ricoveri ospedalieri causati da integratori per dimagrire, aumentare la massa muscolare ed energizzanti. Il ricorso a dosi supplementari di betacarotene

e vitamina E è in relazione con un più alto rischio di mortalità: inoltre, un recente studio durato 12 anni, mostra che non ci sono effetti positivi dei multivitaminici su memoria e concentrazione, nel lungo termine, negli anziani. È anche possibile che gli integratori siano inquinati da sostanze non dichiarate come gli ormoni, è il caso di certi preparati per sportivi che si trovano in internet o nei negozi specializzati.

Dove si possono trovare altre informazioni utili?

C’è un’utile guida dell’Agenzia governativa statunitense che controlla i farmaci: l’Agenzia Italiana del Farmaco l’ha tradotta in italiano. In ogni caso, leggere il foglietto di presentazione del farmaco e consultare il medico o il farmacista.

Informazioni

Guida a cura dell’FDA e dell’AIFA, www.agenziafarmaco.gov.it/sites/ default/sintesi_interazioni_farmaci_alimenti.pdf

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 1. febbraio 2016 ¶ N. 05

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Ambiente e Benessere

Bellezza e profumo anche in inverno Mondoverde Sono circa settanta le specie appartenenti alla famiglia delle Daphne, ma alcune sono molto rare

Anita Negretti Vi sono piante che quando entrano a far parte delle nostre conoscenze è difficile non lasciarsi tentare dall’averne almeno un esemplare in giardino.

L’elenco potrebbe esser lungo, ma oggi vorrei farvi conoscere un genere, quello delle Daphne, veramente sorprendente, non solo per la loro delicata bellezza, ma anche per le caratteristiche che le contraddistinguono.

Vi sono circa una settantina di specie all’interno di questo gruppo di piante erbacee e arbustive, tutte originarie di Africa, Asia ed Europa, di cui ben una dozzina presenti allo stato spontaneo anche nella flora italo-insubrica.

Ne sono un esempio le specie nane alpine, alte non più di dieci-quindici centimetri, tappezzanti, dai piccoli fiorellini profumati, come la Daphne alpina (caduca, dal sentore vanigliato e protetta in natura) o la Daphne cneorum (una sempreverde che si discosta dalle altre specie per via della preferenza a posizioni soleggiate su terreni sassosi e aridi).

Le Daphne hanno foglie alterne, ovali, sempreverdi e coriacee oppure caduche, e in questo caso spesso accade che si sviluppino prima i fiori delle nuove foglie, regalandoci un gran bello spettacolo durante i mesi ancora freddi. I fiori, piccolini e costituiti da quattro sepali, possono esser rossi, gialli o tendenti al verde, hanno un aroma dolce e molto delicato.

Resistenti ai rigori invernali, quasi

nessun parassita è in grado di aggredirli (se non per sporadici attacchi di afidi). Bisogna invece fare attenzione al caldo estivo e ai periodi siccitosi, dove spesso si interviene erroneamente con bagnature troppo intense: bisogna dosare l’acqua per ovviare ai marciumi radicali che possono portare alla morte delle piante, intervenendo con poca acqua ma di frequente visto che il caldo dissecca rapidamente le radici.

Una corretta posizione ne facilita sicuramente la buona sopravvivenza: terreno fertile, ricco di humus, fresco, ben drenato e con terriccio umido ma evitando accuratamente i ristagni idrici; luoghi semi-ombreggiati o in pieno sole a seconda della specie, con la base all’ombra e la chioma al sole, come si usa fare con le clematidi.

Un buon trucco è di porre uno strato spesso di pacciamatura sulle radici, evitando inoltre di cambiargli il vaso di frequente se coltivate in contenitori, meglio metterle fin da subito in piena terra e lasciarle per tutta la loro vita, pena la non fioritura per uno o due anni.

La Daphne odora è forse la più facile da reperire in commercio, ha foglie sempreverdi di colore verde scuro, raggiunge un metro d’altezza e già ai primi di febbraio produce fiori profumati all’apice dei rami, dal colore bianco rosati.

La varietà D. odora «Aureomarginata» (sinonimo: «Marginata») è ancor più rustica, resiste fino a –10 °C ed è caratterizzata da una sottile linea gialla lungo i margini fogliari e da fiori rosati

Daphne mezereum. (Enrico Blasutto)

profumati alla vaniglia che sbocciano in inverno.

Particolare per la fioritura, tanto da meritarsi il nome di «fior di stecco», è la Daphne mezereum, comune in Europa, fiorisce all’inizio della primavera, prima della comparsa delle foglie e sembra che i fiori rosa brillante siano incollati sui rami nudi. Deciduo e alto fino a 1,5 m, ama posizioni soleggiate e si sviluppa bene in terreni calcarei; ai fiori seguono le bacche, bellissime, rosse ma molto velenose.

Della specie D. mezereum si distinguono tre varietà altrettanto belle, soprattutto se messe vicine: «Autumnalis», con una fioritura che va da ottobre fino alla primavera, «Rubra» dai fiori

rossi e «Alba» con sepali bianchi e frutti giallo chiaro.

Originaria dei boschi ricchi di humus del Giappone nord-occidentale, D. jezoensis raggiunge il mezzo metro d’altezza e ha fiori giallo carico, anch’essi profumati, con fioritura invernale o inizio primavera, che ben si accompagna ai fiori verdastri e al profumo di D. laureola, un arbusto sempreverde alto fino a 1,5 m, originario dell’Inghilterra che ha una profumazione intensa nelle ore serali. Predilige suoli alcalini, con presenza di gesso o calcare, resiste fino a –20 °C e fiorisce tra febbraio e marzo; le bacche, scure e velenose, sono molto gradite agli uccelli.

La sopravvivenza di molte specie di Daphne è stata messa a repentaglio, visto che la loro raccolta in natura aveva raggiunto livelli di vero e proprio saccheggio, come è avvenuto con Daphne petraea, dalle foglie lucenti e cuoiose e fiori profumati, definita «rara» nella Lista Rossa del 1997: nativa del lago di Como, è stata per anni raccolta da collezionisti o semplici appassionati, fin tanto da mettere a repentaglio la sua diffusione in natura.

Per questo motivo vi consiglio di acquistare le vostre future piante di Daphne solo da rivenditori affidabili, poiché si possono ritrovare in commercio (illegalmente) anche esemplari selvatici protetti.

Altro caso limite è quella della D. arbuscula, che cresce solo in un’area limitatissima dei monti Carpazi in Slovacchia, a un’altezza tra i 700 e i 1300 metri, le cui piante al di fuori di questi limitati parametri si rifiutano di produrre semi! Altre, come D. glomerata, nativa della Turchia o D. calcicola, si riproducono con somma difficoltà lontano dai luoghi d’origine e anche la coltivazione è molto complicata.

Caso a parte quello della D. genkwa, a lungo classificata come un lillà per via dei suoi magnifici fiori che ricordano appunto quelli della Syringa vulgaris; nativa della Cina, ama spazi aperti e dunque ben si presta alla coltivazione in giardino. Raggiunge 1,5 metri di altezza e ha una chioma ampia, fino a 3 metri; rustica, resiste fino a –20 °C, con fiori lilla-azzurri, fragranti e bacche bianche.

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Ambiente e Benessere

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laser e un nuovo tipo di videocamera in fase di sperimentazione sulla nuova h-tron

Mario Alberto Cucchi Nel Michighan, a Detroit, in gennaio fa davvero freddo. Lo sanno bene gli appassionati di auto che sfidando il gelo vanno a visitare il North American International Auto Show (NAIAS). Quest’anno a scaldarli è arrivato un prototipo tedesco giallo come il sole con quattro anelli sul cofano. Si tratta dell’Audi h-tron quattro concept. Un suv sportivo lungo 4,88 metri, largo 1,93 e alto 1,54 alimentato a idrogeno e dotato di un sistema di guida autonoma e parcheggio pilotato. A spingere l’avveniristica automobile sono due motori elettrici, uno sull’assale anteriore e l’altro su quello posteriore per una potenza di, rispettivamente, 122 e 190 cavalli.

In totale sono 312 cavalli.

Un nuovo capitolo nell’evoluzione della trazione quattro, h-tron è infatti un mezzo dotato di trazione integrale, le ruote motrici sono quattro. E le prestazioni? Da 0 a 100 km/h in 7’’, con un’autonomia di 600 km. I serbatoi dell’idrogeno possono essere riforniti in modo sicuro e veloce in appena quattro minuti. La vettura combina una cella a combustibile di ultima generazione, con potenza fino a 110 kW, a una batteria che consente una potenza supplementare di 100 kW. Insomma le prestazioni su strada da sportiva sono associate a una grande autonomia e a brevi tempi di rifornimento. Il tutto viaggiando in modalità esclusivamente elettrica e utilizzando appunto l’idrogeno come fonte di energia. Come detto, oltre a ciò, questo prototipo Audi è un laboratorio viaggiante su cui vengono testate le ultime tecnologie dedicate all’interfaccia auto-uomo. Radar, sensori ultrasonici, scanner laser e un nuovo tipo di videocamera interagiscono assieme coordinati da un’unità di controllo centrale dei sistemi di guida che garantisce il controllo della vettura

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anche nel traffico stop-and-go fino a 60 km/h in autostrada. Una tecnologia che pare sarà in toto disponibile sulla futura generazione dell’ammiraglia Audi A8 il cui debutto è previsto per il 2017.

L’h-tron è il nuovo suv sportivo dell’Audi alimentato a idrogeno e dotato di un sistema di guida autonoma e parcheggio pilotato Nuovi anche i gruppi ottici a laser Matrix e a diodi Oled incastonati come pietre preziose in una carrozzeria realizzata in materiali leggeri. Infine va detto che il tettuccio della vettura ospita dei pannelli solari in grado di generare fino a 320 watt. Al NAIAS di Detroit anche Ford ha puntato sulla «guida autonoma» illustrando i dettagli delle sue sperimentazioni anche in condizioni climatiche estreme. Le prove invernali sono portate avanti da Ford a MCity, il modello di guida urbana in scala 1:1 realizzato nel Michigan e dove sono presenti tutte le caratteristiche e le infrastrutture delle strade cittadine. Quando la segnaletica orizzontale non è visibile dalle telecamere di bordo, ad esempio perché coperta da strati di neve o fango, i prototipi Ford a guida autonoma si avvalgono della mappatura 3D ad alta risoluzione generata in precedenza e che utilizza punti di riferimento, riconosciuti tramite i sensori Lidar, per sovrapporla a quella generata in tempo reale e procedere nella traiettoria più corretta.

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Ambiente e Benessere

La forte tradizione Austriaca Bacco giramondo Dalle rive del Danubio alle taverne di Vienna a suon di walzer

Davide Comoli Oggi l’Austria è una delle nazioni vitivinicole più dinamiche del continente europeo, testimonianza di un’antica tradizione, anche se per molto tempo è stata fuori dalla produzione di vini di qualità.

Non si ha la certezza se gli antichi Celti, abitanti lungo le rive del Danubio, producessero vino, ma di sicuro conoscevano il frutto della vite.

Come per la confinante Germania, la viticoltura fu introdotta dall’imperatore romano Probo (280 d.C.) che autorizzò le guarnigioni delle differenti province dell’Impero a coltivare la vite per approvvigionare le legioni con questa bevanda fortificante e molto apprezzata.

Passate le invasioni barbariche, la viticoltura rinacque qualche secolo dopo con Carlo Magno, al quale si devono anche le prime indicazioni legislative in materia vitivinicola. L’imperatore carolingio, fra l’altro, accordò ai contadini il diritto di vendere la propria produzione, assicurando alla viticoltura buone prospettive economiche. È a Mautern, nel Wachau, luogo dove viene venerato San Severino, che sono stati trovati i primi documenti attestanti l’esistenza di vigne sul suolo austriaco, datati V secolo. La città di Krems, celebre per i suoi vigneti, è menzionata per la prima volta nel 995. Dal XI al XIII sec. quasi tutti i monasteri situati nelle Alpi austriache e bavaresi, avevano dei vigneti, il che permise alla viticoltura locale di conoscere una prima fase di prosperità.

Fu però solo nel 1784 che l’impera-

tore Giuseppe II istituì (e fu un passaggio importante per la viticoltura austriaca) la famosa circolare con la quale confermava il diritto alle Heurigen (taverne) di vendere il vino prodotto con vigne proprie a non più di dieci chilometri dal locale stesso.

Questo antesignano dell’odierno chilometro zero, fu l’origine dei grossi sforzi per creare una viticoltura di qualità; sforzi coronati da successo a metà del XIX secolo con la fondazione della scuola di viticoltura di Klosterneuburg, una delle prime al mondo.

Il vigneto austriaco s’arricchì di nuovi vitigni come l’autoctono Blaufränkisch, l’ibrido Zewigelt, il St. Laurent e (importato dalla Francia) il Blauburgunder. Fu messa pure a punto una nuova forma di allevamento della vite chiamato hochkultur, simile al guyot, che sostituì la «spalliera» tradizionale.

Il territorio austriaco non fu risparmiato né dalla micidiale fillossera né dalla peronospora, ma la viticoltura del paese si rialzò prontamente, tant’è che allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, l’Austria era il terzo produttore mondiale di vino esportato sia come mosto sia come vino da taglio.

Dopo la battuta d’arresto del 1985, legato all’addizione di «glicol etilico», un liquido antigelo ad alcuni Spätlese (vendemmie tardive), l’impegno del governo e la reazione dei produttori hanno saputo trasformare questa brutta pagina, ricostruendo con successo la credibilità e la qualità del vino austriaco.

Oggi la superficie coltivata è di circa 46mila ettari e il dominio dei vigneti a

Vista dal Senftenberg, nel Kremstal, sui vigneti di Imbach. (Moneo)

bacca bianca, autoctoni è quasi assoluto e occupa circa il 70 per cento della superficie vitata. Il Grüner Veltliner è il vitigno più coltivato, quello su cui molti produttori stanno puntando per consolidare l’originalità dell’Austria vitivinicola. Il Welschriesling, usato per bianchi ordinari o vini muffati; il Riesling chiamato anche Rheinriesling o Weissen Riesling; il Müller Thurgau; il Pinot Bianco; il Roter Traminer (Gewürtztraminer); il Sauvignon Blanc; lo Chardonnay qui chiamato Morillon o Feinburgunder; il Neuburger e il Golden Muskateller.

Il vitigno a bacca nera più coltivato è lo Zweigelt. Poi ci sono il Blauer Portugieser, che dà vini deboli, ma con piacevoli note di viola e ribes, il St. Laurent e il Blaufränkisch. Il recente miglioramento qualitativo è però dato dall’invasione dei soliti Merlot, Cabernet e Pinot Nero, spesso utilizzati in uvaggio con i vitigni locali.

Il clima è prevalentemente continentale e freddo. Il Danubio e il lago di Neusiedl svolgono un’azione mitigatrice, inoltre nelle zone prossime a questo lago si creano ottime condizioni per lo sviluppo della Botrytis cinerea con cui produrre splendidi Trockenbeerenauslese (letteralmente «raccolto di acini appassiti selezionati»).

Le regioni vitivinicole sono quasi tutte disposte nella zona orientale del paese, intorno a Vienna. La legislazione austriaca è molto simile a quella tedesca, e si distingue nettamente dal resto d’Europa, basandosi sulle concentrazioni zuccherine dei mosti.

Il Niederösterreich è la regione più estesa (30mila ettari) e si divide ulteriormente nella Wachau, dove la combinazione di terreni vulcanici e volano termico del Danubio creano il miracolo del vino austriaco più famoso, il Grüner Veltliner.

Nel Kremstal e Kamptal, si ottengono degli ottimi Riesling. Il Carnuntum è invece una delle zone più significative per la presenza della scuola di viticoltura di Klosterneuburg. La Weinviertel è la regione con la più grande produzione di vino, mentre la Thermenregion è famosa per i suoi bagni termali, dove provare il pallido vino rosato chiamato Gumpoldskirchen dal nome del villaggio ed è ottenuto da Rotgipfler (Beethoven stesso, amava comporre le sue opere in questo luogo).

Vicino al bassopiano ungherese troviamo il Burgenland, dove oltre a vini rossi fruttati di corpo, si producono i celebri Beerenauslese e i Trockenbeerenauslese, grazie all’azione della «muffa nobile» nelle zone presso il lago di Neusiedl. Non si può lasciare il Seewinkel senza provare lo storico Ausbruch dal profumo di miele, uva passa e sentori minerali, dolce e una buona nota alcolica, magari accompagnato a un tortino di cioccolato e menta con una mousse di ribes. Non tralasciamo, infine, la Stiria e il suo vino rosato Schilcher ottenuto da Blauer Wildbacher.

Fino al 1547, Vienna aveva dei vigneti in centro città, mentre oggi la capitale divide la regione in due zone: quella che guarda il monte Kahlenberg, dal suolo di calcare conchilifero e quella del Bisenberg con suoli bruni e löss. A Vienna non perdetevi una simpatica serata nel quartiere di Grinzing (tram no. 11) dove in una delle numerose Heuriger con il sottofondo di un romantico walzer gusterete ottimi spuntini accompagnati da profumatissimi vini bianchi.

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Ambiente e Benessere

Le cime di rapa Per motivi che non mi spiego ho parlato molto poco delle cime di rapa. Un paio di anni fa vi ho dato la ricetta delle orecchiette condite con questo ingrediente: uno dei piatti classici della tradizione pugliese. Vediamo di saperne di più.

Il grande problema con le cime di rapa è la distinzione fra queste, i broccoletti e i friarielli. Bene, si chiamano broccoletti alcune infiorescenze immature di due vegetali della famiglia delle Brassicacee: il cavolo broccolo ramoso e la rapa da cima, detta anche broccoletti di rapa – per cui si possono quindi chiamare ambedue broccoletti – pur essendo diversi. Nel napoletano poi si trova un particolare tipo di rapa da cima, dai germogli teneri e sottili, che si chiamano friarielli. Sia chiaro, sono tutti e tre meravigliosi. Anche se alla fine la vera diversità viene sostanzialmente data dalla qualità del prodotto, come succede sempre nella cucina.

Se hanno i germogli teneri e sottili, si chiamano friarielli, se le infiorescenze sono immature, broccoletti Le cime di rapa sono coltivate prevalentemente nel Sud Italia e ne esistono diverse varietà: alcune che si raccolgono in primavera ed estate, altre tardive, che si raccolgono in inverno.

Mondarle è facilissimo: basta eliminare le parti danneggiate e i fusti più grossi, poi vanno lavate bene le foglie tenere e le infiorescenze. (Non gettate comunque i fusti più grossi, sono saporitissimi!) Quindi tagliateli molto sottili e utilizzateli, tenendo conto che richiedono qualche secondo in più di cottura.

Si dice che siano a volte troppo amarognole e che per questo motivo vadano sbollentate prime di comple-

tarne la cottura: non credeteci, i cultivar prevalenti hanno solo un piccolo fondo di amaro che è la caratteristica delle cime di rapa, quindi niente sbollentatura.

Questa verdura accompagna e arricchisce tanti prodotti, dalle paste, le orecchiette ma non solo, alla carne. A mio parere, si esaltano se condite con aglio e peperoncino: un ménage a trois inimitabile.

Vi do le ricette per i due piatti «perfetti» conditi con le cime di rapa. Il primo è tradizionale, ma non è la ricetta di due anni fa: è una versione risottata.

La seconda è una mia ricetta, non della tradizione.

Orecchiette risottate alle cime di rape. Mondate e lavate 500 g di cime di rapa, tagliate i gambi a fettine sottili, cuocete cime e gambi in una casseruola con la sola acqua dell’ultimo lavaggio per 3 minuti, coperto, poi scolatele tenendo l’acqua fuoriuscita. Nella stessa casseruola fate rosolare 1 filo di olio, 2 spicchi di aglio mondati e leggermente schiacciati e 2 peperoncini spezzettati. Aggiungete le verdure e lasciatele insaporire per 1 minuto, mescolando. Intanto avrete sbollentato 350 g di orecchiette in abbondante acqua salata al bollore per 3 minuti. Scolatele e calatele nella casseruola, portatele a cottura mescolando e unendo l’acqua delle cime di rapa necessaria, quando finisce, unite acqua bollente. Regolate di sale e arricchite con una manciata di pinoli tostati.

Filetto alle cime di rapa. Preparate 500 g di cime di rapa come indicato sopra, cuocendo separatamente i gambi, poi frullate metà delle cime e i gambi, mescolateli, regolateli di sale e di peperoncino e teneteli da parte. In una padella con burro cuocete 4 filetti di manzo a piacere – ma poco! – poi passateli per 10 minuti circa in forno a 80°, appoggiandoli su una gratella in modo che producano la tipica antiestetica acquetta. Mettete le cime di rapa nella stessa padella con altro burro e aglio a piacere, ripassatevi i filetti per 1 minuto e servite.

CSF (come si fa)

Ernesto Andrade

Allan Bay

Rasbak

Gastronomia Tra le verdure più simili anche broccoletti e friarielli: chi sa distinguerli?

Vediamo come si fanno tre classici piatti irlandesi, va da sé a base di patate.

Stufato all’irlandese. Per 6 persone.

Una versione addolcita dell’irish stew.

Tagliate a pezzi 1,5 kg di montone o agnello. Tagliate a fette 1 kg di patate, affettate al velo 500 g di cipolle. In una casseruola alternate uno strato di carne con uno di cipolle e uno di patate, spolverizzando ogni strato con

timo, sale, pepe e prezzemolo. Terminate con uno strato di patate, sigillate la casseruola con un foglio di carta di alluminio, chiudete con un coperchio e cuocete in forno a 150° per 2 ore. Aggiungete un po’ di brodo solo se necessario.

Pudding di patate e mele. Per 4 persone. Lavate 300 g di patate, lessatele in acqua, pelatele ancora calde e passatele nel passaverdura. Aggiungete 2 cucchiai di burro, mescolate e incorporate 200 g di farina autolievitante alla quale avrete unito 1 pizzico abbondante di sale. Amalgamate versando abbastanza latte freddo da ottenere un composto soffice. Versate parte dell’impasto in una pirofila e tenete da parte il resto per richiudere il dolce. Spellate 5 mele e affettatele.

Spolverizzatele di zucchero, distribu-

itele sopra la pasta unendo 2 chiodi di garofano, il succo di mezzo limone e un paio di cucchiai di sidro. Ricoprite con l’impasto rimasto, con l’aiuto di un coperchio pressate bene il dolce e rifilate la pasta in eccedenza. Sigillate la pirofila con un foglio di carta d’alluminio e cuocete a bagnomaria per circa 2 ore e mezzo. Servite accompagnando con panna.

Pie di patate. Per 4 persone. Lavate accuratamente 600 g di patate, lessatele in abbondante acqua, pelatele ancora calde e passatele nel passaverdura.

Unite alle patate passate 250 g di burro, 150 g di zucchero, 1 bicchierino di whiskey e 6 tuorli. Impastate e trasferite il composto in una pirofila leggermente imburrata, lisciate la superficie con il dorso di un coltello e cuocete in forno a 180° per 1 ora.

Ballando coi gusti Oggi due paste veramente più che mai semplicissime.

Tutti i formati vanno bene, qui abbiamo usato bavette e bucatini, voi adoperate quello che più vi aggrada.

Bavette alle alici

Bucatini affumicati

Ingredienti per 4 persone: 350 g di bavette o pasta a piacere · 500 g di alici fresche

Ingredienti per 4 persone: 350 g di bucatini o pasta a piacere · 200 g di scamor-

· 2 pomodori · 1 cipolla · 1 carota · 1 costa di sedano · 1 spicchio di aglio · 1 ciuffo di prezzemolo · 1/2 bicchiere di vino bianco secco · olio di oliva · sale e pepe.

za affumicata · 3 zucchine · 80 g di pancetta affumicata · mezza cipolla · peperoncino · olio di oliva · sale.

Mondate le alici eliminando testa, lisca e interiora; sciacquatele, asciugatele e tagliatele a pezzetti.

Tritate la cipolla, la carota, il sedano e l’aglio, fateli appassire in un tegame con poca acqua per 10 minuti. Levatele, scaldate nel tegame poco olio con l’aglio mondato e leggermente schiacciato e saltate le alici per 1 minuto. Sfumate con il vino, aggiungete i pomodori mondati e tagliati a dadini e il soffritto, quindi regolate di sale e di pepe e fate cuocere a fuoco per 5 minuti.

Cuocete le bavette in abbondante acqua salata, scolatele al dente e calatele nel tegame. Aggiungete il prezzemolo mondato e tritato, amalgamate con cura e servite.

Tritate la pancetta e la cipolla e fatele rosolare in un tegame con poco olio. Unite le zucchine tagliate a rondelle e cuocete per circa 10 minuti. Regolate di sale e di peperoncino.

Nel frattempo, fate cuocere i bucatini in acqua salata e scolateli al dente. Calateli in una zuppiera, unite la scamorza tagliata a dadini e il sugo, mescolate velocemente in modo che la scamorza cominci a fondere e servite.

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Ambiente e Benessere

Un primate per amico Mondoanimale Qualcuno di noi discende dalle scimmie… altri ci si avvicinano crescendo,

tutti siamo sotto l’egida dell’anno ad esse dedicato Maria Grazia Buletti «Prima di lasciare la terra, il Buddha convocò a sé tutti gli animali del globo, ma solo dodici andarono ad offrirgli il loro saluto. Per ricompensare la loro fedeltà, il Buddha decise di premiarli: ogni anno del ciclo lunare, da quel momento, avrebbe avuto il nome di uno dei dodici animali che lo avevano rispettato», narra la curiosa leggenda legata allo zodiaco cinese, diverso dal nostro.

Topo, Bufalo, Tigre, Coniglio, Drago, Serpente, Cavallo, Capra, Scimmia, Gallo, Cane e Maiale si susseguono, a indicare ogni anno di nascita. Chi viene al mondo nel 2016, si dice, nascerà sotto il segno della Scimmia: simbolo di animale brillante, attivo, ambizioso e intelligente che, sempre secondo le previsioni dell’Oroscopo cinese, quest’anno avrà il compito di imparare l’arte della compassione.

Per la verità, non era così lontano dalla realtà il politico statunitense Henry Ward Beecher quando nel 1862 affermò che le scimmie sono una satira vivente della razza umana, con innumerevoli variazioni. Tant’è, che questo primate ci assomiglia (oppure dovremmo dire che siamo noi ad assomigliargli?) e sarà l’incontestato re dello Zodiaco cinese che, dall’8 febbraio, dominerà su tutto l’anno in corso.

«L’uomo, questa povera scimmia condannata a fare l’uomo», scrisse il biologo francese Jean Rostand nel suo libro Pensieri di un biologo (1954). E forse proprio questa affinità indiscussa ci permette di ricordare alcune delle parecchie scimmie che l’uomo ha contribuito a rendere celebri, a cominciare dalla scimmia per eccellenza: King Kong. Forse pochi sanno che l’idea che ispirò la creazione di uno dei personaggi più importanti e conosciuti della

Jane, Tarzan e Cheeta nella pellicola girata negli anni Trenta.

storia del cinema dipese da un rettile: King Kong si ispirò infatti all’avventura di un esploratore, Burden, che al ritorno da un viaggio in Oriente portò negli USA il più grande rettile mai scoperto, il drago di Komodo. Partendo da quest’avventura reale, Merian C. Cooper sostituì lo scimmione al grosso rettile e allargò la trama agli sviluppi avventurosi del pupazzo ricoperto di peli di coniglio (tale era King Kong negli anni Trenta) che rese immortali le sue vicissitudini, compresa la scena sull’Empire State Building.

E un altro scettro della popolarità va pure a Cheetah, la scimmia di Tarzan che fu una trovata cinematografica

della quale non c’è traccia nei romanzi da cui sono tratte le avventure di Tarzan scritte da Edgard Rice Burroughs.

Vive nella Gorilla Foundation di San Francisco, vicino a Silicon Valley, il gorilla parlante che studiò il linguaggio americano dei segni che gli permise di comprendere circa duemila parole dell’inglese parlato. Questo fa di Koko una delle scimmie più famose dei nostri tempi, fama che si è estesa oltre i suoi meriti «scientifici». E di scimmie diventate celebri perché si accompagnano a un personaggio famoso ve ne sono ancora un paio, a cominciare da Joe, l’amico di Charlize Theron. Joe è un gorilla tendente al gigantismo, ami-

cissimo dell’attrice sudafricana e unito a lei da un comune destino: entrambi, nel film, hanno perso la madre per mano dei bracconieri. Questo gorilla è il frutto ibrido tra un gorilla elettronico e un’immagine virtuale che la tecnologia affianca all’attore J. Alexander, esperto di scimmie, vestito da gorilla. È reale, per contro, la scimmia appartenuta a Michael Jackson che le leggende narrano fosse diventata custode del ranch a Neverland. Pare pure che la scimmietta del re del pop spolverasse e pulisse le finestre, che desse il benvenuto agli ospiti e… che girasse in pannolino, inseparabile da Jackson finché le cose cambiarono perché la scimmietta maturò una rabbia ingestibile e venne estromessa dall’entourage del cantante. Il testamento del re del pop assicurò a Bubbles, questo il suo nome, ben due milioni di dollari. Non possiamo esimerci dal ricordare una scimmia che la letteratura ci ha consegnato attraverso le pagine di un libro: si tratta di George, la scimmia più curiosa del mondo, capace di vendere le sue avventure per 30 milioni di libri, diventare cartoon e anche film. La storia è classica e narra del passaggio dalla giungla alla città che metterà George dinanzi a un mondo fatto di cose e colori sconosciuti, attraverso i quali la piccola scimmia pasticciona vivrà un sacco di avventure divertentissime.

Meno fortunata ma reale la storia di Clyde, la scimmia di Clint Eastwood, coprotagonista nel film Filo da torcere, un road movie degli anni Settanta che ebbe un discreto successo di pubblico. Insieme a Eastwood, Clyde recitò in maniera impeccabile, valorizzando il suo contributo comico alla serie di film. Purtroppo la sua carriera terminò bruscamente poco dopo il sequel della serie (dal titolo Fai come ti pare) perché essa morì per effetto dei ripe-

tuti maltrattamenti cui il suo padrone e addestratore l’avrebbe sottoposta.

Questo triste episodio ci permette di riflettere sul fatto che le scimmie assomigliano sì all’uomo, ma, come diceva Nietzsche in Così parlò Zarathustra, può darsi che sia vero il contrario: «Ancora oggi l’uomo è più scimmia di qualsiasi scimmia».

L’anno della Scimmia Può dormire sonni tranquilli chi è nato sotto il segno cinese della scimmia; secondo gli esperti: «Questo 2016 è il vostro anno sotto tutti i punti di vista». Gioisca dunque chi è almeno un pochino superstizioso: «Se siete innamorati, allora è l’anno giusto per sposarvi, per fare progetti importanti di coppia come comprare casa o andare a convivere». La fortuna sembra baciare anche il lavoro di questi eletti: «Sarete raggianti, con molta grinta, e determinati a impostare nuovi rapporti e nuove strade professionali». E vogliamo far mancare loro la fortuna? No, certo: «Quest’anno vi colpirà positivamente a 360 gradi in tutti i settori: è un anno in cui il destino ha in serbo per voi grandi cose in ogni ambito di vita». Si diano dunque da fare i nati sotto il segno della scimmia, per vedere quanta fortuna giungerà nelle loro mani. L’augurio è che, se verranno «colpiti positivamente a 360 gradi», non si becchino un colpo talmente forte da farli stramazzare al suolo. E una risata simpaticamente scimmiesca non potrà che sdrammatizzare queste belle e ludiche previsioni astrologiche.

Giochi Cruciverba «Giulio anche tu preghi prima di mangiare?»

Troverai la risposta di Giulio leggendo le lettere evidenziate.

(Frase: 2, 3, 6, 2, 8)

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ORIZZONTALI 1. Non identificabili 7. Propaggine vegetale 8. Le iniziali dell’attore Gassman 9. Ardito, temerario 10. A favore 11. Le separa la «n» 12. Fiume della Francia 13. Imprese eroiche 17. La segue il paziente 18. È detta muta 19. Monetina USA 21. Il primo navigatore 22. Re egiziano 24. Una parente 26. Avverbio di negazione 27. La vita di Dio 28. Spazio di tempo VERTICALI 1. Emana dalle spezie 2. Si arriccia senza toccarlo 3. Prefisso che vuol dire somiglianza 4. Fino in fondo...

5. Fu una madre modello 6. Il nome di Stravinskij 10. Si apre se si chiude una porta...

12. Si può averla di traverso 13. Fiume dell’India 14. Si sente nella gola 15. Rappresentate in teatro 16. Simbolo chimico del tantalio 17. Si attacca alla bugia 19. Vicina al cuore 20. Hanno la criniera sulla schiena 22. Asciugacapelli 23. Noi in latino 25. La patria di Abramo

Sudoku Livello medio Scopo del gioco

Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contengano tutti i numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.

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Soluzione della settimana precedente

TRA AMICHE – «La prossima estate mia figlia vuole andare in montagna, mio marito al mare, mia madre in campagna, mia suocera vuole restare a casa!» – «E tu alla fine dove andrai?» – Risposta risultante: «DI CERTO AL MANICOMIO!» M A R A

A C E T O

D E S T R A

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 1. febbraio 2016 ¶ N. 05

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Politica e Economia Usa 2016, parte la corsa Repubblicani e democratici si danno appuntamento il 1. febbraio per i «caucus» dell’Iowa

La Cuba dei ricchi: 1.parte Chi sono i nuovi arrivati pieni di dollari che nella Cuba socialista e egualitaria (e ora del disgelo con gli Stati Uniti) girano in Mercedes color argento metallizzato?

Tempi duri per le casse pensioni Nel 2015 gli scarsi rendimenti dei titoli in borsa hanno messo in difficoltà gli istituti previdenziali, che devono mettere mano alle riserve pagina 27

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Un ribelle filo-russo controlla l’aeroporto di Donetsk. (AFP)

«New deal» per l’Ucraina?

Retroscena L’inedita disponibilità di Putin a partecipare ai primi negoziati diretti con gli americani

segnala la volontà di Mosca di far dimenticare la crisi del Donbass. E quella di Poroshenko di chiudere la ferita del separatismo Anna Zafesova «Un brain storming costruttivo». Vladislav Surkov è uno che appare raramente in pubblico, ancora meno quando si tratta di fare dichiarazioni. Consigliere del Cremlino, è stato la mente della politica ucraina di Mosca, dalla preparazione della svolta antieuropea che nel novembre 2013 ha fatto esplodere la protesta sul Maidan al «progetto Novorossia» della guerra nell’Est ucraino.

Ruolo per il quale è finito sotto le sanzioni occidentali, e per incontrarlo Victoria Nuland, sottosegretario di Stato Usa, ha dovuto spostarsi dalla Lituania a Kaliningrad, enclave russa nel Baltico.

Un incontro senza precedenti, non solo perché la signora Nuland è considerata a Mosca un «falco» filoucraino che distribuiva biscotti ai manifestanti di Kiev e aveva sbottato «F… the Eu» nell’intercettazione di una telefonata con un sottoposto che le riferiva della cautela delle diplomazie europee. Ma anche perché dall’inizio della nuova guerra fredda, ormai da più di due anni, russi e americani non si erano mai visti faccia a faccia per discuterne, se non in protocollari incontri dei capi delle diplomazie per «esporre le posizioni».

Il «brain storming» presuppone invece

qualcosa di più pratico, e Surkov ha confermato di aver trascorso sei ore con Nuland «per trovare soluzioni».

Il misterioso incontro è avvenuto il 15 gennaio scorso. Pochi giorni prima nell’aeroporto di Kiev è atterrato il primo aereo da Mosca dopo mesi di embargo sui voli con la Russia. Il jet apparteneva alla presidenza russa e portava Boris Gryzlov, il nuovo negoziatore russo invitato dal presidente ucraino Petro Poroshenko. Un personaggio di alto rango, arrivato a sostituire i «tecnici», a testimonianza che il Cremlino voleva dare una spinta al negoziato sugli accordi di Minsk, riguardo ai quali Gryzlov si è mostrato insolitamente ottimista.

Le prime tappe sono il mantenimento del «regime del silenzio» instaurato il 23 dicembre, lo scambio degli ostaggi e il ritiro degli armamenti. E anche se su tutti e tre i dossier per ora si procede con più intoppi che progressi, la diplomazia sembra aver accelerato.

Diverse fonti ucraine segnalano una inedita disponibilità di Mosca su argomenti finora intoccabili, mentre i rapporti sulla situazione di Donetsk e Luhansk, firmati sia dagli ucraini che dagli osservatori internazionali, segnalano un clima di smobilitazione: i guerriglieri separatisti si lamentano di non venire

più pagati, mentre fonti di Kiev accusano i russi di portar via perfino gli impianti industriali.

Dopo due anni di conflitto e 9 mila morti il clima è di trasloco imminente, e del resto i capi principali della guerriglia sono stati rimpatriati da Mosca già l’anno scorso. A Davos Poroshenko ha promesso di riportare il Donbass sotto la giurisdizione ucraina entro la fine del 2016, e il segretario di Stato Usa John Kerry ha prospettato la fine delle sanzioni contro la Russia dopo l’implementazione degli accordi di Minsk. Che stanno per compiere un anno e prevedono il rientro delle zone separatiste sotto Kiev, a condizioni da definire. La «road map» non è nuova: cessate il fuoco, ritiro degli armamenti e delle truppe, elezioni locali secondo le leggi ucraine con statuto speciale e ritorno del confine con la Russia sotto il controllo di Kiev. Finora però si era riusciti a fare qualche passo avanti solo sui primi due punti. Ma il barile del petrolio sotto i 30 dollari rende la guerra nel Donbass definitivamente un lusso per Vladimir Putin, e dalle indiscrezioni che arrivano da Kiev il negoziato ormai verte su dettagli tecnici.

Per Poroshenko chiudere la ferita del separatismo è una necessità vitale per poter affrontare la crisi economica

e il dissesto politico. I leader occidentali sono troppo presi dalla Siria e dalla crisi europea da volersi distrarre con un conflitto quasi in casa. Ciascuno però ha dei margini di manovra piuttosto stretti.

Putin non è riuscito a vincere la guerra né militarmente, né politicamente: il sentimento filorusso non si è espanso oltre le enclave al confine, e dal 1. gennaio è entrato in vigore l’accordo di Associazione tra l’Ucraina e l’Ue, che Mosca voleva bloccare. Ne deve però uscire con la testa alta, senza ammettere la sconfitta. Il negoziato diretto con gli americani gli permette di presentare la vicenda ucraina come un deal tra due superpotenze, e non come la sconfitta da parte di un ex Paese satellite. Ma deve anche mostrare di aver costretto l’Ucraina a un compromesso.

Per Poroshenko i limiti di questo compromesso sono però ancora più ridotti. La Russia non chiede più la federalizzazione dell’Ucraina, ma anche lo statuto speciale degli «alcuni distretti delle regioni di Donetsk e Luhansk», come vengono chiamati negli accordi di Minsk, è difficile da far digerire ai nazionalisti e all’opinione pubblica di un Paese estremizzata dall’invasione russa. Già il 31 agosto scorso il voto alla Rada per una prima stesura della legge

ha prodotto scontri violenti davanti al parlamento, e il rischio è di non poter racimolare i 300 voti necessari per la seconda lettura. Come escamotage Poroshenko ha proposto emendamenti costituzionali che introducono la «decentralizzazione» per tutta l’Ucraina, per farla sembrare meno una concessione ai russi, ma il premier Arseny Yatseniuk ha lanciato l’idea di un referendum, dall’esito tutt’altro che scontato.

Nel gioco al tiro della fune l’obiettivo principale di Poroshenko è quello di non dare l’occasione di accusarlo di aver ostacolato la pace, dove il passaggio principale è appunto lo «statuto speciale» (per il resto la palla è nel campo dei russi e dei loro seguaci separatisti), e per avere i 300 voti è pronto a concessioni a una coalizione litigiosa e traballante. La prospettiva di nuove elezioni in un Paese già turbolento fa paura a Kiev come a Bruxelles.

Ma far digerire agli ucraini un’amnistia dei separatisti, con la prospettiva di ritrovarsi i «presidenti» delle autoproclamate «repubbliche popolari» come governatori legittimi, e i guerriglieri trasformati in «milizie popolari», non sarà facile. E anche risolto il nodo del Donbass, resterà la Crimea, sulla cui restituzione all’Ucraina Putin non ha intenzione nemmeno di aprire un negoziato.

Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 1. febbraio 2016 ¶ N. 05

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Politica e Economia

Iowa, incomincia l’avventura Primarie Usa Con il voto del 1. febbraio nello stato del Midwest parte la lunga corsa di primarie e caucus per

il partito repubblicano e quello democratico, da cui emergeranno i due candidati per la successione di Barack Obama

Federico Rampini «La democrazia non funziona se pensiamo che chi non è d’accordo con noi sia sempre in malafede». Barack Obama l’ha detto evocando i propri fallimenti: dopo 7 anni della sua presidenza l’America è più polarizzata che mai, repubblicani e democratici si demonizzano a vicenda. Per seguire l’invito del presidente ci vuole uno sforzo sovrumano, ora che a destra c’è Donald Trump. Arrivati al test dell’Iowa, e ad una settimana dalla primaria del New Hampshire, quello che Obama ha invocato è un esercizio indispensabile per interpretare questa folle campagna elettorale. O almeno per decifrare gli umori dell’America profonda che possono fare da terreno di coltura per certi eccessi.

È sul fronte repubblicano che le previsioni si sono rivelate più inattendibili, ma qualcosa di simile sta accadendo anche in casa democratica Per capire cosa c’è dietro Trump – l’odio per gli immigrati, la chiusura contro tutti i diversi – può aiutare una notizia recente e sconvolgente. Non viene dalla politica bensì dalla medicina.

Dopo tanti decenni in cui gli americani vedevano allungarsi la loro longevità, è arrivato un rovesciamento di tendenza.

Un improvviso aumento della mortalità. Concentrato su una tipologia precisa. L’accorciarsi della speranza di vita colpisce adulti maschi, bianchi di mezza età. E poveri. Di cosa muoiono?

Non solo le abituali patologie legate allo «stile di vita» malsano dell’America profonda, cioè obesità e diabete, infarti e ictus da junk-food. No, questi maschi adulti ora muoiono relativamente presto – cinquantenni – perché si suicidano. O perché si drogano. Alcol più psicofarmaci. Oppure pain-killers, potenti analgesici. O metamfetamine.

Il tossicodipendente del 2016 molto spesso è un uomo di mezza età. Disperato. Perché ha perso il lavoro da operaio in una fabbrica che ha chiuso e non riaprirà più. Perché è stato licenziato e non ha le competenze per riciclarsi sul mercato. Questa una volta si chiamava «classe operaia», ai tempi di Roosevelt e Kennedy votava democratico, oggi sceglie Trump. È il candidato che meglio esprime l’esasperazione dei perdenti. Uomini che si sentono declassati in ogni modo. Tutta l’evoluzione della società congiura contro di loro: la parità femminile, i figli che non accettano l’autorità paterna, le minoranze etniche che affermano i loro diritti, i gay che rimettono in discussione l’identità sessuale. E il tenore di vita regredisce, da un modesto benessere frana verso una semi-povertà cronica. A questi maschi bianchi adulti le rivoluzioni tecnologiche della Silicon Valley hanno portato scarsi benefici, o peggio.

Gli hanno solo offerto qualche social media come sfogatoio del loro rancore.

Non è restando a New York o a San Francisco che incontri quest’America sconfitta. Bisogna spingersi nel MidWest o nel Sud. Paradossalmente, quelli che si sentono minacciati dall’immigrazione, non abitano nelle metropoli più multietniche. È come se New York e Boston, Los Angeles e San Francisco avessero metabolizzato da tempo l’immigrazione di massa, elaborando una capacità di adattamento. L’America bianca e provinciale vede un esile flusso d’immigrazione, in confronto a quel che accade nelle fasce costiere.

Ma la minaccia che sente verso la pro-

Un sostenitore di Trump con la sua chitarra: il carrozzone elettorale arriva a Des Moines in Iowa. (AFP)

pria identità, è reale. E non la si può liquidare incollandogli l’etichetta della xenofobia. Lo shock fu anticipato tanti anni fa da Samuel Huntington, lo stesso che teorizzò lo «scontro di civiltà», scrisse nel 2004 un libro che in Italia fu tradotto con un titolo politically correct, La nuova America. Il titolo originale (Chi siamo noi?) era più problematico e lasciava intuire l’inquietudine dell’autore. Huntington scriveva che l’arrivo in massa di ispanici stava creando due Americhe poco integrate, non compatibili: incapaci di parlare la stessa lingua, di condividere le stesse regole, lo stesso spirito civico. All’ultima campagna elettorale, nel 2012 in un incontro privato con dei ricchi finanziatori progressisti di San Francisco, Obama si lasciò sfuggire una battuta sui bianchi poveri che votano a destra: «Nella frustrazione si aggrappano alle armi e alla religione». Fu considerata un’espressione di snobismo. Purtroppo lo era, e se quelli votano Trump, è anche una perversa vendetta contro chi non riesce a capirli, a parlargli.

E dunque da oggi il lungo addio di Obama è cominciato. L’America gli sta scegliendo un successore. È un processo lungo visto che l’Election Day arriva solo il primo martedì di novembre, come da consuetudine. E l’insediamento del nuovo presidente è fissato al gennaio 2017. Ma la gara per la nomination, che segue regole fissate Stato per Stato dai due partiti – e quest’anno potrebbe vedere l’arrivo di un terzo candidato indipendente – si presenta incerta, sconcertante, o perfino inquietante. Ancora nell’estate scorsa la «saggezza convenzionale», o il conformismo dei cosiddetti esperti, avevano imposto come tema dominante quello delle successioni dinastiche. Magari per criticarlo come una decadenza del-

la democrazia americana. Ma dando quasi per scontato che la sfida finale sarebbe stata tra una ex First Lady ed un figlio e fratello di due presidenti. È sul fronte repubblicano che le previsioni si sono rivelate più inattendibili. Jeb Bush arranca in fondo a un plotone di candidati minori con percentuali irrisorie nei sondaggi. Ma anche tra i democratici nulla sta andando come previsto.

Hillary Clinton ha un vantaggio in calo costante da mesi.

Il fenomeno del momento si chiama ovviamente Donald Trump. Alcuni osservatori di qui lo hanno chiamato il Berlusconi d’America ma i paragoni sono fuorvianti. Trump è più piccolo come imprenditore; è molto più estremista come politico. In comune c’è solo la rivendicazione orgogliosa della propria carriera di businessman. Che nel caso di Trump diventa lo slogan dominante, la risposta a tutti i problemi. Che lo s’interroghi sulla Cina o sull’Iran, sull’Isis o sul Congresso, la sua risposta monocorde è sempre quella: io risolverò i problemi perché so fare gli affari, so come si chiude un negoziato, so intimidire l’interlocutore, so sbattere il pugno sul tavolo. Rifarò un’America grande.

Fidatevi. Sulla parola. Le rare volte in cui diventa appena un po’ specifico, «spara» delle enormità: costruirà un Muro gigantesco ai confini del Messico facendolo pagare al governo messicano; deporterà dall’altra parte 11 milioni di immigrati irregolari; chiuderà le frontiere all’ingresso degli islamici. E più le spara grosse, più sale nei sondaggi.

Il paradosso lo ha catturato lui stesso con una delle sue battute più significative: «Potrei pure mettermi a sparare sulla Quinta Strada di New York, e salirei ancora nei sondaggi». Dietro di lui l’inseguitore che più si avvicina nei sondaggi è Ted Cruz, senatore del Texas

di origini cubane: nella sostanza può essere ancora più estremista di Trump.

L’establishment repubblicano lo odia perfino più di Trump perché Cruz ha la fama del traditore: nella sua carriera ha spesso usato i suoi compagni di partito per poi rivoltarglisi contro. Dietro c’è Marco Rubio, un altro giovane senatore di origini cubane, che era considerato la versione più giovane e presentabile di Jeb Bush, ma ha cominciato a inseguire Trump e Cruz a destra. Colpisce la frantumazione dei moderati, quasi che non ci sia più spazio per loro nel partito che fu di Abraham Lincoln, Ted Roosevelt, Dwight Eisenhower. In parte è la logica delle primarie, dove va a votare una minoranza: solitamente l’elettorato più motivato è anche il più radicale. Ma la deriva verso destra dei repubblicani sembra avere raggiunto degli estremi.

Qualcosa di simile sta accadendo anche a sinistra. I segni di debolezza della Clinton in parte erano prevedibili: non è mai stata simpatica, non ha mai avuto carisma, e si porta dietro un bagaglio ingombrante. In un’epoca in cui i politici di professione sono screditati, lei è un bersaglio ideale: «studia» per la Casa Bianca da una vita.

Più degli scandali molto politici che la destra continua a cavalcare contro di lei, è l’intera macchina politica della famiglia Clinton ad essere «scandalosa»: per la sua raccolta di fondi, che crea reti di alleanze con il mondo della finanza. Era giusto quindi che la sfida alla Clinton venisse da sinistra. Ma pochi s’aspettavano che potesse competere seriamente un personaggio come Bernie Sanders. La lista delle cose che lo rendono… improbabile è lunga.

Il senatore del Vermont è ancora più anziano della Clinton. Non è mai stato iscritto al partito democratico. Si è auto-definito con orgoglio «un sociali-

sta», parola che in America non evoca la socialdemocrazia scandinava bensì l’Unione sovietica. Sarebbe anche il primo presidente ebreo. Questo identikit poteva farne un personaggio più simile a Ralph Nader, candidato dei Verdi che nel 2000 raccolse lo 0,4% dei voti (ma contribuì a portare George W. Bush alla Casa Bianca).

Ai primi di marzo dovrebbe prendere una decisione Michael Bloomberg, l’ex sindaco di New York che sta meditando la possibilità di candidarsi come indipendente. La presenza di un terzo nome sulla lista finale di novembre, può alterare tutte le dinamiche elettorali. Anche se nella storia degli Stati Uniti nessun candidato indipendente ha mai conquistato la Casa Bianca, c’è sempre una prima volta. E forse mai come ora si era manifestata una dissociazione così potente tra l’elettorato e la tradizionale rappresentanza bi-partitica o bipolare.

L’ex sindaco è disposto a spendere un miliardo di dollari del suo patrimonio personale se si lancia nella campagna elettorale. In base alla classifica «Forbes» la sua ricchezza vale 41 miliardi, il che ne fa il settimo più ricco fra gli americani e il 13esimo su scala mondiale. Al confronto la ricchezza di Trump è poco più di un decimo.

L’immagine di Bloomberg è fortissima a New York ma questo non lo aiuta in altre parti del paese. È un «miliardario progressista»: ambientalista e contrario alla diffusione delle armi, tutte posizioni che lo mettono in rotta di collisione con la destra repubblicana. Favorevole all’aborto e ai matrimoni gay, non ha nulla per piacere ai fondamentalisti religiosi. Rappresenta il «centro» di un’America moderna, proprio quello che sembra essere scomparso dai dibattiti elettorali.

Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 1. febbraio 2016 ¶ N. 05

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Politica e Economia

I nuovi prìncipi dell’Avana La Cuba dei ricchi – 1. parte Sono i figli di papà del regime che girano in Mercedes metallizzate e si sono arricchiti

con il lavoro in proprio o rubando dollari allo Stato

Targa P, la targa delle auto private. Non B (targa governativa), né D (corpo diplomatico), nemmeno K (tecnico straniero). Proprio P, privato cittadino. Da quando, nella Avana socialista e egualitaria, si circola in Mercedes color argento metallizzato? Con casse stereo da discoteca e luci azzurrine intermittenti?

«Sono la nuova classe sociale, gli emergenti» dice con più invidia che fastidio, Victor T., studente di fisica all’Universita dell’Avana. «Sono quelli che si sono fatti ricchi con il lavoro in proprio, o i dirigenti di imprese statali che rubano dollari allo Stato».

La classe alta dell’Avana, quella alta per davvero, è ancora costituita dalla cerchia della famiglia Castro, dai massimi vertici militari, più qualche papavero di ministeri vari. Sono loro che controllano le leve economiche dell’isola.

Loro hanno il monopolio del grande business in valuta straniera. Dalle compagnie statali di turismo (per esempio «Gaviota», feudo delle Forze Armate) alle compagnie miste con società straniere per l’amministrazione delle grandi catene di hotel, alle società statali di importazioni e relative triangolazioni via Panama con Venezuela, Cina e Brasile. Dove c’è valuta forte a Cuba, c’è un signore con molte stellette sull’uniforme che mette mano alla faccenda.

Ma questa gente non gira per il Centro Habana dentro Mercedes argentate con luci azzurre intermittenti, no.

Se ne sta tranquilla in varie belle ville del municipio Playa, vicino al mare, tra porcellane di Sèvres e giardini ombrosi.

Le seconde generazioni, però, i figli di papà del regime infilati nelle joint venture a gestire soldi per conto del partito, ubriachi di dollari, ogni tanto perdono il controllo. E non sempre c’è li pronto uno zio generale, un suocero ministro, a fare una provvidenziale scenata prima che il limite sia passato.

Questa giovane umanità è ritratta da un bellissimo dramma teatrale in scena all’Avana in una piccola sala vicino a Plaza de la Revolucion. Mecánica è il titolo della spettacolo, testo scritto dal drammataurgo Abel González Melo per l’ArgosTeatro. Tutti cubani. Autore, regista e attori. Perché il regime non è sciocco. Delle valvole di sfogo alla libera espressione le lascia. E a teatro un filo di sarcasmo è tollerato.

«Mecánica descrive scenari in cui la ricchezza, il confort, il denaro e il lusso ci portano dentro una giungla popolata da una razza nuova e bene alimentata» spiega Carlos Celdrán, regista dello spettacolo e direttore del teatro. «Usa con ironia e manipola con libertà radicale la Casa delle bambole di Ibsen per creare l’ambito perfetto che permette ai suoi personaggi di sapere come comportarsi. La tradizione ibseniana è un manuale di buone maniere utilizzate per rendere credibile e possibile la rappresentazione di quello che sta succedendo qui: il sorgere inevitabile delle classi e dei privilegi» dice il regi-

AFP

Angela Nocioni

sta. «Serve a rappresentare con astuzia la maschera, la rivincita, l’impostura dei nuovi prìncipi. Anche il loro ritorno formale, il loro aggiornamento, la follia e la consapevolezza di essere casta, di aspirare ad avere il controllo, ad essere considerati gli ovvi protagonisti del futuro. Abbiamo deciso di presentare questa meccanica senza stupore, con la freddezza che richiede lo studio dei mostri, con la tranquillità necessaria a comprendere l’altro. Siamo di fronte a un nuovo scenario sociale ed è nostro dovere rappresentarlo».

La nuova classe emergente finalmente ha in mano dollari che può spendere e ha molta voglia di mostrarlo E come reagisce il pubblico? «Il pubblico non riesce a riconoscersi nei dolori dei personaggi, sembra guardarli da fuori, come fossero degli strani insetti.

Nelle serate in cui la platea è molto popolare – racconta Celdrán – si alzano dal pubblico grida di stupore quando uno degli attori apre il frigorifero sulla scena». «È stupore per la quantità di cibo stipata nel frigo, per la varietà di bibite, per la birra fredda».

Con la legalizzazione del lavoro autonomo decisa da Raul Castro, le aperture concesse con il contagocce dal governo e le speranze suscitate dal disgelo con Washington, si sono moltiplicati a Cuba i lavoratori in proprio.

Solo quelli già ufficiali nel febbraio del 2014, prima dell’apertura della nuova stagione diplomatica con gli Stati Uniti, erano 500 mila, secondo un’inchiesta di Daybel Pañella Alvarez del Centro estudios económicos cubanos, il celebre Ceec (Centros de estudios economicos cubanos), il centro studi meno opaco dell’isola. I lavori legalizzati? Dal business delle caffetterie, alle

officine di meccanico (antico ottimo lavoro in un’ isola dove poco entra e tutto si ricicla) agli affitti privati. Quest’ultimo sembra essere il grande affare del futuro.

Gli affitti di case private (stanze, soffitti, scantinati, qualsiasi buco dotabile di rete e materasso) si moltiplicano in attesa di un’ondata di turisti dagli Stati Uniti. E la pioggia di dollari arriva, poco a poco. Dopo che Barack Obama ha ridotto le restrizioni ai viaggi di cittadini nordamericani, 90’000 statunitensi hanno viaggiato a Cuba, 50% in più del 2014. Già tra il 2010 e il 2014, prima che Obama ammorbidisse il divieto di turismo americano a Cuba, gli statunitensi alloggiati in case private sono passati da 18’223 del 2010 ai 19’564 del 2014, secondo i dati pubblicati dall’economista José Luis Perellò Cabrera del Centro estudios económicos cubanos dell’Università dell’Avana. Solo nella capitale sono passati dai 5394 del 2010 ai 7755 del 2014. Esclusi gli affitti in nero, che sono la stragrande maggioranza.

La nuova classe dei «quasi ricchi» finalmente ha in mano dollari, può spendere e ha molta voglia di mostrarlo. Ha anche un atteggiamento nuovo rispetto al regime. Teme sempre multe e divieti, non ha smesso di aver paura della polizia, ma ha soldi in mano.

Un’arma che dà sicurezza.

Poi il governo non può non tollerarli, se non vuole far scappare a gambe levate i turisti che ha invece disperatamente bisogno di accogliere. Per la semplice ragione che il socialismo è un disastro e il settore statale non è in grado di offrire strutture né servizi a chi sbarca, con dollari in tasca, da navi ed aerei per visitare l’isola.

Entro la fine del 2016 Cuba conta di aprire almeno 20’000 nuovi alloggi privati in dollari, sostiene un manager statale del settore turistico. I proprietari dei paladares, i ristoranti privati, non hanno più il limite massimo dei 12 coperti che avevano fino a qualche

anno fa e possono contrattare anche personale esterno, non soltanto familiari diretti. I dipendenti sono pagati in percentuale sull’incasso o con uno stipendio fisso. «Lavorando 12 ore al giorno in un ristorante di successo, l’anno scorso, io riuscivo a guadagnare in un mese buono fino a 1000 dollari» racconta un’economista che nel suo attuale lavoro statale da segretaria guadagna 250 pesos cubani, cioè 10 dollari, il costo di 4 litri di latte in un supermercato in moneta convertibile (i Cuc, moneta che non ha corso legale fuori dall’isola e vale grosso modo come il dollaro).

A Victor T, invece, lo studente di fisica sbalordito davanti alla Mercedes argentata, il lavoretto in proprio non è riuscito tanto bene. La pizzeria che aveva messo su dentro la cucina della nonna, cinque metri quadrati al piano terra con una provvidenziale finestra affacciata su una stradina di passaggio, non è stata un successo. «Mia nonna è spaventatissima, – dice – non riesce a credere che si possa lavorare in proprio, ha terrore dei controlli. Vuole pagare tutte le tasse e se paghi tutte le tasse qui non vivi». La pizzeria ha chiuso un paio di mesi fa e lui passa le mattinate in coda davanti all’ambasciata del Messico in attesa dei documenti per andarsene. La Guarida è uno storico ristorante privato dell’Avana, uno dei primi ad essere spuntato sull’isola. Lo hanno aperto Enrique Núñez, ingegnere meccanico e sua moglie Odeysis , attrice, nel bellissimo vecchio appartamento che fu location del film Fresa y Chocolate. Cucina di ottimo livello, prezzi medi sui 40 dollari. Sempre pieno. Difficile riuscire a mangiare senza prenotazione. Chi viene a cena qui? «A parte gli stranieri, gli artisti e i diplomatici, ci sono anche molti cubani che si possono permettere di mangiare fuori» racconta Odeysis. «È più che mai gente che lavora nel turismo e trasporti». Stessa cosa racconta il commesso di «Bethania» un surreale negozio di alimenti dietetici vicino alla Cattedrale dell’Avana.

Chi compra salsa di pomodoro dietetica in una città dove moltissima gente continua a nutrirsi di «comida como si fuera», i famosi «come se fosse», cibo improbabile preparato col poco che c’è: formaggi insapori e pallidissimi che ignorano l’esistenza del latte, prosciutto di un sospetto color fucsia intenso e pane duro che sa di cartone? «La metà dei nostri clienti è cubana – dice il commesso di «Bethania» – sono cubani ricchi, stanchi di ingrassare mangiando grassi insalubri, persone che hanno imparato ad avere cura di se stesse» dice lui.

Il nuovo corso economico non ha beneficiato tutti allo stesso modo. A buttare lo sguardo oltre i cancelli delle case del Vedado, ex quartiere borghese dove tra splendidi palazzetti liberty spuntano costruzioni semidistrutte, si vedono galline e pulcini piluccare nei cortili. A due passi dal Cementerio Colon, il cimitero monumentale dell’Avana, ci sono caprette al guinzaglio che pascolano tra i taxi.

L’emergenza alimentare del Periodo especial, la fame nera dei primi anni Novanta, è passata. Ma non per tutti. Per molti sopravvivere continua ad essere un incubo. Allevare animali nel mezzo della metropoli è un vecchio sistema, eredità degli anni 90. Mentre l’impero sovietico si frammentava, all’Avana ci si industriava ad alzare pareti, rete metalliche e muraglie di varia fattura. In quei piccoli recinti fatti in casa si allevavano galline e persino maiali. Un piccolo affare dei tempi grande emergenza, che ancora prospera.

All’Avana vecchia, tra eserciti di guide turistiche tarocche, ciceroni improvvisati, contrabbandieri di opere d’arte vere e presunte, trafficanti di lampade Art nouveau e del poco rimasto da vendere nelle ex lussuose case degli antichi, la professione del momento è l’operaio nella costruzione edile ed il relativo contrabbando di materiale.

Circola più denaro che qualche mese fa e molti si decidono a ristrutturare stanze per affittarle ai turisti, o per lo meno a puntellare muri per evitare crolli. Se ci si affaccia da un tetto del centro, la città sembra un cantiere a cielo aperto.

Da dove tirano fuori, cemento, vernici e smalti? «Li compriamo da qualcuno che li compra da qualcun altro che li ha rubati allo Stato» risponde sincera Maria Lucia, proprietaria, con cittadinanza spagnola, di un bel palazzetto in piena ristrutturazione. «E dove altrimenti, se nei negozi non c’è quasi niente e il poco che c’è è carissimo?».

Lavorare per lo Stato da decenni all’Avana serve a molti essenzialmente ad evitare i problemi con la polizia, a non essere cioè schedato come vagabondo, e ad avere la possibilità di accedere a vari materiali e prodotti da rubare e rivendere al mercato nero. Di certo non serve a vivere. Un professore guadagna l’equivalente di 25 dollari, il prezzo di quattro panini di vero prosciutto in una buona caffetteria, il prezzo di una corsa in taxi dall’aeroporto al centro della città.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 1. febbraio 2016 ¶ N. 05

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Politica e Economia

Secondo pilastro, anni difficili Casse pensioni I primi dati sul 2015 indicano un peggioramento della situazione finanziaria:

i rendimenti dei portafogli titoli non bastano per coprire gli impegni dovuti alle rendite da pagare

Ignazio Bonoli Basati essenzialmente sui rendimenti degli investimenti mobiliari, si pubblicano in questi giorni i primi bilanci delle casse pensioni per il 2015. I risultati non sono per nulla brillanti e – benché la situazione generalmente non appaia drammatica – non si fanno previsioni favorevoli per l’immediato futuro.

I tassi di interesse negativi della Banca Nazionale e i rendimenti molto contenuti realizzati sui mercati finanziari lasciano tracce preoccupanti negli istituti di previdenza del secondo pilastro in Svizzera. Secondo le valutazioni degli esperti in materia, la maggior parte di essi potrà contare su un rendimento al massimo fra zero e l’uno per cento, ma non mancheranno anche i rendimenti negativi.

Ora, per finanziare le rendite da pagare e garantire la rimunerazione degli averi di vecchiaia degli assicurati, sarebbe necessario un rendimento di almeno il 2,75%. Le casse pensioni dovranno quindi accedere alle riserve accumulate negli anni passati, grazie a risultati positivi che ne hanno permesso un certo miglioramento.

I primi indicatori ed alcune valutazioni dicono infatti che il 2015 non sarà stato un anno positivo per le casse pensioni. L’indice calcolato dalla Banca Pictet è solo leggermente positivo (1,22%) se si considera l’indice «LPP25». Se si usa l’indice «LPP40», il

rendimento medio scende allo 0,98%.

Questo indice è un barometro importante per il portafoglio delle casse pensioni che detengono il 25% e rispettivamente il 40% di investimenti a rischio, soprattutto in azioni, ma anche in immobili e investimenti alternativi.

Un barometro che serve però solo da orientamento generale, in quanto non considera costi come quelli provocati dalla gestione o dalla fiscalità.

Qualche esperto, tenendo in considerazione questi costi, giunge alla conclusione che nel 2015 il rendimento medio degli investimenti delle casse pensioni si aggira al massimo attorno allo 0,25%.

In passato le casse potevano contare sul citato 2,75%, cioè parecchio più elevato di quanto realizzato lo scorso anno.

Di conseguenza, si può valutare che il grado di copertura medio delle casse pensioni possa essere sceso del 2,50%, lo scorso anno.

Visti questi scenari, gli esperti della «PPCmetrics», che consiglia molte casse pensioni nella gestione degli investimenti, pensano che i rendimenti medi non vadano oltre il limite dell’1%.

Dal canto suo, il presidente dell’Associazione casse pensioni (Asip) non è molto più ottimista, poiché va al massimo fino all’1,5%; quindi un rendimento insufficiente per far fronte agli obblighi legali. La necessità di ricorrere alle riserve avrà ripercussioni negative sui gradi di copertura. Bisogna però tener conto del fatto che in anni recenti le casse pensioni hanno potuto accu-

Per i lavoratori diventa più difficile costruire un solido capitale previdenziale.

(Keystone)

mulare buone riserve. Lo confermano anche i citati indici della Pictet che negli ultimi tre anni erano saliti in media al 5,01% per il primo e al 6,41% per il secondo. Anche queste riserve hanno però un limite. Le previsioni per il 2016

non indicano miglioramenti sensibili nel settore, per cui è probabile che la situazione si ripeta e che per i prossimi anni ci si debba abituare a cifre di questo tipo. Cifre che sono dovute a tassi di interesse molto bassi e quindi a scarse

possibilità di diversificare efficacemente gli investimenti. Se poi si tiene conto anche del fattore sicurezza, si deve considerare che gli investimenti in obbligazioni, un tempo pilastro delle finanze delle casse pensioni, sono giunti perfino a rendimenti negativi. Difficile però trovare valide alternative, se non correndo rischi che poi sarebbero difficili da sopportare.

Persistendo questa situazione, sempre più difficilmente le casse pensioni potranno soddisfare l’esigenza legale di rimunerare all’1,75% gli averi di vecchiaia come nel 2015. La riduzione all’1,25 da quest’anno non modificherà di molto la situazione. Anzi, si rilanceranno le discussioni sul tasso di conversione degli averi in rendite, ancora al 6,8%. Tassi che vengono accusati oggi di provocare un trasferimento di oneri dalle giovani generazioni a favore delle più anziane. Così come vengono trasferiti dalla parte non obbligatoria di molte casse (meno rimunerata) alla parte obbligatoria prevista dalla LPP. Una scappatoia è infatti data a molte casse dalla parte non obbligatoria dell’assicurazione. Qui i tassi sono liberi e le casse li hanno già ridotti di molto, il che significa che la parte più fortunata dei pensionati contribuisce a finanziare le rendite inferiori. Una situazione che è provocata in buona parte dal rapido invecchiamento degli assicurati.

Un’evoluzione che nemmeno la grande riforma in atto sembra in grado di contrastare efficacemente.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 1. febbraio 2016 ¶ N. 05

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Un parco dell’innovazione senza il Ticino Oramai la frittata sembra fatta! Il parco svizzero dell’innovazione è stato ufficialmente inaugurato il 18 gennaio scorso. Avrà come sedi principali le città dei due politecnici: Zurigo e Losanna. Avrà inoltre altre localizzazioni a Basilea, nel canton Argovia e a Bienne dove le nuove aziende saranno sostenute da università e scuole universitarie professionali. E il resto della Svizzera, Ticino compreso, starà a guardare. Scrive la Seco, che ha avuto parte importante nella creazione del parco, che lo stesso dovrebbe contribuire a mantenere il ruolo guida che la Svizzera detiene, in materia di innovazione, nonché la sua capacità concorrenziale. Il progetto, perché, nonostante il lungo parto, si tratta pur sempre ancora di un progetto, dovrebbe, da un lato, far nascere nelle sedi designate aziende innovatrici e, dall’altro, con il sostegno di qualche centinaio di milioni, coordinare gli interventi di Confederazione, Cantoni

e privati a sostegno dell’innovazione. È chiaro che degli stessi dovrebbero profittare, in primis, le aziende localizzate nei cinque parchi che sorgeranno nelle sedi designate. Che il futuro della politica federale dell’in-

L’innovazione è di casa soprattutto nei politecnici, in Svizzera. (Keystone)

novazione trovi concentrazione in poche sedi è discutibile. A favore della concentrazione gioca l’argomento che le probabilità di successo del progetto sono maggiori se l’innovazione viene incentivata soprattutto nelle regioni che, già oggi, sono in testa alla classifica dell’innovazione tecnologica.

Se, per determinare questa classifica, prendiamo le nuove patenti – e si può discutere sulla rappresentatività di questo indicatore – constatiamo che, nel 2011, quasi i 4/5 delle stesse si concentrava nelle regioni che circondano le sedi del parco nazionale. Zurigo e Basilea, con Argovia e Soletta sono naturalmente le due regioni di punta dell’innovazione con circa il 46% del totale dei nuovi brevetti presentati in Svizzera. Fuori dalle regioni del parco, solo la Svizzera orientale, con un 12%, ha una quota significativa nel totale dei nuovi brevetti. Siccome possiede però una SUP a Rapperswil, sul lago di Zurigo, non distante da Dübendorf

che sarà la sede zurighese del parco dell’innovazione, non si può dire che la Svizzera orientale – o almeno la sua parte non alpina – sia stata completamente esclusa dal progetto. Anche la Svizzera centrale, la cui quota di nuove patenti è pari al 6,6%, è a ridosso delle sedi del parco di Zurigo e di Argovia. A dire il vero, la sola regione che resterà veramente isolata dal parco nazionale dell’innovazione è quella alpina e, in particolare, il Ticino. È vero che il Ticino è, delle grandi regioni svizzere, quella che ha meno capacità innovativa. Con il 2,2% la sua quota nelle nuove patenti è anche largamente inferiore alla sua quota nell’effettivo delle aziende dell’economia svizzera (5,1%). Ma proprio per questo si poteva pensare che il Ticino fosse una delle regioni nelle quali l’innovazione tecnologica andasse maggiormente incentivata. La Confederazione ha deciso altrimenti.

Con il nuovo progetto si è pronunciata per una concentrazione delle

attività di innovazione invece che per la promozione della loro diffusione sull’intero territorio nazionale. Le idee avanzate dal Ticino, per poter avere una sede del parco, non sono state accolte dal gruppo di esperti che, in definitiva, ha suggerito dove il parco dell’innovazione andava situato.

Questa volta pare proprio che il Cantone sia stato tenuto fuori da un progetto che potrebbe rivelarsi di grande importanza per il futuro dell’industria. Ma forse l’ultima parola non è stata ancora detta. La SECO, nel suo comunicato concernente la creazione del parco ricorda infatti che lo sviluppo futuro delle sue localizzazioni sarà deciso dalla fondazione che ne ha preso in mano la direzione. Il messaggio finale va dunque indirizzato alla nostra deputazione a Berna. «Cari rappresentanti del Ticino non sarebbe male se cercaste di mettere almeno un ticinese, o una ticinese, nel consiglio di questa importante fondazione».

L’Italia si batte contro la sospensione di Schengen, anche perché non vuole restare da sola contro l’ondata migratoria.

Renzi si presenta in Europa forte delle riforme interne: ormai manca solo il voto della Camera per il disegno di riscrittura della Costituzione, con il superamento del bicameralismo perfetto. Il Senato ha approvato di fatto la propria estinzione, o meglio la trasformazione in qualcosa di più piccolo e, si spera, più efficiente.

Il percorso è stato molto diverso da quello tracciato sulla carta: le nuove norme costituzionali non nascono da un ampio accordo tra destra e sinistra, come sarebbe stato auspicabile, ma da un compromesso interno alla maggioranza, con un aiutino esterno di dubbia valenza politica. Sono diverse sia da quelle che voleva il governo, che pensava all’elezione di secondo grado di senatori dai poteri ridotti al minimo, sia da quelle che chiedeva la minoranza interna del Pd. Molti nodi restano da sciogliere: i criteri di nomina dei senatori; il rapporto tra

le Regioni e il nuovo Senato, che rischia di diventare un incubatore di nuovi conflitti anziché una camera di compensazione tra i poteri. Occorre ancora attendere il voto definitivo della Camera e poi il referendum, che sarebbe sbagliato trasformare in un giudizio popolare su un uomo; come se la riscrittura della Costituzione fosse un fatto personale e contingente. Fin da ora, però, si può dire che una democrazia considerata immobile, dopo decenni di discussioni, ha dimostrato di poter adeguare le proprie regole alla rapidità richiesta dal tempo accelerato e drammatico che ci è dato in sorte.

Inutile nascondere che il voto di Palazzo Madama arriva in un momento molto difficile per l’Italia, scossa da una tempesta borsistica e finanziaria di violenza inattesa, da una crisi bancaria su cui è urgente intervenire, da uno scontro con l’Europa che i toni lirici di Juncker hanno rinviato più che risolto; e da un confronto duro con il vero leader del continente,

Angela Merkel. La capacità di riformare le istituzioni e il mercato del lavoro rafforza la credibilità e il peso specifico del nostro Paese. Ma non giustifica un atteggiamento di rottura da cui Roma ha tutto da perdere.

Come sempre, i raffronti con il passato non aiutano a capire. È vero che l’Europa e la Merkel ebbero un ruolo decisivo nella caduta di Berlusconi del novembre 2011, molto citata in questi giorni; ma quel governo non aveva più la maggioranza in Parlamento (per quanto non fosse mai stato sfiduciato), si era mostrato incapace di fare le riforme, a cominciare da quella delle pensioni, e doveva fronteggiare una situazione di pre-fallimento, con lo spread oltre i 500 punti. Se una lezione va tratta dagli avvenimenti del 2011, è che in una fase tanto complessa nessun esecutivo può avere vita lunga se non riesce a fare le riforme sul fronte interno, e a dialogare con l’Europa da posizioni di forza tranquilla. Anche su un tema caldissimo come quello dei migranti.

parte quella del flusso di migranti che richiedono asilo, dall’altra quella di chi non ha alternative davanti alla desolazione che attanaglia chi è al servizio del turismo, della regione, degli abitanti tutti.

Meglio non soffermarsi troppo su questi scenari scoraggianti e purtroppo continuamente riproposti da una instabilità generalizzata. Torno al turismo classico, quello perennemente in crisi anche perché si continua a dissimularne esistenza e consistenza, sino a evitare di tener conto di quanto gli esperti consigliano per avviare strategie di sviluppo e rilanci. Al punto in cui ci troviamo non credo sia possibile continuare a fingere distacco e impassibilità di fronte alla moria di alberghi, chiusure e fallimenti di esercizi pubblici, segnali che mettono a nudo, oltre alla precarietà, tutta una serie di inadeguatezze. Su questo diffuso e prevalente senso di rassegnazione dell’intero settore si avvitano le latitanze di preposti e politici. Manca solo che

qualcuno evochi fatalità o destino, pur di continuare a rinviare la necessità di affrontare la crisi del nostro turismo di petto. La scorsa estate avevo lodato la formula ideata per lo sviluppo turistico della Val di Blenio, ritenendola dotata di contenuti validi e da sostenere. La indicavo come potenziale base su cui imbastire una strategia di pronto intervento comune a tutte le valli, in modo da predisporre progetti e, ormai va detto, da garantire al cantone un futuro turistico. Tra i progetti potrebbero inserirsi corsi mirati ad avvicinare studenti e operatori all’arte del turismo, sviluppando un senso del servizio e dell’accoglienza. Magari ricorrendo a forze creative nuove (ruberei ai vallesani lo slogan «Arrivate come ospiti e partite come amici» come spinta iniziale) e soprattutto meno autoreferenziali; magari interagendo fra Scuola superiore alberghiera, Supsi e Usi; magari avviando sinergie e connessioni fra turismo, ambiente e cultura. Utopie? Se nessuno muove paglia, di sicuro.

In&outlet di Aldo Cazzullo La forza tranquilla del dialogo L’emergenza migranti si sta rivelando una cartina di tornasole che fa emergere le divisioni dell’Unione europea e ci dirà molto presto se l’Ue ha un futuro o no.

L’Europa nordica del mini-euro e della mini-Schengen, di cui si comincia a discutere seriamente anche a Berlino, taglierebbe fuori l’Italia. Se le difficoltà interne della Cancelliera Angela Merkel porteranno a un cambio della politica tedesca, come hanno chiesto in una lettera molto esplicita 44 parlamentari dell’ala dura della Cdu, questo non andrà nella direzione auspicata da Matteo Renzi, ma porterà a minore solidarietà, minore condivisione dei rischi, minore ripartizione dei migranti. L’Italia ha tutto l’interesse a dialogare con la Merkel e con Juncker, mostrando rispetto e facendosi rispettare. Perché, se è vero che l’Italia non può permettersi di perdere contatto con l’Europa a trazione tedesca, è vero pure che l’Europa perderebbe forza, senso e missione isolando l’Italia; proprio mentre l’Est è in piena deriva nazionali-

sta, e sui confini occidentali dell’Unione la Spagna sembra aver imboccato la via portoghese che conduce a un governo delle sinistre tradizionali e populiste in chiave anti-Berlino e anti-Bruxelles.

L’atteggiamento europeo nei confronti dei migranti appare schizofrenico. Si va dall’accoglienza festosa, con l’Inno alla Gioia suonato alla stazione di Monaco, all’incredibile atteggiamento della Danimarca, dove si sequestrano beni dei migranti per provvedere al loro sostentamento. Una scelta molto lontana dalla nostra sensibilità, anche se la sinistra danese – che ha appoggiato il provvedimento – l’ha motivato sostenendo che solo contribuendo al bilancio di un Paese ci si sente coinvolti; un argomento che nell’Italia dell’evasione fiscale è del tutto incomprensibile. E comunque l’idea che si requisiscano povere cose, nel momento in cui si viene a sapere che 48 miliardari sono più ricchi di tre miliardi e mezzo di persone messe assieme, ha comunque il sapore di un’ingiustizia.

Zig-Zag di Ovidio Biffi Riconquisteremo l’arte del turismo?

Altra notizia triste per il turismo ticinese, non la solita sui pernottamenti in calo, una di quelle che vanno diritte al cuore. L’ho trovata su «la Regione» e annunciava la chiusura dell’albergoristorante Elvetico di Camedo «che da oltre mezzo secolo fungeva da apprezzato punto di ristoro per la gente del posto, per i turisti e per i frontalieri in transito». I proprietari si appellano all’età, ma soprattutto al continuo calo dei guadagni: «La clientela è quasi del tutto sparita (…) Con i ricavi attuali è impossibile assumere personale e le nostre forze non bastano a gestire un ristorante, le camere, negozietto e stazione di benzina». L’accenno ai figli che non vogliono proseguire nel commercio è un alibi più che comprensibile: anche loro, fatti tre calcoli, avranno capito che la vita sarebbe durissima e, soprattutto, senza prospettive di miglioramento. Proseguendo la lettura si incontrano ferite più fresche: il turismo ormai limitato al solo transito estivo e gli sconti sulla benzina che lo Stato

italiano offre ai frontalieri, ora intaccati anche dalle acrobazie del cambio tra franco ed euro. E per concludere, dice la proprietaria, a dominare «nei mesi autunnali e invernali è lo sconforto».

Negli stessi giorni la cronaca propone un collegamento fra le Centovalli e la valle di Muggio, fra Camedo e Scudellate, paese ormai ridotto a frazione con un bell’ostello che sino a qualche anno fa sapeva generare forte richiamo per scuole e giovani, proposto ora come alloggio per asilanti. Davanti a questa scoraggiante prospettiva (per la valle intera, prima ancora che per l’ostello) i pensieri mi si sono quasi accartocciati, schiacciati dall’immagine di richiedenti l’asilo intravisti tempo fa incolonnati con fagotti e valigie nelle nebbie estive di un passo alpino. In successione rammento anche la storia di un analogo alloggio «inventato» in una sperduta valle delle alpi bergamasche e raccontato in un amaro documentario televisivo.

E non mi ha risollevato il ricordo di un allegra onorevolissima Doris Leuthard,

capace di salutare gli abitanti della «Val da Mücc» prima di conferire un premio alla bellezza (preservata? dimenticata? abbandonata?) di una valle che riesce a sopravvivere quasi esclusivamente grazie ad abnegazione e sacrifici dei privati – e, diciamolo, grazie anche a Migros, capace di elargire ogni anno importanti investimenti per tenere in vita un trenino e un albergo di montagna, cioè qualcosa che tanti riescono a fare solo a parole.

Ci sarebbero anche altri tasselli per questo mosaico tutto negativo: un piccolo albergo di Astano, un altro di Balerna, entrambi proposti per accogliere e ospitare asilanti. Sono la conferma di un «continuum» che, se non proprio orchestrato, sembra manovrato da misteriose mani burocratiche, forse obbligate a mettere in pratica le pressioni di Berna. Lo si può intuire dal fatto che ogni mossa è riconducibile alla stessa strategia falsata in partenza da lungimiranza capace di muoversi solo a rimorchio di emergenze: da una

Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 1. febbraio 2016 ¶ N. 05

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Cultura e Spettacoli Il cinema di Villi Il regista e produttore Villi Herrmann racconta una lunga carriera e l’interesse per i giovani creativi pagina 32

A Soletta la Svizzera e l’Europa Alle Giornate del cinema nuove aperture verso l’estero, ma anche una conferma della qualità e dell’amore del Paese per il cinema

Huber, dove tutto cominciò La Galleria ConsArc di Chiasso festeggia i suoi 25 anni con una mostra di foto di Max Huber

Passa la mano...

Si conclude con un ultimo racconto la sinergia con il collettivo Arbok Group

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Meg Webster, Cone of Water, 2015, ferro e acqua. (Courtesy of the artist, Paula Cooper Gallery, New York e Anne MosseriMarlio Galerie, Basilea).

L’arte secondo natura Mostre Villa Panza a Varese ospita le opere degli americani Roxy Paine e Meg Webster Alessia Brughera Partendo da una concezione panteistica in cui Dio è la natura e la natura è divina, il filosofo seicentesco Spinoza, nella sua Etica, ci parlava di natura naturante (Natura naturans) differenziandola dalla natura naturata, intendendo la prima come espressione della perpetua azione generatrice di Dio, la seconda come il risultato immutabile e compiuto della sua volontà. Quando la natura è ancora in atto, nel pieno divenire della sua perfezione, è provvisoria, variabile, dinamica: rivela così quel volto instabile in cui si può cogliere il fascino derivato dalla forza vitale della trasformazione.

Non è un caso, allora, che la definizione spinoziana Natura naturans sia stata presa a prestito come titolo della mostra degli artisti americani Roxy Paine e Meg Webster allestita a Villa Panza a Varese, perché è proprio su questo aspetto mutevole e operoso del creato che si concentra la loro ricerca.

Seppur con approcci e linguaggi diversi, infatti, i due condividono il medesimo interesse per una natura in perenne evoluzione, intesa come ciclo continuo di sviluppo e di deperimento.

E in effetti l’attenzione posta sul suo carattere precario sembra far affiorare maggiormente alcuni interrogativi. Per esempio, se la natura sia

una madre premurosa e benefica o se sia una cattiva matrigna, capricciosa e insidiosa. Oppure se sia messa in pericolo dall’irrefrenabile brama umana di modificarla, dominarla e sfruttarla o sia lei stessa a minacciarci e ferirci. E le sue risorse, poi, che non sono inesauribili, per quanto ancora ci potranno soddisfare? Tutte questioni a cui Paine e Webster cercano di dare un’interpretazione, consapevoli che l’esplorare queste condizioni di mutamento e di decadimento, per molti versi ancora misteriose, possa svelare qualcosa di più sul difficile rapporto tra uomo ed ecosistema.

Roxy Paine, newyorchese, classe 1966, lavora sul concetto di imitazione della natura andando a indagare i nessi tra la crescita dei suoi elementi, la produzione industriale e la creatività artistica. Per farlo utilizza esclusivamente materiali artificiali come resine sintetiche, lacche e vernici, attraverso cui riproduce con estrema abilità fiori, funghi e piante. Un mimetismo scientifico, questo, che ha lo scopo di cristallizzare i modelli naturali in metamorfosi per dimostrare come i loro principi di sviluppo irregolare siano reiterati dalla tecnologia nonché dal processo artistico. Emblematici in questo senso sono i Dendroids, monumentali sculture costruite con tubi in acciaio inossidabile che rappresentano alberi di cui non

solo viene emulata la foggia ma anche la logica evolutiva (uno di questi è stato collocato nel 2009 nel giardino sul tetto del Metropolitan Museum of Art di New York).

In mostra a Villa Panza troviamo alcune opere che appartengono alla serie dei cosiddetti Replicants, a cui Paine si dedica dalla fine degli anni Novanta. Qui l’artista, tramite la perfetta copia illusionistica della natura, cerca di afferrare la coincidenza tra le forme della vita e quelle dell’arte, affini nel loro modo di propagarsi e costituirsi. Miceti, muffe e papaveri prendono così possesso delle stanze della dimora varesina, disponendosi ora in verticale sulle pareti, occupando lo spazio visivo di una grande tela su cui sembrano macchie di colore, ora in orizzontale sui pavimenti, a delimitare un ampio campo d’azione in cui proliferano in un caos solo apparente.

L’opera Psilocybe Cubensis Field, ad esempio, di proprietà dell’Israel Museum di Gerusalemme, è una grande installazione che replica con realismo più di duemila funghi velenosi e allucinogeni (la natura qui si fa matrigna ingannatrice) disseminati in maniera irregolare sul parquet di una delle sale.

Piccoli, come fossero appena spuntati, oppure grandi, avviati già verso una lenta decomposizione, questi miceti sono sparpagliati ovunque, persino nel

camino, a imporci, nella loro incontenibile espansione, riflessioni sui confini tra ambienti organici e artificiali e sui concetti di simulazione e di scientificità mimetica.

Predilige invece i materiali naturali Meg Webster, nata a San Francisco nel 1944, che utilizza la terra, l’acqua, la cenere, la sabbia, gli arbusti, il muschio, la cera d’api per creare sculture dalle forme semplici, archetipiche, in cui la geometria dei volumi viene sconvolta proprio dal carattere effimero e deperibile degli elementi della natura o dalla loro implacabile crescita.

Sono opere «vive», come le definisce la stessa artista, in cui sono evidenti i richiami alla Land Art così come alla Minimal Art, e dove un posto di rilievo è occupato dalla visione del creato come umile ma prodigiosa fonte di vita, meritevole del più assoluto rispetto da parte dell’uomo. Per questo i suoi lavori spesso vanno accuditi, seguiti con devozione nella loro lenta trasformazione: la Webster ci insegna ad accettare i ritmi della natura, a entrare in silenzioso e rispettoso contatto con essa.

In questo senso sono esplicative le installazioni Volume for Lying on Flat, del 1989, una massa regolare e compatta di torba ricoperta di muschio che come un piccolo ecosistema necessita di luce e acqua per continuare a sopravvivere, e Solar Piece, un’opera interattiva, pro-

gettata appositamente per Villa Panza, che converte una delle sue stanze in una sorta di serra dove sono state collocate alcune vasche in cui si alternano colture differenti per tutto il corso della mostra; a dar loro vita sono pannelli solari e led luminosi che sprigionano l’energia pulita indispensabile affinché questo ambiente mutevole e fecondo possa proseguire nel suo sviluppo.

Animata da forti principi ecologisti è Stick Spiral (il cui progetto è di proprietà del Guggenheim Museum di New York), un lavoro composto esclusivamente da vegetazione locale recuperata dalla pulizia di parchi pubblici o di giardini privati. Nell’allusiva forma a spirale a cui danno origine, questi ramoscelli e piccoli arbusti diventano il simbolo di una connessione tra le energie della natura e l’animo umano. E ci ricordano quale debba essere il ruolo dell’uomo nel mondo: attento custode della madre terra che lo nutre e lo sostiene.

Dove e quando

Natura naturans. Roxy Paine e Meg Webster (Opere dal 1982 al 2015). Villa e Collezione Panza, Varese. Fino al 28 febbraio 2016. Orari: tutti i giorni, tranne i lunedì non festivi, dalle 10.00 alle 18.00. www.naturanaturansvillapanza.it

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Cultura e Spettacoli

Villi e il cinema giovane Incontri Il regista, sceneggiatore e produttore ticinese Villi Hermann, vincitore del Premio

Darko Bratina, ci parla di una carriera di oltre 40 anni e dei nuovi progetti

Steve Jobs, un uomo difficile Cinemando Non

il solito biopic Nicola Falcinella Più di tutti incarna la possibilità di fare cinema in Ticino. Villi Hermann, regista e produttore che ha iniziato la carriera nel 1969 e a fine novembre ha ricevuto il Premio Darko Bratina assegnato dal Kinoatelje di Gorizia. Un riconoscimento intitolato a un sociologo e critico cinematografico di confine organizzato come un festival monografico itinerante tra Italia e Slovenia, sette giorni di proiezioni in sette località diverse, tra le quali Lubiana, Udine e Trieste. Un’occasione per riproporre e ripercorrere i film di un cineasta che ha fatto del confine, fisico o metaforico, uno degli elementi cardine del suo percorso artistico. Da Cerchiamo per subito operai, offriamo... e San Gottardo (Pardo d’argento a Locarno nel ’77), passando per tre lunghi di finzione (Matlosa, Innocenza e Bankomatt) fino ai lavori più recenti, il viaggio in Cina From Somewhere to Nowhere e Gotthard Schuh – Una visione sensuale del mondo (2011). Un artigiano del cinema, sempre attento alle novità, che negli ultimi anni con la sua Imago Film ha sostenuto i lavori e gli esordi di Erik Bernasconi, Niccolò Castelli e Alberto Meroni.

Da Bankomatt, ultimo lungometraggio di finzione, sono passati 27 anni.

Non pensa di girarne un altro?

Non ne ho più fatti, anche per ragioni produttive. Bankomatt non fu un successo di pubblico, nonostante la partecipazione al festival di Berlino.

Il mercato svizzero non è sufficiente, hai sempre bisogno del sostegno di un paese vicino. Ho provato a fare un altro film con un cast internazionale e me l’hanno bocciato. Così ho ripiegato sul documentario, anche perché non faccio differenze tra i due, mi comporto allo stesso modo in entrambi: mi interessano la luce, i suoni e le persone. Mi piacerebbe tornare alla finzione, perché a volte ti dà più libertà creativa rispetto al documentario. Intanto, da produttore, do la chance a giovani che credono nella fiction.

Come è nata la scelta di produrre giovani registi ticinesi?

Fabio Fumagalli **(*) Steve Jobs, di Danny Boyle, con Michael Fassbender, Kate Winslet, Seth Rogen, Jeff Daniels, Adam Shapiro (Stati Uniti 2015)

Il regista e produttore ticinese Villi Hermann.

(Keystone)

Ho la sensazione di aver avuto fortuna quando ho fatto i primi film. Ho trovato persone che mi hanno aiutato e ospitato, giornalisti che mi hanno sostenuto. Senza una rete di amici non ce l’avrei fatta. Così punto su giovani con cui ho già collaborato prima e gli do una mano a realizzare il loro film, che da soli faticherebbero a fare: io però non mi limito a lanciarli, infatti imparo sempre qualcosa. Del digitale non sapevo niente, mi hanno insegnato loro.

Ho prodotto dei corti e poi Sinestesia di Erik Bernasconi e Tutti giù di Niccolò Castelli, che hanno avuto una buona carriera nei festival e al box office in Ticino. Ora questi giovani hanno la possibilità di fare altri film.

A cosa sta lavorando al momento?

Sto girando un documentario sui disertori francesi scappati verso Svizzera, Belgio e (pochissimi) in Italia durante la guerra d’Algeria. Negli archivi svizzeri ne ho trovati un centinaio.

Mi muovo solo con la videocamera,

creo un rapporto personale in cui mi si raccontano sogni e dubbi dell’epoca. I disertori sognavano una Francia e un mondo diversi, ma oggi il loro bilancio non è positivo, il mondo sta andando in un’altra direzione.

Nel film entreranno gli attentati a Parigi, i bombardamenti francesi e l’attualità?

Non so come, ma in un modo o nell’altro il tema entrerà, magari anche quello dei rifugiati. Alla domanda se lo rifarebbe uno degli intervistati risponde: se la situazione in Francia dovesse peggiorare ulteriormente, sarei disposto a rifare tutto. Ho incontrato un disertore che ha insegnato all’università in Svizzera e ora è tornato a vivere in un piccolo paese del sud. Mi ha raccontato la sua storia, ma non vuole essere filmato, ha paura: è in pensione, sono passati 50 anni, eppure non se la sente: questo è significativo.

Nei suoi film usa parecchio materiale d’archivio. In questo caso ne ha trovato?

Ho trovato filmati francesi e del Fln, ma anche di operatori americani, inglesi e tedeschi. C’è il documentario La guerre sans nom di Bertrand Tavernier e Patrick Rotman, con racconti allucinanti di soldati al ritorno in patria.

Non so se li potrò usare, il problema è il costo. Anche i delegati della Croce Rossa filmavano, scattavano foto e descrivevano le situazioni nei campi per rifugiati. Ho poi rivisto Le petit soldat di Jean-Luc Godard: era molto informato di ciò che accadeva a Ginevra, perché pure i membri dell’Oas scappavano in Svizzera. L’ho cercato, ma non parla. Il regista Jean Marie Straub fuggì a Monaco di Baviera. Mi ha ricevuto a Parigi e raccontato tanto, ma non si fa riprendere. Vive in un appartamento anni 50, fuma e tossisce in continuazione, e ha un gatto che gira ovunque: mai ho trovato un ambiente e un personaggio più cinematografici! Vorrà dire che forse riproverò a filmarlo.

Poesia 2.0

Michael Fassbender nei panni di Jobs.

Pubblicazioni Piglio moderno e apparati essenziali nella inusuale raccolta

di poeti italiani curata da Vittorio Magrelli

Stefano Vassere «Se l’espressione forse più popolare dell’esilio, dell’emigrazione, dell’alienazione e dell’espropriazione viene da un film di fantascienza in cui l’eroe extraterrestre traduce tutta la sua straziante nostalgia per la patria perduta nell’espressione “telefono casa”, ebbene vedo nel prefisso 39 la risposta che ogni italiano all’estero potrebbe suggerire».

Sono 39 i poeti italiani presi in considerazione in questa curiosa rassegna della poesia italiana dell’ultimo millennio, curata dal francesista Vittorio Magrelli. E sono 39 perché «tale cifra è quella che connette il nostro paese all’intero mondo», telefonicamente si intende. L’introduzione di Magrelli a questo Millennium Poetry. Viaggio sentimentale nella poesia italiana è piena di giustificazioni. Ci dice, Magrelli, che il viaggio è qualificato come sentimentale perché non ardisse a rivaleggiare con ben altre storie e atlanti e manuali, financo profili e introduzioni.

Poi, la scelta aspira, nonostante i senti-

La copertina del libro di Magrelli.

menti, a una certa condivisione sull’interesse e l’importanza degli autori e dei testi, all’oggettività della selezione.

Ma tra le dichiarazioni di meto-

Più che a Danny Boyle (Trainspotting, il primo film di un regista rimasto di belle speranze) Steve Jobs appartiene a Aaron Sorkin, lo sceneggiatore di Bennett Miller in Moneyball, di David Fincher in The Social Network, di Mike Nichols in La guerra di Charlie. Tutte pellicole più che riuscite, nelle quali la sceneggiatura si disputava il segno lasciato dalle immagini create dai registi.

In effetti, dopo un lungometraggio e un documentario non particolarmente significativi, è questo il primo tentativo cinematografico di ridarci la figura del creatore di Apple. Aaron Sorkin si è ispirato alla biografia che lo stesso Steve Jobs aveva richiesto al co-fondatore di Apple, Walter Isaacson. Ma non per questo ne è nato un biopic, una biografia tradizionale che ritracci una vita. Piuttosto, per usare i termini di colui che si sta rivelando come uno dei grandi sceneggiatori in circolazione, «la mia interpretazione di un individuo complesso; e delle sue relazioni con i suoi prossimi».

L’interesse del film nasce allora dalla sua costruzione anomala: non una cronistoria, ma tre atti, tre ambienti filmati in tre stili diversi, per descrivere tre momenti non consecutivi. Sedici anni della vita di Jobs in tre scene di 40 minuti, riassunti quasi in spasmodici tempi reali: ma tre nascite emblematiche, e per certi versi traumatiche, quella del Macintosh nel 1984, di NeXTcube nell’88 e dell’iMac nel 1998.

do dell’apparato iniziale, colpisce la descrizione di che cosa Magrelli è andato a prendere per la compilazione, in concreto «il limitato impiego della bibliografia e il frequente ricorso a Wikipedia». Fonti agili e comode per letteralmente fare un po’ in fretta e soprattutto per «raggiungere una fascia di lettori finora estranea alla nostra tradizione poetica, un pubblico dopato di tv, anestetizzato rispetto alla vita politica, intimorito dal gergo critico».

Una raccolta jeans, insomma, tanto per avvicinare il più possibile, con intento universalistico e democratico, tutti i potenziali utenti della poesia italiana e della sua storia, anche i più svogliati. Vorrebbe Magrelli che questi assaggi fossero come aperitivi, equidistanti dalla pedanteria e dall’eccessiva semplificazione, leggeri ma affidabili, moderni.

La lista è classica, e prevedibile ma anche no. C’è l’Indovinello veronese prima testimonianza del volgare italiano, poi Jacopone da Todi, Dante Alighieri, Petrarca, Ariosto, Tasso, Campanella, Marino, Parini, tutti quelli che

gli storici della letteratura italiana conoscono bene. Ma poi anche qualche presenza inusuale, come Ibn Hamdîs («Avevano l’età che hanno le stelle, inalterate nel loro splendore»), considerato un siciliano, o come un sonetto in italiano composto da John Milton, o come i dialettali Porta e Belli.

Del Novecento, Bertolucci, Caproni, Sereni, Amelia Rosselli, cui aggiungiamo Montale, Ungaretti, Palazzeschi, Gozzano, Pascoli, D’Annunzio perché i poeti sono attribuiti ai secoli in cui sono nati. Di Montale è scelta l’anguilla («tutto comincia quando tutto pare incarbonirsi»), di Vittorio Sereni la supremissima Paura seconda: «Niente ha di spavento / la voce che chiama me / proprio me / dalla strada sotto casa / in un’ora di notte: è un breve risveglio di vento, una pioggia fuggiasca».

Bibliografia

Vittorio Magrelli, Millenium Poetry.

Viaggio sentimentale nella poesia italiana, Bologna, il Mulino, 2015.

Immerso com’è nei suoni astratti che ricordiamo dai primi computer, Steve Jobs perde ulteriormente la logica biografica per dedicarsi a un’introspezione intima, progressivamente quasi immateriale, con un personaggio nel quale il genio intuitivo coabitava con le asperità della comunicazione. Un direttore d’orchestra, come Jobs amava lui stesso definirsi, cui spettava il compito di far intuire nuove, rivoluzionarie interpretazioni ai musicisti.

Il film si regge allora sulla tradizionale eccellenza della scuola attoriale americana, sulle spalle di uno straordinario Michael Fassbender (Steve Jobs), su Kate Winslet (l’eroica assistente-parafulmine Joanna Hoffman), sulla figlia non riconosciuta Lisa, la ex-moglie, ma pure gli storici collaboratori, brillantemente interpretati da Jeff Daniels, Seth Rogen o Michael Stuhlberg.

Come accade nel film sulle elucubrazioni dell’alta finanza La grande scommessa, non è facile tenere viva l’attenzione dello spettatore su argomenti come driver e slot, chip e desktop.

Purtroppo la regia di Boyle non ha il coraggio (o la capacità) di assecondare l’intimismo stringato ricercato da Sorkin: dilungandosi progressivamente nei sentimentalismi di un’alquanto spiccia psicologia della famiglia che contraddice quanto d’innovativo il film stava proponendo.

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Cultura e Spettacoli

Un cinema svizzero aperto e consapevole della propria epoca Giornate di Soletta Fra le novità dell’amata kermesse cinematografica svizzera anche un’importante

apertura verso il resto dell’Europa Giorgia Del Don Arrivate alla loro 51esima edizione le Giornate di Soletta non sembrano aver perso nulla della loro energia iniziale. Di sicuro la grinta della direttrice Seraina Rohrer, che tiene le redini dal 2011, gioca un ruolo importante. A differenza di altri festival che vedono sfilare con regolarità nuovi direttori, le Giornate di Soletta, con solo tre capibranco (Stephan Portmann, Ivo Kummer e Seraina Rohrer) in più di cinquant’anni d’esistenza, rappresentano un’eccezione.

Il romando Sergio da Costa ha vinto il documentario-CH del Percento culturale Migros Le Giornate di Soletta sono un momento privilegiato durante il quale osservare il presente e discutere del futuro di una cinematografia, quella svizzera, che si batte per esistere. Come sottolineato dalla stessa Rohrer il futuro del cinema rossocrociato non può essere dissociato dalla sua capacità (o meno) di sapersi relazionare con la buona vecchia Europa. Non è dunque un caso se per la 51esima edizione le Giornate di Soletta hanno deciso di aprire le porte verso l’esterno. Con «Beyond Borders» il programma, già ricco, si dota di una nuova sezione destinata a rinforzare i legami fra il cinema svizzero e il resto della cinematografia europea. Al suo interno «Meet the festivals» invita per la prima volta un gruppetto di direttori di prestigiosi festival internazionali a presentare un film chiave della loro programmazione e a discutere dei meccanismi di selezione. Sono scesi quest’anno nell’arena i responsabili della programmazione del Karlovy Vary International Film Festival, del TFF Torino Film Festival, dell’IDFA International Documentary Film Fe-

Le Giornate di Soletta hanno presentato una cinematografia complessa e contraddittoria. (Keystone)

stival di Amsterdam e della Quinzaine des réalisateurs di Cannes. A condire il tutto il Focus dedicato al delicato ruolo del direttore di casting che ha visto sfilare personalità svizzere ed europee in un laboratorio di idee davvero rinfrescante. Rinfrescante proprio come uno dei rappresentanti più promettenti del cinema svizzero attuale: il giovane attore Kacey Mottet Klein che da mascotte del cinema di Ursula Meier si è trasformato in ragazzo-padre nel magnifico Keeper di Guillaume Senez, in lizza per il prestigioso Prix de Soleure.

Come ogni anno il cuore del festival è rappresentato dal Panorama suisse. Nessun limite di formato o di genere, ciò che conta è la qualità che ha permesso di spuntarla ai 187 film scelti tra una moltitudine che ne contava

ben 643. Fra questi nove hanno avuto la fortuna di essere selezionati per il Prix de Soleure e dieci per il Prix du public.

Ancora una volta l’esigente comitato di selezione ci ha cucinato un pranzetto dei più prelibati composto da registi confermati come Mano Khalil (Prix de Soleure nel 2013 per il suo toccante Der Imker) che ritorna, con il suo ultimo Die Schwalbe, unica finzione selezionata per il Prix de Soleure, nel suo Kurdistan natale o l’esuberante Felix Tissi, e giovani speranze come Eva Vitija che ci regala il ritratto toccante di suo padre in Das Leben drehen – Wie mein Vater versuchte, das Glück festzuhalten o ancora Michael Krummenacher e il suo intrigante Sibylle, in competizione rispettivamente per il Prix de Soleure e per il Prix du pu-

blic. Le Giornate di Soletta cercano da sempre di privilegiare la gioventù, la freschezza di uno sguardo nuovo e in costante mutazione: per nutrirsi del presente, per prevedere quello che sarà.

Non bisogna dimenticare che l’impulso che ha dato vita all’attuale manifestazione è stato proprio quello di far nascere nuove idee, nuovi spunti per i giovani cineasti svizzeri indipendenti.

Sergio da Costa, il giovane vincitore del Concorso documentario-CH organizzato dal Percento culturale Migros sembra fare eco a questo slancio iniziale. Con il suo Milan Noir che ci trasporta nel quotidiano del Centro ornitologico di riabilitazione (COR) di Ginevra il regista losannese riesce a ritrascrivere il lento ritmo della natura che si scontra con l’egoistica frenesia

del quotidiano. Un progetto ambizioso che conferma la voglia della nuova generazione di prendere letteralmente il volo.

Sebbene i film selezionati per il Prix de Soleure sembrino apparentemente piuttosto eterogenei, ciò che (involontariamente) li accomuna è un’irrequietezza tanto privata quanto universale, il bisogno di indagare non solo il mondo che ci circonda, sempre più inafferrabile, caotico, e beffardo, ma anche l’immensa complessità del nostro universo interiore.

Se da un lato Sila and the Getekeepers of the Arctic di Corina Gamma o ancora Democracy-Im Rausch der Daten di David Bernet ci confrontano con due temi di scottante attualità: il riscaldamento globale e la protezione dei dati, dall’altro Zen for Nothing di Werner Penzel, il toccante Fragments du paradis di Stéphane Goël o ancora Wie die anderen, di Constantin Wulff, che ritraccia il quotidiano di una clinica psichiatrica per bambini ed adolescenti, ci trasportano nei meandri del nostro io più profondo. Il Prix du public ci regala una galleria di personaggi femminili forti e controcorrente. A cominciare da Le temps d’Anna di Greg Zglinski e Lina di Michael Schaerer, passando per il più contemporaneo Sibylle viaggio allucinato nella mente di una donna apparentemente «ordinaria» per finire sulle magiche pianure melmose di Le miracle de Tekir di Ruxandra Zenide, le Giornate di Soletta danno (finalmente) voce e corpo a coloro che per troppo tempo sono stati imbavagliati, repressi, stigmatizzati. A coronare il tutto il programma speciale «Rencontre» che rende omaggio all’eclettica attrice grigionese Ursina Lardi.

Tanti, tantissimi film dalle sensibilità molto diverse si susseguono ad un ritmo incalzante disegnando i contorni di una cinematografia tanto complessa e contraddittoria quanto interessante, proprio come la Svizzera stessa. Una Svizzera che ha bisogno di esprimersi, di confrontarsi con l’ignoto per procedere nella giusta direzione.

Un’Asia sognata e rivisitata Mostre Alla Fondazione Baur di Ginevra ci si occupa dei rapporti tra Oriente e Occidente

nella realizzazione di oggetti di lusso come ninnoli e gioielli Marco Horat La passione dell’Occidente per la vita e l’arte dell’estremo Oriente, Cina e Giappone in particolare ma anche India, non è fenomeno dei nostri giorni; è una vicenda secolare dalle molte sfaccettature che viaggiatori e poi specialisti hanno raccontato in scritti e in esposizioni di ogni genere; esplosa ancora recentemente grazie alla facilità dei viaggi e alla globalizzazione dei modelli di vita. Altrettanto è naturalmente successo nei lontani regni e imperi d’Oriente nei confronti del nostro mondo occidentale (soprattutto per gli aspetti scientifici del nostro sapere), dando vita comunque a uno scambio culturale che ha in qualche modo influenzato le rispettive civiltà, nel bene e nel male, tra fantasia e realtà.

Una piccola storia che illustra questi concetti la propone ora la Fondazione Baur nelle prestigiose sale ginevrine dove trovano posto le collezioni legate a quel personaggio straordinario che fu Alfred Baur: l’incontro tra espressioni artistiche cinesi e giap-

ponesi raccolte in vita dal fondatore e la creazione di gioielli ad opera della celebre manifattura francese Cartier.

Una storia che ha preso avvio alla fine dell’800 quando Alfred Baur si trasferisce dalla Svizzera a Ceylon, dove diviene proprietario di grandi piantagioni di tè. Torna in patria agli inizi del XX secolo e di lì, in compagnia della moglie, viaggia in tutto il mondo raccogliendo oggetti d’arte orientale della tradizione: gioielli, giade, lacche, smalti, ceramiche, cloisonnés, stampe, sete e oggetti per la casa, guardie di spade, netsuke (figurine scolpite in vari materiali usate come ferma cintura), inroo (scatolette a più scomparti da usare in viaggio).

Oggi, anche grazie a donazioni e acquisizioni successive, le Collections Baur contano circa 9000 oggetti, tra i quali preziose porcellane imperiali cinesi dalle forme e dai colori impareggiabili, che vengono prestate ai più importanti musei internazionali per esposizioni temporanee. Dall’altra parte c’è la famiglia Cartier, il padre Alfred e i figli Louis, Pierre e Jacques

che hanno operato nello stesso periodo, le cui creazioni artistiche ispirate all’Oriente sono ben note agli appassionati di arti applicate e ai collezionisti. A Ginevra però questi manufatti

Portasigarette di Cartier, 1928.

di Cartier di straordinaria bellezza trovano una loro collocazione storica sia nel clima culturale di Cina e Giappone, sia in quello di un Occidente innamorato del Sol levante e dell’Impero celeste.

Ci rendiamo conto che stiamo ammirando un mondo dai contorni reali attraverso occhiali che aggiungono e tolgono allo stesso tempo qualcosa: ci sono l’ispirazione e la poesia, le forme e i colori, lo sguardo e il sogno, la tecnica e i materiali impiegati per inventare un dialogo inedito tra prodotti artistici di élite in paesi lontani tra loro che suscita meraviglia ancora oggi. Ecco allora a confronto pagode e padiglioni esotici, letterati all’opera sotto un cielo stellato, chiari di luna su paesaggi fantastici, animali reali e di fantasia: la natura che si intreccia con la presenza discreta dell’uomo. Dove l’originale orientale difetta, l’artista europeo inventa o adatta la sua opera: ad esempio creando gioielli che si ispirano all’obi (la preziosa fascia di seta che lega il kimono femminile, considerato in patria un gioiello) in mancanza

di un modello inteso come ornamento della persona, cioè anello, collana o orecchini – praticamente sconosciuti alla corte di Kyoto. Altro esempio: negli anni 20 del secolo scorso la Manifattura Cartier realizza una serie di pendole che si ispirano ai famosi torii giapponesi, quei portali in legno spesso colorati di rosso, che si trovano all’entrata dei templi shintoisti; una porta sacra per dividere il mondo dei vivi da quello degli spiriti che ci obbliga a fare i conti con il concetto del tempo che scorre inesorabile; sopra il meccanismo occidentale che misura le ore viene spesso collocata una figura di bambino in veste di piccolo genio benevolo, a significare la speranza dei genitori in un futuro prospero. Come disse Confucio.

Dove e quando

L’Asie rêvée, dans les Collections Baur et Cartier. Ginevra, Collections Baur, Musée des arts d’extrême-orient. Fino al 14 febbraio 2016. www.fondationbaur.ch

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 1. febbraio 2016 ¶ N. 05

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Cultura e Spettacoli

Il talento di Max Huber, fotografo delle geometrie Fotografia La Galleria ConsArc di Chiasso festeggia i suoi primi 25 anni omaggiando Max Huber,

ossia l’artista che ha fatto da ideale padrino all’esperienza espositiva

Gian Franco Ragno Per festeggiare in modo originale i venticinque anni di attività la galleria ConsArc di Chiasso ripropone il protagonista con il quale inaugurò la propria avventura dedicata alla fotografia d’autore, iniziativa pionieristica nel panorama ticinese di allora. Ci riferiamo a Max Huber, nato a Baar nel 1919 e scomparso nel 1990 a Mendrisio, assai conosciuto in Ticino e apprezzato a livello internazionale per la sua produzione grafica e artistica sotto l’insegna dell’arte astratta concreta, sulla scia del maestro zurighese Max Bill.

L’attività di Max Huber è stata oggetto di un’ampia monografia di Phaidon del 2006, mentre a Chiasso è stato a lui intitolato un museo, il Max Museo, di cui si sono festeggiati l’anno scorso i primi dieci anni di attività. Un percorso artistico e professionale durato mezzo secolo, quello di Huber, che lo portò dalla Zurigo della nota e a tratti mitica Kunstgewerbeschule (con Hans Finlser e Alfred Willimann) e della rivista «DU» alla vivacissima Milano – dagli anni Quaranta in avanti – dello Studio Boggeri e di molti altri clienti, tra cui Einaudi: a questi due poli si aggiungerà, negli anni Sessanta, il Giappone dove troverà corrispondenze professionali con Takashi Kono la

cui figlia Aoi Kono, anche lei illustratrice, diventerà nel 1962 sua moglie.

Tra i suoi molti interessi la fotografia rimane nella critica – come notorietà, senza timore di essere smentiti – un poco in secondo piano; una delle molte forme d’espressione a cui – con atteggiamento tipico dei tempi meno recenti – viene attribuito uno statuto di sussidiarietà rispetto alle forme più nobili. Certo è che, come ogni grafico dell’epoca, Huber conobbe e frequentò numerosi fotografi: fu amico di Werner Bischof e di Emil Schulthess, conobbe Luigi Veronesi e Sergio Libis, e probabilmente altri. Ma più in generale, come molti che traevano spunto dalle esperienze del Bauhaus, considerava la fotografia come un elemento integrante della comunicazione visiva di cui era necessario conoscere i principi.

Di tutto ciò rintracciamo alcune prove, una ventina, nell’esposizione.

Accanto ad alcuni vintage, stampe d’epoca, e interessanti fotogrammi – fotografie senza obiettivo create in camera oscura, segni bianchi su sfondo nero – ecco comparire i soggetti prediletti: in primo luogo una rinata e moderna Milano, che emerge dal conflitto appena terminato piena di vitalità, protagonista nel lavoro, nella società e nell’economia italiani. Cogliendo le

Fotografia moderna, Milano, 1940. (© Archivio Max e Aoi Huber, Novazzano)

luci, le insegne e l’avanzare di quello che sarà il «boom» economico, Huber vive e interpreta per diversi decenni la sua dinamicità.

Altro soggetto presente, un antico Meridione immortalato come un mondo quasi immobile, immerso nella luce – dove in pratiche antiche, come una rete da pesca, il grafico riesce a cogliere forme modernissime.

Ma il luogo in cui il viaggio di Max Huber trova particolare originalità, in una inedita comunione tra cronaca e astrazione, è il Giappone. Qui tutto è grafia, tutto è inedito e sconosciuto.

Nelle prove eseguite nell’«impero dei segni», come denominò Roland Barthes il paese del lontano Oriente, ci sorprendono certe sottili corrispondenze proprio con quel Werner Bischof

che nel 1954 pubblicò per Manesse lo straordinario libro fotografico Japan.

Più in generale, ovunque si trovasse, attraverso l’obiettivo l’occhio di Huber riordinava il mondo: si vedono i piani e le simmetrie, la ricerca di forme geometriche; particolarmente suggestive le insegne e le scritte luminose che diventano forme che ricompariranno sulla tela e sulla carta. In questo senso, della fotografia presumiamo che il grafico ticinese d’adozione apprezzasse la leggerezza e la versatilità – specie nel formato quadrato della Rolleiflex.

Le ristampe dai negativi originali dell’archivio fotografico di Max Huber – in parte ancora inesplorato – sembrano promettere nuove sorprese e riscoperte, nuove visioni che potrebbero, a pieno titolo, occupare uno spazio in una storia della fotografia sia italiana sia svizzera. Max Huber fu infatti ricchissimo di «talento visivo», come ha scritto nel testo di presentazione Cesare Colombo, grande uomo di fotografia milanese scomparso improvvisamente proprio negli scorsi giorni.

Dove e quando

Max Huber. Fotografie. Chiasso, ConsArc. Orari: ma-ve 9.00-12.00 / 14.00-18.30; sa 9.00-12.00. Fino al 13 febbraio 2016. www.consarc.ch Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Cultura e Spettacoli

Il grande NO del Dadaismo

Da? Da!

Dadaismo – 1 Nel 2016 Zurigo celebra il 100mo anniversario di una corrente culturale che mise in dubbio

Dadaismo – 2 Christa Baumberger e Nicola Behrmann hanno dato

ogni certezza: la società borghese, la lingua e il proprio Io. Ma come si festeggia un fenomeno simile?

Stefan Zweifel* Cucù-Dada. Ah-ah, ma quanto è divertente il Dadaismo. Scherzi e beffe.

Ci si uccide a suon di battute. Eppure il Dadaismo è stato l’attacco più violento al nostro pensare e al nostro sentire.

Prima di allora la negazione di tutti i nostri valori non era mai stata messa in atto in modo tanto radicale quanto nel 1916 al Cabaret Voltaire della Spiegelgasse 1 di Zurigo. Ora, all’inizio dell’anno giubilare, ci troviamo davanti a una gigantesca rivalutazione, alla trasformazione del negativo in positivo. Persino Zurigo Turismo ha scoperto il Dadaismo come uno dei pregi della città. E Nicolas Hayek della Swatch, che nel 2007 aveva abbandonato il Cabaret Voltaire, chiacchiera di «provocazione positiva». Tutti gli aspetti negativi saranno dunque sotterrati nella fossa comune del divertimento della piccola borghesia?

Nel paese dello yoghurt e degli impiegati di banca, Hennings e Ball con coraggio e senza mezzi, diedero vita a una rottura totale con il sistema e la forma Dada Universal. Questo è il titolo della mostra che sto allestendo al Museo nazionale in qualità di co-curatore.

Faccio quindi parte anch’io dei beccamorti di un movimento davanti al quale i sovversivi dei giorni nostri sembrano studenti modello? Espello dunque quei migranti (...) che un tempo a Zurigo riuscirono a confonderci fino a farci balbettare, talmente avevano messo in dubbio le radici dell’immagine che avevamo di noi stessi.

Loro, disertori di tutti i Paesi, nel bel mezzo della Prima guerra mondiale si rifugiarono in Svizzera, isola pacifica. Hugo Ball era andato al fronte con entusiasmo, come molti altri, ma poi si era allontanato inorridito dalla macchina della morte. Tristan Tzara proveniva da Praga, e quando si era presentato alla commissione di leva, balbettava in modo talmente incomprensibile che, preso per un idiota, era stato scartato.

I migranti zurighesi accesero una miccia che bruciò fino alle rivolte giovanili degli anni Ottanta. (...)

Ecco dunque Hugo Ball e la sua amante Emmy Hennings – sorvegliata dalla polizia per prostituzione e spaccio di droga – che gettavano scompiglio.

La polizia cittadina voleva espellere Emmy tanto quanto Tristan Tzara. Di Tzara perquisirono la stanza, convinti che fosse un fomentatore del bolscevismo, tanto più che, come il Cabaret, anche Lenin si era insediato nella Spiegelgasse. Quando i funzionari lessero le poesie di Tzara, si convinsero che non erano scritti rivoluzionari, ma il vaneggiamento di un povero malato di mente.

Nel 1916 lungo la Bahnhofstrasse la gioventù annoiata chiedeva dove si trovasse il bordello più vicino (...) in un Paese di fanatici dello yoghurt, di voci in falsetto, società bancarie e doppi menti. A ogni angolo di strada l’Esercito della salvezza faceva propaganda a pieni polmoni per Dio. Anche i Dadaisti gonfiavano i propri, di polmoni, per svegliare la città dal sonno profondo di giusti e profittatori di guerra. Ci si era messi in moto per protestare contro la follia della guerra in nome dell’Illuminismo. Ma il Sì a Voltaire e all’Illuminismo in tre passi si trasformò specularmente in un grande NO a tutta e quanta la cultura occidentale.

Dadaista ante litteram: Hugo Ball con un costume cubista in una foto del febbraio 1916. (Keystone)

Come tutte le verità anche la dialettica arriva in punta piedi. Ecco dunque che nel febbraio del 1916 Emmy Hennings trotterella sul palco del Cabaret Voltaire di Zurigo e canta: «Noi viviamo così, noi viviamo così / così viviamo tutti i giorni» («So leben wir, so leben wir, / So leben wir alle Tage...»); il pubblico dondola avanti e indietro, un nontiscordar di me danza allegro sul cappello di paglia di una donna anziana, il suo accompagnatore è un poco alticcio – ma... cosa sente? «Noi assassiniamo così, noi assassiniamo così / Assassiniamo così tutti i giorni / I nostri compagni nella danza dei morti / Ti ringraziamo, ti ringraziamo / Signor imperatore per la grazia, / di averci scelto per morire» («So morden wir, so morden wir, / So morden wir alle Tage / Unsere Kameraden im Totentanz / Wir danken dir, wir danken dir / Herr Kaiser für die Gnade, / Dass du uns zum Sterben erkoren hast»). Ah, alla borghese cade il cappello dalla testa – ma si applaude comunque educatamente, in

fondo siamo tutti contrari alla guerra.

Compiendo questo primo passo si è ancora uniti dall’Umanesimo, non si sospetta nulla della dialettica dell’Illuminismo, tanto visibile a Verdun, usmabile addirittura: l’uomo si è liberato della religione e dei miti, è ottimista verso il progresso, crede ormai unicamente nella ragione dei numeri – anche se si tratta della grande ragione dei grandi numeri dei caduti nel fuoco di sbarramento delle trincee: «Farò rrrrrrrrrrullare a tal punto i tamburrrri che al confronto le rrrrrrraffiche delle arrrrrrrmi saranno una merrrrta» («Ich werde trrrrrrrommeln, dass die Trrrrrrrommelfeuer ein Trrrrrreck dagegen sind»). Ecco come rispondono Ball e il maestro delle percussioni Richard Huelsenbeck agli intestini rigonfi dei campi di battaglia europei – intanto un dadaista sale sul palcoscenico, dalla sua mascella si srotola un foglietto che recita «Merde».

Oppure: «Merdre». Si tratta di una differenza di non poco conto. In-

fatti la «r» supplementare si riferisce all’avanguardia parigina e al grido di battaglia un tempo intonato dall’Ubu di Alfred Jarry. Il secondo passo vede la riproduzione passiva dell’avanguardia.

Si ripetono le parole di Ubu sul «decervellamento di tutti i nobili», alle pareti si inchiodano manifesti futuristi e si oscilla tra impressionismo, espressionismo e cubismo.

Abbattuta la cultura, con un terzo passo si deve distruggere la lingua. La grammatica infatti brucia la gerarchia del mondo nel nostro cervello. In ogni frase vi è un soggetto che con l’aiuto dei verbi domina l’oggetto, allo stesso modo in cui l’imperatore tedesco spedisce al fronte i suoi soldati. Suoni sconosciuti senza senso risuonano nel Cabaret Voltaire, il senno del senso sostituito dal senso del canto. «Gadji beri bimba glandridi laula lonni cadori... A quel punto mi accorsi che la mia voce assumeva l’antica cadenza delle lamentazioni dei sacerdoti, quello stile canoro che si risente gemere nelle chie-

se occidentali e orientali. Cominciai a cantare le mie file di vocali in uno stile da chiesa».

Fu così che durante la sua esibizione il poeta recitante Hugo Ball fu involontariamente sopraffatto da quanto di più inimmaginabile e estraneo vi fosse.

Ball: vestito da prete, tutto sudato nel suo bizzarro costume, sentiva che lo stavano invadendo forze antiche, forse addirittura sovrannaturali, grazie alle quali la dialettica del «da-da», «sì-sì» in rumeno, si trasformava in «no-no», culminando nell’annullamento del sé (...).

Il no non è più un no alla guerra, non è più un’anti-arte d’importazione, non è un no alla grammatica imperante, ma è un no al proprio Io. Hugo Ball fuggì dalla riprovevole violenza di Dada rifugiandosi presso Dio sul Monte Verità, tra uomini vicini alla natura. Tristan Tzara andò a Parigi. Là i dadaisti parigini organizzarono un tribunale contro il dio borghese letterario nonché guerrafondaio Maurice Barrès. André Breton comparve in veste di giudice. Tzara si rifiutò di testimoniare, poiché chi non crede alla ragione, non può credere alla giustizia, nemmeno a quella dadaista.

Così il vero spirito di Dada continuò a vivere con Antonin Artaud, il quale voleva fondare un «Teatro della crudeltà» in Afghanistan. Poi fu il turno degli azionisti viennesi, i quali durante una conferenza in un’aula universitaria, cagarono sul podio. Poi ci furono Guy Debord e i Situazionisti, che a loro volta affermavano che l’arte è morta.

Il mercato dell’arte inghiotte tutto, dal Dada-Arp al surrealismo-MaxErnst. Si deve superare l’arte e cambiare la quotidianità. Debord, dadaista tardivo, all’inizio esigeva la «creazione di società segrete terroristiche». Ben presto però si ritrovò a condannare gli attentati delle Brigate Rosse, perché perfino questa recente «negazione di guerillas privati» era stata trasformata dai mass media e dalla TV in uno spettacolo di intrattenimento – come oggi, dove partecipi si consuma l’indignazione e si difende la nostra libertà. (...).

Ad oggi la protesta radicale dei dadaisti è rimasta insuperata. Lo scandalo di allora viene coltivato dai manager culturali e dalle scuole d’arte. Solo le banche sono restie a sponsorizzare Dada, sono le uniche a recepire ancora vagamente questo movimento per quello che effettivamente era: un attacco al buon senso. (...)

«Dobbiamo ancora distruggere i detriti!» (Man muss noch die Trümmer zertrümmern!), gridavano a quel tempo i dadaisti a Zurigo. Resta la speranza, che il picco di entusiasmo della rivolta abbia forze sufficienti per sopravvivere all’attacco del giubileo. Può darsi che la gioventù di oggi riesca a sorprenderci e che con il coraggio della disperazione si metta a protestare contro la musealizzazione del Dadasimo, come fece il movimento degli Anni Ottanta.

In questo senso possiamo augurare una cosa sola: a tutti un selvaggio anno giubilare! * Stefan Zweifel è critico letterario e co-curatore della mostra sul Dadaismo al Museo nazionale di Zurigo.

Questo saggio è apparso sul «Tages Anzeiger» del 12 gennaio 2016.

Traduzione dal tedesco di Simona Sala.

Dove e quando (alcune mostre)

Dada Universal. Museo nazionale, ZH. (5.2-28.3.2016) www.nationalmuseum.ch.

DADA original. Biblioteca nazionale svizzera, Berna (7.3-28.5.2016).

Dadaglobe Reconstructed. Kunsthaus, ZH (5.2-1.5.2016).

alle stampe un libro dedicato a Emmy Hennings

Simona Sala Solo una donna fu protagonista del movimento DADA. Ma che donna! Emmy Hennings anche dopo cent’anni è fonte di ispirazione e di mistero, oggetto di studio e di racconti. La fantasia corre e cerca di immaginare questa tedesca minuta dall’aria fragile nel 1916, in un freddo giorno di febbraio, in una Svizzera molto diversa da quella che conosciamo.

L’Europa è in fiamme, e il Paese, seppur risparmiato dal conflitto mondiale, pratica una politica del sospetto. A Zurigo Emmy Hennings e il marito Hugo Ball, innamorati e poveri in canna, armati di un pizzico di geniale follia, ma quasi certamente privi di buon senso e di un piano, presero alloggio nella Spiegelgasse, Niederdorf. Vicino di casa: Lenin. È ora apparso Emmy Hennings Dada di Christa Baumberger e Nicola Behrmann. Si tratta di uno dei primi libri promossi grazie al nuovo sostegno alla letteratura del Percento culturale Migros (il libro è stato accolto nella sezione «Tesori da scoprire»).

Abbiamo incontrato la ricercatrice e storica della letteratura Christa Baumberger che ci ha raccontato i retroscena di Emmy Hennings Dada.

Christa Baumberger, quando ha iniziato le sue ricerche, sicuramente aveva un’idea di Emmy Hennings…

La persona che ci presenta nel libro Dada è diversa da come la pensava?

Certo, completamente! Ho letto una moltitudine di lettere e di diari, scoprendo anche cose che magari non avrei voluto sapere… All’inizio per me Emmy era una poetessa. Ho invece scoperto che Emmy era anche ballerina, attrice, realizzatrice di bambole per il Cabaret e burattinaia. Sulle foto a volte era frivola.

Sebbene fosse una fervente cattolica aveva fatto anche la prostituta. La donna che ho scoperto è sfaccettata e complessa, piena di contraddizioni, affascinante.

Il movimento Dada nacque per un incontro fortuito o perché vi era l’intenzione di costruire un movimento artistico di protesta a Zurigo?

Hennings e Ball arrivarono a Zurigo senza particolari piani, erano due migranti.

Ball era stato brevemente al fronte in Belgio: era sconvolto e disgustato dalla guerra, diventò un pacifista assoluto, si oppose al suo paese d’origine, la Germania, ed emigrò. Giunti a Zurigo, i coniugi decisero di aprire il proprio Cabaret, con un programma tipico fatto di canzoni e testi, Hennings infatti era una cabarettista professionista. Il 5 febbraio 1916 nacque la Künstlerkneipe Voltaire, che poi diventò il Cabaret Voltaire.

Riguardo alla prima sera circola un aneddoto divertente: mentre Hennings e Ball stavano ancora allestendo la sala, entrò un gruppo di uomini. Si entusiasmarono a tal punto per quello che videro che decisero di associarsi ai due tedeschi. Erano Marcel Janco, suo fratello Georges e Tristan Tzara, la sera

arrivò anche Hans Arp, poi si aggiunse Richard Huelsenbeck. È così che nacque la cerchia dei dadaisti zurighesi, di cui la Hennings era l’unica donna.

Si trattò di un’esperienza breve, la cui accoglienza non fu sempre calorosa.

Ogni sera il Cabaret proponeva un programma diverso: si passava dall’orchestra di balalaika russa alla lettura di testi per arrivare ai ritmi africani, a volte si organizzavano serate di «palco aperto», dove il pubblico interagiva con i dadaisti.

Quanto durò l’esperienza?

Il 14 giugno alla Zunfthaus zur Waage vi fu una serata importante con letture e conferenze. Forse Ball e Hennings hanno presentato anche un Manifesto dadaista. Nel 1917 seguì l’apertura della galleria Dada, in Bahnhofstrasse. Presto Hennings e Ball litigarono con Tzara, e partirono per il Locarnese, dove si trovava l’amico Friedrich Glauser. Era il loro secondo viaggio in Ticino, dopodiché tornarono a Berna. Tre anni più tardi, era il 1920, si trasferirono definitivamente in Ticino, nel Luganese.

Ovunque si celebra DADA. Il simbolo dell’avanguardia artistica si è trasformato in una specie di slogan. Ma DADA era un movimento di rottura totale, un attacco al sistema...

Purtroppo è diventato un fenomeno di massa, quello che si vede oggi ha poco a che fare con il movimento di allora. Dada non si può separare dal contesto politico in cui è nato, ossia la Prima guerra mondiale. I dadaisti erano tutti profughi

Emmy Hennings in una foto del 1918 scattata ad Ascona. (Lascito Hennings ASL, Berna)

o emigranti, l’unico svizzero fra di loro era il tossicodipendente ed emarginato Glauser oltre al musicista Hans Heusser.

Questo movimento autonomo di avanguardia artistica non aveva quasi alcun punto di contatto con la scena artistica svizzera; al centro del suo interesse vi erano il pacifismo e la rottura con i valori borghesi vigenti. Il tutto avveniva con un senso di urgenza, accompagnato alla necessità di distruggere tutto, per ricostruire da zero qualcosa di nuovo.

Questa distruzione coinvolse persino le parole, restarono solo le sillabe. Hugo Ball parla di «una presa in giro dal nulla», Un movimento senza senso dunque, che proprio per questo e per il contesto politico in cui è nato, è assolutamente non-riproducibile.

DADA è stato un movimento piuttosto breve, fatto da stranieri a Zurigo, in una Svizzera circondata da paesi in guerra. Eppure a cent’anni di distanza DADA è il movimento per antonomasia. Perché?

Il movimento DADA ha saputo suscitare reazioni incredibili e in un attimo è diventato internazionale. Da Zurigo si è diffuso nel mondo, Tzara ha dato vita al dadaismo parigino, poi trasformatosi in

surrealismo. Huelsenbeck ha esportato il dadaismo a Berlino, dove fu accolto da George Grosz, Raoul Hausmann, Hannah Höch e altri, e dove spinse diversi artisti all’arte del collage e ispirò Hans Richter nella cinematografia. Un altro movimento artistico era nato già nel 1915 a New York, quando Francis Picabia e Marcel Duchamp vi incontrarono artisti come Man Ray. Fra di loro vi erano anche figure artistiche d’avanguardia, come la celebre femminista Elsa von Freytag-Loringhoven.

Tutti parlano di DADA, una parola senza senso, ma con un suono che piace. Cosa significa questa parola?

Buona domanda, chi ha inventato questa parola? Essa è circondata dal mito, poiché ognuno dei dadaisti zurighesi se ne è detto il padre. Hugo Ball dice che è una parola internazionale, che ha un significato in ogni lingua, in tedesco è la prima parola che pronuncia un bambino, in russo però significa «sì»; Dada è la parola francese per il cavalluccio, e la stessa Hennings afferma di averlo inventato lei pensando alla prima parola dei neonati…

L’intervista completa si può leggere su www.percento-culturale-migros.ch.

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Cultura e Spettacoli

Passa la mano Il racconto Di una vita povera di altri tempi in valli discoste, dove grandi e piccini

Un grazie dal collettivo Arbok

I tre uscirono nella notte e salirono il sentiero gelato. Il villaggio soffocava in una quiete agghiacciante. Le capre belarono, risvegliate dallo scalpiccìo dei passi, «arriviamo, arriviamo».

Nella stalla la Rossa se ne stava sdraiata tra le sue acque perdute, il pancione ancora pieno che la deformava, un filo di gelatina che le usciva da dietro.

Belò debole, sfinita da inutili contrazioni. Con la lanterna in mano che gli illuminava il volto, Vincenzo si mordeva tra i baffi e bisbigliava cupo «poltrone d’un poltrone,» perché la sera si era lasciato frenare dal freddo e dalla stanchezza; non era salito a controllare prima di coricarsi e adesso ecco il risultato.

Quante volte era arrivato troppo tardi, la madre morta già rigida, la testa del capretto gonfia strozzata nella cervice, sempre i capretti più grossi e le capre migliori da gettare tra i macigni a nutrire le volpi.

Un’altra capra belava al suo piccolo appena nato, un bianchino che aveva ben leccato e già se ne stava sulle gambe traballanti a cercare le tette.

– Occupati della Tamberla e del suo capretto – gridò ad Emma sopra al vociare affamato del gregge, – e tu del fieno.

Leonardo uscì nell’alba fosca, inalò la nebbia mentre pressava il fieno nella gerla e ingoiò un magone per la Rossa che moriva.

Dentro alla stalla riempì le mangiatoie, le capre affondarono le teste e tacquero.

– Prendo la lanterna, papà – disse al padre impalato e smorto: la mamma avrebbe dato di matto se la stagione dei parti iniziava con la Rossa da buttare.

Con le labbra strette e l’angoscia negli occhi, Vincenzo tastò sotto la pancia. Quando sembrò sicuro di una diagnosi, incoraggiò la capra: – Adesso te lo tiriamo fuori.

Affondò le dita per introdursi nell’utero: lo sentì vivo e si addentrò, tastò, cercò di avanzare rallentando ai gemiti finché, esasperato da quell’inutile frugare, sudare e imprecare, passò la mano al figlio: – Prova tu, che ho paura di rovinarla – disse.

Si asciugò nei pantaloni e recuperò la lanterna. Emma non fiatava.

Col nodo in gola, Leonardo infilò i polsi stretti dell’infanzia dentro al corpo della Rossa per cercare il capretto che suo padre non era riuscito a di-

Cominciata un anno fa con Una questione di memoria di Walter Rosselli, la nostra avventura su «Azione» con i racconti Arbok Group si è conclusa con Passa la mano di Doris Femminis. In questi dodici mesi abbiamo proposto storie scritte da vari autori, narrazioni che già erano apparse in forma di libro e che continueranno il loro cammino anche dopo la collaborazione con «Azione». Si è trattato di un’iniziativa editoriale della ANAedizioni di Franco Lafranca, stampatore d’arte a Locarno con la sua l’impressione e pure editore. I racconti Arbok sono nati a luglio 2014 e al momento sono a quota venti libri pubblicati. Storie brevi alle quali si alternano autori conosciuti ed esordienti a costituire il collettivo che si occupa della redazione e della pubblicazione dei volumi. A me tocca il ruolo di coordinatore del progetto, oltre che alla scrittura di alcune storie. Le copertine sono realizzate da Gabriele Zeller, giovane artista di Cavigliano attivo nella streetart.

Come dice l’amico Franco Lafranca, è stato bello proporre sulle nostre pagine scrittori navigati e prestigiosi come Alessandro Martini o Arnaldo Alberti, giovani promesse come Ambra Giacometti (vincitrice a due riprese del Campiello Giovani), enigmisti come Francesco Giudici, traduttori come Walter Rosselli, donne ispirate come Wanda Luban o Fabiana Bassetti, giornalisti come Fosca Bernasconi Crivelli, scoperte come Romano Lorini, Lars Schlichting o il giovanissimo Rocco Cavalli, 19enne studente che ha scritto la storia che uscirà in primavera su i racconti.

Quando partimmo nel luglio del 2014 eravamo solo io e Franco. Con mie due storie, illustrate da Gabriele e con il progetto grafico di Maurizio De Marchi ci siamo lanciati, senza soldi in tasca ma con tante idee. Al momento gli abbonati sono circa 260, ma è chiaro che senza il sostegno di «Azione» avremmo avuto vita breve. Non ringrazieremo mai abbastanza il giornale per aver creduto nella nostra opera. Ora ci tocca camminare con le nostre gambe e l’obiettivo è raggiungere quota 400 abbonati, una soglia che ci permetterà di cominciare in luglio la terza stagione. Per smentire le cassandre che ci consideravano dei pazzi e per poter conservare questo prezioso laboratorio creativo aperto a tutti quanti abbiano una storia da raccontare e la voglia di pubblicarla. Per regalare mese dopo mese un’avventura in poche pagine che sappia toccare i sentimenti dei lettori. / Giorgio Genetelli

erano uniti nella lotta per la sopravvivenza – Parte seconda

Eventi sostenuti dalla Cooperativa Migros Ticino Roberto Donetta Una retrospettiva Lugano, MASI Fino al 20 marzo 2016 www.masi.ch A Roberto Donetta, venditore ambulante nonché fotografo autodidatta, dobbiamo tutti molto, poiché nei suoi scatti ritroviamo la nostra storia e il nostro passato.

Per saperne di più su programmi, attività e concorsi del Percento culturale Migros consultate anche percento-culturale.ch e Facebook

Gabriele Zeller

sincagliare. Quasi vomitò, disgustato dall’odore di ferro e sale, la gelatina ed il liquido calore febbrile.

La capra respirava appena; aveva sussultato quando il contadino era uscito dal suo ventre e neppure si era accorta delle piccole mani tremolanti che lo avevano sostituito.

– E adesso cosa faccio?

– È dentro al contrario; trova le zampe davanti e fallo girare, vedrai che viene.

Leonardo pensò a Giovanna che aveva tanta abilità nell’estrazione dei capretti quanta nel trattamento di lussazioni, gonfiori, infiammazioni di tendini, legamenti e muscoli, curatrice miracolosa di tutte le storpiature. Aveva ricevuto il dono di aggiustare da un antenato e l’avrebbe affidato ai posteri, trascinato nella valanga di saperi arcani come certe stortaggini o brutture, dall’origine alla fine dei tempi. Ogni volta che era stato da lei zoppo, slogato

Concorsi

Agenda dal 1. al 7 febbraio 2016

Emma stavano immobili dentro ad un silenzio ritmato dalle ruminazioni e dal cricchiare delle travi.

Leonardo, semi incosciente del suo agire, spingeva da sotto e tirava da sopra, lento, con le ginocchia nel liquido amniotico e nel sangue, dimentico di sé, tutt’uno con le viscere della Rossa e del suo becchino che finì per essere strappato più morto che vivo fuori dal corpo inerme della madre.

– Eccolo!

Il ragazzo liberò quell’unica parola e si lasciò cadere per terra, sfinito e fiero col sedere nello strame.

Il padre massaggiò il capretto finché non lo vide respirare a fondo, poi lo gettò tra le foglie, quasi asciutto dal troppo restare dentro.

– Vai a prendere la grappa.

Emma scese correndo verso casa, contenta di respirare l’aria gelida e scaricarsi il corpo indurito. Leonardo e la Rossa bevvero un sorso, prima lui, poi lei, ed il padre non volle impedirsi un goccetto.

– Bravo! – disse ed i figli abbassarono gli occhi.

Era troppo tardi per andare a scuola.

091/821 71 62 Orario per le telefonate: dalle 11.00 alle 12.00

o con un fratello in lacrime, era rimasto a guardarla imbambolato mentre toccava e tirava e rimetteva a posto le caviglie quasi sapesse cosa c’è sotto la pelle.

– Avrai gli occhi nelle dita – gli aveva detto – se è destino.

Il ragazzo sentì nel viscido carne, cartilagini, ossa e paura. Aveva il fiato corto e la responsabilità dei giorni neri che li aspettavano se la Rossa e il suo capretto fossero morti e poi lui a quella testona voleva bene, anche se gli amici lo schernivano che a dodici anni era ora di interessarsi alle ragazze, non alle capre.

Cercò a lungo senza riconoscere zampa, ginocchio o spalla che fosse finché le mani, guidate dall’istinto, presero a roteare dolcemente il capretto nell’utero.

La concentrazione riempì la stalla: le capre erano tese, l’occhio rivolto di sbieco verso la Rossa e la tensione che la circondava. I capretti che Emma aveva portato alle madri uno dopo l’altro, dormivano sazi nel loro parco. Vincenzo ed

Biografia

Nata a Cavergno nel 1972, Doris Femminis ha allevato capre durante otto anni in val Bavona. Nel 2002 se ne va a scoprire la civiltà urbana a Ginevra. Attualmente vive e lavora sugli altopiani del Giura dove pratica come infermiera a domicilio e passeggia su vaste pianure. Nell’ottobre 2015, con il racconto «Passa la mano» vince il premio letterario Salviamo la montagna nella sezione di narrativa dedicata a Plinio Martini ed è seconda al Premio Montagna Emozioni – Cultura all’ombra del Monviso con il romanzo inedito «Chiara cantante e altre capraie» dal quale è tratto il racconto.

Dal mese di novembre 2015, con lo stesso romanzo, è finalista al Premio Parole di terra. / © Doris Femminis Informazioni

Coordinate per abbonarsi ai racconti del collettivo Arbok Group: impressione.anaedizioni@gmail.com (Franco Lafranca, tel. 079 655 96 26) giorgiogene@bluewin.ch (Giorgio Genetelli, tel. 078 807 92 10) http://arbokanaedizioni.blogspot.com

Chiassodanza Rassegna di balletto Cinema Teatro, Chiasso Sabato 20 febbraio, ore 20.30

Minispettacoli Rassegna di teatro per l’infanzia Oratorio San Giovanni, Minusio Domenica 21 febbraio, ore 15.00-17.00

900Presente Rassegna di contemporanea Auditorio RSI, Lugano Domenica 21 febbraio, ore 17.30

Anna Karenina

Mimi e la felicità

Vivier

Balletto del Teatro di Milano.

Musiche P.I. Ciaikovskji.

Libretto originale e coreografie di Teet Kask.

Musiche di Claude Vivier, Maurice Delage.

Liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Lev Tolstoj.

Con la compagnia La Piccionaia di Carrara (I).

Spettacolo per famiglie con bambini dai 3 anni di: Ketti Grunchi, Valter Rado ed Elisabetta Mazzullo.

Con Ketti Grunchi.

Scenografia e luci: Yurji Pevere.

www.chiassocultura.ch

www.minispettacoli.ch

www.conservatorio.ch

Regolamento Migros Ticino offre ai lettori biglietti gratuiti per le manifestazioni sopra menzionate.

Massimo due biglietti per economia domestica. La partecipazione è riservata a chi non ha beneficiato di vincite in occasione di analoghe promozioni nel corso degli scorsi mesi.

Per aggiudicarsi i biglietti basta telefonare mercoledì 3 febbraio al numero sulla sinistra nell’orario indicato.

Buona fortuna!

Biglietti in palio per gli eventi sostenuti dal Percento culturale di Migros Ticino

Ensemble 900 del Conservatorio della Svizzera italiana, diretto da Francesco Bossaglia.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 1. febbraio 2016 ¶ N. 05

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Idee e acquisti per la settimana

shopping Locali e sociali: gnocchi migliori non ci sono!

Attualità Giovedì gnocchi. Ma anche venerdì e sabato trovate presso le filiali Migros di Locarno, S. Antonino,

Lugano, Agno e Serfontana gli squisiti prodotti dal laboratorio «aTavola» della Fondazione Diamante

È una delle varie attività della Fondazione Diamante che unisce la vocazione di utilità sociale alla produzione e diffusione di prodotti locali e biologici. Nel negozio e laboratorio «aTavola», in passato pastificio del nucleo di Mendrisio, incontriamo Mauro Marconi (responsabile del laboratorio «Il Punto») che ci parla di questi gnocchi, buoni non solo per il palato ma anche per il contesto sociale del territorio.

«L’idea di offrire ai clienti di Migros, con la quale la Fondazione collabora già, un prodotto speciale caratterizzato dalla lavorazione artigianale in un ambiente che favorisce l’inserimento nel mondo del lavoro di persone con disabilità è nata nel 2010. Oggi offriamo tre prodotti: gli gnocchi di patate, disponibili tutto l’anno, le cicche del nonno e gli gnocchi di zucca che invece produciamo su base stagionale». La lavorazione manuale, oltre ad essere un valore aggiunto al prodotto, è importante e il signor Marconi ci spiega perché: «Gli utenti che impieghiamo vengono valorizzati attraverso il lavoro svolto e seguiti passo per passo per trovare soluzioni ad eventuali difficoltà che incontrano, in modo da dare loro gli strumenti per essere indipendenti. Avere un’identità lavorativa forte permette loro di collocarsi nel tessuto sociale e acquisire fiducia nelle proprie potenzialità». Il laboratorio si riforni-

Da sinistra, Sladjana Stojanovic (educatrice), Raika Zanotta (collaboratrice «aTavola»), Larissa Pusterla (educatrice) e Mauro Marconi (responsabile laboratorio «Il Punto» della Fondazione Diamante). (Flavia Leuenberger)

sce da aziende agricole locali, le quali spesso fanno capo alla Fondazione.

«Lo scopo non è solo quello di metter in luce le potenzialità degli utenti ma anche quello di sostenere il territorio e la produzione tipica, creando un circolo virtuoso che giova al tessuto sociale

e all’economia locale». Gli gnocchi, che non contengono conservanti, sono riconoscibili dall’etichetta bianca con il nome del prodotto a caratteri calligrafici, sempre ideata e prodotta all’interno di un laboratorio della Fondazione. / Luisa Jane Rusconi

Gnocchi di patate 500 g Fr. 8.– Cicche del nonno 500 g Fr. 8.70 Alcuni momenti della produzione di gnocchi.

In vendita nelle filiali Migros di Locarno, S. Antonino, Lugano, Agno e Serfontana il giovedì, venerdì e sabato.

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Idee e acquisti per la settimana

Una delizia a forma di sfera Attualità Il

cavolfiore, oltre ad essere molto versatile in cucina, è un prezioso alleato della salute durante i mesi più freddi

Il cavolfiore è il fiore commestibile della pianta erbacea Brassica, appartenente alla famiglia delle Crucifere. La maggior parte delle Crucifere contengono degli oli, spesso solforosi e aromatici, in grado di stimolare l’appetito e la secrezione delle ghiandole digestive. Il cavolfiore è conosciuto in Italia da oltre 300 anni. Come i carciofi e i broccoli, è una verdura di cui si mangiano i fiori.

Il bel colore bianco di questa varietà di cavolo è dovuto al fatto che cresce al riparo delle foglie esterne che lo proteggono.

Il cavolfiore è molto apprezzato per il suo sapore delicato. Povero di calorie – contiene appena 22 kcal per 100 grammi –, è però ricco di vitamine, in particolar modo vitamina C e K, nonché di acido folico, sali minerali e fibre alimentari in grado di stimolare la digestione. Le rosette del cavolfiore si possono consumare anche crude, ma sono perlopiù apprezzate bollite, al vapore, oppure gratinate o fritte. Per preservare il colore bianco, cuocere il cavolfiore con l’aggiunta di un po’ di latte o succo di limone all’acqua di cottura.

Non cuocere la verdura troppo a lungo affinché possa preservare le sue preziose proprietà nutritive.

Irrinunciabili!

Flavia Leuenberger

Pane del mese: il pane di Säntis Anche quest’anno – ogni mese – i reparti pane di Migros Ticino propongono un particolare pane disponibile solo per un periodo limitato. Il nome del protagonista di febbraio si rifà alla suggestiva montagna dell’Alpstein, il Säntis. E l’omonimo pane rispecchia pienamente le tradizioni culinarie della Svizzera orientale, conosciuta per le sue specialità dal carattere deciso.

Il pane di Säntis è fatto con farina semibianca e una miscela di altri cereali composta da farina di spelta, farina di segale nonché semi di girasole e di lino. Questa sapiente combinazione conferisce al prodotto finale un aroma inconfondibile che si sposa a meraviglia con salumi speziati e formaggi stagionati. Tuttavia il pane di Säntis sa ingolosire anche abbinato ad una fumante zuppa di stagione, leggermente tostato oppure ancora per accompagnare un’insalata di formentino con uova sode e pancetta croccante. Conservato in modo approppriato – idealmente in un sacchetto di cotone o lino – si mantiene particolarmente bene fino a due giorni.

Pane di Säntis 400 g Fr. 2.90

Frittelle di carnevale 6 pezzi 216 g Fr. 2.90 Mini, 6 pezzi 90 g Fr. 2.10

Imprescindibili in questo periodo carnascialesco, le croccanti frittelle di carnevale della Migros sono tra le specialità di carnevale più apprezzate dagli svizzeri. Questa bontà disponibile come tradizione solo fino alla fine del noto carnevale di Basilea (dal 15 al 17 febbraio) è prodotta fin dal 1935 dalla Midor di Meilen, azienda del gruppo

Migros. Nel periodo di massima produzione l’azienda arriva a produrre qualcosa come 900’000 frittelle al giorno. Se da una parte gli ingredienti della ricetta sono rimasti i medesimi da decenni, dall’altra i metodi di produzione negli anni sono stati ottimizzati e modernizzati per garantire sempre la massima qualità al prodotto finale.

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Idee e acquisti per la settimana

Zoé

Nuova forza per la pelle a partire dai 50 Con l’avanzare dell’età la pelle perde elasticità. La produzione di collagene e elastina – proteine che mantengono soda la carnagione – si riduce. Questi segni dell’invecchiamento cutaneo possono essere contrastati con la linea curativa Revital di Zoé. I prodotti che la compongono sono stati sviluppati

appositamente per le esigenze delle pelli mature e secche delle donne a partire dai 50 anni. Queste creme di elevata qualità sono arricchite con l’estratto del crocus «DermCom», sostanza che favorisce la sintesi del collagene e dell’elastina rendendo la pelle più morbida e compatta.

*Azione 25% di sconto L’estratto di ginseng e un complesso vitaminico detergono e idratano delicatamente.

su tutto l’assortimento Zoé (escl. Zoé Sun) fino all’8 febbraio

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La crema rassodante per la zona occhi conferisce anche uno sguardo luminoso.

La crema da notte rigenerante ritempra la pelle matura durante il sonno.

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La crema da giorno contiene il complesso Liftonin, una nuova sostanza che rende la pelle più liscia.

Zoé Revital Crema da giorno rassodante SPF 15 50 ml Fr. 10.05* invece di 13.40

L’Industria Migros produce numerosi prodotti, tra cui anche la linea per la cura della pelle Zoé Revital.

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Idee e acquisti per la settimana

Foto Alamy

Informazioni complete sull’alimentazione invernale degli uccelli sono disponibili presso la Stazione ornitologica svizzera di Sempach (www.vogelwarte.ch).

M-Classic cibo per uccelli

Un cuore per i nostri amici pennuti Quando regnano freddo e ghiaccio non è facile trovare cibo da beccuzzare. Secondo le organizzazioni di protezione degli animali, nutrire gli uccelli in inverno è sensato, a condizione che venga fatto con moderazione e responsabilmente. Ecco alcuni consigli

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Testo Nicole Ochsenbein

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Quando dare del cibo?

Quando il terreno è ricoperto di neve oppure è ghiacciato, il cibo può servire come ausilio alla sopravvivenza per gli uccelli migratori e nidificanti. Gli uccelli sono particolarmente affamati nelle prime ore del mattino. Molti ritornano alla mangiatoia anche a pomeriggio inoltrato per fare scorte per la notte. In questi orari si dovrebbe quindi mettere a disposizione cibo fresco a sufficienza.

Da sapere La casetta per gli uccelli andrebbe posizionata in maniera che il cibo non si bagni. Le palline per cince possono essere appese anche a cielo aperto. La mangiatoia andrebbe pulita regolarmente e protetta dai gatti posizionandola almeno a 1,5 metri dal suolo. In linea di principio bisognerebbe fare attenzione che nei paraggi vi siano alberi o arbusti, che possano fungere da rifugio in caso di pericolo.

Quali mangimi?

Il mangime dovrebbe corrispondere al cibo naturale dei nostri amici pennuti.

Pane o resti di cibo non sono indicati.

I tipici divoratori di semi come cinciallegre o fringuelli prediligono semi di girasole, semi di canapa e palline. Per loro e tutte le altre specie di uccelli che d’inverno non emigrano, nell’assortimento M-Classic troverete il mangime ideale.

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PANE E LATTICINI Mezza panna UHT Valflora in conf. da 2, 2 x 500 ml 3.90 invece di 4.90 20% Coupe Chantilly in conf. da 4, per es. al cioccolato 1.60 invece di 2.–0 20% Appenzeller surchoix, per 100 g 1.40 invece di 1.80 20% Caprice des Dieux, 330 g 4.45 invece di 5.60 20% Formaggio fresco Cantadou in conf. da 2, –.90 di riduzione, rafano, erbe aromatiche o pepe, per es. alle erbe aromatiche, 2 x 125 g 3.90 invece di 4.80 Grana Padano DOP, in conf. da 800 g/900 g, a libero servizio, al kg 9.90

FIORI E PIANTE Rose Fairtrade, 2.– di riduzione, lunghezza dello stelo 40 cm, in diversi colori, mazzo da 20, per es. minirose, rosse 10.90 invece di 12.90 Tutti i tulipani, per es. M-Classic, gialli, mazzo da 10 5.50 invece di 6.90 20% Phalaenopsis multiflora, 2 steli, in vaso da 12 cm, la pianta 16.90 invece di 19.90 15%

ALTRI ALIMENTI Tutti i praliné in scatola o le palline Adoro Frey, UTZ, per es. praliné Prestige, 250 g 12.60 invece di 15.80 20% ** Tutto l’assortimento Merci o Toffifee, per es. Merci, 20x 250 g 3.95 20x PUNTI Zampe d’orso da 760 g, bastoncini alle nocciole da 1 kg o sablé al burro da 560 g, per es. bastoncini alle nocciole, 1 kg 7.– invece di 8.80 20% Tutti i biscotti Tradition, a partire da 2 pezzi, –.60 di riduzione l’uno, per es. Cremisso, 175 g 2.90 invece di 3.50 Tutti i tipi di caffè UTZ, in chicchi o macinato, per es. Exquisito, macinato, 500 g 5.75 invece di 7.20 20% Tutto l’assortimento Nescafé, per es. Gold de Luxe in bustina, 180 g 8.45 invece di 10.60 20% Tutti i tè Tetley, per es. English Breakfast, 25 pezzi 2.05 invece di 2.95 30% Tutto l’assortimento Farmer, per es. müesli Croc con frutti di bosco, 500 g 3.80 invece di 4.80 20% ** Miscela di frutta secca e noci M-Classic in conf. da 3, 3 x 250 g 6.45 invece di 8.10 20% Tutto l’assortimento di patate Delicious, prodotti surgelati, per es. Pommes Duchesse, 600 g 3.65 invece di 4.60 20%

Gamberetti tail-on Pelican cotti, ASC, surgelati, 750 g 17.– invece di 24.30 30% Sminuzzato di pollo M-Classic in conf. da 2, surgelato, 2 x 350 g 6.85 invece di 11.45 40% Tutti gli sciroppi da 75 cl o 1,5 l, a partire da 2 pezzi, –.50 di riduzione l’uno, per es. al lampone, 1,5 l 3.75 invece di 4.25 Tutti i tipi di riso M-Classic da 1 kg, a partire da 2 pezzi 20% Tutti i legumi M-Classic, secchi, per es. lenticchie, 500 g 1.75 invece di 2.20 20% Tutta la pasta Garofalo, a partire da 2 pezzi, –.50 di riduzione l’uno, per es. farfalle, 500 g 2.– invece di 2.50 Aceto balsamico di Modena Migros Bio, IGP, 500 ml 5.30 20x NOVITÀ *,** Salse liquide Thomy in conf. da 2, per es. salsa olandese, 2 x 250 ml 5.60 invece di 7.– 20% Salsa Thomy, pepe o sminuzzato alla zurighese, per es. al pepe, 20x 250 ml 3.50 NOVITÀ ** Fumetto di pesce Bon Chef, 20x 150 g 4.90 NOVITÀ *,** Tonno in olio d’oliva Mimare, con chili o basilico, per es. chili, 20x 160 g 1.90 NOVITÀ *,** Ripieno per vol-au-vent con carne di manzo M-Classic, 415 g 20x 5.40 NOVITÀ *,** Tutto l’assortimento Thai Kitchen, Jaipur o Al Fez, per es. latte di cocco Thai Kitchen, 250 ml 2.– invece di 2.50 20% Pancho Villa Taco Bar Mini-Kit, per es. Chicken Tinga, 120 g 20x 4.90 NOVITÀ ** Snacketti Zweifel in conf. da 2, per es. paprika shells, 2 x 75 g 2.70 invece di 3.90 30% Berliner in conf. da 6, 6 x 70 g 3.90 invece di 5.85 6 per 4 Classico Mini-Patisserie, 20x 96 g 4.80 NOVITÀ *,** Melagrana Anna’s Best, 20x 110 g 3.– NOVITÀ *,** Tutto l’assortimento di composte e succhi freschi Andros, per es. composta di mele/fragole, 8 x 100 g 4.95 invece di 6.20 20% Ravioli Anna’s Best in conf. da 3, per es. al pomodoro e alla mozzarella, 3 x 250 g 9.80 invece di 14.70 33% Piatto di snack Asia, 640 g 11.90 invece di 14.90 20% La Pizza in conf. da 2, per es. quattro stagioni, 2 x 420 g 10.30 invece di 14.80 30% Michette soffiate M-Classic TerraSuisse, 5/250 g 2.10 invece di 2.50 15% Tutti rotoli dolci al lampone, marmorizzato e japonais non refrigerati, per es. rotolo al lampone, 330 g 2.95 invece di 3.70 20% Tutto l’assortimento i Raviöö, prodotti in Ticino, per es. Col pién da Brasaa (al brasato), in conf. da 250 g 5.40 invece di 6.80 20%

NEAR FOOD / NON FOOD Tutti gli alimenti per cani Matzinger, per es. mini menu di pollo, 1,5 kg 4.30 invece di 6.20 30%

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 1. febbraio 2016 ¶ N. 05

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Idee e acquisti per la settimana

Total

Garante di un bucato pulito Qual è il segreto del successo di Total? «La marca mantiene ciò che promette», afferma Jolanda Staudt del Mibelle Group, che fabbrica il detersivo nelle sue diverse forme

*Azione 50% sul detersivo Total nel flacone da 5 litri e nella confezione speciale di 7,5 kg Fino all’8 febbraio fino a esaurimento scorte

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esempio quelle di vino rosso o di tè.

Inoltre gli sbiancanti hanno un effetto antibatterico.

Un detersivo universale è adatto a tutti i tessuti?

Jolanda Staudt, responsabile servizio clienti presso Mibelle Group.

Jolanda Staudt, qual è la differenza fra detersivo in polvere e detersivo liquido?

Contrariamente al detersivo liquido, quello completo in polvere contiene sbiancanti. In tal modo si possono eliminare le macchie tenaci come ad

Di regola i detersivi universali contengono degli schiarenti ottici, sostanze fluorescenti che fanno sembrare più bianchi i tessuti e più intensi i colori della biancheria colorata. Dal momento che il detersivo in polvere completo contiene inoltre degli sbiancanti, si dovrebbe utilizzarlo solo per i tessuti chiari e per quelli dai colori indelebili.

Il detersivo liquido universale non contiene sbiancanti. I detersivi per capi colorati contengono una sostanza che lega le particelle colorate in eccesso e impedisce così che i colori si stingano e passino da un capo all’altro. Dato però che non contiengono sbiancanti, col tempo i capi bianchi e quelli chiari possono ingrigirsi. Può anche capitare che le macchie colorate non vengano eliminate a sufficienza.

Che influenza ha il grado di durezza risp. il contenuto di calcare dell’ac-

qua sul dosaggio e sui risultati del lavaggio?

Oltre al grado di sporcizia, è importante la durezza dell’acqua locale.

Si può conoscerla interpellando il comune, l’azienda responsabile della fornitura dell’acqua o consultando internet*. A proposito delle quantità da dosare, o ci si attiene al grado di durezza locale e alle rispettive indicazioni sulla tabella di dosaggio, oppure si utilizza un decalcificatore e si dosa il detersivo secondo le raccomandazioni per l’acqua dolce.

Total è sul mercato da 80 anni e oggi è il detersivo più acquistato in Svizzera. Come si spiega questo successo?

Il segreto è: la marca mantiene ciò che promette. I suoi prodotti convincono nell’uso quotidiano offrendo un risultato ottimale col minimo sforzo. Questo grazie anche al vasto assortimento, che soddisfa le esigenze più diverse. Per mantenere questo livello, i prodotti di Total vengono continuamente rielaborati e migliorati sulla base dei risultati delle ultimissime ricerche. *www.wasserqualität.ch

Dosare correttamente

Non troppo e non troppo poco Un dosaggio troppo alto pesa inutilmente sull’ambiente e sul borsellino. Inoltre sulla biancheria possono rimanere dei residui.

Un dosaggio troppo basso ha quasi sempre per conseguenza un risultato insoddisfacente. Potrebbero anche apparire depositi di grasso (biancheria rancida) o i cosiddetti «pidocchi di grasso».

Sussiste il rischio di depositi calcarei sulla biancheria e il pericolo che la biancheria si ingrigisca e diventi ruvida.

L’industria Migros produce molti prodotti Migros, fra cui i detersivi di Total.

Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 1. febbraio 2016 ¶ N. 05

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 1. febbraio 2016 ¶ N. 05

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Idee e acquisti per la settimana

Famigros

Grande energia per piccoli sciatori

Yogurt alle pere con müesli Grattugiate grossolanamente 200 g di pere e mescolatele con 500 g di yogurt al naturale. Tritate 40 g di noci miste e tostatele brevemente insieme con 40 g di fiocchi d’avena, 1 cucchiaio d’olio e 1 cucchiaio di miele liquido. Tagliate 40 g di albicocche secche a dadini e incorporateli. Al momento di servire, distribuite il müesli sullo yogurt.

Testo Anette Wolffram Eugster; Foto Yves Roth; Styling Mirjam Kaeser

Che si tratti di studiare, di giocare o di sciare: i bambini consumano un sacco d’energia. Per questo motivo gli spuntini tra un pasto e l’altro, per esempio durante la pausa del mattino o a merenda, sono particolarmente importanti per i piccoli. Tuttavia, nell’interesse della loro prole, i genitori dovrebbero alimentarli nel modo più sano possibile, facendo attenzione alle fonti d’energia che assumono. Naturalmente, è sempre raccomandata frutta e verdura di stagione, meglio ancora se proviene dalla regione, così come i cereali e i derivati del latte. È altrettanto importante che i piccoli

Intervista

«Senza spuntino c’è un calo di prestazioni»

bevano a sufficienza, meglio se acqua minerale o tè di erbe o di frutta senza zucchero.

Quel che suona semplice in teoria, può richiedere davvero grossi sforzi nella pratica. Famigros fornisce consigli per pasti equilibrati e appropriati ai bambini, che sono facili e veloci da preparare. Ad esempio, che ne dite di uno yogurt alle pere con una miscela di müesli, di un wrap al formaggio fresco e carote oppure di un muffin ai mirtilli?

Altre gustose ricette per la merenda si trovano su: www.famigros.ch/spuntino.

Wrap con formaggio fresco e carote

Christina Daeniker Roth è esperta di alimentazione e salute.

Spalmate 150 g di formaggio fresco alle erbe su 4 tortillas integrali. Grattugiate grossolanamente 200 g di carote.

Tagliate 50 g di cavolo cinese in striscioline fini. Tritate poco prezzemolo.

Distribuite tutto sulle tortillas, condite con sale e pepe e arrotolatele.

Signora Daeniker Roth, perché lo spuntino del mattino e la merenda sono così importanti per i bambini?

Spesso i bambini non riescono a mangiare molto in una volta sola, dunque devono avere la possibilità di mangiare qualcosa tra un pasto principale e l’altro, ad esempio durante la pausa del mattino o a merenda. Senza lo spuntino mattutino, infatti, ci potrebbe essere un calo delle prestazioni scolastiche. I bambini sono sempre in movimento e in fase di crescita, perciò hanno bisogno di più energia rispetto agli adulti. Gli spuntini costituiscono un’integrazione e non sostituiscono i pasti principali.

Come dev’essere uno spuntino per essere sano?

La regola d’oro suona così: un frutto o un ortaggio con una bevanda non zuccherata. Secondo il bisogno si può aggiungere un prodotto a base di latte o di cereali oppure una manciata di noci. I prodotti lattieri consumati come spuntini mattutini o pomeridiani forniscono calcio e proteine, sostanze preziose per lo sviluppo delle ossa e dei muscoli.

Quanto tempo deve trascorrere tra la prima colazione e la pausa di metà mattinata e tra il pranzo e la merenda?

Da due a tre ore.

Perché la mela è va bene, mentre la banana no?

Muffin ai mirtilli Mescolate 200 g di farina con 200 g di zucchero greggio, 75 g di nocciole macinate, 1½ cucchiaini di lievito in polvere e 1 presa di sale. Mescolate 100 g di yogurt al naturale con 3 uova, 150 g di burro liquido e incorporate alla miscela di farina. Scaldate il forno a 180 °C. Foderate i 12 incavi di uno stampo per muffin con pirottini di carta. Versate la massa negli incavi. Distribuite 125 g di mirtilli surgelati sui muffin. Cuoceteli al centro del forno per ca. 30 minuti.

Ricette di

www.saison.ch

Le banane sono ricche di zuccheri e si attaccano ai denti, perciò sono più propense a provocare la carie. La stessa cosa vale per la frutta secca.

Cosa fa particolarmente bene sulle piste da sci?

Siccome durante le settimane bianche la maggioranza dei bambini fa una colazione più sostanziosa e più tardi del solito, riescono a resistere facilmente fino a mezzogiorno. L’importante è che poi si faccia una pausa con un pranzo equilibrato. Dopo le sciate del pomeriggio, quando i bambini tornano a casa, ci sta una merenda. Così hanno di nuovo l’energia per affrontare le attività sulla neve.

Gratuita e vantaggiosa Famigros propone un’avvincente piattaforma online, sulla quale i genitori possono informarsi circa i temi riguardanti la famiglia. Uno dei punti forti è la rubrica «Cibo & Bevande», dove troverete un’infinità di consigli per preparare pasti adatti alle diverse fasce d’età dei bambini.

Diventare membri del Club Famigros non costa niente! Ogni nuovo membro riceve Punti Cumulus moltiplicati per 10 e la vantaggiosa tessera Famigros.

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