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Tutela della salute: da diritto per tutti a privilegio per pochi?
Nino Cartabellotta
Presidente Fondazione GIMBE
Il diritto alla tutela della salute, definito “fondamentale” dai Padri costituenti, si rivela oggi uno dei più fragili ed evanescenti. Da un lato perché la sua esigibilità dipende dall’efficienza del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), la più grande opera pubblica mai costruita in Italia per garantire universalità, uguaglianza ed equità nell’accesso alle cure. Dall’altro perché il SSN si trova oggi in una crisi profonda, aggravata dal perenne conflitto istituzionale tra Governo e Regioni, con disuguaglianze regionali e territoriali sempre più marcate.
La Fondazione GIMBE, lanciando nel 2013 la campagna #SalviamoSSN 1 , aveva previsto che la perdita del SSN non sarebbe stata annunciata dal fragore improvviso di una valanga, ma si sarebbe manifestata come il lento e inesorabile scivolamento di un ghiacciaio attraverso anni, lustri, decenni. E dopo lo stress test della pandemia, questa previsione si è avverata, con dati e narrative inequivocabili: interminabili tempi di attesa, pronto soccorso al collasso, carenza di personale, migrazione sanitaria dal Sud al Nord, aumento della spesa privata e rinuncia alle cure, che nel 2023 ha coinvolto circa 4,5 milioni di italiani, di cui 2,5 milioni per motivi economici. Nel frattempo, la percezione pubblica del SSN si è deteriorata: la salute non più considerata un bene supremo da tutelare, ma una merce da acquistare, favorendo l’espansione del privato. Un rischio enorme, perché nessun sistema assicurativo potrà mai garantire la copertura globale del SSN. Il tema del finanziamento pubblico è cruciale, oltre che terreno di scontro politico. Sebbene il Fondo Sanitario Nazionale (FSN) sia cresciuto in termini assoluti, in rapporto al PIL ha negli anni subito un calo costante: dal 6,6% nel 2012 al 6,06% nel 2023, con un crollo previsto al 5,7% nel 2029. Un trend che ignora i crescenti bisogni sanitari legati all’invecchiamento della popolazione, all’aumento delle malattie croniche e ai costi sempre maggiori di farmaci e tecnologie sanitarie. A fronte di queste criticità, la Fondazione GIMBE ha proposto una combinazione di strategie per rifinanziare il SSN. Introdurre tasse di scopo su prodotti dannosi per la salute (tabacco, alcol, cibi e bevande zuccherati, gioco d’azzardo) rafforzando le politiche di prevenzione e promozione della salute. Ridurre gli sprechi, eliminando prestazioni sanitarie inappropriate e migliorando l’efficienza organizzativa e amministrativa. Ridistribuire le risorse tassando gli extra-profitti delle multinazionali e i redditi più alti. Potenziare le partnership pubblico-privato con una governance trasparente. In questo contesto di sottofinanziamento pubblico, le Regioni oggi faticano a garantire anche i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA): nel 2022, solo tredici Regioni hanno rispettato gli standard minimi, con la maggior parte di quelle inadempienti nel Mezzogiorno. Con una frattura strutturale tra Nord e Sud che rischia di essere legittimata normativamente dall’autonomia differenziata. A complicare il quadro si aggiunge la frammentazione dei dati sanitari 2 . In Italia manca una vera cultura dei dati, che,
pur essendo raccolti con denaro pubblico, non sono sempre accessibili in formato aperto e adeguato. Inoltre, la difficoltà di ottenere dati omogenei tra Regioni ostacola analisi basate su evidenze solide, impedendo di fotografare il sistema nella sua interezza e proporre soluzioni efficaci. Infine, il Fascicolo Sanitario Elettronico 2.0, tra criticità tecnologiche e diffidenza dei cittadini, è ancora un lontano miraggio. In questo scenario, emergono tre inderogabili necessità per l’assistenza pediatrica. Innanzitutto, estendere fino ai diciotto anni la presa in carico da parte del pediatra di famiglia, o almeno strutturare un “passaggio di consegne” con il medico di medicina generale. Attualmente, al compimento dei quattordici anni, l’adolescente viene lasciato a sé stesso proprio nella fase più delicata della crescita. In secondo luogo, potenziare le reti pediatriche per patologia, anche su base interregionale, valorizzando l’integrazione tra pediatria ospedaliera e territoriale e semplificando i percorsi assistenziali attraverso la telemedicina. Infine, introdurre nelle scuole programmi di alfabetizzazione sanitaria, promozione e prevenzione della salute e uso consapevole del SSN. Un esempio è il nostro progetto “La Salute tiene banco” 3 , che mira a rafforzare conoscenze e consapevolezza fin dall’età scolastica.
Se non si interviene tempestivamente, il rischio è enorme. Medici e infermieri, demotivati e sottopagati, continueranno ad abbandonare il servizio pubblico, lasciando scoperte intere aree assistenziali. Le innovazioni farmacologiche e tecnologiche diventeranno un privilegio per pochi, mentre un numero crescente di persone sarà costretto a rinunciare alle cure. Ecco perché la Fondazione GIMBE invoca un nuovo patto politico e sociale che vada oltre le ideologie partitiche e gli avvicendamenti dei Governi, riconoscendo nel SSN un pilastro della democrazia, uno strumento di coesione sociale e un motore per lo sviluppo economico. Un patto che deve impegnare i cittadini a essere utenti consapevoli e responsabili del SSN e tutti gli attori della sanità a rinunciare a privilegi acquisiti per salvaguardare il bene comune. Il SSN non è un lusso, ma un investimento sulle persone e sul futuro del Paese. Per garantirne la sopravvivenza servono risorse economiche, riforme coraggiose e una visione politica che ponga la salute al centro delle priorità. Ecco perché la politica deve rispondere con onestà a una domanda cruciale: quale sanità vuole lasciare in eredità alle generazioni future? Perché, senza un rapido cambio di rotta, il “ghiacciaio” continuerà a scivolare, lasciandoci spettatori impotenti di fronte alla dissoluzione del diritto alla tutela della salute, sancito dall’articolo 32 della nostra Costituzione.
Note
1. Cartabellotta A. Salviamo il Nostro SSN. Al via il progetto della Fondazione GIMBE Evidence 2013;5(3):e1000038, www.evidence. it/articolodettaglio/209/it/389/salviamo-il-nostro-ssn/articolo
2. The Italian health data system is broken. The Lancet Regional Health – Europe, Volume 48, 101206. January 2025, www.thelancet. com/journals/lanepe/article/PIIS2666-7762(24)00375-2/fulltext.
più il Fondo per il contrasto alla povertà educativa minorile
Paolo Siani
Direttore UOC Pediatria, Ospedale Santobono, Napoli
Il gruppo CRC ha diffuso a novembre 2024 la terza edizione del rapporto I dati Regione per Regione che, a cadenza triennale, raccoglie i principali dati disponibili su infanzia e adolescenza disaggregati su base regionale.
Fa impressione il dato sulla povertà relativa che coinvolge il 37,1% dei minori in Campania, il 44% in Calabria, il 27,9% in Sicilia, a fronte del 16,1% in Lombardia, 15,1% in Veneto e 15,9% in Emilia-Romagna. La media nazionale è del 22,3%.
Balza agli occhi la drammatica situazione in cui vivono i bambini del Sud rispetto a quelli del Nord.
Inoltre l’ufficio parlamentare di bilancio, in un documento molto articolato e dettagliato sullo stato di attuazione del PNRR per gli asili nido, afferma che, nonostante le azioni di supporto agli enti territoriali da parte delle amministrazioni centrali e i diversi interventi normativi introdotti per facilitare la realizzazione dei progetti del PNRR, permangono forti incertezze sul conseguimento dell’obiettivo sia in termini quantitativi (150.480 nuovi posti da realizzare) sia temporali (giugno 2026).
Nella legge di bilancio del 2016 era stato creato il “Fondo per il contrasto alla povertà educativa minorile” che prevedeva dei versamenti delle fondazioni di origine bancaria, alle quali veniva riconosciuto un credito di imposta (il credito d’imposta funziona a tutti gli effetti come una detrazione fiscale) pari al 75% del valore versato, sino a un massimo di 100 milioni di euro all’anno.
Si trattava di un’alleanza strategica tra Governo, fondazioni bancarie e terzo settore, che però non è stato rinnovato nella legge di bilancio approvata poche settimane fa in Parlamento. Eppure nel triennio 2016-2018 le fondazioni avevano alimentato il fondo con circa 360 milioni di euro, la legge di bilancio 2019 aveva poi confermato il fondo per il triennio 2019-2021, il decreto legge 23 luglio 2021, n. 105 ha poi disposto un’ulteriore proroga per il 2022 e il 2023. La legge di bilancio 2022 (legge del 30 dicembre 2021, n. 234) ha esteso ulteriormente la durata del fondo fino al 2024 come ci informa l’impresa sociale “Con i bambini” a cui l’ACRI (l’organizzazione che rappresenta collettivamente le fondazioni di origine bancaria e le casse di risparmio) ha affidato l’operatività del fondo. Il fondo dal 2016 ha raccolto ben 800 milioni di euro, di cui ne sono stati impegnati 466 in progetti che hanno coinvolto mezzo milione di ragazzi e le loro famiglie; ha creato comunità educanti, mettendo in rete oltre 9.500 organizzazioni tra scuole, associazioni, enti pubblici e privati.
Il fondo ha rappresentato per tante famiglie un’ancora di salvezza e per tanti ragazzi un’opportunità di crescita, soprattutto per le ragazze e i ragazzi del Sud dove mancano servizi, dove la scuola a tempo pieno è una chimera, e dove non ci sono o sono troppo poche le mense scolastiche e le palestre, per non parlare degli asili nido.
Vale la pena ricordare che in Italia quasi 1,4 milioni di bambini vivono in povertà assoluta e altri 2,2 milioni sono in povertà relativa.
Sappiamo bene ormai che la povertà economica è strettamente legata alla povertà educativa e che si trasmettono entrambe di generazione in generazione, come una malattia genetica.
Né si può obiettare che è stato stanziato un fondo di 1.000 euro per i bambini che nasceranno nel 2025; i bonus economici, pure utili naturalmente, non sostituiscono i servizi lì dove mancano. Ai bambini del Sud servono servizi, specie per la fascia 0-6 anni e per i primi mille giorni di vita, decisivi per uno sviluppo sano ed equilibrato.
Il CRC ci informa che il numero di posti nei servizi socioeducativi per la prima infanzia per 100 bambini di 0-2 anni in Campania è di 13,2, il più basso di tutte le Regioni (media italiana 30); in Calabria è di 15,7 registrando un miglioramento dal precedente rapporto ma ancora lontano, anche in questo caso, dalla media italiana; in Sicilia 13,9. In Lombardia invece è di 36, in aumento rispetto al precedente (31,7) e superiore di 6 punti rispetto alla media italiana; in Veneto 33,8 (era del 30,6 nel precedente rapporto) e in Emilia-Romagna 43,1, registrando un aumento dal precedente rapporto (40,1) e decisamente superiore rispetto alla media italiana.
Differenze territoriali ancora troppo elevate nel Paese. Il fondo per il contrasto alla povertà educativa minorile, servito a realizzare progetti pluriennali e a sviluppare buone pratiche in territori sprovvisti di servizi, andava incrementato e non cancellato.
È l’ennesimo furto ai danni dei bambini del Sud, un furto di futuro.
È abuso sessuale?
I dubbi
nell’ambulatorio pediatrico
Alessandra Paglino, Maria Grazia Apollonio
Gruppo ACP Maltrattamento all’infanzia
Definizioni e caratteristiche del fenomeno
Per abuso sessuale si intende il coinvolgimento, intenzionale e interpersonale, di un minore in esperienze sessuali forzate o comunque inappropriate dal punto di vista del proprio stadio di sviluppo, a cui non può liberamente consentire in ragione della sua giovane età e della preminenza dell’abusante, o che violi le leggi e i tabù della società. Tali esperienze possono non comportare violenza esplicita o lesioni; possono avvenire senza contatto fisico e/o essere vissute come osservatori passivi, con modalità ludiche e ambigue che sfruttano la relazione affettiva, utilizzando una comunicazione di tipo sessuale assolutamente inadeguata e dannosa. L’abuso può essere compiuto da adulti o altri minori che, in virtù della loro età o stadio di sviluppo, siano nei confronti della vittima in una posizione di responsabilità, fiducia o potere.
Spesso l’adulto abusante è una figura di riferimento per il bambino, nell’ambito familiare o extrafamiliare (luoghi di aggregazione, attività sportive, scuola).
Si tratta di un problema sociale e di salute pubblica, e si configura sempre come un attacco confusivo e destabilizzante alla personalità del minore e al suo percorso evolutivo: ogni abuso sessuale lascia segni destinati a perdurare nel tempo, che, se non adeguatamente individuati e trattati, possono determinare danni permanenti sulla salute fisica e psichica.
È di fondamentale importanza individuare l’estensione del fenomeno, in modo da definire ed applicare modalità personalizzate ed efficaci per affrontarlo: è necessario essere in grado di rilevare, lavorare in contesti multidisciplinari e avere le competenze per assistere le vittime, per mettere in atto le cure più adeguate e implementare strategie di prevenzione.
Entità del fenomeno
L’abuso sessuale è un fenomeno diffuso, trasversale a tutti i ceti sociali, indipendente da etnia di appartenenza, livello di istruzione e condizioni economiche.
L’esatta prevalenza dell’abuso sessuale sui bambini è difficile da
determinare per l’assenza di protocolli unificati e condivisi, difficoltà nella rivelazione da parte della vittima a causa della natura e della dinamica dell’abuso sessuale, basso numero di condanne nei percorsi giudiziari. Si stima che nel mondo la prevalenza, a seconda degli studi, vari dal 3 al 31%.
Secondo la II indagine nazionale sul maltrattamento di bambini e adolescenti in Italia, realizzata dall’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza, Fondazione Terres des Hommes e CISMAI, il 3,5% dei minori in carico ai servizi territoriali è vittima di abuso sessuale, ma molti casi rimangono sconosciuti in quanto solo un bambino su otto giunge all’attenzione dei servizi. Le indagini retrospettive rilevano una prevalenza superiore anche di dieci volte. Infatti molto spesso le storie di abuso sessuale vengono svelate dai bambini in età adulta. In uno studio della National Society for the Prevention of Crueltty to Children (NSPCC), condotto su 2.869 adulti tra i 18 e i 24 anni, risulta che l’11% di tali soggetti ha riferito di essere stato abusato in età infantile.
Gli ultimi dati del 2023 elaborati dal Servizio di Analisi Criminale della Polizia per il nuovo dossier della campagna InDifesa di Terre des Hommes, hanno riportato una cifra record nel numero dei minori vittime di reati in Italia: 6.952 casi nel 2023, il 25% in più rispetto a dieci anni fa. Si stima che il 61% delle vittime siano bambine e ragazze (89% per la violenza sessuale). Anche se in crescita nel decennio (+18%), risulta invece in calo nell’ultimo anno il numero dei minori vittime di reati legati alla pedopornografia (con “pedopornografia” si intende il materiale pornografico che utilizza minori in età prepuberale): -18% per la detenzione di materiale pornografico [Figura 1].
Figura 1. Minori vittime di reati, da dossier
Perché l’abuso sessuale fa male. Conseguenze a livello psicologico e comportamentale
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO, 2002) e più in generale la psicotraumatologia (National Child Traumatic Stress Network, Van der Kolk, 2005; APA, DSM-5, 2013) riconoscono l’abuso sessuale come un’esperienza traumatica, capace di determinare sofferenza psicologica e psicopatologia, diversi danni alla salute psicofisica e esiti post traumatici (il trauma è un’esperienza che sovrasta la nostra capacità di elaborazione e di fronteggiamento: la mente viene sottoposta a un eccesso di stimoli che non è in grado di gestire e integrare nel sistema psichico. Le usuali strategie difensive e di coping vengono sopraffatte e, pertanto, l’esperienza non è sostenibile emotivamente).
In un bambino vittima di trauma, soprattutto se cronico e precoce, si potranno osservare vari esiti, anche mediati da reazioni neurofisiologiche difensive rispetto a ciò che rappresenta una minaccia per la propria integrità e per la propria sopravvivenza.
A livello comportamentale, le risposte difensive di attacco o fuga di fronte al pericolo determinano uno stato di sovra-eccitazione, di perdita di controllo razionale, di iperarousal, con possibili manifestazioni di agitazione psicomotoria, di oppositività e, a volte, anche aggressività. Questo quadro comportamentale assume una valenza difensiva, nel senso che l’iperattivazione permette di non prendere contatto con le emozioni dolorose (“se rimango sempre in movimento, non entro in contatto con la sofferenza che mi porto dentro”).
Più spesso, tuttavia, un bambino non può né combattere né fuggire dal proprio aggressore (soprattutto se si tratta, come spesso avviene, di un familiare). Prevale, allora, la risposta difensiva di ipoarousal, di estrema sottomissione, di ripiegamento su di sé, di rassegnazione fino ad agire strategie dissociative di estraneazione, che permettono di non sentire il dolore e di enucleare le parti di sé sofferenti. A livello comportamentale potremo vedere bambini apparentemente depressi, inerti, poco reattivi, acquiescenti, adesivi alle richieste ambientali, sempre distratti. Possiamo pertanto osservare:
• Stati d’ansia, con sentimenti di allarme e di paura generalizzati.
• Alterazioni della percezione di sé, con senso di impotenza, indegnità, vissuti di colpa e di vergogna che possono esitare in depressione, anche con pensieri e tendenze suicidarie.
• Alterazioni nei rapporti con gli altri, con senso di sfiducia e un’irrisolvibile oscillazione tra il bisogno della vicinanza protettiva e la paura della valenza minacciosa di tale vicinanza; la paura induce a tentativi di controllo della relazione tramite comportamenti violenti ed aggressivi, o, al contrario, comportamenti di dipendenza, di compiacenza, o ancora con comportamenti sessualizzati. Questi comportamenti implicano il rischio di vittimizzazione dell’altro e/o di rivittimizzazione del soggetto.
• Alterazioni nella percezione dell’abusante, rispetto al quale il bambino si trova in una posizione di estrema dipendenza, per cui si può comportare nei suoi confronti in modo acquiescente e aderire all’idea trasmessa dall’abusante di responsabilizzazione della vittima e di autogiustificazione. Il risultato è che la vittima si adatta alla situazione di violenza per l’estremo senso di dipendenza, per lo sviluppo delle credenze patogene e per ottenere un minimo di vicinanza affettiva.
• Somatizzazioni: cefalee, disturbi del sistema digerente, sintomi cardiopolmonari, dolori cronici, maggiore vulnerabilità alle malattie organiche, sintomi da conversione, sintomi da disfunzioni sessuali.
• Frequenti disturbi del sonno, incubi e disturbi del comportamento alimentare.
• Disturbi comportamentali derivanti da manovre di autoconforto, quali masturbazione cronica, stereotipie motorie, automutilazioni. In adolescenza questi comportamenti possono esitare in devianza sociale, abuso di alcool e di droghe, attività sessuale indiscriminata o al contrario fortemente inibita, comportamenti di automutilazione, disturbi del comportamento alimentare e attività ad alto rischio.
• Difficoltà cognitive: pensieri distorti e disfunzionali principalmente relativi alla rappresentazione del mondo (che viene pensato come malvagio, del quale non ci si può fidare, dal quale non ci si può attendere nulla di buono) e del sé (pensato come svilito e spregevole).
• Frequenti anche le difficoltà a livello di memoria, di concentrazione, di apprendimento e di rendimento scolastico, soprattutto perché il bambino non ha energie mentali da dedicare alla concentrazione sui compiti scolastici, preso com’è dagli sforzi di evitare, anche con meccanismi dissociativi, il contatto con la sofferenza.
• Giochi ripetitivi in cui vengono espressi temi riguardanti l’evento traumatico o che riattualizzano il trauma, ma anche limitazione del gioco e del comportamento esplorativo.
• Comportamenti sessualizzati, che compaiono con una certa frequenza nei bambini abusati sessualmente, soprattutto in quelli in età prescolare. Pur non essendo un indicatore specifico (possono comparire anche in bambini non abusati ed essere assenti in bambini abusati) devono destare attenzione: la gravità dell’abuso subito pare correlarsi alla quantità/ qualità dei comportamenti sessualizzati. I comportamenti sessualizzati maggiormente indicativi di abuso (ovvero che compaiono raramente nei bambini non abusati) sono i seguenti (Friedrich et al., 1992) [Box 1].
Box 1. Indicatori che esprimono precoce e impropria sessualizzazione
– Conoscenze di aspetti della sessualità adulta anomale e inadeguate per l’età
– Tendenza all’erotizzazione dei rapporti come mezzo di socializzazione e richiesta di attenzioni
– Richieste di tipo sessuale ad adulti
– Ricerca compulsiva di giochi sessualizzati
– Iniziazione sessuale precoce in età infantile
– Disegni a contenuto sessuale
– Masturbazione compulsiva e che non cessa ai richiami dell’adulto
– Inserimento di corpi estranei in vagina o nell’ano
Il quadro comportamentale descritto aiuta a capire quanto sia difficile per un bambino vittima di abuso sessuale ribellarsi e chiedere aiuto: la modalità di difesa più efficace appare la sottomissione, il bambino tende a non credere nelle proprie capacità di reazione e nella capacità protettiva dell’ambiente esterno e, paradossalmente, a legarsi e a sperare nella clemenza proprio dell’aggressore adottando comportamenti di acquiescenza per ingraziarselo.
Questo meccanismo può indurre confusione anche negli operatori: un bambino che manifesta ambivalenza affettiva e acquiescenza comportamentale può venir letto come un bambino che non teme il genitore abusante, ma anzi vi è legato. Inoltre, purtroppo, ancora oggi le persone traumatizzate, adulte o bambine, sono vittime di letture diagnostiche o interpretative sbagliate: per esempio alcune diagnosi di ADHD, di disturbo oppositivo-provocatorio, di struttura borderline di
personalità, di depressione nascondono invece un quadro di disturbo da stress post traumatico. Pertanto, onde evitare di esporre queste persone a una vittimizzazione secondaria derivante da un mal-trattamento sanitario, è importante conoscere e tenere presente le reazioni e i disturbi post traumatici e nella valutazione includere sempre domande relative a esperienze traumatiche, vista anche l’ampia diffusione di tali esperienze (Raccomandazione n. 1, AACAP Official Action, 2010). Pertanto è di fondamentale importanza che il pediatra conosca e sia adeguatamente formato sugli indicatori anche comportamentali e psicologici di un sospetto abuso sessuale e che analizzi attentamente alcune variabili:
• Il momento in cui emergono i sintomi: in quel momento nella vita del bambino erano presenti altri fattori stressanti che potrebbero spiegarne il malessere?
• La modalità con la quale i sintomi compaiono: si presentano improvvisamente in un bambino che generalmente stava bene. Per esempio, il disturbo del sonno o del comportamento alimentare compare in un bambino che aveva sempre dormito e mangiato normalmente; un bambino che si era sempre recato volentieri a scuola improvvisamente inizia ad averne paura e a opporre resistenza alla frequentazione scolastica; un bambino in genere di buon umore cambia divenendo triste, apatico, scontroso ecc.
• La ricorrenza e la stabilità del quadro sintomatologico che perdura nel tempo e tende a stabilizzarsi. Tutti i bambini possono presentare occasionalmente delle paure notturne, fare degli incubi, avere delle ansie di separazione, apparire tristi… ma se questi sintomi si ripetono con frequenza e stabilità possono essere indicatori di un malessere che va approfondito:
• Il comportamento del genitore, che può per esempio ritardare nel portare il bambino dal medico anche in caso di lesioni, riferire una dinamica causale poco coerente con quanto osservato, apparire poco preoccupato per il bambino e piuttosto controllante verso lo stesso e verso il medico…
• La relazione genitore-bambino: il bambino può apparire spaventato dal genitore o estremamente passivo e acquiescente verso il genitore, può cercare la sua approvazione prima di rispondere a eventuali domande…
• Il comportamento del bambino: appare spaventato o iperacquiescente? Appare come congelato e in ipercontrollo rispetto all’ambiente e alle proprie reazioni comportamentali? Si rifiuta di sottoporsi alla visita medica e in particolare rifiuta di spogliarsi?
Il professionista medico è anche coinvolto, nell’ambito di una rete multi-disciplinare, nella valutazione delle risorse residue in ambito familiare e, dunque, nella prognosi circa la recuperabilità o trattabilità della famiglia e nel trattamento del minore stesso.
È importante sottolineare che l’intervento in ogni sua fase deve caratterizzarsi per multidisciplinarietà e interistituzionalità. Infatti, sia la diagnosi che il trattamento di abuso non devono mai essere compito di un solo professionista né di un’unica figura professionale. Fin dal primo sospetto è essenziale che il caso venga congiuntamente discusso e analizzato da coloro che hanno contatto con il bambino e con la famiglia e che i diversi professionisti (pediatra, magistrato, assistente sociale, psicologo, medico, ecc.) possano confrontarsi. Solo dalla collaborazione di équipe integrate, infatti, possono emergere interventi efficaci, capaci di tenere conto di tutte le complesse esigenze del minore e del suo nucleo familiare.
Tanto più precoce è il riconoscimento della violenza e specifico, integrato e multi-professionale il trattamento posto in atto, tanto migliore è la prognosi circa la possibile guarigione del bambino dagli esiti post traumatici e circa la recuperabilità della famiglia.
Rilevazione e valutazione
La valutazione di un sospetto abuso sessuale può essere paragonata alla realizzazione di un puzzle composto da diversi pezzi: la storia medica, la storia psicosociale, l’esame fisico, i reperti laboratoristici. Il racconto spontaneo del minore è considerato da tutta la letteratura internazionale l’indicatore più specifico di abuso sessuale, ma la maggior parte dei bambini e delle bambine non ne parla spontaneamente o ne parla molto tardi e spesso solo in età adulta.
I bambini possono esprimersi attraverso sintomi ai quali è necessario prestare attenzione. Molti di questi sono aspecifici, ma devono essere presi in considerazione perché indicativi di un disagio del bambino. I comportamenti sessualizzati e autolesivi dei minori sono segnali che hanno al contrario una maggiore specificità nell’ipotesi di un abuso sessuale, pur non essendo patognomonici di abuso.
È necessario integrare vari indicatori, al fine di delineare un’ipotesi di abuso sessuale: il singolo segnale può infatti non essere significativo da solo di un’esperienza traumatica, mentre una lettura complessiva della situazione del bambino permette di orientare gli operatori verso una situazione che può essere valutata di grave pregiudizio per il minore.
L’intervento del pediatra
Le vittime spesso non riescono a dare un nome a quanto è loro successo e non riescono ad esprimere i loro sentimenti in parole, ma il corpo può raccontare le loro storie.
Ci sono diversi possibili scenari in cui il pediatra può trovarsi ad effettuare la visita medica:
a. Visita medica per bilancio di salute (l’ispezione dell’area genitale dovrebbe sempre essere effettuata dal pediatra durante i bilanci di salute e il pediatra dovrebbe prendere confidenza con l’area genitale).
b. Visita medica per sintomi non associati ad abuso sessuale dove si rileva un sospetto.
c. Visita medica dopo che i genitori o il bambino hanno rivelato un evento avvenuto tempo prima.
d. Visita medica effettuata in occasione di un evento appena occorso.
Sono tipi di visite con approcci e tempistiche diverse:
• Visita in emergenza (cioè subito) se sono presenti segni o sintomi medici o psicologici di allarme quali dolore o sanguinamento, idee suicidarie, abuso verificatosi nelle precedenti 72 ore, per la raccolta di tracce biologiche, necessità di contraccezione d’urgenza o di profilassi per IST, incluso HIV. In questo caso la visita è da effettuarsi possibilmente in un ambiente dedicato e non dal pediatra di famiglia.
• Vista urgente, da effettuarsi entro 1-7 giorni se il contatto sessuale si è verificato nelle precedenti 2 settimane. La letteratura raccomanda di effettuare la visita urgente comunque non appena siano state messe in atto tutte le misure di sicurezza per la tutela del minore.
• Visita non urgente: sospetto abuso per racconto, comportamenti sessualizzati o altro, ma l’abuso si è verificato da più di 2 settimane (Adams, 2016).
Gli obiettivi di una visita precoce sono molteplici:
• individuare lesioni genito/anali e malattie sessualmente trasmissibili;
• prevenire gravidanze mediante la contraccezione di emergenza per le bambine puberi;
• raccogliere reperti di interesse medico legale e documentazione che potrebbe essere utile in sede giudiziaria;
• tutelare l’integrità fisica ed il benessere psicologico della vittima rassicurandola sul suo stato di salute.
La visita medica andrebbe posticipata solo nel caso in cui il bambino non sia collaborante e non acconsenta a effettuarla, nonostante le rassicurazioni.
Se il medico che dovrà eseguire la visita clinica non ha specifiche competenze è raccomandabile inviare il minore al centro ospedaliero o territoriale specializzato più vicino.
La visita medica raramente fornisce una prova definitiva dell’abuso sessuale avvenuto e l’assenza di segni fisici non lo esclude mai. A conferma di questo, anche nei bambini e negli adolescenti in cui c’è evidenza certa che l’abuso sessuale sia avvenuto (es. gravidanza, documentazione fotografica dell’abuso), l’esame anogenitale può essere del tutto normale. L’esame medico è però importante per il riconoscimento di eventuali segni di origine traumatica e per predisporre trattamenti finalizzati ad avviare il processo di guarigione. Quanto più precocemente si individua l’abuso sessuale tanto più è possibile limitarne le conseguenze. In questo, gli operatori sanitari hanno un ruolo chiave nell’identificazione, trattamento e segnalazione dei casi sospetti. Nonostante sia ampiamente documentata in letteratura la necessità di training specifici, spesso gli operatori sanitari non posseggono adeguate conoscenze e competenze tecniche ed emotive per la presa in carico di un minore sospetta vittima di abuso sessuale. Pertanto, per limitare gli errori diagnostici (falsi negativi/falsi positivi) e ulteriori traumi per il minore, è di vitale importanza che la visita sia effettuata da operatori con specifiche competenze. Gli operatori sanitari devono saper identificare segni e sintomi di abuso, diagnosticare e fornire cure mediche in caso di lesioni, infezioni o altre condizioni patologiche che siano correlate o meno all’abuso. È importante che facciano una completa e accurata valutazione medica e che li rassicurino circa il loro stato di salute. È importante garantire privacy e riservatezza, senza mai usare la forza o l’inganno. In particolare, se il minore non è tranquillo nella valutazione dell’area genitale e non collabora, è opportuno riprogrammare la visita, se le circostanze lo permettono. È importante osservare il comportamento e lo stato emotivo durante la visita, che deve essere riportato nella documentazione. Soltanto in rarissimi casi si procede alla sedazione, quando i benefici risultino indubbiamente superiori ai potenziali rischi (per esempio in caso di lesioni vaginali e/o anali che richiedano trattamento chirurgico, oppure corpi estranei vaginali e/o anorettali o sanguinamenti importanti o di natura da diagnosticare).
Da un punto di vista psicologico è fondamentale che il bambino sia preparato alla visita medica da parte di operatori competenti, in modo da ridurne lo stress e aumentarne la collaborazione. Inoltre, la visita medica può veicolare al bambino un messaggio di integrità corporea, rassicurandolo sullo stato del suo corpo e contrastando il vissuto, comune nei bambini abusati, di un “corpo danneggiato e non normale”.
Accoglienza
Poiché non sempre è possibile programmare la prima valutazione medica di un bambino sospetta vittima di abuso sessuale, spesso la visita può non essere effettuata nel migliore dei contesti. È comunque fondamentale cercare di garantire, per non traumatizzare ulteriormente i bambini, un ambiente quieto e riservato, quando possibile con la presenza di un secondo operatore sanitario, che sia di supporto sia per chi effettua la visita, sia per il minore. È importante effettuare, se possibile, la visita alla presenza di un adulto di fiducia, che rimanga accanto al bambino durante la valutazione clinica e che lo assista mentre si sveste e si riveste. È fondamentale disporre di adeguato tempo per poter ottenere la fiducia dei bambini e avere il loro consenso alla visita, fornendo spiegazioni sulle modalità e sulle ragioni della visita, utilizzando un linguaggio adeguato all’età.
Anamnesi
La raccolta dei dati anamnestici e del racconto costituiscono la base per la valutazione medica. È importante che gli operatori siano competenti, empatici, non giudicanti e obiettivi. È
fondamentale non fare domande induttive, ma raccogliere il racconto spontaneo, avendo cura di riportare le frasi dei bambini integralmente ed evitando di far ripetere il racconto più volte. È necessario valutare la congruenza tra la dinamica, i tempi dei fatti e il quadro clinico riscontrato e programmare eventuali ulteriori indagini.
Come raccogliere il racconto di un bambino traumatizzato
Al piccolo e al suo genitore protettivo vanno offerti spazio, tempo e disponibilità all’ascolto. La narrazione degli eventi traumatici è un momento particolarmente importante e delicato per il minore vittima. Un atteggiamento freddo, poco accogliente, poco empatico, o spaventato da parte di chi ascolta potrà facilmente indurre il bambino al silenzio. Il Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l’abuso dell’infanzia (CISMAI) raccomanda di raccogliere attentamente e approfondire sempre la rivelazione anche se si presenta frammentaria, confusa e bizzarra e avviene per fasi che possono non risultare lineari e logiche, certamente facendo attenzione a evitare elementi di suggestione negativa e positiva. Alcuni punti chiave da seguire sono:
• Porre particolare attenzione ai vissuti e alle emozioni del bambino, esplicitando che siamo consapevoli che si tratta di un momento difficile in cui gli si chiede di parlare di fatti dolorosi. Può venire riformulato il comportamento non verbale osservato (“vedo che ti viene da piangere, vedo che stai tremando, mi rendo conto che stai parlando di cose che fanno male, difficili da dire”).
• Usare un linguaggio semplice.
• Evitare domande complesse, poco chiare e lunghe o domande doppie.
• È preferibile rivolgere al bambino domande aperte (es. “raccontami quello che ti ricordi”, “cosa è successo dopo?”, “dimmi ancora qualcosa a proposito di…”, “c’è dell’altro?”), anche spiegandogli che l’intervistatore non era presente agli eventi e che, quindi, ha bisogno di apprenderli dal bambino stesso.
• Può anche essere utile ricordare al bambino di essere interessati a quanto da lui direttamente vissuto e non a ciò che gli è stato riferito o ha sentito raccontare.
• Gli va spiegato che ha il diritto di dire “non lo so, non ricordo, non voglio rispondere, non ho capito la domanda”, di chiedere chiarimenti.
• Evitare domande di tipo suggestivo-direttivo, ovvero quelle che introducono elementi e particolari degli eventi mai riferiti dal bambino: per esempio “papà ti ha fatto vedere il pene?”, quando questa cosa non è stata detta dal bimbo; o se il bambino dice “ho fatto un gioco con il papà” è scorretto chiedere “papà ti ha toccato sui genitali?” ed è corretto invece chiedere “com’è questo gioco?”; o ancora se il bambino dice “ papà è stato cattivo” è preferibile chiedere “in che modo è stato cattivo?”, piuttosto che “cosa ti ha fatto papà?”
• Al termine del colloquio, è importante ringraziare il bambino per quanto detto e riconoscergli la fatica fatta e il coraggio necessario per affrontare tale fatica.
• Da evitare promesse non sostenibili, per esempio che di quanto detto non si parlerà con nessuno o che non dovrà mai più ripetere il racconto o che l’abusante verrà sicuramente punito: è rispettoso nei confronti del bambino dirgli la verità, ovvero che per tutelarlo e aiutarlo dobbiamo condividere quanto ci ha raccontato con altri adulti che possono intervenire e che vorranno ascoltare da lui quanto accaduto anche al fine di valutare se e come punire l’abusante. Per effettuare una corretta rilevazione qualunque professionista deve anche fare i conti con le proprie emozioni, che spesso inducono a respingere l’idea di un possibile abuso, tanto da “rendere invisibili” gli indicatori e a determinare un mancato o inadeguato intervento.
Esame obiettivo
Nel corso della visita medica il minore deve essere visitato “dalla testa ai piedi” esaminando ogni singola parte del corpo, compresa l’area genitale, avendo cura di ricoprire le varie parti man mano che si procede. È bene ricordare di ispezionare l’orofaringe, dal momento che i contatti orogenitali sono frequenti nell’abuso sessuale. Devono essere valutati eventuali segni di trascuratezza e di maltrattamento fisico, ponendo particolare attenzione all’igiene del corpo, all’igiene orale e ai capelli. Devono essere misurati il peso e l’altezza e valutato lo stadio puberale, secondo la stadiazione di Tanner. Si ribadisce l’importanza di effettuare una valutazione complessiva per poter restituire ai bambini il concetto di “integrità corporea”, cosa che potrebbe essere preclusa se si limita la visita alla sola area genito-anale.
Esame dell’area genito-anale
Per visitare la regione genito-anale nelle bambine si utilizzano tre posizioni, come illustrato nelle Figure 2-3-4
Figura 2: la posizione supina, solitamente ben accettata, permette una buona visualizzazione dell’area vulvare, dell’introito vaginale e dell’ano (A). È possibile visitare le bambine più piccole in questa posizione tenute in braccio da un adulto di fiducia. Per una chiara visualizzazione dell’anello imenale si utilizza la tecnica di trazione delle piccole e grandi labbra (B).
Figura 3: in posizione genupettorale la bambina si posiziona sulle mani e sulle ginocchia (C). Questa posizione è talvolta meno gradita, perché l’operatore sanitario sta alle spalle, fuori dalla vista della bambina, ma è fondamentale per confermare segni rilevati nella posizione supina. Per una chiara visualizzazione dell’ano si effettua una leggera trazione dei glutei (D);
per la visualizzazione dell’anello imenale si utilizza la tecnica di trazione delle piccole e grandi labbra (E).
Figura 4: posizione in decubito laterale sinistro. È importante conoscere bene l’anatomia dell’area genito-anale delle bambine prepuberi, le tante varianti anatomiche e i processi di estrogenizzazione tipici dell’età puberale. L’ostio vaginale è circondato da un bordo di tessuto che è chiamato imene. È consuetudine descrivere l’imene e l’ano avvalendosi del paragone con il quadrante dell’orologio (le ore 12 corrispondono alla zona sub-uretrale e le ore 6 alla linea mediana del retto in posizione supina) [Figure 5-6].
Nella bambina prepubere il tessuto imenale può essere completamente assente nella zona sub-uretrale. La porzione di tessuto presente posteriormente può essere più o meno rappresentata per cui il bordo posteriore può essere più o meno alto, configurando il cosiddetto imene semilunare, il più frequente nelle bambine. In un’altra comune conformazione dell’imene il tessuto circonda completamente l’ostio vaginale (imene anulare). L’imene, come gli altri organi genitali, è sotto l’influenza degli ormoni sessuali. Gli estrogeni, per esempio, rendono il tessuto imenale più ridondante, in modo che spesso si ripiega su se stesso rendendo i margini ondulati e copre spesso l’ostio vaginale. Il mito che l’imene si “rompa” con il primo rapporto ha portato al pregiudizio che con la sola visita sia possibile determinare se ci sia stata attività sessuale in almeno un’occasione; spesso operatori non sanitari o medici senza esperienza specifica si aspettano che atti di tipo penetrativo lascino sempre segni fisici di chiara evidenza e credono che un medico possa determinare con assoluta certezza mediante la visita se una donna o un’adolescente sia “vergine”. La spiegazione scientifica che la
Figura 5. Imene.
Figura 6. Ano.
letteratura riporta sulla mancanza di segni fisici è che la penetrazione non porta sempre a visibili danni dei tessuti e/o che le ferite acute possono guarire senza lasciare alcun reliquato. Per i maschi vengono utilizzate la posizione supina per l’ispezione dell’area genitale e il decubito laterale per l’area anale. Nei bambini molto piccoli può talora essere utilizzata la posizione prona con rialzo del bacino (per esempio con un cuscino) oppure in braccio a un adulto che mantenga le gambe del bambino/a in posizione flessa e abdotta.
Segni fisici e tempi di riparazione delle lesioni
I segni fisici nei casi di abuso sessuale sono causati da traumi, ovvero azioni di natura meccanica (sfregamento, stiramento, compressione, ecc.). Gli effetti dei traumi sessuali possono essere di natura contusiva (ecchimosi, ematomi) o discontinuativa (abrasioni, escoriazioni, ferite). In linea più generale tali segni variano a seconda della presenza di diversi fattori:
• tipo di azione abusante;
• eventuale forza usata;
• età e stato puberale;
• frequenza degli atti abusanti;
• tempo intercorso dall’ultimo presunto episodio.
In riferimento ai soli segni fisici le indicazioni fornite dalla letteratura scientifica e le classificazioni proposte possono guidare nella corretta interpretazione (classificazione Adams, 2023) [Figura 7].
Spesso però l’abuso sessuale non produce segni evidenti e molte delle lesioni prodotte sono superficiali. Le lesioni anogenitali traumatiche, anche quando presenti, guariscono rapidamente, spesso senza lasciare traccia e nella maggioranza dei casi non sono più evidenziabili a breve distanza di tempo da quando sono state provocate perché il processo riparativo non ha lasciato reliquati.
Il processo riparativo delle lesioni anogenitali non differisce infatti da quello di qualsiasi altra lesione di ugual natura in altre regioni corporee e prevede la stessa evoluzione anatomopatologica: trombosi e attivazione delle cellule dell’infiammazione, rigenerazione delle cellule danneggiate, moltiplicazione di nuove cellule e differenziazione di nuovo epitelio. Nelle ferite più profonde, il processo di rigenerazione delle cellule danneggiate è completamente attivo tra le 48 e le 72 ore, e il processo di moltiplicazione e differenziazione ha inizio dal 5° al 7° giorno. Il completo ripristino dei tessuti richiede da 4 a 6 settimane; la maturazione di tessuto cicatriziale può richiedere un periodo di almeno 60-180 giorni.
Molti studi hanno dimostrato che il 90-95% dei bambini che hanno dichiarato in modo credibile di essere stati abusati hanno reperti clinici normali o segni fisici non specifici, infatti la risposta alla domanda “il minore è stato abusato?” si trova raramente sul corpo.
Vanno quindi evitate conclusioni che escludano con assoluta certezza che il fatto sia avvenuto. Il medico non può infatti, se non molto raramente, formulare un’ipotesi diagnostica definitiva solo sulla base dei risultati dell’esame obiettivo. Il racconto del minore è considerato in letteratura il fattore più importante nella diagnosi di abuso sessuale. Si ribadisce quindi l’importanza di una raccolta anamnestica corretta e non induttiva e di un approccio multidisciplinare alla diagnosi.
Malattie sessualmente trasmissibili
I bambini vittime di abuso sessuale sono a rischio di contrarre infezioni sessualmente trasmissibili (IST), seppure sia relativamente poco frequente la trasmissione, date le modalità che caratterizzano la maggior parte degli abusi. D’altra parte l’abuso sessuale risulta essere la più probabile modalità di trasmissione di infezioni sessualmente trasmissibili nei bambini.
Non è raccomandata in letteratura l’effettuazione di uno screening per IST su tutte le presunte vittime di abuso sessuale, ma è necessario saper valutare come e quando procedere ad approfondimenti diagnostici. Si raccomanda di sottoporre a screening per IST i bambini che hanno una storia di penetrazione vaginale e/o anale e/o orofaringea, quelli che vivono in aree ad alta prevalenza di IST o che sono stati abusati da un estraneo o da una persona a elevato rischio IST o i cui conviventi hanno una IST. Devono inoltre essere sottoposti a screening i minori a cui era stata precedentemente diagnosticata una IST, quelli che presentano segni e sintomi suggestivi di IST e tutti gli adolescenti in cui si sospetti sfruttamento sessuale online a scopo commerciale.
La sede e il tipo di esame da effettuare varia in base alle modalità di contatto sessuale e dipende da caso a caso; sono da preferirsi test diagnosti-
Figura 7. Anamnesi ed esame fisico, modificata da Fulghesu, 2018.
ci che utilizzino tecniche di amplificazione degli acidi nucleici (NAAT) su campioni di vario tipo (tamponi faringei, anali, vulvari, transimenali o vaginali o urine).
Determinare l’abuso sessuale come la fonte dell’infezione con un certo grado di certezza implica l’esclusione di altre possibili vie di trasmissione. Molte delle infezioni sessualmente trasmissibili possono essere infatti trasmesse verticalmente dalla madre al bambino durante la gravidanza, il parto o nel periodo perinatale. La trasmissione verticale è pertanto una possibilità, ma l’identificazione di una trasmissione non sessuale può non escludere a priori l’abuso. Le evidenze scientifiche non aiutano a stabilire a che età sia possibile escludere la trasmissione verticale e non esistono ricerche che indichino un’età cut-off definitiva.
Nella presa in carico di un bambino sospetta vittima di abuso sessuale, è da tenere in considerazione la possibilità di sottoporre a screening anche fratelli e sorelle, i genitori (per valutare anche la trasmissione verticale) ed eventuali altre persone conviventi.
Il significato di un’infezione sessualmente trasmissibile in un bambino prepubere con storia di sospetto abuso sessuale richiede quindi un’attenta interpretazione degli esami di laboratorio. Dall’analisi della letteratura risulta che sono da considerarsi probabili conseguenze di abuso sessuale, dopo aver escluso la trasmissione perinatale e dopo conferma con appropriati test diagnostici:
• le infezioni anali, genitali o faringee da Neisseria gonorrhea (raramente acquisite in epoca perinatale e oltre il periodo neonatale);
• la sifilide;
• le infezioni da Chlamydia trachomatis faringee, genitali e anali in bambini di età superiore ai tre anni;
• le infezioni da Trichomonas vaginalis isolato da secrezioni vaginali o urine;
• le infezioni da HIV se esclusa anche la trasmissione attraverso prodotti ematici o aghi contaminati.
Sono invece infezioni trasmissibili sia per contatto sessuale che non sessuale e quindi richiedono ulteriori informazioni anamnestiche:
• mollusco contagioso anale o genitale;
• HSV 1 e 2 orale, genitale o anale e i condilomi acuminati (HPV) anali o genitali;
• Gardnerella vaginalis urogenitale (reperibile anche nella normale flora vaginale in prepuberi e adolescenti);
• Mycoplasma genitalium o urealyticum urogenitale (a trasmissione sessuale negli adolescenti, non ancora definitivamente chiarita la trasmissione e la prevalenza nei bambini).
La prevalenza di IST in diversi studi varia a seconda della distanza dall’abuso sessuale in cui vengono effettuati i test (più elevata per i test eseguiti entro 5 giorni), dei protocolli in uso e della competenza dell’esaminatore. Negli studi esistenti in letteratura nei casi in cui si può escludere la trasmissione verticale, la prevalenza di IST è del 7,9% per Chlamydia e del 2,5% per N. gonorrhea. I test diagnostici vengono raccomandati anche nel follow-up [Figura 8].
Documentazione
Durante la visita medica l’operatore sanitario deve raccogliere tutti i dati della visita all’interno della cartella clinica, con attenzione e precisione. I termini utilizzati non devono essere ambigui o
frutto di interpretazione, soprattutto per quanto riguarda la storia raccontata dal minore e/o dagli accompagnatori. Si raccomanda di riportare esattamente i termini utilizzati dal minore per raccontare la storia, trascrivendola tra virgolette. I dati da raccogliere ed annotare in cartella clinica sono:
• generalità del minore e degli accompagnatori;
• motivazione della richiesta della visita;
• racconto del minore e degli accompagnatori;
• anamnesi familiare, fisiologica, patologica remota e patologica prossima;
• esame obiettivo generale e genito-anale;
• materiale fotografico, qualora possibile e opportuno [Box 2];
• comportamento del minore durante la visita;
• test di laboratorio/strumentali e consulenze specialistiche se effettuati e/o richiesti;
• terapia e profilassi.
Cosa fa il pediatra dopo aver rilevato un sospetto. Segnalazione, protezione del minore, attivazione della rete
È obbligo del sanitario riferire all’autorità giudiziaria lo stato di pregiudizio del minore secondo le normative vigenti, ricordando che l’abuso sessuale contro un minore è sempre un rea-
Figura 8. Screening per IST, modificato da Fulghesu, 2018.
Box 2. Documentazione fotografica
La necessità di raccogliere documentazione fotografica va attentamente valutata in base alla situazione e al medico che la può raccogliere. Infatti, anche se viene indicata in letteratura come metodica standard, in particolare in caso di lesioni fisiche evidenti, data la loro bassa frequenza anche in casi di abuso sessuale accertati, si deve tenere conto di alcuni elementi: – Affinché possa essere di reale supporto all’esame clinico è necessario che le immagini siano di adeguata qualità, tali da rendere evidenti i segni clinici che si vogliono documentare (se ciò non è possibile è necessario evidenziare la discrepanza nella relazione).
– Per ottenere una buona documentazione fotografica vanno utilizzati apparecchi fotografici analogici o digitali di qualità.
L’operatore dovrebbe avere conoscenze fotografiche di base e conoscere le implicazioni medico legali della fotodocumentazione.
– Va valutato lo scopo della documentazione, se clinico o ai fini forensi (che richiedono tecniche specifiche).
– Le foto dovrebbero essere archiviate, trasferite e conservate in accordo con la policy/raccomandazioni/indicazioni dell’ospedale o della clinica o istituzione dove vengono raccolte e la loro pubblicazione va valutata molto attentamente.
– Qualora la documentazione fotografica sia opportuna è raccomandato di richiedere il consenso esplicito al minore (se appropriato) o a un caregiver neutrale.
Gli obiettivi di una documentazione fotografica sono:
– supportare l’esame clinico ed evitare di sottoporre il minore a visite ripetute in caso di lesioni dubbie;
– permettere una successiva analisi da parte di altri specialisti, che altrimenti non potrebbe essere effettuata per la fisiologica riparazione delle lesioni.
Anche se foto e video di qualità diagnostica, possono essere revisionate da esperti per la garanzia della qualità e l’utilizzo nei procedimenti giudiziari, tuttavia le immagini non sostituiscono mai una dettagliata descrizione scritta dei reperti della visita medica
Un pediatra esperto in abuso può essere chiamato a valutare il rischio di abuso sulla base di documentazione fotografica, ma deve essere consapevole che la qualità della documentazione può direttamente influenzare gli esiti nei casi di abuso sessuale. Una testimonianza davanti alla Corte Giudiziaria necessita di competenze che non sempre sono acquisite nella pratica clinica. In letteratura sono pubblicate linee guida e indicazioni indispensabili per una corretta e adeguata testimonianza dei medici che spesso sono chiamati a spiegare perché la visita medica non può né provare né escludere che l’abuso sessuale sia avvenuto (Giolito, 2010; Adams, 2023)
Da Giolito, 2010; Adams, 2016; Adams, 2023; Ricci 2011; Smith 2020
to procedibile d’ufficio e vige per il pediatra l’obbligo di segnalazione/referto in caso di fondato sospetto [Box 3]. Spesso il pediatra evita di compiere questo passo per la preoccupazione che l’autorità giudiziaria o i servizi sociali possano intromettersi recando danno alla famiglia o allontanando il bambino. Il pediatra deve occuparsi della sicurezza del bambino: sarà al sicuro al suo rientro a casa oppure il perpetratore potrà avvicinarglisi nuovamente? Potrà essere punito o minacciato a causa della rivelazione? Se la risposta è “sì” o “forse”, è suo dovere mettere in atto misure di protezione per evitare ulteriori abusi, eventualmente con l’ospedalizzazione o con l’inserimento urgente in comunità protette (applicazione dell’art. 403 c.c.).
Attivazione della rete
Il pediatra potrebbe sovrastimare la propria capacità di risolvere la situazione da solo senza chiedere l’intervento delle agenzie preposte a questi compiti.
La rilevazione, la diagnosi, la presa in carico e il trattamento dell’abuso sessuale costituiscono problemi complessi in cui si intrecciano aspetti medici, psicologici, sociali e giuridici; ciò rende indispensabile il coinvolgimento di più figure professionali e quindi l’unico strumento possibile e idoneo per affrontarlo è il lavoro in équipe multidisciplinari. Qualsiasi situazione affronti, il pediatra deve quindi conoscere quali risorse sono disponibili presso il territorio in cui opera. Per le condizioni di emergenza/urgenza è utile predisporre un elenco dei seguenti numeri telefonici: magistrato di turno presso la procura minorile; magistrato di turno presso tribunale ordinario; ufficio polizia minorile; servizi sociali territoriali o ospedalieri; medicina legale; neuropsichiatria infantile.
Note pratiche per il pediatra di famiglia Se un genitore riferisce di un possibile abuso sessuale subito dal figlio, il pediatra dovrebbe immediatamente allontanare il bambino, se presente, per evitare di influenzarlo. Spesso il ge-
nitore vuole essere rassicurato oppure presenta una preoccupazione eccessiva riguardo allo sviluppo sessuale del bambino o ha dei dubbi su chi lo accudisce. Anche se l’evento raccontato può apparire improbabile, il pediatra è tenuto a una scrupolosa e obiettiva valutazione della situazione. Nei casi in cui sospetta l’abuso dovrebbe essere in grado di ascoltare il bambino e decidere il provvedimento più opportuno, come un invio immediato a una struttura specializzata o una segnalazione all’autorità competente. Talvolta la famiglia viene in ambulatorio rivelando direttamente il fatto, oppure il pediatra riscontra durante una visita segni ai genitali compatibili con abuso sessuale o accerta un’infezione a possibile trasmissione sessuale. Qualsiasi situazione affronti, il pediatra deve conoscere quali risorse sono disponibili presso il territorio in cui opera, deve aver svolto un programma di formazione su questo problema e deve saper affrontare cinque questioni fondamentali:
• La sicurezza del bambino. Se ha dubbi deve immediatamente contattare l’autorità giudiziaria e il servizio sociale per i necessari provvedimenti di protezione [Box 3].
• La segnalazione all’autorità competente [Box 3].
• La salute mentale del bambino. La rivelazione di un abuso è un evento molto stressante per un bambino. Dovrebbe essere sempre effettuata una valutazione del suo stato mentale ed essere intrapresa un’opportuna terapia.
• La necessità di un esame clinico ispettivo. In caso di sospetto deve essere eseguito un corretto esame clinico con tempistiche e approcci diversi a seconda dei casi
• La necessità di una raccolta di prove medico-legali. Sono disponibili raccomandazioni italiane (Giolito, 2010).
Alla rivelazione di un abuso sessuale, i genitori possono vivere sentimenti contrastanti, passando da un senso di colpa per non aver saputo proteggere il bambino, fino ad arrivare a una rabbia rivolta all’abusante. Alcuni genitori vorrebbero rimuovere, cancellare o nascondere a sé stessi tale esperienza; inol-
Box 3. Normative vigenti e segnalazione
La legge contro la violenza sessuale (legge n. 66 del 15 febbraio 1996) dichiara che i reati sessuali sono delitti contro la libertà personale e non più contro la morale pubblica, come prevedeva la vecchia legislazione. Con la legge n. 69 del 19 luglio 2019 sono state aggravate le pene detentive già previste.
L’art. 609- bis definisce la violenza sessuale come “l’azione di chi, con violenza, minaccia o attraverso l’abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali”.
L’art. 609-ter considera una circostanza aggravante alla violenza sessuale il fatto che la vittima abbia meno di 14 anni. L’art. 609-septies prevede che i delitti previsti dai precedenti articoli sono punibili a querela irrevocabile della persona offesa, proponibile nel termine di 12 mesi. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di minori di anni 18, se è commesso da genitore, ascendente, tutore o altra persona cui il minore è affidato, se è commesso da pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio.
L’art. 609- decies prevede per tutti i bambini il diritto all’assistenza affettiva e psicologica in ogni momento del procedimento giudiziario. Inoltre questo articolo prescrive alla Procura delle Repubblica di comunicare al Tribunale per i Minorenni qualunque procedimento che interessi reati sessuali contro minorenni.
La segnalazione
Quindi la violenza sessuale contro una persona minorenne è SEMPRE un reato procedibile d’ufficio e vige per il pediatra l’obbligo di segnalazione/referto (art. 365 c.p.).
La segnalazione va effettuata quando si ha un fondato sospetto e non una diagnosi certa. È infatti poi compito della magistratura avviare i necessari approfondimenti. Un fondato sospetto può emergere a fronte di verbalizzazioni del bambino e/o del suo caregiver, di segni fisici compatibili (per quanto non patognomonici) e di indicatori psicologici e comportamentali ricorrenti e suggestivi di malessere nel bambino.
La segnalazione va inviata in forma scritta alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni che avvierà il procedimento utile alla tutela del minore e alla Procura della Repubblica presso il Tribunale Ordinario che avvierà le indagini per valutare la presenza o meno di un reato.
La segnalazione deve contenere tutte le informazioni a disposizione del pediatra:
– contesto e modalità in cui è emerso il sospetto;
– dati anagrafici e anamnestici relativi al bambino e al suo nucleo familiare; – lesioni osservate;
– eventuali interventi attivati; – non deve invece contenere ipotesi o elementi non oggettivi.
La segnalazione, essendo un obbligo, prevale sul segreto professionale e la privacy e, anche nel caso in cui si riveli infondata, non espone ad alcuna conseguenza legale. È reato, invece, ometterla (artt. 362 e 365 c.p.).
È difficile avere la certezza del ruolo dei genitori e delle loro possibili reazioni. Nel dubbio, da valutare caso per caso, è preferibile fare la segnalazione senza avvisare la famiglia, a meno che l’emersione del sospetto non derivi proprio dall’attivazione dei familiari.
Prima di fare la segnalazione il pediatra può confrontarsi con l’équipe, con i servizi sociali territoriali, con eventuali sevizi specialistici presenti sul territorio. Rimane però un suo preciso obbligo segnalare il sospetto alla magistratura.
Da: Apollonio MG, Berardi C. Prevenzione, trattamento, recupero nei casi di maltrattamento e abuso dei minori. Provincia di Perugia e Centro Salute del Bambino, 2007; Live Webinar Abuso sessuale, 2023
Box 4. Guida per i pediatri
Il pediatra deve:
– conoscere le leggi in riferimento all’abuso sessuale;
– riconoscere che l’abuso sessuale avviene frequentemente e essere in grado di rispondere in modo competente su questo problema;
– conoscere il normale sviluppo e le variazioni del comportamento sessuale a ogni età pediatrica;
– conoscere le risorse disponibili nel suo territorio in riferimento a questa forma di maltrattamento;
– essere istruito riguardo all’anatomia e allo sviluppo dei genitali nell’infanzia;
– richiedere una consulenza a un esperto in caso di dubbio su una ispezione ai genitali;
– sapere quando e dove repertare un sospetto di abuso sessuale o violenza sessuale che richieda una raccolta di prove legali e un intervento per il rischio di malattie sessualmente trasmesse o per una contraccezione d’emergenza;
– conoscere l’importanza di usare domande aperte ed evitare domande allusive;
– sapere come supportare la famiglia in caso di sospetto di abuso sessuale;
– conoscere le conseguenze dell’abuso sessuale sulla salute mentale e conoscere i professionisti di riferimento per affrontare le possibili conseguenze sulla salute del bambino.
Modificato da Pediatrics 2013;132:e558
tre, possono essere amplificati conflitti familiari già presenti. Alle famiglie dovrebbero essere date queste informazioni:
1. Il medico ha l’obbligo di refertare all’autorità competente ogni sospetto di abuso ed è tenuto al rispetto del segreto professionale.
2. È importante che la famiglia cooperi con le agenzie investigative coinvolte:
3. I bambini, che hanno avuto esperienza di abuso, avranno un migliore stato di salute se sono supportati e amati dopo la rivelazione del fatto. Il bambino in nessun modo dovrà sentirsi in colpa a causa del comportamento del genitore.
4. I genitori non dovrebbero interrogare e nemmeno accusare il bambino di dire bugie. Se il bambino dovesse sentire il desiderio di parlare dell’accaduto, i genitori dovrebbero ascoltare ed essere di sostegno senza indagare o insistere a fare domande.
5. Le famiglie devono riconoscere l’importanza di una valutazione della salute mentale del bambino dopo un grave trauma.
In conclusione al pediatra viene richiesto di porre un sospetto nel caso in cui la situazione clinica possa far ipotizzare un abuso sessuale, di possedere una valida formazione e conoscere le strutture, i percorsi sanitari e legali sul proprio territorio. In caso di assenza di tali strutture o di équipe specializzate con esperienza in questo ambito, può farsi promotore presso la propria ASL per la costituzione di un gruppo di lavoro dedicato [Box 4].
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La piramide dello stile di vita per adolescenti. Approccio mentale
Stile parentale materno
nell’anoressia nervosa di tipo restrittivo in età evolutiva
Maria Pia Cerrone1*, Anna Bernardo1*, Maria Gloria Gleijeses1,2 , Filomena Salerno1,2 , Marella Solimeno1 , Ludovica Miragliuolo1 , Francesca Panico1 , Marco Carotenuto1,2
1 UO di Neuropsichiatria Infantile; Dipartimento di Salute Mentale e Fisica e Medicina Preventiva, Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”, Caserta; 2 Società Italiana di Psicologia Pediatrica (SIPPed); * uguale contributo degli autori
Obiettivi . L’anoressia nervosa restrittiva (ANr) compromette la salute fisica e psichica dei pazienti, impattando anche sul sistema familiare. Lo studio si propone di valutare un possibile tipico profilo materno in modo da migliorare gli approcci terapeutici.
Metodi . 56 soggetti con diagnosi di ANr secondo i criteri del DSM5 sono stati reclutati tra dicembre 2022 e giugno 2024 e valutati con questionari standardizzati multidimensionali.
Risultati. Valori patologici sono emersi alle scale che indagano i disturbi alimentari, le dimensioni emotive e le compromissioni sociali. Lo stile materno prevalente è attivo ed emotivo e le correlazioni evidenziano la relazione positiva tra la spinta all’assertività e genitore orientato sul sé.
Conclusioni . I risultati confermano l’importanza della valutazione genitoriale in questi pazienti come strumento terapeutico integrato.
Introduzione
I disturbi della nutrizione e dell’alimentazione (DNA) sono patologie psichiatriche complesse a patogenesi multifattoriale, caratterizzate da comportamenti legati all’alimentazione responsabili di un alterato consumo o assorbimento di cibo che compromettono significativamente la salute fisica e il funzionamento psicosociale del paziente [1]. Rappresentano un’emergenza in termini di salute pubblica a causa dell’alto tasso di cronicità, ospedalizzazione e comorbilità medica e costituiscono un’importante causa di mortalità [2]. I DNA mostrano una prevalenza più elevata nei Paesi industrializzati e tra gli individui di sesso femminile, con esordio tipico in adolescenza in attuale diminuzione [3]. Inoltre, la prevalenza life-time dei DNA in adolescenti e giovani adulte varia dal 5,5 al 17,9%, mentre nei maschi dallo 0,6 al 2,4% [4]. Il nucleo psicopatologico sottostante ai DNA sarebbe un circolo vizioso rappresentato dalla sopravvalutazione della forma corporea, del peso e/o dell’alimentazione [5] e da bassa autostima e perfezionismo [6].
Il presente studio si concentra sull’anoressia nervosa di tipo restrittivo (ANr) caratterizzata da un’importante riduzione dell’assunzione di cibo e/o da altri comportamenti alimentari patologici, con numerose comorbidità internistiche e psichiatriche [1], i cui criteri diagnostici comprendono:
a. Restrizione dell’assunzione calorica in relazione alle necessità, che porta a un peso corporeo significativamente basso nel contesto di età, sesso, traiettoria di sviluppo e salute fisica. Il peso corporeo significativamente basso è definito come un peso inferiore al minimo normale oppure, per bambini e adolescenti, meno di quello minimo atteso.
b. Intensa paura di aumentare di peso o di diventare grassi, oppure un comportamento persistente che interferisce con l’aumento di peso, anche se significativamente basso.
c. Alterazione del modo in cui viene vissuto dall’individuo il peso o la forma del proprio corpo, eccessiva influenza del peso o della forma del corpo sui livelli di autostima, oppure persistente mancanza di riconoscimento della gravità dell’attuale condizione di sottopeso.
Ancora, specificatori diagnostici sono [1]:
• Tipo con restrizioni (ANr): durante gli ultimi tre mesi, l’individuo non ha presentato ricorrenti episodi di abbuffate o condotte di eliminazione (es. vomito autoindotto o uso inappropriato di lassativi, diuretici o enteroclismi). In questo sottotipo la perdita di peso è ottenuta principalmente attraverso la dieta, il digiuno e/o l’attività fisica eccessiva.
• Tipo con abbuffate/condotte di eliminazione (ANbp): durante gli ultimi tre mesi, l’individuo ha presentato ricorrenti episodi di abbuffata o condotte di eliminazione (vomito autoindotto o uso inappropriato di lassativi, diuretici o enteroclismi).
In quanto patologia cronica l’ANr ha un profondo impatto anche sul sistema famigliare e sulle figure genitoriali che appaiono “incapaci” di aiutare in maniera efficace i propri figli, percependosi inadeguati. Da ciò l’importanza della valutazione dello stile parentale, considerato che la terapia basata sulla famiglia (FBT) costituisce l’approccio di prima linea in questi pazienti [7].
Obiettivi
Lo studio valuta le dimensioni dello stile parentale materno, le caratteristiche psicopatologiche, l’intelligenza emotiva in un campione di soggetti in età evolutiva con diagnosi di ANr, allo scopo di proporre nuovi approcci terapeutici basati sulla famiglia.
Metodi
Il campione è costituito da 56 soggetti con DNA afferiti presso l’UO di Neuropsichiatria Infantile dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” tra dicembre 2022 e giugno 2024.
I criteri di inclusione sono stati:
• diagnosi di ANr, posta secondo i criteri del DSM-5 e versioni successive (DSM-5 TR);
• livelli cognitivi nella norma (QI≥85).
Per ciascun paziente sono stati valutati il BMI all’ingresso e il BMI pc.
Per quanto riguarda gli strumenti di valutazione, sono state selezionate le versioni italiane standardizzate di scale quali:
1. Eating Attitude Test 26 (EAT-26) [8], Body Uneasiness Test A (BUT-A) [9] per indagare rispettivamente i comportamenti alimentari patologici e l’alterazione dell’immagine corporea;
2. Emotional Quotient-Inventory: Youth Version (EQ-I:YV) [10] per le diverse dimensioni dell’intelligenza emotiva;
3. Child Behavior Checklist 6-18 (CBCL 6-18), che valuta le competenze sociali e le problematiche emotivo-comportamentali di bambini e adolescenti dal punto di vista del genitore.
Infine, per valutare le interazioni tra genitori-figli e l’ipotetico stile parentale specifico, abbiamo somministrato alle madri il Parents Preference Test (PPT) [11], test grafico che permette, attraverso l’uso di tavole rappresentanti scene di vita fami-
gliare, di indagare il parenting in relazione a quattro dimensioni: focalizzazione attentiva, modalità esperienziale, regolazione del comportamento e l’energia, una sovradimensione che definisce le altre.
Analisi statistica
L’elaborazione dei dati è stata effettuata mediante il software IBM® SPSS Statistics Versione 29.0.2.0. L’analisi si è avvalsa della statistica descrittiva: le variabili categoriali sono state espresse come numero dei soggetti e percentuali, quelle continue come media e deviazione standard. Sono state effettuate, inoltre, delle correlazioni bivariate secondo Pearson, con valore di p statisticamente significativo se <0,05.
Risultati
Il campione oggetto di studio è composto da 56 soggetti (53 F, 3 M), di età compresa tra i 9,4 e i 17,9 anni, con un’età media di 14,65±1,75 [Tabella 1]. Il BMI medio all’ingresso è di 15,99±2,03, con il 48% dei pazienti che presenta un BMI <5° pc [Grafico 1].
Tabella 1.
EQ-i C
EQ-i D
EQ-i E
EQ-i
Età del campione in esame e risultati dei test somministrati in termini di punteggio minimo e massimo, media e DS.
Il valore medio dei punteggi ottenuti dai pazienti all’EAT-26 equivale a 43,34±17,98. Sette pazienti, nonostante la diagnosi di ANr, hanno invece ottenuto un punteggio nei limiti della norma. Per quanto riguarda la scala BUT-A, il valore medio dei punteggi ottenuti dai pazienti è 2,95±1,1 e soltanto sei pazienti hanno presentato valori considerati non patologici. Dall’analisi dei dati dell’EQ-i:YV sono emersi punteggi scarsi alla scala A con un valore medio dei punteggi di 85±15,3 e alla scala E con una media di 80,3±17,1. Risulta inoltre un punteg-
gio molto scarso alla scala F con un valore medio di 71,8±14,2. I punteggi medi ottenuti dai pazienti nelle restanti scale sono invece adeguati.
In riferimento alla CBCL, nella scala totale emerge un T-score medio pari a 62,2±7,6 con 28 pazienti che presentano valori clinicamente rilevanti (≥64). In particolare, per la scala dei disordini internalizzanti si rileva un valore medio di T-score pari a 68±8,45: circa il 70% del campione presenta quindi valori nei range clinici. Per la scala dei disturbi esternalizzanti si rileva, invece, un T-score medio pari a 56,4±8,2 [Tabella 1]. Infine, dall’analisi dei dati relativi al PPT, si sono delineati dei profili genitoriali così caratterizzati:
• focalizzazione attentiva: 27 genitori presentano una focalizzazione attentiva sul bambino con energia attiva, 16 sul sé con energia attiva, 6 genitori sul bambino passiva e 7 sul sé passiva;
• regolazione del comportamento: 39 genitori presentano una regolazione del comportamento improntata sulle regole in maniera attiva, 13 sulle regole passiva e 4 sul contesto attiva. Nessuno su contesto passivo.
Dalle analisi di correlazione secondo Pearson effettuate tra le varie scale somministrate [Tabella 2], sono emerse diverse correlazioni statisticamente significative. In particolare, si osservano correlazioni negative tra i punteggi ottenuti alle scale EAT-26 e BUT-A con le scale A, C ed F dell’EQ-i:YV e positive tra le stesse scale e i valori della CBCL totale e CBCL disturbi internalizzanti. Nelle correlazioni tra le quattro dimensioni del PPT e gli altri test selezionati nello studio, sono emerse due correlazioni statisticamente significative positive tra la dimensione focalizzazione attentiva del PPT e la scala A dell’EQ-i:YV (r di Pearson= .405; p= .002) e tra la dimensione modalità esperenziale e la CBCL totale (r di Pearson= .275; p= .04).
Discussione
Dall’analisi del campione, si conferma la netta prevalenza del sesso femminile (95%) e ben il 48% presenta un BMI pc < 5. Le scale specifiche per i disturbi alimentari, EAT-26 e BUT-A, mostrano punteggi fortemente patologici in accordo con i comportamenti e le preoccupazioni caratteristiche del disturbo alimentare e fortemente indicativi della paura di ingrassare e dell’insoddisfazione per il proprio corpo.
Per quanto riguarda l’EAT-26, nonostante l’importanza di questo test nel supportare la diagnosi, il 12,5% ha punteggi nei limiti della norma sottolineando un’importante compromissione dell’insight.
Il funzionamento emotivo dei pazienti, valutato attraverso i questionari EQ-i:YV, si caratterizza per capacità emozionali e sociali poco sviluppate alle scale A (intrapersonale) ed E (umore generale) ed estremamente poco sviluppate alla scala F (QE totale).
Nello specifico, la scala intrapersonale indaga l’autoconsapevolezza emotiva, la considerazione del sé e le capacità di assertività, che risultano pertanto scarse in questi soggetti. La mancanza di assertività rappresenta un tratto peculiare nei pazienti con DNA, in grado di peggiorarne l’esito e perpetuarne i sintomi, configurandosi come un fattore predittivo negativo [12].
Dalle analisi secondo Pearson è emerso che bassi livelli di assertività correlano con un aumento dei sintomi e delle preoccupazioni relative ai disturbi dell’alimentazione e con un aumento dell’evitamento e del controllo compulsivo. Infatti, considerando il nucleo psicopatologico del disturbo [6], queste pazienti con bassa autostima e scarsa consapevolezza di sé ricercano un senso di efficacia attraverso il controllo sul cibo e sul proprio corpo.
Grafico 1. Distribuzione dei pazienti in base al BMI pc.
Inoltre lo studio conferma l’associazione di ANr con patologie internalizzanti, quali disturbi d’ansia e disturbi depressivi, legati all’aumentare delle preoccupazioni per l’aspetto corporeo e dei comportamenti alimentari patologici. Allo stesso modo, una minore tolleranza allo stress e una riduzione dell’umore generale si associano a una maggiore compromissione delle aree sociali ed emotivo-comportamentali riferite dal genitore. Infine, rispetto allo stile di parenting, le madri di questo gruppo di pazienti tendono a interagire con i propri figli in modo prevalentemente attivo e flessibile, con importante focalizzazione attentiva e ricettività verso le loro esigenze. Rispondono ai loro bisogni da un punto di vista principalmente emotivo e, per quanto riguarda la regolazione del comportamento, sono nettamente improntate sulle regole anziché sul contesto. Lo studio correlazionale ha mostrato quindi che, all’aumentare della focalizzazione attentiva del genitore verso il sé, aumentano i punteggi ottenuti dal paziente alla scala intrapersonale dell’EQ-iYV, indicando che quanto più il genitore è focalizzato sul sé, tanto più il figlio mostra una spinta all’indipendenza e allo sviluppo dell’assertività e dell’autoconsapevolezza. Nel nostro campione, scarsi livelli alla scala intrapersonale si associano a una focalizzazione attentiva prevalente sul figlio. Per quanto concerne la modalità esperienziale, quanto più la figura materna è focalizzata sugli aspetti emotivi, tanto maggiore è la compromissione del riferito sulle aree sociali ed emotivo-comportamentali del proprio figlio. Questa correlazione positiva potrebbe, quindi, indicare che un genitore che predilige aspetti emotivi nell’interazione col proprio figlio riesce a coglierne maggiormente le compromissioni sociali ed eventuali disturbi internalizzanti.
Conclusioni
L’anoressia nervosa è un disturbo complesso associato a numerose comorbidità psichiatriche, in particolare ai disturbi della sfera internalizzante. La psicopatologia di base comprende bassi livelli di autostima e scarsa considerazione di sé, che rappresentano dei predittori del disturbo alimentare e che di fatto si correlano con una maggiore alterazione dell’immagine corporea e con maggiori preoccupazioni inerenti al peso. Anche altre dimensioni del funzionamento emotivo di queste pazienti risultano essere alterate, in particolare la scala dell’umore generale e del quoziente emotivo totale.
Per quanto riguarda la genitorialità, si rileva uno stile di parenting materno nel complesso attivo, flessibile ed emotivo e prevalentemente orientato sul figlio e sul rispetto delle regole. Lo studio correlazionale mette in evidenza l’importanza di indagare il funzionamento famigliare e, in particolare, lo stile parentale in questi pazienti, considerando soprattutto il ruolo di primo piano che l’FBT ha nei soggetti con diagnosi di AN. Lo studio presenta, comunque, dei limiti ovvero l’esiguità del campione e la mancanza di un gruppo di controllo. Pertanto, le prospettive future sarebbero quelle di ampliare il campione clinico ed eseguire un follow-up a lungo termine, considerando la possibilità di includere anche la valutazione dello stile di parenting paterno, nonché quella dello stress parentale.
La bibliografia di questo articolo è consultabile online
UO Pediatria, Ospedale G.B. Morgagni – L. Pierantoni, AUSL della Romagna, Forlì
Negli anni 2018-2019 l’isola di Samoa è attraversata da un’epidemia di morbillo, conseguente all’interruzione del programma vaccinale, che interessa migliaia di persone e determina la morte di decine di bambini in età prescolare. La sfiducia della popolazione nell’efficacia del vaccino trova nuovo vigore nella visita, a Samoa, di Robert F. Kennedy Jr noto per le sue posizioni critiche nei confronti dei vaccini e del sistema sanitario statunitense. La proposta di metterlo a capo dell’agenzia che governa la salute pubblica ha destato allarme per le possibili conseguenze sulle politiche sanitarie negli Stati Uniti.
In 2018-2019, the island of Samoa was hit by a measles epidemic, following the interruption of the vaccination program, which affected thousands of people and caused the death of many preschool children. The population’s distrust in the effectiveness of the vaccine found new strength in the visit to Samoa of Robert F. Kennedy Jr, known for his critical positions on vaccines and the US public health system. The proposal to put him in charge of the agency that governs public health raised alarm over the possible consequences on health policies in the USA.
Wi-Fi causes cancer and “leaky brain,” Kennedy told podcaster Joe Rogan last month. Antidepressants are to blame for school shootings, he mused during an appearance with Twitter CEO Elon Musk. Chemicals in the water supply could turn children transgender, he told right-wing Canadian psychologist and podcaster Jordan Peterson, echoing a false assertion made by serial fabulist Alex Jones. AIDS may not be caused by HIV, he has suggested multiple times.
National Public Radio, www.npr.org , 13 luglio 2023
In questo Osservatorio, spunti di riflessione provenienti dalla letteratura scientifica e dagli organi di analisi politica ci consentono di delineare un percorso ideale che, partendo da una malattia prevenibile e purtroppo ancora molto diffusa nel mondo, attraversa l’isola di Samoa fino a raggiungere gli USA dove il neoeletto Presidente si accinge a nominare il nuovo responsabile della salute pubblica (Health and Human Services Department – HHSD). È un percorso che, come spesso accade nelle vicende umane – incluse quelle sanitarie – ha le sue radici in eventi passati, ne sperimenta le conseguenze nel presente e lascia presagire quello che potrebbe accadere nel futuro.
Il morbillo
Una corrispondenza prenatalizia del Lancet esordisce informandoci che la diffusione del morbillo nel mondo ha subito un incremento del 20% su base annua [1]. La conferma viene dal recentissimo report del WHO che stima in oltre 10 milioni i casi di morbillo verificatisi nel corso del 2023 [2]. La responsabilità è individuata nell’insufficiente copertura vaccinale che avrebbe lasciato scoperti – sempre nel 2023 – più di 22 milioni di bambini: 83% della popolazione infantile mondiale avreb-
Figura 1. Stima delle morti per morbillo nel mondo, senza e con la vaccinazione (modificato da [4]).
be ricevuto la prima dose, mentre solo il 74% ha avuto accesso alla seconda dose. In ogni parte del mondo, la pandemia di Covid-19 ha influito in maniera pesante su tutte le pratiche vaccinali e, ovunque, i livelli di copertura del periodo prepandemico sembrano difficili da riguadagnare. Come è noto, la vaccinazione è altamente efficace nel prevenire la malattia e si stima che abbia salvato la vita a circa 94 milioni di persone negli ultimi cinquant’anni [Figura 1] [3,4].
La diffusione del morbillo in un territorio è considerata un forte indicatore della capacità del sistema sanitario di quel Paese di gestire le strategie vaccinali in età infantile. Da questo punto di vista, le regioni del mondo a più basso reddito, con strutture sociali più fragili e vulnerabili o coinvolte in scenari di conflitto armato appaiono in maggiore difficoltà [5]. Nel 2023, significative epidemie di morbillo si sono verificate in almeno 57 Paesi del mondo, causando oltre 100.000 morti in bambini di età inferiore a 5 anni. Il continente africano ha subito più pesantemente gli effetti della diffusione del virus, mentre solo le Americhe sembrano avere vinto, almeno per il momento, la loro battaglia contro il morbillo endemico. Ma nonostante l’impegno preso da tutte le sei regioni del WHO di produrre ogni sforzo, entro il 2030, per eliminare definitivamente morbillo e rosolia dai loro territori, l’obiettivo non sembra facilmente raggiungibile [6].
Samoa e il morbillo: i tragici effetti di un errore Il 18 novembre 2019, Samoa ha dichiarato l’emergenza nazionale nel corso di un’epidemia di morbillo e ha disposto che tutti i 200.000 abitanti dell’isola del Pacifico fossero vaccinati. Il governo ha chiuso tutte le scuole e ha vietato ai bambini di incontrarsi in pubblico. Le famiglie hanno appeso bandiere rosse fuori dalle loro case per indicare che dovevano essere vaccinate. Il 28 novembre 2019, il Ministero della Salute di Samoa ha segnalato 2.936 casi con 250 nuovi casi nell’arco di 24 ore. In quella data si erano già verificati 39 decessi, 35 (90%) dei quali bambini di età inferiore ai 5 anni. Alla fine di dicembre 2019, il numero di casi erano circa 5.600, con almeno 83 morti la maggior parte dei quali di età inferiore a 5 anni. La Nuova Zelanda ha dovuto inviare a Samoa bare per neonati di cui c’era ormai carenza [7,8].
Abbiamo brevemente descritto l’epilogo di una tragica concatenazione di eventi che trae origine dalla morte di due lattanti, avvenuta nel luglio 2018, pochi minuti dopo la somministrazione di una dose di vaccino MMR. Le indagini saranno definitivamente concluse solo un anno dopo con la condanna di due infermieri che avevano inavvertitamente diluito la polvere del vaccino con un farmaco curarosimile invece che con l’acqua per diluizioni [9]. Evento inspiegabile che, tuttavia, si era già verificato nel 2014 in Siria, quando per un analogo errore erano morti 15 bambini [10].
L’approssimativa e poco trasparente gestione di quanto accaduto da parte delle autorità samoane ha fatto il resto: il programma vaccinale è stato sospeso in tutta l’isola per 10 mesi e, alla ripresa, a fine novembre 2019, l’adesione già non ottimale (84%) della popolazione era ulteriormente crollata al 31% [Figura 2].
In questo contesto di diffuso timore e incertezza si è fatto largo un forte sentimento antivaccinale che affonda le sue radici in una persistente fiducia nella medicina tradizionale e che è stato ulteriormente rinforzato da influenti esponenti dei movimenti antivaccinali locali. La ripresa della fiducia nelle vaccinazioni è stata lenta e faticosa – anche in alcuni settori del personale sanitario – e ancor più ostacolata da interventi esterni che hanno inopinatamente remato in senso contrario [11,12].
E qui, veniamo a RFK Jr
Nel pieno di questa grave crisi sanitaria, poco prima che fosse ufficialmente dichiarato lo stato di epidemia, Samoa riceve l’inopportuna visita di Robert F. Kennedy Jr che incontra componenti ufficiali del governo e alcuni tra i maggiori esponenti delle locali organizzazioni antivaccinali. La visita esita in una “significativa campagna di disinformazione” alimentando l’ulteriore sfiducia dei samoani nei confronti dei vaccini [8,13]. Kennedy, definisce il guaritore locale antivaccini Edwin Tanmasese – prima arrestato e successivamente prosciolto per insufficienza di prove – un “eroe” in un post sul suo blog e descrive l’epidemia di morbillo come “lieve”. Incontra anche l’influencer antivaccino samoana australiana Taylor Winterstein che posta una fotografia insieme a RFK Jr sui suoi social media, usando hashtag #antivaccino e definendo la visita di Kennedy come un evento di enorme rilevanza per il movimento. Ma RFK Jr trova modo di andare anche oltre e alcuni mesi dopo la sua visita scrive una lettera al primo ministro samoano esortandolo a considerare la possibilità che la morte dei bambini fosse stata causata da un vaccino “difettoso” o da un “ceppo mutante” di morbillo causato dal vaccino stesso. A questo punto occorre ricordare che RFK Jr è a capo di un’organizzazione non profit denominata Children’s Health Defense che si è distinta per le sue posizioni critiche verso i vaccini [14]. Lo stesso Kennedy è noto per avere ripetutamente assunto posizioni antiscientifiche – sostenendo, tra l’altro, il collega-
mento tra vaccini e autismo – e di aperta ostilità nei confronti delle organizzazioni sanitarie statunitensi. Ed è per questo che la proposta del presidente neoeletto Trump di metterlo alla guida della politica sanitaria statunitense ha suscitato grande preoccupazione sia in numerosi settori politici sia tra accreditati esponenti del mondo scientifico e gestori della salute pubblica [1,15-17].
La fine della vicenda pressoché in diretta
Al momento di inviare in redazione questo Osservatorio, la vicenda non può dirsi ancora definitivamente conclusa, almeno non al cento per cento. Nel mentre l’organizzazione sanitaria di Samoa si adopera per recuperare e mantenere tassi di copertura vaccinali sufficienti a metterla al sicuro da ulteriori epidemie, RFK Jr sta affrontando l’iter istituzionale che lo porterà, quasi certamente, alla conferma dell’incarico proposto dal Presidente Trump. Probabilmente, le strade di RFK Jr e di Samoa non avranno più occasione di incontrarsi, ma il mondo è grande e le possibilità di diffondere disinformazione pressoché infinite. Certamente ne risentiremo parlare.
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enrico.valletta@auslromagna.it
Figura 2. Andamento delle coperture vaccinali e dei casi di morbillo a Samoa (modificato da [11,12]).
1 UOC Radiologia Pediatrica PO G. Di Cristina ARNAS Civico Palermo;
2 Scuola Specializzazione Pediatria Università di Palermo;
3 Scuola di Specializzazione Pediatria Università di Palermo;
4 Dirigente Medico DS 42 ASP Palermo;
5 UOC ORL PO G. Di Cristina ARNAS Civico Palermo;
6 UOC MCAU PO G. Di Cristina ARNAS Civico Palermo;
7 Pediatra Palermo
La storia
A. è una bambina di 7 anni che accede in pronto soccorso pediatrico (PSP) per cefalea ingravescente ed edema periorbitario bilaterale, insieme alla comparsa di febbre (da tre giorni).
La bambina presenta rinite mucosa da sei giorni, è di aspetto sofferente, le condizioni cliniche generali sono discrete, l’edema periorbitario bilaterale coinvolge sia la palpebra inferiore sia quella superiore, maggiormente tumefatta, la cute sovrastante appare iperemico-violacea.
I restanti ambiti cutanei sono rosei, normoidratati, ben perfusi. Faringe e tonsille iperemici con presenza di scolo di muco giallo-verdastro nel retrofaringe.
Non segni meningei, motilità oculare conservata, pupille isocoriche, isocicliche e normoreagenti allo stimolo luminoso, buona risposta agli stimoli verbali.
Considerato lo stato clinico generale della bambina, l’aspetto sofferente, lo stato febbrile e l’obiettività clinica nel complesso e il coinvolgimento dei tessuti molli periorbitali, viene reperito in PSP l’accesso venoso, somministrato 1 g di ceftriaxone e 4 mg di betametasone. La scelta del corticosteroide è stata effettuata in considerazione delle sue proprietà antiedemigene, per agire sia sui tessuti molli sia in ambito cerebrale; il betametasone in questo caso è stato preferito al desamentasone in relazione alle sue proprietà farmacodinamiche e alla maneggevolezza dello stesso per il dosaggio pediatrico. Successivamente vengono eseguiti esami ematochimici che mostrano una spiccata leucocitosi neutrofila con aumento degli indici di flogosi (GB 38,930/uL, neutrofili 88%, PCR 23,17 mg/dL).
Consultato lo specialista otorinolaringoiatra, si richiede TC encefalo e massiccio facciale che conferma la presenza di cellulite orbitaria bilaterale (con presenza di ascesso sotto-periostale di 4 mm sul versante mediale dell’orbita) e la presenza di raccolte subtecali di 2 cm di diametro circa [Figura 1].
A. viene quindi ricoverata presso il reparto di malattie infettive pediatriche dell’Ospedale dei Bambini ARNAS Civico Di Cristina, con diagnosi di cellulite orbitaria complicata e sospetto ascesso cerebrale. Si continua la terapia iniziata in PSP con ceftriaxone a cui si aggiunge metronidazolo (per coprire i germi anaerobi) per i pri-
mi sei giorni; successivamente, per mancata risposta al trattamento, si passa a daptomicina e fosfomicina per i successivi quindici giorni.
Alla successiva RMN si conferma la presenza di raccolte flogistico-ascessuali pluriconcamerate, responsabili di effetto compressivo sulle sottostanti circonvoluzioni cerebrali, la marcata pansinusite e l’edema dei tessuti molli [Figura 2]. Al termine della terapia antibiotica, alla visita otorinolaringoiatrica la bambina appare in netto miglioramento clinico con regressione dei segni di flogosi, dell’edema e iperemia periorbitari bilateralmente, consentendo alla piccola la completa apertura palpebrale.
Alla RMN di controllo eseguita a un mese circa dalla precedente si apprezza la completa risoluzione delle raccolte ascessuali e la riduzione della componente edemigena cerebrale e delle parti molli periorbitarie.
All’esame rinoscopico l’abbondante materiale muco-purulento presente nel meato di sinistra risulta positivo per Acinetobacter lwoffi.
Ascessi cerebrali causati da questo patogeno sono rari, ed è stato descritto solo un altro caso in un paziente settantenne,
Figura 1. TC encefalo che evidenzia in sede frontale delle raccolte subtecali a morfologia semilunare di 20x7 mm con margine iperdenso, marcato spianamento liquorale pericerebrale e riduzione volumetrica del sistema ventricolare come da edema.
Figura 2. RMN che evidenzia in sede frontale extrassiale raccolte flogistico-ascessuali pluriconcamerate.
Più gravi sono le complicanze post-settali, dove, oltre ai sintomi precedenti, si aggiungono: oftalmoplegia, dolore al movimento oculare, proptosi, chemosi, diplopia fino alla perdita del visus [1]. In un bambino con storia di febbre, cefalea grave preceduta da sinusite e/o otomastoidite, edema del viso e cellulite orbitaria, dobbiamo considerare la possibilità di una sinusite complicata, meritevole, pertanto di una valutazione neuroradiologica [3].
trattato anch’egli con successo e con completa risoluzione dei sintomi senza sequele neurologiche [8].
In considerazione della risposta clinica si dimette la paziente e si rimanda a follow-up ambulatoriale.
Discussione
Bambini con sinusite acuta batterica non trattata possono manifestare complicanze coinvolgenti sia l’orbita sia la regione intracranica, come descritto nel caso di A.
Tra le complicanze orbitarie la cellulite periorbitaria [Figura 4] rappresenta la complicanza più comune e meno grave, caratterizzata da edema e arrossamento della regione periorbitaria; non c’è proptosi né limitazione della motilità oculare estrinseca; vi può essere altresì una difficoltà nell’apertura palpebrale, dipendentemente dal grado di edema periorbitario [1].
Un segno caratteristico dell’osteomielite complicata da ascesso subperiostale è il tumore gonfio di Pott [Figura 5]: tumefazione derivante dalla diffusione dal seno frontale fino alla regione subgaleale (è presente fino a 1/3 dei pazienti in età scolare con sinusite frontale) [4].
Le complicanze intracraniche (elencate nella Tabella 1) devono essere sempre sospettate in presenza di [3]:
• combinazione di edema periorbitario, cefalea e vomito persistenti (> 24 ore);
• alterato livello di coscienza;
• deficit neurologici focali;
• segni di irritazione meningea (rigidità nucale).
Tabella 1. Tratta da [5]
Complicanza rinosinusite Segni e sintomi
Trombosi settica del seno cavernoso Ptosi bilaterale, proptosi, oftalmoplegia, edema periorbitario bilaterale, cefalea, alterazione dello stato mentale.
Meningite Febbre, rigidità nucale, alterazione stato mentale.
Ascesso cerebrale Cefalea, rigidità nucale, alterazioni dello stato di coscienza, vomito, deficit neurologici focali, crisi convulsive, deficit del III e VI nervo cranico, papilledema.
La sinusite in pediatria rappresenta una problematica comune, auto-limitantesi e di diagnosi clinica; raramente, però, la sinusite può complicarsi in lesioni ascessuali come gli empiemi che possono manifestarsi anche molte settimane dopo i sintomi iniziali [6,7].
Figura 3: RMN che evidenzia la risoluzione in sede frontale delle note raccolte ascessuali e della componente edemigena delle parti molli perischeletriche adiacenti.
Figura 4: Cellulite orbitaria con tumefazione della regione periorbitaria anteriore (cellulite pre-settale).
Figura 5. Tumefazione che coinvolge le parti molli della regione frontale, un esempio di tumore gonfio di Pott.
Conclusioni
La rinosinusite acuta può complicare in sintomatologie coinvolgenti sia l’orbita sia la regione intracranica. Il pediatra deve porre attenzione a segni e sintomi specifici quali: oftalmoplegia, ptosi, proptosi, edema periorbitario bilaterale, fotofobia, vomito, rigidità nucale, ascessi frontali, deficit neurologici focali.
Vista la gravità delle complicanze descritte, il Pediatra deve tenere in considerazione la possibilità che una problematica comune pediatrica come la sinusite può, anche se raramente, portare a complicanze orbitarie ed intracraniche. Un’accurata anamnesi, un esame obiettivo dei seni paranasali e della regione retromastoidea uniti a un esame obiettivo neurologico (stato di coscienza, rigidità nucale, integrità delle vie afferenti ed efferenti dei nervi cranici e spinali) consentono di mettere in luce i casi più rari di sinusite complicata [Algoritmo diagnostico].
Gli empiemi, nonostante l’avvento di procedure diagnostiche e terapeutiche avanzate, hanno ancora una morbilità e mortalità significative se non prontamente diagnosticati e trattati [5]. Il coinvolgimento plurispecialistico (pediatria territoriale, pediatria di emergenza, radiologia, ORL, neurochirurgia, malattie infettive) è indispensabile per ottenere diagnosi tempestive e guidare la gestione di questi bambini gravemente malati. Il corretto e tempestivo inquadramento diagnostico consentirà di ricorrere precocemente a terapia antibiotica empirica e poi mirata, che, se intrapresa tempestivamente, evita al piccolo paziente di ricorrere alla chirurgia invasiva. È necessario monitorare la curva epidemiologica delle complicanze ascessuali cerebrali in considerazione dell’aumento
Bambino in età scolare con storia di:
- febbre e rinosinusite - mal di testa
- vomito
- segni neurologici focali - compromissione dello stato di coscienza - crisi epilettiche, coma
INVIO IN PS
Segni meningei?
Sospetto ascesso subdurale
- EO obiettivo neurologico
- esami ematochimici
Tumore gonfio di Pott?
Sospetto ascesso epidurale intracranico
- esami microbiologici per ricerca di germi aerobi e anaerobi
Se segni neurologici presenti
TC e/o RMN encefalo Puntura lombare*
Reperto radiologico e/o esami microbiologici positivi con indici di flogosi aumentati
- trattamento antibiotico empirico**
- trattamento chirurgico (se indicato)
Algoritmo diagnostico.
* La puntura lombare non dovrebbe essere effettuata se non è stata eseguita una precedente TC che documenti l’assenza di lesioni occupanti spazio, che in caso di puntura lombare possono provocare erniazione delle tonsille cerebellari. ** Cefotaxime, ceftriaxone, vancomicina e metronidazolo.
della resistenza agli antibiotici e della diminuzione della copertura vaccinale.
Bibliografia
1. Brook I. Microbiology and antimicrobial treatment of orbital and intracranial complications of sinusitis in children and their management. Int J Pediatr Otorhinolaryngol. 2009 Sep;73(9):1183-6.
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6. Khuon D, Ogrin S, Engels J, et al. Notes from the Field: Increase in Pediatric Intracranial Infections During the COVID-19 Pandemic –Eight Pediatric Hospitals, United States, March 2020-March 2022. MMWR Morb Mortal Wkly Rep. 2022 Aug 5;71(31):1000-1.
7. Lundy P, Kaufman C, Garcia D, et al. Intracranial subdural empyemas and epidural abscesses in children. J Neurosurg Pediatr. 2019 Mar 22;24(1):14-21.
8. Krishnasamy L, Venkatraman I, Rengarajan S. Acinetobacter lwoffi brain abscess in a post-COVID-19 patient. J Neurosci Rural Pract. 2023 Jul-Sep;14(3):549-50
Un position paper EAP-ECPCP sulle sigarette elettroniche e i rischi per i giovani
Laura Reali1 , Lorenza Onorati2
1 Pediatra, presidente ECPCP; 2 Medico in formazione in Pediatria, Dipartimento della Donna e del Bambino dell’Università di Padova
In Quaderni acp sono già stati pubblicati due articoli sulla crescente diffusione delle sigarette elettroniche tra i giovani, sui rischi connessi al loro uso e sul piano di contrasto europeo. (https://acp.it/it/2024/01/sigarette-elettroniche-e-dispositivi-per-tabacco-scaldato-nuovi-pericoli-per-i-bambini.html; https://acp.it/assets/media/Quaderni_acp_2024_314_157159.pdf).
Vorremmo aggiungere al dibattito quanto fatto da alcune società pediatriche europee in proposito. Le sigarette elettroniche e i prodotti a tabacco riscaldato, includendo per semplicità in questo termine generico tutti i dispositivi elettronici contenenti o meno nicotina (NNCP e NNDP), sono stati introdotti in commercio negli anni ’80’00, come terapia disintossicante per i fumatori di sigarette di tabacco.
Una revisione Cochrane [1] rilevava che i fumatori di sigarette tradizionali dipendenti dal tabacco, passando a quelle elettroniche o a tabacco riscaldato, avevano un rischio significativamente ridotto di cancro al polmone. Quello che però è emerso in maniera più evidente dalla letteratura successiva è che i fumatori di sigarette elettroniche contenenti nicotina sviluppano dipendenza da questa sostanza e spesso arrivano a fumare anche sigarette tradizionali (dual user).
Quelli che fanno uso di dispositivi non contenenti nicotina, hanno un maggior rischio di arrivare a usare anche i dispositivi che la contengono, nonché sigarette tradizionali, cannabis, alcol e altre sostanze. L’ultimo sondaggio europeo pubblicato sull’uso di sigarette elettroniche tra i ragazzi delle scuole europee [2] (ESPAD, 2019) ha rilevato che questo accade soprattutto nei Paesi con regolamentazioni più permissive, dove i tassi di prevalenza giovanile per l’uso duale ed esclusivo sono più elevati, in particolare per gli adolescenti dei Paesi ad alto reddito. L’industria, grazie anche a una legislazione lacunosa, ha sfruttato le possibilità di ampliamento del mercato degli utenti. Tramite la diffusione dell’assunto che si tratta di un prodotto sicuro, il mercato delle sigarette elettroniche e dei prodotti a tabacco riscaldato si è espanso al punto che oggi sono in vendita dispositivi sempre più accattivanti, somiglianti a mini-cellulari o videogiochi, aromatizzati con gusti tipo caramelle e cola, evidentemente rivolti a soggetti sempre più giovani.
L’ultimo rapporto OMS sul fumo da sigarette tradizionali ed elettroniche [3], che include un questionario distribuito in 73 Paesi che ha interessato 3 miliardi di persone, conferma la progressiva diffusione e i rischi per la salute di questi dispositivi. Il rapporto sottolinea la necessità di regolamenti rigorosi per la pubblicità, vendita e uso dei prodotti da fumo e svapo, come pure di programmi efficaci per la sospensione dell’uso e di campagne di salute pubblica mirate agli adolescenti e ai bambini. Ma nonostante tutto il mercato fiorisce, soprattutto
online. A dicembre 2023, l’OMS esortava ulteriormente tutti i Paesi [4] a implementare misure severe per prevenire l’uso di sigarette elettroniche e dei prodotti a tabacco riscaldato e proteggere i cittadini, in particolare bambini e giovani, sottolineando che i governi dovrebbero regolamentarne l’utilizzo come medicinali piuttosto che come beni di consumo. Ai singoli Paesi resta però libertà di legislazione locale e le aziende produttrici sono capaci di campagne di marketing molto efficaci e ingannevoli. Quello che le aziende venditrici non dicono è che una sigaretta elettronica, contenente nicotina, ne può contenere fino a dieci volte il quantitativo di una sigaretta tradizionale.
La nicotina, infatti, è una sostanza altamente tossica e crea forte dipendenza. Agisce stimolando il rilascio di dopamina nel cervello, causando piacere momentaneo ma rinforzando la dipendenza. A livello cardiovascolare, aumenta la pressione sanguigna e il rischio di aterosclerosi, infarto e ictus. La nicotina interferisce con il metabolismo del glucosio, favorendo la resistenza all’insulina e aumentando il rischio di diabete di tipo 2. In gravidanza può influire negativamente sullo sviluppo fetale, aumentando i rischi di parto prematuro e basso peso alla nascita. Può anche compromettere la funzione polmonare e, se inalata tramite sigarette o altri dispositivi, espone l’organismo a tossine dannose. Nei giovani, l’uso di nicotina è particolarmente pericoloso poiché può interferire con lo sviluppo cerebrale, compromettendo memoria, attenzione e controllo degli impulsi.
Questi nuovi dispositivi contengono anche composti come il glicole propilenico e la glicerina vegetale per esempio, i quali, quando riscaldati, possono decomporsi in sostanze tossiche, come la formaldeide, a livello respiratorio, cardiovascolare e oculare, mentre nel lungo periodo possono sviluppare dipendenza dalla nicotina, sostanza con attività farmacologiche note e anche gravi. La formaldeide è anche cancerogena. Inoltre, gli aromi, selezionati per essere particolarmente attraenti per i giovani, spesso sono sostanze chimiche dannose.
Per quanto riguarda i dispositivi non contenenti nicotina, essi contengono comunque altre sostanze chimiche, alcune note per essere dannose, con effetti cancerogeni, pro-infiammatori e immunosoppressivi.
È un problema etico, oltre che di salute pubblica. C’è da chiedersi se vale di più il diritto di chi è adulto e dipendente dal tabacco di “curarsi” con le sigarette elettroniche, oppure il diritto di giovani sani e non ancora fumatori di evitare di diventare dipendenti da un farmaco, come la nicotina, col rischio di successiva dipendenza da sigarette tradizionali e da altre sostanze (alcol, cannabis, ecc.).
È inoltre importante sottolineare che sul mercato sono presenti anche sigarette elettroniche usa e getta, progettate per essere eliminate dopo un breve periodo di utilizzo, un approccio che contrasta con gli sforzi globali per ridurre i rifiuti plastici. Ogni dispositivo è composto da diversi materiali, tra cui plastica, metalli pesanti, batterie al litio e componenti elettronici. La loro eliminazione inadeguata può portare a gravi conseguenze ambientali. Le batterie al litio, per esempio, se non smaltite correttamente, possono rilasciare sostanze tossiche nel suolo e nelle acque, contribuendo alla contaminazione ambientale. A complicare il problema c’è l’insufficienza di sistemi di raccolta e riciclo adeguati per questi dispositivi. Molti utenti, ignari dei rischi, smaltiscono le sigarette elettroniche usa e getta insieme ai rifiuti domestici, aumentando il rischio di inquinamento. In qualità di professionisti sanitari europei, e in totale consonanza con OMS, UNICEF e un crescente numero di Paesi nel mondo, abbiamo pubblicato un position paper congiunto, Confederazione Europea dei Pediatri delle Cure Primarie (ECPCP), Accademia Europea di Pediatra (EAP) [6], chiedendo ai membri della neoinsediata Commissione europea e del Parlamento euro -
Box 1. Raccomandazioni della Confederazione Europea dei Pediatri delle Cure Primarie e dell’Accademia Europea di Pediatria
EAP ed ECPCP invitano il Parlamento europeo, la Commissione e tutti i governi nazionali europei a considerare nelle rispettive azioni di governo le proposte avanzate dall’OMS e ad attuare tempestivamente le seguenti misure:
– Vietare la vendita di tutti i dispositivi elettronici contenenti o meno nicotina (NNCP e NNDP) ai minori.
– Limitare la vendita solo a persone con dipendenza dal fumo sulla base di una prescrizione medica.
– Implementare strette misure normative per le vendite online e aumentare le tasse relative per impedire ai minori di accedere a questi prodotti.
– Vietare le attività promozionali delle industrie per NNCP e NNDP, comprese le cosiddette iniziative informative rivolte a famiglie, scuole, nonché bambini e adolescenti.
– Incoraggiare gli operatori sanitari, in particolare quelli che lavorano con gli adolescenti, a sfruttare ogni opportunità per informarsi sulle abitudini di fumo degli adolescenti.
– Rendere disponibili NNCP e NNDP per gli adolescenti solo se dipendenti dal fumo di sigaretta, per diagnosi medica, come intervento farmacologico per aiutarli a gestire la loro dipendenza.
– Stabilire una collaborazione strutturata tra le associazioni scolastiche pertinenti e le società europee di professionisti sanitari possibilmente coinvolti, tra cui farmacisti e infermieri.
– Collaborare con tutte le reti informative per rafforzare e aumentare l’impegno pubblico e la visibilità nelle attività preventive, aiutando nella diffusione di informazioni accurate, sfatando miti e diffondendo le migliori pratiche.
peo di adottare misure urgenti e decisive. Abbiamo proposto anche una serie di raccomandazioni evidence-based per proteggere la salute di bambini e adolescenti. Abbiamo richiesto il bando totale per bambini e adolescenti di tutti i dispositivi da svapo, contenenti o meno nicotina, perché non sicuri e in particolare il divieto della pubblicità rivolta agli adolescenti
e ai giovani adulti. I dispositivi da svapo sono prodotti assimilabili più a farmaci che a beni da svago e la loro prescrizione su ricetta medica va riservata solo a chi ha la attestazione di essere dipendente da fumo di sigaretta e in terapia disintossicante per questo. In Italia la situazione non è migliore che nel resto d’Europa, ma è un fatto di cui si parla poco, la percezione del rischio è ancora scarsa e l’abitudine all’uso si sta diffondendo sempre di più soprattutto tra i giovani [5]. Intanto sono arrivate in commercio le bustine di nicotina (o nicotine pouches) che sono piccoli sacchetti monouso contenenti nicotina pura, aromi e altri additivi, ma non tabacco. Si posizionano tra la gengiva e il labbro, rilasciando nicotina attraverso le mucose orali o possono essere sniffate, con aumento del rischio di dipendenza e di effetti gravi. L’uso prolungato può causare infatti irritazioni alla gengiva, recessione gengivale e, in alcuni casi, danni ai denti [7], oltre ai già ricordati effetti dannosi legati alla nicotina, soprattutto sulla salute cardiovascolare.
Il piano europeo per una generazione senza fumo di tabacco entro il 2040 dovrebbe essere senza nessun tipo di fumo
Bibliografia
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5. Scala M, Lugo A, Gallus S. Support for smoke-free generation strategies in Italy. Lancet Reg Health Eur. 2024 Jul 22:44:101013.
6. Reali L, Onorati L, Koletzko B, et al. EAP and ECPCP urge ban on novel nicotine-(NNCPS) and non-nicotine-containing products (NNDS) to youth. Acta Paediatr. 2024 Nov;113(11):2354-62.
7. Jackson J M, Weke A, Holliday R. Nicotine pouches: a review for the dental team. Br Dent J. 2023 Oct;235(8):643-6.
ellereali@gmail.com
Errata corrige
Nell’indice della copertina del n. 1/2024 (anche in quello inglese) l’articolo della rubrica “Aggiornamento avanzato” riportava gli autori sbagliati. I nomi corretti sono i seguenti:
L’approccio Touchpoints di Brazelton per gli interventi di sostegno alla genitorialità
Snus e nicotine pouches: nuove forme di assunzione di nicotina tra i giovani
Francesco Accomando, Enrico Valletta UO Pediatria, Ospedale G.B. Morgagni – L. Pierantoni, AUSL Romagna, Forlì
Partendo da una recente esperienza di intossicazione nicotinica in un adolescente, esploriamo brevemente le meno conosciute modalità di assunzione nicotinica note come nicotine pouches e snus . Nel Nord Europa, ma ora anche da noi, rappresentano una porta d’ingresso all’uso dei derivati del tabacco non priva di rischi.
Moving from a recent experience of nicotine intoxication in a teenager, we briefly explore the lesser-known methods of nicotine intake known as nicotine pouches and snus . In Northern Europe, but now also in our country, they represent a gateway to the use of tobacco derivatives that is not without risks.
Come aggiornamento delle precedenti osservazioni sui pericoli connessi alla diffusione dei dispositivi contenenti tabacco e suoi derivati (sigarette elettroniche e sistemi per tabacco riscaldato) [1,2], riteniamo utile segnalare un nuovo, potenzialmente rischioso, metodo di assunzione della nicotina che si sta diffondendo fra i ragazzi: le nicotine pouches
L’occasione ci viene dal recente accesso in pronto soccorso di un adolescente che presentava i sintomi della sindrome da intossicazione nicotinica (cefalea, vertigine, ripetuti episodi di vomito, cardiopalmo) a seguito di una prima assunzione di nicotine pouches durante l’ora di ricreazione a scuola.
Nicotine pouches e snus
Le nicotine pouches sono piccole bustine contenenti nicotina, sali e aromi [Figura 1]. Le più comuni sono distribuite in Italia dalla British American Tobacco Italia con il marchio VELO, la cui vendita è consentita dal decreto direttoriale del 28 febbraio 2024, che ne ha consentito la commercializzazione dopo un’iniziale sospensione [3]. Secondo le indicazioni del sito ufficiale dei produttori, il sacchettino deve essere posizionato fra la gengiva e il labbro superiore, per un periodo massimo di 30 minuti, senza la necessità di dovere masticare il prodotto. Il contenuto in nicotina per bustina varia, in base all’intensità scelta, dai 4 mg ai 14 mg [4]. L’indicazione esplicita è di un “Prodotto per fu-
matori adulti contenente nicotina, sostanza che crea un’elevata dipendenza. Uso sconsigliato ai non fumatori”. La possibilità di assumere la nicotina per via transmucosale orale non è nuova: nei Paesi nordici, per esempio, è ben radicata la consuetudine dello snus Snus è il termine utilizzato per indicare il tabacco in polvere per uso orale, prodotto tramite un processo di umidificazione a vapore e diffuso principalmente in Svezia a partire già dal 1637. Si tratta di una bustina di tabacco [Figura 1], da posizionare fra il labbro superiore e la gengiva, per un tempo che può essere anche di diverse ore (tempo di utilizzo medio: 11-14 ore al giorno), sfruttando la via di assorbimento transmucosale della nicotina [5]. In Italia, così come in tutti i Paesi UE, la vendita e la distribuzione di snus è vietata secondo la Direttiva 92/41/CEE del Consiglio del 15 maggio 1992, con la sola eccezione della Svezia [6]. Negli ultimi anni, anche la Svizzera si è aperta alla libera commercializzazione dello snus: sebbene inizialmente fosse legale unicamente l’importazione per uso privato, dal 2019 è possibile la vendita con una regolamentazione equiparabile agli altri prodotti del tabacco [7].
Il modello svedese
Sul sito dell’Agenzia di Salute Pubblica Svedese (Public Health Agency of Sweden) è possibile apprezzare quanto sia preoccupante la diffusione delle nicotine pouches e di snus fra i giovani. Negli ultimi anni (i dati offrono una panoramica dal 2012 a oggi), si osserva una netta riduzione nell’utilizzo delle sigarette: la percentuale di diciottenni che consumano abitualmente o sporadicamente sigarette si è ridotta di circa il 15% dal 2012. Per quanto riguarda invece il consumo di snus, la situazione è diametralmente opposta: si registra un aumento di quasi il 15%, sempre dal 2012 a oggi, con un picco del 20% nelle giovani ragazze [Figura 2]. Il dato che più colpisce è relativo alle nicotine pouches, attesa la recente introduzione anche in Italia: almeno il 40% dei diciottenni svedesi hanno fatto uso almeno una volta di questo prodotto. Una ragazza su due, considerata la sua maggiore diffusione fra le giovani donne [Figura 3] [8].
Figura 2. In alto: giovani svedesi di diciotto anni che fumano (quotidianamente o sporadicamente) durante il periodo 20122024. In basso: giovani svedesi di diciotto anni che utilizzano snus (quotidianamente o sporadicamente) durante il periodo 2012-2024. (Modificato da: Public Health Agency of Sweden [9]).
Figura 1. A sinistra, le nicotine pouches; a destra, bustine di snus
Figura 3. Percentuale di giovani svedesi di 16 e 18 anni che hanno utilizzato almeno una volta le nicotine pouches nel periodo 2021-2023 (Modificato da: Public Health Agency of Sweden [9]).
Nel 2021, la stessa Agenzia, attraverso interviste ad adolescenti di età compresa tra 13 e 19 anni, ha verificato come questo prodotto sia molto presente nella vita quotidiana dei ragazzi e che molti di loro ne vengono a conoscenza anche attraverso i social media. La pressione dei pari è considerata la principale ragione per la quale i giovani iniziano a usare lo snus che è visto come qualcosa di popolare e alla moda. Molti di loro, indipendentemente dal fatto che lo abbiano provato o meno, non considerano il consumo del prodotto come un problema grave e, in generale, viene percepito come meno dannoso rispetto alle sigarette tradizionali. Infine, i gusti aromatizzati sembrerebbero incoraggiare più persone a provarlo o a continuare a usarlo, pur essendo consapevoli che i produttori scelgono deliberatamente aromi – come dolci e frutta – che attraggono i giovani [9].
Un modello contraddittorio quello svedese, dal momento che la Svezia è considerata “smoke-free” dal 2025 (Paese in cui le persone che fanno uso abituale di fumo di sigaretta è inferiore al 5% rispetto alla popolazione totale), merito della forte stretta politica che dal 2005 ha vietato il fumo nei luoghi pubblici e, dal 2019, anche in molti spazi all’aperto. Nel frattempo, il consumo di prodotti alternativi del tabacco e della nicotina è aumentato vertiginosamente, soprattutto nei giovani [Figura 3].
La diffusione fra gli adolescenti: rischi e pericoli
Negli Stati Uniti, la distribuzione di snus e nicotine pouches è ormai consolidata dalla metà degli anni 2010 e radicata nei giovani tanto che, secondo uno studio di Pediatrics, il consumo fra i ragazzi di questi prodotti è oggi secondo solo alle sigarette elettroniche [10].
La preoccupazione maggiore, ovviamente, è legata alla dipendenza e all’eventuale passaggio ai prodotti tradizionali del tabacco (sigarette) o addirittura all’abuso di altre sostanze. Sempre su Pediatrics, si legge un’interessante segnalazione sulla diffusione di questi prodotti negli USA e sulla recente commercializzazione di nuove formulazioni con un contenuto di nicotina fino a 130 mg per bustina (quasi dieci volte la concentrazione attualmente disponibile nel nostro Paese): le cosiddette super nicotine pouches. A seguito dell’aumentato consumo fra i giovani, ne è conseguito un incremento del numero degli avvelenamenti da nicotina: i casi sono più che raddoppiati negli Stati Uniti tra il 2018 e il 2023. La formulazione e la via di somministrazione di questi prodotti permettono un rapido assorbimento dell’intero contenuto di nicotina della bustina anche in un’ora, rendendoli più potenti, e pericolosi, rispetto agli altri dispositivi su cui si può avere maggiore controllo, come le sigarette elettroniche [11].
Gli effetti collaterali riportati dagli utenti includono sanguinamento gengivale, perdita di coscienza, dipendenza, e sintomi di avvelenamento da nicotina [11]. Al di là, inoltre, degli aspetti sistemici, vi sono anche segnalazioni sulla tossicità e sugli eventi avversi locali con lesioni gengivali e mucosali, parodontali e alterazione della flora batterica orale. Resta inoltre ancora da chiarire il potenziale cancerogeno di questi prodotti che per
il lungo contatto con la mucosa orale potrebbero portare alla comparsa di lesioni precancerose [12].
Strategie di marketing mirate ai giovani
Una nota testata giornalistica londinese, il The Bureau of Investigative Journalism, denuncia che la multinazionale del tabacco utilizzi proprio i social per promuovere l’uso delle nicotine pouches presso i giovani che rappresenterebbero il target preferenziale di questi prodotti. Sfruttando la popolarità di influencer ed eludendo le normative pubblicitarie e le regolamentazioni delle leggi sul tabacco – proprio perché prodotti privi di tabacco – si utilizzano strategie di marketing mirate deliberatamente agli adolescenti; immagini e messaggi studiati appositamente per rendere il prodotto desiderabile a questa fascia d’età, sponsorizzazione di eventi musicali, fino ad arrivare alla distribuzione di campioni gratuiti del prodotto [13]. È facile immaginare quanto un prodotto così maneggevole possa attirare i ragazzi: l’attrattiva di diversi gusti e aromi, la facilità nel reperire il prodotto e la possibilità di essere utilizzato in maniera discreta, in ogni ambiente e situazione, eludendo anche la vigilanza degli adulti.
Conclusioni
La storia clinica del nostro ragazzo si è fortunatamente conclusa nell’arco di una giornata con l’idratazione endovenosa e la somministrazione di un antiemetico. Questa osservazione ci ha comunque indotto ad approfondire l’argomento e a conoscere meglio una modalità di assunzione della nicotina poco nota ai pediatri e, forse, al mondo degli adulti più in generale. Una rapida ricerca sui social ha permesso di apprezzare quanto in realtà questi prodotti siano già diffusi fra i giovani. Si tratta in definitiva di un’ulteriore modalità di assunzione nicotinica sulla quale vigilare, non solo per i rischi di intossicazione acuta ma, soprattutto, per gli effetti a lungo termine e di dipendenza sia nei confronti dei prodotti contenenti nicotina che di altre possibili sostanze d’abuso.
Bibliografia
1. Accomando F, Aricò MO, Valletta E. Sigarette elettroniche e dispositivi per tabacco scaldato: nuovi pericoli per i bambini. Quaderni acp. 2024;31:11-3.
2. Capello F, Valletta E. Sigarette elettroniche e rischio di intossicazione nel bambino. Quaderni acp. 2017;24:191.
5. Idris AM, Ibrahim SO, Vasstrand EN, et al. The Swedish snus and the Sudanese toombak: are they different? Oral Oncol. 1998 Nov;34(6):558-66.
6. https://eur-lex.europa .eu (sito ufficiale di diritto dell’UE).
7. https://www.lexfind.ch/fe/it/tol/25536/it (legislazione svizzera federale e cantonale).
8. Public Health Agency of Sweden, https://www.folkhalsomyndigheten.se/the-public-health-agency-of-sweden/living-conditions-and-lifestyle/andtg/tobacco/use-of-tobacco-and-nicotine-products-among-adolescents.
9. Public Health Agency of Sweden. Use of tobacco and nicotine products among adolescents. 2021, https://www.can.se/publikationer/ cans-nationella-skolundersokning-2021 .
10. Harlow AF, Vogel EA, Tackett AP, et al. Adolescent Use of Flavored Non-Tobacco Oral Nicotine Products. Pediatrics. 2022 Sep 1;150(3):e2022056586.
11. Chow N, Barile JG, Milanaik R. Super Nicotine Pouches: The Need for Intervention. Pediatrics. 2024 Jul 1;154(1):e2023064268.
12. Rungraungrayabkul D, Gaewkhiew P, Vichayanrat T, et al. What is the impact of nicotine pouches on oral health: a systematic review. BMC Oral Health. 2024 Aug 3;24(1):889.
p50: un aiuto per capire una pulsossimetria che non convince
Melodie O. Aricò1 , Benedetta Mainetti1 , Francesco Accomando1,2 , Maurizio Aricò3 , Enrico Valletta1
1UOC Pediatria, Ospedale G.B. Morgagni – L. Pierantoni, AUSL Romagna, Forlì; 2Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università di Bologna;3 UOC Pediatria Medica, ASL Pescara
Partendo dall’osservazione clinica di una discordanza tra la saturazione dell’ossigeno misurata con il pulsossimetro e il dato ottenuto all’emogasanalisi, ci siamo trovati a valorizzare un parametro – il p50 – al quale non avevamo prestato abitualmente grande attenzione. Questo ci ha consentito di rivederne il significato e di approfondire le conoscenze sulle varianti emoglobiniche con alterata affinità per l’ossigeno. Riportiamo in questo articolo una sintesi di quanto conviene tenere a mente per inquadrare correttamente il problema ed evitare indagini complesse e spesso non indispensabili.
Moving from the clinical observation of a discrepancy between the oxygen saturation measured with the pulse oximeter and the data obtained from the blood gas analysis, we valued a parameter – the p50 – to which we had not usually paid much attention. This allowed us to review its meaning and to deepen our knowledge of the hemoglobin variants with altered affinity for oxygen. In this article we report a summary of what should be kept in mind to correctly frame the problem and avoid complex and often unnecessary investigations.
I moderni sistemi automatizzati per l’emogasanalisi (EGA) – siano essi point of care test (POCT) o centralizzati nei laboratori di biochimica clinica ed ematologia – forniscono un ampio ventaglio di informazioni utili in tempi rapidi o addirittura rapidissimi. In ambito pediatrico il loro impiego è fondamentale in sala parto, nei reparti di neonatologia e terapia intensiva, nei contesti di emergenza-urgenza e, più in generale, nel monitoraggio degli scompensi metabolici, elettrolitici e cardiorespiratori. L’interpretazione clinica di alcune importanti variabili relative all’equilibrio acido-base contenute nell’EGA sono già state ben descritte in una FAD pubblicata su Quaderni acp [1]. Una recente esperienza clinica ci ha dato l’occasione, tuttavia, di approfondire la conoscenza di un ulteriore parametro contenuto nell’EGA al quale prestiamo, generalmente, scarsa attenzione.
L’osservazione clinica
Il contesto è quello di un esordio di diabete tipo 1 che, oltre alle tipiche caratteristiche della chetoacidosi diabetica, presenta una saturazione transcutanea dell’ossigeno (StO 2) costantemente inferiore al 90% e correggibile con la somministrazione di O 2, in assenza di un convincente corrispettivo clinico, se si eccettua uno sfumato pallore labiale e una lievissima subcianosi periorale difficilmente apprezzabile per la colorazione
etnica olivastra della cute. Risolta la fase iniziale dello scompenso metabolico al quale era stato attribuito il quadro di apparente insufficienza respiratoria, persisteva tuttavia una saturimetria transcutanea con valori sempre inferiori a 85% che ci ha indotto a mantenere un supporto di O 2 , seppure a basso flusso, in particolare nelle ore notturne. L’ipotesi di un possibile problema legato alla misurazione transcutanea dell’O 2 è stata esclusa dall’EGA: a fronte di una PO 2 di 102-120 mmHg (FiO 2 21%) al capillare arterializzato, la SaO 2 rimaneva a livelli insoddisfacenti (78,6-81,8 %), pur in assenza di distress respiratorio e di patologie polmonari o cardiologiche compatibili con un’alterazione degli scambi gassosi [Tabella 1]. La metaemoglobinemia era assente, l’equilibrio acido-base risultava nell’ambito della normalità, così come la pCO 2 . Una possibile spiegazione di quanto osservato ci poteva venire da quel parametro dell’EGA al quale abbiamo sempre prestato poca attenzione: la p50.
Tabella 1. Emogasanalisi al momento della dimissione, in compenso metabolico e in aria ambiente, a confronto con controllo a un mese
Parametro Unità Capillare arterializzato alla dimissione
Capillare arterializzato dopo un mese
La curva di dissociazione dell’emoglobina: cos’è la p50? Una semplice occhiata a un testo di fisiologia servirà a richiamarci alla memoria alcune nozioni utili. La p50 è un parametro che si inserisce nel contesto della curva di dissociazione dell’emoglobina, una curva sigmoidea che indica come il legame dell’emoglobina con l’ossigeno vari con la pressione parziale dell’ossigeno [Figura 1] [2]. La p50 non è altro che la pO 2 alla quale il 50% delle molecole dell’emoglobina è legato all’ossigeno stesso. La p50 è, in definitiva, un indicatore della capacità dell’emoglobina di legare o rilasciare l’ossigeno. Una p50 bassa indica un’emoglobina con una maggiore affinità per l’ossigeno (l’ossigeno viene trattenuto più saldamente), mentre una p50 alta indica una minore affinità (l’ossigeno è rilasciato più facilmente).
Il valore normale della p50 è, generalmente, 26-28 mmHg a temperatura di 37°C e pH 7.4, ma può variare in relazione a situazioni sia fisiologiche che patologiche. Nell’esempio della Figura 1, lo spostamento a sinistra della curva farebbe scendere la p50 a circa 16 mmHg, mentre uno spostamento verso destra porterebbe la p50 a circa 32 mmHg.
Quali fattori possono influenzare la p50?
La p50 può modificarsi in relazione al pH ematico, alla concentrazione di CO 2 , alla temperatura, ai livelli di 2,3-difosfoglicerato (2,3-DPG) o a causa di variazioni strutturali dell’emoglobina stessa.
pH, pCO2 e l’effetto Bohr
Uno dei principali meccanismi che influenzano la p50 è l’effetto Bohr, che descrive come le modifiche del pH e della concentrazione di CO 2 influenzino l’affinità dell’emoglobina per l’ossigeno. In ambienti acidi (basso pH) o in presenza di alte concentrazioni di CO 2 , l’emoglobina tende a rilasciare più facilmente l’ossigeno ai tessuti. Questo si traduce in un aumento della p50. Al contrario, in condizioni alcaline (pH elevato) o in ambienti con basse concentrazioni di CO 2 – come si verifica nel circolo polmonare – l’emoglobina ha una maggiore affinità per l’ossigeno e la p50 diminuisce.
Effetto del 2,3-DPG (2,3-difosfoglicerato)
Il 2,3-DPG è una molecola che lega l’emoglobina e diminuisce la sua affinità per l’ossigeno. Le condizioni che aumentano il 2,3-DPG, come l’ipossia cronica o l’esposizione a grandi altitudini, tendono a spostare la curva di dissociazione verso destra, elevando la p50 e favorendo la cessione di ossigeno nei tessuti periferici. Al contrario, la riduzione della concentrazione di 2,3-DPG – che può verificarsi per cause genetiche, durante la conservazione prolungata degli eritrociti o per un incremento dell’attività della piruvatokinasi – sposta la curva dell’emoglobina verso sinistra, aumenta l’affinità per l’ossigeno e riduce il rilascio dell’ossigeno ai tessuti riducendo la p50.
Temperatura
L’aumento della temperatura riduce l’affinità dell’emoglobina per l’ossigeno, sposta la curva di dissociazione verso destra e aumenta la p50. L’effetto della temperatura è particolarmente evidente durante l’attività muscolare intensa, quando i muscoli producono calore e necessitano di un maggiore apporto di ossigeno.
Alterazioni strutturali dell’emoglobina
Esiste infine la possibilità che varianti genetiche della struttura delle catene alfa e beta dell’emoglobina ne modifichino l’affinità per l’ossigeno, alterando la sua capacità di legarsi all’ossigeno nei polmoni o di rilasciarlo nei tessuti.
Ancora una volta, in presenza di una variante emoglobinica ad alta affinità per O 2 , la curva si sposterà a sinistra e la p50 si abbasserà, il rilascio di ossigeno ai tessuti sarà più difficoltoso e questo produrrà una risposta eritropoietinica con incremento del numero degli eritrociti. Al contrario, emoglobine a bassa affinità e p50 elevato rilasceranno più ossigeno ai tessuti risultando in una riduzione dell’eritropoiesi con lieve anemia normocitica, mentre la desaturazione dell’emoglobina potrà manifestarsi con un grado variabile di cianosi.
L’ipotesi da noi fatta era, quindi, di trovarsi di fronte a una variante emoglobinica con bassa affinità per l’ossigeno.
Tabella 2. Varianti emoglobiniche con bassa affinità per l’ossigeno [5]
Hb Allentown Hb J-Auckland Hb Saint Mandé
Hb Bassett Hb J-Cairo Hb Santa Juana
Hb Bologna Hb Knossos Hb S-Antilles
Hb Calais Hb Loves Park Hb Schlierbach
Hb Canebiere Hb Lyon-Bron Hb S-Sao Paulo
Hb Çapa Hb M-Boston Hb S-South End
Hb Caribbean Hb M-Iwate Hb Sunshine Seth
Hb Chico Hb M-Milwaukee-I Hb Tilburg
Hb Conakry Hb Mobile Hb Titusville
Hb Connecticut Hb New York Hb Ulm
Hb G-Accra Hb Presbyterian Hb Valme
Hb Goya Hb Providence Hb Vancouver
Hb Grove City Hb Raleigh Hb Vigo
Hb Hazebrouck Hb Roseau-Pointe a Pitre Hb Washtenaw
Hb Hinsdale Hb Rothschild Hb Yoshizuka
Hb Hope Hb Sagami Hb Yuda
Quali sono e come si manifestano le emoglobine con bassa affinità per l’ossigeno?
Va anzitutto detto che le varianti ad alta affinità sono molto più frequenti (circa il doppio) di quelle a bassa affinità che hanno come sintomo più caratteristico la cianosi con una sfumatura grigio-ardesia della cute e delle mucose e che potreb-
Figura 1. Curva di dissociazione dell’emoglobina [2].
bero associarsi ad anemia [3]. Il database delle varianti emoglobiniche e delle talassemie (HbVAR) fornisce un elenco di 48 varianti emoglobiniche con bassa affinità per l’ossigeno [Tabella 2] [4,5]. Secondo Yudin e Verhovsek [6] le varianti note sarebbero oltre 70.
Tabella 3. Possibili presentazioni cliniche di un’emoglobina a bassa affinità per ossigeno [3].
– Nessuna evidenza o storia di malattie cardiache o polmonari
– Bassa saturazione di ossigeno alla pulsossimetria
– Cianosi alla nascita che persiste durante il primo anno di vita (possibile variante della catena alfa)
– Cianosi alla nascita che scompare durante il primo anno di vita (possibile variante della globina gamma)
– Cianosi nella tarda infanzia dalla metà alla fine del primo anno di vita (possibile variante della catena beta)
– Storia familiare di cianosi (con o senza anemia) o emoglobina con bassa affinità per l’ossigeno.
L’età di comparsa della cianosi dipende dal fatto che la variante interessi l’alfa globina o la gamma globina, entrambe sintetizzate in utero, ovvero la beta globina dopo lo switch dalla gamma globina durante il primo anno di vita. Alcune caratteristiche cliniche delle varianti a bassa affinità sono riportate nella Tabella 3. Devono essere escluse le patologie cardiopolmonari (che presentano generalmente altri sintomi oltre alla cianosi), la metaemoglobinemia e la sulfoemoglobinemia; in queste situazioni cliniche, al contrario di quanto avviene con le varianti emoglobiniche a bassa affinità, la somministrazione di ossigeno non modifica apprezzabilmente la StO 2 . Il punto di partenza è, generalmente, una pulsiossimetria che mostra una bassa StO 2 in assenza di apprezzabile sintomatologia cardiorespiratoria, se si eccettua un grado variabile di cianosi come unica manifestazione. Un’emogasanalisi arteriosa, con una PaO 2 normale e una bassa SaO 2 (StO 2 e SaO 2 concordanti), suggerirà la presenza di un’emoglobina con bassa affinità per l’ossigeno e la dimostrazione di una p50 elevata fornirà un elemento aggiuntivo a supporto [5]. Il passo successivo
prevede l’indagine cromatografica per evidenziare eventuali emoglobine patologiche e ai test genetici per identificare le varianti specifiche. Non è infrequente rilevare in qualche familiare un’analoga situazione.
Quali sono e come si manifestano le emoglobine con alta affinità per l’ossigeno?
Come abbiamo detto, le varianti emoglobiniche ad alta affinità sono le più frequenti. Il database HbVAR fornisce un elenco di 103 varianti emoglobiniche con alta affinità per l’ossigeno [Tabella 4] seppure, sullo stesso database, è possibile ricercare manualmente un totale di più di 200 varianti descritte [4]. In presenza di una variante ad alta affinità, la curva di dissociazione dell’emoglobina si sposterà a sinistra e la p50 sarà ridotta, rendendo più difficoltoso il rilascio di O 2 ai tessuti e inducendo, quindi, una risposta eritropoietinica con conseguente policitemia. Le caratteristiche principali delle varianti emoglobiniche ad alta affinità avranno quindi StO 2 generalmente normale, p50 ridotta e policitemia [Tabella 5] [3].
Tabella 5. Possibili presentazioni cliniche di un’emoglobina ad alta affinità per ossigeno [3]
– Nessuna evidenza o storia di malattie cardiache o polmonari
– Normale saturazione di ossigeno alla pulsossimetria
– Eritrocitosi isolata all’emocromo con concentrazioni di emoglobina superiori ai range per età e sesso
– Storia familiare di eritrocitosi
– Alterato screening emoglobinico neonatale con tecnica di cromatografia liquida ad alto rendimento (HPLC) o altra metodica “protein-based”.
La diagnostica differenziale della policitemia comprende la valutazione di possibili eritrocitosi primarie e secondarie [Tabella 6]. In particolare, dovrà escludere quadri di ipossia cronica come patologie cardio-respiratorie e neuromuscolari e patologie oncologiche (tumori epatici e renali secernenti EPO) [7].
Tabella 4. Varianti emoglobiniche con alta affinità per l’ossigeno [5]
Hb Abruzzo Hb Coimbra
Hb Alberta Hb Columbia Missouri
Hb Alcorn County Hb Cowtown
Hb Andrew-Minneapolis Hb Créteil
Hb Angers Hb Dallas
Hb Aurillac Hb Ethiopia
Hb Aurora Hb Fukutomi
Hb Badalona Hb Gavle
Hb Kochi
Hb Kodaira II
Hb La Coruna
Hb Legnano
Hb Linköping
Hb Little Rock
Hb Luton
Hb Malmö
Hb Barcelona Hb Geldrop St Anna Hb McKees Rocks
Hb Bethesda Hb Grange-Blanche
Hb Bologna-St.Orsola Hb Hanamaki-1
Hb Bramall Lane Hb Hanamaki-2
Hb Brie Comte Robert Hb Headington
Hb Brigham Hb Heathrow
Hb British Columbia Hb Helsinki
Hb Bunbury Hb Hinwil
Hb Burlington Hb Hiroshima
Hb Cambridge-MA Hb Hotel-Dieu
Hb Cardarelli Hb J-Cape Town
Hb Chemilly Hb Johnstown
Hb Chesapeake Hb Kempsey
Hb Meulan
Hb Milledgeville
Hb Mito
Hb Miyano
Hb Monplaisir
Hb Nancy
Hb Nantes
Hb Natal
Hb Nebraska
Hb New Mexico
Hb North Chicago
Hb Northwood
Hb Nunobiki
Hb Strasbourg
Hb Ohio Hb Sunnybrook
Hb Olympia Hb Syracuse
Hb Osler
Hb Tarrant
Hb Palmerston North Hb Trollhättan
Hb Pierre-Bénite Hb Tsurumai
Hb Pitie-Salpetriere Hb Ty Gard
Hb Poissy Hb Vancleave
Hb Potomac Hb Vanderbilt
Hb Radcliffe Hb Venissieux
Hb Rahere Hb Vexin
Hb Rainier Hb Vila Real
Hb Regina Hb Villaverde
Hb Saint Nazaire Hb Waterland
Hb Saint-Jacques Hb Wood
Hb San Cataldo Hb Yakima
Hb San Diego Hb York
Hb Saratoga Springs Hb Ypsilanti
Hb Sassari
Hb South Milwaukee
Hb Sparta
Hb Zoeterwoude
Tabella 6. Diagnosi differenziale dell’eritrocitosi in età pediatrica [7]
Eritrocitosi primaria
– Policitemia vera (rara in età pediatrica)
– Mutazioni congenite nei recettori o nelle vie di segnalazione dell’eritropoietina
Eritrocitosi secondaria
– Ipossia cronica
- Cardiopatie congenite cianogene
- Patologie respiratorie croniche
- Malattie neuromuscolari
- Sindrome da ipoventilazione (OSAS)
– Aumento della produzione di eritropoietina
- Emoglobinopatie con alta affinità per l’ossigeno
- Tumori
- Malattie renali
– Altitudini elevante
– Esposizione a sostanze (farmaci stimolanti EPO)
– Eritrocitosi relativa (disidratazione)
Tabella 7. Emoglobine a normale affinità con alterata SpO 2 [4,8,9]
Variante emoglobinica Mutazione
Hb Lansing
Hb Bonn
Hb M-Iwate
Hb Cheverly
Hb Hammersmith
Hb Titusville
Hb Koln
Hb Delaware
Hb Okazaki
Hb Regina
Il dosaggio dell’EPO può aiutare a orientarsi in questo contesto: nei soggetti portatori di una variante emoglobinica ad alta affinità, infatti, risulta elevata o inappropriatamente normale in presenza di livelli di emoglobina aumentati e di una normale saturazione di ossigeno [5]. Nel sospetto quindi una variante emoglobinica con alta affinità, una volta escluse le principali cause di eritrocitosi, è suggestivo un p50 ridotto (sensibilità 5%, specificità 77%) a cui deve seguire, al fine della diagnosi, l’indagine cromatografica o elettroforetica e gli eventuali test genetici.
Se StO2 e SaO2 sono discordanti?
Talora, a una StO 2 bassa potrebbe corrispondere una SaO 2 normale (StO 2 e SaO 2 discordanti).
L’evenienza più comune è la presenza di una interferenza nella misurazione transcutanea della saturazione dell’emoglobina come artefatti da movimento, ipoperfusione periferica, interferenza con la luce ambiente, smalto per le unghie. Una volta escluse queste eventualità, in caso di persistenza di StO 2 con riscontro allo studio emogasanalitico di valori di SaO 2 e PaO 2
α 1/α 2-globin Asp94Asn lieve cianosi periferica possibile associazione con α-thalassemia
β -globin Val98Met lieve anemia emolitica
Ridotta
Aumentata
α 2-globin Leu91Val - -
β -globin Cys93Arg asintomatica
β -globin Leu96Val lieve eritrocitosi
Aumentata
Aumentata
Figura 2. Proposta di percorso diagnostico nel sospetto di variante emoglobinica.
SÌ NO
normali, è possibile ipotizzare una variante emoglobinica con alterata assorbanza alle lunghezze d’onda del pulsossimetro (660 nm e 940 nm) [Tabella 7] [4,8,9]. Il numero di queste varianti emoglobiniche è piuttosto ridotto e non presentano caratteristiche univoche. Considerando l’affinità per O 2 , possono manifestarsi con StO 2 e SaO 2 discordanti, sia varianti a bassa affinità (Hb M-Iwate, Hb Cheverly, Hb Hammersmith e Titusville), ad affinità normale (Hb Lansing e Hb Bonn) o con affinità aumentata (Hb Koln, Hb Okazaki e Hb Regina). Alcune di queste varianti emoglobiniche possono avere un certo grado di instabilità che, peraltro, non è presente né di grado sovrapponibile in tutte.
Dal punto di vista clinico, lo spettro fenotipico può andare da forme asintomatiche come Hb Lansing, forme di anemia emolitica grave per la Hb Hammersmith a una cianosi a esordio precoce anche neonatale da metaemoglobinemia congenita per Hb M-Iwate [4,5].
In termini di frequenza sono varianti complessivamente rare; le più descritte sono la Hb di Koln – la variante instabile più frequente e identificata in diversi gruppi etnici – dovuta per lo più a una mutazione de novo e la Hb M-Iwat che dà gravi quadri di metaemoglobinemia congenita.
Commento
L’approfondimento rispetto all’iniziale osservazione di una bassa StO 2 in assenza di una franca sintomatologia respiratoria o cardiaca ci ha portati alla conferma di una persistente-
mente ridotta SaO 2 in presenza di una normale PaO 2 e, quindi, all’ipotesi di un’alterazione dell’affinità dell’emoglobina per l’ossigeno. Valorizzare il dato di un p50, costantemente elevato rispetto al normale nonostante la risoluzione della chetoacidosi diabetica, ha rafforzato ulteriormente questa ipotesi. La successiva indagine genetica, ci ha portati alla possibile identificazione di una mutazione missenso del gene della betaglobina il cui significato è in corso di valutazione.
Il numero delle varianti emoglobine è elevatissimo – certamente superiore a 1000 – ma solo alcune sono associate ad un’alterata affinità per l’ossigeno [9]. L’uso della pulsossimetria e il successivo confronto con i valori ottenuti con l’EGA (PaO 2 , SaO 2 e p50) può consentire, non solo di porre il sospetto di una variante emoglobinica con alterata affinità per l’ossigeno, ma anche di evitare preoccupazione e indagini non necessarie per il paziente che non richiederà poi alcun trattamento specifico [8,10].
Proponiamo, infine, una flow chart diagnostica che può orientare il clinico nel sospettare e indagare una possibile variante emoglobinica [Figura 2].
La bibliografia di questo articolo è consultabile online melodieolivialoredanarosa.arico@auslromagna.it
Stress prenatale nelle madri migranti e tratti autistici nella prole
Recentemente stanno emergendo prove di una maggiore prevalenza di autismo nei figli di madri con un background migratorio, come riportato dalla Commissione su migrazione e salute di Lancet
A oggi, i meccanismi alla base di questa relazione sono poco compresi, ma verosimilmente l’evento stressante della migrazione da un Paese a un altro agisce in particolare nella fase intrauterina di sviluppo del cervello infantile. La migrazione infatti include vari elementi causanti stress significativo: dai motivi che rendono necessaria la partenza (povertà, guerre, violenza) alle frequenti difficoltà di trasferimento, in particolare nei viaggi transcontinentali, ai problemi di adattamento, riassestamento, separazione familiare e discriminazione vissuta nel nuovo Paese.
Uno studio olandese ha valutato il ruolo dell’esposizione allo stress prenatale come mediatore nell’associazione tra migrazione materna e tratti autistici infantili, valutando 4.727 madri – fra cui 1.773 (il 38%) erano migranti di prima e seconda generazione nei Paesi Bassi – e i loro figli.
Lo studio è stato condotto nella coorte prospettica “Generation R” basata sulla popolazione. Lo stress prenatale è stato valutato con questionari relativi a eventi di vita stressanti, funzionamento familiare, autostima, difficoltà di lunga durata, sintomi di psicopatologia, supporto sociale e discriminazione percepita. I tratti autistici sono stati misurati all’età di 6 anni esclusivamente con la scala di reattività sociale riportata dai genitori (SRS); questa scala non ha un cut-off diagnostico, ma fornisce una buona impressione dei tratti autistici ed è utilizzata di routine per lo screening nella pratica clinica olandese. È composta da 3 gruppi di item, che valutano la cognizione sociale, la comunicazione sociale e le stereotipie, ed è relativa alle osservazioni dei genitori sul comportamento dei figli nei 6 mesi precedenti.
Sono state eseguite analisi di mediazione multipla longitudinale, stratificate in base al Paese di origine della migrazione (in Europa e fuori dall’Europa) a causa delle differenze nelle caratteristiche della migrazione.
La storia materna di migrazione è stata associata a maggiore stress vissuto e a punteggi più alti nei tratti autistici dei figli (da Paesi europei: media SRS = 0,42; da Paesi extraeuropei: media = 0,50) rispetto alle donne native olandesi (media SRS: 0,38, p < 0,01). Lo stress prenatale, in particolare dato dalla discriminazione percepita, e poi dallo stato psicopatologico della madre e dal basso livello di supporto sociale, ha contribuito per circa metà all’effetto totale della migrazione materna, risultato valido anche dopo l’aggiustamento per i fattori sociodemografici.
Ciò dimostra che lo stress vissuto durante la gravidanza media in maniera significativa l’associazione tra l’evento migratorio materno e i tratti autistici infantili. Studi precedenti hanno già riportato che il rischio di spettro autistico a basso funzionamento nella prole aumenta quando la migrazione materna avviene nell’anno precedente o nell’immediata prossimità del parto. Il risvolto sulle pratiche assistenziali dovrebbe includere un potenziamento delle cure alle donne gravide immigrate, offrendo supporto adattato al livello socioculturale per colmare le disparità in termini di offerta di salute e di integrazione sociale. La ricerca futura potrebbe individuare interventi precoci per poi valutare se la conseguente riduzione dello stress prenatale tra le donne migranti possa portare a riduzione dell’incidenza di spettro autistico nella prole.
y de Leeuw AE, Ester WA, Bolhuis K, et al. Maternal Migration, Prenatal Stress and Child Autistic Traits: Insights From a Population-Based Cohort Study. J Am Acad Child Adolesc Psychiatry. 2025 Jan;64(1):41-52.
La LEGO® Terapia per l’autismo
Intervista di Angelo Spataro1 a Antonio Narzisi2
1 Pediatra di famiglia, Palermo; 2 Dirigente Psicologo, Psicoterapeuta e PhD in Neurosceinze dello Sviluppo. Referente per i Disturbo dello Spettro Autistico presso il Dipartimento di Psichiatria e Psicofarmacologia dello Sviluppo dell’IRCCS Fondazione Stella Maris di Calambrone, Pisa
Che cos’è la LEGO® Terapia?
La LEGO® Terapia è un programma terapeutico che utilizza i mattoncini LEGO® come strumento principale per facilitare lo sviluppo delle abilità sociali nei bambini con disturbo dello spettro autistico (ASD). Questo programma si basa sul gioco semistrutturato, in cui i bambini lavorano insieme per costruire progetti utilizzando i LEGO®. Le attività di costruzione richiedono che i bambini si comunichino tra loro, risolvano problemi e collaborino per raggiungere un obiettivo comune, migliorando così le loro abilità sociali ed emotive. La LEGO® Terapia è particolarmente utile per affrontare le difficoltà di interazione, comunicazione e gestione delle emozioni che spesso caratterizzano l’autismo. Il gioco con i mattoncini LEGO®, infatti, stimola la creatività, favorisce l’autoespressione e incoraggia la cooperazione in modo naturale e non minaccioso.
A chi è rivolta?
La LEGO® Terapia è rivolta principalmente ai bambini e adolescenti con disturbi dello spettro autistico (ASD). Questo approccio è particolarmente utile per coloro che hanno difficoltà nelle interazioni sociali, nella comunicazione e nel comportamento, caratteristiche tipiche dei bambini con autismo. La LEGO® Terapia si adatta anche ad altre difficoltà, come problemi nell’apprendimento, disturbi emotivi o comportamentali. È utilizzata in contesti terapeutici, scolastici e anche a casa, con l’obiettivo di migliorare le competenze relazionali, comunicative ed emotive.
In particolare, è indicata per i bambini che potrebbero trovare difficoltà nell’interagire spontaneamente con i pari, ma che possono essere stimolati a farlo in un contesto di gioco semistrutturato e sicuro.
Su quali basi teoriche si basa?
La LEGO® Terapia si basa su diverse teorie psicologiche e pedagogiche. Innanzitutto, si rifà alla teoria dell’apprendimento sociale di Albert Bandura, che sottolinea come i bambini apprendano osservando e interagendo con gli altri. Nel contesto della LEGO® Terapia, i bambini imparano a interagire socialmente attraverso il gioco con i LEGO®, in cui la collaborazione e la comunicazione sono necessarie per completare i compiti. Inoltre, si ispira alla teoria dell’intelligenza emotiva di Daniel Goleman, che mette in luce l’importanza di sviluppare la consapevolezza e la gestione delle proprie emozioni. La LEGO® Terapia aiuta i bambini a esprimere e comprendere le emozioni in modo sicuro, migliorando la loro capacità di interagire con gli altri. Infine, la metodologia si basa sulla teoria dell’approccio cognitivo-comportamentale, che stimola i bambini ad affrontare le difficoltà sociali in modo strutturato e pratico, facilitando l’apprendimento di nuove abilità sociali attraverso l’azione.
Chi può effettuarla?
La LEGO® Terapia deve essere condotta da professionisti con esperienza nell’ambito dell’autismo e della gestione delle difficoltà comportamentali e sociali. È importante che i professionisti siano in grado di adattare l’approccio alle esigenze specifiche di ogni bambino, creando un ambiente sicuro, stimolante e privo di pressioni.
Vi sono evidenze cliniche sulla validità del gioco con i mattoncini LEGO?
Le evidenze cliniche che supportano l’efficacia della LEGO® Terapia nel migliorare le abilità sociali dei bambini con autismo sono attualmente oggetto di studio con esiti incoraggianti. Il progetto di LEGO® Terapia è stato sviluppato inizialmente dal dottor Dan LeGoff, che ha utilizzato i LEGO® per facilitare l’interazione tra bambini con autismo. Diversi studi sulla LEGO® Terapia che abbiamo riportato in una rassegna della letteratura (Narzisi et al., 2021) informano la comunità scientifica e non solo che la LEGO® Terapia è un trattamento promettente nel migliorare le capacità di comunicazione sociale, di risoluzione di problemi e di collaborazione con i pari. Presso l’IRCCS Fondazione Stella Maris, io e miei collaboratori stiamo conducendo un trial randomizzato su questo approccio. Questo studio, registrato su ClinicalTrials.gov, ha l’obiettivo di valutare scientificamente i benefici della LEGO® Terapia per ragazzi con autismo. I risultati preliminari indicano che il gioco con i mattoncini LEGO® può migliorare significativamente la partecipazione sociale, l’autocontrollo e la gestione delle emozioni nei bambini con disturbi dello spettro autistico. Gli studi su questo approccio sono in continuo aumento. Il nostro trial terminerà nell’aprile del 2025 e sarà un piacere condividere i risultati con la comunità scientifica e con chi potrà esserne interessato. spataro.angelo7757@gmail.com
L’ambiente può prevenire i disturbi della vista?
Annamaria Sapuppo, Elena Uga Pediatri per
un mondo possibile
Il nostro stile di vita, sempre più sedentario e caratterizzato da un uso eccessivo di dispositivi elettronici, sta impattando negativamente sulla vista, soprattutto nei bambini. La frequentazione degli spazi verdi e l’esposizione alla luce naturale, dall’altro lato, possono influenzare positivamente la salute visiva, prevenendo anche alcuni disturbi, come la miopia. Numerosi studi suggeriscono come trascorrere più tempo all’aperto riduca il rischio di sviluppare miopia, in quanto la luce naturale stimola la produzione di dopamina, che aiuta a prevenire l’allungamento del bulbo oculare. Al contrario, passare troppo tempo davanti agli schermi ne aumenterebbe la prevalenza. Inoltre, anche l’attività fisica all’aria aperta ha molti benefici sulla vista, tra cui il mantenimento e il miglioramento di una buona flessibilità e funzionalità della muscolatura oculare e del microcircolo, nonché la prevenzione di patologie oculari come la cataratta e la degenerazione maculare. La luce blu emessa dagli schermi, d’altra parte, può causare affaticamento visivo, secchezza oculare e disturbare il sonno, con effetti negativi sulla salute generale e oculare. Per contrastare questi problemi, sarebbe meglio limitare l’esposizione a dispositivi elettronici, specialmente prima di dormire, e incoraggiare i bambini a giocare all’aperto. In conclusione, l’esposizione a un ambiente naturale e l’attività fisica all’aperto possono rappresentare strumenti efficaci per prevenire disturbi visivi e promuovere una buona salute oculare, specialmente durante l’infanzia.
Our increasingly sedentary lifestyle, characterized by excessive use of electronic devices, negatively impacts vision, especially in children. On the other hand, spending time in green spaces and exposure to natural light can positively influence visual health, even preventing certain conditions such as myopia. Numerous studies suggest that spending more time outdoors reduces the risk of developing myopia, as natural light stimulates the production of dopamine, which prevents the elongation of the eyeball. Conversely, spending too much time in front of screens may increase the prevalence of myopia. Additionally, outdoor physical activity offers many benefits, including maintaining good flexibility and function of the eye muscles, improving microcirculation, and preventing eye diseases such as cataracts and macular degeneration. However, the blue light emitted by screens can cause eye strain, dryness, and disrupt sleep, negatively impacting general and eye health. Limiting exposure to electronic devices, particularly before bedtime, is advisable to address these issues. Encouraging children to play outdoors can stimulate their vision and enhance their psychological well-being. In conclusion, a natural environment and outdoor physical activity can effectively prevent visual disorders and promote good eye health, especially during childhood.
Introduzione
Negli ultimi anni la nostra vita quotidiana è diventata sempre più sedentaria e caratterizzata dall’uso prolungato di dispositivi elettronici, anche in età pediatrica [1]. A fronte di una popolazione mondiale sempre più “urbana”, gli spazi cittadini vengono occupati per lo più dalle automobili e sono dedicati principalmente alle esigenze di adulti sani e lavoratori anziché alle esigenze dei piccoli. D’altro canto, sono sempre più forti le evidenze scientifiche che sottolineano come la presenza di spazi verdi e la loro frequentazione siano cruciali per il benessere della popolazione, a partire dai primi 1000 giorni di vita per arrivare all’età adulta. Un recente lavoro epidemiologico italiano, pubblicato su Nature, ha stimato che, grazie al rinverdimento delle aree residenziali, sarebbero state prevenibili 28.433 morti in Italia nel 2022, pari al 5% del carico di mortalità totale [2]. La presenza di spazi verdi vicini al luogo di residenza o alla scuola diventa quindi cruciale, andando a influenzare positivamente lo sviluppo cognitivo e psicomotorio, a ridurre lo stress e il rischio di obesità e sedentarietà e prevenendo lo sviluppo di malattie allergiche, infettive e cardiovascolari [3], nonché oculari. Anche l’esposizione a fattori esterni che agiscono sulla superficie oculare come polvere, inquinanti ambientali e anche la luce blu degli schermi, con i conseguenti cambiamenti del microbioma della superficie oculare, può favorire lo sviluppo di patologie dell’occhio (in particolare quelle della superficie) [4]. In questo contesto il tempo trascorso all’aperto dai bambini (e dalle mamme nei primi 1000 giorni) diventa cruciale, non solo per il benessere fisico complessivo, ma anche per la salute specifica degli occhi, andando a influenzare in maniera diretta e indiretta la “storia della vista” di ogni individuo tramite l’esposizione alla luce naturale e l’attività all’aria aperta.
Ambiente e prevenzione della miopia
La miopia è un difetto refrattivo che si verifica quando il bulbo oculare cresce troppo in lunghezza, facendo sì che la luce si focalizzi davanti alla retina, anziché direttamente su di essa, e causa una visione sfocata degli oggetti distanti. Si sviluppa spesso durante l’infanzia e può essere influenzato da fattori genetici e ambientali. A causa dell’aumento del tempo trascorso davanti agli schermi e delle attività che richiedono una visione ravvicinata, come i videogiochi e lo studio, è emerso un incremento significativo dei casi di miopia tra i più giovani. Studi recenti hanno dimostrato che trascorrere del tempo all’aperto può ridurre significativamente il rischio di sviluppare la miopia nei bambini e questi dati sono stati riportati in una recente metanalisi, mostrando un’associazione significativa tra l’aumento del tempo trascorso all’aperto e tassi di miopia più bassi [5]. I bambini australiani che trascorrono più tempo in attività all’aperto con una maggiore esposizione quotidiana alla luce esterna (105 contro 61 min/giorno) hanno mostrato una prevalenza di miopia inferiore (3,3%) rispetto ai bambini di Singapore (29,1%). Un altro recente studio, che ha valutato l’effetto protettivo di 0, 40 e 80 minuti di tempo aggiuntivo all’aperto tra bambini cinesi di 6-9 anni per oltre 2 anni, ha osservato una relazione dose-risposta tra il tempo di esposizione all’aperto e insorgenza e progressione della miopia. L’effetto protettivo è stato associato alla durata dell’esposizione e all’intensità della luce [6]. Allo stesso modo recenti revisioni sistematiche e metanalisi rafforzano l’impatto protettivo del tempo trascorso all’aperto contro la miopia e evidenziano una riduzione del 2-5% della sua prevalenza e una riduzione del 24-46% del rischio relativo di incidenza di miopia per ogni ora aggiuntiva di tempo all’aperto a settimana [7]. L’effetto protettivo del tempo trascorso all’aperto contro la miopia è stato attribuito principalmente al livello e alla composizione spettrale della luce diurna (alti livelli di luce, ampia distribuzione spettrale, che include più lunghezze d’on-
da della luce artificiale), alle caratteristiche visuospaziali (alta frequenza spaziale) e ai profili accomodativi (minore variazione e richiesta) dell’ambiente esterno, tutti assenti nella maggior parte degli ambienti interni, specialmente nelle scuole. Infatti, guardare oggetti distanti permette ai muscoli oculari di rilassarsi, contrastando gli effetti negativi delle attività che richiedono una visione ravvicinata. Oltre a proteggere la vista, il gioco all’aperto contribuisce all’aumento dell’attività fisica, riduce comportamenti sedentari e migliora il benessere generale. Inoltre, l’esposizione alla luce naturale sembra rallentare la crescita assiale dell’occhio, un fattore chiave nello sviluppo della miopia, stimolando la produzione di dopamina nella retina. Questo neurotrasmettitore gioca un ruolo chiave nel controllo della crescita del bulbo oculare, prevenendo un allungamento eccessivo dell’occhio [8]. A oggi, pertanto, l’aumento dell’esposizione alla luce naturale si può considerare l’intervento più sicuro, economico e non invasivo per prevenire o ritardare l’insorgenza della miopia.
Maggiore esposizione alla luce naturale e minore esposizione alla luce blu degli schermi Rispetto alla luce artificiale, che può essere meno intensa e portare a un affaticamento visivo, la luce del sole offre un’illuminazione più equilibrata e diffusa. Questo aiuta a migliorare il comfort visivo, grazie anche alla maggiore varietà di movimenti oculari che si hanno all’aperto, e riduce la tensione oculare, comune dopo lunghe ore trascorse davanti a uno schermo. Inoltre, l’esposizione alla luce solare regola il ritmo circadiano, che è essenziale per una buona qualità del sonno, per il recupero e la salute generale, inclusa quella degli occhi, contribuendo a prevenire condizioni come l’affaticamento oculare. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha pubblicato nel 2019 le linee guida su Attività fisica, comportamento sedentario e sonno per i bambini al di sotto dei 5 anni [9]. Queste raccomandano di incrementare l’attività fisica e le ore di sonno e si soffermano sul tempo che i bambini dovrebbero trascorrere in condizioni sedentarie (davanti agli schermi, cioè a guardare televisione, video e videogiochi), al fine di ridurre il rischio della cosiddetta Computer Vision Syndrome (CVS o sindrome da visione al computer), la cui incidenza è in forte ascesa, soprattutto tra i bambini:
• 0-1 anno: il tempo di esposizione consigliato è zero;
• 2-4 anni: non più di un’ora al giorno;
• > 4 anni: non più di due ore al giorno. Con CVS si descrivono in sintesi un gruppo di problemi relativi alla vista derivanti dall’uso prolungato di computer, tablet, e-reader e telefoni cellulari. Il livello di severità di queste alterazioni sembra aumentare con l’aumentare del tempo di esposizione allo schermo digitale. I sintomi più comuni associati a CVS sono: affaticamento degli occhi, mal di testa, visione offuscata, occhio secco, dolore a collo e spalle. Questi sintomi possono essere causati da diversi fattori correlati all’uso di schermi, come: scarsa illuminazione, abbagliamento da schermo digitale, distanze di visione improprie, seduta non adeguata, problemi visivi non corretti e, chiaramente, una combinazione di tutti questi fattori messi insieme. Molti dei sintomi visivi percepiti sono temporanei e diminuiscono quando si interrompe l’esposizione; tuttavia, alcuni soggetti possono sperimentare una persistente riduzione delle capacità visive, tra cui una visione a distanza offuscata. Inoltre, in caso di esposizione alla luce blu prima di dormire, ci può essere interferenza con la produzione di melatonina, l’ormone che regola il sonno, portando a disturbi del sonno, specialmente nei bambini e negli adolescenti [10]. A tal proposito, studi recenti hanno sottolineato l’importanza di ridurre l’utilizzo degli schermi elettronici nelle ore serali, in quanto potrebbero influire su qualità e durata del sonno e sulle capacità di reazione e attenzione il giorno successivo [11,12]. In generale, l’uso prolungato di tutti
i tipi di dispositivi digitali, fortemente incrementato dopo la pandemia da SARS-CoV-2, sarebbe correlato a effetti negativi sulla durata del sonno dei bambini, sui risultati scolastici e sullo sviluppo cognitivo [13].
Neurosviluppo, riduzione dello stress e benessere psicologico
La vista è una funzione adattiva e deve essere considerata un prerequisito fondamentale per il neurosviluppo, perché permette l’organizzazione e la comprensione dei dati raccolti dal sistema visivo durante la vita quotidiana influenzando lo sviluppo neuromotorio, cognitivo ed emotivo. Le funzioni visive maturano gradualmente durante la vita postnatale e il loro sviluppo è strettamente legato all’ambiente e all’esperienza [14]. In quest’ottica stare all’aperto offre una varietà di stimoli visivi che non si trovano in ambienti chiusi. La diversità di colori, forme e movimenti stimola la percezione visiva e mantiene gli occhi attivi. Questa stimolazione è particolarmente benefica per i bambini poiché contribuisce allo sviluppo delle capacità visive e non solo. Inoltre, il contatto con la natura e l’esposizione all’aria aperta hanno un risaputo impatto positivo sul benessere psicologico a tutte le età [15]. A livello fisico lo stress provocato da stili di vita indoor comporta continua sovrastimolazione neurologica, deficit di attenzione, iperattività, depressione, aggressività, deficit di concentrazione, problemi di insonnia, disturbi da sedentarietà, picchi di stress protratti nel tempo e aumento dei disturbi visivi, peggiorati dall’utilizzo eccessivo degli schermi digitali. Stare all’aperto può invece ridurre i livelli di stress e ansia, fattori che possono influenzare negativamente anche la salute oculare e causare la CVS. Stare in natura ha un effetto calmante e rinvigorente, e il semplice atto di trascorrere tempo all’esterno può migliorare l’umore e la salute mentale. Un buon stato d’animo è essenziale per il benessere complessivo e può contribuire a una migliore cura degli occhi.
Prevenzione di malattie oculari
La prevenzione delle malattie oculari è attualmente oggetto di molte ricerche. Per esempio, l’esposizione alla luce blu degli schermi provoca reazioni fotochimiche nella maggior parte dei tessuti oculari, in particolare nella cornea, nel cristallino e nella retina, causando possibili danni temporanei o permanenti. Sebbene non ci siano prove di un effetto benefico delle lenti che bloccano la luce blu per la prevenzione delle malattie oculari, una dieta ricca di luteina e zeaxantina (pigmenti retinici naturali che filtrano la luce blu) e antiossidanti (vitamine C, E, zinco, ecc.) come la dieta mediterranea, potrebbe contribuire alla prevenzione dei danni fotochimici oculari, prevenendo lo stress ossidativo [16]. Analizzando quanto finora riportato in letteratura per l’età pediatrica, un recente studio caso-controllo ha esaminato la relazione tra l’esposizione alla luce solare durante lo sviluppo retinico postnatale e il rischio di sviluppare retinoblastoma (Rtb) di tipo non ereditario. In particolare, nei bambini diagnosticati dopo i 12 mesi di età, l’esposizione al sole durante il secondo anno di vita sembrava essere inversamente correlata con una malattia intraoculare più avanzata nei bambini con Rtb bilaterale, coerentemente con gli effetti dell’esposizione alla vitamina D sulla diffusione intraoculare, suggerendo potenziali strategie chemiopreventive [17]. Un altro studio avrebbe analizzato la correlazione tra anomalie morfologiche delle ghiandole di Meibomio, che possono essere associate alla “malattia dell’occhio secco”, e diversi fattori di rischio in una popolazione pediatrica, evidenziando come la ridotta esposizione all’aria aperta possa essere correlata con la maggiore insorgenza di anomalie ghiandolari e, quindi, di occhio secco, specialmente in associazione ad aumentato indice di massa corporea (BMI) e abitudini alimentari non salutari [18]. Pertanto, l’esposizione all’aria aperta, pos-
sibilmente in aree poco inquinate e alla luce solare, uno stile di vita attivo e buone abitudini alimentari possono ridurre il rischio di alcune patologie oculari in età pediatrica, oltre alla già citata miopia, ma che si svilupperanno in età adulta (glaucoma, degenerazione maculare senile, retinopatia diabetica) probabilmente come conseguenza di una miglior salute cardiovascolare e di un buon microcircolo. Al contrario, in presenza di ambienti fortemente inquinati, il particolato esterno, nel contesto del cosiddetto “esposoma”, può incrementare nei bambini il rischio di sviluppare patologie oculari, specialmente a carico della superficie dell’occhio, come le congiuntiviti [19].
Consigli per incoraggiare il gioco all’aperto e conclusioni
In conclusione incoraggiare i bambini a giocare all’aperto non solo favorisce uno sviluppo sano e attivo, ma è anche una strategia efficace per proteggere la loro vista. Con l’aumento dei casi di miopia fin dalla prima infanzia è importante attuare abitudini che possano contrastare questa tendenza e garantire una buona salute visiva per le future generazioni. Per aiutare i bambini a trascorrere più tempo all’aperto si possono fornire ai genitori alcuni suggerimenti pratici:
• Partecipare al gioco: giocare insieme ai bambini può rendere l’attività più divertente e coinvolgente.
• Sport preferiti: incoraggiare i bambini a praticare i loro sport preferiti all’aperto.
• Esplorare nuovi parchi: visitare diversi parchi e aree giochi per mantenere l’interesse vivo.
• Organizzare picnic : pianificare attività all’aperto con amici e familiari per creare momenti piacevoli e memorabili. Anche WWF nelle sue 50 cose da fare prima degli 11 anni [20] inserisce molte attività che possono stimolare attivamente la vista, come osservare con una lente un pezzo di prato, osservare un fondale marino con pinne e maschera, osservare le stelle cadenti, seminare una pianta e osservarne la crescita. Anche un organo di senso specifico come l’occhio è fortemente influenzato dall’esposoma ambientale che, tramite interferenze dirette e indirette, può peggiorarne la funzione e predisporlo allo sviluppo di patologie. D’altro canto un corretto stile di vita che mette al centro la frequentazione degli ambienti naturali può andare direttamente a migliorare la qualità della vista e a mantenere una buona funzionalità nel tempo, partendo dall’infanzia.
2. Giannico OV, Sardone R, Bisceglia L, et al. The mortality impacts of greening Italy. Nat Commun. 2024 Dec 1;15(1):10452.
3. Sapuppo A, Uga E. La “Vitamina N”: i benefici della frequentazione degli spazi verdi. Il Cesalpino. 2024;61:44-8.
4. Tian Y, Zhang T, Li J, Tao Y. Advances in development of exosomes for ophthalmic therapeutics. Adv Drug Deliv Rev. 2023 Aug:199:114899.
5. Biswas S, El Kareh A, Qureshi M, et al. The influence of the environment and lifestyle on myopia. J Physiol Anthropol. 2024 Jan 31;43(1):7.
6. He X, Sankaridurg P, Wang J, et al. Time outdoors in reducing myopia: a school-based cluster randomized trial with objective monitoring of outdoor time and light intensity. Ophthalmology. 2022 Nov;129(11):1245-54.
7. Dhakal R, Shah R, Huntjens B, et al. Time spent outdoors as an intervention for myopia prevention and control in children: an overview of systematic reviews. Ophthalmic Physiol Opt. 2022 May;42(3):545-58.
8. Zhou X, Pardue MT, Iuvone PM, Qu J. Dopamine signaling and myopia development: What are the key challenges. Prog Retin Eye Res. 2017 Nov:61:60-71.
9. Guidelines on physical activity, sedentary behaviour and sleep for children under 5 years of age. World Health Organization, 2019.
10. Feder MA, Baroni A. Just Let Me Sleep in: Identifying and Treating Delayed Sleep Phase Disorder in Adolescents. Psychiatr Clin North Am. 2024 Mar;47(1):163-178.
11. Perrault AA, Bayer L, Peuvrier M, et al. Reducing the use of screen electronic devices in the evening is associated with improved sleep and daytime vigilance in adolescents. Sleep. 2019 Sep 6;42(9):zsz125.
12. Abid R, Ammar A, Maaloul R, et al. Nocturnal Smartphone Use Affects Sleep Quality and Cognitive and Physical Performance in Tunisian School-Age Children. Eur J Investig Health Psychol Educ. 2024 Mar 28;14(4):856-69.
13. Sánchez-Miguel PA, Sevil-Serrano J, Sánchez-Oliva D, Tapia-Serrano MA. School and non-school day screen time profiles and their differences in health and educational indicators in adolescents. Scand J Med Sci Sports. 2022 Nov;32(11):1668-81.
14. Purpura G, Tinelli F. The development of vision between nature and nurture: clinical implications from visual neuroscience. Childs Nerv Syst. 2020 May;36(5):911-7.
15. Hartig T, Mitchell R, de Vries S, Frumkin H. Nature and health. Annual Review of Public Health. 2014;35:207-28.
16. Cougnard-Gregoire A, Merle BMJ, Aslam T, et al. Blue Light Exposure: Ocular Hazards and Prevention-A Narrative Review. Ophthalmol Ther. 2023 Apr;12(2):755-88.
17. Orjuela-Grimm M, Carreño SB, Liu X, et al. Sunlight exposure in infancy decreases risk of sporadic retinoblastoma, extent of intraocular disease. Cancer Rep (Hoboken). 2021 Dec;4(6):e1409.
18. Parikh M, Sicks LA, Pang Y. Body mass index, diet, and outdoor activity linked with meibomian gland abnormalities in children. Optom Vis Sci. 2024 Sep 1;101(9):542-6.
19. Ruan Z, Högdén A, Zhang T, et al. Daily gaseous air pollution and pediatric conjunctivitis: A case-crossover study across ten cities in China’s southeastern coastal region. J Hazard Mater. 2024 Dec 5:480:136032.
Dalla pediatria “disciplina scientifica” nasce l’endocrinologia pediatrica
Salvatore Di Maio
Primario ospedaliero emerito AORN Pediatrica “SantobonoPausilipon”, Napoli
Il presente lavoro è stato in parte presentato sotto forma di Lettura al Convegno di Endocrinologia Pediatrica: “APPRENDO. Approcci endocrinologici in Pediatria” svoltosi a Napoli presso il “Centro Congressi Federico II” il 19 ottobre 2024
Le subspecialità pediatriche nacquero dalla pediatria, disciplina scientifica, dopo gli studi di Gamble sul metabolismo delle basi fisse durante il digiuno, fondamentali per la comprensione dei meccanismi che regolano l’omeostasi idroelettrolitica e acido-base. Edwards Park, capo del dipartimento di pediatria di Baltimora, creò ambulatori distinti per problema clinico e affidò quello sui “disturbi della crescita” a Lawson Wilkins, fiducioso che la nascente endocrinologia avrebbe contribuito alla comprensione dei problemi di crescita e pubertà. Wilkins curiosamente non si occupò mai di diabete infantile il cui trattamento fu per decenni patrimonio degli internisti e lo sviluppo della diabetologia fu indipendente e parallelo a quello dell’endocrinologia. Il primo a interessarsi di endocrinologia pediatrica a Napoli fu un auxologo dell’Ospedale Santobono, Enrico Tatafiore, la cui indagine clinica precedette di anni l’interesse universitario per questa subspecialità pediatrica.
The pediatric sub-specialties were born from Paediatrics, a scientific discipline following Gamble’s studies on the metabolism of fixed bases during fasting, fundamental for understanding the mechanisms that regulate hydroelectrolyte and acid-base homeostasis. Edwards Park, head of the Department of Pediatrics in Baltimore, created separate clinics by clinical problem and entrusted the one on “growth disorders” to Lawson Wilkins, confident that the nascent endocrinology would contribute to the understanding of growth problems and puberty. Wilkins curiously never dealt with childhood diabetes, the treatment of which was the heritage of Internists for decades and the development of diabetology was independent and parallel to that of endocrinology. Finally, the first to be interested in pediatric endocrinology in Naples was an auxologist from the Santobono Hospital, Enrico Tatafiore, whose clinical investigation preceded the University interest in this pediatric sub-specialty by years.
Le principali sfide che la pediatria di fine Ottocento e inizio Novecento dovette affrontare furono le malattie infettive, i disturbi nutrizionali e i problemi di igiene. In particolare in quegli anni i più importanti problemi clinici e di sanità pubblica erano la “questione del latte” e la diarrea [1]. Può sorprendere che si stia partendo da problematiche nutrizionali e infettivologiche in una storia della endocrinologia pediatrica, ma vedremo subito che fu proprio dalla ricer-
ca sulle condizioni che alterano l’omeostasi idroelettrolitica e acido-base nella diarrea e nel digiuno che nacque la pediatria “scientifica” che fu il fondamento delle future subspecialità. La prospettiva di questa riflessione sulla storia dell’endocrinologia pediatrica ha privilegiato le origini perché esse furono strettamente legate al raggiungimento di dignità scientifica della pediatria, avvenuto praticamente un secolo fa.
I fattori determinanti le fondamentali acquisizioni scientifiche furono due: l’applicazione della chimica alla clinica e l’evoluzione dell’ organizzazione sanitaria [2-4].
Nei primi anni del Novecento, infatti, era ormai maturata l’idea che si potevano fare progressi nella conoscenza e nella cura delle malattie solo introducendo nella clinica la metodologia chimica già in uso in fisiologia grazie allo sviluppo della chimica biologica poi detta “biochimica”: ben noto è l’aforisma “from bench to bed and back again”, diffuso in quegli anni nel mondo scientifico e caro poi a Füller Albright, uno dei più grandi ricercatori clinici della storia della medicina. Parallelamente allo sviluppo della biochimica in clinica, si era sviluppato il concetto di “dipartimento” nell’organizzazione dell’assistenza in quanto esso permetteva il concorso di più competenze che disponevano di opportune risorse edilizie e strumentali nell’affrontare determinati problemi, e di dipartimento “a tempo pieno”, ritenuto a livello universitario, in particolare da John Howland, direttore a Baltimora del primo dipartimento pediatrico nordamericano, necessario per svolgere serenamente l’assistenza, la didattica e la ricerca, senza preoccupazioni derivanti da uno stipendio insufficiente. L’istituzione di Baltimora [4] si presentava dal 1911 ben organizzata e comprendente un laboratorio all’avanguardia che richiamò molti ricercatori. In esso uno degli interessi maggiori era lo studio della diarrea che, come si è accennato, costituiva una piaga sociale, oltre al rachitismo e all’epilessia. Tra i medici assunti da Howland c’era James Lawder Gamble il quale, ricco soprattutto dell’esperienza maturata nel laboratorio di Henderson dove questi aveva studiato in modo quantitativo l’equilibrio acidobase e convinto della utilità dei bilanci per lo studio dei meccanismi che regolano la costanza dell’ambiente interno, intuì che lo studio mediante bilanci dei bambini in digiuno chetogeno per la cura dell’epilessia nello stesso dipartimento poteva essere un ideale modello sperimentale per studiare le risposte dell’organismo al digiuno. Lo studio fu intenso dal 1919 al 1923, anno in cui Gamble ne pubblicò i risultati [5], che chiarivano i meccanismi di regolazione della omeostasi dell’equilibrio acido-base e degli elettroliti durante il digiuno. Presentati in un modo tanto innovativo e logico, tali dati hanno costituito un modello di lavoro scientifico per i ricercatori fino ai giorni nostri. Questo lavoro del 1923 portò al riconoscimento di dignità scientifica alla ricerca pediatrica [6,7]. Gamble con i suoi studi infatti iniziò a svelare l’allora misterioso adattamento dei reni, dei polmoni e del volume extracellulare ai cambiamenti indotti dalla disidratazione e dalla perdita di elettroliti. Le acquisizioni scientifiche dello studio sul digiuno, insieme con quelle ottenute con un altro lavoro sulla stenosi ipertrofica del piloro in un modello sperimentale nel coniglio i cui risultati furono pubblicati nel 1925 [8], posero le basi del trattamento razionale della disidratazione e della perdita di sali, alterazioni di interesse per tutta la patologia medica e chirurgica, non limitate alla diarrea e al digiuno e certamente non soltanto all’età pediatrica. La nascita delle subspecialità si realizzò qualche anno più tardi quando il direttore del dipartimento di Baltimora era Edwards Park, succeduto a John Howland dal 1927 [7]. Convinto che i progressi della ricerca per la cura delle malattie croniche potessero venire solo dall’impegno di ricercatori concentrati su un particolare problema, Park organizzò il dipartimento in ambulatori e reparti di degenza. L’aspetto innovativo, e solo apparentemente semplice, consisteva nel fatto che ogni ambulatorio era dedicato a un definito problema clinico.
L’origine dell’endocrinologia pediatrica
Nel 1935 Park propose a Lawson Wilkins l’ambulatorio dei “disturbi della crescita”, argomento all’epoca “misterioso”, ma Park era convinto che la nascente endocrinologia avrebbe certamente contribuito a risolvere i problemi di crescita e di pubertà [7]. Wilkins, che già aveva rinunciato alla proposta di un ambulatorio di epilessia perché per lui “deprimente” dopo l’esperienza di alcuni anni maturata nel decennio precedente sempre a Baltimora, accettò solo dopo le insistenze di Park. Per comprendere la iniziale resistenza di Wilkins è sufficiente la lettura della classificazione delle malattie che poi saranno riconosciute endocrinopatie nei trattati di pediatria più diffusi tra fine Ottocento e gli anni ’20 del Novecento, cioè i due trattati nordamericani di Starr [9], Holt e Howland [10], e quello tedesco di Pfaundler e Schlossmann [11]. In essi il cretinismo sporadico o mixedema era classificato tra le malattie del sistema nervoso centrale; gozzo, palpitazioni e esoftalmo, cioè la malattia di Graves-Basedow, erano descritti nel capitolo sul cuore, anche se non mancava chi la considerava nell’adulto una forma di isteria…; laringospasmo, spasmofilia e tetania, ora noti segni di ipocalcemia, erano discussi ancora nel capitolo del SNC, mentre il diabete mellito o era incluso tra le “malattie generali non infettive” oppure tra le “malattie dell’apparato uro-genitale”. Tra il 1935 e la fine degli anni quaranta Wilkins registrò i dati clinici raccolti nell’ambulatorio di endocrinologia pediatrica e i risultati furono da lui elaborati e rappresentati sotto forma di schemi, disegni e fotografie che esemplificavano i processi patologici sia a scopo didattico che scientifico [12]. Wilkins li presentava e discuteva alle riunioni dell’American Academy of Pediatrics e, più tardi, li portò al Primo Congresso Internazionale di Pediatria di Zurigo nel 1950 [6,12], discutendoli nella sessione Poster. Si trattò di un’ampia presentazione che forniva esempi di ciascuna delle patologie endocrine pediatriche corredati dai criteri diagnostici e da informazioni fisiopatologiche; essa fece conoscere Wilkins alla comunità scientifica pediatrica internazionale e rappresentò il nucleo su cui egli sviluppò la prima edizione del suo classico libro di testo La diagnosi e il trattamento dei disturbi endocrini nell’infanzia e nell’adolescenza pubblicata nel 1950. Questo testo ebbe il pregio di includere l’adolescenza, ma curiosamente ignorò del tutto il diabete mellito di cui egli mai si occupò. Le malattie di cui Wilkins si occupò nei primi anni, invece, furono l’ipotiroidismo, l’iperplasia congenita del surrene o SAG e l’agenesia gonadica. Non disponendo all’epoca delle curve dei percentili, elaborò un grafico su cui riportava in ascisse l’età cronologica e sulle ordinate l’età di sviluppo (età in altezza, età mentale e età ossea) e con questo metodo descrisse, tra l’altro, le varianti normali della bassa statura, l’importanza dell’età ossea nel monitorare la crescita degli ipotiroidei trattati con l’estratto di tiroide (all’epoca non erano disponibili i dosaggi degli ormoni periferici e del TSH), la crescita, la diagnosi e successivamente il monitoraggio della crescita nella SAG una volta introdotto il cortisone in terapia.
Nel 1942 Allan Butler, direttore del dipartimento di pediatria di Boston, sollecitato dall’entusiasmo di Füller Albright per la creazione di una endocrinologia pediatrica, affidò a Nathan Talbot l’ambulatorio di endocrinologia pediatrica del dipartimento creando così il secondo centro di endocrinologia pediatrica degli Stati Uniti [12]. Già dieci anni dopo, nel 1952, Talbot, con Sobel, McArthur e Crawford, pubblicò quello che allora rappresentava il secondo libro di testo di endocrinologia pediatrica, dopo quello di Wilkins (L’endocrinologia funzionale dalla nascita all’adolescenza), con una impostazione più metabolica di quello di Wilkins per i più stretti legami di ricerca che Talbot e collaboratori avevano avuto con Gamble.
In Europa l’endocrinologia pediatrica nacque formalmente nel corso di una riunione di trentadue pediatri ed endocrinologi, provenienti dai Paesi europei e da Israele, alcuni dei quali con
esperienza a Boston e a Baltimora. La riunione fu convocata dal professor Andrea Prader al Kinderspital di Zurigo nel luglio 1962. Tutti espressero la volontà di condividere esperienze cliniche e di ricerca su un terreno intellettuale comune riunendosi periodicamente ogni anno come Paediatric Endocrinology Club. L’entusiasmo fu grande e di lì a poco nacque la Società Europea di Endocrinologia Pediatrica (ESPE) [13].
In Italia la Società Italiana di Endocrinologia e Diabetologia Pediatrica (SIEDP) fu costituita nel 1977 per volontà di pediatri che ormai da anni si stavano dedicando all’endocrinologia e al diabete [14,15]. Nel volume I primi 40 anni SIEDP del 2017 (coordinato da Mohamad Maghnie e Dario Iafusco con la revisione di Graziano Cesaretti e la redazione della CCI Srl) viene ricostruita “la storia e il funzionamento della Società nei suoi primi 40 anni”. A esso si rimanda anche per la storia della endocrinologia napoletana dagli anni ’70 ai giorni nostri. In questa sede si ricorda un aspetto singolare e forse poco noto delle origini della endocrinologia pediatrica a Napoli e cioè che essa fu preceduta dall’attività dell’“auxologia”, nata presso l’Ospedale Santobono dove nel 1948 fu istituito un Centro di Auxologia diretto dal pediatra Enrico Tatafiore, secondo centro di auxologia in Italia dopo il primo di Genova fondato da Giovanni De Toni. Poiché lo studio della crescita e della pubertà sono “istituzioni” dell’auxologia, era inevitabile che Enrico Tatafiore, studiandone la fisiopatologia, “incontrasse” gli ormoni che sono gli “effettori della crescita” [17-20]. Va tenuto presente che almeno fino agli anni ’60 le possibilità di dosare gli ormoni nel sangue periferico erano limitate e di questo soffrì anche l’esperienza di Tatafiore. Questi con i suoi allievi Posteraro, Klain, Perrotta e Caruso si occupò di molti aspetti della crescita e della pubertà, in fisiologia e in patologia, coinvolgendo tra l’altro anche un radiologo, Ciro Sandomenico, per lo studio dell’età ossea e delle deformità ossee secondarie alla obesità: l’interesse per quest’ultima fu originale e innovativa in un periodo in cui ancora non era esplosa l’“epidemia di obesità” che permane un problema anche ai nostri giorni.
Oltre allo studio della crescita in pubertà e delle sue relazioni con l’età ossea, Enrico Tatafiore fu anche interessato alla cura del diabete mellito infantile e, insieme con l’allievo Pasquale Perrotta, preparò un volumetto dal titolo Elementi di terapia del diabete mellito nel bambino e nell’adolescente già negli anni ’60 del secolo scorso [20]. In continuità con questa esperienza Pasquale Perrotta, lasciato il Santobono e divenuto primario di pediatria prima a Vallo di Diano e poi a Torre Annunziata, mantenne l’interesse per il diabete mellito raggiungendo negli anni ’80 il brillante risultato di essere tra i primi in Italia, e certamente il primo assoluto in Campania, a organizzare campi scuola per bambini e adolescenti diabetici. Nel 1973 al Santobono Ulderico Klain successe a Tatafiore e continuò con l’interesse alla obesità, oltre a coltivare lo studio della bassa statura il cui trattamento si era arricchito negli anni, prima con il GH estrattivo e poi con quello biosintetico da DNA ricombinante nella cura del deficit di ormone della crescita [21-23]. Ripercorrendo le origini e lo sviluppo dell’endocrinologia pediatrica risulta evidente che essa è solo apparentemente omogenea perché due delle sue componenti, l’auxologia e la diabetologia, rappresentano sostanzialmente due discipline autonome. Questa sostanziale differenza in fondo rispecchia quanto avvenuto in medicine interna nel cui ambito esistono tre società scientifiche, la Società Italiana di Endocrinologia (SIE), la Società Italiana di Diabetologia (SID) e, più recentemente, la Società Italiana dell’Obesità (SIO).
Pertanto si ritiene utile riflettere su queste due discipline.
L’auxologia
In Europa l’auxologia era una disciplina già autonoma a inizio Novecento, nata nella seconda metà dell’Ottocento dall’antro-
pologia da cui aveva ereditato la metodologia antropometrica, e così nominata nel 1911 da Paolo Godin. Misurazioni delle altezze dei coscritti sono documentate già a fine Settecento quando erano raccolte soprattutto per motivi militari. Furono gli antropologi a fare i primi studi sul fenomeno della “crescita” e ad applicare la metodologia auxometrica ancor prima che i pediatri ne comprendessero l’importanza e la usassero: è appena il caso di ricordare che nel Trattato americano di Malattie dei bambini di Louis Starr, pubblicato nel 1898 a Philadelphia da W.B. Saunders, non esiste un capitolo sulla crescita dei bambini. E ancora, nell’edizione 1925 del volume LAROUSSE Médical illustré diretto da Galtier – Boissiére della Librairie LAROUSSE – Paris, sotto la voce “croissance” sono riportati solo dati medi sulla crescita con le semplici affermazioni che “il peso alla nascita triplica all’età di un anno e la crescita risente dell’azione di anomalie e/o malattie”. Nella Clinica Medica di Padova invece a fine Ottocento la metodologia auxometrica era già una istituzione della medicina costituzionale, la cui visione olistica permise di accogliere immediatamente la nascente “dottrina degli ormoni” che né la teoria organicista di Morgagni/Virchow, né quella infettivologica di Pasteur/Koch riuscivano a comprendere. L’ingresso formale dell’auxologia come disciplina autonoma nei trattati di pediatria fu tardivo: nell’edizione del 1908 del trattato tedesco di pediatria di Pfaundler e Schlossmann si trova solo un paragrafo sulla crescita in peso e in altezza nel capitolo “Nutrizione”, così come nel 1927 nel trattato di pediatria degli statunitensi Howland e Holt.
Peraltro anche in trattati di pediatria più recenti, come quello tedesco di Keller e Wiscott, tradotto in italiano da Rolando Bulgarelli per la casa editrice SEU di Rom nel 1969, non sono descritti i percentili e c’è solo un accenno al somatogramma secondo De Rudder, costruito su età e altezza in cui un bambino è definito “piccolo” se l’altezza è compresa tra –1 e –3 DS, “nano” se maggiore di –3 DS. In Italia va ricordata la classificazione proposta da Giovanni De Toni, professore di pediatria a Genova, il quale elaborò un nuovo “metodo auxologico” nell’articolo Proposta di una semplice griglia auxometrica per la valutazione dell’accrescimento umano durante l’età evolutiva nel 1951 [16]. La classificazione comprendeva una quantificazione delle turbe dell’accrescimento staturale e ponderale da inserire in una vera e propria griglia recante al centro l’area della normalità e, intorno a questa, le variazioni per difetto e per eccesso di statura e peso riferite all’età espressa in anni e basata sugli scarti dalla media e sul prevalere relativo di peso e altezza: ebbe un successo soprattutto nazionale per l’autorevolezza dello studioso fino agli anni ’70 quando si imposero le più pratiche curve della distribuzione di frequenza espressa in percentili. Il loro principale vantaggio più immediato e pratico, tra gli altri, è la possibilità della rappresentazione nel tempo della crescita individuale. Finalmente nel 1973 l’ottimo trattato scozzese di Forfar e Arneil, Textbook of Paediatrics della Churchill Livingstone (Edinburg-London 1973), includeva un magistrale capitolo sull’accrescimento e lo sviluppo scritto da Tanner, e similmente nel trattato di Fanconi e Wallgren, terza edizione italiana sulla nona tedesca, tradotto in italiano da Roberto Burgio e pubblicato nel 1976-1977 dalla casa editrice Vallardi di Milano, si trova un capitolo sulla crescita scritto da Andrea Prader: in entrambi i trattati è ormai presente un capitolo dedicato all’accrescimento e allo sviluppo puberale e sono offerti al lettore, tra l’altro, le curve di distanza e quelle di velocità di crescita in percentili.
Fino agli anni ’80 la ricerca auxologica aveva documentato i cambiamenti secolari nel peso alla nascita, nella crescita e nella maturazione puberale, e le differenze di crescita in base alla classe sociale, alla dimensione della famiglia e all’ascendenza della popolazione, determinando il riconoscimento della pla-
sticità della crescita umana. Gli studi longitudinali sono stati determinanti nel rivelare i processi di crescita, come lo “scatto di crescita”, un’accelerazione della crescita in altezza di breve durata tra la seconda e terza infanzia, che probabilmente corrisponde alla proceritas prima degli antropologi/auxologi di inizio Novecento, Godin e Stratz. Un altro processo di crescita descritto è stata la discussa natura saltatoria della crescita umana, o crescita a scatti (saltation and stasis) [24,25].
Successivamente ampi studi di coorte hanno ampliato le nostre conoscenze sulla crescita intrauterina, in prima infanzia e sulla loro associazione con gli esiti nell’adulto e con gli effetti intergenerazionali. Infine è stato elaborato lo standard per la crescita ottimale dei neonati e dei lattanti da parte del Multicentre Growth Study dell’OMS [26,27].
Un altro campo di studio dell’ auxologia è stata la costruzione di curve di crescita “tempo dipendenti”. La prima pubblicazione di curve di crescita per l’altezza e per la velocità di crescita in altezza distinte per bambini a maturazione precoce o tardiva fu quella di Tanner e Davies nel 1985 [28]. Più recentemente c’è stato il tentativo di migliorare l’integrazione del tempo di crescita nelle curve di crescita da parte di Tim Cole con il SITAR, il metodo che modella le curve integrando velocità di crescita, la crescita e il “tempo” con una Simultanea Traslazione e (And) Rotazione [29].
È stato inoltre meglio definito il concetto di “minipubertà” quale fase fisiologica di sviluppo nei due sessi, e sono state stabilite significative correlazioni tra la “crescita nei primi anni”, il “tempo della pubertà” e “il peso in pubertà”, quest’ultimo determinante per l’obesità negli anni successivi [30,31].
Infine è doveroso un cenno all’auxologia universitaria a Napoli. Alla futura università “Vanvitelli” si occuparono di auxologia a scopo didattico Ferdinando Iafusco e Rosario di Toro, i quali pubblicarono nel 1972 un Compendio di auxologia normale e patologica [32]. A conferma che la auxologia è una disciplina propedeutica non solo alla endocrinologia ma alla pediatria generale e a tutte le subspecialità pediatriche, vanno ricordati gli studi auxologici: Luigi di Greco, già professore ordinario di pediatria alla Federico II, il quale, dopo aver studiato alla scuola di Tanner a Londra, ha tra l’altro applicato, a scopo prognostico, le metodologie auxologiche (strumentali e matematiche) a coorti di pazienti affetti da patologie croniche, in particolare pazienti affetti da celiachia o da fibrosi cistica oppure da insufficienza renale cronica [33].
La diabetologia
È sorprendente che, nonostante la pubblicazione dei lavori di Gamble sulla disidratazione fosse avvenuta nel 1923, fu solo alla fine degli anni ’40 che Butler applicò queste acquisizioni al trattamento del coma diabetico, richiamando per primo l’attenzione della comunità scientifica sulla necessità della reidratazione e della correzione elettrolitica di sodio, cloro e potassio per una sicura ed efficace correzione della chetoacidosi [34-36]. La verità è che, sebbene il diabete mellito, in modo paradigmatico il tipo 1 che dipende dalla carenza di insulina, rappresenti una tipica malattia endocrina, le origini e l’evoluzione sia della diabetologia clinica che della ricerca diabetologica sono state specifiche per cui lo sviluppo della diabetologia è stato parallelo a quello della endocrinologia, sia in medicina interna che in pediatria. Questa indipendente evoluzione spiega l’esistenza di società scientifiche di diabetologia distinte da quelle di endocrinologia sia per l’adulto che per il bambino. Infatti, sebbene l’ESPE abbia tra i suoi obiettivi anche la ricerca sul diabete e l’educazione dei diabetici, è un fatto che, come negli Stati Uniti d’America, l’unione tra le due discipline sia avvenuta sostanzialmente per motivi economici e di opportunità politica in quanto i percorsi sono stati e restano in pratica distinti [12]. Una riprova è l’esistenza dell’International Society for Pediatric and Adolescent
Diabetes (ISPAD), società pediatrica dedicata esclusivamente a questa malattia. Ed è così anche in Italia dove è vero che la società pediatrica è intitolata ad entrambe, Società Italiana di Endocrinologia e Diabetologia Pediatrica (SIEDP), tuttavia è significativo che alla presidenza di essa si alternino con regolarità un diabetologo e un endocrinologo.
La complessità del trattamento del diabete fu evidente sin dai primi anni dell’uso dell’insulina, iniziato nel 1922, e le difficoltà pratiche oltre quelle concettuali potrebbero da sole giustificare da una parte il precoce impegno a tempo pieno dei medici dedicati all’assistenza del malato diabetico e, dall’altra, l’organizzazione di strutture dedicate alla malattia diabetica e alle sue complicanze, come era successo in precedenza per esempio per la cura della tubercolosi.
Dopo la fondamentale dimostrazione dei fisiologi Oskar Minkowski e Joseph von Mering nel 1886 che il pancreas è una ghiandola importante per il mantenimento dell’omeostasi del glucosio [36], e dopo gli studi nel 1916 del fisiologo rumeno Nicolae Constantin Paulescu che isolò una sostanza chiamata pancreatina, un estratto di pancreas bovino che, iniettato nei cani, gli permise di dimostrare dettagliatamente l’effetto antidiabetico e antichetogeno dell’estratto di pancreas [37] (risultati sfortunatamente conosciuti troppo tardi per la sua partecipazione alla prima guerra mondiale), furono appunto gli studi di Frederick Banting che portarono alla purificazione dell’insulina e alla sua somministrazione all’uomo. Banting era un giovane chirurgo canadese che fu accolto nel laboratorio di John Macleod, eminente biochimico interessato al diabete presso l’università di Toronto. Dal 16 maggio 1921 Banting iniziò i suoi esperimenti, assistito dal giovane studente di medicina Charles Best. Dalla fine del 1921, James Collip, esperto biochimico, si unì a Banting e Best e sviluppò una migliore tecnica di estrazione e purificazione del principio attivo. La sostanza così ottenuta, inizialmente chiamata da loro “insletin”, ebbe successivamente il nome di “insulina” dal capo del laboratorio MacLeod. Il passo successivo del gruppo di studio, quello veramente originale, fu testare l’insulina negli esseri umani. Così l’11 gennaio 1922 venne somministrata insulina a Leonard Thompson, un ragazzo di 14 anni in cura per diabete all’ospedale di Toronto. Leonard stava seguendo la terapia standard per l’epoca, cioè una dieta di poche calorie e con ridottissima quantità di carboidrati per cui, come altri pazienti così trattati, era in uno stato critico di malnutrizione. Purtroppo, dopo l’iniezione di 15 ml di insulina nel gluteo l’11 gennaio, Leonard sviluppò un ascesso in questa sede e le sue condizioni peggiorarono. Fortunatamente Collip migliorò ulteriormente la qualità di insulina estratta e il 23 gennaio Leonard Thompson ricevette una seconda iniezione. I risultati furono eccellenti. Il suo glucosio nel sangue da 520 mg/dl scese a 120 mg/dl in 24 ore e i chetoni urinari scomparvero. Questo adolescente continuò il trattamento con insulina e visse altri 13 anni, morendo purtroppo di polmonite a 27 anni [38]. Nella pratica clinica le nuove conoscenze sulla produzione e sull’uso dell’insulina diventarono patrimonio dei soli internisti e restarono quasi esclusivamente nelle loro mani fino a diversi decenni dopo l’introduzione dell’insulina in terapia umana. Infatti, uno dei primi medici a concentrarsi sul diabete infantile negli Stati Uniti non fu un pediatra ma un’internista, Priscilla White, assistente e collaboratrice di Elliot Joslin a Boston, famoso diabetologo già prima della scoperta dell’insulina perché all’epoca fautore della terapia dietetica del diabete mellito. Dopo la scoperta dell’insulina, cui peraltro non aveva partecipato, e la sua introduzione in terapia umana, Joslin divenne il leader mondiale della terapia del diabete, indicando per primo l’importanza dell’educazione del paziente per un efficace uso dell’insulina nel singolo soggetto. Nel 1932 Priscilla White pubblicò quello che molto probabilmente fu il primo libro di testo per curare il diabete infantile e dell’adole-
scente: Il diabete nell’infanzia e nell’adolescenza. La White si interessò non solo a bambini e adolescenti ma, collaborando con gli ostetrici, si dedicò con successo anche all’assistenza alle donne diabetiche desiderose di diventare madri [39]. Fino agli anni ’60 del secolo scorso erano sempre gli internisti a dirigere i reparti di ricovero dei bambini diabetici, anche quando aumentò il numero di pediatri dediti al diabete la cui formazione in diabetologia avveniva comunque sempre presso gli internisti. Una decisiva accelerazione dell’interesse pediatrico per il diabete mellito venne solo dalla pubblicazione dei risultati dell’ampio studio finanziato dal NIH su Controllo e Complicanze del Diabete mellito (DCCT), eseguito dal 1982 al 1993 [40]. Da allora è stata rivoluzionata la cura del diabete sia dei bambini che degli adolescenti e anche il lavoro dei gruppi di endocrinologia pediatrica è stato riorganizzato in tutti i paesi. Basti ricordare la crescente introduzione di presidi tecnologici per il controllo intensivo della glicemia che ha ulteriormente incrementato l’intensità dell’impegno culturale e assistenziale del medico nonché quello educativo richiesto necessariamente anche al paziente e alla sua famiglia. In Europa fu soltanto nel 1972 che Zvi Laron (Tel Aviv), Henri Lestradet (Parigi) e Helmut Loeb (Bruxelles) [41] decisero che era necessaria un’associazione pediatrica separata dalla medicina interna per la cura e l’educazione dei bambini e degli adolescenti affetti da diabete. Nacque così il Gruppo Internazionale di Studio sul Diabete nei Bambini e negli Adolescenti (ISGD) il cui nome nel 1993 fu cambiato in Società Internazionale per il Diabete Pediatrico e dell’Adolescenza (ISPAD). In Italia in modo simile il trattamento del diabete mellito infantile fu prevalentemente patrimonio dei clinici medici e degli internisti. A Napoli, oltre alla attività dei clinici medici universitari e dei primari internisti ospedalieri, va ricordata quella di Andrea D’Agostino che fondò e presiedette a lungo l’Associazione Medici Diabetologi e organizzò l’AID, una rete di 12 ambulatori specializzati in convenzione, che proponeva un modello assistenziale ante litteram di gestione integrata dei percorsi e cartella clinica unificata [42].
Ci furono, comunque, eccezioni al predominio degli internisti. Di seguito sono ricordati i pediatri italiani impegnati, già negli anni ’50, specificamente nel follow-up di una popolazione diabetica infantile.
Nel Lazio nacque il Diabetarium della Pontificia Opera Assistenza, a via della Torre di Palidoro (Fiumicino), ora padiglione dell’Ospedale Bambino Gesù, la cui attività fu affidata a Massimo Orsini da Gino Frontali, direttore della Clinica Pediatrica dell’Università di Roma dal 1943 al 1959. Orsini seguiva i casi di diabete mellito infantile assistito dagli allora giovanissimi Antonino Presti e Brunetto Boscherini [14].
In Lombardia, all’Università di Milano, già negli anni ’60 Giuseppe Chiumello, con la direzione di Eugenio Schwarz-Tiene, iniziò a interessarsi di diabete mellito.
Nel 1970 al Congresso Nazionale della SIP di Sassari, Massimo Orsini, Brunetto Boscherini e Giuseppe Chiumello presentarono e discussero la terapia del diabete tipo 1, inclusa quella della chetoacidosi diabetica [14].
In Campania abbiamo già visto l’impegno di Pasquale Perrotta per il diabete mellito infantile già negli anni ’60 quando era assistente di Enrico Tatafiore [20]. Più tardi fondò a Torre Annunziata un centro di diabetologia che ebbe, tra l’altro, il merito di organizzare negli anni ’80 per la prima volta in Campania i “campi scuola” per i bambini diabetici, precedendo di alcuni anni l’attività che poi sarebbe stata dei centri regionali universitari della “Federico II” e della “Seconda Università di Napoli”, poi “Università della Campania Luigi Vanvitelli”.
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Il bambino non “mi” mangia
Silvana Quadrino Psicologa, psicoterapeuta counsellor della Scuola Superiore di Counselling Sistemico di Torino
sempre Watzlawick che fa osservare che fra due persone si può stabilire una relazione complementare, basata sulla differenza (di posizione o appunto di ruolo) fra chi è up e chi è down, o simmetrica, basata sull’uguaglianza (di posizione, di ruolo, di responsabilità). Non bisogna avere paura di sembrare poco “democratici” se si parte dal presupposto che il medico ha e deve mantenere una posizione up, o se si preferisce asimmetrica, caratterizzata dalla differenza delle richieste che possono passare fra medico e paziente (il medico non può chiedere al paziente la cura, il conforto, l’attenzione ai suoi problemi che il paziente chiede al medico) e la differenza di responsabilità nel buon andamento della relazione di cura.
Per cominciare: contenuti, relazioni e molto altro “Dottore, sono preoccupata: il bambino non mi mangia nulla…” Cosa c’è “dietro” una frase come questa? E quale può essere la risposta del pediatra?
Tocca sempre scomodare Paul Watzlawick [1] per ricordare che in ogni comunicazione c’è un aspetto di contenuto e uno di relazione, una richiesta all’altro. E allora, cosa sta chiedendo la mamma al pediatra con quella frase? Saperlo con certezza è impossibile, ma il nostro pensiero veloce [2] e qualche risposta ce la dà comunque, perché è programmato proprio per dare rapidamente significato a ciò che ci accade intorno. Sono state definite “euristiche” queste scorciatoie mentali che ci fanno attribuire a quella frase un significato o un altro a partire dalle esperienze precedenti, e dall’immagine dell’altro che abbiamo o che ci stiamo costruendo. Per esempio, se il medico conosce già quella mamma si è fatto un’idea di “che tipo di mamma è” (ansiosa? superficiale? esagera sempre?) e di quello che fa abitualmente (chiede sempre e non fa mai, va a cercare risposte su internet…) Anche la mamma ha la sua esperienza nella storia con quel medico: anche lei si è fatta un’idea di “che tipo di medico è” e cosa è meglio fare con lui (fare la brava mamma ragionevole e obbediente? Insistere nelle richieste se no non mi sta a sentire? Oppure evitare di mostrarsi troppo preoccupata se no il medico mi dice che sono ansiosa?) Anche in un primo incontro si attivano gli stessi meccanismi: pur mancando la storia precedente, quelle che entrano in gioco sono le esperienze simili: quante ne ho sentite di mamme così..! Questi meccanismi possono portarci a rispondere in modo non adeguato, perché si basano sull’ipotesi che di quella persona e della sua richiesta abbiamo già capito tutto.
C’è un altro elemento che il medico deve saper utilizzare con competenza: il ruolo, e la relazione che quel ruolo implica. È
Box 1. Le euristiche
Daniel Kahneman ha descritto alcuni processi mentali intuitivi, che ci permettono di farci velocemente un’idea di una situazione complessa. Li definisce euristiche, e sono presenti e attive nei nostri ragionamenti e nelle nostre decisioni. Le più riconoscibili sono: – l’euristica della disponibilità, che ci porta a valutare un evento basandosi sulla facilità con cui ci viene in mente un caso simile; – l’euristica della rappresentatività , che ci porta a individuare elementi di similitudine fra situazioni che in realtà sono diverse; – l’euristica dell’ancoraggio, che ci fa considerare probabile un giudizio o il significato di un evento a partire dalle informazioni più recenti che abbiamo in mente, trascurando dati e circostanze che potrebbero condurre a conclusioni diverse.
Non possiamo evitarle né disattivarle, anzi possono essere utili nel processo decisionale, ma dobbiamo essere consapevoli che esiste il rischio di utilizzarle in modo automatico, incorrendo in errori di giudizio o in errori decisionali.
Cosa raccontano i genitori al pediatra
Arthur Fran [3] ha definito “narrazione caotica” la modalità con cui le persone tendono a descrivere una situazione che percepiscono come difficile: un modo di descrivere in cui tutto ciò che viene detto è ugualmente importante, tutto è connesso in modo inestricabile, la cronologia è confusa, e la situazione è descritta come immutabile. Questo è l’inizio di un colloquio fra la mamma di Andrea, un bimbo di 5 anni, e la pediatra che lo segue dalla nascita. La mamma ha chiesto un appuntamento per parlare da sola con la pediatra: “Dottoressa, sono venuta per parlarle di Andrea. Il problema è che non mangia! Ma niente, le dico NIENTE! Lui dice che a scuola mangia, ma io non ci credo mica tanto, neanche a quello che dicono le maestre, ne hanno tanti di bambini… Ma neanche le cose che ai bambini di solito piacciono, patatine, merendine… Niente! Mia suocera dice che sono ansiosa e che lo blocco, così anche mio marito ha cominciato a dire che sono io che esagero, e il risultato è…”
La mamma ha parlato per poco più di un minuto, e la pediatra la lascia proseguire senza interromperla: “…il risultato è che poi a tavola se io provo a convincere Andrea ad assaggiare almeno qualcosa il padre prende le sue parti, mi dice di lasciarlo in pace che quando avrà fame mangerà, ma io cosa devo aspettare, che si ammali? Io sono preoccupata, è anche in un’età di crescita, l’anno prossimo andrà a scuola… Ha bisogno di energie… Cosa devo fare? Me lo dica lei perché io a questo punto sono proprio disperata”.
Ci sono due elementi critici in questo inizio di colloquio. Il primo che il materiale narrativo è troppo e troppo intricato: è la caratteristica della narrazione caotica di cui parla Frank. Si parla di personaggi, di quello che fanno e dicono, delle conseguenze di quello che fanno e dicono, di convinzioni, di aspettative, di emozioni. Tutto in un unico messaggio che si conclude bruscamente con una domanda alla pediatra. Il secondo elemnto critico è che la domanda della mamma sembra aprire alla dottoressa una strada che è solo apparentemente facile: darle il suo parere clinico, e poi le sue raccomandazioni, i suoi consigli. Ma se il medico vuole essere ragionevolmente certo che quello che dirà sarà utile alla mamma (e al bambino), deve rallentare il suo pensiero veloce prima di seguire quella strada, e chiedersi: che obiettivo ho? E, soprattutto, è un obiettivo possibile?
Usciamo momentaneamente dal caso di Andrea per fare un discorso più generale: quando il pediatra incontra la descrizione di un comportamento del bambino incontra anche un po’ di storia della sua famiglia. Ogni famiglia ha, rispetto a determinati aspetti della vita, abitudini, convinzioni, valori e regole che rappresentano per loro la normalità: quello che dovrebbe succedere, quello che un bambino dovrebbe fare. Nel caso dei comportamenti alimentari questo aspetto è particolarmente sentito fin dalla nascita del bambino: alimentarlo bene significa farlo vivere e crescere bene. Inoltre intorno all’alimentazione si strutturano molte delle tradizioni famigliari,
Box 2. Il “mondo” della famiglia
Nel funzionamento di ogni famiglia esistono aspetti che definiscono la “normalità”. Si tratta di una normalità relativa, nel senso che è ciò che, in quella famiglia, avviene senza che venga deciso o discusso. Alcuni di questi aspetti sono condivisi totalmente e diventano regole, altri possono non esserlo affatto e creare occasioni di conflitto. – Abitudini. Corrispondono a quello di cui si dice “si è sempre fatto così”. Derivano dalle esperienze di ciascuno dei genitori nella propria famiglia di origine e dal modo in cui si sono trasformate nel corso della vita di coppia; nel caso dell’alimentazione, la suddivisione e gli orari dei pasti, il tipo di alimenti utilizzati, le modalità di preparazione ecc. Possono modificarsi, a meno che non si basino su...
– Convinzioni. Hanno a che fare con ciò che si ritiene “vero”. Non bisogna fare il bagno dopo mangiato, per crescere i bambini devono mangiare molta carne, non bisogna dare zucchero e sale ai bambini fino ai tre anni... Sono convinzioni che si basano su informazioni e “sentiti dire”, che provengono da fonti diverse, dalla famiglia di origine all’“influencer” dei social, che si sono radicati profondamente, e sono difficilmente modificabili se ci si limita a sostenere che “non è vero”.
– Valori. Hanno a che fare con ciò che quella famiglia, o quel genitore, considera “giusto”. È l’aspetto più delicato, perché è strettamente legato all’identità individuale o all’appartenenza famigliare. Il pediatra si confronta con questo aspetto ogni volta che sono necessarie decisioni sì/no (proseguire l’allattamento al seno; insistere perché il bambino mangi; pretendere che mangi di tutto, ecc.). Sostenere in modo radicale il “sì” o il “no” funziona solo se la posizione del pediatra coincide con i valori di tutti i membri influenti di quella famiglia; ma se quella posizione non è condivisa all’interno della famiglia, schierarsi rischia di alimentare la conflittualità.
che sono alla base del senso di appartenenza che lega gli individui alla propria famiglia.
Partendo da questo sguardo sul “mondo” della famiglia dobbiamo chiederci: “Cosa sappiamo, e cosa non sappiamo ancora di tutto ciò che avviene intorno all’impresa di far mangiare un bambino che, secondo il racconto della mamma, non mangia niente?” Approfittiamo ancora della mamma di Andrea per provare a separare quello che sappiamo da quello che non sappiamo. In realtà, quello che sappiamo con ragionevole certezza non è moltissimo:
• che Andrea va alla scuola materna. Che dice che a scuola mangia. Che le maestre dicono che a scuola mangia. Sappiamo che la mamma non crede a nessuno dei due;
• che la mamma si sente criticata dal marito e dalla suocera rispetto al suo modo di gestire la situazione. Attenzione, questo è quello che è vero per lei, non una verità assoluta;
• che è preoccupata e addirittura disperata, perché lo ha detto espressamente.
Non sappiamo, invece, se prova altre emozioni, perché non ne ha nominate altre: è arrabbiata con il marito che non le crede e sembra alleato con sua madre, e perché non la aiuta a far mangiare Andrea? È frustrata nel suo desiderio di vedere Andrea mangiare con entusiasmo come altri bambini che conosce? Ed è preoccupata di cosa, esattamente? Inoltre, non sappiamo in che modo insiste, cosa ha già provato a fare, e cosa non ha funzionato quando ci ha provato. Non sappiamo come è Andrea, agli occhi della mamma, oltre a essere un bambino che “non mangia niente”: come gioca, come si muove, quanto è attivo… Potremmo continuare seguendo il pensiero “cosa non so”. Ma prima dovremmo essere riusciti a contrastare il nostro pensiero veloce, che si attiva di fronte alla domanda della mamma,
e va a cercare la risposta veloce in quello che noi sappiamo in quanto professionisti. La pediatra sa, perché segue Andrea fin dalla nascita, che è un bimbo sano, che ha una struttura fisica minuta ma, fino all’ultimo controllo, nei limiti della norma. In base alla sua competenza professionale sa che potrebbe essergli utile un’attività sportiva. In base alla sua esperienza sa che i comportamenti alimentari non si modificano con insistenze e prediche, a nessuna età. La risposta veloce, quindi, potrebbe essere una rassicurazione: “Signora, conosco Andrea da quando è nato; che non sia un colosso lo sappiamo, del resto non lo siete né lei né suo marito. Ma l’ho visto il mese scorso, il bimbo sta bene, il peso è nella norma…”, che può finire per diventare una contrapposizione, una negazione del racconto della mamma: “Se non mangiasse niente come dice lei si vedrebbe dal peso e dallo stato generale”, e concludersi con un consiglio/ prescrizione di comportamento: “Io so per esperienza che insistere non è il modo migliore con bambini che non mangiano volentieri. Io consiglierei di fargli fare un po’ di attività fisica, faccia scegliere a lui cosa gli piace, calcio, judo, nuoto… l’attività fisica è molto importante all’età di Andrea, e magari dopo una bella partita la fame gli viene…”, o addirittura con una prescrizione di emozioni: “L’importante è che lei si tranquillizzi, che smetta di preoccuparsi”. Funzionerebbe? E cosa dovremmo dire, invece?
La comunicazione per obiettivi
Quando cominciamo a chiederci “E adesso cosa dico?” siamo già sulla buona strada: il pensiero veloce sta rallentando per lasciare spazio al pensiero lento, riflessivo. Si tratta di rinunciare alla speranza di risolvere il problema con le nostre parole, e iniziare una strada di esplorazione e condivisione: aperture agli aspetti di cui ci siamo detti “questo non lo so e mi servirebbe saperlo”, ascolto attento delle risposte e scelta del passo successivo. È vero che, come scrive il neuroscienziato Vittorio Gallese: “la comunicazione è quella cosa che non sai mai come va a finire” [4]. Ma in una comunicazione professionale dobbiamo cercare di aumentare le probabilità che la nostra comunicazione “vada a finire bene”, che faccia succedere cose positive. Quali? È proprio quello che bisogna imparare a chiedersi. Nel caso della mamma di Andrea, quali erano gli obiettivi della pediatra? Suddividiamo la comunicazione che stiamo utilizzando come esempio in obiettivi comunicativi:
• dare informazioni: il peso, le condizioni cliniche di Andrea;
• esprimere un parere professionale: “Probabilmente quello che mangia gli è sufficiente. Se non gli piace mangiare schifezze fuori pasto è solo un bene. Gli faccia fare sport”;
• dare consigli e indicazioni di comportamento: “Io non insisterei più di tanto… Se lei riesce a insistere un po’ meno…”;
• Rassicurare: “L’importante è che non sia così preoccupata, non c’è davvero motivo”.
Il tutto in un unico messaggio, e senza che venga aperto alla mamma uno spazio di interlocuzione. Sono tutti obiettivi importanti e impegnativi, che hanno tutti a che fare con la possibilità di produrre un cambiamento: un cambiamento rispetto a quello che la mamma dice e pensa (Andrea non mangia niente / Non è vero, quello che mangia gli basta. Si ammalerà / No, sta benissimo), un cambiamento in quello che fa abitualmente (Non insista. Gli prepari quello che chiede. Gli faccia fare sport). Un cambiamento delle sue emozioni (Non sia così preoccupata). Ottenere cambiamenti di questa portata in modo veloce è piuttosto improbabile. Non impossibile, ma se vogliamo aumentare le possibilità che l’intervento del pediatra coinvolga attivamente la mamma nella ricerca di un cambiamento possibile dobbiamo fare qualcosa di più del “dire”.
La comunicazione a due vie e l’arte di fare domande Nel racconto della mamma di Andrea troviamo elementi che sono presenti, in modo diverso, in tutte le descrizioni di com-
portamenti del bambino che il genitore considera preoccupanti:
• quello che il bambino fa (o non fa);
• quello che fanno (o non fanno) altri componenti della famiglia;
• l’interpretazione causale di ciò che fa il bambino (fa così perché…);
• l’attribuzione di significati ai comportamenti di altri (fanno così perché sono… perché pensano di me… ).
Il tutto con le modalità della narrazione caotica: tutto ciò che viene detto sembra avere la stessa importanza (l’apparente alleanza fra il papà e il bambino e la mancanza di fiducia nei confronti della maestre, la relazione con la suocera e quella con Andrea, la descrizione del presente e la proiezione in un futuro in cui Andrea si ammalerà, non avrà energie per iniziare il suo percorso scolastico) il tutto connesso in modo tale da non lasciare nessun dubbio: la situazione è molto preoccupante e non ha soluzioni. A meno che la dottoressa… Dica alla mamma il suo parere? O possiamo fare qualcosa di più?
Il “qualcosa di più” è la costruzione condivisa di un percorso di ricerca di cambiamenti possibili. E perché sia condivisa ci manca parte delle cose che la mamma ci può dire ma non sa di doverlo/poterlo dire. Perché sia possibile la costruzione condivisa di percorsi di cambiamento, nel caso dell’alimentazione del bambino come in ogni altra situazione che richieda cambiamenti, è indispensabile la “voce” del genitore (e del bambino quando è presente); la sua descrizione di quello che solo lui sa e il pediatra non può sapere. Ho definito “comunicazione a due vie” [5-6] la modalità di attivazione della “voce” del paziente che si basa essenzialmente sulla capacità di fare domande. Domande aperte, domande narrative, domande che sappiano incuriosire e produrre risposte innovative. Domande sulle differenze (quando succede di più, quando di meno), sulle soluzioni tentate o anche solo immaginate. Domande sulle aspettative e sui timori (cosa teme soprattutto?).
Box 3. Quali domande per quali obiettivi
La distinzione più utilizzata è fra domande chiuse e domande aperte. Le domande chiuse non sono sbagliate: servono ogni volta che è necessaria una risposta precisa, un numero, un sì o un no. Ma non bastano per aggiungere elementi utili alla costruzione di percorsi di cambiamento condivisi. Bisogna quindi imparare a formulare domande aperte, che richiedono un’ulteriore suddivisione, in funzione degli obiettivi del pediatra. In particolare:
Domande narrative, che propongono di descrivere meglio un aspetto specifico di una situazione che il genitore ha raccontato “a grandi linee”. Utilizzano formule come “Proverebbe a descrivermi cosa succede esattamente quando...”, “Mi racconta meglio che può cosa vede succedere quando...” e permettono di aggiungere particolari significativi che in una prima descrizione non erano presenti.
– Domande riflessive, che invitano a riflettere sulle premesse di quello che l’altro afferma: le informazioni di cui dispone, le aspettative, i timori. Possono essere basate sulle differenze (“Cosa vorrebbe veder succedere soprattutto, cosa la preoccupa di più”) o sulle possibilità (“Cosa pensa che potreste fare ancora, che non avete ancora fatto?”) e rendono meno rigido il racconto iniziale.
Solo a partire dalle risposte della mamma il pediatra, utilizzando la sua competenza e la sua esperienza, può intervenire con quella che definiamo una modalità responsiva: non con una risposta sostitutiva (faccia così) ma con una modalità di rafforzamento della competenza del genitore, basata su una aperta e solida alleanza nella cura del bambino.
Bibliografia
1. Watzlawick P. Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, 2008.
2. Kahneman K. Pensieri lenti e veloci, Mondadori, 2013.
3. Frank A. Il narratore ferito. Corpo, malattia, etica. The University of Chicago Press, 19952 .
4. Gallese V, Morelli U. Cosa significa essere umani, Raffaello Cortina Editore, 2024.
5. Quadrino S. Il counseling nell’intervento di cura con i genitori e con il bambino. Ebookecm.it (accreditato con 20 crediti ECM).
6. Quadrino S. Il dialogo e la cura. Le parole tre medici e pazienti. Il Pensiero Scientifico Editore, 2019.
– Domande circolari, sugli effetti di ciò che accade sulle diverse persone (“Come reagisce Andrea quando...”, “Quando il papà dice di lasciare che Andrea non mangi lei come reagisce di solito?”). Permettono di vedere le connessioni fra i comportamenti e di immaginare cos’altro si potrebbe far succedere. silvana.quadrino@gmail.com
Dalla rivista
Epidemiologia
& Prevenzione, un invito alla lettura per i pediatri ACP
Numero 6-2024
Giacomo Toffol
Coordinatore Pagine elettroniche di Quaderni acp
Continua su questo numero di Quaderni acp la segnalazione degli highlights dell’ultimo numero della rivista dell’Associazione Italiana di Epidemiologia (AIE) Epidemiologia & Prevenzione. L’accordo tra l’AIE e l’ACP prevede uno scambio di segnalazioni per evidenziare e promuovere reciprocamente i temi di maggior interesse delle due riviste. Abbiamo letto per voi il numero 6-2024 della rivista, ricco di spunti di sicuro interesse per i nostri lettori.
Clima e salute: costrutti concettuali e ruolo dell’IPCC
L’editoriale di Paolo Forgione che apre questo numero della rivista analizza i cambiamenti avvenuti nei report periodici pubblicati dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) sul cambiamento climatico e sui suoi effetti sulla salute umana. L’IPCC è la principale sede di valutazione della ricerca scientifica sul clima e si pone come soggetto autorevole, sia per il suo carattere intergovernativo sia per il complesso di procedure affinate nel tempo per rafforzarne l’obiettività.
L’articolo, utile per approfondire le nostre conoscenze sul funzionamento di questo organismo delle Nazioni Unite, descrive la progressiva espansione delle conoscenze sui rapporti tra clima e salute e l’ampliamento progressivo che questo tema ha assunto all’interno dei report, fino a giungere, nell’ultimo documento del 2022, a una valutazione sistemica che esamina i determinanti sociali della salute, riflettendo anche sul peso delle disuguaglianze e sulle connessioni tra clima e benessere mentale.
Quali sono le strategie di protezione individuali più efficaci per mitigare gli effetti dell’inquinamento atmosferico?
Una revisione narrativa della letteratura sintetizzata in questo articolo di Rossella Murtas, Sara Tunesi, Antonio Giampiero Russo ci aiuta a chiarire molti dubbi su questo tema. L’articolo ribadisce ovviamente che la riduzione delle emissioni rappresenta l’intervento primario e imprescindibile per mitigare gli impatti sulla salute derivanti dall’inquinamento atmosferico, ma descrive e valuta l’efficacia di tutte le misure di protezione individuale che possono aiutare sia le persone sane che quelle ammalate nelle varie fasce di età. Le categorie a rischio considerate comprendono bambini, anziani, individui affetti da patologie cardiovascolari e respiratorie. Le strategie di protezione personali esaminate includono l’impiego di purificatori d’aria, l’uso di mascherine respiratorie, la limitazione dell’esposizione in determinati periodi e luoghi, la pratica sportiva, la preferenza per mezzi di trasporto alternativi e l’uso di sistemi
di monitoraggio ambientale. Ricco di informazioni concrete e di facile applicazione (sapevate per esempio che percorrere a piedi una strada sul lato meno inquinato può portare a una riduzione dell’esposizione al PM2,5 del 18%?), l’articolo si pone come uno strumento utile per la creazione di documenti di indirizzo e interventi di comunicazione e prevenzione.
Il rischio di povertà e le aspirazioni dei bambini e degli adolescenti
Nella rubrica “Dalla parte dei bambini e delle bambine” segnaliamo un articolo di Federico Marchetti e Franca Rusconi, che commenta i dati di un recente documento di Save The Children: Domani (im)possibili – Indagine nazionale su povertà minorile e aspirazioni. I dati riportati derivano da una ricerca svolta su un campione di 1496 ragazzi/e di 15-16 anni rappresentativi della popolazione in questa fascia di età, e da un’indagine campionaria quanti-qualitativa su 1612 famiglie, in collaborazione con Caritas italiana, volta a comprendere i bisogni, le fragilità, le rinunce, così come le reti di supporto delle famiglie con minori 0-3 anni che si rivolgono alla rete Caritas. Impressionano i dati relativi alla povertà materiale, grave per quasi uno su dieci degli adolescenti intervistati, e la perdita di opportunità educative che a essa si associa. Tristi le aspettative per il futuro di questi ragazzi, spesso in linea con la loro situazione attuale. Sono dati in parte già noti, ma che continuano a mettere in luce le profonde disuguaglianze radicate nel nostro Paese e l’urgenza di interventi di ampie dimensioni volti a garantire, a tutte le bambine/i e adolescenti, il diritto ad aspirare a costruire il proprio futuro. È fondamentale, affermano gli autori, che questo diventi un obiettivo prioritario dell’agenda politica attraverso una strategia di lungo periodo: un progetto basato su un disegno di riforma organico di contrasto alle disuguaglianze e alla povertà minorile.
Linee guida per lo screening neonatale uditivo e visivo Questo tema viene affrontato da un articolo di Domenica Taruscio e Paolo Salerno, che descrive l’Azione Centrale “Sordità infantile e patologie oculari congenite. Analisi dell’efficacia ed efficienza dei protocolli di screening uditivo e visivo neonatale” realizzata all’interno del programma del Ministero della Salute CCM 2018. Come sappiamo entrambi gli screening sono importanti attività di prevenzione secondaria che, oltre a fornire evidenti vantaggi sul piano della tutela della salute della persona, sono elementi critici nell’ambito dell’economia sanitaria. Infatti il costo delle disabilità che possono scaturire da una mancata diagnosi è di gran lunga superiore al costo economico dello screening effettuato su tutta la popolazione di neonati. Ciò dà un’ulteriore dimostrazione dell’importanza dello screening sia nell’ambito della sanità pubblica sia in quello della politica sanitaria. Numerosi altri contributi arricchiscono questo numero, integralmente leggibile per gli abbonati dal sito https://epiprev.it/ (abbonamento scontato per i soci ACP). Vi auguriamo una buona lettura.
Nuovo calendario vaccinale per la vita 2025: molte luci e qualche ombra
Massimo Farneti Pediatra, Ravenna
Dopo oltre 5 anni dalla quarta edizione è stato pubblicato il nuovo Calendario vaccinale per la vita 2025 (CV 2025) [1] a cura di alcune società scientifiche e dei due sindacati più rappresentativi dei pediatri e dei medici di famiglia. Il CV 2025, come le versioni precedenti, copre tutto l’arco della vita con indicazioni sia per l’età pediatrica che per adulti e anziani. Le indicazioni comprendono anche le cosiddette “categorie a rischio” e per la prima volta è stato inserito un breve capitolo sulle vaccinazioni per i viaggiatori internazionali. In questo articolo si prenderanno in considerazione solo le parti del documento che trattano delle vaccinazioni pediatriche e di quelle che possono essere effettuate in gravidanza per la protezione della gravida e/o del neonato e fra queste tenterò di commentare quelle in cui vi sono state in questi anni delle novità importanti, o nei prodotti o nelle strategie vaccinali. Il CV 2025 si presenta come un documento ben costruito con una ricca bibliografia che può essere un utile strumento di consultazione per i professionisti; tuttavia permane, seppur attenuata, anche in questa edizione un approccio della profilassi vaccinale più orientato al singolo a scapito di una visione più strategica che punti a risultati che si riflettano sulla comunità, tenendo anche in considerazione il rapporto costi/benefici. Ricordo che questo, molti anni fa, fu il motivo per cui l’ACP uscì dal Board del CV. Il CV 2025 recepisce tutte le novità vaccinali introdotte dal Piano Nazionale Prevenzione Vaccinale (PNPV) 2023-2025 del 3 agosto 2023 che per l’età pediatrica ha introdotto:
• il vaccino quadrivalente antimeningococco ACW135Y al posto del vaccino monovalente anti C;
• la possibilità per le Regioni di inserire la vaccinazione contro il meningococco B nell’adolescente.
Vaccinazione antipneumococco
Il PNVP 2023-2025 non dà indicazioni sul tipo di vaccino antipneumococcico coniugato (PCV) da utilizzare lasciando alle Regioni la scelta. Dopo il PCV7, primo vaccino antipneumococco coniugato autorizzato nel 2002 fino al 2017, l’unico PCV in uso era quello 13 valente ma sono successivamente stati autorizzati in sequenza il PCV10 valente, il PCV15 valente e del tutto recentemente il PCV20 valente.
Sierotipi contenuti nei vari PCV
PCV7: 4, 6B, 9V, 14, 18C, 19F e 23F
PCV10: PCV7 + 1, 5 e 7F
PCV13: PCV10 + 3, 6A e 19A
PCV15: PCV13 + 22F e 33F
PCV20: PCV15 + 8, 10A, 11A, 12F, 15B
dall’altra è “un effetto collaterale” legato al fatto che non si è ancora riusciti a individuare un anticorpo comune per tutti i sierotipi di pneumococco per cui, nel momento in cui viene utilizzato un PCV contro un certo numero di sierotipi, si innesca un meccanismo di “rimpiazzo”: sierotipi che nell’epoca prevaccinale risultavano poco rappresentati come causa di patologia trovano un ambiente più favorevole a espandersi e a rimpiazzare parzialmente i sierotipi “bloccati” dal vaccino. Il CV2025 non consiglia esplicitamente il 15 valente o il 20 valente limitandosi a invitare le Regioni a “organizzare le somministrazioni in modo che le coperture siano mantenute elevate, possibilmente incrementate, e che le dosi siano effettuate nei tempi previsti dal calendario di immunizzazione”. Tale posizione non mi appare corretta. Alcuni studi hanno messo in evidenza che l’aggiunta dei due sierotipi nel PCV15 potrebbe scatenare un effetto paradosso con un aumento delle malattie invasive da sierotipi contenuti nel PCV13 dovuto a un relativo calo della immunogenicità dei vaccini all’aumentare del numero dei sierotipi contenuti [2], mentre la valutazione in letteratura per l’introduzione del PCV20 è ampiamente positiva e ipotizza un miglioramento significativo del controllo oltre che delle malattie invasive anche delle polmoniti e delle otiti [3,4]. Sarebbe consigliabile perciò il suo inserimento nel calendario vaccinale italiano, anche se attualmente l’EMA ne ha autorizzato l’uso nei lattanti e bambini piccoli con il “calendario statunitense” (3+1) che renderebbe necessario un accesso in più rispetto al calendario attuale. Negli ultimi mesi è stato pubblicato un lavoro [5] che mette in evidenza la non inferiorità dell’approccio 2+1 rispetto al più sperimentato 3+1, del resto già per i PCV precedenti lo schema consigliato inizialmente era 3+1 e quindi si è passati velocemente in quasi tutti i Paesi al 2+1 fino ad arrivare, da parte della Inghilterra, a un calendario 1+1 [6] che non appare inferiore come effectiveness.
Vaccinazione antimeningococco Come riportato nel PNPV 2023-25 la vaccinazione monovalente contro il meningococco C è stata sostituita, ampliando il numero dei sierotipi, con il vaccino quadrivalente ACW135Y poiché anche in Europa è cambiata la circolazione dei sierotipi con la comparsa dei sierotipi W135 e Y. Il CV 2025 rispetto al PNPV consiglia un richiamo intorno ai sei anni poiché quando ci si allontana dal vaccino ricevuto nella prima infanzia vi è la possibilità che il titolo anticorpale circolante discenda nel tempo al di sotto del livello minimo protettivo, rischiando di non riuscire a bloccare la rapida invasività dei ceppi più virulenti. Tale consiglio, in base alla nostra attuale epidemiologia delle malattie invasive da meningococchi ACW135Y, appare eccessivo con un rapporto costi/benefici del tutto negativo; può essere invece più opportuno aumentare i nostri sforzi per raggiungere una buona copertura con dose aggiuntiva al sesto anno di vita nei soggetti a rischio e attivare tale richiamo vaccinale solo in caso di epidemie da ceppi ipervirulenti come avvenne nel biennio 2015-2016 in Toscana.
Questo aumento dei sierotipi nei PCV, se da una parte è conseguente a un miglioramento della tecnica costruttiva dei vaccini che permette di ampliarne le capacità di “copertura”,
Il PNPV 2023-25 ha dato la possibilità alle Regioni di inserire la vaccinazione antimeningococco B negli adolescenti in base alla situazione epidemiologica locale; tale scelta non appare condivisibile poiché al di là di possibili epidemie locali che richiedono risposte locali, le scelte per la profilassi nei confronti di una malattia infettiva con un numero di casi a livello nazionale inferiore a 60, di cui meno di 15 nella fascia di età adolescenziale/giovanile, devono avere un respiro nazionale; pertanto non può essere delegata alle Regioni tale scelta vaccinale. Pur parlando appunto di numeri molto bassi (13 casi nel 2023 nella fascia di età 15-24), poiché si tratta di malattie molto gravi e spesso mortali e con una capacità del vaccino di evitarne circa l’80% [7], concordo con il CV 2025 che consiglia il vaccino contro il meningococco B a tutti gli adolescenti. Appare invece non condivisibile la raccomandazione del CV
2025 di rivaccinare ex novo tutti gli adolescenti vaccinati nella prima infanzia sulla base di un unico lavoro scientifico su piccoli numeri che metterebbe in evidenza che una sola dose booster non avrebbe la capacità di richiamare in maniera robusta la memoria immunitaria [8]. Tale raccomandazione appare almeno prematura, sia per la necessità di ulteriori prove che confermino o meno il problema, sia per il fatto che abbiamo ancora davanti almeno un triennio prima che raggiungano l’adolescenza le prime coorti vaccinate nella prima infanzia (la vaccinazione contro il meningococco B è stata inserita nel calendario vaccinale italiano con il PNPV 2017-2019).
Profilassi contro Virus Respiratorio Sinciziale (VRS) Per la prima volta in Italia in un documento che tratta di vaccinazioni compare il paragrafo per la profilassi della infezione da VRS e, novità nella novità, viene preso in considerazione oltre al vaccino anti-VRS, un nuovo anticorpo monoclonale (Nirsevimab). In passato veniva utilizzato come profilassi nei neonati ad alto rischio per infezione da VRS un altro anticorpo monoclonale (Palivizumab), ma la protezione conferita da questo tipo di anticorpo monoclonale dura solo circa 1 mese, rendendo necessarie fino a 5 dosi di farmaco per ogni stagione autunnale/ invernale, con chiari problemi di adesione al regime prescritto e di costi, e rendendo inattuabile qualsiasi strategia di profilassi allargata a tutta la popolazione nel corso del primo anno di vita. Il Nirsevimab, grazie alla sua lunga durata d’azione (circa 5 mesi) ed efficacia nel prevenire le forme gravi e i ricoveri per infezione respiratoria da VRS (intorno all’80%) [9], può candidarsi a valido strumento di profilassi nei confronti delle malattie da VRS in tutti i neonati (profilassi universale con una dose alla nascita per i nati nel periodo autunno/inverno e invece per i nati nella primavera/estate una dose all’inizio della stagione a rischio, solitamente nel mese di ottobre per l’emisfero nord). Dall’analisi dei dati di letteratura la immunizzazione passiva dei neonati con Nirsevimab appare perciò opportuna non solo sotto il puro profilo medico ma anche con un buon rapporto fra risorse impegnate e risultati di salute per cui non si può che concordare con la raccomandazione del CV 2025 per rendere universale l’offerta del Nirsevimab in Italia. Fortunatamente con un provvedimento tampone, in netto ritardo rispetto alle esigenze cliniche, la conferenza Stato-Regioni ha recentemente stabilito un finanziamento speciale per permettere l’erogazione a tutte le Regioni del Nirsevimab in regime di gratuità per questo periodo epidemico. In specifico: immunizzazione di tutti i neonati nati dal 1° novembre 2024 e di quelli nati entro i 100 giorni prima. Nel documento [10] vengono invitate inoltre le Regioni a coordinare le attività fra servizi vaccinali e UO ospedaliere di ostetricia e neonatologia per raggiungere in maniera efficace il target di neonati da immunizzare. Da una serie di contatti informali con colleghi e funzionari di varie Regioni mi risulta che vi è stata una grande difficoltà, che persiste tuttora, nel reperimento del prodotto farmaceutico (Beyfortus), una lamentata sottostima dei fondi necessari alla campagna e infine una disomogeneità nel target di neonati a cui offrire il Nirsevimab. Al di là del primo problema (reperimento Beyfortus), che è oggettivo, lasciano un po’ di dubbi gli altri due:
• i 50 milioni di euro stanziati dovrebbero essere sufficienti a immunizzare oltre il 90% del target stimato di neonati;
• proprio le Regioni avevano chiesto di aggiungere, pena la loro mancata firma, un breve paragrafo al documento proposto dal Governo che recita: “al fine di coordinare la campagna di inoculazione, le regioni costituiscono una cabina di regia che provvederà a raccogliere i fabbisogni in base alle specifiche riportate nel protocollo d’intesa e a coordinare l’ottimale distribuzione delle dosi fornite dai produttori, assicurando la maggiore copertura possibile dei target previsti, tenendo conto delle disponibilità del farmaco e dell’andamento delle adesioni nelle diverse regioni”.
Leggendo il paragrafo voluto dalle Regioni e verificata la diversità di offerta a livello delle varie Regioni non si può che essere amareggiati di fronte ai nostri 21 SSR. Speriamo che dopo questo inizio a dir poco zoppicante la profilassi nella prossima stagione epidemica per il VRS possa essere meglio organizzata e coordinata per scongiurare ritardi e rischi di diseguaglianze regionali nella offerta del Nirsevimab.
Nel capitolo dedicato al VRS del CV 2025 si considera anche la vaccinazione delle gravide, con un vaccino bivalente anti-VRS non adiuvato, che secondo letteratura andrebbe attuata tra 32 e 36 settimane di gestazione per prevenire la malattia grave delle basse vie respiratorie associata a VRS nei neonati dalla nascita fino all’età di 6 mesi. L’uso di questo vaccino nella gravida ricorda da vicino quello contro la pertosse già in uso da alcuni anni anche se con coperture non ottimali. Il CV 2025 consiglia un uso integrato delle due opzioni profilattiche (vaccino nelle gravide/Nirsevimab nei neonati), ma una recentissima comunicazione sulla sicurezza della Food and Drug Administration (FDA) statunitense sui vaccini anti-VRS rischia di provocare una battuta d’arresto nel loro uso in attesa di studi più approfonditi [11].
La FDA ha condotto uno studio osservazionale post-marketing che ha valutato il rischio di sindrome di Gullain-Barrè (GBS) a seguito della vaccinazione contro il VRS con i due vaccini autorizzati negli USA (Abrysvo e Arexvy). Sulla base dei dati provenienti da studi clinici, dei report del Vaccine Adverse Event Reporting System (VAERS) e di uno studio post-marketing, la FDA ha stabilito che “l’insieme delle prove suggerisce un aumento dei rischi di GBS dopo la vaccinazione con Abrysvo e Arexvy, ma che le prove disponibili sono insufficienti per stabilire una relazione causale”. Dato che l’eccesso di casi di GBS rispetto all’atteso è stato stimato tra 7 e 9 casi per milione di dosi di vaccino somministrati nei soggetti oltre i 60 anni e che nei giovani solitamente le GBS risultano più frequenti, appare opportuno essere cauti prima di implementare strategie vaccinali nelle gravide, anche tenendo conto che per loro non vi è nessun beneficio personale dalla vaccinazione eseguita unicamente per proteggere il nascituro e che per contro abbiamo a disposizione un altro strumento sicuro ed efficace per proteggere il neonato.
Vaccinazione contro i papillomavirus (HPV)
La vaccinazione anti-HPV ha rappresentato un grande successo nella lotta contro il tumore del collo dell’utero e non solo, ma sconta ancora una scarsa adesione nelle adolescenti e ancora di più negli adolescenti. La copertura per le femmine negli ultimi dati pubblicati [12], prendendo in considerazione il dato della coorte 2008 che possiamo considerare definitivo, è pari al 65,28% per il ciclo completo e del 74,49% per la prima dose; per i maschi nella stessa coorte abbiamo un 54,38% per il ciclo completo e un 63,61% per la prima dose. I dati sono molto chiari: c’è ancora molto da fare per raggiungere coperture ottimali. Appare perciò poco comprensibile la posizione del CV 2025 che, nonostante i dati di letteratura siano robusti e molti Paesi abbiano già adottato il calendario semplificato (una sola dose nelle e negli adolescenti) [13], consiglia ancora prudenza e opta per il calendario “tradizionale” a due dosi. Già i dati della coorte 2008 sono chiari: la copertura con una dose è superiore di circa 10 punti rispetto al ciclo “tradizionale”. Il calendario semplificato permetterebbe, oltre che una migliore adesione, un alleggerimento dei carichi di lavoro per i servizi vaccinali che così si potrebbero maggiormente concentrare nelle azioni di promozione per aumentare l’adesione all’offerta vaccinale.
La bibliografia di questo articolo è consultabile online
Libri
Occasioni per una buona lettura
Rubrica a cura di Maria Francesca Siracusano
Premio Strega ragazze e ragazzi
9a edizione di Anna Grazia Giulianelli
Il Premio Strega ragazze e ragazzi ha ormai un calendario stabile. Si comincia a Bologna, con la Fiera del Libro per ragazzi, dove viene presentata la terna finalista della miglior narrazione per immagini e viene premiato il vincitore. Continua a Torino, alla Fiera del Libro, dove avviene la premiazione del miglior libro d’esordio tra i finalisti. Si conclude a Roma, alla fiera Più libri, più liberi, dove vengono annunciati i tre titoli vincitori delle tre diverse categorie di età. In quest’ultimo appuntamento, insieme ai tre autori vincitori, vengono premiati anche i loro traduttori. Ecco dunque di seguito i vincitori della nona edizione.
Fiera del libro per ragazzi di Bologna (aprile 2024)
Migliore narrazione per immagini
I Pizzly
to. Matthew Gray Gubler è uno dei protagonisti della serie “Criminal Mind”, un thriller ormai all’ennesima replica. In questa veste di scrittore e illustratore rivela una carriera promettente. Come recita il sottotitolo è “una storia di banane, appartenenza ed essere sé stessi”. A volte, come il protagonista, pensiamo di essere strani e diversi e temiamo il giudizio degli altri ma siamo noi i nostri peggiori giudici.
Fiera della piccola e media editoria Più libri più liberi Roma (dicembre 2024)
Categoria 6+
Orso e uccellina il pic nic e altre storie scritto e illustrato da Jarvis, tradotto da Alessandra Valtieri Lapis, 2023, pp. 64, € 12,50
scritto e illustrato da Jeremie Moreau, tradotto da Stefano Andrea Cresti Tunué, 2023, pp. 196, € 35 Preziosissima graphic novel dal grande formato che racconta di come oggi la vita abbia ritmi così frenetici da mettere a rischio la salute fisica e mentale delle persone mentre sulla terra si stanno verificando eventi catastrofici legati al cambiamento climatico. I Pizzly del titolo sono tre fratelli: il maggiore fatica a trovare un lavoro che gli consenta di mantenere questa particolare famiglia e quando incontra una signora che sta cercando di tornare al Paese di origine, in Alaska, decide che cambiare vita può essere la soluzione. In Alaska insieme al freddo e allo scioglimento dei ghiacci, i ragazzi scopriranno che la cosa più importante al mondo sono le relazioni umane. Le illustrazioni sono così suggestive da alleggerire un contenuto drammatico. Alla fine è la comunità a dare un segnale di speranza.
Fiera del Libro di Torino (maggio 2024)
Miglior libro d’esordio
Rumple Buttercup
scritto e illustrato da Matthew Gray Gubler, tradotto da Sante Bandirali, Uovonero, 2023, € 17,50
Elegante cartonato della dimensione di un quaderno che ricorda molto un taccuino di appunti dove l’autore si è divertito a disegnare e a raccontare la storia di un piccolo mostro verde, Rumple Buttercup, letteralmente Ranuncolo Spiegazza-
Come lo scorso anno, anche in questa edizione i bambini hanno scelto una storia di amicizia: i protagonisti, Orso e Uccellina non potrebbero essere più diversi ma sono grandi amici e l’affetto colora positivamente anche i peggiori difetti. Il libro racconta una giornata dei due amici ed è il primo di una serie che ha già altre due pubblicazioni. Dalla mano felice di Jarvis escono personaggi tenerissimi: insegnano anche ai grandi che fare contento un amico è più importante che arrabbiarsi per il suo comportamento.
Categoria 8+
Rim e le parole liberate scritto da Maddalena Vaglio Tanet, illustrato da Ilaria Mancini Rizzoli, 2024, pp. 248, € 16,50
Un fantasy dove le parole vivono prigioniere in un mondo dove la conoscenza è considerata pericolosa e, si sa, le parole sono lo strumento d’elezione per pensare e conoscere. L’autrice immagina le parole come tanti piccoli animali chiusi in gabbia da vendere e comprare secondo modalità prestabilite, proibita la curiosità e punito anche con la vita il furto. Questo è il mondo dove vivono Rim, una bambina molto curiosa, e il suo amico Pun. Solo quando incontrano Witzold, un vecchio tanto vecchio da ricordare quando le parole erano libere, capiscono che sono anche loro prigionieri come le parole. Il loro obbiettivo diventa liberare le parole per liberare tutti.
Categoria 11+
Motel Calivista, buongiorno! scritto da Kelly Yang, tradotto da Federico Taibi Emons, 2023, € 14,50
C’è molto dell’autrice nella protagonista di questo romanzo. Kelly Yang è emigrata dalla Cina negli Stati Uniti quando era una bambina e, prima di diventare una scrittrice famosa, ha
vissuto parte delle difficoltà che la protagonista, Mia, racconta. Arrivare in un Paese che nell’immaginario è un eldorado e trovarsi senza casa, senza soldi, senza lavoro è drammatico, ma Mia non si perde mai d’animo. Le discriminazioni possono essere davvero molto ingiuste e crudeli, soprattutto da bambini verso altri bambini. Mia racconta un mondo nel quale il diverso è sempre il nemico ma la sua lotta insegna che è possibile cambiare le cose. È una lettura che fa commuovere e divertire senza mai banalizzare la dimensione di coloro che partono alla ricerca di un mondo migliore.
Lo sviluppo dei bambini
Capire come stanno crescendo e valorizzarne il potenziale nei primi cinque anni di Gherardo Rapisardi Uppa Edizioni, 2024, pp. 384, € 24
In questo libro, Gherardo Rapisardi, pediatra e neonatologo, ci guida in un viaggio alla scoperta dello sviluppo psicomotorio dei bambini nei loro primi cinque anni di vita. Con una prospettiva innovativa e scientificamente fondata, l’autore sfida le concezioni tradizionali che vedevano lo sviluppo come un processo da stimolare a tutti i costi con interventi precoci. Oggi, infatti, sappiamo che i bambini sono naturalmente dotati di competenze e potenzialità che, per svilupparsi al meglio, richiedono soprattutto un ambiente emotivo e relazionale sereno, che favorisca la loro creatività, autostima, fiducia nelle relazioni e autoregolazione. Nei primi due capitoli vengono esposti i meccanismi che stanno alla base di tale “idea” di bambino e dei determinanti dello sviluppo. Il testo si articola poi in un’analisi dettagliata delle diverse fasi dello sviluppo, da 0 a 5 anni, esplorando i principali aspetti motori, cognitivi e relazionali, offrendo anche
un’interpretazione del comportamento dei bambini, aiutando i genitori e gli operatori a comprendere meglio il significato, le difficoltà e le sfide di ogni fase. In particolare, viene enfatizzata l’importanza di osservare e “pensare” i bambini, riconoscendone il ruolo attivo nella crescita, piuttosto che vederli come soggetti passivi da stimolare o correggere. Viene promosso un approccio che incoraggia i genitori a fare meno, ma meglio, suggerendo di non intervenire continuamente nel percorso di apprendimento del bambino, ma di essere presenti con affetto e consapevolezza, pronti a sostenere quando necessario e a lasciare spazio alla sperimentazione in autonomia. Il bambino ha bisogno di un mondo che lo ascolta e gli risponde, che lo accoglie e lo contiene, per non trasformare il suo percorso di crescita in un’ansia da prestazione. L’ambiente sociale e familiare è una risorsa fondamentale per il benessere del bambino, in un clima di supporto non colpevolizzante per i genitori. Il messaggio centrale è chiaro: ogni bambino è un essere unico, e il miglior modo per sostenerlo nello sviluppo è riconoscere e valorizzare le sue naturali capacità, a partire dalla forte motivazione interna di cui tutti sono dotati, a interagire, condividere, cooperare, scoprire, creare, apprendere e sentirsi capace e efficace. Con un linguaggio accessibile e privo di giudizi, vengono date non solo informazioni scientifiche, ma anche strumenti pratici per i genitori e per tutti i professionisti che lavorano con i bambini, sanitari e dei servizi educativi, per osservare lo sviluppo nella prospettiva dei bambini e in quella dei genitori, per promuoverlo, coglierne gli aspetti di salute e i possibili segnali d’allarme che necessitano di una valutazione specialistica.
Un libro che si rivolge al cuore di chi si occupa dei bambini, invitando a riflettere sul nostro ruolo di educatori e sul modo in cui possiamo contribuire, con rispetto e affetto, al loro straordinario viaggio di crescita.
Redazione
Lettere
Ritardi del disturbo del linguaggio ed esposizione agli schermi
Leggendo l’articolo Identificare i ritardi nello sviluppo del linguaggio a 2-3 anni: il ruolo determinante del pediatra (Quaderni acp 2024;31:160-4) sono rimasto sorpreso dal fatto che gli autori non hanno fatto riferimento all’uso di smartphone e tablet quali causa di ritardo del linguaggio. Questo fenomeno spiega anche, secondo molti autori, l’aumento dei casi che si sta registrando in questi ultimi anni. Ormai esiste una vasta letteratura internazionale che afferma che l’uso precoce e intensivo di questi strumenti per diverse ore al giorno, fin dai primi mesi di vita, riduce la produzione del linguaggio a tre anni. Ormai ci sono molte famiglie in cui il bambino anche di pochi mesi viene lasciato solo con un tablet in mano mentre la mamma conversa con l’amica attraverso whatsapp. Questo per diverse ore al giorno, anche per 6/7 ore al giorno. Oltre al ritardo del linguaggio, l’uso precoce e intensivo del dispositivo provoca riduzione del sonno, eccitazione, riduzione del gioco simbolico, con riduzione della creatività e dell’immaginazione, riduzione dell’attenzione e della capacità di attendere, mancato desiderio di relazionarsi con i genitori, molto verosimilmente ridotte abilità cognitive. Quindi nel paragrafo “interventi e strategie per promuovere lo sviluppo del linguaggio a 2-3 anni” si dovrebbe aggiungere: annullare l’uso di smartphone e tablet sotto i due anni. Angelo Spataro, pediatra di famiglia, Palermo Caro dott. Spataro, la ringraziamo molto, a nome anche degli altri autori, per la sua preziosa e stimolante riflessione. La sua lettera pone l’attenzione su un problema attuale e complesso come quello degli effetti dell’uso dei dispositivi elettronici sullo sviluppo cognitivo, comunicativo-linguistico, sociale e affettivo del bambino. Tale argomento richiede un approfondimento urgente interessando tutta l’età evolutiva, dai primi anni di vita fino alla tarda adolescenza. In riferimento nello specifico agli effetti di un’esposizione prolungata ai device sullo sviluppo delle competenze comunicativo-linguistiche infantili, la letteratura degli ultimi 10-15 anni riporta effettivamente dati “allarmanti” (si veda a es. Duch et al., 2013; Operto et al., 2020). Tuttavia, è bene considerare che altri studi, pur evidenziando un’associazione tra uso prolungato dei device e difficoltà emozionali e comportamentali, non riportano effetti negativi sullo sviluppo linguistico infantile (si veda a es. Borajy et al., 2019; Lin et al., 2020). Le variabili in gioco da controllare quando si intende studiare le possibili relazioni tra uso dei device e ritardo del linguaggio (RL) sono molteplici e forse questo spiega l’eterogeneità dei risultati attuali. Si pensi, per esempio, agli effetti diversi che può avere un uso dei device solitario o improntato sul videogame da parte di un bambino piccolo rispetto a un uso interattivo e guidato da parte del caregiver, dove i contenuti sono condivisi e favoriscono nuovi apprendimenti (es. canzoncine, filastrocche, storie, giochi). Altro aspetto ancora non indagato e che la ricerca futura dovrebbe provare ad approfondire è se l’uso prolungato dei device sia associato a stili genitoriali poco tutoriali, scarsamente stimolanti sul piano comunicativo-linguistico (come riportarono in passato studi sugli effetti della televisione), se non addirittura disattenti/negligenti. Approfondire questi aspetti permetterebbe di capire se l’utilizzo di queste tecnologie rappresenti un fattore di rischio di per sé o
piuttosto l’espressione di un contesto educativo carente (Lestari e Fauziyah, 2023). Ringraziamo quindi nuovamente il dott. Spataro per i suoi suggerimenti che vanno certamente ad arricchire e completare il nostro articolo. La letteratura emergente sembra riportare un’esposizione maggiore ai device in bambini con RL (si veda ad es. Lestari e Fauziyah, 2023; Meta van den Heuvel et al., 2019; Salem Al Hosani et al., 2013). Riteniamo quindi importante, oltre che urgente, ampliare gli studi sull’argomento e aprire anche una riflessione in ambito scientifico e clinico circa l’inserimento in documenti ufficiali, come la Consensus Conference sul Disturbo Primario del Linguaggio (a cura di CLASTA e FLI, 2019), e in questionari di identificazione precoce del RL del fattore di rischio “utilizzo prolungato di device” e di domande volte a ricavare questa informazione. Quando una condizione di RL sfocia in un Disturbo Primario del Linguaggio (DPL) dietro sussiste certamente una causa di natura primariamente neurobiologica, ma è ragionevole ipotizzare che un’esposizione eccessiva ai device sia da considerarsi un fattore di rischio in grado di aggravare un RL presente a 2-3 anni o di contribuire a determinare un DPL a 4-5 anni. In conclusione, in linea con quanto espresso dal dott. Spataro e a integrazione del nostro articolo Identificare i ritardi nello sviluppo del linguaggio a 2-3 anni: il ruolo determinante del pediatra , riteniamo importante invitare pediatri e altre figure professionali, quali neuropsichiatri infantili, logopedisti e educatori, a prestare particolare attenzione a condizioni di povertà comunicativa e educativa e, laddove si rilevi un’esposizione prolungata ai device, a consigliarne una riduzione significativa a favore di un’interazione spontanea e giocosa quotidiana tra genitore e figlio.
Erika Benassi, ricercatrice presso l’Università di Modena e Reggio Emilia Arianna Bello, professore associato presso l’Università Roma Tre
37° CONGRESSO NAZIONALE ACP “ACP NEXT GENERATIONS: C’È ANCORA DOMANI”
18-19-20 settembre 2025, Villaggio Marzotto, Jesolo (VE)
PROGRAMMA PRELIMINARE
VENERDÌ 19 SETTEMBRE
09.00 – 09.30 Registrazione partecipanti
09.30 – 09.40 Saluti del Presidente della Fondazione per la ricerca fibrosi cistica (Matteo Marzotto)
09.40 – 10.00 La collaborazione SIP - ACP (Rino Agostiniani)
10.00 – 10.30 Lettura magistrale: “Cure palliative pediatriche: la continuità delle cure da noi e in Europa” (Franca Benini)
SESSIONE: “LARGO AI GIOVANI: LE COMUNICAZIONI
ORALI DEGLI SPECIALIZZANDI”
Moderatori: Luigi Greco, Angelo Pietrobelli
10.30 – 11.05 Dall’Università (Claudia Mandato e specializzande/i)
11.05 – 11.40 Dall’Ospedale (Martina Fornaro e specializzande/i)
11.40 – 12.15 Dal Territorio (Laura Reali e specializzande/i)
SESSIONE: “AMBIENTE E SALUTE: GLI AMBULATORI VERDI”
Moderatori: Giacomo Toffol, Vincenza Briscioli
12.15 – 12.45 Ambulatori Verdi: Si può fare! (Ilaria Mariotti, Rita Stracquadaino)
12.45 – 13.15 Come i farmaci fanno male all’ambiente (Mara Tommasi)
13.15 – 14.15 PAUSA PRANZO
SESSIONE: “AGGIORNAMENTO AVANZATO”
Moderatori: Enrico Valletta, Maria Francesca Siracusano
14.15 – 14.45 Ecografia polmonare nell’ambulatorio del pediatra di famiglia (Gianluca Iovine)
14.45 – 15.15 Una bella sfida per il pediatra: real world evidence o EBM? (Alberto Tozzi)
62 Maternal style assessment in anorexia nervosa in developmental age
Maria Pia Cerrone, Anna Bernardo, Maria Gloria Gleijeses, Filomena Salerno, Marella Solimeno, Ludovica Miragliuolo, Francesca Panico, Marco Carotenuto
A window on the world
65 Measles, Samoa and RFK Jr
Enrico Valletta
Learning from a case
67 Headache… eyes open
Giuseppe Paviglianiti, Elisa Costantini, Gianluca Coscia, Floriana Di Marco, Vittorio Messina, Domenico Cipolla, Angelo Spataro
Appraisals
70 An EAP-ECPCP position paper on electronic cigarettes and risks for young people
Laura Reali, Lorenza Onorati
72 Snus and nicotine pouches: new forms of nicotine intake among young people
Francesco Accomando, Enrico Valletta
Via Filippo Garavetti 12 07100 Sassari (SS) www.acp.it
Learning with young people
74 p50: help in understanding a pulse oximetry that does not convince Melodie O. Aricò, Benedetta Mainetti, Francesco Accomando, Maurizio Aricò, Enrico Valletta
Mental health
79 LEGO® therapy for autism
Interview by Angelo Spataro with Antonio Narzisi
Environment and health
80 Can visual impairments be prevented by the environment?
Annamaria Sapuppo, Elena Uga
History and ethics of medicine
83 Pediatric endocrinology was born from Pediatrics as a “scientific discipline”
Salvatore Di Maio
The paediatrician and the educational challenges
87 The child is not eating Silvana Quadrino
Epiquaderni
90 From the journal Epidemiology and Prevention, an exhortation for ACP paediatricians to read Giacomo Toffol
Vaccinacipì
91 New “For Life” Italian 2025 Vaccination Calendar: many lights and some shadows Massimo Farneti
93 Books
95 Letters
96 37th National ACP Congress “ACP Next Generations: There Is Still a Tomorrow” – Preliminary Program
Come iscriversi o rinnovare l’iscrizione all’ACP
La quota d’iscrizione per l’anno 2025 è di 130 euro per i medici, 30 euro per gli specializzandi, 30 euro per il personale sanitario non medico e per i non sanitari. Il versamento può essere effettuato attraverso una delle modalità indicate sul sito www.acp.it alla pagina «Come iscriversi». Se ci si iscrive per la prima volta occorre compilare il modulo per la richiesta di adesione e seguire le istruzioni in esso contenute, oltre a effettuare il versamento della quota come sopra indicato. Gli iscritti all’ACP hanno diritto a ricevere la rivista bimestrale Quaderni acp, le pagine elettroniche di Quaderni acp e la newsletter mensile Appunti di viaggio. Hanno anche diritto a uno sconto sull’iscrizione alla FAD di Quaderni acp; a uno sconto sulla quota di abbonamento a Medico e Bambino; a uno sconto del 50% per l’abbonamento alla rivista Epidemiologia & Prevenzione; a uno sconto sull’abbonamento a Uppa (se il pagamento viene effettuato contestualmente all’iscrizione all’ACP); a uno sconto sulla quota di iscrizione al Congresso nazionale ACP. Gli iscritti possono usufruire di iniziative di aggiornamento e formazione a quota agevolata. Potranno anche partecipare ai gruppi di lavoro dell’Associazione. Maggiori informazioni sono disponibili sul sito www.acp.it.