LA FAME DEL SUD Boom di poveri nelle grandi città dove senza Terzo settore non si arriva a fine giornata
CINQUE INCHIESTE IN PRESA DIRETTA A BARI, CAGLIARI, NAPOLI, PALERMO E REGGIO CALABRIA

CINQUE INCHIESTE IN PRESA DIRETTA A BARI, CAGLIARI, NAPOLI, PALERMO E REGGIO CALABRIA
CINQUE INCHIESTE IN PRESA DIRETTA A BARI, CAGLIARI, NAPOLI, PALERMO E REGGIO CALABRIA
A cura di ANNA SPENA
Boom di poveri nelle grandi città del Mezzogiorno, dove senza Terzo settore non si arriva a fine giornata a cura di Anna Spena
Editing e grafica: Vita Società Editoriale S.p.A. impresa sociale www.vita.it
Via Giovanni Bovio, 6 - 20159 Milano
© 2023
direttore: Stefano Arduini
testi: Anna Spena, Luigi Alfonso, Emiliano Moccia, Gilda Sciortino grafica e impaginazione: Matteo Riva e Antonio Mola
revisione: Antonietta Nembri
Questo volume è scaricabile gratuitamente da store.vita.it
Se il Terzo settore è ancora una stampella di Stefano Arduini
Povero Sud
→ Mezzogiorno, i numeri di un Paese che non conta pag. 10
→ L’infografica pag. 19
Povere città
→ Bari
Un supermercato sociale: spesa gratis per chi è in difficoltà pag. 23
→ Cagliari
Contro la povertà “l’abbraccio” del sociale pag. 31
→ Napoli
Povertà e lavoro minorile: spezziamo il circolo pag. 45
→ Palermo
La maratona solidale per i bisogni dei bambini pag. 53
→ Reggio Calabria
Dopo il Covid alla salute dei poveri pensiamo noi pag. 61
→ Conclusioni
Adesso la politica smetta di girarsi dall’altra parte pag. 69
Quando, come fa in questo book, un economista del calibro del presidente dello Svimez Adriano Giannola preannuncia la prossima fine della “questione meridionale” «per eutanasia del Mezzogiorno», dice di un pezzo d’Italia che si è arreso alla narrazione autoavverante di un Sud privo di risorse, assistito e improduttivo. Dentro questa fotografia però c’è anche dell’altro. C’è chi ha scelto di non arrendersi a un destino segnato dalla complicità di una politica troppo spesso inerme di fronte all’esplosione dei bisogni sociali e di rimboccarsi le maniche per dare risposte tangibili a chi dopo due anni di pandemia e un anno di inflazione impazzita che ha corroso stipendi e aumentato i tassi di disoccupati e inoccupati oggi si trova in condizioni di povertà.
I numeri e le tendenze che Anna Spena mette in fila in questa pubblicazione sono impressionanti. Si calcola addirittura che un bambino di Napoli frequenti la scuola primaria per una media annua di 200 ore in meno rispetto a un suo coetaneo di Milano. A conti fatti ciò significa un anno in meno di scuola sui cinque
curriculari. Meno istruzione significa più povertà educativa, più povertà sanitaria, povertà materiale. Tutti parametri che nel silenzio del dibattito pubblico nel nostro Mezzogiorno stanno aumentando e ai quali ha messo una toppa anche un Terzo settore finora impegnato in altri settori, che però di fronte all’emergenza ha deciso di scendere in campo a sostegno dei poveri e a supporto delle associazioni che storicamente si occupano di indigenza. Un fenomeno che abbiamo raccontato andando a conoscere dal vivo questi soggetti in cinque importanti capoluoghi del Sud: Bari, Cagliari, Napoli, Palermo e Reggio Calabria. Abbiamo scoperto una grande capacità di immaginare e mettere a terra servizi che consentono a tante famiglie e persone di tirare avanti. Ormai da anni questi enti di Terzo settore stanno tenendo in piedi le fasce più fragili delle loro comunità senza poter contare, nella stragrande maggioranza dei casi, sul riconoscimento delle pubbliche amministrazioni. Una volta si parlava di “stampella del welfare” sostenendo che il ruolo del Terzo settore non dovesse essere quello di sostituirsi a uno Stato incapace o di agire da semplice fornitore di servizi, ma quello di proporre soluzioni innovative per rendere più efficace l’intervento sociale. Si chiama welfare collaborativo e si basa su coprogrammazione e coprogettazione, due strumenti oggi a disposizione della politica che non possono rimanere sulla carta. Il prezzo più caro lo pagherebbero in primis i poveri, ma non solo loro: i costi sociali di comunità disgregate li pagheremo tutti. Nessuno escluso.
Dopo il Coronavirus la quota di persone che rischia l’esclusione sociale nel Mezzogiorno è 2,5 volte maggiore di quella del Nord Ovest, il triplo rispetto a quella del Nord Est, il doppio di quella del centro Italia. Il 13,7% delle famiglie in cui è presente almeno un minore, al Sud, sono povere. La media nazionale è dell’11,5%. Nella nostra inchiesta tutti i numeri di un collasso annunciato
Capita spesso che Nicola apra il frigorifero, ci guardi dentro e poi rimanga mezzo ipnotizzato. Sta fermo lì, quasi imbambolato. E in quell’attesa si fa strada una domanda “cosa mangio adesso?”. Una domanda che non ha niente a che vedere con l’indecisione del non sapere cosa scegliere, verso quale comparto dell’elettrodomestico allungare la mano e tirare fuori qualcosa per prepararsi il pranzo. Il frigo di Nicola è quasi completamente vuoto, certi giorni lo è del tutto. Ma quanti Nicola ci sono in Italia? Troppi. Nicola vive in povertà assoluta. E la povertà assoluta è, prima di tutto, questa cosa qui: avere fame e non avere cibo, aver bisogno di vestiti e non avere soldi per comprarli, essere malati e non riuscire a curarsi. Negli ultimi anni la quota di persone in povertà assoluta è aumentata in modo generalizzato in tutto il Paese. Nel 2005 si trovava in queste condizioni solo il 3,3% della popolazione residente in Italia; dodici anni dopo, nel 2017, la percentuale è salita all’8,4%. Nel 2021, complice anche la pandemia di
Coronavirus, abbiamo toccato il 9,4%. Nel 2020, e il dato è rimasto stabile nel 2021, le persone in povertà assoluta erano 5,6 milioni (i dati sul 2022 saranno disponibili solo nell’autunno del 2023). Quasi 15 milioni, invece, è il numero degli italiani a rischio povertà e di esclusione sociale, ovvero persone che sperimentano almeno una delle tre condizioni che definiscono la povertà: bassa intensità di lavoro, rischio di povertà relativa (le persone che vivono in famiglie il cui reddito equivalente netto — che tiene conto della diversa composizione delle famiglie — è inferiore al 60% di quello mediano nazionale) o severa deprivazione sociale. In Italia sono una persona su quattro, quindi il 25,4% della popolazione totale. Ma la povertà non è distribuita in modo uniforme su tutto il territorio, in certe zone esplode.
La fotografia del Sud Italia è drammatica: 41,2 è la percentuale delle persone a rischio povertà. Quindi la quota delle persone a rischio nel Mezzogiorno è 2,5 volte quella del Nord Ovest, il triplo rispetto a quella del Nord Est, il doppio di quella del Centro Italia. Nel Sud Italia una famiglia numerosa su quattro è povera (il 24% delle famiglie con cinque o più componenti) e nelle famiglie di soli stranieri questa percentuale raggiunge il 37,6%. La presenza dei minori incide in maniera significativa: il 13,7% delle famiglie in cui è presente alme -
no un minore sono povere davanti a una media nazionale che si ferma all’11,5% (dati Svimez — associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno).
Il Coronavirus ha squarciato un velo
Ora nessuno può più far finta di non vedere la povertà nel Sud. Ma il Terzo settore è stato reattivo e dinamico
Vanessa Pallucchi«La povertà era una condizione sociale che esisteva già, ma era sommersa», spiega Vanessa Pallucchi, portavoce del Forum del Terzo Settore. «Con la pandemia è emersa e nessuno ha più potuto fare finta di non vedere. L’emergenza sanitaria ha però certamente peggiorato la situazione perché c’è stato uno scivolamento: chi prima ce la faceva, anche se a stento, ora non riesce più ad arrivare a fine mese. Penso al cameriere che lavorava in nero, al piccolo commerciante, ai precari, alle famiglie mono genitoriali, solo per fare qualche esempio. E la povertà con la pandemia è esplosa in tutte le sue dimensioni: economica certamente, ma anche sanitaria, educativa, digitale, energetica». Il reddito di cittadinanza, durante i mesi dell’emergenza sanitaria, ha evitato che in Italia ci fossero un milione di persone in più in condizione di povertà assoluta. «Ma è solo dopo il Coronavirus», continua Pallucchi, «che si è iniziato a parlare davvero di po -
vertà, di sociale, di giovani, di educazione. Temi che il mondo del Terzo settore ha sempre rappresentato ma che durante i mesi più duri della pandemia sono stati letti in maniera più solidaristica. È come se ci si fosse veramente accorti dei bisogni sociali del Paese. Prima ciascuno viveva nella sua — piccola o grande — sicurezza. Quindi sembrava che certi problemi non appartenessero a una larga parte della comunità, come se fossero “i problemi degli altri”. Poi solo quando certe condizioni sono mancate a tutti ci si è resi conto che a qualcuno mancavano da sempre. È stata una sorta di presa di coscienza collettiva, la pandemia ha sdoganato una serie di temi legati alla povertà».
A tamponare durante i mesi più duri del lockdown, anche il Rem, reddito di emergenza. Le misure insieme hanno certamente attutito il colpo, ma da sole non sono bastate. «Con la pandemia», continua Pallucchi, «è emersa l’estrema resilienza dei soggetti del Terzo settore, quella capacità di adattamento dei servizi che gli ha permesso di rispondere ai bisogni delle persone. Il privato sociale ha dimostrato ancora una volta di non essere un soggetto rigido, ma attivo, reattivo e attento».
E infatti nelle pagine successive troverete il racconto di realtà sociali che pur non occupandosi direttamente di povertà economica, durante i mesi della pandemia, hanno attivato nuovi servizi per supportare le comunità durante l’emergenza. Servizi che poi sono rimasti attivi, soprattutto al Sud Italia, anche quando lo stato di emergenza è stato dichiarato finito
perché, invece, a non finire è l’emergenza povertà che sempre più nel Mezzogiorno si va cronicizzando. «Nelle regioni del Sud l’amministrazione pubblica è più debole. Ma dobbiamo anche registrare che qui la comunità di prossimità è più coesa e il Terzo settore ha certamente dato un grande supporto». Ma queste condizioni da sole non possono bastare.
Mezzogiorno, da dove ripartire?
Dopo le difficoltà legate alla pandemia, nel 2021 sembrava ci sarebbe stata una ripresa. E invece l’inizio della guerra in Ucraina a febbraio 2022 ha allontanato l’economia nazionale dal sentiero di recupero. Ma anche in questo caso chi sta soffrendo di più? L’inflazione non ha lo stesso peso in tutta Italia. Lo scorso novembre lo Svimez ha stimato una crescita media dei prezzi al consumo, nel 2022, del +8,3% nel Centro-Nord e del +9,9% nel Mezzogiorno. Secondo l’associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno il 2023 rischia di essere il primo anno di recessione per il Sud dopo un decennio (-0,4% di Pil). «In uno scenario di generale miglioramento della congiuntura internazionale, e ipotizzando un avanzamento ordinato del Piano nazionale di ripresa e resilienza», spiega
Adriano Giannola presidente di Svimez e della Fondazione di Comunità Centro Storico di Napoli, «il 2024 dovrebbe essere un anno di ripresa, ma con un differenziale di crescita del prodotto interno lordo ancora sfavorevole al Sud di 0,8 punti».
La maggiore esposizione delle famiglie meridionali allo shock inflazionistico emerge dalle stime Svimez sui nuovi rischi di disagio economico e sociale associati alla crisi energetica: un bacino potenziale di 287mila nuove famiglie povere (circa 750mila persone), per due terzi concentrate nel Mezzogiorno. Un incremento che corrisponderebbe a un aumento dell’incidenza della povertà assoluta di 2,8 punti percentuali nelle regioni meridionali, contro lo 0,3 del Nord e lo 0,4 del Centro Italia.
Di fatto la pandemia prima, la crisi energetica e l’inflazione dei prezzi, causati dalla guerra in Ucraina, hanno rimarcato una volta di più quella differenza atavica tra Nord e Sud Italia.
La pandemia ha evidenziato una rottura tra nord e sud del Paese. Ma stiamo usando bene il Pnrr?
Adriano Giannola«Cosa abbiamo fatto negli ultimi 30 anni?», è retorica la domanda di Giannola. «La pandemia ha evidenziato una rottura drammatica tra nord e sud del Paese. L’Unione europea ha varato un intervento straordinario — il Piano nazionale di ripresa e resilienza — e l’ha fatto con un obiettivo preciso: avere più coesione sociale e meno disuguaglianze, ovvero più attenzione al Mezzogiorno. Ci stiamo riuscendo? No. Siamo davanti a un piano privo di ambizione per carenza di visione. La situazione è preoccupante.
C’è una relazione tra povertà delle famiglie e le risorse educative che si riescono a garantire ai propri figli
Vincenzo Smaldore
Stiamo andando verso uno tsunami demografico denunciato nel 2011 dallo Svimez preannunciando la fine della “Questione Meridionale... per eutanasia del Mezzogiorno”. Perfettamente “funzionale” alla narrazione di un Sud assistito, improduttivo, realizza una self-fullfilling prophecy che rafforza l’anelito a liberarsi “della palla al piede” meridionale. Le previsioni scontano l’onda lunga dell’effetto spinta che alimenta da anni una “nuova” migrazione dal Sud estremamente selettiva di capitale umano giovane e tendenzialmente a medio-alta qualificazione; se non tempestivamente contrastata, avrà un formidabile impatto sul Prodotto interno lordo. Ai parametri attuali, la Banca d’Italia stima nel 2070 un calo del Pil del 40% al Sud rispetto al 20% del Centro Nord. La disarticolazione del Paese in regioni autonome, prospetta il ritorno dell’Italia a mera “espressione geografica”. Nel 2065 il Sud Italia sarà l’area più vecchia e povera, necessariamente assistita del nostro Paese. Nel 2070 il Mezzogiorno avrà sette milioni di abitanti in meno. La piramide demografica sarà sconvolta: la demografia è una scienza implacabile. Eppure il Mezzogiorno non è una “frana” ma un’opportunità. Ed è anche un punto strategico per mante -
nere l’equilibrio generale nell’area del Mediterraneo, perché il Sud è il centro dell’area mediterranea. Adesso nelle tante, troppe, difficoltà il privato sociale ha fatto e continua a fare la sua parte, sa come rispondere ai bisogni, probabilmente meglio del pubblico. Ma nonostante tutto dobbiamo ammettere che le soluzioni non sono adeguate alle dimensioni del problema, serve un intervento strutturale».
C’è un altro dato drammatico sul Sud: secondo le analisi dello Svimez nel Mezzogiorno si svuotano le aule e ci sono 250mila studenti in meno. E un bambino di Napoli, o che vive nel Mezzogiorno, frequenta la scuola primaria per una media annua di 200 ore in meno rispetto al suo coetaneo che cresce nel centro-nord, questo concretamente significa un anno di scuola in meno. «C’è una relazione diretta tra la condizione economica delle famiglie e l’opportunità di carattere educativo e formativo che riescono a garantire ai propri figli», spiega Vincenzo Smaldore, responsabile editoriale di Open Polis, una fondazione che promuove progetti per l’accesso alle informazioni pubbliche, la trasparenza e la partecipazione democratica. Quindi quello che vive il Mezzogiorno è un circolo vizioso: «Il livello di educazione», continua Smaldore, «è fondamentale per avere accesso al mondo lavorativo, soprattutto ad un mondo lavorativo di qualità. E in Italia i soggetti più po -
veri sono i meno istruiti, e visti i dati sulla povertà, si evince che nel Mezzogiorno il problema è più presente. Laddove invece la persona è istruita, le condizioni di povertà si dimezzano. Ciò crea un circolo: se nasci in una famiglia povera aumentano le probabilità che il minore si trovi anche in una situazione di povertà educativa e quindi che da adulto si troverà a vivere in una condizione di povertà, e lo stesso accadrà anche per i suoi figli. In Italia la povertà è “ereditaria”. Questo per i ragazzi è una condanna». Quindi per uscire davvero dalla condizione di povertà, per prevenirla, bisogna puntare sui giovani.
2,4 Mln (42,8%) persone in povertà assoluta al sud
+9,9%
l’inflazione dei prezzi nel sud
-0,4% di Pil, stima di recessione per il sud nel 2023
41,2% le persone a
200
le ore in meno di scuola primaria frequentata, in un anno, da un bambino del sud rispetto a un coetaneo del centro-nord
Bari, Cagliari, Napoli, Palermo e Reggio Calabria: siamo andati in cinque capoluoghi del Mezzogiorno per documentare gli interventi di enti sociali che di fronte all’assenza di risposte da parte delle pubbliche amministrazioni hanno deciso di scendere in campo per supportare famiglie e individui caduti in povertà. Ecco chi sono e cosa fanno
BARI
Associazione InConTra
Via Barisano da Trani, 15 – 70132
www.incontrabari.it – E-mail: associazione.incontra@gmail.com
Tel: 349 6679173
Settore d’intervento: povertà
Associazione nazionale Interforze Osservatori legalità, pace e Sicurezza – Aios
Via Ponte, 4 – 70131
E-mail: info@aiosprotezionecivile.com
Tel: 329 7207412
Settore d’intervento: soccorso ambientale e sanitario
CAGLIARI
Fondazione Domus de Luna
Via Antonio Sanna, snc – 09134
www.domusdeluna.it – E-mail: fondazione@domusdeluna.it Tel. 070 7335470
Settore d’intervento: accoglienza di minori e mamme, inserimento lavorativo di persone fragili
NAPOLI
Associazione Asso.Gio.Ca
Piazza S. Eligio, 3 – 80133
E-mail: info@assogioca.org - Tel. 081 19254713
Settore d’intervento: educazione
Cooperativa Sociale Dedalus
Piazza Enrico De Nicola, 46 scala A – I piano – 80139
www.coopdedalus.it – E-mail: info@coopdedalus.it – Tel. 081 293390
Settore d’intervento: accoglienza, integrazione e lavoro, minori stranieri non accompagnati, vittime di tratta
PALERMO
Centro Tau – Associazione “Inventare Insieme”
Via Cipressi, 9 – 90134
www.centrotau.org – E-mail: centrotau@mediatau.it – Tel. 091 6523282
Settore d’intervento: educazione
REGGIO CALABRIA
Consorzio Macramè
Via Vallone Petrara, 10/A – 89124
www.consorziomacrame.it – E-mail: info@consorziomacrame.it Tel. 0965 896669
Settore d’intervento: inserimento socio-lavorativo di persone svantaggiate
—
Italiani poveri, rom, migranti, prostitute, senza fissa dimora. Le associazioni Aios e InConTra hanno ridisegnato i progetti per sostenere chi è rimasto senza lavoro
«Prima del Coronavirus non ci eravamo mai occupati di povertà. Poi, in piena emergenza sanitaria, abbiamo scoperto un mondo nascosto ed abbiamo deciso di fare qualcosa anche se non era la nostra mission principale». Il mondo nascosto di cui parla Giacomo Pellegrino, presidente dell’associazione Interforze Protezione Civile — Aios, è quello delle persone che vivono in condizioni di povertà e a forte rischio di emarginazione sociale. Migranti, soprattutto, ma anche tanti cittadini italiani che vivono a Bari nel quartiere Carbonara in cui opera l’associazione che impegnata nel sociale attraverso iniziative di volontariato ambientale, sanitario, culturale, sicurezza, pace e legalità. Ma il tema della povertà non lo avevano mai
316.015
numero di abitanti residenti a Bari
affrontato, fino all’arrivo della pandemia. «Durante il periodo del Coronavirus abbiamo pensato di renderci utili per tutte quelle persone che vivevano in condizioni di disagio economico e che come tutti non potevano uscire di casa a causa delle restrizioni. Di conseguenza, abbiamo chiesto alla catena dell’Eurospin di poter avviare una raccolta alimentare settimanale per poter aiutare queste persone, parliamo di circa 1.800 famiglie che ci sono state segnalate dai presidenti dei Municipi IV e V del Comune di Bari, attraverso il passaparola e da conoscenze varie» racconta Pellegrino. «Grazie a quanti effettuavano le donazioni di prodotti alimentari, nelle giornate di raccolta abbiamo riempito le buste della spesa con pasta, latte, pomodori pelati, legumi ed altro. Parliamo di buste con un valore di circa 35/40 euro, con l’idea di far durare le provviste per almeno una settimana». I volontari dell’associazione, quindi, carichi di buste della spesa hanno girato per strade, palazzi, strutture fatiscenti con l’obiettivo di incontrare i poveri e darle in dono a quanti ne avevano bisogno. «Abbiamo sostenuto famiglie italiane, straniere, rom. Sia i migranti sia i rom sono molto pre -
senti nelle nostre zone» evidenzia Pellegrino. «Abbiamo aiutato anche delle prostitute, che proprio in conseguenza della pandemia e delle relative restrizioni non riuscivano più a lavorare». L’azione, però, non si è fermata solo alla raccolta di cibo. «Ogni lunedì e giovedì distribuivamo presso la nostra sede anche coperte, vestiti perché continuavano ad arrivare richieste. Siamo andati avanti così fino al 31 dicembre dello scorso anno, poi superata l’emergenza ci siamo fermati».
Ma è bastato poco ai volontari dell’Aidos per rendersi conto che qualcosa era cambiata nella società, che un’ulteriore frattura sociale, anche a causa del Coronavirus e delle sue conseguenze, si era allargata. «Abbiamo notato, però, che terminata l’emergenza sanitaria è subentrata un’altra emergenza, questa volta legata all’aspetto economico-finanziario e alla mancanza di lavoro. La gente è venuta a bussare per chiedere aiuto» scandisce
32,2% Persone in povertà relativa in Puglia
Pellegrino. «Dopo esserci fermati nei mesi di gennaio e febbraio con questo genere di attività, a marzo abbiamo deciso di riprendere la raccolta alimentare perché riceviamo ancora tante richieste da parte di chi vive in condizioni di disagio
economico. E così, siamo tornati ad essere presenti con i carrelli nei diversi punti vendita dell’Eurospin di Bari per proseguire questa azione e non ci siamo più dati una scadenza. Il nostro quartiere è molto popolato da cittadini stranieri, ma non avevamo mai notato che ci fosse questo forte disagio. Abbiamo scoperto che c’è un mondo nascosto, emerso per colpa delle di questa emergenza».
Quello della povertà è un fenomeno che attacca con ferocia una buona fetta di pugliesi. La Puglia, infatti, è la regione dove si concentra la maggior parte delle famiglie povere italiane. A rilevarlo è sempre l’Istat che nel 2021 ha registrato il 27,5% di povertà relativa, dato che rappresenta l’incidenza maggiore
su scala nazionale. Inoltre, rapportando il dato al numero dei residenti, in Puglia la povertà relativa colpisce circa 800mila persone. Per questo, le realtà che si occupano di povertà non si sono risparmiate negli anni della pandemia, anche adesso che l’emergenza si sta attenuando ma mostra ferite profonde.
Lo sanno bene al quartiere San Paolo, dove in via Barisano da Trani 15, ha sede l’associazione InConTra. Le famiglie arrivano davanti ai locali dell’associazione, mattina e sera. È una processione lenta, continua, incessante. Vengono accolte dai volontari che parlano, ascoltano, cercano di entrare nelle storie di chiunque si rivolge a loro. Non è soltanto la necessità di soddisfare un bisogno essenziale come quello di mangiare, è qualcosa di più. È la voglia di sapere che c’è qualcuno disponibile a capire e ad ascoltare. Negli anni InConTra è diventata un anello di congiunzione tra chi vive ai margini e la città.
«Prima dello scoppio della pandemia, attraverso la consegna dei pacchi alimentari aiutavamo 700 nuclei familiari; ora assistiamo 1.300 famiglie bisognose, raggiungendo con questo servizio circa 6mila persone. Durante il Coronavirus abbiamo capito che dovevamo ampliare i nostri servizi. Abbiamo attivato, per esempio, un centro di ascolto e di orientamento al lavoro proprio per favorire l’occupazione di quanti lo hanno perso durante la pandemia».
Michele Tataranni è il presidente di InConTra, il sodalizio nato nel 2003 sulla spinta di un gruppo di giovani deside -
rosi di fare qualcosa per i più fragili. Anche per questo, grazie al supporto della Fondazione Progetto Arca «abbiamo aperto nella nostra sede il secondo market sociale dove è possibile trovare cibo, detergenti intimi, assorbenti, pannolini, cancelleria e farmaci» prosegue Tataranni. «Un’azione dovuta per soddisfare al meglio e con dignità le richieste di aiuto e di soccorso giunte presso il centro di ascolto della nostra associazione di circa 200 nuovi nuclei famigliari».
Le persone e le famiglie che si rivolgono al market sociale hanno dei punti calcolati in base a dei parametri che tengono conto della dichiarazione Isee, del nucleo famigliare, di eventuali redditi da lavoro o di cittadinanza. «Con i punti a disposizione possono fare la spesa». Intanto, il camper dell’unità mobile di InConTra non si è mai fermato, neanche nei momenti in cui la pandemia faceva più paura e le restrizioni erano più rigide. «Abbiamo effettuato consegne di pacchi alimentari a domicilio ed aiutato i senza dimora, cosa che facciamo ancora adesso».
45 anni età media dei baresi
sostegno della Fondazione Progetto Arca. Il food truck è diventato anche un luogo di relazioni, conoscenze, con tavolini e sedie in cui sedersi e riposare un po’. «La Cucina Mobile con forni, bollitori e frigoriferi a bordo si ferma ogni giorno nei pressi della stazione per offrire una cena calda, decorosa e sana ai clochard della zona» dice Tataranni. «Questo servizio ci ha fatto riappropriare della piazza della stazione, dove passano le esigenze ed i bisogni del mondo. Il food truck garantisce anche fino a 120 pasti. D’inverno usciamo anche 4 volte a settimana, da maggio saremo presenti anche a pranzo, almeno 3 volte a settimana». Perché nonostante l’assessorato al Welfare del Comune metta a disposizione oltre 611 posti in accoglienza ed una serie di interventi sociali ben strutturati, la povertà è ancora tanta e non tutti trovano un letto per la notte o vogliono accedervi. Di qui, l’esigenza del sodalizio di proseguire nell’assistenza ai senza dimora e nella consegna dei pacchi alimentari alle persone più fragili che vivono nel territorio».
Irene prima della pandemia non aveva mai chiesto aiuto per la spesa. Efisio ha commesso reati per far mangiare i figli. Adesso a sostenerli c’è la fondazione Domus de Luna
Buona parte della popolazione cagliaritana, negli ultimi 40 anni, si è travasata nei comuni della cintura circostante, ben prima che venisse istituita la Città metropolitana di Cagliari.
148.117
numero di abitanti residenti a Cagliari
L’aumento vertiginoso del costo delle case ha costretto i ceti meno abbienti e le giovani coppie a trovare soluzioni economiche più adeguate alle proprie finanze. Così il capoluogo si è spopolato (si calcolano circa 30mila appartamenti sfitti) a vantaggio dei paesi vicini. La continuità territoriale ormai è indefinibile, pertanto i 17 Comuni che fanno parte di questo ambito vivono in completa simbiosi e fruiscono degli stessi servizi. La premessa è doverosa per inquadrare anche l’attività della principale realtà locale del Terzo settore che, soprattutto dal lockdown del 2020 in poi, ha dovuto dedicare parecchie risorse per aiutare le famiglie indigenti. Il lavoro della Fondazione Domus de Luna, in questi tre anni, non ha subìto un calo sul versante dei generi alimentari, nonostante la (lenta) ripresa economica del post pandemia. Non solo: se è vero che due Comuni (Pula e Villa
San Pietro) dell’Area metropolitana non registrano cittadini che fruiscono di tali servizi, è pur vero che Domus de Luna aiuta centinaia di persone che risiedono in altre aree geografiche, che spaziano dal Sulcis Iglesiente alla Trexenta, dal Parteolla all’Oristanese.
La vita scorreva serena, sino al marzo 2020. Non per tutti, ma per molti sì. Parecchie persone avevano un lavoro, magari non particolarmente redditizio ma che assicurava la sopravvivenza, a patto di non concedersi troppi extra. Con il lockdown è cambiato il mondo. E una buona fetta di queste persone ha perso la tranquillità, oltre il lavoro. È il caso di Irene. «Ho sempre lavorato, non ho mai avuto bisogno di chiedere una mano d’aiuto, neppure agli amici», racconta. «Ero dipendente a tempo determinato di un’azienda del settore ristorazione. Nel 2020, subito dopo il lockdown, ho ripreso a lavorare per la stagione estiva ma poi sono rimasta incinta e i titolari non mi hanno confermato il contratto. È stata una brutta tegola: abbiamo tre figli e non è facile mettere insieme il pranzo con la cena, se non si ha un reddito appena decente. Mio marito è elettricista, ha cercato di fare parecchi straordinari: per fortuna è un uomo meraviglioso, fa di tutto per la famiglia, non si risparmia. Però non basta più. Io e lui abbiamo perso i genitori quando eravamo bambini, dunque non possiamo contare su nessuno. E non è facile presentarsi a Domus de Luna per prendere la busta di generi alimentari. Ma le ragazze che ci danno assistenza
sono meravigliose, cercano di mettere tutti a loro agio. Mentre faccio la fila, intrattengono le mie bambine nell’area giochi dell’Exmè. Nel mio piccolo ho voluto sdebitarmi con loro: lavoro all’uncinetto, ho fatto dei piccoli fermacapelli e glieli ho regalati. Credo che abbiano gradito il pensiero, un piccolo gesto per dire grazie. Ora spero che la ripresa economica mi aiuti a trovare un’occupazione stabile: la voglia di fare non mi manca, per fortuna. Nel frattempo seguo la bimba più piccola, per evitare di dover pagare la retta dell’asilo nido. Quando entrerà alla scuola materna, riprenderò a presentarmi nei ristoranti con il curriculum in mano». Federica racconta una storia molto simile a quella di Irene: «Sino al 2020, ho lavorato con una certa continuità: pulizie nelle case di privati e assistenza agli anziani. In qualche modo, riuscivo a tenere la famiglia, visto che mio marito è senza lavoro da dodici anni. Poi, dall’oggi al domani, sono rimasta a spasso per lunghi mesi. Al momento faccio lavoretti saltuari, racimolo 300-400 euro al mese e, pur non avendo un affitto da pagare, sono troppo pochi per sfamare me, mio marito e due figli. Un giorno, una mia amica mi ha detto: perché
18,1% persone in povertà relativa in Sardegna
non proviamo a chiedere aiuto a Domus de Luna? Devo confessare che non conoscevo quella realtà ma, non avendo alternative, mi sono detta: proviamoci. Ancora oggi provo imbarazzo nel presentarmi all’Exmè una volta alla settimana, per chiedere una busta di generi alimentari: non ci ero abituata, e credo che non mi abituerò mai. So bene che tutta la gente che sta in fila ha gli stessi problemi, ma è difficile far finta di niente. Spero soltanto che riesca presto a trovare un lavoro stabile, voglio fare come ho sempre fatto: mantenermi con le mie forze, senza l’aiuto degli altri. Come dovrebbero poter fare tutti.
Faccio il possibile per variare il menu col poco che abbiamo: lo devo soprattutto ai miei figli, non possono mangiare soltanto gli spaghetti. Io posso privarmi di tante cose, ma loro vengono prima di tutto. Intanto, ringrazio Domus de Luna per il sostegno e anche per la gentilezza delle sue operatrici: anche quello aiuta».
Il presidente di Domus de Luna è Ugo Bressanello, la fondazione spazia in tanti ambiti del sociale ma fino al 2020 non si occupava esplicitamente di povertà economica. Dopo la pandemia ha raddoppiato gli sforzi per sostenere migliaia di famiglie sarde. Lo fa attraverso il progetto “Ti abbraccio”. «I numeri degli assistiti sono cresciuti esponenzialmente», spiega Daniela Sechi, responsabile dell’intervento. «E non vedo
la tendenza a diminuire. Probabilmente qualcuno ci marcia, si accontenta del reddito di cittadinanza sino a quando ci sarà, ma la stragrande maggioranza è fatta di persone davvero in grave difficoltà. Prima davamo sostegno a poveri noti, da un paio d’anni però una buona fetta è composta da gente che aveva un lavoro e oggi lo ha perso. Cerchiamo di aiutarli con due modalità differenti: “Ti abbraccio con la spesa”, al centro Exmè di Pirri, provvede alla distribuzione di generi alimentari di prima necessità; attraverso “Ti abbraccio con i vestiti”, nel non-negozio di via Beccaria a Quartu Sant’Elena, mettiamo a disposizione gli indumenti per coloro che presentano un regolare Isee».
Che cosa è accaduto dal 2020 a oggi? «Siamo partiti dalla povertà conosciuta, quella dei quartieri popolari e dei ceti meno abbienti», spiega Sechi. «C’è stata una forte espansione sin dal 2021. Oggi copriamo oltre 70 Comuni, compresa la Città metropolitana di Cagliari, raggiungendo il Sulcis Iglesiente e, più sporadicamente, il Nuorese e la Gallura. Il bisogno non è solo alimentare: quando abbiamo esteso il servizio alle bombole del gas, siamo stati subissati di richieste. I rincari hanno acuito le situazioni già precarie nel pre-pandemia. Molte famiglie hanno perso il lavoro che, pur con una certa fatica, consentiva loro di arrivare a fine mese. Inoltre, tutto costa di più: molta gente ci confida che si rivolge anche ad altri enti per avere un aiuto economico o di viveri. Noi, da soli, non riusciamo
a far fronte a tutte le necessità. Grazie al Consorzio Alimentis accontentiamo tante persone, ma non basta più».
Tra gli stessi operatori della fondazione di Ugo Bressanello ci sono tante tipologie di contratti. Emanuele è giovane, ma non più ragazzino. Oggi si occupa del magazzino alimentari e della distribuzione. La sua storia fa comprendere la filosofia vincente di Domus de Luna. «L’11 ottobre 2011 sono entrato in una comunità protetta insieme a mia mamma e a mia sorella. Ho fatto tutto il percorso in comunità, poi mi sono reso indipendente ma non ho perso il contatto con loro. In pratica, sono uno degli ex bambini di cui si è occupata Domus de Luna sin dall’inizio.
50 anni età media dei cagliaritani
Frequentavo l’Exmè di Pirri come centro di aggregazione. Col passare del tempo, mi hanno inserito tra i tirocinanti e ho svolto diverse mansioni, cominciando dal livello più basso per fare esperienza. Il lavoro qui non manca di certo, soprattutto in questo periodo in cui tanta gente continua a non trovare occupazione e non sa più che cosa fare. L’aiuto dei Comuni non è sufficiente: se non ci fossero realtà come questa, non so che cosa accadrebbe. Io stesso, oggi, non avrei un lavoro. Attenzio -
L’iniziativa è nata dalla Fondazione Domus de Luna durante la pandemia per sostenere le persone in difficoltà economica attraverso la distribuzione di beni alimentari, vestiti e strumenti digitali. Ma anche dopo la fine dell’emergenza sanitaria i bisogni sono rimasti elevati e il progetto continua
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ne, però: la gente che si rivolge a noi non chiede soltanto un aiuto materiale ma anche una spalla su cui piangere. C’è tanta disperazione, non immaginate quante persone siano costrette a delinquere per portare da mangiare a casa». La conferma arriva da Efisio, un volontario arrivato all’Exmè attraverso l’Uepe, l’Ufficio interdistrettuale esecuzione penale di Cagliari. «Sto scontando una pena di due anni per problemi giudiziari», spiega. «Sono agli arresti lavorativi. Domus de Luna mi ha accolto tre mesi fa, e spero di poter proseguire in un nuovo progetto che partirà a maggio, attraverso un bando regionale. Per vent’anni di seguito ho sempre lavorato, in un centro commerciale e come buttafuori nelle di-
scoteche. Poi, con la pandemia e la crisi economica, mi sono trovato a spasso. Non mi vergogno a dire che ho dovuto commettere dei reati per disperazione, per poter mangiare. Non me ne vanto, ma non potevo lasciare la mia famiglia senza cibo: abbiamo sette figli, e soltanto da poco i due più grandi hanno iniziato a lavorare e sono andati a vivere per conto loro. La situazione che è emersa durante il lockdown e a causa dell’attuale crisi economica ha radici profonde: da alcuni decenni eravamo arrivati ai limiti, adesso il dramma è esploso con grande forza. La classica goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo. Lavorare all’Exmè non mi permette soltanto di guadagnare qualche soldo, ma anche di tenere impegnata la mente e scansare l’angoscia e la tentazione. La strada è come l’alcol: sta là, ti aspetta».
Anna è una donna di 62 anni, di bell’aspetto, ma negli occhi le leggi una profonda tristezza. Gli ultimi tre anni, per lei, non sono stati particolarmente fortunati. La intervistiamo mentre sta preparando le buste da distribuire alla gente in fila di buon mattino. «Sono una volontaria tradizionale, aiuto all’Exmè dal giugno 2012. È il mio modo di restituire a Domus de Luna il tanto che fa per me: anche io sono tra i beneficiari della busta spesa. E devo dire che mi fa piacere dare una mano. Qui mi trovo benissimo, ho scoperto una grande famiglia che mi sostiene. Sinché ci sarà Domus, io sarò presente». Riesce a trattenere a stento le lacrime. Poi riprende: «Ho sposato in pie -
no il concetto de s’aggiudu torrau, che in Sardegna era in voga sino agli anni Sessanta. Ma l’avrei fatto ugualmente: ricevo e do. Sono divorziata. In piena pandemia, ho perso il lavoro e pure il nuovo compagno con cui dividevo le spese domestiche. Non mi perdo d’animo, continuo a cercare. Ma non è facile: purtroppo sono considerata troppo vecchia per un contratto e troppo giovane per ricevere la pensione minima. Vado avanti con la mia dignità ma, mi creda, sono tempi molto difficili soprattutto per le persone come me».
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Chi lavorava solo con i giovani oggi distribuisce anche pacchi alimentari e dà contributi economici alle famiglie per evitare che i minori siano costretti a lavorare
«Io facevo il commerciante, lavoravo così: prendevo gli abiti in stock a Napoli e poi andavo in Messico e li rivendevo. Ho fatto una bella vita, non mi posso lamentare. Non mi lamento neanche adesso che sono povero e la pensione sociale non mi basta per arrivare a fine mese. Però ci sono i volontari che mi portano i pacchi alimentari, me li ha fatti conoscere la signora Pupetta, abita pure lei nel palazzo».
Il signor Gennaro ha 70 anni, la voce allegra, e porta sempre gli occhiali da sole. Anche se a Napoli, che è la città del sole, in mezzo ai vicoli spesso la luce non arriva. Vive in una traversa di piazza Mercato, nel quartiere Pendino, un quartiere “fragile”, l’aggettivo che oggi si usa per indicare quei luoghi difficili, dove la povertà è prepotente e a fine mese in tanti, come Gennaro, fanno fatica ad arrivare. I volontari a cui si riferisce sono le persone che ogni settimana o due suonano al citofono di casa sua e gli consegnano la spesa, sono gli operatori, e i ragazzi e le ragazze del servizio civile dell’associazione Asso. Gio.Ca. Una realtà che è nata nel 1997 con uno scopo preciso: «Contrastare la povertà educativa. Offrire un’alternativa ai minori che abitano il quartiere — che non è una zona “facile” della città — investire sull’istruzione. Abbiamo diversi centri didattici nelle varie zone della municipalità, la scuola ci segnala i ragazzi che “nei banchi non ci sanno stare” e quindi li seguiamo noi fino all’esame di terza media», racconta Gianfranco Wurzburger, presidente dell’associazione. «Non c’eravamo
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numero di abitanti residenti a Napoli
mai occupati di povertà economica», continua. «Insomma un pacco alimentare non lo avevamo mai consegnato. Poi è arrivato il Coronavirus. E certo nessun discorso o azione regge con la pancia vuota». Asso.Gio.Ca durante i mesi più complessi dell’emergenza sanitaria ha messo in piedi il progetto “Invisibili” insieme all’associazione L’Altra Napoli e all’associazione dei Commerciati di Forcella. «Abbiamo avviato un programma di sostegno alimentare per le famiglie colpite dalla crisi economica e prive di reddito». I panieri solidali, sono stati distribuiti a circa 600 famiglie. «Le persone non potevano uscire di casa e così a casa loro ci siamo andati noi. O meglio ci andavano i salumieri di otto piccoli alimentari della zona di Forcella, altro quartiere fragile della città, che hanno partecipato al progetto. Una volta alla settimana venivano distribuiti i pacchi con olio, legumi, caffè, passate, latte, biscotti. Le persone e le famiglie le abbiamo intercettate con il passaparola e tramite le parrocchie del quartiere, le nostre antenne sul territorio». I commerciati aderenti «hanno consegnato la spesa alle persone che noi abbiamo segnalato», spiega Antonio Lucidi, vicepresidente dell’Altra
Napoli Onlus. «Coinvolgerli è stato anche un modo per aiutare i piccoli commercianti in un momento difficile. I panieri solidali variavano in base ai componenti del nucleo familiare. Il valore economico del pacco variava dai 30 agli oltre 50 euro». Persone che lavoravano in nero e durante il lockdown non potevano accedere ai sostegni statali, camerieri, «famiglie», dice Wurzburger «che tanto povere lo erano già prima della pandemia ma fino a quel momento non avevano avuto il coraggio di chiedere aiuto. E non ce l’avevano perché la povertà è sentita come una vergogna, come una colpa. Ci sono tantissime persone che vivono la povertà nel silenzio, nell’ombra. Ce ne sono più di quelle che immaginiamo, più di quelle che vediamo. E in ognuna di queste persone c’è tantissima dignità». A pochi metri della sede di Asso.Gio.Ca c’è un magazzino: «Qui conserviamo il cibo e oggi sono due i grandi canali di raccolta: il banco alimentare gestito dalla Caritas di Napoli e le donazioni dei privati». Anche se l’emergenza sanitaria è finita il bisogno
29% persone in povertà relativa in Campania
qui è rimasto alto. «Qualcuno ha ricominciato a lavorare ed è tornato solo per dirci grazie», racconta il presidente di Asso. Gio.Ca. «Qualcuno invece ha ancora bisogno di aiuto, al lavoro non c’è più tornato. O se c’è tornato il salario troppo basso non basta per fare fronte neanche alle spese della vita quotidiana. Di fatto un progetto nato per tamponare l’emergenza è diventato permanente. Però ne abbiamo cambiato la struttura: prima ci chiedevano aiuto e consegnavamo il pacco. Perché all’emergenza bisogna rispondere subito. Oggi invece le circa 300 famiglie che ancora supportiamo devono presentano l’Isee. Chi si trova sotto la soglia dei 12mila euro viene aiutato».
Ma a Napoli per contrastare il tasso di povertà bisogna ripartire dai giovani, Antonio Lucidi ne è convito: «Se non ci curiamo di questa generazione la città è spacciata».
Così poco più in là, nel quartiere di San Lorenzo, uno dei più multietnici della città di Napoli, la cooperativa sociale Dedalus, 40 anni di esperienza, sugli adolescenti ha puntato tutto. I servizi che oggi la cooperativa gestisce sono rivolti infatti soprattutto a loro, insieme alle persone straniere e alle donne. Anche Dedalus, che di povertà in senso stretto non si era mai occupata, durante il Coronavirus ha dovuto far fronte alle richieste materiali. E infatti sono stati consegnati pacchi alimentare alle famiglie dei ragazzi che frequentano il centro interculturale della cooperativa “Officina Gomitoli”, alle vitti-
me di tratta, ai senza fissa dimora. «Non essendoci donne in strada», racconta Elena De Filippo, presidente della cooperativa, «siamo andati noi a casa loro e abbiamo fatto la distribuzione dei beni alimentari». L’emergenza sanitaria, per alcuni, ha proprio svelato la povertà: «Mi ricordo precisamente», continua De Filippo, «di questa ragazzina che frequentava il nostro centro interculturale. Il papà vendeva gli abiti in nero al mercato. Ed è durante la pandemia che lei ha capito cosa significava lavorare in nero, quando i pacchi e i sussidi non arrivavano a casa sua. È in quel momento che si è accorta di cosa significhi essere in povertà economica».
Ma finita l’emergenza sanitaria «con il nostro osservatorio legato ai minori stranieri», spiega De Filippo, «abbiamo registrato una ripresa del lavoro minorile anche sotto i 16 anni, e questa è una diretta conseguenza della povertà perché le famiglie chiedono ai figli di aiutarli ad integrare il reddito ». La cooperativa tra il 2020 e il 2022 ha seguito oltre mille ragazzi, più della metà di origine straniera tra cui ucraini, pakistani, bengalesi. Finita l’emergenza sanitaria la cooperativa ha intensificato i progetti per
contrastare il lavoro minorile: «Firmiamo», spiega De Filippo, «dei patti educativi tra scuola, famiglie e ragazzi. Come il progetto “Grazia sotto pressione” sostenuto dall’impresa sociale con i bambini. Un’iniziativa per il contrasto della povertà educativa minorile. L’obiettivo principale del progetto è intervenire sulle situazioni di grave povertà educativa e socio-economica vissuta dai minori inseriti in contesti familiari coinvolti in circuiti di sfruttamento».
I patti firmati si chiamano “Patti Educativi di Cittadinanza” e se da un lato sono finalizzati all’inclusione scolastica e formativa dei ragazzi e delle ragazze, e vengono concordati in maniera individualizzata con i destinatari, sulla base dei loro bisogni e delle loro attitudini, dei loro desideri, dell’età e delle condizioni di contesto, dall’altro vengono anche dati contributi economici alle famiglie per aiutarle a sostenere le spese quotidiane senza che il minore sia costretto o, come in molti casi accade, si senta in obbligo di lavorare per dare in suo contributo.
Un passaparola per raccogliere beni di prima necessità per l’infanzia. Doveva essere un’iniziativa passeggera e invece è diventato un servizio fisso offerto alle famiglie
«Che nutrire un bambino nei suoi primi mesi di vita fosse oneroso lo sapevamo, ma ne abbiamo avuto maggiore consapevolezza nel momento in cui è scoppiata la pandemia. Improvvisamente ci siamo ritrovati a rispondere a un bisogno del quale non ci eravamo mai occupati: la nostra mission è sempre stata solo educativa, non assistenziale».
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numero di abitanti residenti a Palermo
Parla così Francesco Di Giovanni, presidente dell’associazione “Inventare Insieme”, fondata nel dicembre del 1990 dai volontari del “Centro Tau”, che si prende cura delle famiglie che vivono in un territorio difficile, denso di contraddizioni, tra l’affascinante Castello della Zisa e la conca dei Danisinni dove il disagio economico è palese e lo scoppio della pandemia ha evidenziato la necessità di aiuto soprattutto per le fasce di bambini più piccoli dai 0 a 3 anni. I kit di latte, pannolini, omogeneizzati e altri prodotti per la tenerissima età sono diventati in men che non si dica 250 e sono stati consegnati alle famiglie che non riuscivano più a fare fronte a una spesa veramente importante per
chi, in quel momento di difficoltà, tra le priorità sembrava non potere mettere prodotti specifici per l’infanzia.
«Così, in una sorta di passaparola spontaneo», dice Di Giovanni, «si è creata una rete tra il Centro Tau, le parrocchie Sant’Agnese dei Danisinni e Madonna di Lourdes di piazza Ingastone, insieme agli istituti scolastici “Gabelli” e “Colozza Bonfiglio”. Fra Mauro Billetta e Padre Massimo Merlino all’inizio di questa esperienza non si conoscevano, ma fin dai primi giorni hanno attivato con il Centro Tau un sistema in rete, anche con le altre Caritas parrocchiali del territorio, che è riuscito a garantire assistenza e cibo a centinaia, forse anche migliaia, di famiglie che arrivavano attraverso la scuola, le parrocchie, i servizi sociali del territorio. Abbiamo, quindi, fatto la precisa scelta di gestire la distribuzione dei beni alimentari e di prima necessità per i bambini da zero a tre anni, la maggior parte dei quali residenti nel territorio della Comunità educante».
Numerosi i bisogni che andavano emergendo una volta messa in moto la macchina della solidarietà. A parte la didattica a distanza, per fare la quale servivano supporti tecnici e informatici, come anche la connessione a internet che i bambini non avevano nelle loro case. Ma anche la spesa, gli affitti, le bollette da pagare, le bombole di gas finite.
«Le famiglie vivono in case che spesso si riducono a una o due stanze. Ai Danisinni», racconta Pippo Morello dell’asso -
ciazione Insieme per Danisinni, una delle realtà del quartiere, «la casa viene concepita nei suoi spazi interni, ma anche esterni, e il fuori è spesso una continuazione dello spazio interno. Si scopriva che, giorno dopo giorno quegli stessi bambini non avevano da mangiare o avevano un fratello neonato a cui mancava il latte. Ecco partire le telefonate, i messaggi nei gruppi whatsapp e nelle videochat che hanno coinvolto tutti, attivando una rete circolare che ha cercato di non lasciare indietro nessuno, una rete che anche finita l’emergenza continua ad aiutare tutti quelli che hanno bisogno». Distribuiti centinaia, se non migliaia, di litri di latte in polvere e così tanti pannolini di ogni taglia da perdere il conto. E poi biscotti, omogeneizzati di carne, pastina, ma anche l’acqua speciale che serve per il latte in polvere. Senza contare il fatto che i bambini crescevano a vista d’occhio e quel che serviva loro cambiava di settimana in settimana in maniera repentina. Un impegno anche e soprattutto dal punto emotivo per Francesco che, insieme alla squadra di volontari come Alessia, Mimmo, Domenico, Cettina, Giovanni, ma anche Manfredi per quel che riguarda la parte scolastica,
22,1% persone in povertà relativa in Sicilia
ha dovuto gestire un bisogno che si presentava in tutta la sua drammaticità.
Da considerare anche il fronte educativo al quale si è potuto fare fronte grazie alle “doti” di Save the Children, consistenti in un tesoretto oscillante tra i 300 e i 500 euro annui a bambino, che hanno consentito di offrire opportunità in termini di servizi e di beni. Non, quindi, erogazioni fini a se stesse, ma la messa in campo di un progetto più grande, di un percorso di accompagnamento che ha dato ai bambini gli ausili necessari a raggiungere i loro obiettivi: un paio di occhiali, un computer, l’iscrizione in palestra o al corso di danza, solo per fare qualche esempio. Perché le famiglie, i soldi per queste cose, dopo il Coronavirus, non li avevano più.
età media dei palermitani
«Oggi per noi resta ferma la dimensione di alert economico riguardante sempre i bambini da 0-3 anni. La teniamo alta in assenza dell’asilo nido di quartiere, i cui lavori speriamo si concludano entro l’anno», prosegue il presidente di “Inventare Insieme”. «Sarebbe la risposta a un bisogno senza dubbio educativo, ma anche alimentare perché in quel caso i pannoli-
ni e il cibo li fornirebbe lo stesso asilo, dandoci la possibilità di dirottare le nostre energie e risorse su altro. Sarebbe veramente un grosso sollievo per tutte quelle famiglie che ancora oggi risentono delle conseguenze della pandemia». Un lavoro importante, quello portato avanti dal Centro Tau, gestito dall’associazione “Inventare Insieme”, perché, costringendo il Covid al distanziamento fisico, ha realizzato un’incredibile vicinanza sociale, permettendo di arrivare lì dove non si era mai arrivati, ma da cui si era partiti: le famiglie, cuore del progetto, eppure a volte così distanti e diffidenti, così quanto collaborative e partecipative.
«Abbiamo avuto tante situazioni che ci hanno fatto capire quanto era importante il nostro intervento», dice in conclusione Francesco Di Giovanni. «Per esempio il caso di un ragazzo che faceva l’ambulante, non l’unico in verità, che improvvisamente si è ritrovato senza nessuna entrata perché con il Covid non è più potuto uscire a vendere la sua merce. Aveva rifiutato il reddito di cittadinanza perché per lui era inconcepibile stare a casa senza far niente sol perché c’era il sussidio dello Stato. Ovviamente gli siamo andati incontro, ma come lui tante altre persone si sono trovate a non percepire nulla e avere la necessità di rivolgersi a realtà come la nostra. Quando si dice che il lavoro nobilita l’uomo, lui fa proprio questo concetto».
«Come ambulante guadagnavo circa 15 euro al giorno, ma andava bene. Noi ci adeguiamo» spiegava Felice durante la
pandemia, «ma per i bambini piccoli servono pannolini, latte, cibo. Poi abbiamo l’affitto, le bollette. Non abbiamo nessun sussidio, non abbiamo aiuto. Ho 4 bambine, una neonata, una di sette, una di undici e una di 16 anni. Come faccio? Non lavoro da dicembre. Un giorno vado da mia madre, un giorno da mia suocera. Come posso fare? Io non sono mai andato a rubare e non voglio farlo».
I figli ai Danisinni sono considerati una ricchezza, non certo un peso, e lo dimostra il fatto che in questa zona periferica della città, che molti palermitani neanche conoscono, il calo di natalità non esiste. Se decidi di fare una passeggiata tra le strade del quartiere, raggiungendo la conca al cui centro c’è l’asilo in via di definizione e poco più in là la fattoria, anima e cuore della Comunità educante, sarai travolto dalle grida gioiose dei più piccoli che, tra le attività proposte dalla parrocchia e la possibilità di scorrazzare liberi senza invasioni di traffico, ti accolgono con un sorriso e lo sguardo volto al sole. Sì, una vera ricchezza che non ha prezzo e che neanche il Coronavirus ha potuto distruggere.
Per contrastare la povertà sanitaria, conseguenza di quella economica, il Consorzio Macramè eroga servizi sanitari gratuiti ai cittadini che ne hanno bisogno
I servizi sanitari sono quelli che, con il Coronavirus, hanno rivelato tutta la loro fragilità, non migliorando neanche dopo la fine dell’emergenza sanitaria.
Farli diventare “di prossimità” era la risposta giusta in territori frammentati come Reggio Calabria, dove un grande lavoro lo fa il Consorzio Macramè, composto da 30 organizzazioni non profit, la cui sinergia permette di promuovere e offrire progetti e servizi di welfare territoriale che favoriscono l’inserimento socio-lavorativo di persone svantaggiate.
«A causa del Covid molte attività le abbiamo dovute rimodulare per problemi logistici», spiega Laura Cirella, responsabile della comunicazione del Consorzio. «Ma in realtà le abbia-
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numero di abitanti residenti a Reggio Calabria
mo rimodulate anche perché ad essere cambiati sono i bisogni delle persone. Ci siamo resi conto che era necessario intervenire concretamente mettendo in moto un percorso che potesse aiutare le famiglie le cui economie erano peggiorate». Oggi a Reggio Calabria la povertà ha tante facce, non solo quella alimentare. Tra il nutrirsi e il prendersi cura di sé, la scelta, per i reggini, è automatica. I tempi di attesa nelle strutture pubbliche per visite specialistiche sono lunghi, i costi per le prestazioni private troppo elevati. Quindi a parte la distribuzione di pacchi alimentari c’era bisogno di un progetto lungimirante: la povertà non poteva e non può mettere a rischio la salute delle persone. È da questa consapevolezza che è nato il progetto “Impronte a Sud”, con il sostegno di fondazione Con il Sud e Fondazione Peppino Vismara. Grazie all’iniziativa il Consorzio non solo ha potuto rivedere e potenziare i suoi servizi di cure domiciliari socio-sanitarie, ma ha fatto un importante passo avanti: oggi infatti sta sperimentando un nuovo modello di mutualità territoriale che consente l’accesso alle cure in tempi brevi alle persone vulnerabili. Il consorzio ave -
24,1% persone in povertà relativa in Calabria
va già iniziato a muoversi in questa direzione durante i mesi più duri dell’emergenza sanitaria. Lo aveva fatto, ad esempio, nel Comune di Cardeto che ricade nell’area metropolitana di Reggio Calabria, dove sono partiti una serie di servizi socio-sanitari gratuiti per “andare incontro” ai bisogni di salute delle persone più vulnerabili. Di fatto alla fine della pandemia il tasso di povertà di chi abita in città, come di chi vive nel resto della regione, è concretamente aumentato. Ma quello alla salute è un diritto che non può e non deve passare in secondo piano a causa della povertà. Il Consorzio ha quindi attivato anche un’unità mobile che raggiunge a domicilio chi ha bisogno di visite mediche. «Ci rivolgiamo prevalentemente alle persone in condizioni di povertà sanitaria», sottolinea Pasquale Neri, responsabile educazione del Consorzio Macramè. «Ma di fatto è un servizio di cui possono usufruire le persone che ne fanno richiesta e che hanno una prescrizione medica. Siamo ancora nell’ordine di un centinaio di visite, ma il numero cresce giorno dopo giorno. Le richieste sono tante».
Senza dubbio il Covid ha lasciato parecchi strascichi e la
necessità di ripartire, una volta finita l’emergenza, in maniera ancora più energica. È con “Macramè CareLab”, progetto che nasce nell’ambito di “Reggio Resiliente”, realizzato grazie a un finanziamento del Pon Metro 2014/2020 — asse inclusione, che è stata lanciata l’unica esperienza di mutualità sanitaria che insiste nel sud Italia. Chi arriva in questo ambulatorio entra a fare parte di una rete di mutuo aiuto, che in un quartiere come quello di Arghillà Nord in cui sorge è fondamentale. Grandi gli obiettivi del CareLab: intanto garantire l’accesso alle cure primarie e la presa in carico per 450 cittadini fragili residenti ad Arghillà; poi rispondere all’esigenza di integrazione socio-sanitaria — mai praticata in Calabria — supportata da
un’azione di animazione e sensibilizzazione comunitaria diffusa che abbia al centro le persone e i territori in condizione di povertà sanitaria. Infine, supportare la comunità di Arghillà avviando un percorso di rigenerazione dei territori e della comunità, anche a fronte della grave situazione di emergenza sanitaria provocata dalla pandemia.
Partner del CareLab è l’Ace, associazione calabrese di epatologia, realtà reggina di medici volontari che fornisce aiuti concreti ai pazienti attraverso la promozione di attività assistenziali gratuita di chirurgia, diabetologia, dietistica, ematologia, endocrinologia, epatologia, gastroenterologia, medicina interna, ostetricia, psicologia e psichiatria. Un punto di prossimità che ha sede nei locali de “La Piazzetta” concessi dal Comune e che, soprattutto dopo il Covid, ha visto incrementare l’afflusso di persone che, diversamente, non avrebbero come curarsi. A monitorare e perfezionare sempre di più i servizi c’è l’Osservatorio per le Disuguaglianze di Salute e le Malattie della Povertà che viene messo a disposizione dall’Ace, rafforzando il lavoro di prevenzione.
età media dei reggini
«Attenzione, però, quando parliamo di povertà», ci tiene a dire Laura Cirella, «perché, oltre a quella materiale o sanitaria, ce n’è una altrettanto importante che ci preoccupa: quella educativa. La povertà educativa in molti casi è la diretta conseguenza di quella economica. Per questo dopo il Coronavirus abbiamo capito quanto fosse importante consolidare le risposte anche in questa direzione. Con il progetto “Rizoma”, che si concentra sull’area grecanica della città metropolitana di Reggio Calabria, ovvero su una delle zone più povere e marginali della Calabria, proviamo sia dentro sia fuori la scuola a lavorare con i minori».
Per contrastare la povertà educativa anche il progetto del “Libro Sospeso”, un’iniziativa per avvicinare i giovani alle lettura che però dietro ha una grande visione. «Un’idea molto semplice», spiega Neri, «che arriva dall’Università Dante Alighieri di Reggio Calabria, nostro partner, attraverso una collaborazione con Ave-Ubik, libreria storica di Reggio dove chiunque potrà acquistare un “libro sospeso” per destinarlo al Centro di Documentazione che Macramè sta creando. Da parte del libraio un impegno personale a regalare anche lui un libro ogni 100 venduti. Una delle tappe di un percorso che punta a costruire una comunità educante attraverso le relazioni che le attività stesse generano».
Senza dimenticare che, dalla rimodulazione delle risorse, nascerà a Melito di Porto Salvo, in provincia di Reggio Cala-
bria, il primo Centro di Aggregazione Giovanile dell’area grecanica. Uno spazio innovativo che andrà a rafforzare e proseguire alcuni importanti servizi rivolti a minori e famiglie, i soggetti che più di tutti hanno subito le consegue del Covid, rendendoli protagonisti del cambiamento di un luogo che altrimenti sarebbe rimasto inutilizzato.
Le pagine di questo libro sarebbero potute essere il doppio, se non il triplo e anche di più. L’Organizzazione mondiale della sanità ha da poco dichiarato chiusa la pandemia da Coronavirus. Ma se dal punto di vista della salute pubblica si entra in un’altra fase, la sofferenza sociale figlia della crisi e dell’aumento della povertà è tutt’altro che scomparsa. In questo book abbiamo raccontato l’esperienza di tante organizzazioni sociali che, di fronte all’immobilismo delle istituzioni, hanno deciso di rimboccarsi le maniche e fare da sole, impegnando risorse economiche e competenze professionali. Ne abbiamo raccontate tante, fra le più significative, ma potevano essere molte di più: considerata la vastità degli interventi, avremmo potuto riempire il nostro racconto di molte più pagine. Come avete letto questa grande mobilitazione ha almeno due caratteristiche peculiari. Primo: è avvenuta “in silenzio”, senza riven-
dicazioni politiche di alcun tipo. Secondo: i soggetti sociali hanno operato spesso al di là di ogni programmazione sistemica e istituzionale. Di fronte alla necessità è scattata la presa in carico diretta, senza “se” e senza “ma”. Per oltre due anni questo è stato possibile, anche se non sufficiente a coprire tutti i bisogni. Si può andare avanti così? La risposta è no. Non sarebbe né giusto, né sopportabile in primis da parte degli enti e degli operatori che ci lavorano. Non si può fare welfare sulle spalle di chi ha scelto il lavoro di cura come professione. Oggi più che mai la politica deve aprire gli occhi e considerare il Terzo settore come partner essenziale nella costruzione di risposte efficaci. Il che significa fare scelte politiche precise destinando risorse verso chi ha dimostrato di saper assicurare cibo e cure a migliaia di persone che in questi anni ne sono rimaste prive.
Pensiero meridiano è quel pensiero che si inizia a sentir dentro laddove inizia il mare, quando la riva interrompe gli integrismi della terra (in primis quello dell’economia e dello sviluppo), quando si scopre che il confine non è un luogo dove il mondo finisce, ma quello dove i diversi si toccano e la partita del rapporto con l’altro diventa difficile e vera.
Franco Cassano